Friday, April 26, 2024

GRICE ITALICO A/Z C 2

 

Grice e Campailla: l’implicatura conversazionale del concetto di estassi – implicatura estasica – a room in Bloomsbury -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Modica). Filosofo italiano. Grice: “You have to love Campailla; when I philosophised on ‘be orderly,’ I was drawing from Campailla: “Order is the first – ‘ordinato discorso dell’uomo;’ Campailla flouts the maxim: he allows that a man in ecstasi, in mutual contemplation of beauty, say, may lose the order – Oddly, Campailla dedicates more than a section to, then, ‘del disordinato discorso dell’uomo,’ or men, as we’d prefer!”  Grice: “You’ve gotta love Campailla – I would have preferred he chose the Graeco-Roman mythology, but he chose “Adamo,” and he provides, in verse, all I ever philosophised on – human discourse – discorso umano – on top, he considers ‘amore’ as a ‘passione dell’anima,’ and speaks of ‘self-love’ (amore proprio) and even virility and testicles – a Renaissance man!” Nasce sotto la rupe del Castello dei Conti. C., incisione dall'Adamo (Roma-Palermo) Mostrò le sue migliori doti d'ingegno in età matura, giacché, in gioventù, per la sua gracile costituzione, il padre preferì educarlo in campagna affinché si irrobustisse all'aria aperta, piuttosto che indirizzarlo agli studi. Si trasfere a Catania per studiarvi giurisprudenza, ma l'improvvisa morte del padre, che lo lasciava erede di un discreto patrimonio, lo costrinse a ritornare nella città natale, la sua cara Modica, in cui rimase fino alla morte, senza mai muoversi da essa.  Lì, poté dedicarsi interamente agli amati studi, prevalentemente da autodidatta, coltivando con passione ed abnegazione, fra le tante discipline, l'astronomia, le lettere e la filosofia. Sempre da autodidatta, studiò Aristotele e i classici, per poi dedicarsi alla fisica, forse spinto dall'onda emotiva suscitata dal terribile sisma che distrusse Modica e tutto il Val di Noto.  Morì per un colpo apoplettico.. Il suo corpo fu sepolto sotto l'altare maggiore del duomo di San Giorgio in Modica, del quale una lapide, deposta alla sinistra dell'ingresso principale, lo ricorda.  C., filosofo e poeta Studioso di Cartesio, che vuole conciliare con la filosofia scolastica, ne applicò i principi alle sue indagini conoscitive, fatte di osservazione ed esperimenti, divenendo, insieme col filosofo trapanese Michelangelo Fardella, uno dei principali divulgatori delle teorie cartesiane in Sicilia.  Poeta raffinato, fu accademico degli Assorditi di Urbino, dei Geniali di Palermo, e della più celebre Accademia degli Arcadi di Roma; restaurò quindi l'Accademia degli Infocati nella sua città natale. Da alle stampe i primi sei canti (ispirati ai moduli letterari lucreziani) del poema filosofico, in due parti, L'Adamo, ovvero il Mondo Creato, successivamente dedicato, nella sua stesura completa (in XX canti) a Carlo VI d'Austria, Imperatore e Re di Sicilia. Il poema, che conobbe una discreta fortuna e che è stato recentemente ristampato, rappresenta una summa delle idee teologiche, cosmologiche, fisiche e filosofiche dell'autore, alla luce del cartesianesimo.  All'inizio del Settecento, la fama del C., tra l'altro in corrispondenza epistolare con importanti personalità fra i quali Ludovico Antonio Muratori (bibliotecario del Duca di Modena), si diffuse anche all'estero, toccando Lipsia, Parigi, Londra, tanto che il filosofo Berkeley volle conoscerlo personalmente e, poiché C. non si muoveva mai dalla sua città natale (come Kant), fu lo stesso Berkeley a recarsi in Sicilia a trovarlo, informandolo fra l'altro delle nuove teorie newtoniane, le quali verranno poi usate dal C. nelle sue successive opere.  Il Muratori si fece intermediario persino per una cattedra all'Padova da assegnargli, invito che venne pure da Londra, ma il suo ostinato rifiuto a viaggiare e lasciare la sua Modica (in ciò, ancora simile a Kant) lo portò a declinare tali prestigiose ed onorevoli proposte. Per lo stesso motivo, invitato ad assistere all'incoronazione a Re di Sicilia, nella Cattedrale di Palermo, del Duca Vittorio Amedeo II di Savoia, disdisse gentilmente la visita.  Pubblica, rimanendo però incompiuto, il poema sacro L'Apocalisse di San Paolo, in cui, oltre ad affrontare i temi della grazia e della virtù attiva, fornì pure una personale confutazione delle teorie di Miguel Molinos, fondatore del "Quietismo", un'eresia che aspirava all'unificazione con Dio. Infine, nello stesso periodo, iniziò a scrivere il primo volume di un'opera sistematica intitolata Opuscoli filosofici, di cui uscì solo il primo volume (in dialoghi) intitolato Considerazioni sopra la fisica di Newton, contemporaneamente alla stesura di un trattato, in due volumi, di fisica cartesiana, pubblicato postumo sotto il titolo Filosofia per principi e cavalieri.  La cura della sifilide con le botti di C. Pur non essendo medico di professione, C. riuscì tuttavia a promuovere, nella Contea di Modica, gli studi di medicina. Infatti, il suo impegno, quasi umanitario, lo portò a sperimentare le sue famose "botti" (dette poi botti del C.) per la cura non solo della sifilide (considerata, allora, il male del secolo, e ritenuta dalla Chiesa come un castigo di Dio per i peccati degli uomini), ma anche dei reumatismi e, in genere, di qualunque forma di artrosi.  La "botte", in realtà, è una stufa mercuriale con all'interno uno sgabello, sul quale il paziente veniva fatto sedere, in attesa della cura. Questa consisteva nel versare, in un braciere che si trovava pure all'interno della stufa, la relativa dose di cinabro, da cui, per sublimazione, esalavano dei vapori di mercurio, che erano poi assorbiti dal corpo del paziente in piena sudorazione. La novità introdotta dal C. consistette nell'aggiunta di incenso all'interno della botte, in una dose che consentiva, ai vapori sprigionati, di essere più "respirabili" per un certo lasso di tempo, variabile dai 10 ai 20 minuti circa, a seconda dalle condizioni soggettive del paziente.  Il contributo del Campailla consentì pure di modificare la forma della botte, rispetto alle altre già esistenti in Italia ed in Europa, le quali avevano un foro in alto da cui fuoriusciva la testa del paziente che, in tal modo, non poteva respirare i vapori di mercurio medicamentosi. Tuttavia, questi vapori, così esalati, erano curativi solamente per i sifilomi che infestavano la cute, i quali regredivano sì ma senza remissione del morbo (che solo con l'avvento della penicillina si debellerà), con i germi patogeni che continuavano ad agire e moltiplicarsi nel sangue dei soggetti infetti.  Invece, grazie all'innovazione del C., i pazienti, completamente all'interno della botte, potevano ora respirare la miscela di mercurio e incenso, la quale, agendo così in modo sottocutaneo, uccideva i germi diminuendone la carica patogena; spesso, si ottenevano delle guarigioni, a volte anche definitive, che, all'epoca, venivano considerate quasi miracolose. Infatti, un rapporto medico dell'epoca riferisce che  " [...] Dopo la cura mercuriale col metodo C., si può assistere a delle rinascite complete di individui ridotti in condizioni impressionanti di cachessia o con lesioni tali da rendersi impossibile qualsiasi intervento curativo per via percutanea o ipodermica".  I risultati furono talmente soddisfacenti che Modica acquisì notorietà in tutta Europa proprio per le botti del Campailla, ancor oggi esistenti all'interno dell'antico Ospedale di S. Maria della Pietà e visitabili all'interno di un percorso museale appositamente dedicato.  Negli anni a venire, le botti del C. furono, ma con scarsi risultati, imitate altrove, sia in Italia che all'estero: ad esempio, sorse a Palermo, per volere del prof. Mannino della locale facoltà di Medicina, un Sanatorio C. Fu  poi costruita, a Roma, una cosiddetta Botte di Modica; a Milano, ancora negli anni '50, furono costruite botti di vetro sul modello di quelle del C.; mentre, a Parigi, furono fondati istituti a imitazione del Sifilocomio C.palermitano, per la cura delle malattie reumatiche e nevralgiche.  Teatro La rappresentazione Cygnus, atto unico scritto da Nausica Zocco, prende spunto dalla vita e dalle opere di Tommaso Campailla, ed è stato portato in scena l'8 maggio  a Modica, per la regia di Tiziana Spadaro.  Note  L'esatta data di nascita è riscontrabile, come quella di morte, negli appositi registri dell'Archivio Parrocchiale della Chiesa Madre di San Giorgio in Modica.  Taluni, sulla base di nessuna fonte storica attendibile, hanno diffuso l'infondata notizia secondo cui C. stesso sia stato vittima della sifilide, contrariamente al fatto che lo studioso modicano costruì comunque le sue botti, per il trattamento di questa infezione quando aveva solo 30 anni, ma morì a 72 anni, età veneranda e considerevole, per quei tempi, in cui la vita media di un individuo di sesso maschile era di 55-58 anni, per non tener conto poi del fatto che, nel Settecento (e così, fino all'avvento degli antibiotici nel Novecento), un sifilitico aveva comunque delle bassissime aspettative di vita dopo il manifestarsi della malattia, dell'ordine di pochissimi anni. Ad ogni modo, le botti del C. raccolsero, per molti decenni, un gran numero di pareri positivi a favore di un loro benefico influsso contro il morbo. C., "L'Adamo" ovvero "Il mondo creato" poema filosofico, Volume unico, Messina, Chiaramonte e Provenzano, treccani/enciclopedia   Cfr. D. Scinà, Prospetto della storia letteraria di Sicilia nel secolo decimottavo, Tipografia Lorenzo Dato, Palermo, Tratto dalla Rassegna di Clinica, Terapia e Scienze Affini, Secondio Sinesio, Vita del celebre filosofo, e poeta Signor D. C. , Patrizio modicano, Siracusa, 1783; ristampa Modica. Guccione, C. ed il suo museo in Modica, Leggio & Diquattro, Ragusa, Ottaviano, Tommaso Campailla. Contributo all'interpretazione e alla storia del cartesianesimo in Italia, introduzione e note Domenico D'Orsi, MILANI, Padova, Criscione, C. Un poeta e filosofo modicano, Idealprint, Modica, Guccione, C. il suo museo, la scuola medica modicana, Comune di Modica, Modica, C. e la Scuola Medica Modicana, Ed. Ingegni Cultura Modica, Modica. C., su Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. C., in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di C., su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Sotto il titolo “Disordinato discorso dell’uomo” sono raccolti due saggi pioneristici del filosofo modicano sul ruolo della mente nei sogni, nel delirio, nell’estasi e nella follia. L'estasi (dal greco ἔκστασις, composto di ἐκ o ἐξ + στάσις, ex-stasis,[1] «essere fuori») è uno stato psichico di sospensione ed elevazione mistica della mente, che viene percepita a volte come estraniata dal corpo: da qui la sua etimologia, a indicare un «uscire fuori di sé».  Nonostante la diversità delle religioni, culture e popoli in cui l'estasi è stata sperimentata, le descrizioni circa il modo in cui essa viene raggiunta risultano straordinariamente simili. Si afferma di provare in questi momenti una sorta di annullamento di sé, e di identificazione con Dio o con l'"Anima del mondo". Descrizione ed effetti. Manifestazioni dell'estasi nell'antichità. Il corteo dionisiaco 2.2 L'estasi oracolare 2.2.1 Figure oracolari 3 L'estasi nelle filosofie orientali 4L'estasi in Plotino 5L'estasi cristiana 6L'estasi paradisiaca in Dante 7Il Rinascimento 8L'Ottocento e il Romanticismo. Descrizione ed effetti Psichicamente è caratterizzata dalla cessazione di ogni attività da parte dell'emisfero cerebrale sinistro (noto anche come emisfero dominante o della "razionalità discorsiva"), consentendo così all'emisfero destro (quello recessivo o passivo, detto anche "emotivo") di attivarsi. È uno stato di estrema concentrazione simile per certi versi all'ipnosi, quando ad esempio la mente rimane attonita nel fissare un punto o un oggetto, dimentica di ogni altro pensiero. Generalmente produce uno stato di notevole beatitudine e benessere interiore. Manifestazioni dell'estasi nell'antichità Una simile condizione mentale era nota sin dall'antichità ed era considerata manifestazione diretta della divinità.[4]  Il corteo dionisiaco Nell'antica Grecia erano famose le menadi (o Baccanti), donne greche che partecipavano a riti non ufficiali. Si trattava di culti misterici e iniziatici che si svolgevano al di fuori delle mura della città ed erano aperti agli emarginati della società, quali appunto le donne, gli schiavi e i meteci. I protagonisti di questi culti (detti anche Misteri, connessi sia ai riti dionisiaci che a quelli orfici sorti intorno al VII secolo a.C.), presi in uno stato di trance o estasi ballavano sfrenatamente e uccidevano a mani nude degli animali. Si trattava di elementi legati all'aspetto esoterico della religione greca, che convivevano sotterraneamente con l'exoterismo della religiosità tradizionale.[6]  L'estasi oracolare L'estasi era ciò che rendeva possibili gli Oracoli, essendo vissuta come momento di tramite fra la dimensione terrena e quella ultramondana. A volte lo stato di estasi veniva raggiunto artificialmente mediante l'uso di sostanze psicotrope; la persona coinvolta era portata così a compiere gesti o azioni insoliti.[7]  Figure oracolari Figure emblematiche e famose per le loro estasi collegate al dono della profezia erano le Sibille, donne laiche che gravitavano presso un tempio di Apollo proprio per la loro capacità di connettersi col divino, che proferivano i loro responsi restando nell'ombra, non mostrandosi facilmente agli umani che le avessero consultate ed interrogate; oppure poi la Pizia vera e propria sacerdotessa di Apollo che dimorava nel famoso santuario apollineo di Delfi, la quale si mostrava ai fedeli e proferiva gli oracoli dopo appositi riti e sacrifici. La Pizia raggiungeva uno stato di estasi indotto dai vapori inebrianti che uscivano da una spaccatura del suolo, durante il quale proferiva gli oracoli. In Magna Grecia era invece famosa la Sibilla di Cuma, antica città greca situata nei Campi Flegrei. I responsi delle Sibille tuttavia erano spesso oscuri e non facilmente interpretabili, venendo compresi ora in un senso, ora in un altro.[9]  L'estasi nelle filosofie orientali Nelle religioni asiatiche, come l'induismo, il taoismo, e soprattutto il buddismo, l'estasi è il momento sacro in cui avviene l'illuminazione, ed è il pieno sviluppo delle potenzialità e delle qualità naturali presenti nell'individuo. Questo stato è anche chiamato onniscienza oppure saggezza suprema e perfetta, dal sanscrito anuttarā-samyak-saṃbodhi, comunemente detta semplicemente Bodhi, e corrisponde all'illuminazione del Buddha; è lo stato in cui la mente diventa illimitata e non più separata dal resto del mondo, il punto in cui il microcosmo della persona si fonde con il macrocosmo dell'universo. Diventa così possibile una condizione di nirvana, alla quale ci si allena sotto la guida di un maestro tramite la meditazione, cioè la concentrazione su di sé e la consapevolezza della propria energia. L'estasi in Plotino Secondo Plotino (filosofo ellenistico neoplatonico), l'estasi è il culmine delle possibilità umane, che avviene dopo aver compiuto a ritroso il processo di emanazione da Dio: essa è un'autocoscienza, ed è la meta naturale della ragione umana, la quale, desiderando ricongiungersi col Principio da cui emana, riesce a coglierlo non possedendolo, ma lasciandosene possedere. Il pensiero cioè deve rinunciare ad ogni pretesa di oggettività abbandonando il dinamismo discorsivo della razionalità, ovvero negando se stesso. Tramite un severo percorso di ascesi, che si serve del metodo della teologia negativa e della catarsi dalle passioni, la ragione riesce così a uscire dai propri limiti, superando il dualismo soggetto/oggetto e compenetrandosi con l'Uno. Quello di Plotino non è tuttavia un semplice panteismo naturalistico, poiché per lui l'estasi è essenzialmente un percorso in salita verso la trascendenza.  Il circolo nella filosofia di Plotino: dalla processione all'anima umana, e dalla contemplazione all'estasi. Essendo l'Uno non descrivibile, perché descriverlo significherebbe sdoppiarlo in un soggetto descrivente e un oggetto descritto (e quindi non sarebbe più Uno, ma due), anche l'estasi è di conseguenza uno stato psichico non descrivibile a parole, dato che l'estasi è la condizione stessa dell'Uno che si auto-contempla. Intuirla è possibile solo per via di negazione: tramite il suo contrario, prendendo coscienza di ciò che l'Uno non è, cioè del molteplice. L'Uno stesso, in quanto autocoscienza del pensiero, per intuirsi deve pertanto uscire fuori di sé, diventando molteplice. L'estasi è appunto l'atto con cui l'Uno genera il molteplice: essa è un cogliere tutt'insieme l'uno e i molti, in un circolo che dalla processione ritorna alla contemplazione. Cusano, teologo cristiano del Quattrocento, dirà in maniera simile che l'universo è l'esplicatio dell'Essere, ovvero il fuoriuscire di sé da parte di Dio.  A differenza del Cristianesimo però, secondo Plotino l'estasi non è un dono della divinità, ma una possibilità naturale dell'anima. Essa tuttavia si manifesta non per una propria volontà deliberata, ma da sé, in un momento fuori della portata del tempo. Plotino stesso raggiunse l'estasi solo tre o quattro volte nella sua esistenza. Viverla è infatti dato a pochissimi, in rari momenti della loro vita. L'estasi inoltre non serve ad uno scopo pratico; essendo contemplazione fine a se stessa, in questo mondo non c'è nulla di più inutile. È solo nell'estasi però che l'essere umano ha la rivelazione della sua condizione più vera e autentica. Per il resto la via indicata da Plotino verso la saggezza consisteva in una vita retta, oppure nella ricerca di espressioni artistiche come la musica.  L'estasi cristiana  Santa Teresa d'Avila La filosofia plotiniana diede quindi avvio a una lunga tradizione neoplatonica, che concepiva l'universo animato da un eros o tensione amorosa mirante a ricongiungersi a Dio tramite l'estasi. La teologia di Plotino fu ripresa in particolare da quella cristiana, e rivisitata però alla luce dell'aspetto personale della Trinità. L'estasi venne intesa in un senso più ampio: per il cristianesimo essa non è più soltanto una contemplazione fine a se stessa, ma è funzionale all'azione; deve tendere cioè non solo verso Dio, ma anche verso il mondo. Tale mutamento di prospettiva venne introdotto affiancando all'amore greco di tipo ascensivo, corrispondente al concetto di eros, un amore discensivo corrispondente al concetto evangelico di àgape. L'esperienza estatica cristiana consiste così in una comunione, una sorta di abbraccio col mondo e l'umanità in esso dispersa con lo scopo di alleviarne le sofferenze e ricongiungerla al Padre.  Essa avviene tramite un'illuminazione operata direttamente da Dio. Questi fuoriesce nel mondo non per un atto involontario (com'era nel plotinismo), ma perché ama le sue creature. Identificarsi con la sua estasi divina è, secondo Agostino, la meta naturale della ragione umana, la quale può riuscirci non per una deliberata volontà individuale, ma per una rivelazione da parte di Dio stesso che si rende presente alla nostra mente; l'estasi è dunque essenzialmente un dono, reso possibile per intercessione dello Spirito Santo, grazie a cui l'essere umano trascende i propri limiti e si rende strumento di Dio nel mondo.A differenza di altre religioni la persona coinvolta non perde comunque la propria individualità, pur compenetrandosi in Lui.Per i mistici medioevali, come San Bernardo, o i neoplatonici tedeschi come Meister Eckhart, l'estasi è una visione beatifica che avviene quando l'anima è rapita in Dio, e l'essere si annulla in un Pensiero senza più limiti né contenuto: Dio infatti non può essere oggettivato, perché non è oggetto, ma Soggetto. Si tratta di una comunione mistica accesa da un fuoco d'amore, un'esperienza di beatitudine suprema simile a quelle che saranno riferite in seguito anche da Santa Teresa d'Avila, figura di riferimento della Controriforma. Un'altra testimonianza sull'estasi in tal senso è quella medioevale del beato Jacopone da Todi nella lauda O iubelo de core.  L'estasi paradisiaca in Dante Nel Trecento Dante Alighieri, nel Paradiso della Divina Commedia, di fronte alla visione beatifica di Dio, negli ultimi versi della cantica prova così a descrivere l'estasi, conscio della sua ineffabilità, dell'impossibilità di riferirla a parole in maniera oggettiva:   Dante contempla l'Empireo, incisione colorata dell'originale di Doré «Qual è 'l geomètra che tutto s'affige per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond' elli indige, tal era io a quella vista nova: veder voleva come si convenne l'imago al cerchio e come vi s'indova;  ma non eran da ciò le proprie penne: se non che la mia mente fu percossa da un fulgore in che sua voglia venne.  A l'alta fantasia qui mancò possa; ma già volgeva il mio disio e 'l velle, sì come rota ch'igualmente è mossa,  l'amor che move il sole e l'altre stelle]»  (Paradiso) Il Rinascimento Il desiderio di estasiarsi godette quindi di una notevole fortuna durante il Rinascimento. Al di là del significato religioso l'estasi assunse allora principalmente una valenza artistica o estetica. Il bello era visto sia dai filosofi rinascimentali che dagli idealisti romantici come la via privilegiata per ricongiungersi a Dio. Bruno paragonò l'estasi a un eroico furore: non un'attività pacifica che spegnesse i sensi e la memoria, ma al contrario li acuisse, simile a un impeto razionale. A una rivalutazione dell'estasi nell'Ottocento contribuirono sia la Critica del giudizio di Kant, sia l'idealismo di Fichte e Schelling. Kant vedeva nel giudizio estetico un sentimento universale di partecipazione con l'Assoluto, nel quale la ragione non è più vincolata da un'attività conoscitiva soggetta alla necessità delle relazioni causa-effetto, ma è libera nel formulare i propri legami associativi. Per Fichte l'estasi è intuizione intellettuale, l'atto immediato con cui l'Io, nel diventare autocosciente, può intuire se stesso solo in rapporto a un non-io; così nel porre se stesso l'Io pone al contempo anche il molteplice al di fuori di sé. Parimenti Schelling vedeva nell'estasi un'attività infinita con cui Dio crea il mondo. L'uomo può riviverla nell'estasi artistica, che è la manifestazione più tangibile dell'Assoluto, nel quale l'aspetto attivo e passivo, il lato conscio e quello inconscio della mente, non sono più in conflitto tra loro, ma si fondono in una sintesi armonica di comunione cosmica con la Natura. Mantegazza, Le estasi umane, Marzocco, Firenze; La Civiltà Cattolica; Legislative Reference Bureau, Roma; Enciclopedia Treccani alla voce «estasi», di Marco Margnelli e Enrico Comba, Giovetti, Dizionario del mistero; Mediterranee, Atlante illustrato della mitologia del mondo; Giunti; Bianchi, A. Motte e AA.VV., Trattato di antropologia del sacro, Jaca Book, Milano; Diana Tedoldi, L'Albero della musica: tamburo, stati altri di coscienza; Anima Srl; Burkert, La religione greca di epoca arcaica e classica;  Jaca, Messina, Riflessioni e verità; Edizioni del Faro; Aa.vv., Dizionario della Sapienza Orientale: Buddhismo, Induismo, Taoismo, Zen; Mediterranee; Kerouac, Il libro del risveglio, a cura di T. Pincio, Mondadori; Evola, Oriente e Occidente; Mediterranee; «La scienza è ragione discorsiva e questa è molteplicità: perciò, una volta caduta nel numero e nella molteplicità, essa perde l'Uno. È necessario dunque trascendere la scienza e non allontanarsi mai dal nostro essere unitario, ma abbandonare la scienza. [...] Perciò si dice che Egli è ineffabile e indescivibile» (Plotino, Enneadi, VI, 9, 4, trad. di Faggin). Faggin, in La presenza divina; D'Anna editrice, Messina-Firenze; Severino, La filosofia dai Greci al nostro tempo; Il circolo nella filosofia di Plotino, Milano, Rizzoli; Faggin, Mazza, La liminalità come dinamica di passaggio: la rivelazione come struttura osmotico-performativa dell'"inter-esse" trinitario; Gregorian Biblical BookShop; Sulla differenza terminologica tra agape ed eros, cfr. E. Stauffer, Agapao, in G. Kittel-G. Fridrich, Grande lessico del Nuovo Testamento, vol. I, Paideia, Brescia; Bonetti, Matrimonio in Cristo è matrimonio nello Spirito, p. 63, Città Nuova; Julien Ries, Communio, p. 88, Jaca; Come una piccola goccia d'acqua che cada in una grande quantità di vino sembra diluirsi e sparire per assumere il sapore e il colore del vino; così ogni affetto umano, nei santi, deve fondersi e liquefarsi per identificarsi alla volontà divina. Come infatti Dio potrebbe essere tutto in tutto, se nell'uomo restasse qualcosa di umano? Senza dubbio, la sostanza rimane, ma sotto un'altra forma, un'altra potenza, un'altra gloria» (Bernardo di Chiaravalle, De diligendo Deo, 10, trad. di G. Faggin). ^ Santa Teresa d'Avila descrive l'estasi come un momento di "assenza" nel quale afferma di aver percepito tutto il dolore provato da Cristo durante la Passione, ma anche una così grande gioia interiore da coprire il dolore (cfr. Autobiografia). ^ Nella descrizione di Dante si tratta di quella condizione paradossale di «estasi per cui la mente esce di sé e perviene a un potenziamento di sé» (T. Di Salvo, Paradiso, Zanichelli). ^ Reinhard Brandt, Filosofia nella pittura: da Giorgione a Magritte, p. 432, Pearson Italia S.p.a.;  «Una delle qualità necessarie al sapiente, cioè a colui che intende spingere l'ascesi conoscitiva fino all'estasi e all'indiamento (farsi Dio), è un livello erocio di amore per la bellezza, un furore divino nella terminologia di Ficino» (Ubaldo Nicola, Atlante illustrato di filosofia, p. 238, Giunti). ^ Ubaldo Nicola, Atlante illustrato; Pozzolo, La fede tra estetica, etica ed estatica, p. 64, Gregorian Biblical BookShop, 2011. ^ S. Mati Novalis, Del poeta regno sia il mondo. Attraversamenti negli appunti filosofici, p. 81, Pendragon, 2005. ^ Antonello Franco, Essere e senso: filosofia, religione, ermeneutica, p. 170, Guida; Cfr. anche Luigi Pareyson, Lo stupore della ragione in Schelling, in AA.VV., Romanticismo, esistenzialismo, ontologia della libertà, Mursia, Milano; Carlo Landini, Psicologia dell'estasi, Franco Angeli, Milano 1983 Ioan Petru Culianu, Esperienze dell'estasi dall'ellenismo al Medioevo, Laterza, Bari; Eliade, Lo sciamanismo e le tecniche dell'estasi, ed. Mediterranee, Razzano, L'estasi del bello nella sofiologia di S. N. Bulgakov, Città Nuova, Merlin, F. Vettori, Un'estetica estatica, edizioni Cleup, Padova; Beatitudine Esperienza extracorporea Illuminazione (Buddhismo) Illuminazione (cristianesimo) Indiamento Misticismo Sofianismo Trance (psicologia) Transverberazione «estasi» Estasi, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Stati di coscienza; Filosofia Portale Filosofia Psicologia Portale Psicologia Religione Portale Religione Categorie: Concetti e principi filosoficiEmozioni e sentimentiFilosofia della menteMisticaTeologia  Comie ſi genera; Nima Ragionevole, come di Anima, come sà, che, fuor del ſuo ſcorre nel Corpo Organico. St.1. Corpofieno, altre Coſe Corporee.27. Obbietti Senſibili terminan le Idee Per le Idee degli Obbietti,nel Senſo nel Senſo Comune. St. 2. Comune rappreſentatele. Corpi Striati, e loro ſtruttura, 3. Cometalora s'inganna. 29. Fornice, e ſua teſtura; Delirio nell'Ubriachezza; Setto Lucido, e ſua fabrica. 5. Vino or fà dormire,or vegliare. 32. Corpo Calloſo, e ſua anatomia. 6. Come alle volte porta il ſonno. 33 Senſo Comune ne 'Corpi Striati. 7. Come talora induce vigilia. 34. Da quali paſſano tutti gli Spiriti Ubriaco, perche Delira. 35. Motivi, e i Senſitivi. 8. Mania, eſuo Delirio. Anima,in quanto ſente,riſiede ne’ Corpi Striati. 9. Siſpiega in particolare. 40. Fantaſia ſi eſercita nel Fornice. Io. Morficati dal Can rabbioſo, e lor Memoria riſiede nel Corpo Callofo.1.1. Delirio. 43. Imaginativa, come ſérve al Di Come prendon proprietà Canine. 44. ſcorrere. 12. E credono, eller Cani. 45. Facoltà Motiva,coni'è eccitata. 13. Core procede tal Trasformazione.46. lilee Senſibili,coine ſi formano,e 's' Delirio Febrile, ò Frene fiu. 48. imprimono nel Cerebro. 14. Come faffi. 49. Spiriti Animali, fimilialla Luce.15. Come ſi dà Febre ſenza Delirio, e Paragone fra queſta, e quelli. 16. Delirio ſenza Febre. Spiriti Animali, comeformano le Cerebro deſtinato agli uficj Anima Idee. 17. li, e il Cerebello à i Vitali. FI. Idee non ſono, che una pittura, in Anatomia del Cerebello. protata nelle pieghe del Cerebro.19. Nervi, che naſcono dalCerebello. 53. Sterienza. · 20. La Mente non bà dominio ſul Cea Idee, come laſciano la loro inpronta rebello. 54. nuel Corpo Calloſo. 22. Comunicazioni fra il Cerebro, e il inima, come ſi rigorda. 24. Cerebello ſcambievoli. 55. Guajti gli organi del Diſcorrere, Impreſſioni del Cerebro,come ſi par iguafla il Diſcorſo Umano. 26. tecipano al Cerebello, e quelle 50. 52. del 227 84. del Cerebello al Cerebro. 58. Come ſi genera. 79. Agitazione Febrile, cagionata al Delirio dellº Incubo, come ſi forma.81. Cerebello, partecipanıloj al Ce Maliæconia Ipocondriaca. rebro, induce il Delirio. 59. SueCagioniantecedenti. 85. Non comunicandoſi, no’l produce.62. Suoi triſti effetti. 86. Delirio de ' Sognanti. 63. Come induce ilDelirj. 89. Sonno, come ſi fa. 64. Per gli efluvj degli Umori, corrotti Cbefia 68. nelle Viſcere, 90. Sogni, come ſi formano. 69. | Rimedj, che riducono allo ſtato di Sogni, perchè ſi formano,à miſura Sanità gli Organi, guariſcono, degli Appetiti, e delle Paffioni dal Delirio. 91. attuali, 74. Diſcorſo depravato per erroriLoa Incubo. 77. gici, e ſuoi rimedja IXIETAS2140S147 Μ Α Ν Ω. ARGOMENTO. 27482 A82FATIRAF ETAFARAYAX 2X1% XKAYARANJE D E l'ordinato pria Diſcorſo Umano Dichiara la Meccanica ragione il dotto Serafin, poi de l’ Inſano Le falſe Idee, l Opere prave eſpone: Qual ne i Senni, anche Savj, il ſogno vana Le incongrue fantaſie finge, e compone; Qual la Ragion prevarica, e travia L ' Ipocondriaca, à l' Uom, Malinconia. STATE 1 sãto, 2.Su queſte Midollar due fondamenta Del Corpo inilerabile, c mortale La propria mole anteriore appoggia Compreſo lò dal tuo dir, cô doglia,e pianto, Il Fornice, che il Cerebro ſoftenta, Lo ſtato lagrimevole, e fatale, Ed in Corpo Calloſo ad alto poggia. Seguì à parlar, per conſolarmialquanto, Sul Midollo allungato ei, dietro, afſenta De l'Anima si nobile, c Immortale; Due pic poſterior, di Volta in foggia: Coin'ella, in queſta fua Corporca mole, Del Palagio cosi de l'Alma intero Intende, idea, membra, diſcorre, e vuole. L'uno, e l'altro loftien doppio Emisfero. 5 E il Serafin: Dopo che invia l'Obbietto Mà del Fornice al tetto interiore, Il Carattere fuo nel Sento eſterno, Qual Zona, un Setto lucido li appende; Per il canal de Nervi, ei và diretto Che, in mezo, da la parte anteriore, Sè ad improntar nel comun Senfo interno. A la poſterior, curvo, diſcende. Queſto è il luogo del Cerebro, ch'eletto A i lati fuoi, con ſempre ugual tcnore E de moti ſenſibili al governo. Di quà, di là ſerie di ſtrie, ſi ſtende, Qual van le linee al centro, in lui convienli, Che tutte in lui riguardano egualmente, Ch’entrin tutte le Idee de gli altri Senſi. Il qual, di Vetro in guiſa, è traſparente. 3. 6. Pria,che il Cervello i ſuoi due faſci accoppi L'ampio Corpo Calloſo è ſovrapoſto In Midollo allungato, e poi Spinale, Al Fornice, e sù quel li ammaſſa, e annette, Da quai ſpuntano pofcia, ad ordin doppi E con ordin mirabile è compoſto Tutti i Nervi del Senſo univerſale, D'inteſti filamenti à retinette, Di Cannei Midollar compon due groppi, Di cui l'immenſo numero diſpoſto Conici, e curvi, in forma lunga ovale In fuperficie vien piane perfette, Che, perchè ſono à lunghe ſtrie ſolcati, Molli così, che ammettono, à l'azzione ' i detti laran Corpi ftriati. De gli Spirti, ogni minima impreffione. Entro de i Midollar Corpi Striati, E de gli eſterni Obbietti lor là dove La reſidenza il Comun Senſo ottiene, Hà la Malizia, d la Bontà compreſa, C'hà de le proprie Glandole irrigati I principj de i Nervi apre, e vi piove Le cavità, di Spiriti ripiene, Copia di Spirti, ove ella vuole, inteſa: Atti ad eſſere impreſli, e conformati I Muſcoli ritira, e i membri move In ogni Idea,che a lor da i Senſi viene, Al'ampleſſo, à la fuga, à la difeſa; Azili, e fnelli, à figlirarſi eſpoſti E quando poi di quei reſta ſicura D'infiniti, in cui fian, modi, diſpoſti. Più Spiriti non manda, e i Nervi ottura 14. I Nervi in lor degli Organi Senſori Spiegami meglio (aggiūge Adam )traslata, Tutti invian de gli Spiriti i refulli: Come i'ldea nel Comun Senſo ha forma: E quei, da lor, de gli Orgeni Motori Come dal Settolucido paſſata, Spontanei tutti han degli Spirti i fluſſi: Entro il Corpo Calloſo imprime l'orma: Cid, che vien dentro ammeſio, ch'eſce fuori E come poi, che in quel reſta improntata, Di Senſitivi, o di Motivi in Auſli, Entro la Fantafia la Copia forma, Del Cerebro, ove l'Alma à regnar ſtarfi, Simile a quella Idea, che pria l'affiſſe: Per queſta regia Via, convien, che palli Cosi ei richiede: E così Quei gli diffe 9. 15. In queſti l'Alma Umana, in quanto ſente, Benchè vario fra loro il naſcimento Corpi Striati aſſiſte, e ognor riſiede: Han la Luce, e gli Spiriti Aninali: Quilegata, à gli Spirti intimamente, Che quella dal ſottil Primo Elemento, La sè, incorporea, à i Corpi aggir concede: Queſti portan dal Terzo i lor natali, Qui l'occhio Spirital ſempr’hàprefente: Ne la velocità, nel movimento, Qui tocca, guſta, odora, afcolta, e vede: Nel Terbar riflettendo angoli eguali Qul le potenze Senſitive hà immote, De l'incidenza à l'angolo, ſembianti Qui non ſentir ciò, che s'idea,non puote. Fra lor ſon inolto, c in eſſere rifranti. 16. La Fantaſia, del Fornice nel Setto Tra gli ſpazi de GloboliCeleſti Lucido, fuole eſercitarli, cui Ruota in centro la Luce, à vorticetti: Come pervio, e diafano perfetto Girano in centro ancor mobili queſti Per ogni parte han via gli Spirti ſui, Sottilmente formatl in Globoletti: Qui le Idee rappreſentano l'aſpetto, Son de la Luce i Corpi agili, e preſti, Che dal Senſo Comun paſſano in lui: Atti à modificarli in vari aſpetti; Le mira in queſto Specchio, e le contempla Queſti da Corpi,onde ſon mai rifelli, L'Alma, e in sè Spirital l'Idee n'eſempla. Tornano poi modificati anch'eſſi. 17. La Idea, dal Setto lucido, leggiera Quale il Lume de i Corpi, onde riflette Entro il Corpo Calloſo alfin trapaſſa, Ovunque dirizzarſi abbia permeſſo, E ne le tele ſue l'Iminago intera, Di quei le colorate Immagginette Imprime, e il ſuo Carattere vi laffa. Modificate al par porta in sè ſteſſo: S'impronta in lor, come Sugello in cera, Ne gli ſpirti de l'Ottiche fibrette Nè per tempo sì facile fi caffa. Quelle dipinge, entro de l'Occhio ammeſlo: Altre Idee in altre fibre impreffe poi Laſciando in quegli Spiriti i modelli Serbano à la Memoria i teſor fuoi. Che ne la fuperficie ebb’ei di quelli. 12. 18. Se diſcorrer talor la Mente hà brame Tal gli Spirti Senſor modificati Sù quelle Idee, che il Comun Senſo invia Da gli obbietti, onde füro indietro ſpinti; Uop'è, che le trafcorſe Idee richiame Nel Comun Senſo portano traslati, Dala Mémoria à la fua Fantaſia. Quegl'Idoletti Mobili diſtinti, Ponle nel Setto lucido ad elame, Che nela Fantafia rapprefentati, Le rigette, o le approva, odia, ò defia, Ne la Memoria alfin reftan dipinti, A miſura, che trae da loro effenze Con quello ſteſſo colorato aſpetto, Utili, a infaufte à sè le conſeguenze. Che in ſuperficie å vea l'efferno Obbietto. L'Adamo del CampaiHas Mmm L'ldos ro. IL DISCORSO UMANO. L'idea, che ne le fibre interiori In queſta forma, Adam, l'Umana Mente; Del Caitofo Midol poi fi figura, Mêtre informa il ſuo Corpo,e leſuc Membra) Per mezo de'caratteri impreſſori Da i fantaſmi di quello è dipendente: Non è, ch'una verilima pittura, Con queſti ſente, immagina, e rimembra: Per via dipinca in lor, non di colori, Mà in sè diſcorre, e vuol liberardente, Mà per mutazion de la teſtura, E ciò clegge, che buon, che bel le ſembra: Chenegli Spiīti !!! tal rifleſſo induce, Pur, de gli Enti Corporei, uop'e, che penſi, Quale iColor riñettono la Luce. Per via d'Idee material di Senſi. 26. Non ſono i Color tutti altro in sè ſterfi, Mà perd, che del Corpo i Morbi fono Che ſuperficie, tal.configurata, Per l'intima union, Morbi de l'Alma, Sù cui rifranti i raggi, e infiem rifleſſi, Perdendo il Corpo il natural ſuo tuono, Han si la rifleſſion modificata, Se inferma è mai la fua Corporea Calma, Che imprimono ne l'Occhio i color Ateli. La Mente, che nel Cerebro ha il ſuo trono Con cui la ſuperficie è colorata: Tra gli Spirti animai non reſta in calma; Cosi Criſtal diafano hà coſtume Perchè di lor difregolato il corſo, Sol culorir per Refrazzione, il Lume. La perturbata Idea turba il Diſcorſo. 21. 27., Si diffé il Serafino, e tenue Stile Che ſien fuori de l'Anima in Natura Che di piun colore affatto intinſe, Corpi reali, e fisici, eſiſtenti, Sù quella, che il veſtia, tela ſottile La Mente entro il ſuo carcere procura Scolpi la fuperficie, e la dipinfe, Da i canvelli ſcoprir de'Sentimenti, E à colorata Immagine fimile, Sol per mezo de'Senſi ella è ſicura, Immago in lei, fenza color, diſinfc, Che fieno quelli al Corpo ſuo preſenti. Che in quel fcolpito Lin con par tenora Nel Comun Senfo, à l'obbiettiva effenza, Il Lume riticttea, qual fa il Colore. De le coſe attual så l'Efiſtenza. 28. Cosi (poi fegue à dir ) la ſola azzione. Sc al Comun Senſo fuo fi rappreſenta De lo Spirto animal rr odifica to, Idea, che altronde ella avvenir ti avvcda, Få nel Corpo calloſo impreſione, L'Obbietto, far non può, che allor non ſenta, Con renderlo, in riflettervi', improntato. E ſentirlo non può, che non lo creda. Tanto, ver'fua natia coſtituzione, Così à l'Occhio ſe alcun ti ſi preſenta, E' quel Midollo tenero formato Tu già mai far potrai, che non lo veda: A''Idea Spiritofa in lei rifleffa Così se ne lo Specchio Immigo eſpreſſa, Ccde la superficie, e reſta impreſa. Noncrederla non puoi da Obbietto impreſa.?? 29. De l'Occhio in modo tal sù la Retina, Or qualvolta à la Mente Idea ſi porta Che ancor 'efla Soſtanza è Midollare, Entro il Senſo Comun per altra via, Se talun filo 1 riguardar ſi oſtina Che per la regia, ed ordinata porta, Illuminofo in Ciel Corpo Solarc, Onde al Senſo Comun l'Idea s'invia, Per molto tempo,ancor, che il guardo inchina, Mà lo Spirto retrograda la porta Del Sol P'linmago lucida gli appare; Da la Memoria, • da la Fantasia, Elabbagliato acume ovunque gira, Per la ſtrada de'Senfi allor la crede Quell'infocato lampo ognor rimira. Da Obbietto eſterno impreſa, e le dà fede. 24. 30. Mà fe di ricordarti unqua defia E Fede tal, che giudica, e diſcorre, La Mente poi di un traſandato Obbietto, Qual ſe agiffe, nel senſo eſterno Obbietto; Al Calloſo Midot, placido, invia E a miſura ingannata amalo, dabborre, Di Spiriti animali un rivoletto, Cheprova in sè ſvegliar gioja, è diſpetto; Che in quell'Idea incontrandoſi per via, Agita i membri, e à un operar traſcorre Torna modificato in Idoletto: Corriſpondente à l'eccitato affetto: Dal Tipo Midollar la forina prende, Depravato cosi delira infano E de l'antica Idea (imil ſi rende. Per morboſa cagion Diſcorſo Umano. A turbar giunge un Senno, anche prudente, Per fimile cagion, ſe non la ſteſſa, De l'afforbito Vin le copia enorme: Mania provien, d'onde Ebrietà provenne Che l'eſaltato Spirito la Mente, Perchè la delirante Ebrezza eſpreſſa Or forza à delirar con vane forme, Di breve tempo è una Mania ſolenne, Or gli Spirti gli ottenebra talmente, E la Mania, nel Senno Umano impreffa, Che n'è ſopito ogni fuo Senſo, e dorme. Di lungo tempo è un'Ebrietà perenne, In diverſi Soggetti hà varj eventi, Furiola Mania, cui fon ſoggetti Ch'or furiofi rende, or fonnolenti. Gli acuti più talor favj Intelletti. 38. Il come ad indagar, contrari, vate, Il Sangue de Maniàci è con ecceffo Effetti à partorir ne gli Ebri il Vino, Tal di Sulfurei ſpiriti impregnato Rifletci, che nel latice vitale Che col reſpir per i Polmoni in eſſo Del Sangue è un doppio fpirito falino: Il Nitro aereo ſpirto infinuato, L'un,che diſciolto entro il fuo Siero è un Sale Spira nel vicendevole congreſſo Urinoſo volatile Alcalino: Indomitaura, ed alito sfrenato, L'altro dentro del Sangue infinuato, Ch'eſalta in movimenti univerfali Con l'Aria, e i Cibi, è un fpirito Nitrato, Pria gli Spirti vitai, poi gli animali, 334 39. In quei,che la purpurea,in copie,han piena, Che concorrendo ai Cerebro, accreſciuta Mafia Sanguigna, di Alcali urinofo, Di moto, e quantità, rapiſcon tutti Lo ſpirito delVin ſi meſce appena, Gl’Idoletti Ideal, che contenuti Che genera un coagolo vifcolo. Trovan nel Setto lucido, e ridutti, La Linfa ingroffa, e i vitai Spirti affrena, O fien da la Memoria, ivi venuti, E concilia un ſonnifero ripoſo. O ne la ſteſſa Fantaſia coftrutti, Tal Miſto, fi condenfa in gelatina, E invianli al Comun Senſo, e de la Mente Lo ſpirito di Vino à quel di Urina, Ingannano colà l'occhio preſente. 34. 40. Mà in quell'Uomo,in cui trovafi eccedente Qui dice Adam: D'un operar al ſcempio Il Sal Nitroſo entro il Sanguigno Umore, De PUman miſerabile Intelletto Mifta appena del Vino è l'Acquardente, Tal che può farlo e furiofo, ed empio, Che à gli Spirti vitai creſce il fervore, Di prudente, che ſia, ſano Soggetto, Spirando un'aura Elaſtica potente, Deh dona à me, mio Precettor, l'eſempio Che gli Spirti animai move à furore. Per farne più diſtinto alcun concetto, Tai lpiran, mitti, un'alito focolo Cosi lo prega, e il Serafin verace Del Viu la Ipirto., e l'Acido Nitroſo, Il di lui bel deſio cosi compiace. Quindi de gii Ebri à i Midollar cannelli Il Sangue del Maniaco un tal fervore Lo Spirito con impeto s'invia: Nel ſuo Corpo talor riſveglia, e crea, Seco il caratter trae, che ne ſuggelli, Che il capo punge, o il petto, e di un dolore Trova de la Memoria, e il porta via, Intenſo à lui fà lovvenir l'Idea, L'aſporta feco al Comun Senſo, e quelli, Quando di un ſuo Nemico oftil furore Che trova, anco tener la Fantafia, Ferillo, e tutto il fatto allor s'idea: Ne i Corpi introducendoli Striati, Poi da la Fantaſia per falla porta Per retrograda frada ivi traşlati. Al fuo Senſo Comun l'Idea fi afporta. 42. Quella Idea crede allor l'Umana Mente E da la vaua Idea l’Alma ingannata, Introdotta per via di eſterni Senfi Che rappreſenta il ſuo fucceſſo antico, Da Obbietto, che fia à l'Organo preſente, Stima ver ciò, che vede, e che aſsaltata Che quei moti Sengbili difpenfi. Sia, già preſente à lui., dal ſuo Nemico. Onde ingannata, avvien, che follemente Si accinge a la difeſa, ed opra irata De la ſtesſa maniera operi, e penſi, Cotr'Uoin, che gli ſi incotra,ancor che amico, Comc fe quell'Obbietto aveffe avante, Che, preoccupata da l'Idea mentita, Di qui la vana Idea forta il ſembiante, Nemico il crede, e contro lyi s'irrita. Mà mirabil vieppiù, più portentoſo Che da quei Solfi indomiti inveſtiti Loſtravoito penſiero è del Diſcorſo Di periferia al centro in mille forme, Di chi dal dente mai del Can rabbioſo Syolgon de Simulacri, ivi ſcolpiti, Prova in un di fue meinbra il fero morſo, L'Idee de la Memoria, à varie torme; Che infetto già dal ſuo velen bavoſo, E ne la Fantaſia poi male uniti E dopo ancor, che lungo tempo è ſcorſo, Soa gi'iacaagruiFantaſmi in ſtuol deforme: Fra mille altri ſintomi alfin riinane, Alfio nel Comua Senſo entran ſovente, Col creder sè già trasformato in Cane. Adingannare, à ſpaventar la Mente. 44. 50. Nè ſolo al par del Canc addenta, e morde, Febricitando il Sangue, uopè, che fpici E ſimile anche al Cane ei latrar s'ode Del Cerebro più Spirti à le latebre: Ma con fame Canina, e voglie ingorde Delicando gli Spirti, uop'è, che giri Prono diyora į cibi, e l'olla rode; Il Sangue in pollazion celeri, e crebre: E con oprar col ſuo penſier concorde Or come Febre è mai lenza Deliri? Le qualità Caninç affettar gode; Come delirj fon mai fenza Febre? Lungi chi vien sà preſentir, dotato Adamo al Serafin cosi propoſe: Di acuto, e ſottiliffimo Odorato. E si ad Adamo il Serafin riſpoſę. 45. Premetto, per ſpiegar, d'onde contratto Per dichiarar Fenoineno si bello, Concetto Uom poſſa aver cotanto ſtrano, Che interamente jo ſviluprar prometto, Che allor, che vien de l'unione à l'atto Dopo gli uſi, che detti hò del Cervello, Il corpo fral con l'Animo ſovrano, Deggio gli uſi anche dir del Cervelletto: Gl'imprime de'luoi Spiriti il contatto Cheagli uficj Animali eletto è quello, L'ldea di eſſer congiunto à Corpo Umano, A gli uli Naturali è queſto eletto: La qual conſiſte in ’ n Caratter tale, Må pria di eſaminar la ſua Natura. Ch'ngli Spirit, Umani è fpeciale, Sentine l'anatomica Struttura. Del rabbioſo Velen taptu inaligna Nel Cranio è, dietro il Cerebro, ripoſto Hà corrottiya attività la Forma, Il picciolo Cervello, e ſegregato, Che gli Spiro animali, ov'egli alligna, In forina quaſi sferica diſpoſto, Ajo: o à poco in sè inuta, e trusforına, E da le due Meningi andò ammantato: In rio Venen l'Aura animal traligna, Di Cannellini hà il ſuo Midol compoko i E di Canin Carattere s'inforina: E il cortice di Glandole am maffato, Cool ne le Materie, oy'i gli ha loco, In cui con Meccaniſmi, al grande eguali, Muta, e trasforma il tutto in foco il Foco. Si prepurun gliSpiriti aniinali. 47. S3 Sentendo aggir quell'Anima infelice Dal Cervelletto fol naſcon produtti Impreſſion di Spiriti Cunini, Quei Nervei tronchi, e quei lor rami varj; La di cui f.colta immaginatrice Che daii gli Spirti à i Muſcoli, coſtrutti Hà depravuti affatto i retti fini, Al miniſter de’moti involontarj. Tradita ancor da quei Fantalmi, elice Da lui movong i Vaſi, e gli Umor tutti, Da ſe Brutali affetti, atti Ferini, Ch'a l'uficio vital ſon neceffari, Adam, nel tuo fullir quanto hai perduto ! Cor, Vene, Arterie, Glandole, Fermenti, Sei ſoggetto ad un Mal,che di Vom fà Bruto. Polmon, Linfa; Inteſtin, Chilo, Alimenti. 48. 54. Dal già detto finor molto evidente Giuridizion ſul Cerebel la Mente Argomentar fi può, come fi dia Punto non tien, nè i ſuoi eſercizi hà noti, Il Diſcorſo de l'Uomo incoerente Non sà, chiuſa entro il Cerebro, nè fente, Nel Delirio Febril, ch'è Freneſia: Come il Chil ſi amminiſtri, e il Sangue ruoti. Che allor, che bolle il Sangue in Febre ardête, Di quel, che dal Cervello è indipendente, S fulfurea falina hà diſcraſia, Fermar non puote, è regolarne i moti. Gi Spiriti nel Cerebro avanzati, Aſſoluti, e diftinti i lor Governi In copia, c mobiltà fon gencrati. Commercio hap fol per ſei Proceſſi alternt. Manda Manda al Cervello il Cervelletto pria E per la via retrograda, ch'è dietro, Doppia Protuberanza orbicolare, Paffa nel Setto lucido il torrente: Più baſſo due proceſſi indi gl'invia Quelle Idee, che vi trova ei ſpinge addietro Per la Protuberanza altra anulare, Verſo i Corpi Striati obliquamente; Due altri alfine imprendono la via E al corſo natural turbando il metro, Da ſuoi due Gambi al Calcc midollare L'offre per falfa porta ivi à Ja Mente E di Spiriti alterni han participi. Che venute credendole da i Senli, De’Nervi il pajo ottavov'hà principja. Vopè, che follemente operi, e penſi. 56. 62. Per l'uno, e l'altro orbicolar Ricetto Se però nel ſol Cerebro è riſtretto Son gli Spirci animai partecipati De'Spirti il moto, e de'fantafmi erranti, Da gli Striati Corpi al Cervelletto, E à trapaſſar non và nel Cervelletto, E daqueſto anco à i Corpi fuoi Striatia Senza febricitar fà deliranti: Per le altre quattro vie con corſo retto Perchè fol ne ſuoi Spiriti è il ſoggetto, Vengono, e ven gli Spiriti mandati, Che fà le Arterie, e il Cor febricitanti; Pe'l calce midollare, ove inſeriſce E quello Spirto, onde il ſuo moto prende Le ſue due braccia il Fornice, e li uniſcea L'Arteria, e il Cor, dal Cerebel diſcende a 57. 63. Sol queſte ſon le occulte vie, per cui Maggior ſoggiunſe Adam ) inêtre a dormea Ciò, che ſuccede in lor di ben, di male, Stupore, è il Delirar di fan penſiero, Mandanſi internamente infra lor dui Che di vani fantaſmi, e incongrue forme Il vital Miniſtero, e l'animale, Ad un ſtuol dona fe si menzogniero, La Potenza animal gli affetti ſui I qual, non ſolo al Ver non è conforme I moti fuoi la Facoltà vitale, Mà par, ch'è falſo, e credefi per vero: Secondo, in Pro comune, à lor conviene, In modo tal, che un Senno, anche prudente, Opporſi al Mele, o farfi incontro al Bene. Di creder gl'impoſſibili conſente. 58. 64; E quinci avvien, che al ſol penſier ſovente Come inganni la Mente à dichiararti Nel Cerebro, o di Gioja, d di Timore, De i Sogni l'incredibile Bugia, Moffo è il Polmone, e il Cor placidamente (Replica Raffael) d'uopo è ſpiegarti, Soſpira il Petto, e batte fpeſſo il Core. Come il Sonno produceſi, e che ſia: Quete, è ſvolte le Viſcere, hà la Mente Mà pienamente, Adam, rammemorarti L'idea de la Salute, ò del Malore: La teſtura del Cerebro dei pria: Intelligenza, e auſiliario impegno Che la foſtanza ſua, teſfuta á velli Paſſa così tra le Provincie, e'l Regno. Di cavi coſta, e sferici Cannelli. 59. 65. Or mentre la febrilc agitazione Che à i lati de'ſuoi concavi Canali Nel Sangue, e ne le.Viſcere ſi avanza, Triangolar fon gl'interſtizj inteſti: Gli efAlvj.al Cervelletto, e la mozione Che in quei ſcorron gli Spiriti animali, Mandar per via de Nervi hà ben poſſariza: E che diſcorre ilSugo nerveo in queſti, Quefto annuncia al Cervel la impreſſione Fatti gli uni di Spiriti vitali, Per doppia orbicolar Protuberanza, L'altro di Umor linfatici digefti: Entro i Corpi Striati, onde la Mente Che ſtan fra lor, quei di elater dotati, Di quel calor febril l'affanno ſente. Queſto di fode fibre, equilibrati. 60. 66. Mà ſe gli effuvi, ei moti ſuoi ſon tali, Mentre gli Spirti à tal ſon rarefatti Che al Cerebel traſceudono le ſponde, Che tengan quei cannelli intumiditi, Nel Cerebro i ſuoi Spiriti animali O'quefti cosi reſtino diſtratti Per l'anular Protuberanza infonde: Da ariditi, ò durezza irrigiditi, Poi da i poſterior recti canali O'il nervco Umor pien di fali acri, ed atti Del calce Midollare alfin trasfonde, Le fibre à ſtimolar, gli Spirti irriti, Del Fornice gli Spirti à le due braccia Sta tempre aperto il Cerebro, e produce E in quel gli eſtranj effuvj infinua, e caccia. Spirti continui, e la Vigilia induce. L'Adamo del Campailla. Nina Per poco influſſo, ò per diſpendj immenfi, Nel tempo del Dormire al Cervelletto Se al minorar fi vien lo Spirto in effi, Copia inaggior di Spirti il Sangue infonde O’i ſuoi interſtiz; il nervco Umor più eféli Che oſtrutto allora il Cerebro, e riſtretco, i; Tien, con più copia, e i cannellin compreffi, Quei,che nõ manda à queſto, à quel trasfondo Queſti già reli vuoti, e non più tenſi Maggior moto pertanto, e più perfetto Chiudonfi, molli, e calcano in sè ſteſſi. Del Torace han le viſcere profonde, Continuar nel Cerebro non porno E quelle de l'Addome, allor, che appieno Gli ſpiriti l'influſſo: e faffi il Sonno. Immerfo è il Corpo Uman del Sonno in feno. 68. 74. Il Sonno è un feriar di Senſi, e Moti, Mà perchè (dice Adam ) ſpelo, à miſura Mà Senli eſterni, e Moti volontarj. Di noſtra Paſſion ſi formi il Sogno? Gli Spirti del Cervel ſtan quafi immoti, Perchè m'idea, dormendo, e mi figura Chiuſe le vie de Senſitivi Affari: Quell'Obbietto,che temo,ò quel,che agogno? Solo i ſuoi membri proſſimi, e i remoti Qualor per breve, in queſta notte oſcura Tutti mantiene in eſercizi varj, Michiuſe al Sonno i rai natio biſogno, (Perchè infuſſo di Spiriti interdetto Vidi nel Sonno il Cherubino armato, Non hà ) la Region del Cervelletto. Che mi avventava in fen brando infocato, 69. 75. Or così ſtando il Cerebro.in quiete, L'Angiol riſpoſe: Il già commeſſo errore In una, in tutto oſcurità diffuſa, Nel ſonno anche ti affigge, e ti tormentas Si occultan le fue Immagini inquiete, Ti ſtringe il Cor, l'anguſtiato Core Ogni altra Idea de i Senti eſterni eſcluſa, L'imprellione al Cercbel preſenta, In folche folitudini fecrete Che pe'i Procelli orbicolar và fuore, La Mente è tutta in sè raccolta, e chiuſa; E al tuo Senſo comun i rappreſenta: E del Cervello il diſcoriivo Mondo Poi ne la Fantaſia forma i'alpetto Dorme in ſilenzio altitlimo, e profondo. Del Cherubin, qual ſe ti apriſſe il petto, 76. Ed ecco, che per cieca obliqua via, Altro ruſcel di Spirti al modo fteffo Di Larvette ideali erranti ſquadre Dal Cervelletto al Cerebro diſcorre; Nel Coinun Senio, o ne la Fantaila E per la via de l'anular Proceſſo Vagan leggicie or fpaventole, ed'adre, Lc radici del Fornice traſcorre. Or veſtite di ainabije bugia, De Cherubin l'idea, che trova in eſſo, Pingon bei Spettri, e Fantafie leggiadre; Seco rapiíce, e ullin valia: deporre E van col Fallo, in naſchera di Vero, Nel Senſorio Comuo: l’Alma, che'l vede De l'Anima à ingannar l'occhio, e’i penſiero. E lente il duolo al Cor, ferito il crede. Tal ſe in Teatro cinbroſo il Popol liede, Anch'io diſs’Eva) in quel notturo orrore, Niirando chiare aprir comiche Scene, Mentre più gli occhi mici pianger nő ponno, E da Mimi larvati aſculta, e vede Viep; iù per lo ſpavento, e pul timore, Tragiche finzion, menzogne amene: Che per quieto oblio, mentre che a !Tonno, Quali del Ver fcordato, ii Falſo crede Strangolate le fauci, oppreſſo il Core E da’luoi Seun italicdotto viene, Sento da un Moftro, infra vigilia, e ſonno: Chefveglia ii Finto in lui, verace intanto Volea gridar, volea fuggir, volea Odio, ) Amer,Picea, d Sdegno,c Rilo,o Piáto. Scuoţer dal ſen la Belva, e non potea. 28. Chile fopite Immagini alCervello Queſto č l'Incubo, Adamo (à dir riprende Svegli, i luoi Spisti in renderne eccitati, A lui rivolto, ii Filico Divino ) Facile è di aſſignar, dal Cerebello, Paroliſino terribile, che apprende Che fieno effiuvi, • Spiriti ſcappati, L'Uoin, mentre che talor dorineſupino. Per quei fentier, che ſon, tra queſto,e quello, Il Petto, e il Core ilmoto ſuo ſoſpende, Ne i Proceſi ſcambievoii, incavati E fofpende ancu i Sangue il ſuo camino; De le Protuberüize orbicolari, Che riſtagnando entro i polmoni in petto E de i terzi Proceſli, ed anulari, Fà un breve si, mà aſſai moleſto effetto. Cio, che il Sonno al Cervel coſtituiſce, Del Morbo Malinconico cagioni Vien l’Incubo à produr nel Cerebello Son, ipaventoſi, e ſubiti tercori Qual, groſſo il nerveoLiquido, impediſce Affetti violenti, e pailioni, Degli Spirti animali il corſo in quello, Ipocondriaci, e Iſterici Malori: Tal di queſto il medemo anche oltruiſce In queſte inordinate ripreſſioni Ogni talor ſuo midollar Canuello, Si guaſtano le Viſcere, e gli Umori: Qualvolta amplia foverchio, in modi vari, Onde mandati al Cerebro, ed eſtratti Di queſto pur le Strie triangolari. Spirti ne fono, à gli uſi lor malatti. 80. 86. Come, al Cervel gli Spiriti impediti, Mal fan l’uſo adempir più principale, Fermanſi gli uſi à gli Organi animali, Ch'è: coʻlor moti armonici, adequata Così, gli Spirti al Cercbel fopiti, Tener de l'Uomo à l'Anima immortale Ceffan quei de le Viſcere vitali, Quella, che al ſommo Ben tendēza hà innata, Il Sengue, e gli altri Liquidi irretiti Mentre in queſto ſuo carcere mortale Ne i polmoni, e lor vafi arteriali. Vive ad un Corpo organico ligata: Ciò nel dornir ſupin ſuccede ſpeſſo: Che priva di lor Tolita Armonia, Che il Cercbel dal Cerebro è compreffo, Sente una interior Malinconia, 81. 87. Prefa daʼNervi impreffion si rea Scemi di loro elaftica potenza, Al Cerebro s'invia dal Cervelletto Debil tai Spirti à ſpanderſi han vigore, La Mente un Moſtro in fantaſia s'idea, E di contrari Agenti à la prelenza Qual ſe l'affoghi, e le comprima il petto: Producon, contraendoſi, il Tiinore. Poi tratta al Comun Senſo è quell’ldea, Grolli, oltre del dover, ne l'aderenza Con un corſo retrogrado indiretto Portan le loro Idee forina maggiore: La Idea ne vede, e la impreſſion ne ſente; Onde di quel,ch'è in sè, ſempre più immenfo Or che ſtupor, fe'l crede ver la Mente? Rapprefentan l'Obbietto al Comun Senfo. 82. 88. Miquel dal Setto lucido repiſce Anzi, però clie indebite miſture Spirto le klee ne'Corpi ſuoi Striati? Di eſtrani effluvj in lor glaſtan le forme Del Cerebel non già, che non fluiſce Appajono d'infolite figure Spirito in lui, chii Cannellin turati. I lor Fantaſmi, e di feinbianza informe: Si parla Adaino: E Raffacl fupplilce Tenebroſe le lınmagini, ed oſcure Del Cerebel gli Spiriti privati, Non terbano à gli Obbietti Idea conforme: Per doppia orbicolar Protuberaliza, Quindi de i Malinconici eſſer dee u Cerebro, che n’hà minor inancanza. Piena la Fantalia d'incongrue Idee. 83. 89. De le vitali ſu Vilcere à l'uſo Inino il M.lincolico à tal ſegno, Tutti gli Spirti il Cercbel riparte; Solo in penſier fantaſtici ſi aggira: Il Cercbro non già, che benchè chiuſo, Pregna hila Fantatia, colmo l'ingegno, Ne reſts pieno, e altrui non ne fi partc. D'incoerenti Idee; ma non deli. a: Reſtande elauſto quel, da queſto infuſo Chc, benchè erranti, in sè ſenza ritegno, Hà lo Spirto animal per quella parte, Le involontarie Immagini riinira, Che dal Corpo Callofo, ove diſcende, Pur ben fi avvede, e noto há ben, che ſia A gli Striati, ivi le Idee diſtende. Sol tutto l'Effer loro in Fantaſia. 84. 90. 11 Sogno paſſaggiera è una Pazizia, Mà ſe da le ſuc viſcere eſalato, Ma la Pazzia poi Sogro è permanente, Per i Nervi, Par vago, e intercoſtale, La Ipocur driaca in cui Malinconia Morbofo effuvio, al Cervelletto alzato, Riduce PUomo à delirar fovente. Per il di dietro al Fornice poi fale, Contraria de Maniaci à la Follia, Ogni incongruo Fantafina, ivi formato, Ch'è cir:Je !, furioia, audace, ardente, Che ne la Fantuſia difpiega l'ale, Quefiriè timida, e imbelle, e'l penſier volto Nel Senforio Comun con feco tira: Hà follecito al Plen, itupido al Molto. L'Alma allor Ver lo giudica, e delira. Del IL DISCORSO UMANO, Del nobile cosi Diſcorſo Umano, De'tanti ancor traccò Logici errori E de'ſuoi varj organici difetti Che al diſcorſo depravauo i Giudici, Filoſofo l'Arcangelo ſovrano, E qual di Verità gli alti ſplendori Con ſottili penfieri, e chiari detti. Oſcurano à la Mente i Pregiudicj: Indi ſpiego i Rimedj, ond'egl’inſano Come la Dialettica riſtori, Reſo, à cagion de gli Organi imperfetti, Con norme, i falli in lei, regolatrici; Poffi à i retti tornar ſuoi Sentimenti, E al fine il giuſto Metodo glieſpone, Con medicarne i gu'aſti ſuoi Stromenti. L'ulo à bene adoptas di fua Ragionc.   Estasi di santa Teresa d'Avila scultura di Gianlorenzo Bernini Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Estasi di santa Teresa d'Avila (disambigua). Estasi di santa Teresa d'Avila Ecstasy of St. Teresa HDR.jpg Autore Bernini Materiale marmo e bronzo dorato per i raggi divini Altezza350cmUbicazione Chiesa di Santa Maria della Vittoria, Roma Coordinate  L'Estasi di santa Teresa d'Avila è una scultura in marmo e bronzo dorato di Bernini, rcollocata nella cappella Cornaro, presso la chiesa di Santa Maria della Vittoria, a Roma. La scena raffigurata nell'opera è, per la precisione, una transverberazione e non un'estasi, quindi la scultura è talvolta chiamata anche "Transverberazione di santa Teresa d'Avila".  Storia Modifica Nel 1645 - in un periodo in cui, con il pontificato di Innocenzo X, la straordinaria carriera artistica di Bernini stava conoscendo qualche appannamento - il cardinale Federico Cornaro affidò alle sue qualità di architetto e di scultore la realizzazione della cappella della propria famiglia, nel transetto sinistro della chiesa di Santa Maria della Vittoria, a Roma. Bernini, nell'eseguire la commissione, cercò una sua rivincita professionale verso l'atteggiamento tiepido che il nuovo pontefice mostrava nei suoi confronti e chiamò, per così dire, a raccolta tutta la sua inventiva di architetto e di scultore sino a giungere a realizzare uno degli esempi più elevati di arte barocca. L'Estasi di santa Teresa d'Avila, eseguita tra il 1645 e il 1652, una volta portata a compimento piacque immensamente al Bernini, che con una certa modestia la definì come la sua «men cattiva opera» (dunque la migliore delle sue realizzazioni). Lo stesso Filippo Baldinucci, nella biografia dell'artista, riporta che:  «il Bernino medesimo era solito dire essere stata la più bell'opera che uscisse dalla sua mano»  Descrizione Modifica  Visuale della cappella Cornaro: al centro troviamo santa Teresa e il cherubino e, ai lati, si scorgono i vari membri della famiglia Cornaro che si affacciano dai finti balconcini Una delle cifre per intendere l'arte barocca è, come noto, il gusto per la "teatralità": la rappresentazione spettacolare e talvolta anche enfatica degli eventi. In quest'opera Bernini, mettendo a frutto la sua esperienza diretta di organizzatore di spettacoli teatrali, trasforma, in senso non metaforico ma letterale, lo spazio della cappella in teatro.  Per far ciò egli amplia innanzitutto la profondità del transetto; poi, aprendo sulla parete di fondo una finestra con i vetri gialli, pensata per rimanere nascosta dal timpano dell'altare, si procura una fonte di luce che agisce dall'alto, come un riflettore e che conferisce un senso realistico alla irruzione sulla scena di un fascio di raggi in bronzo dorato, così la luce che scende sul gruppo, attraverso i raggi, sembra momentanea, transitoria e instabile in modo da rafforzare la sensazione di provvisorietà dell'evento.Si può facilmente immaginare quanto tale effetto, nella penombra della chiesa, dovesse apparire a quel tempo suggestivo. Anche la freccia originaria retta dall'angelo, ora sostituita da un semplice dardo, venne realizzata con dei raggi che scaturivano dalla sua punta, a rappresentarne il fuoco del «grande amore di Dio», come santa Teresa stessa ebbe a dire nella sua autobiografia.  L'elegante edicola barocca, realizzata con marmi policromi, nella quale Bernini colloca la scena dell'Estasi di santa Teresa, funge da boccascena del teatro: essa mostra la figura della santa semidistesa su una vaporosa nuvola che la trasporta – come se fosse operante una macchina da teatro nascosta – verso il cielo. La trasformazione della cappella in teatro diventa letterale con la realizzazione, ai due lati del palcoscenico-altare, di «palchetti» sui quali sono raffigurati – ritratti a mezzobusto – i vari personaggi della famiglia Cornaro. L'evento privatissimo dell'estasi della santa diviene in questo modo evento pubblico, al quale i nobili spettatori paiono assistere non già con trepido stupore e con vivo trasporto devozionale, ma con staccato disincanto; li vediamo anzi - come avviene spesso a teatro - intenti a scambiarsi i loro commenti. Il palchetto sinistro, con i membri della famiglia Cornaro in veste di testimoni attivi dell'evento mistico Ma non è per la famiglia committente, bensì per l'ideale platea dei fedeli che si accostano all'altare – palcoscenico della cappella che Bernini mette in scena l'estasi della santa. Egli dimostra qui tutta la sua maestria di scultore, capace di lavorare il marmo come fosse cera, con estrema attenzione ai particolari. La veste ampia e vaporosa della santa, lasciata cadere in modo disordinato sul corpo, è un capolavoro di virtuosismo tecnico, per effetto del quale il marmo perde ogni rigidezza e la scultura sembra voler contendere alla pittura il primato nella rappresentazione del movimento. Commenta a questo riguardo Ernst Gombrich:  «Perfino il trattamento del drappeggio è, in Bernini, interamente nuovo. Invece di farlo ricadere con le pieghe dignitose della maniera classica, egli le fa contorte e vorticose per accentuare l'effetto drammatico e dinamico dell'insieme. Ben presto tutta l'Europa lo imitò.»  La raffigurazione delle estasi mistiche dei santi e delle loro visioni del divino, rappresenta uno dei temi più cari all'arte barocca: i santi «con gli occhi al cielo aiutano» – seguendo le raccomandazioni dei gesuitisulle funzioni pedagogiche dell'arte sacra – a sentire emozionalmente, con il sangue e con la carne, cosa significhi l'afflato mistico che porta alla comunicazione con Cristo e che è prerogativa della devozione più profonda. Anche sotto questo aspetto, della raffigurazione dell'estasi, l'opera realizzata da Bernini nella cappella Cornaro, sarà destinata a far scuola e ad essere presa a modello innumerevoli volte nella storia dell'arte sacra.  Sul piano iconografico l'Estasi di santa Teresa, che trova il suo prototipo nell'Apparizione di Cristo a Santa Margherita da Cortona di Giovanni Lanfranco (1622),[6] è direttamente ispirata a un celebre passo degli scritti della santa, in cui ella descrive una delle sue numerose esperienze di rapimento celeste:  «Un giorno mi apparve un angelo bello oltre ogni misura. Vidi nella sua mano una lunga lancia alla cui estremità sembrava esserci una punta di fuoco. Questa parve colpirmi più volte nel cuore, tanto da penetrare dentro di me. II dolore era così reale che gemetti più volte ad alta voce, però era tanto dolce che non potevo desiderare di esserne liberata. Nessuna gioia terrena può dare un simile appagamento. Quando l'angelo estrasse la sua lancia, rimasi con un grande amore per Dio.»  (Santa Teresa d'Avila, Autobiografia, XXIX, 13) Il resoconto che la santa ci offre è raffigurato quasi alla lettera da Bernini nella sua composizione marmorea, con il corpo completamente esanime e abbandonato della santa, il suo volto dolcissimo con gli occhi socchiusi rivolti al cielo e le labbra che si aprono per emettere un gemito, mentre un cherubino dall'aspetto di fanciullo giocoso, con in mano un dardo, simbolo dell'Amore di Dio, ne scosta le vesti per colpirla nel cuore. Notevole è il contrasto tra l'incarnato liscio e delicato dell'angelo (che fa pensare più a un Eros della mitologia greca che a un'entità spirituale cristiana) e le vesti scomposte della Santa. Il volto della Santa e dell'angelo Interpretazione psicoanalitica Modifica L'interpretazione che studiosi della psicoanalisi come Marie Bonaparte hanno dato (proprio a partire dai resoconti di transverberazione lasciatici da santa Teresa) all'esperienza dell'estasi mistica in termini di pulsione erotica che si esprime sublimandosi nel deliquio dell'afflato spirituale, ha condotto la critica a sottolineare in quest'opera di Bernini la bellezza sensuale e ambigua dei protagonisti, avvalorando così la possibilità di una sua lettura in termini psicoanalitici. Lo psicologo italiano Enzo Bonaventura fa riferimento a Cupido, evidenziando, a livello simbolico, un nesso tra la figurazione greca e la trasfigurazione religiosa nell'arte cristiana[7]. Per provarne la legittimità, occorre solo richiamare la parola di Renan in viaggio a Roma, davanti a questo stesso gruppo statuario: «Si c'est cela l'extase mystique, je connais bien des femmes qui l'ont éprouvée»[8]. Si potrebbe comunque ulteriormente citare il conte de Brosses[9], il Marchese de Sade[10] o lo scrittore Veuillot. Collateralmente a quest'interpretazione che considera l'esperienza di Teresa, e la scultura che la ritrae, nei termini di quello che (per usare un'espressione di Georges Bataille) potremmo chiamare «erotismo sacro», si deve tuttavia osservare che l'approfondimento della biografia dell'artista napoletano ha recentemente messo nella giusta luce la sua religiosità; una religiosità che in quel periodo della sua vita (quando aveva circa cinquant'anni) si era rafforzata attraverso la pratica degli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, eseguiti sotto la guida dei padri gesuiti che egli frequentava. Verosimilmente la lettura della vita di santa Teresa non dovette essere un fatto occasionale, limitato a singoli passi, segnalati magari dal committente. Al contrario, alcuni studiosi hanno letto nell'Estasi di santa Teresa anche l'eco del racconto di altre esperienze mistiche, come quella della santa genovese Caterina Fieschi Adorno.  La straordinaria qualità estetica e l'intensa drammaticità del gruppo marmoreo è dunque da collegare alla personale ricerca spirituale di Bernini, al suo impegno a scoprire per sé stesso, per poi mostrare a tutta la comunità dei fedeli il senso di quell'amore espresso oltre ogni misura verso il Redentore, che trova esempio nella vita dei santi.  L'influenza dell'opera di Bernini fu enorme non solo sui contemporanei, ma anche su molti artisti dei secoli successivi. Il famoso compositore Pietro Mascagni, ad esempio, nel 1923 compose una visione lirica per orchestra dal titolo Contemplando la santa Teresa del Bernini, un brano della breve durata di appena quattro minuti. Marder, Bernini and the art of architecture, New York; Marder riferisce a Irving Lavin, Bernini and the Unity of the Visual Arts, New York;  e a William Barcham, Some New Documents on Federico Cornaro's Chapels in Rome, in: Burlinton Magazine, Cricco, Francesco Di Teodoro, Il Cricco Di Teodoro, Itinerario nell’arte, Dal Barocco al Postimpressionismo, Versione gialla, Bologna, Zanichelli; Cocchi, Cappella Cornaro ed estasi di Santa Teresa, su geometriefluide.com. URL consultato il 30 novembre 2016. ^ Oreste Ferrari, Bernini, in Art dossier, Giunti; Gombrich, La storia dell'arte, Milano, Leonardo Arte; Lollobrigida, A. Mosca, Biografia, in Lanfranco a Roma, Milano, Electa; Bonaventura, La psicoanalisi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1938 ^ Traduzione libera:  «Se questa è un'estasi mistica, conosco molte donne che l'hanno vissuta»  ^ Cfr. de Brosses:  «Se questo è amore divino, io lo conosco bene!»  ^ Cfr. Marchese de Sade:  «Si stenta a credere che si tratti di una santa»  ^ Cfr. Veuillot:  «[Bisogna] espellere l'opera dal tempio... venderla... o farne calcina!»  ^ Jean-Louis Bruguès, Dizionario di morale cattolica, Edizioni Studio Domenicano; Bataille:  «E la sensibilità religiosa che unisce strettamente desiderio e paura, piacere intenso e angoscia»  ^ Bernini - Estasi di Santa Teresa, su scultura-italiana.com, La Scultura Italiana; Don Michael Randel, The Harvard Biographical Dictionary of Music, Harvard; Bernini Santa Teresa d'Avila Estasi di santa Teresa d'Avila L'Estasi di Santa Teresa d'Avila di Gian Lorenzo Bernini raccontata da Caterina Napoleone, su raiplayradio.it. Portale Architettura   Portale Cattolicesimo   Portale Scultura Ultima modifica 6 mesi fa di eBot Chiesa di Santa Maria della Vittoria (Roma) edificio religioso di Roma. Transverberazione Estasi. Opera. Bernini. Le e&Usi dell’amore di patria. La niftscliera di Mazzini. Patria, e religione^ eroi della patria e santi. Meglio il  i'Jtammiisme che rignonui^a dell'amor di iwitria, Diverse  funoe dell'escisi dell" amor di patria, — 11 ritorno in Italia  dell' autore reduce dair TnfUa. Estasi BoUtarie dei ^andi  amatori della patria. Gli eroi della storia e gli eroi aiiouijiii,  Estasi epidemiche. Incendii delle foreste e iiiceudii del  euore namonale d'uu populu, — Eafliroiiti e ecmsiderazìoiii. Nel mio Mu^eo d'a^ntropologiu di Firenze, in uuo  degli armadii consacrati alle grandi ìndiviilnalitì\  della apecie umana, vi ha la teista di un uomo^ che  ferraa V attenzione del piii frettoloso e .superficiale^  osservatore. Quando devo far da cicerone di mala  voja^lia a qualche importuno, lo aspetto a quell'ar-  madìo, per consolarmi della lunga noia di ripe-  tere davanti alle stosjie vetrine le sten^^e parole.  K VX il visitatore sì ferma e dice; quella te«ta t)  fonte qudìa di un mniof   Siete un buon osservatore, quella testa è di un  santo e fu formata sul cadavere.   E che santo è quello?   Si chiama Giuseppe MazsEiui.   Si potrebbe scrivere un volume su quelFincon-  scia rivelazione dei più voI*(ari osservatori , che  dinanzi alla raaafìhora di Mas^^^ini, domandano so  quello sìa un santo. La fìsonomia a#icetìca è nna delle jiiù CJiratte-  riaticlie , ma anche ana delle piìi iiidefiuiV>ìli, E  il Miizriui Taveva, o morto pareva ad<Urìttiira "n  santo j?iù jflorifìcato ool piiradiso cristiano.   In quella domanda, che prorompe spontanea dal  labbro dei visitatori del mio Museo, vi è tutta la  biografia di un uomo, che amò la patria con fer-  vore mistico e fece della sna polìtica una reli-  gione. E^fli stesso del resto si era asse|?Dato il  suo po.sto nella storia del pensiero italiano, scri-  vendo sulla sua bandiera , Dio e popolo^ due par  role una pih miiitica deiraltra e che messe vicino  non sono che nn f^rido ilei onore lantùato neirin-  finita» poetico deindealita politica. L'amor di patria è uno degli aftotti più alti, ma  più indistinti e la cui analisi psicologica esi^e-  rel>be nn volume. È sentimento di lasso , perchè  molti nomini d' alta e di bas.^ gerarchia non lo  sentono e perchè si dirige, più che ad un lembo  di terra , ad un mito corai)osto di materia e di  idealiti\ e che muta forma e muta confini a s^  condadeì tempi e di conto altre influenze esteriori*   l sentimenti ili lusso, non hanno che raramente la intensa energia degli affetti ut^oessariij ma per  la loro indeterminateaza o h\ sconfinata po.-^Mibi-  lltà dei loro movimenti possono imi facilmente  portarci all'estasi.   Por V uomo selvaggio , sia poi tale perchè non  veste il proprio corpo, o perchè uou vet^ite il pro-  prio pensiero; la patria è poco più che il nido  per r uccello o la tana per le fiero. È la casa iu  cui è nato, è V albero sotto cui ha dormito , è il  fiume iu cui sì è tuffato, il bosco dove ha cac-  ciato , è la terra dove tutti gh uouiini ras.'^omi-  ^liano a Ini j parlano come lui , come lui odiano  l'altra geuto che sta al di là dal monte o «lai mare,   L^t patria, circondata o no dal luare^ è sempre  un'isola; e chi si isola divien parcnttì di tutti co-  loro che stanno nella stessa carcere. La patria  non h che una famiglia più grande di quella che  sì chiude sotto il tetto domestico, non è che una  casa più vasta di quella che alberga una stoasHi  famiglia.   2Jon amare la patria ò una vilti\ del cuore ^ è  un cretinismo del sentimento j quando non sia la  previsione di tempi lontani e migliori , nei quali  la patria dell- uomo sarà tutto il nostro pianeta,  e stranieri soltanto si chiameranno gli aiutanti  tlegli altri mondi coi quali di certo un giorno  parleremo, e forse per farci la guerra.  JJ amor di patria- è figliale e mistico in nna  Tolta sola; è tenero e ascetico, l^^igliale perchè la  patria è la madre universale di tutti quelli che  parlano la stessa lingua, pensano lo stesso Dio e  Bparf^ono insieme lo stesso sangue. Mistico , perchè  la patria non si può baoiarej né abbracciarej e i  suoi confini son segnati sopra una carta, che non  è negli atlanti geografici, ma nel cuore amano.   La patria è uno «lei circoli del paradiso dan-  tesoOj dove da un piccolo cerchio irradiano aonc  piti larghe, come cerchio d'acqua smossa dal ca-  dere di nna pietra. Dal villagjrio adorato dove ci  hanno battezzato e dove speriamo di esser sepolti^  alla provincia, al regno, all'impero, alle colonitv  nostre lontane, la patria si allarga, si allarga sem-  pre, portando seco le tenere oscillaaioni del no-  stro cuore, dei nostri afifetti, della gloria nazionale*   Quel palmo di stoffa che si chiama la nostra  bandiera j che un colpo di sole, uno scroscio di  pioggia pnò impallidire, quella stoffa che costa  poche lire e che una vampa di fiamma può ri-  durre in un pizzico di cenere^ è il simbolo di tutti iJamqr di patria 93   quelli affetti che .si condensano sotto nno stesso  nome, e là dove sì pianta quella bandiera ivi è  la patria^ ivi i ricordi comuni e le tiomuni svimture  e le glorie eomuDi oliiamati a raccolta da im voce  sola^ che le incarua e le personi&ca. Chi analizza un sentimento t^oUa segreta spe-  ranza o colla malignità palese di distruggo rio,  compie opera vana. Se lo fa per Bè non diatnijE^ge  che ciò che non è mai esistito ; se lo fa per altri,  predica nel dea erto ; dacché nessaun ragionamento  ha mai fatto diminuire d' un palpito un grande  amore.   La doìina che tu ami è una die creatura, fa amata  rfrt ceiito uomini ptlmn che tu In aìì^rnssi,,.,   U ohe importa f lo Vmno,   Il Dio che tu adori non è mai cswUto. Moto mo-  siruoso in cui V antropofagia deW uomo quaternario  ti trova insieme alla industria delle simonie^ alle pag-  gio Uologiche,., Mmpio^ tu non sai qneìh che dwL 11 mio Dio esista  ed io VaàoTù.   Lo 8tes30 sarebbe tcntR^r di strappar con vani ragiimumenti a un uomo l'amor di patria^ quando  ej^Iì lo senti.^ palpitare nel più caldo e nel pia  profondo delle vi scerò , quando e^li ne ha fatto  una religione, a cui è pronto a darò tutto quanta  ha, tutto il sanane delle sue vene* L'amor di figlio,  r ani or dì madre, l'amore per la donna amata fiirono  In o^cni tempo «jloriosi olocausti di anime elette  futti 8ul l'alta re della patria. E poi andate a dire  a quei martiri che la patria è il mondo eh' easa  non ha altri contini che lo spazio interijlanetarel Finche lo nazioni esiatono , fìnc^hè le lingue  umano wi contano a luigUaiaj fìnehè metà del ge-  nere umano non può intender Taltra mete, finché  ffBt nonio e uomo vi sono maggiori differenze  psichiche che fì*a un oane e nn lupo; l'amor di  pntria non hi discute^ ma sì 8entt% e nn iiopolo è  tanto pili grande, quanto è pia vivo e calilo e  universale in lui questo sentimento. Benedetto  conto volte il più folle ehmwmismej maledetto il  cinismo dì chi domanda ridendo: 1} che cosa è hi  patHa?   La patria è la terra ^ in cui in ogni 8olco vi è l'amor di patria 05   Il uà gocdola dì f^tangne o ili sudore dei padri do-  stri in ogni pugno d'arena vi è della ceneri^ dei   nostri avi; la patria è la terra in cai dorim» in  nostra madre e dormiranno i nostri figlinoli; è la  storia di tutto il passato, la storia di tanti secoli  ili glorie e di sventare vissuti da coloro che ci  hanno data la vita; la patria è la madre di tutti  quelli clie parlano e sentono come noi ; è quo 11 a  t-erra^ il cui nome solo udit(j pronunziare in terra  lontana ci fa battere il cuore, ci fa baciare un  giornale. È quella parola, che solleva onde di po-  poli a un gritlo rli guerra, cUc fa escire da ogni  capanna nn uomo armato e ad ogni finestra fa  affaciìiarc una testa di donna ijiangente- La pit-  tria è una parola magica che può convertire ogni  uomo in un soldato e ogni donna in nna martire,  che fa* piangere i fanciulli disperati di non esser  ancor uomini e fa pian^^ere i vecchi perchè non  posftom» più imbraudire nn fucile. La patria è  tiuella santa parola, che lUstacca Toperaio dall'of-  iìcintìi , il contatlino dal cami>f> , V uomo di lettere  dal libro, il banchiere dallo scrigno; che strappa  daltc braccia della fanciulla il giovane innamo-  rato; e tutti riunisce in nn^mìca schiera e sotto  uno stesso vessillo, in cui tutti guardano Assi con  occliio d'eroe e amore <\i martire.  Quar altro altare ha tanti adoratori? QuNUaltra     religiane ha tante idolatrie? QuaVè Tara su cui  si portino altrettante vittime ^ che corrono chia-  mate o non ohi amate, ma sorridii^nti e calde d^eu-  tnsia^mo? QuaValtra parola ha tanta onnipotenza,  q 11 al' al tra estasi può superare co deista di sentirsi  in uD^ora sola (livennti trenta milioni di fratelli,  che amano lo stesso amore, che sentono lo stesso  otlio, che so cenano lo stesso sogno di vendetta o  di sdegno?     Le estasi più oomuni dell'amor di patria sono  qaelle che si provano nel rivedere la terra nativa  dopo mesi e anni di lontananza e le altre che si  godono nelle grandi feste, che salutano un grande  trionfo nazionale: solitarie lo prime j associate le  seconde ; grandi entrambe e capaci di voluttà  senza nome.   La. nostalgia è nei trattati di patologia una mar  latti a che si classifica fra le alien azioni mentali.  Beati coloro che possono esser pazai in questo modo;  infelici coloro che per grettezza di cuore o per  esser nati venti o trenta secoli prima del loro  tempo non sono capaci dei rapimenti del rivederti   ]fh patrìft dopo lunghe assenze. Io che ho vissnto  molti anni neir altro emisfero e che ho attraver-  sato l'Oceano per otto volte ho provato quest* e-  stasi in tutti ì suoi gradi e in tutte le sue forme.  Mai l'ho goduta eosì intensa e così profonda  come dopo il mio ultimo viagfi^o nelP India.   L'amor della patria, ai rovescio degli altri amori,  cresce cogli aonì^ e quando io 'ttopo alcuni mesi  di assenza al mio ritorno dall' Tiidia soppi che al-  l^indomani avrei riveduto l'Italia, sentii eho il cuore  batteva forte forte, come dinanzi al sorriso della  donna amata.   Io non vedeva ancora la mia terra, ma la sen-  tivo. Sentivo che essa mi aspettava come ci  aspetta la nostra donna in un ritrovo d' amore  limi^iimente desiderato» La mia patria, Tltalia  mia non poteva esser lontana.. L'onda più azzurra,  il cielo più sereno me lo dicevano ad alta voce ; me  lo diceva il profumo dei fiori d'arancio che mi invia-  Tano gli orti benedetti della Calabria e della Si-  cilia, Ed io guardava fisso davanti a me neir o-  rizzonte lontano j che la mia nave andava conqui-  Esta^i umam,  stando ad ogni moto deir elice. La nebbia sfumava,  Topaie diventttvii oltremare, e fra le nebliie lon-  tane vedeva un mondo, nuovo e antico per me,  la patria dei miei avi. La nebbia diveniva terrai  e cielo; terra e cielo T Italia. — Fra poche ore avrei  baciato quella terra e sul mio capo si sarebbe  disteso l'azzurro ohe mi aveva veduto nascere.  Non sarei più morto in terra straniera e i miei  cari avrebbero potuto piangere inginocchiati so-  pra la mia terra, sopra la terra che aveva gene-  rato me e i miei cari.   E la terra nebbiosa e oscura si disegnava in  coste e in golfi , in monti e in piani ; e in qaei  monti e fra quei seni apparivano poco a pooo  oasuccie bianche incorniciate di pampini ver<li e  riposavano fra boschi di agrumi neri come il  bronzo. In quelle case dormivano uomini che par-  lavano la mia lingua e quella terra mi mandava  come un saluto del cuore i profumi del mio orto,  i profumi della mia giovinezza e tlella mia poeaia.  Là io era amato, là il mio nome non era parob  ignota: qualcuno mi aspettava. Vi erano braccia  aperte impazienti di stringermi al onoro, vi erano  labbra di donna e di fanciulla pronte, impazienti di  baciar le mie labbra. Profumi di fiori e baci ohe  mi chiamavano ad alta voce, con sospiri d' amore,  Come aveva potuto io per così lunghi mesi star  lontano (la quegli alberi benedetti, da qneWe brae-   cift innanioTìtte , da quella terra che ora. la mia ,  la terra della mia culla e della mia iom^ f Nod  avevo io commosso una colpa j che avrei rerlenta  fra poche ore ? Come avevo io potuto sopportare  tanto dolore ?   B la nave camminnva ; e la nave correva e a  destra il continente d'ItalÌM, a sinistra la pììi  ;^ande delle isole d' Italia si avvicinavano a me^  lontaise e vicine, come due braccia aperte all'am-  plesso I — To mi smentivo abbracciato da quelle  braccia gigantesche , mi sentivo inebbriato da  quei profumi ; udiva il mormorio delle voci del-  l'uomo, che dalla riva giungevano fino a me; voci  d'uomo e voci d- Italiani. Perfino Je vele delle  piccole barche che sfì lavano lungo la costa mi pa-  revano pili bianche, più gaie , più snelle d' ogni  altra vela di mare. S^on eran forse vele italiane ì   E r Etna gigante fumava dair alto e il -calca-  gno d' Italia poggiava anir onda azzurra quasi  volesse spiccare il salto alla conquista del mondo.   Avrei voluto gettarmi in quel] ^ onda per sen-  tirmi bagnato dal mare d* Italia, avrei volato lan-  ci armi per giungere più presto a toccare- quella  terra santa, quella terra tlivina, madre di tre civiltà  e aon ancora stanca ; quella terra d' eroi e di  fljartiri, in cui tante genti avevano bevuto le prime fonti tìol pensiero , avevano imi>aruto i  primi canti (Iella poesia. Quanto or^oglio^ quanto  amore e quanta irapazienza di ridare a qnella terra  il bacio di madre ehc mi «fetta va lontano; dai suoi  orti fioriti, dalle 6U© città illuminate dalla gloria,  dalle vette dei suoi monti pittoreschi, dai campi  così fecondi dì vita.   Se qnella non era un' estasi e che cosa è dunque  l'estasi 1 Se quello non era un rapimento dei seasi,  del cuore, dell' amore , del passato che si strìn-  geva col presente; se quella non era una santa  ebbrezza; e che cos'è dunque il rapimento; che  cos'è r ebbrezza! — [ miei occhi eran gonfi di  laf^rimCj ma sorride vauo ; il mio labbro era muto,  ma sorrideva tremando, come davanti a un bacio  ohe dovesse uecìdermi come uomo per trasfor-  marmi in un Dio.     Estasi solitarie d' amor di patria devono pro-  vare quei pochij eletti che nascono per dar libertà  o grandezza alla patria e sognano prima e me>li-  tauo poi l'opera grande che si prefiggono a scopo  della loro vita. Gran parte ili questi amori solitarii e profondi  si eouauma nell^ opera del pensiero, nelle lun^^^he  lotte di prepAvazìon^ ; ma tra le ansie di olii  aspetta e sperando teme ad of^i istante di per-  dere il frutto di tanti sacrifici , di tanti sudori ,  e forse di tanti martirii ; vi devono esr^ere istanti  in cui alla mente riscaldata da tanto entusiasmo  appare V alba della vittoria in nn orizzonte lon-  t-ano e la speranza del premio fa batter forte il  cuore. Quanti^ visioni sublimi devono esser ap*  parse al Mazzini, al Cavour, al Garibaldi, quando  neir esilio o nelgabinetto di ministro o sul campo  di battaglia sognavano di far libera , grande ed  una la nostra patria e sentiviìuo «li poter essere  artefici primi in quest' opera grande ; sogno di  tanti secolij miraggio di tante generazioni.   Le imprese degli eroi riuiangono scritte in ta-  vole di bronzo o in monumenti di marmo, scritte  co[ ferro e col fuoco, colle torture dell* ergastolo  o le lunghe angoseie notturne del pensiero che  non dorme j ma ciò che non rimane scritto è Pe-  stasi che prepara quelle imprese e che le prevede  in anticipazione.   Ogni frutto si feiionda neir amplesso dei petali  profumati e fulgenti di bellezza e ogni figlio di  creatura viva nasce dall' anelito di un grande  amore. Cosi le opere magnanime che salvano un popolo o che Io glorificano, clie rompono le catene  dell' oppressione o allargano le frontiere della patria non 80D0 mai uragani di violenti e o subitanee  divinazioni del geuio ; ma si preparano lenta-  mente e lentamente maturano nei sautiiiirì del  cuore e del pensiero, là dove i ^ermi celati pre-  parano r albero fntnro ohe darà ombra a un' in-  tiera nazione. La poetala sprezzata solo dal volgo  dei faccendieri, perchè non sono capaci d' inten-  derla, è la madre d*ogni opera grande e non e- è  grande soldato o grande uomo di Htato ehe  non fosse anche e soprattutto poeta. Poeta nel so-  gnare imprese che ai più apparivano come pazae  utopie ; poeta uel fan taa ti e are e neir osare ; poeta  uel deliziarsi nelle sante visioni dell'avvenire; poeta  nelle estasi <imorose che mostra^io al eredente  premio lontano di grandi vittorie. Xon invano i Greci  hanno detto che il poeta è un creatore. Né le sante estasi dell' amor di patria anno con-  cesse soltanto agli eroi , ai semidei della storia.  Tutti coloro che hanno fortemente amato la pa-  tria, tutti quelli che hanno dato ad essa il pensiero o il sangne , che hanno cospirato jirìiua e  studiato poi per darle grandezza e pot**iiaa, pouno  nella loro vita aver provato rapioientì delizioM.  OgDuno pia che sé stesso non può dare all' altare  d' na grande affetto e nelle rivoluzioni e nelle  gfaerrej come nelle grandi lotte poli ti <; he gli amanti  della patria possono contarsi a legioni e la storia  li dimenticfi, appunto perchè son troppi. T^a storia  ha fretta e personifica iu nn tipo i martiri minori.  Pellico è il martire delle cospirazioni, Mazzini è  V apostolo della religione della x^atria » Garibaldi  1' eroe, la Cairoli è la martire delle niadri^ Cavour  fe il pensiero in azione, e così via> Per ogni forma  del sagrifìzio y per ogni opera della mente , per  Ogni travaglio dei cuori, la storia segna un indi-  viduo che divien statua, ìdolo e tipo, e dimentica  le molte figure anonime, che si raggruppano in-  torno a quei tipi e fanno loro lieta ghii'landa.   Né questi negletti della storia lamentano l'in-  ^ustìzia : al monumento, alle corone, all' arco di  trionfo essi non hanno pensato mai. Essi hanno  amato la patria e per essa hanno pianto o sono  morti : la loro missione è compiuta e sono felici  come lo furono PeUioo, Garibaldi e Cavour, An-  ch' essi hanno provato le sante estasi della spe-  ranza e della vittoria^ e la patria li ha l)enedetti e  glorificati nel silenzio delle loro case , nel nido delle loro famiglia o dei loro a rio ri. La patria è  grande percliè ebbe dì tali figli e attraverso le  vene e i nervi clic congiunto uo le generazioni  scorre V omla deir entusiasmo fe palpita la voluttà  del sacrifizio. Che cosa sarebbe il Cristo aonzii  gli ApostoU; che cosa avrebbe fatto GarlbaLtU  »euza la coorte dei Mille, e Cavoar senza i pre-  cursori del 31 ?   No (lo voglio ripetere per la centesima volta),  la iiatnra non è così irtginsta come appare alle  esigenze dei più. Le gioie maggiori della vita non  si misurano col metro del ^enio o snlla bilancia  della ricchezza. Tutti, innanzi morire, possono es-  sere baciati dalle labbra innamorate d'una donna;  tutti posisono render quel Via ciò alle labbra d'una  Agli a. Nessuno è così povero da non poter fare  aagrifìzto dì se alla patria , nessuno così infelice  da non provare le estasi dell- affetto e della poe-  sia. Pel sole che dair alto illumina tutte le crea-  ture della terra, nessuno è grande, nessuno picco-  lissimo e i suoi rag^ì entrano beatificando e  consolando nelle ftbre d' ogni cuore, nella porta  iV ogni tugurio. I piccoli numeri di ventano grossi se som muti  iDsieme. Così i piccoU affetti ponno divenire nra*  gani se i cuori battono insieme. CIic! co.sa è una  gocciola? Eppure i* oceano è fatto tii gocciole,  Kessim affetto forse quanto Tamor di jiatria può  per la isna natura moltiplicarsi con grossi numeri  e allora V entusiasmo degli individui diviene onda  che alla^^a le contrade e rapisce nella sua cor-  rente case e villaggi, città e popoli intieri. È que-  sto un punto ancora oscuro della psicologia umana  e che pare dovrebbe formare una delle baai te-  tragone di ciò che suol chiamarsi la fllosofla della  atoria.*   Come 3i sommano due affetti analoghi o eguali ?  Di certo non colla regola aritmetica che 1 + 1^2,  E oome si moltiplica un entusiasmo , quando si  ripete cento, mille, centomila volte nello stesso  tempo in cento, in mille, in centoraila cuori? An-  che qui la regola matematica non serve a spie-  gare r allargarsi e il diffondersi del fenomeno ri-  percosso in tante coscienze umane. Vi sono epidemie  per il sentimento come pei morbi popolari» e il difibiifieriii degli entusiasmi presenta gli sttsa  misteri^ gli stessi salti bizzarri^ gli stesai prodigi  nome V allargarsi ^elle grandi epidemie.   L' incendio dei cuori per influsso d' nna gloria  nazioDale è uno degli spettacoli più grandiosi e  commoventi del mondo utnauo, ed io compiangd  tnttì coloro , cbe nel corso della loro vita non  hanno 'potuto assistere ad una tli queste grandi  feste, nelle quali tutto un popolo canta Tinno  della gioia e lo accompaguauo gli squilli elettri^-  zauti della vittoria e la fanfara del tumulto po-  polare e l'ebbrezza di tanti cuorij che sentono tiel  tempo s^tesso la stessa gioia , clie ardono deHii  stessa febbre, dello stesso delirio.   Kon invano io ho rassomigliato ad un inceufiio  questi rapimenti nazionali: nessuna immagine po-  trebbe rii|»presentare più fedelmente lo svolgerai  di questo fenomeno umano. Ma non ha ad esser?  incendio di pagliaio ^ che le società di assieara-  zioni registrano con dolore, o fi ara me di cucina, che   pompieri benemeriti spengono in un* ora colle  loro pompe. Ci vuole nno di quelli incendi delle  vergini foreste e della pampa ci eli* America meri-  dionale^ che ho le tante volte veduto e ammirato  nei nùei viaggi. La fìatniua è venutu claU* alto o dal Im^^o , da  na ftilinlue o dal focolaio d' un viaggiatore : non  importa. É fiamma che non riguarda le socktà  d^ mmìirazlomf né chiama a i?*è i pompieri. È fuoco  Glie s'allarga a destra e a sinistra^ che sale ìii alto  lim^o le scale delle liane sugli alberi alti come  torri e che rade le erbe del basso come rasoio  ardente. Erbe e cespuglìj alberi e arbusti, piante  di mille anni e florclUai sboceiati ieri, tutto è in-  vaso dalla stessa fiamma, che tutto divora e eon-  sama/ Nessuno resiste a quel fuoco, non U cacto  gonfio di succhi, non le foglie verdi, non i tron-  chi secolari; nessuna pianta, nessuna erba, nessun  insetto che viva su quelle erbe, nessun rettile che  strisci , nesdun piccolo rosicante o armadillo che  s'accovacoi nelle tane, ne^ssuna belva del bosco,  nessun mammifero della pianarti. Dinanzi a riuel  faoco tutti sono eguali e tutte lo creature hanno  ad ardere fiammeggiando , scoppiettando e deto-  nando* Vola la fiamma in colonne , striscia come  onda, divampa come nembo, e non appena il fumo  porta nel fresco del verde il segno preoarsore della distruzìane^ il famo divien calore e il calore  diviea ìucendio,   E riiicendio cammina; prima incerto, poi siouro;  prima trotta, poi galoppa, vola; esaltandosi nel  delirio d' uo' opera gigante di distrazione e di li-  vellazione* I piccioli innalzano il loro fuoco nelle  regioni degli alti; e gli alti precipitano turbinando  e rovesciando i tiazoni incandesoenti nel piano  delle creature minori. E volano le sointiUe e ser-  peggiano le fiamme, uè alcuno al mondo saprebbe  dire chi dia maggior alimento a quelle vampe.  mag;2fior calore in quella voragine j in quella fa-  Cina gigantesca. Screpolano, adoppiano, gemono i  rami succoienti e rovinano i colossi della foresta^  portando lontano lontano T inno di una grande  rivoluzione^ fluchè fra cielo e terra non si distin*  guono più né erbe ne arbusti^ né alberi, né animali;  ma una cosa sola si vede, una cosa sola si sente, il  fuoco trionfatore d'una fiamma invadente e tiranna.  È la festa del fuoco, è V orgia della distruzione;  è la morte di un mondo vecchio che prepara il  terreno a un mondo nuovo. Cosi sono le feste nazionali, non imposte da  decreti di prìncipi o da grida di ministri, ma sorte  spontanee per Tirrompere di un sentimento caldo,  elle infiamma tutti 1 cuori, che riscalda tutte le  coscienze. E le anime fredde sono ravvolte dal-  l' incendio comune, e gli egoisti, volenti o nolenti,  si riscaldano allo stesso fuoco e i timidi non trovan Bcami>o alla fuga. On^ni creatura che abbia  in petto un e nere di uomo deve ardere p consu-  marsi nella stessa fiamma. Padri e figli e ignoti  si abbracciano insieme e in una volta sola, e il  riso e il pianto che si confondono in un turbine  solo fanno ridda e alzano al cielo un grido solo ;  che è r entusiasmo ; s' inebbri ano dello stesso licore che è r affetto di patria. Anche il marmo si  riscalda, se ravvolto dalle fiamme, e anche il ghiac-  cio si discioglie e si consuma fra le vampe d'un  incendio. Saltano le più robuste serrature chiuse  tlalla mano gelosa tleir avarizia , sì spezzano le  catene più robuste saldate dair egoismo e dalla  paura. Ogni "cuore umano ha ad ardere . dello  stesso fuoco; e il ferro robusto e il piombo vileJianno a fondere per una volta almeno in uuo   ft tesso croglaolo , formando una lega che bMì le  le^^i della cliìmica e le analisi della scienza. E  1111 popolo ebbro dì gioia', che non conta pia  nelle sue flohiere né poveri né ricchi, né gio  vani ne vecchi; raa canta con una voce sola, somma  dì tutti i vafiitì, di tntte le poesie , dì tutti gli  urli umani : canta V inno della redenzione o della  vittoria. Chi ha avuto la fortuna di essere già uomo  nel 48 e nel 5^ rammenta questi incendi fìei onori  italiani e per le membra forse già intirizzite tW  freddo dolla vec<3liiaia risente ancora il caldo di  quel fuoco. E rammenta ancora alcuni momenti  di estasi sante, di ineffabili rapimenti^ nei quali  ogni altro sentimento taceva o si eclissava davanti  al divampare subitaneo e irresistibile di un unico  sentimento, V amor di patria. l'amoe di patria 111ir Coa\ come <lair incendio delle foreste ver«:iiii  nello strato dì cenere clie rimane si prepara una  terra feconda per nuove creature a venire ; così  tietlp grandi estasi e nelle sante eìylirezze di mi  popolo trionfante, si prepara un nuovo terreno in  cui sarà scrìtta una nuova f^toria, È per questa  via che lo guerre diventano ri generatrici di nn  popolo stanco; e quando per due o tre i^enerazioni  non di rampa uno di questi incendi rigeneratori, i fanghi, le mutfe e i bacterii invadono ogni tronco  d' albero e ogni seme di pianta, e dalla lenta putrefazione dei  cadaveri, s' innalza un miasma omicida, elle soffoca i bambini nella culla, .sommerge  i giovani nella palude deirozìo e della noia, e uccide i non nati nel ventre delle madri. In tutte le lìngue dei popoli civili voi trovate scritto che vi è un amore platonico, e se si è sentito da tutti il bisogno del vocabolo, vorrebbe dire che la cosa esiste, o nella natura o nel pensiero degli uomini. Noi non ci fermiamo abbastanza sopra i rapporti delle parole colle cose, e ammettiamo si esso e  volentieri  che  tra  i  molti  suoi  capricci  l'uomo  abbia  anche  codesto,  di  fabbricare  parole  per  cose  che  non  esistono. Eppure ciò non è vero o almeno  non è vero che in parte. Se  fabbrichiamo una parola  per  un essere  immaginario,  è  però  vero  che  questo  essere  fu  immaginato  da  noi  e  quindi  esìste  o  è  esistito nel nostro cervello. Il guaio vero che si trova nello studio delle parole come  vestito  delle  cose  è  questo,  che  non  tutti  gli  uomini  applicano  lo  stesso  vocabolo  alla  cosa  stessa,  soprattutto  quando  si  tratta  dì  fenomeni  psicologici. Di  qui  confasione,  anarchia;  torrenti  d'inchiostro  e  spreco  infinito  di  fiato  per  spiegarci,  per  intenderci  e  pur troppo, ahimè, per creare nuove contese e nuove logomachie. Sappiamo tutti che cosa sia un coltello, una mano, un occhio e a queste cose tutti applicano la stessa parola. Andiamo pure quasi  sempre d'accordo nel battezzare il piacere, il dolore, l'odio, la collera e molti altri fatti del mondo psichico, che hanno per tutte le coscienze lo stesso significato e  che  trovano  nel  dizionario  la  loro  rispettiva  veste.   Ma  ben  altro  avviene,  quando  si  tratta  di  fenomeni fugaci e confasi  o  di  momenti  impercettibili  di  un'emozione  o  di  un intreccio di  molteplici  elementi. Allora  la  parola  non  è  che  un'approssimazione grossolana o uno  sbaglio  completo,  e  noi  significhiamo  con  uno  stesso  vocabolo  le  cose  più  diverse,  facendo  come  colui  che volesse  per forza  far entrare  il  proprio  corpo  in un  vestito  che  non  fu  fatto  per  lui.   Questo  accade,  per esempio,  per l' aiwìre piatomeo.  Tutti  adoperano  questa  parola  per  ischerzo  o  sul  serio,  per  ludibrio  o  per  difesa, per  ipocrisia o  per  convinzione,  ma  le  idee  che  si  rivestono  con  questa  stessa  parola  son  così diverse,  come il  sì  e  il  no,  come  il  vizio  e  la  virtù,  come  l'ipocrisia  e  l'idealità.  Proviamoci  a  interrogare,  facciamo  un'inchiesta, muoviamo  un processo alla  parola,  chiamando  al  tribunale  come  giurati  gli  uomini  del  volgo  e  i  filosofi;  gli  uomini  di  buon  senso  e  le  donne oneste; chiamiamo  pure  anche  gli  scettici  e  i  credenti;  i  materialisti  e  gli  idealisti.   Che  cosa  è  l'amore  platonico?   L'amore  platonico  è  un  paradosso,  è  un'utopia;  non  è mai  esistita  e  non  esisterà  mai.   L'amore  platonico  è  una  ipocrisia  che  copre  ben  altra  merce.   L'amore  platonico  è  un  lasciapassare  per  salvare  il  contrabbando.  L'amore platonico  è  una  falsa  chiave  o  un grimaldello per poter penetrare in casa d'altri senz'esser veduti.   L'amore  platonico  è  un  travestimento  dell'  impotenza.  L' amore platonico è  una  maschera  ad  uso  dei  ladri  e  dei  malfattori.   L'amore  platonico  è  la  quadratura  del circolo.   L'amore  platonico  è  la  centesima  versione  della  favola della  volpe,  che  trovava  acerba  l' ava  che  non  poteva  arrivare.   L' amore  platonico  è l' amicizia fra un  nomo  e  nna  donna.   L'amore  platonico  è  amore vero  e  proprio,  ma senza  la  colpa. L' amore  platonico  è  l’ amore  con  tutte  le reticenze imposte dalla religione,  dalla  morale  o  dalla  necessità.   L'amore  platonico  è  il  voglio  e  non  posso. L'amore  platonico  è  l'amore  senza  il  desiderio.   L'amore platonico  è  una  fraternità  delle  anime,  senza  il  possesso  dei  corpi.   L'amore  platonico è  l' ammirazione  senza  il  desiderio.   L'amore  platonico  è  tutto  l'amore,  meno  il  pos-  sesso.   L'amore  platonico  è  tutto  l'amore spogliato  del-  l'animalità.   L'amore  platonico  è  una  doppia  menzogna  a cui  non  crede  nessuno  dei  due  mentitori.   L'amore  platonico  è  il  primo  stadio  dei  grandi  amori  e  l'ultima  fase  dei  piccoli  amori.  L'amore  platonico  è  un  patto  giurato  da  due  che  spergiureranno  domani.   L'amore  platonico  ò  un  giuramento di  marinaro  fatto  durante  la  procella.  L'amore  platonico  è  una concessione  fatta  oggi  da  ano  dei  due  contendenti  colla  speranza  o  la  sicnrezza  di  aver  Taltra  parte  domani  o  posdomani.   L'amore  platonico  può  essere  una  finta  battaglia  fra  due  che  non  sanno  battersi  o  hanno  paura  del  sangue.   L'amore  platonico è  un  vescovato  in  partibus  infidelium  concesso  a  chi  non  si  può dare  una  curia.   L'amore  platonico  è  la  metafisica  dell'amore.   L'amore  platonico  è  la  più  sciocca  parodia  della  più bella, della più grande, della più ardente delle umane  passioni.  L'amore platonico  è  un  leone  di  gesso,  è una tigre di carta pesta, spauracchi da bambini o ninnoli di fanciulli. L'amore platonico è la più alta espressione dell'amore ideale. L'amore  platonico  è  il  trionfo  dell'uomo  sulla  bestia,  è  l'amore  reso  eterno  dall'idealità  delle  aspirazioni.   L'amore  platonico è  la  speranza;  l'amore  vero  è  la  fede.    Estasi  umane,   Vili   Sono trenta  definizioni  molto  diverse  tra  di  loro,  alcune  anzi  opposte  alle  altre,  ma  rappresentano  a  un  dipresso  tutte  le  possibili.  Lasciando  da  parte  quelle  che,  definendo  la  cosa,  la  negano,  mettendo  in  disparte  le  altre  che  sono  ironie  o  malignità, possiam  dire,  che  tutte  hanno  una  parte  di  vero,  per  cui  forse,  mettendole  insieme  in  un  buon  mortaio  di  agata,  che  la  nobiltà  della  materia  esige  tanta  nobiltà  di  strumento,  e  porfirizzando il  tutto  con  pazienza  di  chimico  e  sensualità di  farmacista,  potremmo  forse  sperare  di  avere  la  quintessenza  della  definizione,  la vera  e  unica  e  infallibile definizione  dell'amor  platonico.   Io  mi  son  provato  in  buona  fede  a  questa  operazione chimico-farmaceutica e  confesso  dì  averne  ottenuto  un  polifarmaco  arabico-bizantino  che  mi  richiamava  alla mente i preparati  più bizzarri  del  medio  evo.  Ho  buttato  via  dunque  il mio pasticcio, e facendo  appello  al  senso  comune,  che  anche  nei  più  astrusi  problemi  della  psicologia  spesso li  risolve  meglio  d'ogni  altro  senso,  ebbi  questa risposta. L'amore  platonico  è  il  aentimmto  che  unisce  un  uomo  e  una  donna,  che  pur  desiderandosi,  rinunziano  volontariamente  all'intreccio del  corpi,  maritando  le  anime.   Fin  dove  arrivi  quest'amore,  fino  a quando  possa  vivere,  io  non  so.  Ho  scritto  un  libro  (Le  Tre  Oraaie)  per  dimostrare  la  possibilità  di  quest'amore,  ma  una  gentile  e  dotta  scrittrice  inglese  scrisse  argutamente  neWAcademy  che  io  avevo  tagliato  il  nodo  gordiano,  ma  non  l'aveva sciolto.  Consultai  molti  inglesi,  intenditori  profondi  delle  ipocrisie  dell'amore,  chiedendo  loro  che  cosa  fosse  la  flir-  taUon,  quali  i  confini  entro  i  quali  si  muovesse  questa  intraducibilissima  fra  le  intraducibili  parole e  ne  ebbi  così  svariate  risposte,  le  une  metafisiche, le  altre  ciniche,  da  scoraggiarmi  e da  fJEurmi  desistere  da  ogni  ulteriore  ricerca  in  pro-  posito.  Dunque?   Dunque  io ,  aspettando  da  altri  più  profondi  conoscitori  del  cuore  umano,  definizione  più  precìsa, più scientifica, conservo  la  mia,  bastandomi  per  ora  di  affermarvi  che  io  credo fermamente  nell'esistenza  dell'amore  platonico,  che credo  nella  sua  rarità,  nella  sua  altissima  idealità,  e  che  lo riconosco per uno dei  fiori  più  belli  e  più  fragranti  che  fioriscono nel  cuore   umano.  É  capace di  rapimenti  ineffabili,  di  estasi  degne  di  vivere all'altezza dell'estasi religiosa e  dell'affetto  materno.    Non  ammetto  amore  platonico  fra  dae  vecchi,  fra  due  brutti, fra  due  creature  che  non  possono  desiderarsi.  Si  dice da  tutti,  ma  falsamente,  che  le  anime  non  invecchiano,  ma  invece  le  anime  invecchiano come i corpi,  e  le  anime  che  si  uniscono  nel  santo  vincolo  dell'amore  platonico,  hanno  ad  essere  giovani  e bèlle.   Questo  sentimento  sublime  non  è  possibile  che  a  rare creature  elette,  che  sanno  compiere  il  mi-  racolo di  spogliare  le  anime  da  ogni  veste  corporea, che sanno  spogliare  la  passione  da  ogni  desiderio  della  carne,  e  contemplandosi  si  ammirano e  si amano.   Anche  le  anime  come  i  corpi  hanno  un  sesso,  e nell'amor  platonico  stanno  faccia  a  faccia  e  guardandosi  eternamente  si  rimandano  senza toccarsi, torrenti di  luce  e  di  calore.  Due  astri  che  girano  nella  stessa  orbita,  che  non  si  toccanmai;  che  sorgono  insieme  con  una  stessa alba,  che  collo  stesso  tramonto  svaniscono  e  sfumano  nella  grande  voragine  dell'infinito.  Sempre  in  moto,  ma  sempre  distanti  Vnn  dal*  l'altro,  attratti  allo  stesso  centro  e respinti  dagli stessi poli;  in  relazione  tra  di  loro  soltanto  per  fasci  di  luce e  oitde di calore. L'anima  dell'aomo  fatta di  forza  e di  azione,  l'anima  della  donna  è  fatta  di  grazia  e  di  bontà;  e  queste  dne  natnre  umane  che  sommate  insieme  formano  l'uomo  completo  si  attraggono eternamente, ma non  si  fondono  insieme,  arrestate  dal  dovere,  che  permette  loro  di  amarsi,  ma  proibisce  loro  di  toccarsi  e  di  fondersi.  La massima  delle  attrazioni  diventita  immobilità,  la  massima  delle  forze  divenuta  ammirazione,  contemplazione,  estasi divina.  Nessun attrito, nessuna resistenza, nessuna trasformazione di energia;  nessuna  cenere  perchè  non  vi  è  fiamma;  ma  luce;  nessuna  stanchezza, perchè  non  vi  è  lavoro;  nessuna  morte  perchè  la  vita  è  arrestata  dal  miracolo  sublime  che  faceva  arrestare il sole  nel  cielo  nei  tempi  della  Bibbia.  Nessun  bisogno  di  mutamento,  perchè  solo  la  stanchezza  o  la noia  (che  non  è  altro  che  una  forma  di  stanchezza)  può  dar  desiderio  d' incostanza. L'amore  platonico  deve  essere  puro  da  ogni  voluttà terrena;  è  questa  la  sua  grandezza,  è  questa  l'acqua  lustrale  che  lo  battezza  e  lo  santifica.   Quelle  due immense  forze  che  si  attraggono  senza  toccarsi  e  senza  confondersi,  rimangono  immobili e  fìsse;  ma  se  una  delle  due  vacilla,  dimi-  nuisce d'un battito  solo  la  propria  energia,  la  più  debole  è  subito  attratta dall'altra  e  l'urto  è  irre-  sistibile. Schizza  una  scintilla  o  divampa  una  fiamma  ;  ma  l' amore  platonico  è  distrutto.  Più  volte  i  due  astri  vengono  così  vicini  l'uno  all'altro  che  ne  oorrusoan  lampi.  Son  due  .  creature  che nello  spazio  si  son  toccate  appena  con  un  fremito  di  ali  spasimanti,  ma  l'ala  deve  fuggire  con  santo  e  rapido  pudore  dal  contatto  dell'ala.  Guai  a  chi  crede  o  sogna  che  due  grandi amori  possano  vivere della  vita  celeste  delle  cose  eterne,  dopo  una  carézza  o  dopo  un  bacio.   Molti,  anzi  i  più  degli  amori platonici,  muoiono  in  questa  maniera,  perchè  le  due  anime  innamorate sognano  questo  sogno,  che  si  possa  fermarsi  a  metà  strada  sulla  china   di   certi  pendii;   ohe    li' credono o  sperano   che  Torlo   di   certi   precipizi  possa  essere  pietoso.   Non  un  bacio,  non  una carezza,  non  fosse  che  qaella  delle  ali.  Anche  le  ali  sono  materia  e  materia viva  e  calda.  Quando  due  labbra  si  son  toc-  cate, ahimè, l'amor  platonico  è  ferito  e  per  lo  più  a  morte.  Le  anime  sole  possono  amarsi  platonicamente e la  materia  è  sempre  dotata  di  gravità;  fosse  pnre  piuma  d'ala,  vello di  cotone  o  massa  di  piombo.  Il  precipitare  di  essa  sarà  lento  o  veloce secondo  la  diversa  densità  della  materia:  i  venti  pietosi  delle  reticenze,  delle  difese,  delle  foghe  faranno  volare  per  l'aria  Iqngamente  il  filo di  seta  e  il  fiocco  di  cotone,  ma  fatalmente,  ma  inesorabilmente  avranno  a  cadere.  O  tutto  o  nulla  è  in  amore  un  assioma  di  quasi  matematica  pre-  cisione, e le  donne,  sempre  più  sapienti  di  noi  in  questa  materia,  lo  sanno  e  lo  ripetono  sempre  all'orecchio degli  impazienti. Esse  sono  le  vestali  del-  l'amore platonico,  le  custodi  del  pudore,  e  quando  esse  vengon  meno  per  le  prime  ai  giuramenti  dell'amore platonico, non  v'ha  quasi  uomo  su  questa  terra,  che  le  aiuti  a  salire.  La  caduta  è  fatale,  è  irresistibile!  Al  contrario di  quanto  si  crede  volgarmente,  non  sono  i  piccoli  aniQri,  ma  i  f^frandi  che  soli  sono  capaci  di  salire  alle  altezze dell’estasi  platonica, di subire  quella  sublime  transustanziazione,  che  arresta  il  desiderio  alla  soglia  del  tempio,  che  trasforma  la  più  ardente  delle  passioni in  una  luce  di  luna,  che  illumina,  ma  non  riscalda.   I  piccoli  amori  son  pruriti  animaleschi,  che  si  soddisfano  grattandoci  o  applicandovi  dei  pannolini bagnati  nell’acqua  fredda.  Essi  non  possono  salire  le  alte  cime,  perchè  son  deboli,  molto  meno  poi  possono  attraversare  lo  spazio,  perchè sono  senz'ali.  Molte  false  virtù  non  sono  che  piccoli  amori  domati  coi  fomenti  freddi  e  quando  li  vedo  innalzati  ai supremi onori del sagrificio e dell'eroismo mi vien  voglia  di  ridere.  I grandi  amori  invece  non  si  domano  che  colla  morte  o  con un  miracolo.  Questo  miracolo  è  Vamoi  e  platonico.   II  credente,  pieno  di  fede,  di  speranza  e  soprattutto d'amore  è  venuto  al  tempio,  per  pregare  ed  amare.  È  venuto   da   lontano:   almeno  per  venti,    forse  per  trent'anni  ha  viaggiato  e  sudato  per  monti e  per  valli,  attratto  alla  Mecca  dall'amore.  Nel  lungo  pellegrinaggio  ha  sudato  e  ha  pianto,  ha  patito  la  fame  e  la  sete,  ma  è  giunto  vivo  alle  porte  del  tempio.  I  minareti dorati  scintillano  al sole  e  dalle  porte  aperte  escono  profumi  di mirra  e  di  rose.   I  grandi  amori  sono  religione  o  idolatria,  e  il  pellegrino  s' inginocchia  e  prega  prima  di  essere  ammesso  all'adorazione  del  Dio.  Ed  egli  lo  vede,  ed  egli  lo  sente  vicino.  Nella luce rosea del tempio egli  ha  veduto  il  gran  Dio,  che  dispensa  la  vita  e  la  morte:  ai  suoi  occhi  lampeggianti  d'impazienza  e  di, ardore  hanno  risposto  altri  due  occhi,  lampeggianti e ardenti  come  i  suoi.  Egli  ama  e sarà  amato;  ancora  una  preghiera  e  san consacrato  li in  fondo  al  santuario  del  Sancta  sanctorum,  dove  il  fumo  degli  incensi  gli  nasconde  la  voluttuosa  visione,  dove  un  coro  di  angeli  gli  cela  i  sospiri,  di  chi  come  lui  aspetta  e  desidera.  Un  istante  ancora,  ancora  una  preghiera,  e  tu  avrai  il  premio  del  lungo  pellegrinaggio,  dei  lunghi  dolori  patiti.  Sei  nato  e  hai vissuto  venti,  trent'anni  per  cogliere quel fiore,  che  anch'esso  non  sbocciò  che  dopo  altri  venti  o  trent'  anni  vissuti  da  un'  altra  creatura  che  nacque  e  visse  per  te.  Oh  perchè  quelli  istanti  non  diventan  secoli   e   quei  secoli      Vili    non  ardono  in  un  istante  sulUara  del  desiderio  e  dell'  amore?   Una  voce  vi  ha  chiamato,  vi  chiama.  Voi  siete  esauditi; voi  siete  ammessi  nel  tempio.  La  creatura sognata  per  tanti  anni,  intraveduta  fra  le  nuvole  della  fantasia  e  le  iridi  del  desiderio,  è  là,  vivente,  calda,  giovane,  davanti  a  voi  e  vi  sorride.  Anch'  essa  aveva  sognato,  desiderato,  aspettato:  se  1'  asceta  ha  bisogno  di  un  Dio,  anche Dio ha  bisogno  dell'adoratore,  e  voi  siete  la  creatura  sognata  e  aspettata  da  lei.  Ogni  vostro  sguardo  diventa  una  carezza,  ogni  vostra  carezza un desiderio  di  carezze  nuove,  e  i  baci  aleggiano  per  l'aria  facendo  intorno  a  voi  un  nembo  di  pe-  tali  di  rose.  I  desiderii  son  divenuti  benedizioni:  due  primavere,  due  vite,  due  amori  aspettano  di  fondersi  fra  un  istante  in  un  solo  paradiso  di  fiori,  di  profumi  e  di  voluttà.  Venga  pure  la  morte;  avrete  vissuto abbastanza,  il  mare  vi  sommerga  pure,  il  fuoco  vi  incenerisca,  la  terra  vi  ingoi;  al  di  là  dell'infinito  non  v'  ha  altro  pensabile  ;  al  di  là  del  tutto,  che  cosa  desiderare  ancora?  Amate  e  morite!   Ma  ecco  che  fra  voi  e  lei  un  angelo  o  un  demonio, il fato  o  il  dovere  ha  messo  una  spada  di  fuoco.  Voi  vi  amate  e  vi  amerete  fino  all'  ultimo  respiro,  ma  voi  non  vi  toccherete.  Non  una  carezza,  non  un  bacio;  neppure  i   flati  confonderanno i tepori  delle  anime.   Io  afiretto  colla  penna  impaziente  ciò  che  in  natura  avviene  lentamente,  più  spesso  per  una  serie  non  interrotta  di  uragani.  Senza  lotta,  senza  agonia,  senza  l'orto  di  Getsemani  non  avviene  quella  trasformazione  che  muta  due  desiderii  in  una  rassegnazione,  due  passioni  in  un'estasi,  due  soli nell'astro  della  notte.  Nulla  si  perde  di  quanto  vive  o  si  muove,  non  la  materia,  non  la  forza  che  non  è  altro  che  l'at-  teggiamento della  materia,  e  anche  ì  cataclismi  della  terra  e  del  cielo,  anche  i  cicloni  che  scon-  volgon  la  terra  e  rovesciano  le  città  sono  trasformazioni di forze,  sono  equazioni  matematiche  nelle  quali  il  prima  e  il  poi  si  dimostrano  come  quan-  tità eguali.   Così  avviene  anche  negli  uragani  del  cuore.  Due  amori  dovevano  confondersi  insieme  per  riaccendere la  fiaccola  della  vita,  due  baci  dovevano  sa-  lire al cielo  confusi  in  una  sola  benedizione  della  vita  trionfatrìce.  E   invece,   passata  la  procella,    vin    rasserenato  il  cielo,  noi  vediamo  il  pellegrino  venuto da lontano  al  tempio  d'amore  ancora  sulla  soglia,  ancora  prosternato  e  in  atto  di  rassegnata  e  serena  adorazione.  E^  nel  tempio,  là  in  fondo,  fra  le  nuvole  degli  incensi  e  il  coro  degli  angeli,  immoto  il  Dio,che  guarda  il  pellegrino  con  tenerezza serena;  e  là  rimarranno  entrambi  Dio  e  crea-  tura, idolo e  sacerdote  fino   all'  ultimo  respiro.  L'amore  che  feconda  è  divenuto  l'amore  che ammira; l'amore   che   ama  è   divenuto  l'amore  che  adora;  il  sole  che  tutto   colorisce  e  riscalda  si  è  trasformato  nella  luna,  che  fa  fantasticare  e  sospirare.   Se  avete  letto  la  mia  Filologia  del  dolore,  dovete ricordare  le  pagine,  nelle  quali  ho  tentato  di  studiare  la  psicologia  della malinconia.  Fra  questo  caro  fiore  del  giardino  del  cuore  e  l'amore  platonico  vi  sono  grandissimi  rapporti  di  somiglianza.   L'amore  platonico  è  una  grande  e  soave  ma-  linconia e  chi  l'ha  potuto  e  saputo  godere,  non  rimpiange  la  gioia,  perchè  quel  sentimento  ha  bellezze  più alte,  ha  misteri  più  delicati,  segreti  più  riposti  e  sublimi.  Dei  vulcani,  dei  terremoti,  degli  uragani  che  sono  vita  quotidiana  dell'amore  nulla  è  rimasto  :  delle  battaglie  combattute  nes-  sun  cadavere,  nessun  membro divelto;  il  terreno    l'amob  platonico lacerato  dalle  bombe, solcato  dalle  artiglierie,  madido di  sangue  umano,  è  ritornato  all'aratro;  e  le  spighe  fioriscono,  dove  corsero  i  gemiti  dei  moribondi e gli  urli dei feroci. Una croce di legno piantata sull'orlo del campo  vi  ricorda  però  la  storia  del  dolore  e  spande  all'intorno  un'aria  ma-  linconica.    Non  invano  io  ho  invocato  il  tempio  ad  esprimere e  contenere  i  misteri  dell'amore  platonico,  perchè  questo  ha  forme  mistiche  e  le  sue  estasi  presentano  molti  caratteri  del  rapimento  religioso.   Soffocato  e  spento  il  desiderio,  inutile  la  lotta,  che  cosa  rimane  fuorché  l'adorazione?  E  questa  adorazione  che  prima  è  consagrata  all'  idolo,  si  affina  sempre  più,  man  mano andiamo  perdendo  la  memoria  delle  battaglie  combattute e  la  figura  che  adoriamo  perde  ogni  giorno  più  la  propria  personalit\  per  prendere  forma  di  mito  o  di  simbolo. La  donna  che  adoriamo  d'amore  platonico  non  è  più  per  noi  Laura  o  Beatrice,  ma  è  la  donna,  la  donna  unica  e  sola  che  per  noi  personifica  tutte  le  bellezze,  tutte  le  grazie,  tutti  gli  incanti  di  Venere  e  di  Eva.    La  donna  amata  ha  occhi  che  ci  incantano,  membra  che  le  mani  accarezzano,  chiome  entro  le  quali si  smarriscono  i  desiderii come  in  un  la-  birinto incantato.  La  donna  amata  d' amore  platonico  non  ha  occhi,  non  membra,  non  chiome,  e  perchè  le  avrebbe  se  noi  non  possiamo  baciarli  e  possederli  ?  Dio  ha  forse  occhi,  membra  e  chiome  f  Noi  amiamo  platonicamente,  ma  amando  adoriamo;  e  l'adorazione  è  l'estetica  divenuta  affetto  o  l'affetto divenuto  estetica,  o  direi  meglio  è  un  sentimento che aleggia  eternamente  fra  l'ammirazione di  una  bellezza  assoluta e  un  amore  infinito  per  questa  bellezza,  a  cui  non  osiamo  dar  forma,  perchè  anche  questa  ci  sembra  una  profanazione.   L' amore abbraccia  sempre  qualche  cosa,  colle  mani  o  colle braccia,  colle  labbra  o  col  cuore;  l'amore  platonico  non  abbraccia,  perchè  l'infinito  non  si  stringe;  l'amore  platonico,  contempla,  ammira, adora. Siamo  in  piena  estasi  e  in  estasi  permanente:  nessun  carattere  del  rapimento  gli  manca,  non  la fissazione,  non  lo  sprofondarsi  di  tutte  le  sensazioni in  una  sensazione  sola,  non  la  immobilità  per  tensione  di  tutti  i  muscoli  antagonisti,  non  la  ca-  talessi, non  la  insensibilità  per  eccesso  di  sensazione. E le  estasi  son  due:  due  come  le  creature  che  mutuamente  si  contemplano  e  si  adorano;  due  come  le forze,  che  campate  nello  spazio  e  sempre  lontane  si  invocano  e  si  attraggono  e  eternamente  rimangono  fìsse,  senza  avvicinarsi  di  nna  lìnea  né  toccarsi  mai.  In  cielo  fra  gli  astri  avvengono  que-  sti fenomeni che  gli  astronomi  studiano;  nel  cuore  umano  avvengono  gli  stessi  fenomeni  con  leggi  eguali,  con  eguale  miracolo  di  potenza  e  di  bellezza. Se  l'amore  platonico  per  la  sua  alta  idealità  si  avvicina  ai  rapimenti  mistici  dell'asceta,  ha  per  altri  suoi  caratteri  le  profonde  sensualità  del-l'avarizia.   L'avaro  e l'amor  platonico  hanno  questo  di  co-  mune: possedere un  tesoro  che  contemplano,  che  adorano,  ma  che  non  spendono.   Quella  donna  che voi  adorate,  è  d'  altri  o  di  nessuno  in  apparenza,  ma  nessuno  l'ama  come  voi,  per  nessuno  è  bella  quanto  lo  è  per  vói.  I  vostri  sguardi,  le  vostre  aspirazioni,  i  vostri  pensieri  sempre  rivolti  a  lei  la  circondano  d' un’aureola,  che  la  isola  dal  mondo.  Essa  è  chiusa  in  uno  scrigno  invisibile,  ma  non   meno  inviolabile;   in    uno  scrigno  d'oro  e  di  gemme  di  cui  voi  solo  avete  la  chiave.  E  anch'essa,  voi  lo  sapete,  non  ama  che  voi.  È  il  possesso  potenziale,  è  la  proprietà  ideale.  Gosì  appunto  è  dell'avaro:  egli  contempla  quei fasci  di  biglietti  miracolosi  che  possono  a  un  cenno  trasformarsi  in  gioie,  in  lusso,  in ogni  ben  di  Dio.  E  per  volontà  nostra  quella  donna  è  intangibile,  quel  denaro  '  non  si  muove,  ma  quella  donna  è  nostra,  quel  tesoro  è  nostro.  L'amore  platonico,  ricco  com'  è  di  rapimenti,  ci  presenta  allucinazioni  di  trascendente  bellezza.  Nessuno  più  abile  sarto  per  vestire  i  corpi  nudi,  nessuno  più  ardito  per spogliare  i  corpi  vestiti.   Nelle  visioni  dell'  asceta  Dio  appare  (come  vedremo più  innanzi)  in  aspetti  svariati,  ma  sempre  bellissimo;  e  l'adorazione  che  crea  l'immagine  si  raddoppia  neir estasi  d'ammirazione  di  quelle  bellezze. E così è  noli'  amore  platonico,  in  cui  tutte  le  forze del  pensiero,  tutte  le  energie  del  senti-  mento, concentrandosi  in  un  punto  solo,  danno  tali  ali  alla  fantasia  e  tale  energia  al  suo  pennello da trasformare  l'uomo  in  un  poeta  e  in  un  pittore  in  una  volta  sola.  Poeta  che  abbellisce  e idealizza  tutto  ciò  che  tocca;  pittore  che  della  sua  tavolozza  fa  una  verga  magica  che  tntto  riveste di  un'iride  afiascinante.   La  donna  adorata  e  non  posseduta  è  sempre  Venere  per  noi;  Venere  Afrodite  quando  la  fantasia la spoglia,  Venere Urania quando la  fantasia la  ravvolge  nei  densi  veli della  nostra  gelosia e  del  nostro  rispetto.  Nuda o vestita è sempre una  Dea  per  noi,  e  noi  ne  siamo  i  sacerdoti.  Anche  le  sante  vedono  Dio  nudo  nelle  loro  visioni, né quella  nudità  è  meno  casta  o  meno  pudica.  L'amore  platonico è  tutto  un  pudore,  perchè  il  pudore  è  la  riverenza  dell'amore,  è  la  santificazione del  desiderio.    Oh  quante  volte  nei  sileuzii  della  notte  le  tenebre si illuminano  per  noi  alla  luce  mistica  della  fantasia  e  dall'onda  azzurra  d'un  mare  tranquillo  sorge per  incanto  al  fremito  impercettibile  d'una  brezza  che  vien  dal  profondo  una  visione  di  donna.  E  noi  assistiamo  al  mistico  nascere  della  Dea  d'amore,  assistiamo  al  nascer  della  vita.   Estasi  umane,  vili    E  sorge  dall'onda  Spumeggiante  pregna  degli  inebbrianti  e  salsi  aromi  del  mare  la  visione  della creatura  amata,  della  sola  donna  che  per  noi  è  donna,  e  che  nuda  e  casta  come  una  statua  di  Fidia,  lucente  dell'  onda  che  cade  in  mille  perle  su  quella  perla  sola  che  è  il  corpo  di  lei,  s'innalza  fremente  e  flessuosa,  come una  palma  umana;  e  sorge  e  s'innalza sulle  sue  colonne  di  marmo  pario,  inghirlandata  dalle  chiome  fluenti,  che  fanno  piovere  una  pioggia  di  perle  sui  morbidissimi flanchi intomo a  lei  bolle  e  freme  l'onda,  quasi  ebbra  dei  contatti voluttuosi  della  Dea,  e  guizzano  nereidi  e  naiadi  a  farle  corona  di  bellezze  minori,  mentre  angioletti  rosei  svolazzano  all'intorno  di  lei,  im-  pazienti di  accarezzarla  colle  ali  convulse.  E  nes-  suna lascivia scuote  le  nostre  membra  e  nessun  desiderio  osa  turbare  Testasi  di quella  contemplazione. Voi  siete  sempre  in  ginocchio,  col  corpo  o  col  pensiero,  davanti  alla  divina  immagine  che  adorate.    E  altre  volte  Venere  non  esce  dal  mare,  umida  e  calda  delle  sue  feconde  aspergini,  ma  in  un  bosco di allori  sotto  il  cielo  ellenico,  scende  dal  tempio e  passeggia  sorvolando  sull'erba, quasi  statua  che  ubbidisce  all'evocazione  del  suo  creatore  e  ritoma alla  vita.  E  gli  inni  dei  poeti  e  le  corde  d'oro  delle  arpe  eolie  cantano  e  suonano  le  loro  armonie,  facendo  coro  di  ammirazione  e  osanna  di  adorazione alla dea  della  bellezza,  alla  madre  di  tutti  ì  viventi.  E  noi  prostesi  al suolo  baciamo  l'orma  profumata,  che  il  piede  divino  lascia  sui  muschi  vellutati  e  fra  l'erbe  odorose. Ma  terra  e  mare  non  bastano  più  a  fare  cor-  nice alla  nostra  visione  trascendente  e  noi  vediamo la nostra  Dea  farsi  creatura  alata  e spiccare  il  volo  nelle  alte  regioni  del  cielo.  Non  più  carni  rosee  o  colonne  di  marmo  parlo,  ma  la  carne  dive-vni nuto  opale  e  le  membra  trasformate  in  ali.  E  vìa  per  Paria  e gli  spazi  infiniti  del  vuoto,  un  aleggiar  robusto  e  un  ondeggiar  di  chiome,  or  dorate  dai  raggi  del  sole,  or  argentine  al  chiaror  della  luna,  or  buie  come  le  tenebre  degli  abissi.  E  un  fiam-  meggiar degli astri,  che  anch'essi  nell'eterna  pace  dei  secoli,  fremono  alla vista  di  quella  divina  bel-  lezza e  scintillano  più  caldi  e  più  splendidi,  salutando colle  ebbrezze  della  luce  una  creatura  deUa  terra.   E  noi  dietro  a  quella  visione,  convertiti  da  creature mortali in  un  sospiro  di  desiderio  che  vola  e  insegue  la  donna  alata.  La  via  lattea ci  è  guida  al  nostro  volo  audace  e  tra  la  polvere  degli  astri  che  non  abbiam  tempo  di  ammirare  e  fra  gli  abissi  dell'infinito  e  le  meteore  deUo  spazio  cogli  occhi  fissi  a  quella  creatura  che  è  cosa  nostra  e  di  cui  sentiamo  nel  vuoto infinito  il  batter  dell'ali, Siam  rapiti  in  estasi  e  speriamo  di  confonderci e sparire  in  quella  donna,  che  non  è  più  donna,  ma  angelo;  che  non  è  più  angelo,  ma  Dio;  un  Dio creato  dalla  nostra  fantasia  e  dal  nostro  amore.  Sparire  per  sempre  e  con  lei,  come  dicesi  che  le  comete  attratte  dal  sole  si  consumino  in  un  bacio  ardente  come  loro,  ciclopico  come  lo  spazio.   Sparire  e  confondersi, non  ritrovar  più  il  nostro Io,  non  distinguere  più  qua! differenza passi  tra  noi  e  lei,  fra  l'amare  e  Tessere,  fra  l'uno  e  il  due;  non  ricordarsi  della  terra,  del  nascere  e  del  morire, della gioia  e  del  dolore;  non  pensare  altro  pensiero  che  il  pensiero  di  lei,  perdere  tutta  la  coscienza  e tutta  la  memoria,  per  sommergerle  nel  grande  oceano  di  una  sensazione  sola,  l'estasi;  spogliarsi  di  tutte  le  passioni,  dimenticarle  tutte,  per  non  ardere  che  d'una  sola  passione,  l'amore.  L'uomo  e  la  donna  disgiunti sulla  terra,  ricongiunti nel  cielo  e  per  sempre  con  un  bacio  che  non  ha  domani,  con  un  amplesso  che trasforma  le  anime  nella  carezza  di  quattro  ali.    *    Le  estasi  dell'amore  platonico  non  sono  tutte  di  adorazione,  ma  possono  presentarci  le  forme  della  devozione,  del  sagrifizio  spinto  fino  al  mar-  tirio. Allora noi  abbiamo  i  rapimenti  già  descritti  nell'amore  materno,  nell'amor  figliale  e  negli  altri  affetti  minori.  Inutile  ripetizione  sarebbe  quella  di  ritrarre  i  lineamenti  di  questi  quadri  sublimi,  che  tanto  si  rassomigliano. L'ionico  carattere  che  distingue  tutte  queste  forme  svariate  è  quello  di  essere  accompagnato  dall'ardore della  più  calda  delle  passioni,  di  esser  tutto imbevuto  di  quell'amore  che  fu  chiamato  con  questo  nome  senza  aggiunta  di  alcun  agget-  tivo, quasi  prototipo  di  tutti  gli  altri  amori.   L'amore  platonico  può  essere  potente  e  fecondo  di  estasi,  anche  quando  non  è diviso da  un'altra  creatura.  Anche  quando  vibra  in  un  solo  cuore,  anche  quando  contraddice  (rarissima  eccezione)  il  verso  famoso  del  poeta:   Amor  ch'a  nullo  amato  amar  perdona,   può  durare  tutta  la  vita,  può  essere  il  palpito  di  ogni  ora,  il  sogno  d'ogni  notte,  la  religione  mi-  stica di un solo  cuore.  In  questi  casi  soltanto  vi  ha  di  diverso  e  di  caratteristico  una  soave  ma-  linconia, forse  confortata  da  una  speranza  lontana  che  il  nostro  amore,  pur  rimanendo  sempre  pia*  tonico,  8iia  diviso  da  un'  altr'  anima.  Xie  estasi  dell' amicizia. Rapimenti  dell'amor  fraterno.    Anche  senza  il  fascino  del  sesso,  anche  senza  i  vincoli  del  sangue  l'nomo  può  amar  l'uomo  di  quel  sentimento  che  si  chiama  amicizia.  Ho  gii\  parlato  troppe  volte  e  a  lungo  nella  mia  Fisiologia del piacere e  in  altri  miei  libri  più  recenti  dell'amicizia,  né  starò  a  ripetermi.  Qui  non  dob-  biamo occuparci che  di  quelle  rarissime  forme  di  questo  sentimento  che  possono  portarci  fino  al-  l'estasi.   L'amicizia  è  possibile  fra  uomini  e  uomini,  fra  uomini  e  donne,  fra  donne  e  donne;  ma  il  sesso  è  tale  un  elemento  perturbatore  d'ogni  altro  af-  fetto,  che  non  sia  amore,  da  rendere  1'  amicizia  assai  rara  fra  ue persone  di  sesso  diverso,  e  anche  quando  i  sensi  non  parlano  e  nessun  desiderio accompagna  l'amicizia,  questa  è  però  modi-  ficata profondamente  da  quella  tenerezza  irresistibile che l'uomo  ha  per  la  donna,  di  quel  bisogno  di  protezione  che  la  donna  sente  dinanzi  all'uomo.  Ecco  perchè  preferirei  separare  dal  gruppo  delle  Estasi  umane.  L’ amicizie  vere  quella  che  Tuomo  e  la  donna  pos-  sono intrecciare tra  di  loro,  ravvicinando  queste  alla  famiglia  degli  amori  platonici.    V  amicizia  è  un  sentimento  di  lusso  e  noi  lo  vediamo  mancare  affatto  o  presentarci  forme  atrofiche negli uomini  di  bassa  gerarchia  psichica.  Le  sue  energie  sono  deboli,  talché  cedono  subito  il  campo  ad  altri  sentimenti  più  imperiosi  e  che  hanno  una  grande  missione  nel  ciclo  della  vita.  È  anche  per  questo  che  le  donne  ci  presentano  più  raramente  esempio  di  calde  e  tenere  amicizie.  In  esse  l' amore e  la  maternità  occupano  tanta  parte  del  cuore  da  non  lasciare  il  posto  per  altri  sentimenti  minori,  e  d'altronde  la  galanteria  virile  fa  delle  donne  altrettanti  rivali  e  semina  la  gelosia e  inviperisce  le  vanità  e  solletica  la  malizia  e  la  maldicenza;  per  cui  V  amicizia  fra  donne  è  pianta  rara,  che  vive  per  lo  più  vita  breve  e  fra  le  pareti  di  una  stufa  ben  calda  e  custodita.   Che  l'amicizia  sia  una  pianta  di  lusso  lo  prova  il  vederla  fiorire  nell'  età  delle  massime  energie  affettive,  cioè  nella  giovinezza. Col  primo  aocenno di  capelli  bianchi,  col  primo  chinar  della  curva  vitale,  le  amicizie  nuove  sono  molto  rare  e  le  antiche si  conservano  spesso  per  abitudine,  per  ri-  conoscenza, ma  son  fiacche  e  messe  quasi  sempre nel secondo  giro  degli  affetti.   Se  r  amicizia  è  sentimento  raro,  è  tanto  più  delicato  e  si  muove  in  una  sfera  di  altissima  idea-  lità. Intendo  sempre  parlare  della  vera,  della  sublime amicizia,  di  quel  sentimento  che  fa  di  due  nomini  un  nomo  solo,  che  li  unisce  mano  con  mano,  cuore  con  cuore,  anima  con  anima.  Per  lo  più  fra  la  massa  del  volgo  si  chiamano  con  quésto  nome  simpatie  fugaci,  associazioni  d'interessi,  con-  suetudini d'occasione  ed  altre  cose  ancor  più  vol-  gari e più  basse.  Per  questa  via  di  certo  nessun  rapimento  è  possibile.   Ciò  che  dà  il  marchio  di  nobiltà all'amicizia  è V eleziùne che  ne  è  il  midollo  e  lo  scheletro,  che-  ne  è  il  motivo  informatore.  Non  è  soltanto  negli  ordini  politici  che  relezione  sostituita  all'eredità  o  alla  forza  segna  un  gigantesco  progresso:  anche  nel  campò  degli  affetti  l'elezione  è  il  battesimo  che  li  consacra  ad  una  vita  gloriosa,  che  li  tra-sporta dai  bassi  fondi  delle  necessità  organiche  nel  cielo  dell'  idealità.  Neil'  amore,  nell'  affetto  di  patria,  nella  maternità,  in  tutti  i  potenti  affbtti  che  stringono  l'uomo  coi  vincoli  della  famiglia,  vi è  un  vigore  irresistibile,  vi  è  una  forza  trascen-  dente, ma  nello  stesso  tempo  noi  ci  sentiamo  ra-  piti dal fato,  dalla  necessità:.  Siamo  ben  felici  di  questa  cara  necessità,  Ina  V Io,  sempre  superbo,  sente  qualcosa  più  forte  di  lui  e  riverente  s' inchina e  ubbidisce  alle  leggi  della  natura.   Nell'amicizia  invece  nulla  di  tutto  questo:  nessun fato,  nessuna  necessità,  nessuna  tirannia  d'uomini, di cose  o  di  tempi.  Due  anime  umane  si  incontrano  nel  viavai  della  folla,  si  contemplano  e  s'intendono.  Un  riso  sorriso  in  due,  una  lagrima  pianta  in  due,  un  grido  d'  entusiasmo  escito  prorompente, irresistibile  in  uno  stesso  momento  da  due  petti  umani,  avvicina  i  cuori  e  stringe  le  destre.  Son  due  note  musicali,  che  partito  da  due.  strumenti  lontani  si  sono  incontrate  per l’aria,  formando  un  accordo  d'armonia.   E  quello  stringersi  delle  mani  rivela  nella  sua  espressione  semplicissima  tutta  la  psicologia  più  fine e  più  profonda  dell'amicizia.  In  amore  son  le  labbra  che  tendon  Farco  e  si  cercano;  in  amore  son  le  viscere  che  si  intrecciano  e  si  fecondano:  neir  amicizia  son  le  mani,  che  si  cercano  e  si  stringono;  gli  istrumenti  del  pensiero  e  dell'azione.  Sentire  insieme  e  sentire  egualmente,  ammirare  le  stesse  cose  e disprezzare  gli  stessi  uomini,  par-  lare commossi  cogli  stessi  i)oeti  e  benedire  con una  voce  sola  lo  stesso  sole,  ci  fa  parenti  nelle  anime,  come  in  amore  le  simpatie  fanno  di  due  sangui  un  sangae  solo,  di  dae  desiderii  un  desiderio solo, e colla fiisione intima di due esistenze, creano una terza vita.  L'amicizia  è  una  parentela  d'elezione,  è  un  amore  delle  anime,  è  un  sentire  il  proprio pensiero  sommato a un  altro;  i  proprii  sentimenti,  le  proprie  simpatie,  le  proprie  aspirazioni  ripercossi  sempre  dall'eco  affettuosa  di  un'altra  simpatia,  di  un'altra  natura  umana,  che  risponde  alla  nostra.  Dolcezze  ineffabili,  voluttìi  di  altissima  sfera,  che  fanno  l'uomo  superbo  d'esser  uomo.   Questo  consenso  non  cercato  ma  trovato,  questo combaciarsi  intero  e  completo  di  due  anime,  questo  libero  matrimonio  di  due  nature  umane può  bastare a rapirci  in  estasi  ;  quando  soprattutto  ci  rifugiamo  in  seno  all'  amicizia  per  sfug;^ire  dagli  urli  del  profanum  vulgus;  quando  siamo  inseguiti  dal  latrato  dei  cani  ;  quando  ci  sentiamo  asfissiati  dal  lezzo  del  fango  in  cui  pur  troppo  dobbiamo  le  tante  volte  camminare  e  sommergerci.  È  allora  che  l'oasi  dell'amicizia ci  stende  la  sue  braccia  e  ci  involge  colle  sue  ombre  profumate,  colle  sue  brezze  inebbrianti,  e  proviamo  la  santa  gioia  di  chi  escito  da  una  cloaca  immonda  e  oscura,  si  trova  nell'aperto  cielo  in  mezzo  alla  luce,  all'aria pura;  fors'anche  fra  il  profiimo  dei  fiori  e  il  sorriso dei bambini.   L'estasi  di  due  amici  che  si  comprendono,  che  ^i  stringon  le  mani.  che  si  guardan  negli  occhi,  leggendovi  riflessa  Pimmagine  di  so  stessi,  è  muta  come  quasi  tutti  i  rapimenti  della  vita.  É  muta  ed  è  profonda:  è  serena  eie  azzurra.  Non  si  sa  eome  incominci  e  dove  finisca;  appunto  come  noi  non sappiamo,  guardando  in  alto,  dove  il  cielo  incominci  e  dove  esso  finisca.  Tiriamo  profondo  profondo  il  respiro,  perchè vorremmo quasi ingrandirci di dentro,  come  ci  sentiamo  raddoppiati  di  fuori;  e  il  nostro  Io  si  confonde,  si  sprofonda  con  un'altra  coscienza,  quasi  due  parti  di  un'anima  sola,  che  separate  dalla  violenza,  incontratesi  nello  spazio,  ritornano  ad  essere  una  cosa  sola.  In  quei  momenti  beati  ogni  confine  ben  definito  della  coscienza  si  ofiftisca  e si  sperde  :  ci  pare  di  essere  due,  perchè  godiamo  sentimenti,  bellezze,  splendori el  vero  o  del  buono  in  due;  ci  par  di  essere  uno,  perchè  sentiamo  vibrare  due  coscienze  in  unacocienza  sola;  perchè  le  due  anime  si  son abbrao-  -ciate e  strette  e  confuse  in  un'anima  sola.  Sante  e  care  e  dolci  ebbrezze  dell'amicizia,  che  si  elevano  per  la  loro  purezza  nelle  sfere  più  alte  dei  sentimenti  umani.  Se  sono  men  calde  di  quelle  dell'amore,  sono  però  più  durevoli  e  serene;  se  vi  è  meno  volutto,  vi  è  più  pensiero;  se  vi  è  meno  fuoco,  vi è  più  luce. Ma  perchè  questi  sterili  e  vani  confronti?  Perchè sagrificare  anche  noi  a  quel  maledetto  gallo  d' Esculapio,  che  costringe  sempre  l’uomo  a  confrontare le  cose  che  studia  e  descrive?  Forse  che  si  pota risolvere  il  problema la  rosa  sia  più  bella  del  giglio,  lo  zafiBro  più  splendido  del  diamante, il cavallo  più  bello  del  leone?  Lasciamo  ogni  bellezza  al  suo  posto  e  non  tormentiamo  le  creature  del  nostro  pianeta,  facendole  passare  sotto  le  forche  caudine  delle  nostre  gerarchie.  La  natura  feconda  e  generosa  non  ha  mai  scrìtto  dei  numeri  sulle  proprie  creature:  nessuna  prima,  nessuna ultima, e  il  muschio  microscopico  che  nasce  e  fiorisce  fra  le  fessure  del  tronco  d' una  palma  superba,  è  bello  quanto  l'albero  maestoso  che  le  offre  l'ospitalità;  e  la  stretta  di  mano  dell'amicizia  è  cara  quanto  lo  stringersi  insieme delle labbra innamorate.  Le  estasi  dell'amicizia  sono  di  varie  forme,  ma  quasi  tutte  possono  ridursi  a  queste  due:  estasi  di  simpatm  e  estasi  di  conforto.   Delle  prime  ho  parlato  fin  qui,  riducendole  ad  un'espressione  sola.  Le  altre  sono  più  facili  e  più.  comuni.  Esse  non  sono  che  estasi  di  carità  rese  più  intense,  più  cald,  più poetiche,  perchè  il  sentimento che  le  ispira  è  di  più  alta  natura.  Nella  carità  facciamo  il  bene  agli altri,  solo  perchè  uomini; all'amico  diamo  tutto  noi  stessi,  per  lui  facciamo i  maggiori  sagrifizii,  perchè  uomo  e  perchè  amico.   Dall'elemosina  che  ci  umilia  e  può  anche  avvilirci, incomincia  una  scala  ascendente  e  che  ha  mille  gradini  e  pei  quali  si  sale  alle  forme  più  squisite  della  beneficenza.   Sulla  più  alta  cima  sta  sempre  1'  amicizia,  che  conforta  e  aiuta  e  soccorre  senza  umiliare  e  porge  il  dono  con  tale  delicatezza,  che  mal  sapresti  dire,  se  sia  più  prezioso  il  dono  o  più  caro il  modo con  cui  ti  vien  presentato.    ESTASI  dell'amicizia  Impiccolire  il  sagrifizio  fino  a  nasconderlo  affatto, mostrare  che  chi  dà  è  invece  colui  che  riceve, ohe  il  donatore  rimane  debitore  ;  nascondere  nella  gioia  di  dare  l'orgoglio  di  dare  e  soffocare  fin  dal  suo  nascere l' involontario rossore  di  chi  riceve,  sono  altrettanti  miracoli  che l’amicizia  compie  colla  massima  agilità ,  colla  maggiore  naturalezza di  questo  mondo.   Indovinare  il  dolore  anche  senza il  pianto, presentire l'imbarazzo quando  nessuno  lo  sospetta,  prevedere  la  sventura  prima  che  arrivi,  il  pericolo  prima  che  l'allarme  sia  dato,  non  attender  mai  che  la  mano  si  stenda  a  voi,  ma  stendere  la  vostra  e  nella  stretta  di  mano  nascondere  il  benefizio,  sono  le  prime  lettere  dell'  alfabeto  dell'  amicizia;  son  problemi  elementari che  il  cuore  risolve  di  primo  acchito  e  senza  bisogno  di  studiare  la  matematica.   Davvero  che  in  questi  ca^i  è  diflBcile  dire  chi  più  goda  dei  due,  chi  primo  arrivi  al  rapimento  del  benefizio  fatto  o  della  riconoscenza  caldissima.   L'uno  ha  preveduto,  ha  presentito,  ha indovi-nato. L'  amico  soffre  ed  io  posso  far  tacere  quel  dolore.  L'amico  ha  bisogno  di  soccorso,  di  con-  forto, ed  io  sarò  quei  fortunato  che  potrò  soccorrere e  confortare.  Il  cuore  batte  forte  forte  in  petto,  le  mani  tremano  per  1'  emozione  e  un sorriso involontario e  angelico  corre  sul  nostro  volto.  Tutti  gli  artificii  più  astati  sono  da  noi  adoperati  per  far  sembrar  facile  ciò  che  è  difficile,  naturale  ciò  che  forse  è  per  noi  un  doloroso  sagrìflzio. Nessuna astuzia è  più  raffinata,  nessuna  ipocrisia  più  opaca,  nessuna  fantasia  più  immaginosa  di  quella  che  adopera  l'amico  per  occultare  il  benefizio,  per  giungere  in  tempo;  per  abbellire  la  carità  collo  splendore  della  sorpresa.  Il  dono  dell'amico  è  un  fiore  bello  e  profumato  che  ci  presenta  la  mano  di  un  bambino,  innocente e  giulivo  come  la  bontà  sempre  aperta  dell'uomo  generoso,  rìdente  come  tutte  le  primavere  della  vita  e  della  natura.   E  chi  riceve  ed  è  costretto  a  non  vergognarsi  di  ricevere  e  chi  indovina  tutte  le  sante  astruserie  e  i  fini  accorgimenti  che  accompagnano  V  opera  del  conforto  e  chi  misura  tutta  1' altezza dell'  anima  che  corre  soccorrevole  a  noi,  rimane  confuso  e  commosso  e  dallo  strazio  della  disperazione  è  portato  di  volo  alla  beatitudine  più  sicura  e  più  alta.  L'amico  ci  ha  indovinato  e  l'amico  risponde  con  un'onda  di  riconoscenza;  il  sorriso  di  chi  fa  il  bene  è  nobile  come  il  sorriso  di  chi  lo  riceve,  e  due estasi  si  confondono  in  un'estasi  sola.   Chi  più  felice  dei  due?  Nessuno.  Chi  più  grande?  Nessuno. Quale  il  debitore,  quale  il  creditore?  Nessuno  dei  due;  o  entrambi  creditori,  entrambi  debitori.  Chi  più  bello  del  sole  che  illumina  o  della  terra  che  è  baciata  dal  sole!  Chi  più  bello  del  cielo  che  si  specchia nel mare  o  del  mare  che  si  fa  azzurro  al  sorriso  del  cielo?  Chi  più  dà  e  più  riceve della  gloria  dei  grandi  o  del  riflesso  d' amicizia che  le  turbe  innalzate  dal  genio  rimandano  al  sole  del  pensiero? Beata  ignoranza  codesta,  di  non  poter  distinguere  due  bellezze  che  si  fondono in una  bellezza  sola  ;  due  gioie  che  si unificano ìa una  voluttà  sola;  due  grandezze  che  si  sperdono  e  si  consumano  in  una  sola   immensità.   Non  malediciamo  la  vita,  se  questa  ci  lascia  lo  spazio  e  il  tempo  per  essere  uno  di  questi  amici  o  per  assistere  ad  una  di  queste  scene  del  mondo  morale.  Quante  bassezze,  quante  viltà,  quanto  fango  si  devono trovare nei  sentieri  pedestri  della  vita  por  dimenticare  uno  di  quei  quadri,  quante  tenebre ci  vorranno  per  cancellare  tanta  luce,  quanto  male  per  far  dimenticare  tanto  bene!  Nessun  fiume,  per  fangoso  che  sia,  ha  potuto  togliere  all'oceano  le  sue  trasparenze;  nessun  sofiQo  di  uomo  ha potuto spegnere  il  sole,  nessun  gelo  Tha  mai  potuto  raffreddare! L'affetto che  ravvicina  i  nati  tVuno  stesso  padre  e  d'una  stessa  madre,  esiste  abbozzato  anche  negli  animali.  Gli  uccellini  allevati  in  uno  stesso  nido,  spesso  anche  quando  Thanno  abbandonato,  vivono  assieme  e  si  amano:  spesso  anche  le  scimmie  ed  altri  mammiferi  sentono  di  essere  fréitelli,  ma  queste fratellanze son  pallide  e  di  piccola  durata.  I  colpi  di  fucile del cacciatore crudele,  i  lunghi  viaggi,  i  nuovi  amori,  spezzano  ben  presto  i  vincoli di  fratellanza,  e  dopo  pochi  giorni,  o  poche  settimane,  o  pochi  mesi,  secondo  i  casi;  ogni  riconoscimento di uno  stesso  sangue  si  dilegua  e  scompare.  I  fratelli  possono  intrecciare  un  nuovo  nido,  un  incestuoso  amore,  o  possono  farsi  la  più  spietata  guerra.   Anche  fra  gli  uomini  l'amore  fraterno  è  spesso  pallido  e  non  presenta  che  deboli  energie;  i  molti  cuculi  deposti  nel  nido  d'una  famiglia,  le  antipatie  e  le dissonanze dei  caratteri  troppo  frequenti  ad  onta  della  comune  genealogia,  le  lotte  d'interesse  opposto,  le  lunghe  e  necessarie  assenze  imposte  dalle  vicende  della  vita,   sono   altrettante  cause l'amoe  fraterno che  possono  rallentare  o  rompere  le  catene fraterne. Fra fratello  e  fratello,  fra  sorella  e  sorella  si  aggiunge  poi  la  ruggine  delle  gare  di vanità  e  di  emulazione,  e  questa  ruggine  corrode  più  ohe  la  lima  di  forti  passioni.  Per  tutte  queste  ragioni  i  forti  amori  fraterni  son  rari,  rarissime  le  estasi  affettive.   Oserei  però  dire  che,  meno  rare  eccezioni,  Tamore fraterno  non ci  mostra  scene  commoventi  e  sublimi,  che  quando  è  rafforzato  dalla  simpatia  dei  sessi  opposti.  Earo  V  affetto  intenso  fra  due  fratelli,  forse  più  raro  ancora  quello  fra  due  sorelle;  più  comune  invece  il  sentimento  che  lega  il  fratello  alla  sorella.   Quando  fratello  e  sorella  si  amano  davvero,  si amano  molto, il  sentimento  che  li  unisce  è un'amicizia resa ancor  più  calda  dalla  comunanza  del  sangue  e  può  giungere  a  tanta  forza  e  a  tanta  idealità  da  avvicinarsi  assai  all'  amore  platonico.  Son  due  creature  che  non  possono  amarsi  d'amore,  perchè  troppo  rassomiglianti,  perchè  esciti  dalle  stesse  viscere,  perchè  hanno  ricevuto  il  primo  bacio  dalle  stesse labbra,  perchè hanno  succhiato  dallo  stesso  seno  quel  secondo  sangue  che  è  un  secondo  vincolo  di  parentela.  E  poi  son  cresciuti  insieme,  hanno  respirato  i)er  tanti  anni  l'aria  dello  stesso  nido,  hanno   dormito   tra   le   pareti  della Stessa  casa,  hanno  pregato  sotto  la  vòlta  della  stessa  chiesa,  hanno  pianto  le  tante volte  insieme; hanno  diviso  i  terrori  infantili,  si  sono  inebbriati  insieme  nelle  feste  dell'  infanzia  e  insieme  hanno  subito  le  procelle  dell'adolescenza  e  della  prima  giovinezza.  Come  e  perchè  non  si  amerebbero  quelle  due  creature,  che  vedono  a  vicenda  rispecchiata tanta parte di  sé  stesso  nel  cuore  e  nel  pensiero  dell'altra? La  comunanza  delle  memorie  è  parentela  del  cuori  e  ad  essa  basta  un  cenno,  un  sorriso,  una  parola  per  rifare  quei  viaggi poetici e affascinanti nel  tempo  che  fu.  Quei  due  forse  hanno  già  passata  più  che mezza  la  vita  insieme,  fors'anche  hanno  insieme  composto  nella  fossa  il  loro  babbo  e  la  loro  mamma,  e  in  un  certo  giorno  dell'anno,  anche  lontani  e  senz'essersi  chiamati, si trovano insieme  sopra  una  stessa  tomba.  E  come  e  perchè  quelle  due  creature  non  si  ame-  rebbero; non  si  amerebbero  molto;  non  si  amerebbero sempre?   La  nostra  sorella  slam  noi  stessi  incarnati  in  un  sesso  diverso  e  quando  in  essa  noi  vediamo  riprodotti i nostri lineamenti,  rifatti  gli  stessi  gesti,  riprodotti  gli  stessi  gusti,  le  stesse antipatie;  sor-ridiamo di  compiacenza,  esclamando:  s'io  fossi  una  donna,  sarei  lei!   E  la  nostra  sorella  non  solo  ci  rassomiglia  nel volto,  nei  gesti,  ma  desidera  le  stesse  cose, sorride degli stessi scherzi,  ha  come  noi  qnelle  stesse  debolezze,  delle  quali  dobbiamo  spesso arrossire.  E  si  ride  insieme,  e  si  arrossisce  insieme,  dicendoci nell'orecchio  :  Anche  tuf  —  8Ì  anch^io!   E  la  nostra  sorellina  (che  sorellina  è  sempre  ogni  sorella,  quando  è  molto  amata),  e  la  nostra  sorellina rassomiglia tanto alla  nostra  mamma,  che  la  si  direbbe  la  mamma  ringiovanita.  Essa  ha  per  noi  tenerezze  materne,  indulgenze  materne;  essa  ci  può  abbracciare  e  baciare,  benché  essa  sia  una  donna.  Quanto  è  indulgente  e  buona!  —  Con  lei  possiamo  sfogare  le  nostre  bizze,  confessare  i  nostri rancori; con lei  possiamo  dividere  tutte  le  amarezze  dell'  orgoglio  offeso,  dell'  ambizione  delusa ,  delle  speranze  svanite.  Essa  non  e'  invidia ma ci ama. Essa non riderà di noi, né ci vorr.Y consolare coll’accusarci fattori della nostra sventura. Essa è donna e con noi quasi madre; nessuna osservazione, nessun rimprovero prima di averci medicati e guariti. Nessuna domanda importuna o impertinente prima di averci fasciata la ferita. Possiamo essere più vecchi di lei; essa ci tratterà sempre come bambini, sarà capace perfino di  prenderci fra le sue  braccia  e  di  farci  la  ninna  nanna.   E  la  sorella  si  getta  fra  le  braccia  del  fratello.  come  non  può  fare  colle  braccia  di  nessun  altro  uomo.  Del  marito  ha  suggezione,  del  padre  ha  rispetto;  davanti  al  figlio  vuol  essere  infallibile.  Il  fratello  invece  non  è  né  marito,  né  padre,  né  figlio, ma  un po' di tutto questo. Egli è un uomo e la sorella può appoggiarsi a lui come alla forza che protegge e difende. Egli é un uomo, ma non sarà mai un giudice severo,  perchè anch' egli prima di gridare al peccatore, vorrà guarire il peccato e risanare la ferita. La sorella è sicura che il fratello di lei avrebbe peccato come lei, s'egli si fosse trovato nelle stesse circostanze ed essa è sicura di trovare una grande  indulgenza,  una misericordia grande come quella del Cristo. Ma non occorre peccare per rifugiarsi fra le braccia fraterne del figlio  della  nostra  mamma.  Il  fratello  ha  piti  ingegno  di  noi,  più  di  noi  ha  studiato  e  vissuto.  Egli  ci  darà  la  luce  per  camminare nelle tenebre della vita,  egli  ci  darà  un  braccio  poderoso  per  appoggiarsi,  egli  sarà  la nostra bussola nel  gran  mare  delle  umane  dubbiezze.  E  che  faresti  tu  In  questo  caso  f  Come  esciresii  tu  da  questo   labirinto  f  Dimmi  se   io   ho  fatto   benet  Dimmi  vi  è  ancora  un  rimedio  a  tanto  male  f  „   E  le  domande  si  succedono  le  une  alle  altre,  senza  attender  risposta  e  le  risposte  diventan  altrettante domande; ed è un affollarsi confuso e prorompente di  parole,  di  sorrisi,  di  lagrime:  e  sono  abbracci  che  interrompono  domande  e  risposte  e  sono  baci  che  valgono  più  d'un  volume  di  ragionamenti  e  son  singhiozzi  che  taciono  alla  soavità  d'una carezza e son carezze che vogliono  esser  rimproveri  e  rimangono  invece  carezze  dolcissime  e  sono  due  anime  di  uomo  e  di  donna,  che  possono  vedersi  nudi  l'un  l'altro  senza  arrossire,  perchè  non  hanno  sesso  e  sono  come  Adamo  ed  Eva  prima  che  avessero  bisogno  di  coprirsi  delle  foglie  dell'albero mistico dell'Eden.  n questi casi e in altri consimili  la  commozione  può  giungere  fino  al  rapimento,  e  l'estasi  si afferma con tutti i suoi  caratteri  di  isolamento  dal  mondo  esterno  e  di  concentrazione  di  tutte  le  forze  del  sentimento  e  del  pensiero  in  un  punto  solo  del  mondo  psicologico.  Beati  coloro  che l’hanno  Estasi  liman, provata,  fosse  poi  gioia  che  prendeva  il  posto  d'un  grande  dolore  o  gioia  che  si  faceva  cento  volte maggiore,  perchè  si moltiplicava  colla  igioia  d'  nn'  anima  sorella.   L'amore  fraterno  è  un  sentimento  di  lusso,  tanto  è  vero  che  è  appena  abbozzato  e  fuggevole  negli  animali  e  così  pure  è  debole  nelle  razze  e  nelle  nature  inferiori.  I  sentimenti  di  lusso  sono  i  più  indistinti,  quelli  che  hanno  frontiere  meno sicure,  per  modo che si confondono  facilmente  con  altri  affetti  di  analoga  natura.  L'amore fraterno confina  coir  iimore  platonico  e  coli' amicizia,  e  tanto  è  vero  che  spesso  udiamo  escire  dalle  labbra  commosse  di  due  amici,  che  non  pensan  punto  a  far  della  psicologia,  questi  gridi  dell'anima:   Io  il  amo  più  che  un Fratello. Tu mi sei  più  fraUllo  che  amico. La  nostra  amicizia  è  una  vera  fratellanza  delle  anime. Noi non siamo  amici  ma  frnt4ilU!   E  d' altra  parte  non  di  raro  due  fratelli  escla-  mano alla  lor  volta. Ma  il  nostro  affetto  è  una  santa  amicizia. Ma  anche  senza  i  lincoli  del  sangue  noi  saremmo  due amici. Se mi fosse permesso tentare di  distinguere  il caratt-ere proprio delle estasi dell'amicizia  e  quello  dei  rapimenti  dell'affetto  fraterno,  direi  che  nel  primo  caso  vi  è  una  grande  fratellanza  nell'urna-  nità  che  ci  eleva  al  disopra  del  volgo  e  che  nel  secondo  la  voce  del  sangue  ci  tiene  più  vicini  al  nido  e  quindi  piti  caldi,  più  commossi,  più  inteneriti. Nei rapimenti dell'amicizia  vi  è  più  pensiero, in  quelli  dell'affetto fraterno vi è  più  viscere.Nei primi  la  differenza  di  sesso  turba  l'estasi  o  la  porta  in  altre  regioni,  nei secondi invece questa differenza è quasi sempre necessaria e contribuisce assai ad accendere i cuori, ad affinare, a intenerire, a commuovere gli animi che salgono  insieme in  quest'Olimpo del sentimento. Descrivere  tutte  le  possibili  estasi  umane  s.irebbe  dar  fondo  all'universo  psicologico  e  nessuna  forza  d'uomo  vi  basterebbe. Io mi accontenterli accennare ad alcuni rapimenti dell'affetto fratemo:  altrettanti  quadri  presi  dal  vero  e che potrebbero ispirare il poeta, il pittore, lo scultore.Due fratelli vivono in paesi lontani Uun dall'altro e vengono a conoscere per via indiretta, che il babbo si trova in grave imbarazzo di afifari commerciali. Accorrono non chiamati, si incontrano sulla soglia della casa paterna. Si sorprendono, si  interrogano. Son  venuti  per  la  stessa  ragione  chiamati  dalla  stessa  voce  interiore.  Hanno pensato la stessa cosa, lo stesso piano, gli stessi progetti per salvare l'onore del padre. Lo possono fare e lo faranno. Esaltati, commossi, si gettan nelle braccia l'un dell'altro e godono un soavissimo rapimento dell'anima. Due fratelli che lavorano insieme, hanno pensato uno stesso libro, senza scambiarsi una sola parola. Venuti a comunicarsi a vicenda i loro progetti, si trova che essi si incontrano e si combaciano.Lo stupore diventa ammirazione, l’ammirazione contentezza, beatitudine. Essi si abbraccino, si inebbriano della gioia di aver fusi due pensieri in un solo pensiero. I fratelli De Goncourt devono aver provato più volte quest'estasi deliziosa. Due sorelle hanno perduto runico fratello, vedovoe  padre  di  numerosa  famiglia.  Sul cadavere del  caro  perduto  suggellano un bacio in due,  che  è  conclusione  d'un  giuramento fatto  in silenzio, nello stesso momento. Esse non prenderanno marito,esse daranno tutto il loro tempo, il loro dinaroai nipotini che fanno loro figlinoli, che si stringono al seno in uno slancio di carità generosa. Quelle due anime beate di aver pensato in uno stesso istante la stessa cosa si abbracciano,  si stringon forte forte  cuore  contro  cuore; confondono lagrime, singhiozzi, sorrisi e godono una delle estasii fraterne più complesse e più alte che possa godere anima umana. Una donna è tradita, tradita nel santuario della famiglia, precipitando nella disperazione dall'alto d'ana felicità senza nubi.Tutto si oscura, l’aria diviengelo, la terra spine, il cielo un'uragano. Essa ha un fratello, le scrive una parola sola: Vieni e mi salva! Ma il fratello  ha saputo la sventura piombata sul capo della sorella, prima ancora che la lettera fosse scritta. Suona un campanello, si apre un uscio, vi si precipita un uomo. La sorella lo guarda, non sa piangere e non può ridere. Gli porge la lettera ancora umida dall'inchiostro ed egli legge quelle quattro parole e neppur lui può ridere o piangere o parlare. Perchè quei due fortunati non cadrebbero in estasi in quel momento? Due naufraghi iV una fiera procella della vita son rimasti soli nel mondo. La donna in un mese ha perduto tuttii figliuoli uccisi dalla difterite, ruomo era solo ed è divenuto cieco. Quei due non  hanno più né padre, né  madre, né zii, né cugini, ma essi son fratello e sorella. Questi hanno attraversato continenti e mari e si sono abbracciatiper non separarsi più mai. Perché non cadrebberoessi in estasi? L'estasi è sempre uno stato eccezionale, passeggero,e la più partedegli uomini non l'hanno mai provato.Taluni piìl rozzi e incolti durano fatica anche a immaginarselo. La sua bella etimologia greca f x-a radice, lo star fuori, esprime mirabilmente questo concetto. La parola di estasi è dunque greca, e i greci pia poeti dei latini, dovettero conoscere meglio di questi uno stato di trascendente idealità. I romani, gente positiva, patica, popolo d'azione, non conobbero Vestasi, ma l'indicarono con perifrasi diverse : mentis excessu, animi abalienatio. Tommaso Campailla. Keywords: oposcolo, ecstasi, estasi, animis abalienation, mentis excessus. discorso disordinato, discorso ordinato, discorso umano, uomo, vita. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Campailla” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Campanella: l’implicatura conversazionale del katùndi dialit -- utopia italiana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Stilo). Filosofo italiano. Grice: “One has to take Campanella seriously; admittedly, an Oxonian will focus on More, but Campanella is closer to Plato! I especially like that the walls of the city of “Sol” – it’s a proper name for the prince, not the sun! – have all the semiotic elements of the semiotic systems by which the ‘solari’ communicate – Campanella designs a very Griceian model based on ‘efficiency’ and LOVE! There’s ibenevolence everywhere – indeed, it is Campanella’s Sol’s City that I was thinking when inventing the principle of conversational benevolence to be spoken in the City of Eternal Truth!” -- one of the most important of the Italian philosophers.  H. P. Grice enjoyed his philosophical poems. Tommaso Campanella, al secolo chiamato Giovan Domenico C., noto anche con lo pseudonimo di Settimontano Squilla (Stilo), filosofo, teologo, poeta e frate domenicano italiano. Giovan Domenico Campanella nacque a Stilo, un piccolo borgo della Calabria Ulteriore, al tempo parte del Regno di Napoli (attualmente in provincia di Reggio Calabria) come egli stesso più volte afferma nei suoi scritti e come dichiarò il 23 novembre del 1599 nel carcere di Castel Nuovo a Napoli, al giudice Antonio Peri: «son di una terra chiamata Stilo in Calabria Ultra, mio padre si domanda Geronimo C. e mia madre Caterina Basile». Fino al 1806 si conservava anche l'atto di battesimo nella parrocchia di San Biagio, borgo di Stilo, così redatto: «Battezzato Giovan Domenico C. figlio di Geronimo e Catarinella Martello, nato il giorno da me D. Terentio Romano, parroco di S. Biaggio nel Borgo». Il padre era un ciabattino povero e analfabeta che non poteva permettersi di mandare i figli a scuola e Giovan Domenico ascoltava dalla finestra le lezioni del maestro del paese, segno precoce di quella voglia di conoscenza che non l'abbandonò per tutta la vita.  La famiglia si trasferì nella vicina Stignano e il padre pensò di mandare il figlio presso un fratello, a Napoli, perché vi studiasse diritto, ma il giovane Campanella, per il desiderio di seguire corsi regolari di studi e abbandonare un destino di miseria, più che per una reale vocazione religiosa, decise di entrare nell'Ordine domenicano. Novizio nel convento della vicina Placanica, vi fece i primi studi e pronunciò i voti a quindici anni nel convento di San Giorgio Morgeto, assumendo il nome di Tommaso (in onore di san Tommaso d'Aquino), continuando gli studi superiori a Nicastro e poi, a vent'anni, a Cosenza, dove affrontò lo studio della teologia.  L'istruzione ricevuta dai domenicani non lo soddisfaceva e non gli era sufficiente: «essendo inquieto, perché mi sembrava una verità non sincera, o piuttosto falsità in luogo della verità rimanere nel Peripato, esaminai tutti i commentatori d'Aristotele, i greci, i latini e gli arabi; e cominciai a dubitare ancor più dei loro dogmi, e perciò volli indagare se le cose ch'essi dicevano fossero nella natura, che io avevo imparato dalle dottrine dei sapienti essere il vero codice di Dio. E poiché i miei maestri non potevano rispondere alle miei obiezioni contro i loro insegnamenti, decisi di leggere da me tutti i libri di Platone, di Plinio, di Galeno, degli stoici, dei seguaci di Democrito e principalmente i Telesiani, e metterli a confronto con il primo codice del mondo per sapere, attraverso l'originale e autografo, quanto le copie contenessero di vero o di falso».  Fu in particolare il De rerum natura iuxta propria principia di Bernardino Telesio una rivelazione e una liberazione insieme: scoprì che non esisteva soltanto la filosofia scolastica e che la natura poteva essere osservata per quello che è, e poteva e doveva essere indagata con i mezzi concreti posseduti dall'uomo, con i sensi e con la ragione, prima osservando e poi ragionando, senza schemi precostituiti e senza mandare a memoria quanto altri credevano di aver già scoperto e di conoscere su di essa. Era il 1588 e Telesio, che da anni era tornato a vivere nella nativa Cosenza, vi moriva ottantenne proprio in quei giorni. Il neofita frate entusiasta non poté sottrarsi a deporre sulla bara, nel duomo, versi latini di ringraziamento devoto. Quelle che dai suoi superiori furono considerate intemperanze gli costarono il trasferimento nel piccolo convento di Altomonte, dove tuttavia il C. non rimase inattivo: la segnalazione di alcuni amici, che gli mostrarono il libro di un certo Jacopo Antonio Marta, napoletano, scritto contro l'amato Telesio, lo spinse a replicare e concluse quella che è la sua prima opera, la Philosophia sensibus demonstrata, pubblicata a Napoli due anni dopo.  In essa C. ribadì la sua adesione al naturalismo di Telesio, inquadrato però in una cornice neoplatonica, di derivazione ficiniana, per la quale le leggi della natura non mantengono più la loro autonomia, come in Telesio, ma sono spiegate dall'azione creatrice di Dio, dal quale deriva anche l'ordine provvidenziale che governa l'universo: «chi regola la natura è quel glorioso Iddio, sapientissimo artefice, che ha provveduto in modo da non reprimere le forze della natura, nella quale tuttavia agisce con misura».  C. non poteva rimanere a lungo ad Altomonte: abbandona il convento calabrese e se ne andò a Napoli, ospite dei marchesi del Tufo. Nella capitale del viceregno, pur non abbandonando l'abito di frate, fu tutto inteso ad approfondire i suoi interessi neoplatonici e scientifici, che allora erano connessi strettamente con gli studi alchemici e magici: «scrissi due opere, l'una del senso, l'altra della investigazione delle cose. A scrivere il libro De sensu rerum mi spinse una disputa avuta prima in pubblico, poi in privato con Porta, lo stesso che scrisse la Fisiognomica, il quale sosteneva che della simpatia e dell'antipatia non si può rendere ragione; disputa con lui avuta appunto quando esaminavamo insieme il suo libro già stampato. Scrissi poi il De investigatione rerum, perché mi pareva che i peripatetici ed i platonici portassero i giovani per una via larga ma non diritta alla ricerca della verità». Il De sensu rerum et magia, iniziato a scrivere in latino, fu completato e dedicato al granduca di Toscana Ferdinando I de' Medici; sequestratogli il manoscritto a Bologna dal Sant'Uffizio, fu riscritto in italiano, tradotto in latino  e pubblicato finalmente a Francoforte. C. vi persegue una sintesi di naturalismo telesiano e di platonismo: a Democrito e ai materialisti rimprovera di voler far derivare l'ordine del mondo all'azione degli atomi, che non hanno sensibilità, e agli aristotelici la mancata iniziativa di Dio nella costituzione della natura. D'altra parte egli non intende nemmeno sacrificare l'autonomia delle forze che agiscono nella natura, pur se la spiegazione ultima delle cose va ricercata nella primitiva azione divina.  Secondo C., i tre principi, materia, caldo e freddo, di cui è composta la natura, sono frutto della creazione divina: «Dio prima fece lo spazio, composto pure di Potenza, Sapienza e Amore e dentro a quello pose la materia, che è la mole corporea. Nella materia poi Dio seminò due principi maschi, cioè attivi, il caldo e il freddo, perché la materia e lo spazio sono femmine, principi passivi. E questi maschi, da codesta materia divisa, combattendo, formano due elementi, cielo e terra, che combattendo tra loro, dalla loro virtù fatta languida nascono i secondi enti, avendo per guida della generazione le tre influenze, la Necessità, il Fato e l'Armonia, che portano l'Idea».  Le tre primalità (primalitates)che corrispondono alle tre nature divinecostituiscono il triplice carattere di ogni essere: Dio «ha dato a tutte le cose potenza di vivere, sapienza e amore quanto basti alla loro conservazione. Dunque il calore può, sente e ama essere, e così ogni cosa, e desidera eternarsi come Dio e attraverso Dio nessuna cosa muore ma si muta soltanto, anche se ogni cosa pare morta all'altra e in verità è morta, così come il fuoco pare cattivo al freddo ed è veramente cattivo per lui, ma per Dio ogni cosa è viva e buona». Se si considera ogni cosa nel tutto ci si rende conto che nulla muore veramente: «muore il pane e si fa chilo, questo muore e si fa sangue, poi il sangue muore e si fa carne, nervi, ossa, spirito, seme e patisce varie morti e vite, dolori e piaceri».  Dalla Potenza le cose sono solo perché possono essere e hanno una determinata natura; Dio attraverso questa potenza dona la Necessità alle cose, la Sapienza permette alle cose di conoscere il Fato, ossia il saper vedere la successione di causa-effetto nei processi naturali e infine l'Amore permette l'Armonia fra gli esseri, perché questi amano essere così e non diversamente: «tutti gli enti si compongono di Potenza, Sapienza e Amore e ognuno è perché può essere, sa essere e ama essere, combatte contro il non essere e, quando gli manca il potere o il sapere o l'amore dell'essere, muore e si trasmuta in chi ne ha di più».  Tutte le cose hanno sensibilità: «Tanta sciocchezza è negare il senso alle cose perché non hanno occhi, né bocca, né orecchie, quanto è negare il moto al vento perché non ha gambe, e il mangiare al fuoco perché non ha denti, e il vedere a chi sta in campagna perché non ha finestre da cui affacciarsi e all'aquila perché non ha occhiali. La medesima sciocchezza indusse altri a credere che Dio abbia certo corpo e occhi e mani».  Inoltre C. ci parla anche delle primalità del non-essere, presenti inevitabilmente nel mondo finito, che sono l’Impotenza, l’Insipienza e l’Odio: solo in Dio, che è infinito, le primalità dell'essere non sono contrastate dalle primalità del non-essere. A queste tre primalità si contrappongono le potenze negative, che possono variamente combinarsi alle primalità nell'ambito delle varie forme della magia, che è l'insieme delle regole che vanno osservate per intervenire nella natura. Il mago è il sapiente che scopre le relazioni esistenti tra le cose: «beato chi legge nel libro della natura, e impara quello che le cose sono, da esso e non dal proprio capriccio, e impara così l'arte e il governo divino, facendosi di conseguenza, con la magia naturale, simile e unanime a Dio».  La magia si manifesta attraverso le sensazioni, che possono essere negative o positive: sensazioni che l'uomo coglie, e che gli fanno capire di essere parte integrante di un ordine universale; tuttavia, nonostante sia parte di questo ordine, può opporsi a tale ordine, e se si oppone all'ordine universale la magia è negativa, se invece si armonizza, ovvero cerca di seguire l'ordine universale, allora la magia è positiva.  La pubblicazione della Philosophia sensibus demonstrata provocò scandalo nel convento di San Domenico: un domenicano che non frequenta il convento e che rifiuta Aristotele e San Tommaso per Telesio non può essere un buon cattolico. Anche se nessuna affermazione eretica è contenuta nel libro, C. fu arrestato dalle guardie del nunzio apostolico con l'accusa di pratiche demoniache. Non si conoscono gli atti del processo ma è conservato il testo della sentenza, emessa in San Domenico, contro «frater C. de Stilo provinciae Calabriae» dal padre provinciale di Napoli, fra Erasmo Tizzano e da altri giudici domenicani. L'accusa di praticare con il demonio e di aver pronunciato una frase irriverente contro l'uso delle scomuniche vengono a cadere, ma resta quella di essere un telesiano, di non tener conto dell'ortodossia filosofica d’AQUINO (si veda) e di essere stato per mesi «in domibus saecolarium extra religionem»: dopo quasi un anno di carcere già scontato, è allora sufficiente che reciti dei salmi e torni, entro otto giorni, nel suo convento di Altomonte.  C. si guardò bene dall'ubbidire all'ordine del tribunale, che lo avrebbe costretto a rinunciare, a soli 24 anni, a un mondo di cultura nel quale egli era convinto di poter offrire un contributo fondamentale. Così, munito di una lusinghiera lettera di presentazione al granduca di Toscana, rilasciatagli dall'amico ed estimatore, il padre provinciale di Calabria fra Polistena,  C. partì da Napoli alla volta di Firenze, con il suo carico di libri e manoscritti, contando su di un posto di insegnante a Pisa o a Siena.  La prudente diffidenza di Ferdinando I, che non mancò di chiedere informazioni sul suo conto al cardinale Del Monte, ottenendo una risposta negativa, spinse il 16 ottobre Campanella a lasciare Firenze per Bologna, dove l'Inquisizione, che lo sorvegliava, per mezzo di due falsi frati gli rubò gli scritti che si portava appresso, per poterli esaminare in cerca di prove a suo danno. Ai primi del 1593 Campanella fu a Padova, ospite del convento di Sant'Agostino. Qui, tre giorni dopo il suo arrivo, il Padre generale del convento venne nottetempo sodomizzato da alcuni frati, senza che egli potesse identificarli, e perciò, fra i tanti sospettati del grave abuso, anche il C. fu messo sotto inchiesta. Non si sa se dall'inchiesta si passò a un processo che abbia visto imputato, tra gli altri frati, anche C.: in ogni caso egli ne uscì innocente.  Rimase a Padova, probabilmente con la speranza di trovarvi lavoro; vi incontrò Galileo e conobbe il medico e filosofo veneziano Andrea Chiocco. Ma il Sant'Uffizio lo teneva ormai sotto osservazione: fu nuovamente arrestato. Fu accusato di:  aver scritto l'opuscolo De tribus impostoribusMosè, Gesù e Maomettodiretto contro le tre religioni monoteiste, un libro della cui esistenza allora si favoleggiava, ma che nessuno aveva mai letto; sostenere le opinioni atee di Democrito, evidentemente un'accusa tratta dall'esame del suo scritto De sensu rerum et magia, rubatogli a Bologna; essere oppositore della dottrina e dell'istituzione della Chiesa; essere eretico; aver disputato su questioni di fede con un giudaizzante, forse condividendone le tesi, e di non averlo comunque denunciato; aver scritto un sonetto contro Cristo, il cui autore sarebbe stato però, secondo Campanella, Pietro Aretino; possedere un libro di geomanzia, che in effetti gli fu sequestrato al momento dell'arresto. A Padova, in un primo tempo gli furono contestate solo le ultime tre accuse: per estorcere le confessioni, Campanella e due imputati presunti «giudaizzanti», Ottavio Longo, originario di Barletta, e Giovanni Battista Clario, di Udine, medico dell'arciduca Carlo d'Asburgo, furono sottoposti a tortura. Nel frattempo, dall'esame del suo De sensu rerum, fatto a Roma, dovettero trarsi nuove imputazioni, che richiesero lo spostamento del processo da Padova a Roma, dove infatti Campanella fu condotto e rinchiuso nel carcere dell'Inquisizione, Per difendersi dalle nuove accuse di essere oppositore della Chiesa, Campanella scrisse già nel carcere padovano un De monarchia Christianorum, perduto, e il De regimine ecclesiae, ai quali fece seguito, nel 1595, per contestare l'accusa di intelligenza con i protestanti, il Dialogum contra haereticos nostri temporis et cuisque saeculi e, a difesa dell'ortodossia di Telesio e dei suoi seguaci, la Defensio Telesianorum ad Sanctum Officium. La tortura cui fu sottoposto nell'aprile del 1595 segnò la pratica conclusione del processo: il 16 maggio C. abiurava nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva e veniva confinato nel convento domenicano di Santa Sabina, sul colle Aventino. Le disavventure giudiziarie di Campanella non finirono però qui. Il 31 dicembre 1596 era stato liberato dal confino di Santa Sabina e assegnato al convento di Santa Maria sopra Minerva; intanto, a Napoli, un concittadino di C., condannato a morte per reati comuni, Scipione Prestinace, prima di essere giustiziato, forse per ritardare l'esecuzione, denunciava diversi suoi conterranei e il Campanella in particolare, accusandolo di essere eretico: così, il 5 marzo, Campanella fu nuovamente arrestato.[25]  Non si conoscono i precisi contenuti della deposizione del Prestinace né i dettagli del nuovo processo, che si concluse: nella sentenza, Campanella fu assolto dalle imputazioni e, diffidato dallo scrivere, liberato «sub cautione iuratoria de se representando toties quoties», finché, consegnato ai suoi superiori, questi lo confinino in qualche convento «senza pericolo e scandalo».  In tutto questo periodo di tempo, il Campanella non era certamente rimasto inoperoso nemmeno sotto l'aspetto della produzione speculativa e letteraria: oltre agli scritti difensivi del De monarchia, del Dialogo contro i Luterani e del De regimine, e ai Discorsi ai prìncipi d'Italia, che è un tentativo di captatio benevolentiae all'indirizzo della Spagna, giustificato dalla difficile situazione giudiziaria, scrisse l'Epilogo magno, destinato a essere integrato nella successiva Philosophia realis, con il Prodromus philosophiae instaurandae, l'Arte metrica, dedicata al compagno di sventura Clario, la Poetica, dedicata al cardinale Cinzio Aldobrandini, e i perduti Consultazione della repubblica Veneta, Syntagma de rei equestris praestantia, De modo sciendi e Physiologia.  Ai primi del 1598 Campanella prese la via di Napoli, dove si fermò diversi mesi, dando lezioni di geografia, scrivendo le perdute Cosmographia e Encyclopaedia facilis e terminando l'Epilogo Magno. In luglio s'imbarcò per la Calabria: sbarcato a Piana di Sant'Eufemia, raggiunse Nicastro e di qui, il 15 agosto, Stilo, ospite del convento domenicano di Santa Maria di Gesù.  Per poco tempo il Campanella rimase tranquillo in convento, dove scrisse il piccolo trattato De predestinatione et reprobatione et auxiliis divinae gratiae, nel quale affermò la dottrina cattolica del libero arbitrio. In un abbozzo dei suoi Articuli prophetales, appare già l'attesa del nuovo secolo che gli sembra annunciato da fenomeni straordinari: inondazioni del Po e del Tevere, allagamenti e terremoti in Calabria, il passaggio di una cometa, profezie e coincidenze astrologiche. Un nuovo mondo sembra alle porte, a sostituire il vecchio che in Calabria, ma non solo, vedeva «i soprusi dei nobili, la depravazione del clero, le violenze d'ogni specie la Santa Sede sanciva i soprusi e proteggeva i prepotenti. Il clero minore, corrottissimo nei costumi, abusava ogni giorno più delle immunità ecclesiastiche, e profanava in ogni modo il suo ufficio. Fazioni avverse contendevano talvolta aspramente tra loro, e non poche lotte erano coronate da omicidi e delitti d'ogni specie. Gruppi di frati si davano alla campagna, e, forniti di comitive armate, agivano come banditi, senza che il governo riuscisse a colpirli. I nobili e le famiglie private, dilaniate da inimicizie ereditarie, tenevano agitato il paese con combattimenti incessanti tra fazioni l'estrema severità delle leggi, che comminavano la pena di morte per moltissimi delitti anche minimi la frequenza delle liti e delle contese, aumentavano in maniera preoccupante il numero dei banditi». In tale situazione di degrado e nell'illusione di un rivolgimento già scritto nelle stelle, Campanella progettò, senza preoccuparsi di valutare realisticamente le possibilità di realizzazione, la costituzione in Calabria di una repubblica ideale, comunistica e insieme teocratica. Era necessario per questo cacciare gli Spagnoli, ricorrendo anche all'aiuto dei Turchi: cominciò a predicare dai primi mesi del 1599 l'imminente ed epocale rivolgimento, intessendo nell'estate una fitta trama di contatti con le poche decine di congiurati che aderirono a quella fantastica impresa. Le autorità ebbero ben presto sentore del tentativo di insurrezione e in agosto truppe spagnole intervennero a rafforzare i presidi. Il 17 agosto Campanella fuggì dal convento di Stilo, nascondendosi prima a Stignano, poi nel convento di Santa Maria di Titi; infine, nascosto in casa di un amico, progettò di imbarcarsi da Roccella, ma venne tradito e consegnato il 6 settembre agli spagnoli. Incarcerato a Castelvetere, il 10 settembre firmò una confessione nella quale faceva i nomi dei principali congiurati, negando ogni sua partecipazione all'impresa. Ma le testimonianze dei suoi complici erano concordi nell'indicarlo come capo della cospirazione.  Trasferito a Napoli insieme ai suoi compagni di avventura, Campanella fu rinchiuso in Castel Nuovo. Avvenne il riconoscimento formale dell'accusato, descritto come «giovane con barba nera, vestito di abiti civili, con cappello nero, casacca nera, calzoni di cuoio e mantello di lana». Il Santo Uffizio non ottenne dall'autorità spagnola che i religiosi imputatiCampanella e altri sette frati domenicanifossero trasferiti a Roma e papa Clemente VIII, l'11 gennaio 1600, nominò il nunzio a Napoli, Jacopo Aldobrandini e don Pedro de Vera, che fu fatto ecclesiastico per l'occasione, giudici nel processo che si sarebbe tenuto a Napoli. Ad essi venne aggiunto il 19 aprile il domenicano Alberto Tragagliolo, vescovo di Termoli, già consultore nel primo processo, scelto dal papa per trattare in modo favorevole Campanella, poiché Clemente VIII era, anche se prudentemente, antispagnolo.  C. era passato sotto la giurisdizione del Sant'Uffizio, che nessun tribunale statale poteva violare, nemmeno nei casi di lesa maestà. Ciò permise di ritardare la prevedibile condanna a morte del frate. Durante il processo presieduto dal vescovo Benedetto Mandina, Campanella, sotto tortura, riconobbe le proprie eresie e, in quanto relapso, diventò passibile della pena capitale. La sua strategia di difesa, disperata e rischiosissima, fu quella di fingersi pazzo, poiché un eretico insano di mente non poteva essere messo a morte dal Sant'Uffizio.  I giudici, dubbiosi, lo sottoposero il 18 luglio, per un'ora, al supplizio della corda per fargli confessare la simulazione, ma egli resistette, rispondendo alle domande cantando o dicendo cose senza senso. L'accettazione da parte dei giudici della pazzia avvenne il 4 e 5 giugno 1601, durante una terribile seduta di tortura denominata "la veglia", che consistette in 40 ore di corda alternata al cavalletto, con tre brevi interruzioni. La resistenza morale e fisica di Campanella gli permise di superare la prova, anche se rimase poi tra la vita e la morte per sei mesi.   Frontespizio della Metaphysica Trascorse 27 anni in prigione a Napoli. Durante la prigionia scrisse le sue opere più importanti: La Monarchia di Spagna (1600), Aforismi Politici (1601), Atheismus triumphatus, Quod reminiscetur, Metaphysica, Theologia, e la sua opera più famosa, La città del Sole, in cui vagheggiava l'instaurazione di una felice e pacifica repubblica universale retta su principi di giustizia naturale. Egli addirittura intervenne sul cosiddetto “primo processo a Galileo Galilei” con la sua coraggiosa Apologia di Galileo (scritta nele pubblicata nel 1622).  Fu infine scarcerato nel 1626, grazie a Maffeo Barberini, arcivescovo di Nazareth a Barletta, poi papa col nome di Urbano VIII, che personalmente intercedette presso Filippo IV di Spagna. Campanella fu portato a Roma e tenuto per qualche tempo presso il Sant'Uffizio; fu liberato definitivamente. Visse per V anni a Roma, dove e il consigliere di Urbano VIII per le questioni astrologiche, avendo con successo, secondo il Papa, impedito il verificarsi di profezie che preannunciavano la sua morte imminente in occasione di due eclissi.  Però, una nuova cospirazione in Calabria, portata avanti da uno dei suoi seguaci, gli procurò nuovi problemi. Con l'aiuto del cardinale Barberini e dell'ambasciatore francese de Noailles, fuggì in Francia, dove e benevolmente ricevuto alla corte di Luigi XIII. Protetto da Richelieu e finanziato dal re, vive al convento parigino di Saint-Honoré. Il suo saggio e un poema che celebrava la nascita del futuro Luigi XIV (Ecloga in portentosam Delphini nativitatem).  Gli è stato dedicato un asteroide, 4653 Tommaso.  Il pensiero di C. prende le mosse, in età giovanile, dalle conclusioni cui era giunto Bernardino Telesio; egli si riallaccia quindi al naturalismo telesiano, sostenendo che la natura vada conosciuta nei suoi propri principi, che sono tre: caldo, freddo e materia. Essendo tutti gli esseri formati da questi tre elementi, allora gli esseri della natura sono tutti dotati di sensibilità, in quanto la struttura della natura è comune a tutti gli enti; quindi mentre Telesio aveva affermato che anche i sassi possono conoscere, Campanella porta all'esasperazione questo naturalismo, e sostiene che anche i sassi conoscono, perché nei sassi noi ritroviamo questi tre principi, ovvero caldo, freddo e massa corporea (materia).  Il problema della conoscenza (e la rivalutazione dell'uomo) Il naturalismo di Campanella, in conseguenza di ciò, comporta una teoria della conoscenza essenzialmente sensistica: egli sosteneva infatti che tutta la conoscenza è possibile solo grazie all'azione diretta o indiretta dei sensi, e che Colombo aveva potuto scoprire l'America perché si era rifatto alla sensazione, non di certo alla razionalità. La razionalità deriva dalla sensazione: non esiste una conoscenza razionale intellettiva che non derivi da quella sensitiva. Tuttavia C., a differenza di Telesio, cerca di rivalutare l'uomo e pertanto afferma l'esistenza di due tipi di conoscenze: una innata, una sorta di coscienza interiore, e una conoscenza esteriore, che si avvale dei sensi. La prima è definita ‘sensus inditus', che è la conoscenza di sé, la seconda ‘sensus additus' che è la conoscenza del mondo esterno. La conoscenza del mondo esterno appartiene a tutti, anche agli animali; la conoscenza di sé, invece, appartiene solo all'uomo, ed è la coscienza di essere un essere pensante. Campanella si rifà ad Agostino d'Ippona, poiché afferma che noi possiamo dubitare della conoscenza del mondo esterno, mentre non possiamo dubitare della conoscenza di sé. Questo ‘sensus inditus' sarà poi il punto essenziale della filosofia cartesiana, che si basa sul ‘cogito': io penso quindi esisto (cogito ergo sum).  La religione e la politica In base a queste premesse, Campanella si sofferma sulla religione che egli distingue in due tipologie: una religione naturale e religioni positive. La religione naturale è una religione che rispetta l'ordine universale dell'universo stesso; le religioni positive sono invece religioni che vengono imposte dallo stato. Campanella afferma però che il cristianesimo è l'unica religione positiva, poiché è imposto dallo stato, ma al contempo coincide con l'ordine naturale (cui però aggiunge il valore della rivelazione). Tuttavia anche questa teoria della religione razionale contrastava con i dogmi della Chiesa della Controriforma. Egli sostenne, del resto, la superiorità del potere temporale su quello spirituale, individuando poi il potere supremo, di volta in volta, nella Spagna e poi nella Francia, a seconda di convenienze politiche e personali.  La città del Sole Magnifying glass icon mgx2.svg La città del Sole.  Civitas Solis Campanella fu autore anche di un'importante opera di carattere utopico, ovvero La città del Sole. Nella Città del Sole egli descrive una città ideale, utopica, governata dal Metafisico, un re-sacerdote volto al culto del Dio Sole, un dio laico proprio di una religione naturale, di cui C. stesso è sostenitore, pur presupponendo razionalmente che coincida con la religione cristiana. Questo re-sacerdote si avvale di tre assistenti, rappresentanti le tre primalità su cui si incentra la metafisica campanelliana: Potenza, Sapienza e Amore. In questa città vige la comunione dei beni e la comunione delle donne. Nel delineare la sua concezione collettivista della società, Campanella si rifà a Platone (V secolo a.C.) e all'Utopia di Moro. Fra gli antecedenti dell'utopismo campanelliano è da annoverare anche La nuova Atlantide di Francesco Bacone. L'utopismo partiva dal presupposto che, poiché non si poteva realizzare un modello di Stato che rispecchiasse la giustizia e l'uguaglianza, allora questo Stato si ipotizzava, come aveva fatto a suo tempo Platone. È però importante sottolineare che, mentre Campanella tratta una realtà utopistica, Niccolò Machiavelli rappresenta la realtà concretamente, e la sua concezione dello Stato non è affatto utopistica, ma assume una valenza di metodo di governo, finalizzato ad ottenere e mantenere stabilmente il potere.  Interpretazioni storiografiche del pensiero politico L'incertezza è già evidente nell'interpretazione della critica idealistica, che, nei limiti di una conoscenza ancora incompleta dell'opera, coglie nel pensiero campanelliano un deciso orientamento in direzione del moderno immanentismo, contaminato tuttavia da residui del passato e della tradizione cristiana e medioevale.  Per Silvio Spaventa, Campanella è il "filosofo della restaurazione cattolica", in quanto la stessa proposizione che la ragione domina il mondo, è inficiata dalla convinzione che essa risieda unicamente nel papato. Non molto dissimile la lettura di Francesco de Sanctis: "Il quadro è vecchio, ma lo spirito è nuovo. Perché Campanella è un riformatore, vuole il papa sovrano, ma vuole che il sovrano sia ragione non solo di nome ma di fatto, perché la ragione governa il mondo". È la ragione che determina e giustifica i mutamenti politici, e questi ultimi "sono vani se non hanno per base l'istruzione e la felicità delle classi più numerose". Tutto ciò conduce Campanella, secondo il pensiero idealista, alla concezione di un moderno immanentismo. Opere Aforismi politici, A. Cesaro, Guida, Napoli An monarchia Hispanorum sit in augmento, vel in statu, vel in decremento, L. Amabile, Morano, Napoli Antiveneti, L. Firpo, Olschki, Firenze; Apologeticum ad Bellarminum, G. Ernst, in «Rivista di storia della filosofia», Apologeticus ad libellum ‘De siderali fato vitando’, L. Amabile, Morano, Napoli 1887 Apologeticus in controversia de concepitone beatae Virginis, A. Langella, L'Epos, Palermo 2004 Apologia pro Galileo, Michel-Pierre Lerner. Pisa, Scuola Normale Superiore, Apologia pro Scholis Piis, L. Volpicelli, Giuntine-Sansoni, Firenze 1960 Articoli prophetales, G. Ernst, La Nuova Italia, Firenze; Astrologicorum libri VII, Francofurti 1630 L'ateismo trionfato, ovvero riconoscimento filosofico della religione universale contra l'antichristianesimo macchiavellesco, G. Ernst, Edizioni della Normale, Pisa; De aulichorum technis, G. Ernst, in «Bruniana e Campanelliana», II, 1996 Avvertimento al re di Francia, al re di Spagna e al sommo pontefice, L. Amabile, Morano, Napoli 1887 Calculus nativitatis domini Philiberti Vernati, L. Firpo, in Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino, 74, 1938-1939 Censure sopra il libro del Padre Mostro [Niccolò Riccardi]. Proemio e Tavola delle censure, L. Amabile, Morano, Napoli; Censure sopra il libro del Padre Mostro: «Ragionamenti sopra le litanie di nostra Signora», A. Terminelli, Edizioni Monfortane, Roma 1998 Chiroscopia, G. Ernst, in «Bruniana e Campanelliana», I, 1995 La città del Sole, L. Firpo, Laterza, Roma-Bari Commentaria super poematibus Urbani VIII, codd. Barb. Lat.; Biblioteca Vaticana Compendiolum physiologiae tyronibus recitandum, cod. Barb. Lat. 217, Biblioteca Vaticana Compendium de rerum natura o Prodromus philosophiae instaurandae, FrancofurtiCompendium veritatis catholicae de praedestinatione, L. Firpo, Olschki, Firenze 1951 Consultationes aphoristicae gerendae rei praesentis temporis cum Austriacis ac Italis, L. Firpo, Olschki, Firenze 1951 Defensio libri sui 'De sensu rerum', apud L. Boullanget, Parisiis 1636 Dialogo politico contro Luterani, Calvinisti e altri eretici, D. Ciampoli, Carabba, Lanciano 1911 Dialogo politico tra un Veneziano, Spagnolo e Francese, L. Amabile, Morano, Napoli 1887 Discorsi ai principi d'Italia, L. Firpo, Chiantore, Torino 1945 Discorsi della libertà e della felice soggezione allo Stato ecclesiastico, L. Firpo, s.e., Torino Discorsi universali del governo ecclesiastico, L. Firpo, POMBA, Torino Disputatio contra murmurantes in bullas ss. Pontificum adversus iudiciarios, apud T. Dubray, Parisiis Disputatio in prologum instauratarum scientiarum, R. Amerio, SEI, Torino 1953 Documenta ad Gallorum nationem, L. Firpo, Olschki, Firenze Epilogo Magno, C. Ottaviano, R. Accademia d'Italia, Roma 1939 Expositio super cap. IX epistulae sancti Pauli ad Romanos, apud T. Dubray, Parisiis 1636 Index commentariorum Fr. T. Campanellae, L. Firpo, in «Rivista di storia della filosofia», II, 1947 Lettere 1595-1638, G. Ernst, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma; Lista dell'opere di C. distinte in tomi nove, L. Firpo, in «Rivista di storia della filosofia», II, 1947 Medicinalium libri VII, ex officina I. Phillehotte, sumptibus I. Caffinet F. Plaignard, Lugduni 1635 Metafisica, Giovanni Di Napoli, (brani scelti del testo latino e traduzione italiana, 3 volumi), Bologna, Zanichelli 1967 Metafisica. Universalis philosophiae seu metaphysicarum rerum iuxta propria dogmata. Liber 1ºPonzio, Levante, Bari 1994 Metafisica. Universalis philosophiae seu metaphysicarum rerum iuxta propria dogmata. Liber 14º, T. Rinaldi, Levante, Bari 2000 Monarchia Messiae, L. Firpo, Bottega d'Erasmo, Torino 1960 Philosophia rationalis, apud I. Dubray, Parisiis 1638 (comprende Logicorum libri tres) Philosophia realis, ex typographia D. Houssaye, Parisiis 1637 Philosophia sensibus demonstrata, L. De Franco, Vivarium, Napoli 1992 Le poesie, F. Giancotti, Einaudi, Torino; Poetica, L. Firpo, Mondatori, Milano 1954 De praecedentia, presertim religiosorum, M. Miele, in «Archivum Fratrum Praedicatorum», LII, 1982 De praedestinatione et reprobatione et auxiliis divinae gratiae cento Thomisticus, apud I. Dubray, Parisiis 1636 Quod reminiscentur et convertentur ad Dominum universi fines terrae, R. Amerio, MILANI, Padova 1939 (L. I-II), Olschki, Firenze; Del senso delle cose e della magia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003 De libris propriis et recta ratione. Studendi syntagma, A. Brissoni, Rubbettino, Soveria Mannelli 1996 Theologia, L. I-XXX, Libro Primo, Edizione Romano Amerio, Vita e Pensiero, Milano, 1936. Scelta di alcune poesie filosoficheChoix de quelques poésies philosophiques, Edizione Marco Albertazzi, Traduzione francese di Franc Ducros, La Finestra editrice, Lavis  Campanella nel cinema La città del sole, regia di Gianni Ameliol A. Casadei, M. Santagati, Manuale di letteratura italiana medievale e moderna, Laterza, Roma-Bari; Firpo, C. «Dizionario biografico degli Italiani», Roma 1974: «Non hanno fondamento le asserzioni ricorrenti, attizzate da un patetico campanilismo, che lo vorrebbero nato nel vicino comune di Stignano». Nel Novecento nacque una disputa campanilistica tra il comune di Stilo e quello di Stignano, che rivendica di aver dato i natali al filosofo calabrese e indica nel proprio territorio la presunta casa natale di Campanella  In Luigi Firpo, I processi di C., Roma; In Opere di Tommaso Campanella, Alessandro d'Ancona, Torino 185412. Un decreto del 16 maggio 1968 ad opera del Ministero della Pubblica Istruzione Caleffi fissa la casa natale di Tommaso Campanella nell'attuale Comune di Stignano, al tempo casale del vastissimo territorio di Stilo, adducendo a prova del fatto l'archivio provinciale di Napoli. La differente indicazione del cognome della madre, Basile e Martello, fa ritenere che quest'ultimo sia un soprannome  Massimo Baldini,Nota biobibliografica, in T. Campanella, La Città del Sole, Newton Compton, Roma; C. Syntagma de libris propriis et recta ratione studendi, I  Germana Ernst, Tommaso Campanella: The Book and the Body of Nature; Springer Netherlands,.  Gli amici Giovanni Francesco Branca, medico di Castrovillari, e Rogliano da Rogiano, entrambi telesiani, gli segnalarono il libro dell'aristotelico Marta, il Propugnaculum Arìstotelis adversus principia B. Telesii, Roma; Philosophia sensibus demonstrata, impressum Neapoli per Horativm Salvianum 1591  Il libro è andato perduto  T. Campanella, Syntagma de libris propris14  John M. Headley, Tommaso Campanella and the Transformation of the World,  Princeton University Press, 1997.  T. Campanella, De sensu rerum et magia, II, 26  Pubblicata da Vincenzo Spampanato in Vita di Giordano Bruno, Messina; Il cardinale rispose che l'inquisitore fra Vincenzo da Montesanto gli aveva riferito che del Campanella «si rivedono molti libri pieni [...] di leggerezza e vanitade, e [...] ancora non sono chiari se vi sia cosa che appartenghi alla religione»; cfr: lettera del Del Monte a Ferdinando I del 25 settembre 1592 in Archivio di Stato di Firenze, Mediceo, f. 3759  La vicenda di questo sequestro, simulato con il furto, è esaminata da Luigi Firpo, Appunti campanelliani, in «Giornale critico della filosofia italiana», XXI, 1940  Non vi sono documenti relativi a quell'episodio, essendone unica fonte lo stesso Campanella in due sue tarde lettere, a papa Paolo V il 12 aprile 1607 e a Kaspar Schoppe il 1º giugno dello stesso anno, nelle quali Campanella sottolinea la sua innocenza senza entrare in dettagli.  Campanella, lettera a Kaspar Schoppe del 1º giugno 1607: «accusarunt me quod composuerim librum de tribus impostoribus, qui tamen invenitur typis excusis annos triginta ante ortum meum ex utero matri».  Due libri di simile contenuto furono scritti soltanto alla fine del Seicento e ai primi del Settecento.  Campanella, ivi: «quod sentirem cum Democrito, quando ego iam contra Democritum libros edideram».  Ibidem: «quod de ecclesiae republica et doctrina male sentirem».  Ibidem: «quod sim haereticus».  Campanella, lettera al papa del 12 aprile 1607: «Primo ex dicto unius judaizantis molestatus». Il giudaizzante dovrebbe essere un certo Ottavio Longo da Barletta, anch'egli arrestato a Padova e processato a Roma.  Ibidem: «secundo ob rythmum impium Aretini non meum».  «Lecta depositione Scipionis Prestinacis de Stylo, Squillacensis Diocesis, facta in Curia archiepiscopali Neapolitana, Illustrissimi et Reverendissimi Domini Cardinales generales Inquisitionis praefatae mandaverunt dictum fratrem Thomam reduci ad carceres dictae Sanctae Inquisitionis», in L. Firpo, I processi di Tommaso Campanella88  C. Dentice di Accadia, Tommaso Campanella,  Opere Tommaso Campanella, Apologia pro Galileo, Frankfurt am Main, Gottfried Tampach, 1622. Tommaso Campanella, Metaphysica,  1, Paris, 1638. Tommaso Campanella, Metaphysica,  2, Paris, 1638. Tommaso Campanella, Metaphysica,  3, Paris, 1638. Tommaso Campanella, Poesie, Bari, Laterza; C., Medicinalium libri, Lugduni, ex officina Ioannis Pillehotte: sumptibus Ioannis Caffin, & Francisci Plaignard, 1635. Delle virtù e dei vizi in particolare, testo critico e traduzione Romano Amerio, Ed. Centro internazionale di studi umanistici, Roma, 1978 Studi Luigi Amabile, Fra Tommaso Campanella, la sua congiura, i suoi processi e la sua pazzia, 3 voll., Morano, Napoli  (ristampa anastatica, Franco Pancallo Editore, Locri 2009). ID., L'andata di Fra Tommaso Campanella a Roma dopo la lunga prigionia di Napoli, Memoria letta all'Accademia Reale di Scienze Morali e Politiche, Tipografia della Regia Università, Napoli 1886 (ristampa anastatica, Franco Pancallo Editore, Locri 2009). ID., Fra Tommaso Campanella ne' castelli di Napoli, in Roma ed in Parigi, 2 voll., Morano, Napoli Giuliano F. Commito, IUXTA PROPRIA PRINCIPIA Libertà e giustizia nell'assolutismo moderno. Tra realismo e utopia, Aracne, Roma; Cunsolo, Tommaso Campanella nella storia e nel pensiero moderno: la sua congiura giudicata dagli storici Pietro Giannone e Carlo Botta, Officina F.lli Passerini e C., Prato 1906. Rodolfo De Mattei, La politica di Campanella, ARE, Roma 1928. ID., Studi campanelliani, Sansoni, Firenze Francisco Elías de Tejada, Napoli spagnola,  IV, cap. II, Tommaso Campanella astrologo e filosofo, Controcorrente, Napoli. Luigi Firpo, Ricerche campanelliane, Sansoni, Firenze 1947. ID., I processi di Tommaso Campanella, Salerno, Roma Antonio Corsano, Tommaso Campanella, Laterza, Bari 1961. Mario Squillace, Vita eroica di Tommaso Campanella, Roma; Pizzarelli, Tommaso Campanella (1568-1639), Nuove Edizioni Barbaro, Delianuova 1981. Donato Sperduto, L'imitazione dell'eterno. Implicazioni etiche della concezione del tempo immagine dell'eternità da Platone a Campanella, Schena, Fasano 1998. Nicola Badaloni, Germana Ernst, Tommaso Campanella, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1999. Silvia Zoppi Garampi, Tommaso Campanella. Il progetto del sapere universale, Vivarium, Napoli 1999. Germana Ernst, Tommaso Campanella, Laterza, Roma-Bari ID., Il carcere, il politico, il profeta. Saggi su Tommaso Campanella, Istituti Editoriali e Poligrafici, Pisa-Roma 2002. Antimo Cesaro, La politica come scienza. Questioni di filosofia giuridica nel pensiero di Tommaso Campanella, Franco Angeli, Milano 2003. Vincenzo Rizzuto, L'avventura di Tommaso campanella tra vecchio e nuovo mondo, Brenner, Cosenza 2004. Arnaldo Di Benedetto, Notizie campanelliane: sul luogo di stampa della «Scelta d'alcune Poesie filosofiche», in Poesia e comportamento. Da Lorenzo il Magnifico a Campanella, Alessandria, Edizioni dell'Orso, 2005 (II edizione),  185–89. Germana Ernst e Caterina Fiorani, Laboratorio Campanella: biografia, contesti, iniziative in corso, Roma, L'Erma di Bretschneider, 2007. Ylenia Fiorenza, Quel folle d'un saggio, Tommaso Campanella, l'impeto di un filosofo poeta, Napoli, Città del Sole; Gatti, Il gran libro del mondo nella filosofia di Tommaso Campanella, Roma, Gregoriana & Biblical Press,. Sharo Gambino, Vita di Tommaso Campanella, Reggio Calabria, Città del Sole Edizioni, Saverio Ricci, Campanella (Apocalisse e governo universale), Roma, Salerno Editrice,. Luca Addante, Tommaso Campanella. Il filosofo immaginato, interpretato, falsato, Roma-Bari, Laterza,.  Metafisica (Tommaso Campanella) Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Tommaso Campanella Collabora a Wikiquote Citazionio su Tommaso Campanella Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Tommaso Campanella  Tommaso Campanella, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Tommaso Campanella, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Tommaso Campanella, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Tommaso Campanella, su The Encyclopedia of Science Fiction.  Tommaso Campanella, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Tommaso Campanella, su Liber Liber.  Opere di Tommaso Campanella, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Tommaso Campanella,. Opere di Tommaso Campanella, su Progetto Gutenberg. Audiolibri di C. , su LibriVox.  di Tommaso Campanella, su Internet Speculative Fiction Database, Al von Ruff.   italiana di Tommaso Campanella, su Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com. Tommaso Campanella, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company.  Archivio Tommaso Campanella, su iliesi.cnr. Le opere di Campanella, su bivio.filosofia.sns. Historiographiae liber unus iuxta propria principia, su imagohistoriae.filosofia.sns. testo tratto da Tutte le opere di Tommaso Campanella, Milano; Germana Ernst, Tommaso Campanella, in Edward N. Zalta, Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information (CSLI), Stanford. Filosofia Letteratura  Letteratura Filosofo Teologi italiani Poeti italiani Professore Stilo ParigiDomenicani italiani Letteratura utopica Accademia cosentinaVallata dello Stilaro Ermetisti italianiAforisti italianiItaliani emigrati in Francia. CAMPANELLA STYtL. ORD. PRED. PHILOSOPHI RATIONALIS PARTES V Videlicct: GRAMMATICA DIALECTICA RHETORICA POETICA HISTORIOGRAPHIA iuxta propria principia. S V ORVM OPERVM PARISIIS apud BRAY, via lacobHi, sub Spicis Maturis. iZMtn Pmilfgh Rfgis. ILLVSTRISSIMO y /tAIOyB' EXCELLENTISSIMO D FRANCISCO COMITI DE NOAILLES;  vt nuf uc Ordinis Rcgij £quici Torquato Rhutcnorum ac Supcrioris Anierhias trx^   fcdto, Regi/c]uc Chriftianifliuii, apud Summum Ponuticcm Oiatori. £ TI LLVSTRJSSJM0  C Ji EFERE2SSIMO V. CAR. DENOAILLES. EPISCOPO SANFLORENSI;  intcrioris Consilii Regii McflbrisFia^us. optinui , mci fcxuatorjbus» S. P.   £ natitudinif ita me liht dcmncit, Excellcnci|fimcComc, vr ntm ftaihmeus,  effi Jeieam 4tft€ velim, Et cum tumm era  'JidQtm manitumm tiK ucQM€nfar€ necmejun uekm; hocmihireJldt (ptod pofpmt Muft yVtnuUis temporibus teflimonium Vmutumac meritorum tuorum tdceatur-i  fmllaque obliuione dcleantur, Libertatem, honorem, vi-  Mm tibideheo Cum enim jynagd Potentium [non Deum  neejuejusy nequefaSyVerentes yfed venantes gratiam faljts ha-  inisfatffijuevenabuHs a Catholico "Rege ypofquam in pri^  maperfecutione mc innocentem perDf^cem Alb^t declaraue- T/ttytanquam iterum :(elantes pro Regno ipfns, ijuo poffcnt  Regno ipfus longo tempore ad diuitias cjT* honores laruatos  comparandum ahuti ] perque Vim perque dolos , in partem frada inuidis falfs etiam fratribus illeflis , dum moror in  Ciuitatefan{}a y conarentttrinnocentiftmumadnecem traherr Th (G cncf o(c Heros) mcy cjuem tota fere Romayfum- mufq; Pontifex fcicnttjs & xirtuiibus cunitis nedum iujhtid  omatiffmusy innocentidCHftoSyfapieim amator diljif ejfent  a violentia infdijs pojfetueriy incolumem feruajli: ecum  explorarenthoftes me intuis edibus refugientemy tu illoruehi  debas interea technaSjdum tuo curru noflu fub altma veftc per  4tli} portam veilum y tuifji literls ad Principes & Confules,  obuios futuros commendatUy ad Chriftutnifiimii \fqy Regem  ifjnocentum Refugium, FILOSOFI ac piorum hominum  Tutelam,Mep:e Regis Regum brachium y nauis Pctri facra  aochoram, me tranfmitrerei. Mon fufticit Calamus animi.  m robur,fagacitatem, induftriam , c!T infignia in hoc euen  eufaflay diaue describere. Jd illustrissimum ac reverendissimum Eptfcopum Sanflorenfem ParifioSy te iubenteytan-  (femapplicui.Vtztctefttuus ideftfctizkct tUfuxta Gellij  £thimologiam natura legem, ideoprorfus \t tu mihi af- juit, J^m c ad te Jemomeus^magnamme Carolejqui humani simere€fpifiimeperegririantm,refodH lajfum & ft  nedefunilwn ad vitam rtuocafh^ O* tandem inuiciifsim»  Re^j regijsfaumbuscwmldM&f meexhihmfiu Imem fAi  ^iddefterate G allorum hijlorici narrant ^ & Poetacanunt spes QhriJlianAreipuhlica prafumitexfc[}atq\, Vmo ftutus a miftriss eSr fecurus a calumnijs, ratias Deo ty lemenrifsimo Re^ ac Mmijlris heroicif , nempe fratribid  nobuf imis Noalhjs. Haud efude audco Antiptis fufsim DoBtfsmicmfofitosmof€sac Prafiamiamenarrare, uam [drJkoma(Sr GdUiaadmrantur, & quos euulgauitlibros de  I mpmo iufli & de Triumpho Virtutts, eruditione ac fapicntia  j?!enos , ')4?ijue iffum lofige maps, ^i^mmtifarum pofftt  Chtnms praJkcant. Cenerefi Comiiis iam Mcerelaudes  yereor^cumnecflylns Jicpar, ac perfein hijhrtis commenden-  tur; a fuperiortbusemmfecuiss prafulfere. Ncfie enimre'  censffigloria \/efiraJed ah,exarJio RegniFrancorif fflendebat. Jftabanno mmfimo pofi Chriftum natum certa fcrie  fofi guitrandum, qm primus cognommatus efi de Noailles fijue ad nefira tenfora immmeri de Veftra frofapia cwh  4mnerantm htnes , fiorum alij cum Dom m j^uitania  fr^dpue.tum forisin ifiavna cum Ludouico Kege fan^o  fugnando contra Saracenos fortiter ohierunt i <Jr in Ita^  Md,in Anglia, Poloma^Thracia, totum queadeo ftri Or. ftmtefTarnm^hononfieentifsimis legationtbus perui ati eaiu  JocistUis pro patria perfecere fuaicam ueRefflus (jollis 9Uh tmerunt opera fidelem fed sdamjut, vr femfn' meruerint Ismdmahonii &akipfit^i^mmultisd  Jnterauoseminet magnus ille tuus jintonins fatuor Pegi^  ins acumAMli^M^ Cuitjs cor liurdcgfiLut 1 henefafla, tenet honorijicc: corpus Noaillia, Omino que in  bello TerraMartqy iidem pr^clara j^elJirut OmictoQatba logum hcroum atque geflorum & dtgnitatum perpetua fcrie  Jpendentium fwniamtna modeflia alionim forjan inui.  diamihimirificamnarr itionemahradere iufsityc^uoniam for^  taJfenecUtidihtis augeri, nec ohtrcfldtlombns veflra minui  foteflgloria, renio ad te nohihfsime Comesxujus virtus helli'  caapud RHpcllamaduerfusJnglosenituit & in MonteaU  bano dum oppugnatur Virtute Regis, corufcauit; & qu4  apud Taurinos comtra Hispanos hofles egerisy hifloria non tacet;  trtres inclytifltj tui nuncimitantur. Moxautem in legatione Romana tanta prudentia te gefsifli, Vf summo pontijici et  Romanis Principibus carus, ratufquc femper effes , ac ftmul  Regi tuo fidelifimus \?tihfsimufiji4e ; ^u^ duo Vix coife in  Orator.bus cxteris pojfe \ndtmt(f. Ex hoc jper prouidentiam  Deifalusmeaaffulftt: & cum feruator definls non defiturusy  ConferuatorCarolus frater tuMme Partfisrecepit. Ex hoc  debitum perenniterlaudandi Voj, Praclarissimi fratres, animi  et corporis fuhHmitate antijuorum Oallorum prdfluntiam  redolentes, inmere fuhat: cumque non possim perenniter cum  fim/nortaitSy vos immortalitati erbi aterni committere flu-  deo, Sciefitiarii omnium reformatarum per meinergafluhsnu-  tu Dei , qui est FILOSOFIA RAZIONALE,J}>len-  dor Rationis diuin^, tcfle Jugufl. \eflro nomini confecro. Ef^  ' tn hoc volumine GRAMMATICA NON VULGARIS SED PHILOSOPHICA,  continens semina scientiarum et nationum sermocinia et modum grammaticandi secundum naturam et artem. Hanc  Jemanibus sophiflarum nugacium liberatamytibi Liberatori t ue Orarm^r^flantifsimo^dedtco. jidiacetilh Lo^ic non imehuntuYy dd dircSHonem cognoscima fictihans human£  inftdurata. Hmc dddidi Rhetoricam j & Poeticamyjuas in  froftilfulofueatascm/fiecittiSyi Mufas  duxi, Tandem apponitur JF/tftorioffraphia , atf Adulatonhus Qfmhus Lofjuacihs denigratdj nunc infmm reJHtutd  pmtaictniytfuEgode vefbm nmim diccn nonMli ui fejuenturimelligantl^oalUos meos hacmethodo effe dicen"  das. Sufcif ttecrgoeo quo exhihentMrammQ ( Pr^ftantifsimi  JDofmnf ) non ingratumfortc namm nmit^atiferuiveflri,  edijue, qua foletit me hcnendentia htmmsre s inquo C. mea per totum Orhem veftram teftiftcetur henefiden^  tiam, inque \eftram refonet mam yaktc. Pari/iis   : Jic i;. Mairttj    X Commiflicne RcuerendiiEini Pacris Fracfis Nicolii  Roduifij S. A- Magiftri» & tocuu Ocdinisnoflffi  dicacoium Vicaril Gcncralis Apodoiici » vidi Tomum  primum opcium R. P. M.    N E iti€ , noftn Ordinis, Complcdcntem Grammaticam, Logicam, Rhetoricam, rocfmi. t?c Hirtoriographiam,  nihil .  iii co concra Cacholicam Fidem miicni > imo omnia luo Aucore digna,  ic quamplurinia ad Theofogiam capcrtcndam cllc iudicaui. Qpapto-  - ptcfojanupropria merubrcripri iuc dic 7. Nouciob.  iV. Am^ninui CtUiuJ^ S, The^Ugtd MCPhiUfcphid Ze^«r,»  mm«t CtU^ij 5. ntmuti S, M, fimdentium Alfli ifler*   imfrimMiurJi videhiitur Reucrendt^tw /» M.S^ F^lMiijj,   Iybcnttf Rcuer. P. Nicolao Riccardo» fac, Pal. Apoll. Magiftro  'pcimum volumcnopcium R. P. Mag. C. Ord. .  Prard. Granimatica, Logica, Rcthotici,Pbl:i!>& Hiftoriographia co«.  cextam,non minorc diligencia quam volaprateperlcgt : nintlc]ue quod 1  Catholicam Iqdac Fidcm, aot Chri(Hanosoncndac mores occui nc;  qjiare pubiicis dignum typis conftanter aflcacro , qub duicifonaB^  htlius Campanulae minficus tinnitus r.homnium auribus lladioforum. i  cxaudiacur. In fidcm &'c. Datum Komx m Collcgioiandb Bon^:.  ucncuixdic 10, Augufti. frdTiciicHi Jlfitortiui n fanflc Seu. OrJ, A^in. Ccft, Celie^if   S^.Bonaneniurd in vrhe Regcm e^ l^elior.   EG O Fr. Vinccntius Bartolus  et c» Thcolog. Magifter Ord.Pr2d.  Vifis fupradidlis atccftationibus, conccdofacultatcmcvordine&  commiflionc R^uercndiflimi P. F. Nicolai RodiilHj nollri Ord.  Gen. Magiftri, R.P. M- F. C., eiufdem Ordinis:  Vt librum atticulacuiii RAZIONALE FILOSOFIA  partcscjuinque, typis  mandare poflit. In quorum fidem ins meo figillo munitls manum  propciam apporm. Datum Romxin Conucntu S. M. fupcr Mi^  n^am. Dic 14- Augufti i(»5o.'   Locus iigilli, fr. l^mimiBmtht^ ^mptfAmmn prepris^.  1 Ji^ R 1 M A T V Fr. Ni^Uuu RitCArdins. , facri. C. FILOSOFIA RAZIONALE GRAMMATICALIVM  III PARIS Apud BRAY, via lacobii; fub Spicis Maturis.  M. DC. XXXVIII. Qm Primlegio Regis.  P^G.verp vltimo.tx iijtge.&c, Pdg.^o. verf. y difbioncs diftin-  giiitur , /<r^f> didbioiies noadiftmgauar. P4i. 91. vfr/l6.pcrci,/f^r, .  pcc t», Pag. 6i.verf. 14.. ficu:. /f^^ lanc. Va^. 5. ver/: 10. vccebimjc.  P4. 51. w//: aires, /f; .ai rci. Z»-*. 89- ^'^f- vifi'»»"», amitiim /<x<r.  amatu. P4g 60. pjlt t^^r/: u. pm*tur. Noundum : quod potclUs  impcrarijaeftquudoloa iicurnuior, qua maioccm, vc fdc atltros /.1-  fidejs. Sei eadem vox clt ieprccatiuaicum minoc ad maio;cm, vc fal-  fium me fac Dem. Cumad xqaalcm, est confulciua auc hortatiua, vf  fugecrMest:r -4t. Et maior cnim induic voccmx qualis, & miuoiisA-  c conuccfo pcr accidcns.   Correftio erratorum in Logica.  F.ig.i. verf. 31. faOum, legf fradum. Pag.. verf, 14. voccJi^^*   TOCCt. f>4g. 8. verf 4. quid/^^*quod. p4g. 11. verf 2. vt lege aut. f-i^-  14. vfr/: 8. intcricdliouc, mtcrcaronits.-A-ff-"»' -  cxprcfTa, /f^r cxpretr.Ti. /« e»Jem verf. i3. fy nchailiegoricus , /',^f  ryncacheeor«mati(;us. P^p-. i^, wr/: 17. dcno^iijiaius^^^ djm^A4 4. VfT/. II. vfr/i#, ouAas, lege gutcas. CorreHio Erratorttm in Toetica.  4   F4r.h. t/^r/:io.rerum./f^* vcrum. pag.^o.verf. ij fimplici vc  nutije^e fimpUci iccuiu.i. vuum. In e^dem verf. ic^. fic^u coucca, lejre ficuci e concra. tmiUem verf. ^6. profundit,/ pcrfundic. pag.ou  »t/:}o.dcuncioncm,/tfr <Jcuocioncm. f^j;. 4?. wr/. 5. fomctco, /rg:*-  folo mctro, fdg, ^s.verf: 10. quanciimquc , legt (^uam^um^quc.   C/r<rr4 difcrettom LcP.orm commmmuf.Se Grammatica iii commttni. Definicio Grammadcx.   GrammatiC4 efi ars inSirHmentaUs T^oluU hu^  mana congtHiy rationahilitet fir/jplickcr ^  •* dic£ndi,atqtic confcqucnter fcnhcndi^  . legendi ^mdcfuid animo "^ua^  CHnquc noHtia pcrc€f>imus.IciTVR Ars infnmentalh t\ Tuo gencre^ica &Hino'riogr3phu, quaroninesluntarics  \ki}^ yjf^nicchanicae,rcd fpcculatiusttai inftrumcn.  IX^-^. 4^^/ \{ taiej qiioniam non pcr fc, fcd proptcr princi-  palcs, & proprcraWud funt. Plato ir. Cratilo.dixit, l^mtmeft   infirmwtm mdi^ {uifioKti^ Xoucigo QranMika     1 ^rdmmitknUtiih in (lrumcntunicft, vt fuae partcs. l>ici\.\xx^politit huHiani^zi,  differentiani proedi£lariimartium: nam Logicac (ltn(lrumcn«  tum Mctaphyfici : Rhctorica & Poctica sunt instrumcn- ca Leginjtoris. Grammatica vero totius communitatis him injr. Siqa idem naturale cClcunclis animantibus in societate viuentibus ci, qui concipiuncanimo, SIGNIFICARE  conui.  ifennbus, per mutua officia copulatis sive propter bonum  proprium, fiucahcnum, sive commune proptcrei fadazfunc voces et orationes, htcrarque vocum particula?, ad exprimendum orc vel scripto qujc proferri opuscrunt. Grammatica ergo naturalis est hominis, quatenus poeticus est, anificiahs insuper quatenus voces et orationes ad tcdum vium  confidcrar. Dicitur grammatica esse ars dicendi. Dicimu« cnrm {'^ ./ quidquid animo concipimus. Etquia illud idctu fertbimTT5,-a<rcttrunf^ie5  qula legimus scriptum, ponendum est *ct Atquoniam potest cfl"c grammaticus, qui ncfLit fcnbcrcncc legere, ut excus, videtur Grammatic; i est c instrumentum dicendi  per cflfentiam A fcibcndi&le gcndiconfcq Mcntcr&ad vfimi. Dicitur congruf propter concordiam partium orationis t  6c ratiinahiliter ad differentia sermonrs ac brutorum rautu A  f colloquentium naturaliter, iicmadd: £fcrcntiampcritui. Gramaticorum i vulgari forma. Additur simplicitert iterum ad differentiam rhetorica et  poetica, qaa: ad humanam etiam politiam pertincni sed  addunt figurationcs sii per simplicem sermonem, S\}bdit\ir yqrridcjuid animo quacumque NOTITIA VEL SIGNUM percepimf,  ad difterentiam Hulorio graphite, qiiac iupponit GrammaticS loquentem dcomnibus et habet proobiedo solum a^ia &  di^a notabiliVx^c natura fjiucpohtia Grammatica vctp omnem fcrraoncm, sive famih'arem, fiuc epistolarum, sive  historicum jfiuc scientificum, rc(f\ificatad congruitaicm naturalem et artificialem, vt insii patebit. Pritr jc ergo notiones vocabulis et oratione grammaticali notificant ut : fcicn*  tiasvcr6 Loeicafi deindc fcrmonctra«^lamus.la grammaatica ergo cominentur semina scientiarum. \ o ; cnim aliqi;id taciunt lcirc vulgari modo dc Cim£lis rc-  % & cx his^qua: voce significanius ad scicntias altiorcs cri-  Dur. Qu^ippc qua omnes ex p jecxiftenri fjunt cogniiic vocalnilorum in do oratiorinis; Icd in inventionc ex inspconibus, et kniauombiis cognoscentis per senso iia ani*  s : et notamis et exptimcDtis per lucras vocales,  insonantcs, tanquaoi per clcincntafira, res prxnbtatas coqtie dtcitutikamnuiica Gi «ecl^MM litcr^m cdLati^  idc6 in-oaiinalibus cx iiiiip toruih vocabiilofuni : clarationecxof diaiur; in inucmiufa vcr^ tt imponendo  mfcrutationc. xv,: pupicx Grammatica alia civilis, alia philosophica J  ^Iuilis, pctiiiacft, non scientia Constat enim cx fli^totira*  C^tc «fuque clarorum scriptoruni. Hjhc sequitur Sciop«  ius Tutocbtis Lyf fiusjqui tunclcdt sputant^cin: CICERONE am VIRGILIO calknt § & vocv bu^a U. ph rafcs , ple«  anqgc naturaii f arlotaducrla.cji ptincipum.& vutgi vfu pc» i cptir i tete pjfcia vctii rati^e CfiaftAtjA iamolet. Eft cni M%icfiigan^ntc Hcausdcnotamisim icftigata, copulanrifque & dri^htntis rcs»prout in natura  cpcriunrur» mcthodu 5. Notatcniroc(rcntias, aftufqlic,&:hjt»   )itiidincs, vt if.fj^ viJcbimiif.   Hanc Grammatici vulgares damnarf ut , fi dixcris, vir#  «ofus, ridcanr, qi.oniam CICERONE dicit, ftudiofi) s:5c cnm vo*  :abulacx rcbi]s,non cx autoribus dcccrpimus, exribil.inr. Sco«  iim^findtm Thomam, aliosque, qui mngiscx rci natura  oquuntur damnant ifli, profc£t6 damnati jgnorantix, et Wodicitatiscrgaflulo.Vndi 5 Grcg. maicftattmvcibi Oci fc  rcgults DONATO inclodctcnti^n dcbcrcdcclarauir. Quid noii obloqiiutiircttmiiouascesifiucnimus vocabulis CICERONE in* 4 (jr.min.itic^lium   dicibllcst proptcrcaq ic nou is voccs cxcoc;iramu$ \ NobismJ  uearavocabdla IijBC,prifiialKas, eH\:ntu,cLlcntiarc,matcriarc,  2cc. huturtnodi CICERONE ncti^uc d Upliccrcnc ,liccc ignoca  olim. Itcmquc & ip(c ait : Beatituio & beattta^, vtrunqut  ^nm ifeivfu m jlUctuU funt vitUtbmU : cik vbi 'nuUcr^fi*  -xpfS «iixic , effcntU. At^Caoli opbis lcgcs pr«(icrtbaac: cr-  go^5c (cieatum coardAnc , ciuam Cmraipfeampliairct , (i  occaCio & ftieatia oon dcfutHeac : U Houcius licecc dixie  iempjer. HmttJmiMi Sipajpsm tmideor cum Ungua Catonls OEnti  Sermnem ftstriitm ditdmritjCP* nond rernm   Momina proiuUrir, Lkuii fempenfue Itcchit  Signatum frafente nota odticere noniciL.   rUto p(iinu»-dittr,idca: 5c Aristoteles. Eatiielechia: att  noiicg O£rimaIitas, &qiiiddiiasivi4e primam partem Mec*   libr. I. D/jfercmia inter CimUm Philosophicam. Dlffort Gratiimaricaduilis a Philosophica, in vocibusi  phraH. In vocibus iila fe atur auioritatem vfiim}  k quo adc6 dircedere tjmet  vt nec novarum rerum vocabula  oott^i admicjcac. Vndi polunt dicere, bombardam, fed tdr*  meotumljetticumj quod nomen commune est omoibus machinis: errant ergo primo trahcntcs proprium ad commune J  Sccunvio vniuocamad j Eqiiiuocum: wum cnim brodium non  habcn vocabilum in Latino, rcJ dicitur ius, quod 6c lcgC significat rconfanduc ergo rcnliim. philosophus vcio vocabulum iniicnict proprium in sua Graautica. Quoniam il!i  vocabu^aaifcdiuanon trahunt a fubllantiuo, (icut oporter:  Vtrcascotmcffuudit virtiiofum, hoc nonTtuntur|fed{\udJo-  fii:0 iicunt i qtifi, vo« longe abcft 4 signiticatione vera, dc  )3 im cileoti^ notacc voluot, dicuot  Quod cft  quo     iud crat cffc, Iiidicro quidem modo: cum vocabulum quidditas, & e^Tcntia , fint significantiora brcuiora. Bcnibus^  ic dicat Rcx Turcarum, dicit RcxTiaci^e , tam ridtculosc,  juim superstitiose.   philolophica ergo fcdatur commoditatcm, 3c rationcmj   vocabula significant ex natura rei et non confuudanc  cn fum metaphora x qui uocatione analogia. Ncctcmpusn; ni6cationis fruAra cxpcndant(qu6d niaximum cft dctrincntum:) ficuti faciunt Grammatici, descriptione pro vorabulo utentes. Differunt etiam in phrasi: ciutlis cnim vtiturphraH accepta in foro et curia apud magnates et plcrumqucdicit aliud  i proprio sensu sed vfusfacir, ut sensum alienum vediat oratio. Sic dicunt idem e dio tollcrc, prooccidcrc et pcrdcre. Id autem in philosophia significat de mediocentro m pcri» hcriam trudcrc. Similitcr aiunt, rcdigcrc iiiordincm, pro  >riuarc Magislratu. Atin Philosophia significat ex confuso nordinato, in ordinem tranfirc j ficuti cum Chaos tolUtui  naliquoncgotio, vclinmatcria rerum. Quaproptcr aos grammaticos nil vcrebimus. Eoum enim est confcruarc vocabula ac declararc (Imilitcr &  DratiorKs:Phik) philosophorum vcr6& Anificu cft inucnirc et ordinarc. Proptcrca temcritas Pacdagogorum miranda est, cum  T hcologos cm€ndant, proptcrca quod Ciceronis vocabuli  5c phrafi non vtuntuitcum potius laudarc dcbcrcnr jqiioniAi  omnis Artifcx (ux Artis vocabula inucnirc dcbci jfic clara,  kpropria imponerc. Hoc autem palam est, qupniam ex auiusdcfcdu acciditjvr idem vocabuluiri aliud significat in v-  naartc, et aliud iu altera. Unde, apud rusticos, “liber” significat ‘arboris corticem’. Apud litcraios, “liber” SIGNIFICANT PER METAPHORAM ‘codicem.’ Apud Politl-  :os, libcriatc ffucntcmr; apud oratores, “liber” significant, per metaonymiam, ‘filium.’ Similiter, “verbum,” apud grammaticos, est orationis pars significans solum. Apud theologos, “verbum” significat u test ‘conceptus animi, delaratus aut voce apud physicosacrisvctbcraiioncm notat, apud vulgus locutionem, 6c aliquando omne vocabulum. Proptcrca notaui  tx Yarronc» & Nonio, &Fcftononcxtarcvoc:» bulum apud latinos quod plurcs significationcs non habcar, quoniani  6 grammaticalium. /ucccnio Principuni, et rei publicae mutationcs, 5c f cmpora  jpfairohunt voccsadnouas signirtcaiioacs. Philosophia au-.  fcm non (k*. ria?:crca, Grammntlca ciuilishabct ortatcm, in qua vigcr:  & illam amplcduntiir Grammaiici: dicunt enim sub Cicerone 6v CcrUrcavlulram lingu^m: proprcrca non Plauti, ncc  Ccci!ij»ca? tcrciumqiic fcnprorum priscorum iermoncmac-  ccprantjicurnccrcccntiorum quaiis PliniuSj Ambrosius,  Augunini; s, e AQUINO (si veda) At Philosophica non  agnorcit.rtarcm lingua:, sed raiionalitntcm: amplc^iturqiu:  vocabula bona omnium temporum. Proptcrca 3cnoiia fi£ta-  quc vcrba probcconucnicntia rebus diccndis compk^itur  iuucnirquc: VI cnim Horat. ait. Licuit /(mperqjuJic^I^ Signatnm prafente nota producere nomenl Et f hrafim addcrc: pra:rcrtim cum impcrium rch^gfa,'  et artcs nou2 fucccdunt, & loqucndi modub.-voccs camt  proptcrrcs,non rcs proptcrvocc?. Vndc fon.m Eic;c(:.i«  fticum vtitur vocabulishifcc, canontzarc: {piriruali. ctlutura,6J: aliishuiiifmodi in sensu proprio non L.itin( r»im pri-  fcorum.idqucfi accufcs impcritus&rudis cfiS.NwfwiCLSvnic  authoriiaccm vocdbula fiiniunt. OVpCfftitiose colcns grammaticam civilem, languct id   j3pugna fcrbpxumj crbacaptatjrcscfFugiunt quas  praefcrtim ipfc fuis non infignit notis, et notas alienoruin   r con fatis notas colit &: vt Clemens Alexandrinus i.  Strom. 3. inquit . funt SophiOa: infcliccs, nugiscanoris gariicntes,cum in nominum dcbita, et ccrta didionnm compositione et connexionc tota vita laborent; cicadis apparcnt  loquacioics: U allcgai coiuxa cos rUtoncm, & alios Phi-£amj4ruIlA\ Lfherprmnf. r   oibphos prleium oloacm LcgiUtorcm, ita diccn«  xm. Adlingtia afpicitis, dulcia verba loquentes  Quiltbet at vejirum vulpis veSligia Jigit.  Cun^is efl vobis petulans mens. 'ulpesquidem tnfimulatfone iapientja?»quamnonhabent»  Sr in latcocinio alienaf, (unt fyci^i vulpcs :cum enim de fno  loo habcanc^ nid vcftes, quicquiddixete philosophi mutata r^ene verboruni pro fuo vcndunr. Mcns cnim pctulans vul-  pium fui amorccmmfc ipfamdccipit,putatquc fc plus fci-  :c,quia fcit verba , quim qui ics inucQigauit^nec nifi fua  Grammaticavcftiantur ,rc^la,&vcra, qu» dicit philosophus, reputaf: hincaliena vcndit impudentcr profuis, \*r-'  xsqiiia ornar fois. Horum fcimo cfl calix Babylor.is (in-quit Oiigcncsj in qao errores ctiam pro dodrina, nedum  furra, tradunt bibcihia 5ophi(lar* Vakie caucodum eft crgo  Phtk>rophfs«oe tis Aia icriptacrcdanr, qui, (lcut pcrdiX|io«  jcne, qt^a^noapepeierunt. Honim iniidtasmillies expertui  :oquor. Cauendwineilctiam Philosopho , ncrpernat citti  edl jQttinmat icam >dum tameo rdHisconueniat rcitis.Con«  remnitur enim d.tbtba petulaoti quafi indoiElus: & pucfi  fic^co equaceseorum quorumeft folum grammattca  ri»"ihc tjOtjcat», notanr fimplicitatcmfermonis: rcs cnim  noncurant, quilh|HS£ordctcnusmitcntur & optent pro  gnorantibuscoshabcnt,qui eorutii Grammaticam non (c*  [^anrur. «Sdpicnrespauci (unr, (\uItorum infinitusednumc*  rus :hinc eucnit »vt iiUablustaii^a, diMitiis ^dc do^ioa:ho«  Qorc vacueniur* .De partibHs Qrsmmatiea fSf ^^9^  m   QVoniamGrammatica congruitatem 6t(ktonh (cri-  prionis habct pio obj c^o di^io autcm iit cx vocabu* s ^ ram matic Aliurn   lis : vocabula cx fyllabis-.fyiUbacx liicrisiidcopartcs Gram- inaticx putantr.r 6c dc litiiis i. dicunt Crammatici om«  JiCS. Ittera ^rima parte Grammatica. Litera est elementum primum, idcoque minimum orationis. Dicitur litcra alituro, quafi cxaro, quohiam cxararur  m orcp^imiItuw««tatuLdlij fcflptura per manuamia , Grammatica Graec; Jicitur quafi literatura, quoniatn  dfuis elementis habet etymologiam. Poniturclcmcntum loco gcncris. JEfcmcntum cnim cll id, cx quo aliqiiid primitus componitur. Ponitur primum, ad differentiam syllaba, cx  qna secondo componitur oratio. Ponitur sermonis ad differentiam corpusculonmi atomorum, qu.rcxiftimanturclc.  xncnta rcrum. Additurminimiim, ad ciuficmrci dcdarajioncm:li cracnim iiidiuiiibilis clh   T^e numero Utcrarum.   SVnt autcm litcra: viginii trcs apud latinos A B C D E ^Sj^,i,K,l>m, n, o, p, q, r, f, r, u, x, y, 2, quarum Latinae non  luntnifi dcccn)& noucm,ctenim K,y,z,x,d Gratcisacccpcrunt : vtcbnniurcnim pro K , chjpro y,vtcbamur,vjpro  duplici s s i pro x,vubaniur ,s c. * 'A;'Tandcm h, nonvidctur cfTc iircra, fcd afpirarfonisnota,  addensaliquid fupra vocalcs. Catulhis cnim narrat Arrium foUrcpronuntiarc Hinlidiaccum h,pro lulidiae.  ANDO:  LibeffrimHsl. POflunt inucniri & alix licer t, vt • , parauna « & nia. gnumMtcm duplex g:in vulgan cnim sermone aJiter pronunciamus, gli, in vocabulo agli U in vocabulo mgli gentia. Item non datur g, qua: faciat (bnumx qualcm cmn  omnibus vocalibus. Non cnim ita conronat g,^, (icurg,;,  vndc Arabcs triplcx g, habcnt, iuxta tripliccm pronuM^.  tioncmhuius literae. Pia^tcrca litcra r , alitcr fonat cum a^  5cciim ^ , coniun£ta; proptcrtabcne fuitaddcrc k, &ad-  dcndacHec altcra litera, qi:a^aicdium fonum habct imer r>  & K>vcin vulgari fcrmonecxpcrimur. Pxxierci litctame-  dia imcr dc;^, rcpcricndaei Tctia litercnim pronuntiamus  r, cumdicimiis^rtf/y, & cum dicimus gr^/i^ > prxfertini in  vulgari sermone. Nec fupplet ii;, pro /«nec 0 duplkem^^ji^,  appoitas, vtia] ?pgti(ggi4eclarauimus: qua propter dclinea.  uimuschara^tcrem m€diumhac figura, Hi^ani vero fece.  runt cum cauda f Prarccrcsk indigemus dup'ici /, confi  suntividcliccr» et voca1i: quem ad modum Hirpani^&Heb.2c  Arabcs vtuntur jproptcr cadiximus ;\longx figura? consonantem : qui Hcbra?is cft j/ vcrobrcuis vocalcrr. '^I an-  dcm duplici,vocali et consonanti indigemus, quemaJmo-  dum Hcbrj:is, & Arabibus rationabilitcr vfurpatur, alio-  C]uin mu!ra vocabula faiso pronunti.bnntL:r»vt vt^a. vbi nifi  secundum altcra figura sciibatui pionuniiaiio fallirni. Similircr & iuuenis^6i /V/;v//5cc. consonans v, vocari dcbci vau^  & confonantcs ; Jcd^vcl /«^vt pra:fata lingua admoncnt;  Quaproptcr A Iphabctum nostrum erit quod sequitu|^n.  -^,^,f,k,rf^/,^,G,^^;V,/,w,»>^,f ,r/,/ r,», v,sf , Lkerarum alU ^vocaUs^aliA confonantes. Vocales quiiiqiic a, e^i, o fU^Sc dicuntur vocales, quoniam aiteda vocali sola, moUica vaticutc tnoduiationis, expiiiwuntur.   Cotsronaotcs ^uat yigititi i^d^fti^G^btj^mj^^f^rJ^ Dicumur consonantes quofiiam cum vocalibus simul Ib*  nant. Instrumenta enim vocis, que sunt lingua, palatu noi»  labia,^ gurguiio, vocem (quateit expirart aeris per arteriam  vocalem ibnus) configurant: 6c cum illo dicuntttCCon£6narc  non autem perlbnare vt vocales. ConfonaniiLim alia: dupliccsvt j^jtf,/-, alix simplices» vt  oniacs i^iiqtt^^ 51H3C cnim vilCD» pco duabus; noa autcni  Sunt apud Hebraeos dc Arabes duplices dmnesconrotian  teSydum pun^o intermedio notantur. Apud nos vcrb  fol«ie x.^yt, ftfnt dupliccs abrque pun&osquas autem vq«  lumus duplicaie» duplici codemcharaaerc noeannus. « m Solem contmgi vocales non eiufdeni generls]  con^itmrs, unam syllabam longam   qHamms per se ejfent brenes.  Harum comun flio voci'  SHr Difhthongus.   Sunt autem apui Latinos veteres Dipliihongl q inqne  ^,<r, tu^eUiCiy(cd in v ulgai i Tcl- uionc add Ci t u t to [ D li ilio   gf^qiiot sunt combinationes vocalium inter se, praetcr quam  in fine carminis po<^tici, vbi /ui , tolui , voi, mie &c. pronuntiaiitui dissyllaba, qu alibi pronuntiantur aiOnofylUba  IQirguuntur litec coafonances iamutaS)&;fcmi-vo*     D   Mut^ funtnouem. C D F G K P .ii. 7*. Etdicuntur  mut( I qupniam mutum habcnt fonum , quafiGom nuUa vo»  cali^vel vocalitatisaffiatu proBuncjat.   Semi-vocales sunt VII. ^.ilf.iV. R,s, j,ViSc dicuntuc  semi-vocalcs quoniam habent partem soni vocalinm .£t  quidcni S. apud-^ucretium caJit Inftar vocalis:ait cnim. Sceftra ^tfku^tadem aliis fopitus quieu efim . I^ta diftin£lio fuit vcraapud GrnscoSj Hcbrazos.Sc Arabcs:  qui lircras pronuntianr quali diclioncs: dicunt cnim pro  J4.B.^lpba,Bita,S) CAkfh.Bct:h.i^Eliph,Bat. Scd ia  idiomatc Latioo pronuntiatui limplici sonodc truncatosi  nevocjlibus, idco omnes sunt routae: licet non pofllnc  pronuntiati fine vocali recunduninos: tamen secundum nar  tvfam. omnes intelliguntur fine vocali nobis qui et vocalest  etiapi truncat): proferimua.   D'cLiiKUr liquidx L. H. M. N. quoriini liqucfcunt m  mctrc-.ira, vt fvliabai-n brcucni etiam producanr, accommodantur que brevitati et produ^iomi dur Tunt qua:  fcruant sonum et tempus. Syllaba est Uterarum vfurpatio ] ^nins fo^  ni , "vniufque modulatioms partialis index.   Quonia ex literis syllabx qii possunt esse pars vocabuli  propin c^iior:i moiiiatv^y 111 bi t n n nc iikcnd um; di £t is  iryliabano vcrbo Grx. Hoc est comprchcndo iqiionia Qi plcrumqucplurcs literas comprchcndir. Profe^lb quo nos vti-  niur literis, id valcnt jqua propter usus fecit de litera syllabam,  sed non absque raiione; alioquin de quacumquc litera facerec syllabam. Facit autemdc sola vocali, quoniam sonum  habet , non de consonante, qua: non habcr. Aliquando fic  ex duabus vocalibus j vt diphihongum monosyllabam jali-  qia Jo cx vna vocali, &vna confonanrcjvr,^f,aliqi aJo cx vna  vocali e duabus consonantibus vt J?er. Aliquando cx vna  vocali & tribijs conionantilnis, vt, //r./,3c rizjjaliquanJo cx  vna vocili 3 quaruor consonantibus, vt firum jaliquando cx  vna vocali q; iinquc consonantibus, vt j9/rp, Pluribus noa  viurur LATINII at Tcutonicis & Polonis vsurpatur. Vbi vidcs  n6/oirc cx pluribus vocalib. fi. rifyllaba, nifi abinuiccmabrorbcantur, Qcut in diphthongO i sed ex una tanrum quoniam  ipsa sonum pctfc<S^ um habcr. At ex pluribus consonantibus  .ficri unam syllabam vidimus, quoniam per se sonum noa  liabent, nifi vocalibus copulatx. Plurcs autcni ponuntur ai  modifiationem illius vocalis, tt quod purus lonus non SIGNIFICAT, (bni modulatfo SIGNIFICET vt in Mctaph. doccmus, dc  nominum impositione loquentes m Non reftfc Grammatici dcfiniu DtSyUaba cft comprehensio literarom sub vna vpce& vno spiritu indiftin*  dbo prolaca. Nam syllaba qvando que constac ex una litter;: vc  prima Wmamo. Nec dicas, habct ordiocm ad comprehensionem subrcquentium. Etcnim prscpofitio noti hjbct  ordincm, ncc ,vocatiuum, imo est aliquando litera, 5c  syllaba et DICTIO ET ORATIO. Igitur noa re£le dicirur syllaba  comprehensio literarum, sed potius diccnda crat particula vocabuli roni partcm pctfcctam facicns. Et cnimiiulla cpnfonans potcft faccrc fyllabam, quoniam pcrfc sonum  (lonedic, niacum vocali. Vocalis autcm cdit. idc6 potcft;  c(re syllaba.   DevocsMo] {.farte.^rammatks. Vecabulurne A fonm ort ani^alis frolatus naturalfpus inflrumemis formam, d SIGNIFICANDVM aliquid fim^U^ mmie conaftum. Ponitur /ijwif tanquam genus j Omnis cnira vox sonus  est &noniconucrfo. Dicitjar^/rv&rt/ w minutlr  ad differentiam sonorttm, quQS ventus et tuba, & rcmi , aliae.  queres, cdunt 5 qujc pro pric vocabula non facicnt. Pici-  nii* natuntlihus inHrumentis fomtafut » ad diffcrcntiam fonorum, quos anmul cdit AD SIGNIFICANDUM, scd per instrumcnta artificialia j qualiafunt tympanum et tuba 6C campaia i quibus ab cxuinfcco im^onitur SIGNIFICATIO iattamcii Uit,  conim foni vocab-.ilanon funtiquoniam nec pcr natural/a inftrumcnra.ncc naiuralitcr formantur j (cd pcr artificialia &  anificialitcr. Additur,^^/ SIGNIFICANDUM dctcrmirutte conceptum vjc?:tis , nd cxcludeJum voccs.qua; nihil dcicrminaii  ll5nificanr,aut cx naiura.ficuc intcricdioncsincq e ex im-  pofi:ione, ficui ncmina & vcrba. Scd irdcterminate v t^»/^  f.rf. Et prxtcrca ddhin ial/.ptid fimjjlex mcnte conccpitm-^  quia i:-itcric£lioncs,pafl*ionc5, &affc^ioncs, dcdarant coniplcxcpcr modum oraiionis, nonpcrmodum vocabuli. Vc-  .liim cnim vcro quidquid mcntc apprchendimus, pcrfonuin imiranteTJ iHud in configurationc litcrarum cxprimendo,  vocabulum facimu Vocabuiumautcm vocatur TERMINVS apud Logicos, quia lonos confufos 6c indctcrminatc SIGNIFICANTES ad aliquam ngnificationcm ,qua ita hanc rcm, & noa  aliijscoiifusc fimul intcllic^amus , contrahit. Diciturdidio  apwd Grammarieornu TrrctttrTiiuClXiim di£lio. ctiamvoca*  curoiatio,ne dum parscius, Tfot fnnt genera vocahHlorumyquot funtpaytes orationis immediate.   Oratiocnimcx vocabuHs componitur immcdiate , cx  litcris vcro & fy llabis rcmoie , & rcmotifiirae. Quem  admodum mundusimmcdiatcconftat cxprimis corponbus,  vocjtisclcmcntisjtanqiiamcx vocabulis: prima autcm cor-  poracx caufis matcrialibusadiuis, &idcaljbus, & formalibus tanquam cx fyllabis. Caufa: autem mifta: cx propriis particulib tanquam ex litcris. Vnde LUCREZIO corpuscula indiuidua literis comparar. Quapruprcr in (cqucnti ariiculo tra-  anntcs dc orationc,fimui omfiCS partcs cius,acproindc voca-  bula coDfidcrabinius, Liher primu^s, J5 Gcncra eigo vocabulomtn feptctn sunt iquoniam partcs orationis per feasc fum iioaiiiter reptem. etenim   T)e ^HArta parfe Grammatiu, hoc i[l dc oratione Caf. j. Axt. u  Oratio vocabulorum compUxio, ordinata  ad mamfefiandum quidifuid animo  comfUxe concifttur.  QVomm vna di&io fiu vocabiirum non (kch oratio^  lem^nifi rubauditis pluribusdiSiombi Vt cum qnis  •inttrrogantijV// fanmy retpondct . volo , pcr vnicam diaio-  Hcmiquxviriutc contipctpronon)cn ,& nomcn,^^;;m.  Picptcrca diximus clTe orauonem complexionem vocatulo»  rum. Addimus fri//>7fi/<?raw : quoniam niii ordincntur vocabuIa, noii fjciiintorationem. Vifidican :volo Pctrusfcrum,iguur,cun j&c.nihil SIGNIFICATVR SIGNIFICATIO corationis. Dixi, ad manifefian dum quidquid concipitur rnenti  CQmplexc 5 quoniam^ prmsc Qncipimiis animp fimplices,4  dcinde vocabuiis manifeftanMisjQK^qnci tta vt,^tiQK nenn conceptusexprimant. DemH^Nm^^imus res coiC ceptas,vti funt in natura,& facimusorationcm.VbcabuIaer* '  go (ignificant restoratio complexiones rerum conceptarun9.i.,   pendix, diutfioqne orationls in confufam\  ^ diHm Ham. VpIcxquidcmc(loratiCi aIia confura, aliadi(\in£la. Confi^ia fitabfquQ vocabulis, lcd folum ligQisclIca  tantibus animi pjflioncs, notioncs & afFedioncs. Vnde i Grammaticis vocaturparsorationis 6c intcric^lic:  quoniam aliis partibus orationxs intcriicitur. Scdnonrcftc.  iccnimctiam fola profertur intcricdio vocata: & fignificac  totum quod oratio, fcd confiise;vt ciira ridcns cxprimir, ^h,  ah.ah, Et admirans, P^tpe : 6c imprccans veh\^ plorans^  ehu, Quaproptcr non rcde pars orationis ponitur, cum fic  oratio, ficut cumdico idcm valcf ,ac , cgo pioro &c.   Oratio autcmpcrfcdacft , quardillindc (ignificat & pcr  partes qiiiJqiiid mcnsapcrirc vult.   De partibm oratioms dtllin£ia.Sunt partes.JlTMioms Jl^e99^nomerf /verburril  fartictfmm , fro nomen , ad nomen, adverbium, conimctio.   Probatlo & fufficientia.'   OMnis cnim pars orationis aut SIGNIFICAT ciTcntiam rerum ficcHnomcn, didumquali notamcnencnti^,  vt homo. Aiit fignificat aclum clTcntia?, 5c hoc facit verbum, vt: “amo” : didlum a vcrbcrjtoaere, quoniama£lus prc-  ccdir abcficntia foras, icwx vox in aercm. Aut fignificac  a(flum fimiil cum cflcntia j & fic cft participium , vt amans ,  quoni.mi partimaiflum dcnoiar. Aut fignificat pcrfonam  cllcnticr,& ficcft pronomcn, pofiium loco nominis.vt cgo,  & vos &c. Aut fignificat rcfpcdus intcr c(fcntias, & circun-  ftantiam ,& modum^& fic cft adnomcn, fcu pia? nomcn, vt  contra, propicr, cbm & c.qiioniam nomini prarponitur SIGNIFICANTI ESSENTIAM. Aut SIGNIFICAT moditicationcm & circumstaniiam adus. Sc ficponituraducrbium;fic diftum,qi)oniam  ftat iijxta verbum sigmificativum adus cuiulquc :vr bcrc,   foniicj^: intcridic:  :dno Qicdc.: et SIGNIFICAT :xpriniit|ii   itur^cimilit  > plofo &c.  cntiam rf-   cftcitvW'  afius prc   f bcrci.   Liierprimus. mj   forticer» heri.bis dec. Auc coniuagit effentias inter/e aut  adus incer fe auc efiencias cum  aftibus, auc ipforum  complexiones: & fic vocatur ^oni un£tio, pars fept ima s  vr, &tenini, igicor. De quibus figillatim dicere opor.  tebic.  PArriumorationisapud Latinos,alia:funt declinab  les, vt, nonnen, verbum, participium, &: pronomen  AJia: indeclinabiles,vt pra:pofitio , aduerbi.um,8c con  uindio. Apudquafdamnaciones alicer.   Declinari dicnntur , qua: in fine variant fyllabam att  irariaciottenr MODI SIGNIFICANDI. Qua; non varianr  modum, nec fiineiio vocis,dicuncur {nondedinari} apco'  VQcabulp, ex corporalibus fumpco.  NOMEN est vocabulum, pars Orationis declinabiiis vel particulal>ilis , significans ej OR*hciam. cuiufcun«    quereieximpofitiqiiie,. Quoniam de nomine, vi Oracionem in^redimr, cia^  ^Aac Grammaticus: propterei definttor per hoc,  quod eft- vocahuhtm ,! tanquam per genos : fed ad ^xpli-   candum vfum dicitur, quodeft pars orationis. Qupd  ponitur loco declarati generis. Deinde dicitur decli-  mbjUs^^d diiFerentiamprasnoniiniSi6c Aduerbij,6cCo£^  i $ Grammatlcalium Qtmpanellx]   ittndrlonis, qu^ non declinancur : qttoniam dicunt vnam  modo circun(bantiamvautre(pedum, aut modificatio.  nem e0renciarttm, & adttumeoram. Nttlium vero dicit essentiam quac plures refpe&us 8c circttnftantias habet}  vndeoportcat ipfum declinart IN LINGUA LATINA, et CASUS   admiteere in fine. In ahis aatem lingttisrhabet pro decH-  natione articulosjhorum cafuum notas, quod nuUibi  Kabent Aduerbia , Adnomina» 5c Coniundiones^vt mox  aperinius. Propterea non eft de efientta vocabulorum  efledeclinabilevfed vel declinari ,vt apud Latinos j vel  arciciilari, vc apud vt tlgarcb, & Hebrxosj vel vcrumque,  vtarud Grxcos.   Dixi ^gni^canr. difFv^renciam confignificantium.  Aduerbium cnim & prononien & prienomen , &: Coniuncliio confignificant aliqua circa e{Ientiam.& adus:  nonautem fignihVanrnliquidrarum.   Dixi (ffemUm. f\ A diflPerctTtiam verl3i,5c participij quae  SIGNIFICANDUM, 2c efTcntiam cum a<flu Itemque pronominis, quod mdiuiduaiitates& particuiaritateseircn-  tiae (ignificat j & non efsendam immediace »nifi vc perfo.  nacanu Dixi tandem , '/iif^« >/fei>9 Quoniani Nomina CC  ^erbaab intellec1:u imponnntttr AD SIGNIFICANDUM, & non  ab animi affecflione; quemadmodiim interiediones,  qu£ nulia incellefttts confiderattqne expe^kata» foras  promontttr«   Vrimum (orolUnum correSfmtim dejini   QYiipropcer fallttntar Giainmatici , dicentes  nun ej/e fJrtem 9Mtom$ dedlnaiitm ft^nijUdtuem  fubfianiidm , autifnsUMBm pofrism vel eewimnMtm emtt   cafu. Non enim folam fabfbmtiam ,aut qualitatem, SIGNIFICAT Nomen, fed omnemefsennam jkilicct & quan-  ucaceiu^ fotm.am;)&aAunij^ adionem,6c paiTiQuem,  . ,j,.i^'.d   rimilitudinem A difnmilitudiuem, Sc Relationem, &  >^on-ens. Et enim ScNon.entis datur crscntia ^faltcm  •^iQt^llccflUj quamhocnomen, «//'i/KW^ fignificac. SIGNIFICARE SUBSTANTIAM et quantitatem et qualitatem 6cinruperomnia alia pixdicamenra, est essentiale nominis: sed QUOD SIGNIFICAT propriam. vel communem, eft accidcntalc-, nec ponendum erat Grammaticis in fua definitione j cum nuUi fit vfm , ncque ad noicendum nec ad diftincruendum. Simihteretiam SIGNIFICARE cum cafu, accidic Nomim in aliqua lingua qualis  est latina ScGrxca. In Hebrcxa enim, ITALICA VULGARIS ,  6t Hispanica 6c Gallica non dantur casus nommumi  fcdarticuliipforum cafuumloco ponuntur. Sicucetiam '&: Noinina Latina indecIinabilia, & finccnfibus, vtceUe  U coTnu\ \r\ fingubri. Ergo falluntur Grammaticnn definitione & efscntia Nominis. uotrnodisl> JomenfignifimeJfentiam.   Orrb Nomina fignifican tomnia prjcdicamenta^qua-  tenusfunt cfsentia:,nonautcm vc a(^lus. Siquidem  albefaaio cfsentiam a^ionis dicirj& albatio paflionis;  non autcm aftum ,qui eft albcfncere , albefcere Hoc  cnim verborum eft Praeterea Nominum aVuid efsentiam  puramdicit, vt Amor, 6c Homo aliud vr ad iunaamal-  teriefsenti<j; vchumanum:aliud vt conccrnit aclum in  omni genere. Quod vel e fsentiam aa:ionis , fcu a^lus, vc  li^io ^amatio, au3itio, wc\ efsenciam patienci5-,f »r^,  treatura, amatura:vc\ essentiam instrumenti aausjvc  amAtorium , anditoTinm Jenforium , potef^atorium , qonu-o-  tant. Aliud efscntiam , cum poffibilirace aauiarvc y//-  lefa Biuum: aliud cum pofiibilitace poffibilicace paf-  iiua:vt caJefafHhile : Mud fignificat efientiam ordu  natam ad a^am, exiftcntiamquc vel PRAESENS, vc C ii  p   “amans”, vcl prxteriram, \iamattis, vel futuram : \Z'amX  iur:4S,6c amandus. Aliud totum negotium circa adus, ut nego aamenttintyteri Umentum arfvamentumyVvAgo Paf*  lamento: aliud totaai ncirotiationis 'aut entitatis com-  prelienfionem,vtfl«//<«/^*^», notamen examin ^ Yulg^>  effame^ canamey gentame » & canaglia, rifri/agliaisMvid  .xem cuni efficientia istnetificum dolorifiatniyfrelificum.fic  quxcunqueexfacio, &re,qux fir,coponuntur; aliud cu  plenirudine, roecanditate  viamofofiKm vinofum vm»  iro/ttmtilmd Nomen eflentix comparationem infoper  confignlficat}Vt vinofins^^ fottior\ aiiud fuperlatfonem  vtviniflsfimus ^fortifiimnu Concernunt etlam Nomina <](uanritatem cxprefsain )fedajMid Latinoi foliim dimi-  nutiontmwt i)»munculuty mMsufcuks, Atin vulgari lin-  gua etiara amplificant: dicimos entm “signore” “signorella,” “signora”; {X,o,Stgnorotte “signorino” USggnorotu, Primum  Itfnpl^v^.H^^jpTi^imimiii i 11 irllfiiTimpllfi  C4tj. quartum fiiblimati quintum mihuit ex parte abC  queaoie^lione.   Patet autem > quod differcntia flexionis , & finitionii  vocabulorum indicant refpedlus addicos cfscnciis j vti  mox. deriuando confid Qrabinius.  . Diuifionem fortiuntur Nomina ab cficotia aquan-  titate, anuniero , ab ordin e, a fexu, i formatione.     Diuifio /. ab efentia, feu eJI^MiaU^:Ominum Aibft^ff Pumin > aliud^j^il^*  dinum. Lihr ^ritaus NOMEN SUBSTANTIVUM est, quod per modum subsiftcntislper se, significa c j ut, “homo”. Nomen adiectivum est, quod per modum adiacentis jilceri significa c*  vcalbus,d: ut “humanus”, & rifibilis.   ERgo duplexeft Adied^iuuiHyalcerumrubflantiale  folaquevoce adiediuum , vc i^ir/i^iM/f , & hBhta num animse idiacens j cum dico » Amma raihnalis , vel  humana. Aliud accidencale9 Voce2c re Adie£liuum.vc  maUgnum^ 8c d^flmn adiacent anima: vt cum dico» Ani-  msi cfl maltgna vel dofla i homo albm. DTuifioprimafumiturredcab efrenriaNomjnis^quas ;  est SIGNIFICATIO. Et quoniam res omnis aurefl: substantia, (cueffentia,ricucAtf«ip2c rr/^w^if/a/jaucaccidens ;  , fubAantix- feu efsencix. vc albuSyhCli^eu$\ cum dico,' /  homp eA albus : crianguluscft Ligncus*'- propterea omne. Nomen auteftfubftanciuum, aucadiediuum £c !y Aib- ; ;  ftantiuum , idem qiipd eflentiale in hoc loco. Vnde al-*?h. ^  htdo eft fubftantiinim , duoniam gnificac pcr modum  fubfiftentis, licccalbedil^^ift^c.res fubfiftcns in fc, fed ^  in fubiedo corpore. GrammaBt!ti^innen refpicic modum fignificaiiai,nonrenifignificacam:ficut Metaphy/!^  Aibusvero dicitnradie Aiuumsauiaper jfenon figniii.  cat fiibfiftens ,fcd inhacrensacciaenfbue^Iten. £c;pro«  ptereaetiamly sationalc hpinini eftfftdicAiuum :n$m  licet fitfubftantklcicciindumrem : tamcn (ecundum 8e  fignificandi modum videcur adicdiuum , vt accidensr. GRammatici dixcrnnt, Nomen rubflantiuum efTe  illud^quoddeclinaturpervnam vocem, &; vnum  articulum , vc/^/i:/>orV^«: vcl per duos articulos, 6: vnam  vocem,vc ^/r^c^/j^r^i^mo. Adiedliuum ver6, auodper  tres articulos , 6c vnam vocem : vc hic, hac^ hoc fsliK'  vel per tres arc.& tres voces : vr hacacerjjaeacris, & hoc  <rfrtf •velpertresarc. & duas voces : vc/&i^ , tatU^  n^Us^Schoc rationalei vcl pcr tre$ voces :vc^pfl0;, jtf»^,  bonum. Sed quoniam lingua latina non recipit articulos ficuc Qfxca, deciaracio ipforum eftnulla. Vnde  multiGrammatici non vtuntur articulis indeclinandoi  Vuigaris etiam Lingaa nonhabec-nifiduas voces^ vt plu«  nmum in adie(fbiuis : vc kidiUB ^tiL kUntai^in pluralii  hianchi hianc^iej^^saj^xxtx &: I lifpa ri i^ i^rab^s^fe Hebraci. -PfxtereaHeclaraiio ipforum non d^i nacttca No«-  imnam^feda (Igno adiacence)& vftt;   Vimjio 11. Nominum ex qtiantiMt.  Arck IXL.   Nbminnnalittd commune) aliud propriom. NOMEN COMMUNE est, quoJ plura Itmilin fimul significat, ut “homo”. NOMEN PROPRIUM est quod significat unum, ut, “Roma”,5c /'<r/r«ij& giQptereaciiam vocatur particttlare, &pcrloiiaic.-   Hi£c<Uoifibdici Cttriqoanthate , qaoniam commo. 4idcttr de. multis. N^m “Petrus ed “homo” “Paulus” c^hnmd Vrancifcns  efi homo, Propriu vnifoliconuenit vc “Roma”. Non cniin  dicicur Roma nifi ciuitas illa, in qua Papa regnat.F.t qua-  uis alia; ciuiraces polTint vocari Roma ificut&ali, ho-  mines eciam vocancur Pecrus; camcn incellcdus luiius  Nominis, X<>w^,& “Petrus”, refpicitvnum »cuiusefl: proprium. Sed profe(fl6 grammaticalicer omnia propna  pofTunc ficri communia secundLim. vocem, feupera: qui vocationcm  fcciis tucem fecundum rem ; vc in Logica  docebimus. Reclc camen hanc diuifionem quancitaci  adfcripfimus } quoniam magnirudo & mulcitudo in (1-  significacionc ad quancicacem spedare videcur Nomina  eciam a pronominibu fiunc communia, &: parcicularia,  & singularia i vcjw^w /;<»OT« altquii homo\^ hk homo'S\'  cutfuo inlocodocebimus.   Tslominum , am?ncro. Ominum aliud fingularc, vt homo : aliud plurale, vt  bomines* . T T^cdiuifionon refpiciccolleAionem ,&vnitatem^  XjLficutiam di^la ifedfolum prolationem. Nam A#-  m9 , cft Nomen commune ,& gens , & populus ; plurae-  nim significac, sed pcrmodum vnius colleftiu. Et propter ealicctfit nomen communejnon tamcn est plurale,  icd singulare: hominei autemnumeri est pluralis, quiaplu»  raiicer profertur. £ t hoc in omni lingua similiter. Nominum, ix ordine. Nominum aliud primitivum, aliud derivativum.  i4 ^ramm Atlcalium  PRimiciuumell, quodanulIoefi: gramaticaIicer,vt;55--  moy & mdns. Derivativum, quoclab altero deriuajturivt “humanus” ^h^^oxrnnt : sic “montanus” a “monte”. Semper autem deriuativum est adie(3:iuum,auc verbale: primitivum xionitenv. REclediflindlionem hanc ab ordine fumpfimus. Oi'-  do enim est, vbi datur primum et secundum, 6c  tertium feriatim a primo^ercro quia aliqua nomina sunt  primitus impofitaadaliquid significandum substantive:  dicunturrc£kc pr iiiii ordinis : qu x vero ab eis , dicuntur  deriuaTT, ficutriuus a fonce. Ecquidem datura deriuatione etiam deriuatio. Nam a Marco deriuatur Marcel-  lu5 ra MARCELLO MARCELLINUS Ec a lufto luftinas .drufli-.  no luflmianus. EtquidemJy luflus/umirurfubfiiantiu,  quarcnusab eodenuaturluftinus &Iuflimanu. Non tamen inuenies derivatiuum, quod non fic adiecliuum , vel.  verbale "i patreenimdehuacur paternus Scpatrizarc. DAnturNominapofitiuajVt iu^us-H. conaparatmai  vc iufii6r-H fuperlatiua , vtjuffifiimtts SIGNIFICANTIA magis iustum et maximtiufi: um, & hoc apud Latinos,  non incundis linguis. Et quidem compararivum derivatur a primo cafu. definenTeini.fi.n.itf/ fiaddmius ar, fit  iufiioribifort} Jortior. Ar superlativum regularirer deriuatur a pnmo cafudefinente ini/, autinr,^. vtkiufiif;  & fdftis 'iufiiJHmuf, ftrtifsimus - & a miftr., miferrimus.  EXCEPTIONES LATINORVM. Excipiuncur hnitt ,malus paraas ;;.v;^nflj: ex quibus  noii deruiarur bomor bom^\mus^ 5c walic) ^f.^ruior^  ma(^nior ^rnaUfr-nus ^faf^ifitmui ^waf^nipimu , lcd a bona  meitjr^ optimui ' a malo pcjor^fcfamui \ i paruo nntior^ mir,i-  mus : aaiagno, major^ maKimu!.F.xcipiuntur noniina desinentia in ificus y ytmaj^ Tiifiius ^fiiakfcns hcncfccntue  beneficus^ fimJia : 5c quibusderiuanturw<i^«//ffr77//(;r , w^-  gnt^cenn^imus :*nalif(€ntUr^ malcfcentifiimus : benefcen-  tijlimes , et similiter in similibus. Prsctereo excipiuntur  qu^edamnominain desinentia vtfadliSyhL humilts  quselicec producant faciUof^ humlior it^n^en non ad-  iungunt^icem fafiltfiims kamiiifitmusikd fadUimus U  humslUmus .^radiUmns. Dicimas camen ab vtili vtiltfii'-  iffffi.^pudPliiiium. In vulga naucem lingaaperadiier  bia gtadaadcur, vt fi^ Bonp i l piu h no : ntb pnrfidiu  ^o9i;/^m^i>9r^/jfim^ Gailic^ vetbYm 609*   qaoDiamtercio gradu dift^tfuperlat. apofic, '   Grammatici b an c difti n^lionem vocant /peciei ,vndc  dicunc prnniciuam speciem, & deriuaciuamrfed c^nn  fpecies fitid quodfub fignato genere ponicurraut rei  apparentia : cum hanc diuifionem non ponant fub gene-  reafHgnato vllo,non rede fpecificam vocant. PofTenc  cnim limilicerdiccrcipeciem fingularem &cpluralem: 5C  & deplinaCLoncs eciam fpecies nunciipare. Philofofhifma Grammatkdtiqnis ad diriuationes. F DEriuare'6ft rluum de foncc ducere. Fonscficntii  rcrumeft, vndidacicarexiftentia & adasexiftcn  di, adtuaodii agetidi., fic natioulL Idcirc6 ex nomine,   quod efrcnciam fignificat^cleriuatur verbum. Nec potefl:inueniri verbum, quotInon fit a nominervt cnima  nominederiuatur« (?w/«<«r^,itaacaIore caltre^ caUface^  y^rafrigore  rw/r/V/^^ i ab amore amo :Avita viuo^ abho-  mine homifico erenim vbi non extat verbum ,oportec  illud fingere in GRAMMATICA FILOSOFICA; vt a remo-igare : a capite capitalare - a manu manej^pare dicimus in vulgari idiomate, vt a patre fatri\\ars icc.fpaU  leiiare campegparey fefleggiate. Veruntamen vbi prius reruma <flus, quameflentiain-  notuit deriuauimus nomenA verbo non secundum naturam sed secundum neceffic a^ex c/^; Theos i, vidco dici-  tur5^£;5 Dr«;:&a lego dicitur lcFfor-i &:adiligegere dileUio. Essentia enim diligcntis qua diligens est,  nomen non haber, ficuti multa, quorumeire eft adic-  ctiuumnon fubfiftens.  Quandp veux^ilVnm ctTmftro~a e- xiflendijVel operandi,vel agendi,vel parrendi fimulfignu  ficatur,tunc ad vtrumque fignificandum fex nomina par-  ticipaliaderiuanrur. Duodicunt pocentiam adjndlum,  \l\amafjilc Sc ajnatiuum : fuFiihile & faBiunm , idefi: quod  poteflifieri 6c quod potefb facere : 5c duo significare frentiam cum adlu prxfenti, vt amam & amatum , portans & porcatum : duo vero cum aclu futuro, vt amatnrum &  amjmltirK ifiiFlurum Sc faaendnm, ideft quod facier 6c quodfiec. Duovero praeteritum concemere aclu cuni  cllcntia debcrcnr,qux tamen IN LATINA LINGUA non reperi u n tu r -fed lY^wrf///'w ampliaturad prxfens &prxterr- tum sicut & ly amans. PofTet autcm dlci Amatutam. & Amarans, lcclntum & ledatans :porcatutum &  porcatans. Qui ergo linguam perficere vult confideret. Diciturtamen inaliquibuscacnatum ,ideftquod cx-  n:\uit,8c quod cxnacum efl : fed confufa aclione cum paf.  lioTie per inertiam vfus,cyranni fermonum : non auteni  rationis,qux Rex efl sermonum. Quando essentia non cum aAu, sed cum virtute ad  aclum dicirur, dexiuamus nomcnaliud in torvt Ai^ator, tr   «dificatoivideftqui arcem5c yim ardificaudi babct vci profefnoiicm. Rurrusqtiandoinftrcimen^m vel a!iquid 4nftrtimen taleadillum adum, enunciacur deriuamus nomen aliud inoriam tfinemy Viam dipnvm JotttMium exetutc^  fium^fcnforiumy potiftatorium appetiterittm.  Deriuamns in Mum &a^iuum , quando qiiod de gVr  nere maceriali alicuius eft prohunciamus, vcfa^itium,  nouititium, commendaticium , {litlaticium&Tulg6 niOr  uitizzo, compariccio, acquariccio,  7 Q^ndo mocium efTentia: cum adu: in«r<<deriuamus, V t /^.r, genitura, creatura. Quando congeriem elTenriaram & aAuum eiufdem  generisin entum dcriuamus vocabulum , ut “firmamentum”, documentum, & monumenium vulgo par»  lamento facimenro, magiamento,fentimento.  Item cum pcrtineraliquid adefTedicimus, in ile &ale,  deriuamus : vt/6m/^ ab hero, feruileaferuoiliumilcab  humo, ouikab ouibus : b(aciiiaIeabraciiio : exiciale ab  exicio. Quando ipsu adu, vt cfTentia &q m'ddita5.eft,Tel in ufl vel in ia vel aliter deriuamus vt Amorjlanguorjdoldr, fa-  pi£cia» do<?l rina, led io,amacio,iu fti tia , focutip, difFcritas.  . Quando efrentiam plenam adu , in entia, vt mdQlen^  tia patientia, conniaencia) fomnolencia, pracfentia , clifw  ferenti A^abrentia. Qua:dam dicnnt eflenttam 6e curam uBlva^ in aHmm  deiinatasTC Armencarius, Cbriarius,Commiflarius,de«  pdfitariasjlonuius^ 6c vulgo ftafiiero Caaaliero, fi)mie«  ro&c«^   Qusedam dicunt cflenti & a<ftusfimulmunus, £c iii   ifl»«deriuantur,vt “lanihcium”, “opificium”, “di/ridiuni”, puer.n.  perium, “pontificium”, “sacrificium”, “presbyterium”. Quxdam comparationem dicuncadie< fliuorum, quiedaniiu perlationem m /«r , 6cinij7itai dehuaca, vcio*  ftior, iufl:ifTimus, aiufl:o, &c,   . ii][u^dam dimiautionfim. ia mkm & vxiUm  lum, vtwi^z/i^^a/ai^ peclurculumj corculumj  &mollicel-  lum, marceilum rcribillo, refocillo&c.   Qu^c aucem iiKlinationem,cum adus deleflarione in  cfurn deri uauc ^st,amor9fu>Si fragoftis J carnorus , vinofuj,,  faftidiofus.   Ac in lingua Lacina non reperitur verbum &nomeft  has omnes derijuationesiiabens. Picimusenim , Amol\  aman s , amatum^ amaturum amandum amati^um, “amabile”, amacanumtamatop, amaciflimuus, amantior, sed  deen: amacio, amamencufn^ amaficium, Amatura, Amanitia, Amorofus. amaticium jamaeile :qdxtamen aliisnon  de funtvbcabuiis»   ^ In vuigari linguadefimt dqriuationesiiiiiltx^fed alix  Mifupcr adduntur. Nam alfignpre dicinius signorone-,: signorazzo«figQoreito, signorino, signonizzb, fignorclrr  lo, “Pietro” “Petrone”, “Petrazzo”, “Pecrocco”, “Petrino”, “Petrillo”, “Pietrazzo”. ^r^iriTfff iHdirmd^nii iiilinpni al ti tudi- WMrfiprifaz^^o'^\^t\t\xA\n^modtcam dimi^. nutionem (finorinj^fXus minuic 5c fegregat. Stqrjore/'  h,zd ceoericudiiieiii imbecillam traliic. St^oruz^yO ad  minimura, Suinta nominum dimfio a S^xUr^ Art. Nominum aiiud mafculinum /aliud farmininum, a*  iiud n^ucrum , alittd cc>mmunr,aliud omne y aiiad  promifcudm ^aiiudincertumi; 'Otwenniafbulinumcft qwod mafculum in fexdi^-  rum fignificat: t4>jagta,& dbu*.. Et dcdiDatiir per  arti culumbic. Latifiis, vuigopeiri/. e"'Fxmininum.d[lquod ramiioam fignificar, vtfi: & alba &mtt Uecd£. defignaaturper articalmiH i&^A Vulga  per/tf.   Ncucrum,<iuod'^ecau^ f«minam fignifioar,  iFtcleclinaturper ai^iculuno vc ftudiuiti^^calbam»  ][acionale. 4^eftiVi vulgarifennone arcicttlusneurri. Commane quodfimutma fcuIumdC&rminani figoifi-cat:&notatur perarticttlumJ^i^ et hai homo^ti adue*  ni;&'ratidnalis» »   Omne eft quod fignificat mafCttlum, f^niinam,  neucrum: 6c declinatur pertres artijculos, vc i^ic &: /;/r<:   Promircuum , quod fub vna fcxus (ij^niflcacione Hgnificacvtriufquefcxusanimal, vc hicPaffer,ha:caquila secundum vfum loquendi.   Incercum quod nunc mafculinc, nunc fxmininc pro-  nunciacur Wi&4r^£uiis^.tamlacinc, quam vulgariter, Qunnmisresomnc'in omni rpecie.iubeant-aliqua'  indiuidua fortia, vta<3fiaa in generatione aliqua  imbedlla dcpaffiua in generatipne^pr^fertimanimalitim Larinitamen vfumrermotitsprsd scientes jionragnofcunt fexumn Lfiioanimalibur. Etex his cradiaxerAmcad plaiv ; icas. Pydiagorici aucem (exum-ip x^undlis a g n ofcttnc r^r  bu$ : ira vt agens fit mas , patiens £emina , materiaque.: ammatici raiiien in omnfveliocoonagnofcences, dti-/  ; fftpbj^run^ fettti1i>gc i^omen maribusr   &mininutnffim alias tranftute;   nittt. Qiiaproprer Z)^»/ ^?te4ttt4iiafcul^ , terri^ fx^  mininc: Sci^vis mafculinc, fa:mininc, quoniain bis adioin ifli^.pa/Iiorelucrbat. At in rnultis (^enus non ponunt,ncque.'enim ftudium eft mafculu.s aut fxmina,  &rcdc. Sed rebus fxmintisaliquando danc vtrumque  nomen:Aqua enim dicitur />wy^ flrminine , lateK  mafculinc : & quidem aclus voluncatis vocatur-appetitus  mafculinc, auiditas fxminin^ : et defiderium neutrali ter.,  Scamnura etiaponjcurneutraliter.cum potius Avminine  idebeac ponii qttoniam ittbfiac^vc faemina fedencibuSft  Di^itizecJ by Go Quapropcerdiftinguendficftde feJtoPhyfico &c Grammaticali. Pliyficcenim non daturfexus nifi mafculinus  et fxmininuSjVt in viro 6c muliere:^ promifcuus, in  hermaphrodito , 6c in lymacibus, communis :nam motus vehemenriscft mafculeus, debilis fxmineus. Neu-  trum autc nil videmur dicere : non enim proptcrca quod  noncftmas nec fxmma eH: aliquod genus. Sed porius  eftnullum g;enusphyficum. Sed grammaticalirer dantur fexusplurimiiam di<fti;mafculeus, fa!mineus,neutcr, communis,oranis, promifcuus, &inccrtus, fecundulo-  queadi vfum, qttinon semper nacurac correrpondenr/ed plerumque,in Grammatica humana Grammacica aute  Angelorum melias exprimic&per cercasvoces cetcos  fexus &veracicen   Sexum Grammacici vocanc genus, nbnredevi^on  enim funcduogeneramasft &minat V^in logicapate bic. Nomtniim ajbrmatione   Nominum apud est formxfimplids: aIiudcompo(i«  cx : aliud de compolics. Nomen simplex est unius vocis, compositi pnis ex-  pers, ut “animus”. Compositum nomen est quod ex pluribus nominibus,  componitur j Vt “magnanimus” ex magnus 6C animus.  Decompofitum vcro eft quod ex compofito deriuatur,  non additainterdum compontioneaUa^vc Magnammi-  exmagnaninio.  Onab re hanc distinctionem ex formatione voca-  accipimus. Cumenimres alix conllent ex  NOni   simplici forma , llcut aqua. cuius oinnis pars est aqua ob  ^lDriginalem homogeneam formationem. Aljx conflcnc  "{^tyi comj)ofitaforma,ficuti pirum ex circulo Scangulo. Alix ex pluribus compositis , Ilcut facies hominis ex forma oculi et nasi et genarum et mandibulx, 6>: auris, &  ceterarum partiumjita euenir coportet vocabulis in fui  formationious. Forma enim totius ex formis partiuni;  formx partium ex vnitatibus resultant simplicium formationum ificuciin logicis declarabimus. Vocatur ctiam  figura a Grammaticis simplex composira iquos non fu-  nius imirari '/quoniam formatio propnus quam figura  remhanc elucidac. '   Considerandum quod compositio alia fit cx nomme  &nominevr “magnanimus” ex “magno” ^canimo ta- '  •r^-La ex nomine & verbo , vc “magnificas” ex “magno” et “facio”, j  aliaex nomine& propositione, vt conferuus ex cum fic  seruo, 6ctranrpofirioextrans& pofitione: Aliaex aduerbio & verbo, vcraaleficu5& male&:ficio :alia ex aduerbio 6: nomine vt beneficium. Accidentia communia omnWus Nominihm.  ACcidunc  nominibus declinatio6( cafuSjinllatina-  Grammacica.;    C G  Casus est mutatio noixiinis in fine Teu cadentia di."  dionis in eodemnumer 6,vc Pecxus Peai Pefro. DISTINCTIO CASVVM.   CAfaum aliuseft reftus, qui nomina dnu$'vbcatun  quoniamonmis rei nominatio primainipfo est.   Alius obliquu^quianon adres fblam nominationem, sed enn m ad aliquid circa rcm fpcdat, &: cfl quincuplex, videl Gcniriuusdaciuus accuIaciuus, vocaciuus. 6v ablativus Quibus debet addi aduatiuui, vocatuja GrammacLcis feptimus ca(ufi. Nominativus dicirurcaftis non quiacaclit ab alicjuo, sed quia in finc aliam cadentiam habet quamahj et rcclus dicicur, quoniam reda nominacio cfTencix per ipsum est. Alij dicuncur casus, quoniam a nommacivo U,  ledicudine sijgnificatiomscaduntj &nraulinfine mutant cadentiam. Dicitur gcnitiuus a gignendo, vel quia primus gignitura redo vt quidam volunt , & hoc minime. Nam poctac non magis ingcnitiuo quam in datiuo dicimus, dc-  Patri <i4i/i««i, vicmior eft pzter ^cminjtiuo , qu.im patris.  Gettitiim Si quiadditvnamlitteram fupervtrumque. Sed  dicicur genitiuus A gignendo.quoniam pactcmjip geni-  stiuum poiumus cum nominamus fihum morenij fibrum,  'Vt Pl^tfUsIoannis filius. Sed non solum patrem ,)[fdpofr u. '  fe(rorem,& fubieaum^^^ 5c aha?^luto|poDfe/   fxpe in^enitiifo^v <}uon1am luri^ijf|if^jpfBkm i|«   }$tn cum patfe faJtem Grammw^em^"  » nefcierunc vocabulum explicans omnia.   - ad  adhunc cafum pcrtinentia & declararunt eum amaicri   Dici cur dativus a dpiiando, quoniam ille', ciH quid datur, poniturintali.carttplerttmque»ticel i^itcrdum&tui   aufertur &, cuLtimetur56cc. Accufariuus dicitur abaccufando, cjuoniam patiens.  caufa quafi femper in ipfo ponitur ; accuiatiautem cft pa.  ti. Accufareaucemciletiam adnotare&fugillarc.   Vocatiuus dicitur h vocando; quoniani ciim quem.  piam vocamus , in iioc ca(u oblnjuamusjnomen, vt 6  Petre*'   Ablatiuusabaufcrcndo,quoniamcum abaliquo quid auferimus,ponnnusillumin tali cafu.led etiam caulaa-  genspaiTiuaibi ponitur ,6c inihumenta omnia, quibus, operamur,vtquibusimplcmus&:vacuamus,vt.loquentes  deverbisJ declarabimus. A(fbuatiuus ab acluando^quan-  do forma.inftrumentum & pars indTnmcncalis adum   concexnuncimmanencem,vtini. lib. docebuuus. Non fuiRciuncpracfacrcafus, qubniam Poc Hiaeftno.  minatiui, vocatiui/& ablatiui. Poeriveif6 geniciiii,  datiui in fmorulariter & iterura nomin.i& VocaCiio plural.   ergo alij aidendi crant in cun^s declinationibus, vel  ftandiitTt in.articulis , vel addendi. Nam cum vulgb  dicimus j//>^i/fi/o^/-non habetur in latino mCifMfi^  fhtts , qui n on exprimic quod3ir^idnuit,pr«fertim inan-  tlionomafia. Declinatio est - variacio cafuum nomin.um gene^  jracimt   Quando nominain finccadunc, feu definunt aliter,  cum dicunt efientiRs , 8c alitercum circa elTentias  aliquid de illis dicitur in lina;ua Latina & Grxca : in no-  flraenim vulgari noneft differenriacafuum ,fi?dnumeri  tantum:loco aurem differentiarum pooimus articulos,  quibuscarent Latmi & abundant Graccij & in hifce cafi-  basnonomnia eandem normamferuanc^leddeclinaoc  abeavariando pluribus modis apud Latinos jin vulgari  enimnomiifi duo funtmodi,6canomiQadaisagnofcun.  tur non i genitiais, vc in latina » Giammacici cradide  runc declinationes nominum. DE NVMERO DECLINATIONVM. Sunt^titem Vfeclinaciones nominum fex: prima caiaa i.  genitiuus (ingularisdefinitin, diphth6gum, vt Mufa^  Mufa^. Secundacuiusgcnifiuus fingularisdefinirinijon-  gum vt “dominus”, “domini”. Terria cuiusgenitiuus fingu-,  Jaris definit in is , correptum, vt pater patris . Quartn, cuius gcnitiuus finguiaris definitm i^; producluni, vt vi(u5,  - vifus. Qmnra,cuius genitiuus fingularis definit V/, vtfi-  des fidei & fpcciesfpeciei. Sexra^ cuiu.sgenititt^ifingulaxis de fiuit m ^ , vt cornu cornu,: J,cfuS) lefu.  Nominacioos non indicac declinationes cafuum»]  quoniamconcingic ipfittti tpl«i^bus moJis accipi  i N omina imponencib us , cum prxfercimd lingpa peTe"  mBain kuinam accesfianciur, fed in geniciuo ccncor4^  danc, Bc io^cieceristpropterea a genitiuo babenC; diftinonem -fingular em, vc Poeta poecas » Anchifes Anchi/se»  Eneas Eneae, Adam Adae , Aminchas Amintb«. H^ep  cfmnia n6mjaa fpe&ant ad primam decIiaaciQneni , U  tiberprimHs.  coniieniunt in genitiuo 6i opponuntur nominativo,  Seci profedo Calliqpe est prima: dec]inationis, &: concordat cum aliisin genitivo ,(}uifacit CaI!iope5,propterea.  dicendum quodnomina purtlatina conueninnt,externa  vero variant in eadcm^declinatione: idcm videbi&in^»^  5.&^uai' cai declinatione«&x|uinta&rcxta. In prima Latinorum declinatione n omi hati uus definit  in a, breoe, ablatiQus (imiliter in, a, longumVocatiuus  in a;breue : genitious 8c datiuus in ar.diphthongum   inxe videturvuIgQS latinofumeriraire iomnis (snim  ^e^bet ab omni & /ineulo difbingui , quKndo praefef^fhi   non adeftarticulu5diuingues,nequeprontxciatio.Tgitur  non tt6th dati0us,6c Genitiuusin ^ddtniSt. Loco Quorii  vulgares ponuntartlcuIos^W&«i/, vt,del poeta&jal poe.  tas, icrrbirur.tiecre^ amnormft renuerutponentes poeta  in nominativo, vocatiuo, et ablativo. Nam necvariatur  quantitas in pronunciando nominatiuum & vocatiuurhi  necfi variaturin ablatiuoagnofcitur j cum folum penultimarum in latino agnoscatur quantitas. Prasterea in  plurali latinorum numero prmiac declinationis nominativus vocativus qacdermunt in a:, dipbth6gum, genirivus   in4r«wdatiuus, 6c ablatiuusin, longum , aut inabus^  cumA masculino separamus fa^mineum fexDm : sed profedo nonrecflt, quoniam confunduntorarione similitudinis cafus : idcirco diftinguendi erant faltem per arti- '  culps. Feliciores in hoc ^nt Grxci vulgares vtuntur .  articulis:vt nominatiuo /i peeti - Genitiuo delli poeti:  accufatiuo&/«^/i ^vocatiuo k ppni^ ablatiuo daUipoe-  ii. Sed non refticonfiindantartiailum nominadui 8c  acca&tiui.  Secunda declinatio telatitiisrationdlite Rdicuntenim  Nominatkio Dominas^ genititio Domini,djiduo Domi. .   no»acca&tiao Dominiim, vocattuo ADomiiie» ablati«. finiiDmMQo: Yariantnominatiuum iDus^Dciminas: in  ' VE ij i€^rdmmAticalium C^mpanelU,   cfjVcmagiller : fcamnum in hoc genere neutro con-  fundunt nominatiuum cum accufariuo , vocatiuo in «m:-  & in plurali fcribitur in ^,hi tres earusdermunt.   Incertiadeclinatione nominatiuus multiplicircrvaria-  turin r/>f ponitur,in iz.vtfiElix.mo7j,vt Artneon,in f«,vc  nomen,inrff,vtlaciin es , vt Aucrroes - in ,^,vc omntf :  ia ^ y vt epigrammii : in , is , vt nauis : quas in gcni tiuis-  coniieniunrin,,ff»datiui^ ivis\m accufatiuis in, >fed  neutraomnia , vt innominatiuo r vel in, /w, vt nauim :m  ablatiuo in^/,v«liii«^cumcon£uiu>nedaiiuiy&aliqUan'-  donominatiui. /   Quartacieclittattbin^ irihaber nomtoatiuiinr , &genr.  tiu^m &vocatjiiuftinngulares, quoseonfandit   cunnno*  ininatiulsvocattuis ficaccuiatiiiis p tttraKbus.dact.ttU5lia^ '  bet in , ui, accuCifr iifff,.aBlar.hiv«r.   Quint»concordatinr»ominatijuis in ,«^deGnentibus  fcmpcr Sc geniriuis in cuncbs.io.t ^ fiid t.<i«i £tfhdit genr-  tiuoscimrdatiuisin fingulari. Aceuf. in ,>w , ablat. in,  #, fedvocatiuu5ftnguIaris6c nominatiuus&accur. 5c vo-  cat. pluralrs confunditurcum nominat fingulari. Genitivi rcdc fc haben* in corum pluralicer ^fcd datiui cum ablativis in- confunduntur>-   Sexta declinatio non ponirura Grammariciriponcnc fa-  quidem: NihH .n. commune haber Nominanu{^Ar«y,.  cum cxteris prxfertim cum quinrn,in quaab eisponitur.  Nominat. genir^^iccuf. vocat. ablat. faciunt , a , fcmpor-  in fine. At inpJurali nominatiuo vocariuo & accuf in ^  vt cornua»^nua, vcrua» Prxeereii. feli datiui con-  fufi cuip ablatiuirpluialis» nu^eri ii^ iini copucniua«c  i2ttin.<]uae/untcjuinteti ^'.  A ' ' ^   N. Hogua^ Qrxca St cafus {^iif^ScuIi c^^  tiaruo» nominatarfiadualitiaiiei^*ln tatina' foii tSLfkp  vuljgari^ IlaIa,Franci^ «Hirpana, H^breaAi Af abica,  hl ai;tiajii Droptcrfast <ji*mil5 acciientia > i^Juna exa^ Liberprimus] v   declinadcmemeileVfiomi Qibus* Igtcur nec^cnr^c.cJ'!-  iMttiocUndis quoque^Laiinis. PRononi^ ncdvocabuIiim declinabile confignjficiia^  perfonas, velperfonalia eifentiarum. »r . . r;   ^  E  E     T id circ a d i citur prononcien ^yjoniaiia ponicurloc  proprijnomuii. Rgo femper repwrfJntat efl&ti^run? exilfeiai^s:,  Yelexidentiamprimq, dt Inredorefieiitiimiii^  b]iquo> (ecnndarick   Dlcitur pranotnen vficalttlam jfars orationis drdU  nahilis, ficut& nomen ex fuo genere, qui conuenit  'Cumkliisdiaionibus,&ex difFer^tiaabindeclinabilibus.  Non additur vel art)culahilis , quoniam / articuiorum  'iiobeftarriculus, pronomina autem varticulifunt. Dicitur  cofippiifjcat ferfmas vtl pcrfonalU effentiam ad differentiamNomfnis& verbi: quor^im. iliud %nificante£.  fentias,iftuda6i:us.   Eft aute pcribna quod perreaIiquodparticuIari2itu&'  diftincl uab aliis>& indiuifuminfe,fonatWPf/f«/ UfiU»S'  frimui Martini, Omnis eQimres in-iiiis caiifis habercC» ientiampuram^iicuc i&«j^oite meaynoneiirmiftaniai.^  tcrisc nequ e qua n t i tati,neque qiialitacibus ^erum coext^  ficndum^ NMcftin cera^M^iie inUgho, iiequemmias   E ig. 3& CjrammMicdmn CampandUl   longa, eqa.e curta, nequealba, nequenigra,ncque graiT  cilis, nec craiTa. Sed cum Tentc d^ mence meaxdein&n.  tia^ ided ad eiTendum extra cunc noneft am]>litts pura/ed  liabet fiiarri p.erfoiialtcaijem mixm asm,aUisidDus,non  . ei^Hmdicttur .A.Sed hxc.A.curta,nigra, gracilis, &c.  Sic homo in mente Dei, vel in natura ,Tion eft hic Jiomo,  nifi cum perfeeftextra cauias,^propriamhabet perfo-  mm 3c,dicicurhic homo , 6c petrus,&ille^j5c;ille, &  ego,<£c meiis nofl:er& aliqnis. Pronomen ergo n<jrj  fignificatefTcntiam fed perfonam , vc ^•(^o ^/«vef perfo-  naliavc mcustuvs. Et quoniam porsona eft c^frentict subsistentia, anr singulariras, propcerea rcnipcr pronomen signjficat cirenciara, fed personatam, vei perfonam elTeh-  tic-c Aliquando 5c perdonalia, Cume^itp dicoyf/««j jdf-  fentiam significo , fed cum dico , fjliusmeus , significoeC.  fenciam iiltj perronacafmidell hanc&dam £t propcerea»  vc dicicur in jiij ii nn rtii wlUi i i i ^ [ in mm i Tn i ftu loco no-  minis;iq|j^pniam perfona^nonjeft perfona nificflentix ad  extflrentiiip ^eciufl^. £t in fecundoc Qrollariodiximus,  qttO(f sigmfica*c exiftencias efrentiarum; quidauidenim  In rerum mtterfitate eft, existentiam haber, feanon fiib*  itftentiam, aut, perr<Miacn^nin fic substantia: vcAibum  habec exiftencidfii \ ttd non fubfiftenciam , qooisianmon  exiftit per fe , Ted in perfpnaal^cuiusiyvel in indittjdae a^-  qiiocorpore. Perfena c|ttidem proprii diciturdeiatip  nabilibus creatiiris ^ indtttidiium , & nypoftafis de cttisms  creaturisad exifteritiam dedu(^is. In rcdo igitur ponicur  existentia, in obliquo faltem implicito ,e{r^ntia:'cum  dicojille “homo” id est illa perfona hominis etc. Ego Petrus: homoenim fic Petrus fccun Jano ponuntur j &aliquando exprefse in obliquo cafu vt aliquis hominum, v.elquippiam falis. Dicitur quoniam prohdmcn non significat de se, nisi una cum nominee ex prefib  vel implicito : vc cgQ. Petrus qrahicperronaii Ucem ^  fc;     QVatnui* ncMnina fingill^'^ ,^V^(fift"rus & Fafckisdi^  cant efFentiam perfonitjim , h jid tiinienrantpno-   nomma : quoniam in re£lo cfTcntiam dicAnt vt finguraris  &non ponuntur locoalicuius nominis fignificantis essentiam, fed de fe ipram significar. Licet connoratiuc  pronominent, cum nominant. Petrus enim est hic homo filius lonx et existentiam crc^o clicar in obliquo : 6c  significat essentiamin rcdo. Vei existentiam, vt quacdam non efrentia est, ac fub raiionc exiftcntix. Quoniam proprium eflentiale est prpnominisfignificare personasyprima di/lin(%io prbnbminum erit. a  personis., Pronominutnafiud fignificic. personam primam, vc  egQ& nos, :41iucl secunda.m, vt ru , &: vos:aliud tertiaqi, vthjp , & ille ; i^liud vmnei personas vc qui , qua;,    Recbcpomturel Tentialis divisio pronominum a significatione perfonali, quoniamliic eft vfqs &eilctotia prononiinij^.Tresiiimcpn{onzcancuin apud Gianu  mancos« quontamperionarepradr (rntat exiftentiam cum  |irofeitur:qfii ergo proferCy Vel repra^fentar fe, ficdi;''  cit. E^i iiKl.atiurhvquo^.cwnbquiturjdclkididC'?'»:  it iAtb oiiine vocatiuum sdiiien efl; ethim^fl^cm-  dae qaoniam fubaudicu^i», & Velatitfmici^imi  dc quo eR&imokficdico,ltfr. Nos «ddimw personam quar cam , ideft omnem, quoniam pronomen referconinespcrfonas, 5ciiiiif5eiVperrona: quam rcfcrt,  vtegoquijCu qui. illequi : vbi^«ieftprinui»&fecttnda,  & ccrna. 'Myftfrinfii/Tlieolpgicum eH; , cur non vkt^  ten^am perfonafn (ertno prodiicicur. Neque enim ix^  eternicace func plur es p r i malitaces,   " Secunda dliiifiQ^abeJfenna.  Pronbminum aliud fubftanriuum, vt egoj, tu , nos,  vos^fut liic ifte,ille,ipfe. Aliud adie<5liuum, vt meus,  tuus, fuus, nofter, vefter, quis, aliquis^quis^quidem quif-  piam^omnis. Dicitur pronomen substantiuum, qaod fjgnificatexi  stentiani seu personam, quasi per feexiftentem. Ec   itieo n on fo lum f 2;o , tu, nos, vos, et fui, ponuntur fub-  ftanciu«,quscper vocc^ pluresnon declinantunfedetiam  hic,tfl:e',illejpre,qu.x per vocestre5i& articulos pronunciantur, quoniam dire£bc fH!;nificant perfonamjVt  pcrfeexiftentem: & hic non valecregula grammatico-  rum,ex vocibus, &arciculis fubftantiam accidenta» liratem vocabulornni decbrans, Sed in fpiciendum eft  ad inodumv lignincandi. Poluimus adiecliua pronomina, mcus, tuus,Yuus, nofter, & vefter, quomam non fignifiqantperf^iiamdire^cnpcr feexiftentem, sed adiacen.  terii, dicitur enini equusmeus jquafir^Wf/:^w,feu«frA  utt adiaccat equo. Scd curn dico ,'ego , &ille » demon-  ftfandoadiacenciam 6c accidensperfonalenon dico.Sefl^  perfooam ojPteplit^^ dicit perfonamiper,   . /^i^iij:^ ali^U f^idam dicec perlbnam   la : U mnis dicet perfonas. Sed   ircitH adiacet* Eceoinifdi Mexpomcur^^iil*  M.fis , expooitur #wiKi iiW» ^nsnlaris 9C  perfonjitns. Qnod fi ira non est, Ii^e diftinccio non  Aabeaclocum ifi protxoitii Deiicuthabqc in noauioc.   DiSmcJio tertia cx quantitate. ' PronbminufD aliud 7niuerfale , vc quilibec^ 8( omni  U qui€umque ^aliud paiticulare^TC aliauis &qut«  ilain, quifpiani;aiiudfingulare»vcego,ta,iue,iple,l ic;  iftc.,   Pronomen universale est quod significat on^.ncsperfonas fiinul : vc omnis homo. Particuiare quod fi-  f^nificat aliquas perronas rancum: vt quidam homo,&  aliqui &homines,&: ahus homo: fingulare cfl quod significac vnicam fingulareniperronam vc bic Jiomo,iiVe,  3le,aicer,ac vnus. ,  G;R4[mmacicl nonlrede poAierunt intevnomina, dm  nis & aiiquis, 6c quidam :hacc enim nullanf effen*  ttam 6gntficaac npbis : nec illis fubftantiam aticqua-  liratpm: vndeiogicinon vocant eot terminos fignifto  catinos, edconfignificatittos fyncache goregipacicos;  quoniam per fe non fignificani^fed habent tnoratione  offieium defignandi perfonas omncsaucquardam,qux in  illiafiibinteUiguntur. Cum enimdjco, omnishomo, non  incelligicurcflenciabominis,fed omnis perfona hnmana:  veluticum dico,quidam lapis non inceliigicur efiencia  Iapidis,ied aliquod corpus indiuiduum lapideii, feu lapis  dedudus ad exjfietiam aliqnam.Etcum dico, hic homo,  r.on fignifico fubiKTntiam hominis,nifiiecundari6, icd  perronam quam demonftrabomim$«   i.   ETideo pronomtn non ftat loconominis coinmumri .  fed proprij:cum eninvdico^omnis bomo : ly §mni$' significac Pecrum Joannem^Fnincircttm et alias personas  humanas , CcWiott^hU km9 ngnificat Betrum ^ (^uemi   oilcndo.. ' ^ifiin£2io (jiuartaexordme^ •  Art. Vi.   PRonominualiaprimitiua , vtEgo.tu^ nej^vcs ^fui^ille^.  hii^ ijleyipfe^^ts^ ^uis , alius. Aliaderiuatiua, YtiWf«i><««MVlca pronomina primitiaa habenr fiium deriotf»-  .dunma genitiuo didum, vt ego, mei, facic meus» mea,meum^tu,tui,taus,tua^uum. Sai,/uus,rua,/uum, .  ^ nos producic>nofter^no{tras: vos >vefter & veAias.  /I producitY/^i^iii «liifi faocfit compofitum ear ^ dmftfp,  jitipfe^illeM<,^hSmtiffmk\^ produounc| de-  riuatiuunn tf/HH t^tni^LcixjilunBifLeiUfr^^lufdHiS* Ip&L:  <juQ€)ue facic i///;iwf X iipud Blautam*.   Dti^fio uinta ex numeroi. '   PRonomcn aliud fihgulaic,[vtcgp :aliud|difc5ale,j Vtc- E|Rima,reciitida& cereiaperibniKAmt nua^rij^luralis   'rraiaciii i . Hoc camefi norafiifum qood in Jin«::iiaLatina et vulgari leahcanoncorrerpondenr C\h'i pluraiis nin-ne-  ru«caa<i fiQ|fbtari^iQ prinil5 6c (ecunclisper^ooif- 'Ntim  fcumdicb ^^^innngulan , deber£dicere7^09^>ibpluraii:  & ex /fr nngulari, /«ff/i in plifrali nos AffiKEtprweSk^ iingaaTurcica'^lt<*f!^ habet  -condicionem, qnoruam proego, 6Cfi%l%\oihetlsM^t^'--  niy pro cu & vos ,fundr fani^pato eciam aliay lipguas yfoii-  Iher fe habere. In rcrtiis perfonis rcdcfe haue^c^ iin-  gularceniincl\///f,i/rf,//i»<i:plurale//i/,A//<f,i^^^%)i^n£iio fextaexJexH. Pronoininum aIiud mafcuhnum vc i7ii: aliud fa:mi'  uinum ,vc///i^}aliudneucrum , vc//i«i/:aliud omnc,   EA<Iem rationedeciaracur fexus pronominum acquc  nominum Sedpi onomina carentcommnui 8cpro-  mifcuo ,&:incerco. Quoniam cum fignificanc perfonaj  appoficas cflenciis^clarcfignificanc rexumabfcjue com-  municace «promififuii^ce 6c incerticudine.   V 1Diflm3ioJeptmAaFormatione.   An. yilU 1   PRonominumaliud simpIex,'vc//- & /y^^ralius com-  pofitum vc idem U ifihic | conipomcur is U dc^' GrammalicaliumQim^aneSie,  NOn diflfert dedaratio figurar fimplicts U cdmjK>-  Cnx nominuin & pronon-Hnuni. VerumapudLad-  nosnon uiueniniuspronomcn dccompofitum. T^rofoftio de declmmonihm fronommum.  Declinationes pronominum fiinc quinque. Primac4i-  iusiingulans gcnitiuusdefimciai vcd^gtfginfi, tUytmii  /v/,carccenim/arinoiiiif)aciuo.   Sccunda cuius gcriiciuus deflnit \nius ,vt iUfiUius^fCej  iffi^s j i/icy ifim$^. aUus^alms : aUeralitrius, ^   Tertia cuiQS geni tiuus deHnit in i, vtmeas^me^f^ml^^  hcitmei^me^ymeijl^cJiSgwi , tui,tmf0iHi4 i^fintfyftti/a^^ ftiix,  k vrfrv^ ve^n\ veftm^ vefirs : ipofier , 4w^em , nefiri^ ntffir^e  nefff*  Quarta eft cuius geniciuus fingulans definicin//, vt  ^nifiras nofiraiisivefiras vefrasis. Ad^ nancreducunrur.pa- '  cronihiica mafcnlina , & ficminina , qux rcperiuntur in  prima 6c tercia declinat. nominunl : fed ron riim nciid/ra  vtputant Grammatici, fci] pronomini gciuilirui.   Qaintacuius genitiuus lingiilaris dciinitin h^ivzfre  b^e^tOQC, Facit ^«/«f/ : //, ect , iiljactt cius, Q^ i\ vcl ,ju\ oi^  ifuod ifacii cuius , & codcm modo fe habcnr compofirjv,.   - ^ f w ^ '/*^^» eiufdtm - ^ ab aliflftis a lii^ius,    m   Quoniam pronoiina flc<^ u n tur in finc cum cadi t dU  dio «haberc dicuntiSr pafas : 6c ex ipforum variar^  ' CiOQe^vairialaittif declinaciones» & plerumqucagenidlio:  uaihqaam in pluriboi cafibus reperiacur vanccas cam in  plurali) quim ip fiegulari. Id quod:fiatcemiaa&'das XaXi^^s;c plures dedihatrones. Nihil cnim commune hahct   W,hxc.hoc,&iflhic, iftha: cjftoc, cuinis, ea,jd,&.quis   vei qiii,qUcT,q"od.   Prxteroa dantur componta pronomina quorumalia  . fcruant pristinam declinationem in cafilnis, prxfertini genitiuo, vt/f^d7Wf/,</>/^/?Jr/,/7/^Wif/ /«;7i^'/fcribirur, //1  demi^hicce^h/ccc(^hocce,huiufce hc\t. A Iia non fcruanr,.Oam cx ecce & eccon^^\\c\nmseccum^ eccam^ eccum , non ra-  men eccihMtus : 5c ellum,eiia m, ellum, non cameii eJlius,  prbecceilliiis iquoniamlylfrrcfolum acctiratiitum ref-  , picic. Sicuti fnoimi& tafipt^ fol um abjbMii|Ql^ueniiiMli»    O^inta pronomina naiiieraK^ bitbent incercas. de-  ciinaiFiones-* nain vffar/, tny^^, , f^it «^«1»/« Sed   reliqui nameri fqnt indeclinahiles. Scribiiur e cericra  pronbmina gentil icia, vtAquinas feruancanalogiarh^d!'-  cimus enim^f»i>^///,«9|fi'rf//i,cumponuntur non vt no-  mina, fed loco nominis. • •. ^nim^dtierfio de fatrQnimicis. ^   PAtronimica funt in prima declinatione nominum :  vt Eacidas Eacidx;& in v vtPriamides Priamidis-.fic  Priamis Priam idis fxminin^ d!cicur,quaequoniam ponu-  tur loco nominum funt pjronomina , 8c non nornira,vt  Grasci puranr. Nam nefaoquis fitPriamides nifi fubaa-  diatur Paris: iicutnefcio qaisiitillenilifubaudiafur Pa-  ris,ve4 Pernis,verfaomo:pra*cerea palam fpedant ad personalitatem : vt nuUi diibipi fit qi^in fint £rt>niDr.  iniiVi.      I)iHin£lio pronominum ex ftgnatura\ Aliui   demonjiratiuum. Aliud pojfcfsimm:  aliudgentilium , altud relativum. Pronominum alia demonstrativa vt ego;tu.liic, ille  ipfe, iflejis & Iy, quoniam quaridigico perfonamde-  monftranr.   Alia (unc l^odcCCwiay Vtmcttstuus /uus^ noffef^ve^^raiifnai,  quomam poHidentcm circumfcribunt perfonam.   Alia gencilia vtnofiras ^ veflras yEneades cuias ^c [UO'  niam pacriam, Scjgentem, connotant.   Prxtcreaexpraediftiyferrqtixdam retatiua, quiarcm  antelatam fiue ante didam refcrunt , vt ille^ ife ^hic^^jr is^  iiltwY' ^ quisqufCy quod. Dennr Dnflraciuaprononriina reruiuntrenfacisdemon-  ftrationibus perfonarum , vel cfTenciarum pcrfona-  tarum. Naminfenfu oflendi non pocefl: eHencia, ni--  fi deducla ad exifl:enciam,feu perronaca. Sed relaciua non  oflendunt ad fenfum, fcd quafiad memoriam.Nam dici-  musiPetrus eft dodus, ille qui j vel ifte/qui legitin  fcholis. Scd ly ille , ipfe , ifte » is , refert antecedens de-  monftrando, quamuisnon adfenfumfempcr exteriorem  Sed ly quselrefert memorando & particularizando.   Addimus nocam demonftratiuam ly ex Arabibu»  quoniam logici acceptarunt eam ad dcmonflrandum du-  plicitcr.-valet enim vtecce 8c hoc fimul. Notandumcactera pronominaabfoluca vc pofiefiiua <3c gentilitia per fe  ..patenc!,quid oonfigniHcant in vfii:ac relatiua declara-  'tione adhucindigenr. Definitiorelatiuorumptpnommuin^ V plcx eft rciaciuum ^ aliud eilen tiac i aliu^ j ccideo-  Definiiio reUtim iJfcntiA.-   £latiauine(rennaseft,>quoclnatu|am reirefcrt,de monftratque, fiue>y tencem ^ {Tue^^r&exiftefit;^ 1 vt.  homo^quieft. GB.ammarici ^iuidont relatiuum» infubftantiar £daccidentis ^ 5c dicrnitrel^duum Aibftanrix ,quod re.  fert nomen fubftantiunm:vt labor, quemfofcipis, eft .  durusjvbi ly queni rcferthocfubftantjuumi abpr.Scd rc-  iatiuumaccidentisreferradie^biuum. Nam etfialiquan-  doadiediuum eftfubftantialevtanimatus, & rationalis;.  nihilominas {;rammaticaliter fe habervraccidcns. Scd  prote(flbnon femperitarebabct. Nam si dico Petrus et nomoqualisestu, idem vaiec acquc Petrus cftrationalis  qualisestU:& ly homo est: substantivum et rationalis.  adiecliuum, Qn.ipropter m comparationibus rclatiuis  non vtuncur logici relariuo accidcntis, fed potius ad-  uerbiofimilitudinis,ficut, &velut :vttu e^liomo^/icuc-  ego tquamuis ly Hcut omnes nocas compararionis fup.  j>leat in referendo. Propterea nos diximus relatiuum efTcntia! n^,nominibas ^gfammaticabbu5 potiU2»quaBi i  xebius confuleremus  libtanttd: ile Utiwjamfubftaati» eftduplcxXidcnutis, 6wdiuer/I*^   Cti^mmaticalnm Cam^and Ut   Relativum identitatis refertidemomnino quodan-   qtiien: aniniai fcntic, 6c.hdmo eft animal dc idemfentiti  vbi ly qui ^ ly idcM'^ referunt bominem omnino etin*  dem,  ELitiuum diuerfuatis fubflantix rcferr diuei fr.m  X V anteccdenti : vtalius ^ vce^o vidco ''otrum 6c alios  ^ o m i nes : vbi ly aiios refcaiiomiues , vcdiucr lilicaiuur a  -rrET^rx;   QVid Ocdiuerfic^tis^identitatisin Jogicis&metlia-   pliyiicis declamitrdiicautem Gimiturpro quacum* quc fimilitudine, &x>ppofitipne«  DE RELATIVO ACCIDENTIS. Relatiuum accidentiscfl^qiiodrefertaliquid pcrci-  neiis adeiTentiam, vcperfonatam accidencibus.  NVMERATIO Relauua accidentis funt (eptem, quallsiquantu^^  quot^quotuStquoceQiyCuius» cuia(, cuium 5 cuias«   GR.ammatici<!ieunt retatiuum accidentis referre anteced^ns a diediuum,vc cu esnjger , qualis coruus:    ' vbi  Tbily qualis refert ly niger, & non ly tu ,diximusquod  non omneadiecliuum cft accidens in: iiilofoplna, (cd in  grammacica, quxrcfpicit modum lignificanditantuni. Sufficiencia rclatiuorum accidentis fumitur ex hoc,  quodomniseflentia vcniensad exiftentiaii\, re|^i6iicec-  ad^entia,ideoqueveAitur&perronatur qnalii^tie^guaii*  ' titate,numero,orjine numerati , coUe^ione ordl^a^-  . tum s in loco & t,empore & in numero "i^ogterea dd tur  <qpaHs t.qtUU3Ciis.qQOt,quocu5 , quotenus'}^quibq$ de&ec  aiidi nuhc , tunc , qaando,iliic»vbi,0 ex his po^Ten c apud ^  ' l^ifenosderiUaritiomina&pronoiniria.! v V j-- '  .V £fta»cemquah'tasmodusreifiueaccid«^^  fldLiitiaIiS)pTopcerea refer^ ly qualis omnes exiftendi  ^ndi moaos. jDicimus enim Petms ^ft atbus^ fprcisX  manus , cationalis , dioes , Rex , velox ; red:tis,'$c. Qu]  ' Iisestu:vbi lyqualis, & efTehtia: , & perfona!, 8£ fori  na:, & operatiui, &: pafliui, &voIiriui,<^- animi,6c corpo-  ris , qualitates refcrrepoteft: quoniam in '^mm pra:diQa-  niento datur qualitas , vtin logica probauimus.   Quantitaseft menfura fubftanna: perfonata::&pro-  pterea dicimusPetrus eft alcus, magnus, crafllis, longus,  quancus cstu:vbi ly quantusrefert omnes dimenfiones  iundas,&fcorfum , fed non qualitates quantitatis:noa  cnim dico, 5^ rectus figura quancus ego, fed qualis ego. vc milices Quot refertomnem numerum fimpliciter  funtduo, tres» quacaorsdecem^cettcnmimilie^&c. quoc  funtciues. Quociisomnls'ordinis nuAienisjVt tu es primus,{fe«  cunaiis, certius, decimus, centefim'ttS96cc.iD ichola,quo*-  tusfumegoinfenacu; . QuocenicoIle^bionemnDmefatonim fcriattild svtmo  fmcbi nmbuiant biol, terni, quini| deni, mi)leni , cencciii,  quoceniambulantmilites;   Aliquando iungicurquotoscttmquifque ,quandoC«  gntficat ttttm de ordinatis , vc deeimut quijqut ^fecimiBS  £x his dedacuncttf aditterbia> vc qneties ,Jecief^m$lliis.    jo Item transferuntaradtetnpora aetates, vt qiiotennis»  bienms,tnenms quoniahi tewpuisadVxiftenriamrpe-  ^t:item,adnocum,vt primasfecundas &c. 5c fedct pri-  inoveireennd6 : & prius, ac pofteriu':, vltimus ,6cc. lol  cusenimadexiftentiam fpeclac, vt in locrica. Prxccreaquoniamindiuidua. idefl perfonnta: e/Tentix,  non folum referuntur pcr prorfara^; cxiftenti.ilirares» fcd  etiam expatria & gence , 6c profeOione 6cfiidione: pro-  prerea dantar^Ai^i rcIaciuahorum,vid. Cuiuscuia,cuiij»  tccm^s:vt ego fum Romanuscuias cs tu, vbi ly cuiasrcfctt'  ]y Romanus expacria. Icem Ciceronianus: Dominicanus;  cuiustu : Piatonicus cujas tu &c. At\^ cutas refertpoC.  fe/Tioncm/vt ttiiim^pntrum hU^ff^fuifi idebetetinin  -Jycujasreferrcpatronimicuihpronomen: vt Parjs eft  Priamjdes,cajas eft Hc^aoti quod Grammatici non cori-  fideraruiu:, NGt^ndum quod omnia praedkaaiet\ta, vt perfo-  nancuradinnicem, fiuntpronom^na> vtvero(unt^  Velexidunt.Ainnomina. i)erho. VErbum efl vocalnilum declinabilr, fignificaps cx  impoficione , rerum aclum^Hue eilendi,fiue exi-  ftendi/iue operandi,iiue agendi^ Hue patiendi  EA rationequaindefinitionenominis ponitur vHiU  bulum orationis pars tanquamgenui gramatlcafe.  A dditar ieclinabiU, ad differentiani prxp o fitionis,ad:-  iierbij , coniuoaipnis 9 dicitur)%ii^^ Dber pritntii • jr   gorematicorum. L)icicur cum imfo^ttone y difFerentiam intcriedio-  nis/' ' " ' Diciturrf5? aw,tanquamvItimadifFereniiacon(litucns  verbum in elTe verbali.fcperanrque a cscteris orationis  partibus. Dicitur eff^rtci , vel quoniam omne vcrbum  /ignificateflentiar ac1umnone(rentiam:&: guia a<flusvel  'cftlubflantialis vclaccidenraliSjvel medius .idcirco di-  ciiwraFiu if^^dlyvzbomoefiammdl^vhi lyr/J^fignificat ipfam  elFentiam vt erte{rcntia&: c6iungitnotiones,n6 res-.pro-  perea.-^tfmvocatur vcrbum fubflantiuii rede d Grammatici-i. Sed perperam,dixerunt , verbum fignificare adio-  nem vel palFioncm. Hfi enim non significatac\ionem neque paflionem litemnequedifco fignificatadionem, sed  adumadionis rtf/^/jjaucem fignificataclionem, vteflen-  tiamaliquam : docere vero vt ndum. Quid auttmfitA-  clusin Jogica declaramus& mctaph Additur vel cxilhn-  di : Nam cum jico : Peirus e/?^vd eflin platea : vel exifiit^  non fignii-ico Petriaclum cflentialem , fcd cxiflentialem,  quod ./.eflextracaufaifuas: vel quiacA in alio 6c ad a-  JiudiT > -'< v- Additur/?.^<?^^r^W/, quoniamopcratio non tranfit in  ixMwd ^homo amluUt :ZcS.iovQX<i tranfir,vt fjomo '^eriferat  filium.  Dicitur etiam ao^cn^i vtPetrusdocec:&paticndivtP e tru s  docetur. Seddchisadlibusin Metaphyf. dicemuSjneqvi^'  QuimQtami^atUiefinegoti/, ' Hlnc vides quantopere falluntur Grammatici,dicences", verbumcfje farterjt ofationn declinabilem Ec  deinde.non loquuntur amphusde decJinationc , fedde  coniugatione. Item dicunt, verbum efle /?^«//fr<r/iafiiw  aUioms & pafiionis : cum verba fubftantialia &neutrai ctiam ipforum ceftimonio, non dicanc aclionem neque  paflionem. fyncathe  ^rdfMmMkAlmmCafnpanelU]   Quod auteni addunc Qrm\\\u\c\^verlumefipaTSord thnii decltnahiliiy quo Unm modi^foryyns terfiporibusagen^  divelpatiendi fi^nificaUuumff} . non perriner ad definitionem, ficucin logica decIararur.Non enim ex hoceft ve,r-bum,quodhabeti'nodos& tempora. Sed exJioc quod  adum fiuentem abeffcntia & qui4ein verbamrubftan-  tialcnon habetneque fignificattempus:& multa verba.  heterocUta :& tempow <?cicliteise»hoc, quodaauiriott-  fubieo fitvtalibi docemus. Pmerca in linguar Chhienfittm &CocoocKinenfitiin  verba non declinantur perfonis- , nec temporibus «a*  riantttr» fed^otuhs , vtAioihiocoapeiiemusiergoaccti.  dunthxcverboinoa^ei&ntiantvefbttm. Di^in^tio "verhomm ejfemialis. Verborumaliud AibftantialejVt /Iwjraliud cxinren-  thls ,vt rfuneo^exijlfi ahud opcratiuum /lueaclin-  cum, vt Vfflffy ambttltf.^audec. Ahud aihuum,\t ca^igo^ac-  cufoyfacio : aliud paiTiuum,vtca/?igor,verSerc} :   Ahud ad. it Grammatici cbmmune , vc cnmmr-^iid^  dcponcns,vtv/<;f,/wn - QVoniamfignificarea(flum rerum eft v^erbo e/Fen-  cialcexhuiufmodiacluum dyiin(flionc Ai mcdafuic  vcrhiorucfrentialis diftiyii!aiO.:-6c quoniaibcfientiaprocedit exifl^Qaab exi{];^i;|aoperatib4 aboperatipneaak>»  abadioae pa (Tio: proptcrea verbum reftc diftin g u itt)r in  , euentiale exiftenttale ^ operatiuum , a^iuum , &c jpafi»  fiutun. '  £tMcdiftin^ioeft]l4^undttn)]»mVnask)fecmiduinVo:*  cem fequif vtdetur paffittum , quod tamcn eft fecundttm  oremAdittttni.: &propterea vocator deponens , 6c vafulo     Liber priHim. 53   ridetur adiuum, quod tamen eft pa/TiUum. Aliudfbcun*.   dum vocemeftpafIiuum,fedfecundum remeft a^liuum  &pariuum jVt avipIcUor : & propterea a Grammaticis  dicitur commune. Hoc apud latinos, noiilinguisaliis:  et recundum|r? aturamnondantiir veiborum genera,Jijfi  cx quinquc|a4ii>us. ACtiua&pafliua funt verba inoijmiilingua, Atki  Latina ex fmitionein o in or , diflinguuntur,  quodvemmeftin pinmbiis temporibus verbonim,prae^  terquam^ in prxtentis. perfeAis & plufquam perfedisi  o u^Tefoluunturin partxcipium €c verbum fubftantiuuro:  aicimus ekiim amdtns fumyel fui\ iccScsmanuir^miyel  fnerdm &c«inIi^naveroItalica, nondatur ylliilks tem-^  poris pa/Iiuum ,,£drdfqlttituriniiibftantiut]m vt fro ego  'amar^dicimmU/hnM^tPy tu feiamat^^queU^iamatQ. Ki -in tertiis^perfbnis fupplec ly ftama^&fieamato &c. In  adiuis verofunt temporaomnia,exccpris prarreritisperfeciis , & plufquam perf cclis : etenim pro amaui d^ama*  utram^ dicimxLs h^amato ha vevo amaio,   Do c vment^v.m;   ISta.duo veiba fam & h^leo funtbafes verbomm om-  niummam copulanrfubftantiuc , &: ndiccliuc. fiueac-  cidencalixci, flue iQtrinfecciiiae extiniecc res omnes. r   Verbaqi WBGramati«i« vocanturneutra^jflonfunt a< dina nec paffiua propter &dc>quod fignificanta^lu.  e^ifteadi vt>?^: aut a<Ed^i,ve- ^wrMifiue operandiyt  ^orr»^ aut pot^di ^ic non potendi vt almhdu & iofi^*  Gommuniftautem 8ft<leponeniia pminent dd a^iua^  pafliua; ^ deponenia eiiaib neuti^ fuiit fec«n«l|iBi.   Tem,vtut3r^^radi9ri Ccuti auxRior ^ nudicor^wi^t^^  duuafecundum rem.   NOvttig6xtQLi neqtie fecttn^fi* mn,neqae leciiin& '  vocem^Grammaticidiftinguttntverbainadiuumj,:  pafliugm , ncucrum, commune 6c dcponcns : etenimin  adiuis funt qiurdam neutra, vt amifyrtdeojnteldgo : qux   aduMnceriores ScafFcdus notiones iminancntes fignificanc In neutris vero ponuntpalliua inulca.vty^^ff ^exulo^   nia verba pertinentia ad agriculruram faLso pofita in  quarto ordine neutrorum. Similitcr qux fpedant ad diuinas ac^iones natur^ aucons vc nmy,t^tonj\^uce(ctt'  Jndeponcntibus vero ponuntneutra fccundum rem, li-  cet voce pa (fi ua , v 1 1 ^cton ^r<f ^^|jf f r, jja f^^'^ fi»ma(hor,\   Miiior. Secun^um vocem autem omnia verba ex hoc .  quoddefinuncino, velinor : 5«wenim& fua compofita. '  folummodo neutra poni poiTent bc tunc faHa eflct ver^  ab eis cradica » quod X, fiq^ipcat aUmm vef   Dijlmilio verborum ex ferfonts.   Art. lU.   Verborum aliud peribnale^atiud imperfonale , aliud fcniilc.' descriptio: Verbum personaletrcs habct personas, primam, secunda, lertiam pronominibus ck'leruicntes, vtr^p  amoyfuam^s^jlleamat, Impcrfonale nullas habctpcrfo-'  nas^ucnumerpsfedfub tcrtip^quafi ojxint^iytdmg amaiur  Liher ^rimtii, te amatar, ai illoamatur. Vulg^ , fidnia^ Jau &  ama-ddnoiiama. DeferJo^almmmmeroptimdumLatms, Granmaticos . Perfonaliaverbaalia funt adiua,qu« definuftt inb,  &^ormant pa/fiuumin or: vtjamo, vnde fic anior per additionemr, alia pa/Euaquac deiinuminor Klia   bentadiuumio «,vtnmorexamo.   iAlianciitra, qiMedefinuntin'o, & non formant paC.  v^iuuiinin or, vt gaudco, careo : al ia communia , quie defi-»  nunt in or , & non fprmantur ab adiuo in 6, & aftiue ac  pa(fiuc in orracione conftruuotur^vt ego chmifiorfe,^  egochminor abste. iAlia deponentia , quxdefinunt in  or,& non formanrurper aftimlm o,necpofibnt pafiiuc  .conftrni > fed folom a^ui, ncgc feqnorvirintem   V . e imperfonalium numero. Impersonalia alia acfliua fecundum soQ^vc\,yx.tcdct,ie^  cet^ intertf j alia pafiiuic vocis^ vt atnatur curruur, kSi^ neutra. vUeaeftMahff.   DcfiruUtbus.   SErnilia verba funr : qu» iiilycjiSonalihUvad.Uta, funt  ! m perfonalia, vt ti de^et p^tere i petfonalilaus verd  Vf^tcioaaii Aiy%tMMeSjf0nite»t i4magere.,  Rofc& oimperfonaliralia exadiuis funt , vt deleflat,  . ^qua cum in finitiuo vcrbo funt imperfonaiia i fine  ero,adiua. Alia runt neurra ^ vr inttrcfi , f^? conaenit\  pateiautquomamablatoiufimtiuo funt perfonaiia, vt    (jraiimiticalium CdmpMelU)   medicorum interfiint curationes. EtPecro conueniuttt  TircureS' Sed qux ncucro paffiua vocari pollcnc secundum Gramaticos^nuquamtiunt perfonaliajVC/^i^i-/, wi.  fcrit^plzet^ penitet^ racioaucem eft quoniam ad afFeclio-  » ncs refcruncur, quxopus adextranon rCifpiciunt^nec  perindeacboneoi. DifiinSio numero ferjonis. Numeri verborum funtduo,fingularis vc drw<y, &pla  ralis vcrf/7frfw»5.fimiliter perlonas func tresm omni  numero, in ilngulah ego amo , cu am4s\^ ilUamai; inplu«  ^i^samam9S^ wsamati$<tilkamanii  V M g T iy N n V . 1N omnibos rcbus re^eriun tur ift^ rre s per/biiac,& diio  Qumeri ex nacurarei>licec aiiquaadoincertisTerbis .  non fincin fu^) 6c in imperatiuis exnacorarei defiinc, 4c  In intiniciiiis qux ad imperfonalium cranfeuiic rationera.  OecaJibusi0decUnmonibusverb<rrui^ ACcidit verbis cafus.&i declinacioitlmni&j persona  variac fitiem didionis ,'ycam0^ai^|)^amat : ficut ^  nomiciibos accidere nommos. JPr^cy^ deciinaciones verborum vafiancarficfic&nominunv.S^ cognofcuncur.  cx &cun(|a pei£>na| ficut nom^mifecundo cafivite.nu'  jijueinfirtitioo.  Prima erg^o dccKnalii S^habec Tecunda inperfonamin^  4]icatiuimocii in ^;, 6c infi Ditumin^rr, vt<iWiii,&^ff2^«   Secunda, in ^i, 6c in ,Iongum| V t ^o^^r^. Tertia in/i,&in breuem , vt Itgis. & /r^w-  Quarta in /j, 6c irr, longum , vtaudts Uaudhe.   SEd hxc fecundum antiquorum dida funcrationeni,  ctenim poteftprima declmatio conflituicx fecunda  perfonain es , &: infinito cdc^vt/um^inicrfurK^ acffum^pr/c-  fum nefumyfubfum^profum^abfum^polJum^ & cxteracompo-  fitaexverborubftantiali6cpr.xpofitionibus.   Secunda habetpcrfonam fecundamin frj,& infini-  lunim erre, stferojers^ferrc : ^ compofica.vt7e/tff<^,<«i-  /er» , offiro^petferOydefcrQ^ infero nffero^^ catera. ^  Tcrtia autem fit prima antiquorum , \x,dmas^rMfe%  CVjarta illorum (ecunda, vt ^(^rQuin ta il iorunt tcrtia^ vt le^ii , le^ete^  Sexta illorum quarca, vt 4i«ri/i,^ir^i>t.. Deanomalii.   Dantur irregularia a prima ^ vi\veto ^ huo & iuu^re ,  qncxmpr^etcriti.. funtanomala. Dantur irregularia  d ter tia , V c gattdeo gaudere , qu« in pncceritis non fcr-  uant'normam tertix-   Etaqiiartavt vii,&9/A!r>qua: in prasteiitisdc infiniti$  exerrant.   Eta quinta vt eo^isjre : quxin tuturis extra vagantQV) "  vtii^fjU compofita yufsnJc^^Ndijo^fcri^^iiLc.AQertio dt tm^n&itsverhMm,   Art. V.     PR.oprium efl verborum in temporibus iigni£ca«  re» '  )g Crammaticalium QimfaneB^]   QVoniam a<flus funt extenrionesfacultatum ,necfi-  mul eflfe toti pofTnnr ^necefTc eft tempuseifdemin efle quod efl fucccfTio rcrum , cx ente & noQ ente part&-  cipancium > vc m Mecaphy Ldocuimus.   Detemforisdifferentiis^   TR.es funt temporum diflFerentix, videlicetpracfens,.  prxteritunV, & fututum. Etenim aut res eft nunc  tn a^flu, & facit prscfensjaut fuitin adu ,& fic pra:tcri-  tum^uc eric & ilc eilfucura.   TKiplextamen pra:teritum «aliud imperfe£lum , vt  ^nutSdm^^ivLd per&dum,' vtdmam , aiiud pl u fq uam  perfediini,ve MyrifiM^resenimaatedin ccanfictt ,[attr  nan(iui^.aix nMiIto ante tianfiuit.  NOn potefl: reperiri verbum , quod non habeat prac-  fens & pr.Trerirum & futurum» diftinda fecun-  dum rem,]icet fecundiMn vocem qusedam (intdcfe<ftiuai  rtmemJni, odi^inquam , 6c cxtera , ex vfu fic pronunciaia  apud LacinosnonaMCeminahisoacionum linguis.   ^etmfortm v^athne exfacuUatHHsl   ET qnoniam omni^ a&ns aot ind i ca tur per cognofci*  thmm^auc tmperatur per poteflatxoom^aiitoptft-  ' tur per Yolitioam : propterea tempora verboromad tres  facoltates reducontor.f. ad|indicatio am imperatioam,  pc optatioafi^     PRacterea quoniamactus fubiungieiiradiui,vcl deterniinatcveljndcierminatc, propterea addmnur tem-  porum dtt^ ^lia: radones .f. fubiun6ltaa & infinitiua,  qux rcgantur ab aliis verbi nononibtts.   Est quidem practcritum, pr«rens,dcfuti!rum tenipus,  triplex,atquevt pars, autvtdifferentia fucceflionis  rernm, &quidcm contingit cxprimi secundum tres primilitates Metaphysicas, pcrimpeniriuum ,indicatiuum,  6cappetitiauni 5 qui vocaniurmodi fecundumGramma-  ticos, (ed nirois comraunrter : modus enim eft cuiufque  rciqualitas propterea nos rcduximus cosad primalita-  tes. Sed fubiunAiuum.&infinitiuam^qaoiiiam ad conipofitionem potius modorum fpcaant dctcrminati vel indercrminatc fecandumpcrfoBas&flheperfonis, oro-pterea hofce modostanquai hap^ndiccsvcrbisa ddcnh.  dos putauimus: 6c non ficut principalcs, queiI MUlinodum Grammaticis vfurpatur.   temforum  nwnero i» vnaquaque  rafiine. DE INDICATIVO. Indicativa ratio habet omnia tcmpora vz. praesens, ut  ^atf)prqteritura,vt4m4 «r,futurumvt^w^^o:&itcrum  Criplez practeritum vz. imperfedum, perfeaum, 6c plulquam perfeAttm. Indicare.n. eftadus cognofcit miprin.  cipij. Cognioiaauteinrcfci: turadoxn|ija tcmpora.  Imperativum vero non haber nisi praesens nec futuruiTi,  caretque preterito, quoniam non poteft: imperariqiiotl  tranfiuic, neque Deus pocefl; fa^ere vr non fu^rnt , qtiia fl.  bi contradicerec Itnperai^nus id [olum quod nuAc-,auc  poftea exir in a<f^um.   Caretetiamlmpcrariuum perfonis primis in fingul.ivi  numcro ; quoniamfibiipfinemoimperare potefl:,fedai-  ten,nifi feipfum vtalcerumaccipiac,& tunc erit quali  fecunda perfona qui e(l prlma:(ic Peerus aic« quid agis  Pecre>& /'<frr^« Noncaretinplurali ,quoniammu)n  imperio rautuoafliciuntur. DE OPTATIVO.   0?c.uiuum habet prxfcns,prxtertum , & futurum :  Jefidcrium .n- ad omnia fertur tcmpora ; dprainus  cccnim aliquidfaifTe, 6c elE%&: fore, habccque notas IIjo^  Subiunctivum habet fimiliteromnia tempora, quoniiC  poced/ ubtungiadquodcunquc verbuin aliornm mo-  d.orum,vt/?r ames^vel ver9mi/i^qu6 d amanerim^ itcm eim'  4irHdremfufpifabMm .bccumamauero (ufpira   Notandum quod SubiunAiuu habcc pro noraly cnm-  qu^orationem fufpendicdonecaliud verbum fibi adiun-  garpoftfe^velabfque ly nMirubittdgicuralceri Terbo»yt  %mwmefvtfatias^^ ti^\i<\vi^mnoX^xsk  dor^m ia Logica. Lihcrpmmis. 6i  Deinjimuuo   Iniinidi sumeidamcria cem|idrahabec, fed^ineperfb-  nis, ciepcndent enim fcmpcrexfioico vcrbo : quod po^  teft multiplex efle & ad omnia teaipora r&Ferri', & quo  Qiain bxcrelacioeftindecerminatarum pcrronarumjOm-  nibus enim peifonis copulacur, propcerea infinidainio*  di carenc diftindione perfooarum :-di|riti)us enim tui^ te  gtmofi \n$sama»ifit*ic iommmamttfifum ejjcibc quxli-  betpeifoDa cuiliberaddi poceft ,veiAu%mulaniia f^mperiniiniciaaniexporcunc poftfe^vtftiom (oco pacebic.   De Gernndiis , parfia^iis, ^ fupims.   GErundia,participia & rupina non funt verborum  modij/ed nominuin [imul vcrborum 'participa-  riones propcerea decis alia pars orationiseft coniicien-  da ^ necvexbis addcnda^ vcfececepriores-    r   »   PRa:cerirapracfeAa,imperfe<fla,& plofqnam perf^^a'  nonfuntin 6peracims«f(ed'idem dmtria temporare-   prxfcntac, quoniam fubratione voliti nbn inul tiplicacur prxtericioviicutfub toionie in(ttpat4« V   .Subiundiuum veir^^fatbetomnki pra^ilta; quoniam  cuhi cfmni verbo alrerius modrftibiundiondm^c&re po-  teft. .  V   Grftfttmatici4)on tntellbfiere quodde/iderariuo,porius  autem fubiun<Jliuodeeftpars pracfenris cemporis, dici-'  musenim vulgo/o amadiat aynaretfctucaminafii^ \ovcr^  r^i r^fo: quxnon re(flcconfundunrur apud Latinos, Sc  vulgares etiam peccant quoniam ly <i/w;rf^/ , nonad defi,  deratiuum,1fed ad fubiuncl:iuum verc fpedar^on enim^  pronunciatur,abfqucfubiun(n:oantc vrl poft:,(]qiiisergo>  iceromgrammacicarecur iioccoaiideraredeberec.  H iij. QVa:rituf aucem , cur pr^teritum multiplicatur, &  non Fucuram &pra:rens ? refponcieo , quia practc-  ricum poreft non totaliterprartenfTe , & icerum tot.ili-  tcr6: tandemmultoante,potefl:diuidi Sed prxlcns ell  nunc indiuifibiIe, quapropter non potefi: diuuii. Sed  quod imperte^fVinn cH: prxfens pertinec ad ancecedens,  veladfubfequenstempusugiturvnius tft tempons.Sed  de futuro non fic : aliud cnim eftmoxfttCuroni,aliud poft,  aliud longeporc.-SedGramadcinon acceperunc hanc^t-  (tindionem : qoooiam vfas loquendi apud vetereseioC-  modiexpreifioncsnon habuir, (icocde prxtericis^verun^  camenfociirum fubiundiui videcorefTe de fecuro praec^  titorficgfo enim idem eftlaciniqob^vulgariter hav^  fatH^ ApudHaebreostemporai^ cmag LSCQQfafa» ;   Jiii^ifif^irjforum ex ordine.   Erborum aliud primiciuum , vcDo:aliud deriua^  tiuum^vcdono.  D M   Iftin^io a]b ordiiie. eft fimilisei » qose licnomi.  num. DeriHatiuorum mulfiplidtas verhrum   ex verbis. Apud latinos verboru deriuatiuoru aliudeft inchoa-  tiuum,vticaleofitr-<if/S:tf jquafiincipio calefcere.  Aiiud medicacHium^vc acoei^o tmamU aenu^cur^qttai*   (I meditorcoenare.  Aliud£reqoen€aci Qom)'VtalegoJi0i/^,ideft6eqttencec   lcgo :1 rogo rogito.  . 6%   paukrim diminutifcribo&c. Deeft Launisinigiii.  ficatitium^ dicimas enim vuigo da beuo ibeoacciliare: da  fiiro ftiraccfalare ftancbeggiare*   Dermafia njerborumtxnommbus.   D£riuatio verborum ex nominibus iterimi mulri-  piexjalia a fimilitudine: vt a patre oritur/5*^r/y/i  fiuc/^iimXtfj^^liaabadurei fiueexiftenris^fiue mutacionc fubeuntis.vca (londcftcndfftff > a lapide iapiderG<>, a calorecakfco^    QVoniam verbum fignifrcat a^um : coiarcumqae  autem rei eA adus : igicur a quocamque nomine semiignificanrepoce/lderiuariverbum.   HMc regttla valet apud Grxcos et italos QlgareSj  fedLatininon vfqueadeoipravfirunc. Lulliusta-  meneUciceamexquocumque nomine :namqueaitJio-  mo, homificare homificc^tio^ homificahiie. Sed hdc ex com-  pofitione fit non ex deriuationc pertinct ad aclum  agendj. Sed detioatiopura e^ft ex formnli, vt lapiJef^  COy?fjetalIcficJiq^nefco/enefc» ^ifr'tre/(Oyfioreo^t< f!ofefro a flo.  re..Sedabhominenon dicitur^iwfo.ncca lupo lupefco,.  6<:tamenrecundum naturam fieri dcbet:vnde vul^niiter  a campo dicicur compeci^ijre^ a fen ^O^rz.fefje^r^f^Jarjr-Jei-  ladonnain donnar/i ^Cicut L^tin t diciCOx mafiMlifie/e  ir^irf»m<f ri,4 mafcuio, & £emena.   Qi^ autem nooas.artes^cudir, ppt^faceredj^riaario«>  nes verbales ex quocumque nomipe, ejr oiTini enim re  . «l^reditur a^us exiftendi , veloperandi, vel imi^di Accu.  Quid juid Grammaticiio boc minusiapiant;  DsdcrmatlQnc tanpomm extempoabus  erhorum    Derivanturetiam cempora verborum fuc^edentia ex  pra: cedentibuseiu(dem fpecif i, vt omria praeterita  ex primo practetito profcftp » ex amaui enim cafcitur   VF.rc dcriuanrur ex prseterita ex pnrteriro pcrfc-  non auceni cx imperfedo , quoj ennn iiiiper-  fecluni cll , gencraie non porefl: fibi fmiile , irem  fucuruni luhmnctiui deriuaturex prxtcrico , quoniani  dicit futuru.n fub rarione prxteriti , idem enim iti^a%er§   DermanoexfraJenU:   DEriuanturomnia ptacftntia tcmpora exprjerenrifn.  dicaciuo^vcab amp , amaiamare^tf.amem^UamarfJSc  -ab amot^amareiOmafirf^ffiir^amarijVtilego, ''%^J<fg^ rem^   Derluatioex futuro. ,   EX fiituro auccm invlicatiui . non videnturoriri alia  fucura. Non enim ex amabo dcnuatur amato, &c  amem, 6camauero , &:. amacurum elTe, fecundum voccm  licccderiuantur fecundum rem ,quapropter in Iiiscon-  fulendus eft; vfus: ac forfan 6c quancicas /^llabarum  primjirum. Va formsttone verhriim\  VErboruni aliudfimplex vt Ugo: aiiud compoficiiinV  vc iramtego : aUud decompofinim > yt nmtth" EAderarationedec Iaraturcompofitiorimphcitafqae  verb Grumacnominum. Decompofitumautem non  ex compofitis, fed cx «ompofito & dcriuatiuo , ^Utanfr  «ri^i/i^ ex trans & fchbo : ex quo erat (chbiUo.   , COmpoficio verborum aliacft exduobusfeuplaribus verbis vtaii^tf^#»ex caleo & facio ,alia eft ex  verbo & aduerbio vtmabfMio ,fatisfati9^ alia ex yerbo U  prarpofiwoiie^vt f/j^r/^ f*«jfiRf^,qua6extta iacio^vtcum  alio facio: alia ex verbo & mminefrtfmSififo^maffttfgf,  idejifaaofru^umt&f^idomagna.    OMniscompofitio ex nominc&: verbofignificat a-  dionem alicuius rci , vcl padionem , vt fractifico&  confru^cor^arefaciOy^careno^Sclxcifico. Omnis composition ex verbo & aduerbio fignificac  qualtficacione m aaioDis,reuaduS|fiUe aftiai|fiac  ^ fti^mtVtfatiifdd Ot^Jdiu^^Omms compofieio et verbo 6r verbo fignificit adiis; edmonem,vt/r/^<f/r<7,(^uomam&adl;tts frigQris,fita*. i  mefldacah F ADditam^ftinhacregalaj?/^^ datur ^ quoniam  non videcur ex duobus vcrbis fieri compofirio^  quoniam duo adus coirenon poflunt,fedfialcerabaU  terofir,habebirurvnus vteflTentiaai^us, alcervcailujfcu.  ackio ficpaHjo eius Jicucpatec mftiic^fi ^ cd^P.^    Omniic ompofitio ex verbo &pr^pofirione,lfgoifrcat  adum cum relaciooe & refpe^ ad aliquaro efien-  tiam,adi}uam,veldeqna, vel cum qua » velinqua» vel'  proptet quanr ,j vel per.aoam., vcl fuper qoam , vdi  &bqj;ii^3ieleirca<|ittm,m eiuQs giatia»)edittir|!^An9W   QuorfiintpracpoYiriones rocrunt verbonim expraii-  pofitionibus conipofiriones fecundum naturani,.  'Scd (ocundum vocemadcertastantum reftfinguntur. £xemplade verbifubftantiuicompofitjonibu$'.  Verbum fubftantiuum babet compofiriones odo;^.  Diciturenim dyifw,adfum^ ideftad aliud fum^quafi prac-  fens. Et;^^/iw»ideftabaiioiom, quafidiftanSs&dirgi^  ibs abeo..Ixmdefum quafideorrom&m^&reparatum;  Infum, Quafi in alip fumi ve) jficas fum ^pricpofifiaeiiifni  fep^umynria jfine qoando yenit in co  mirrjftHirquali incra aliquod iutn , vt procfeDs, vel can*  «qttamtuuans aifcnecefnirium.   lcem 9ifim^ quafi ob aliud rum,6caduerrumJScconixai  fignificac euim ly eh oppofitionem quamcShque, &  qoamuis ngnificec cflecaufalc finaleincerdum,tamenia  compofictoneponitur vc cau&opponicar effeAui falcem  relanui.   Pr^fam, quafi pro alio fum, vel pf opceraliudjidcft illud   iuvan£:/>f4r/»/»,ideft fuprafum jvnde prseefledicicur ,qui   imperac, 8cqui anteic. Suhfuyn qiiafi lub alio fum. Poffum quafi poHieirc fum.  Qujenim poteft, poft eft, potcntia .n. ex cilentia manac,  vcdeclaratum efl: in Metaphyf. Sclioc dico exvicompo-  fitionis.Datur &y»;'^r/«iii.   comjfofimnihus verborum non /ubflanr   tialmmcumfrdpoftiombus.  In verbisaliislongeplures funcconipontioneszdicimus  enime^eje^r/ff, abticio,& adiiciosqubnim piimum Heni^  iScac f^aracionem per iadUm , lecundiim ver6 addi  tipnem Sicex ml/i«amicco,£cadmitco, quamuis^i/in ad-  .4!^cco referacur ad perfonam miccencem : in adiiclo v|r&  fti^eamyadquamficia^us^ficuc&appono. . Coniicio Sceoinniicco : Hmul iacio.& firaul mi tco. Sed  perdifcurfionemly coniicioctiam idem eft atque con-  lidero jquia qui multa fimul iacit intelledu, fyllogizac:  & committo quafi aken crado , quo cum mitto quid faciendum,& fimilitercommicco fignificatfaciojfimulcum,  inftrumentisvel aliisrebusaliquid. Dacureciam circum-  iicio,& circumpono, qu^i^do (^rcjat^mljij^uiii xei quid  ponimus,veI operamur, Demitco&c dmiirfo,deiicio»& dffiiciohabcmus^ demiccereepim est quafi deorfum miccefevVeLdealiomic-  *cerc,fimiliter& deiicere&deponere. Dimitccrcveroeft  quafidiuifim miccerej & pocios ad ^verbalem facic cdpo^   poIitionem,vnde dicimu? dimitcere quafi libcrare &: par-  cere,quoniam a vinculo &:obli2;a;ione dillbciamus miccendo. Dicmiusdifponere quafidiuifimponere, sed cuni  ordine, difiicere quafi diuilim iadare, & fincordine j6c  . hoceftdeftruerejquafi deflruclurafeparare. Emicto, eiicio,expono,CAiello, dicuntur quafi extra.  micto, extra iacio , 6cexcra pono. Vn Je diciniusexponc-  re &quafideclarare quid cxcrarci niiplicatiooem &contexcaai, vbi res eft confuHLf poaimus eius renrum. Prtereainiici Oyiminicto, impono; dicimusqaafiintus iacio, intromitto , incus pono velinponitur qunfi Contraimmicco Xinaliummicco^iniicio in aliud iacio.  Dicimusetiamintermicco, incerponO) incerficio» incerii.  cio$quoniam incra aliquid miccimil$ aliquid,, quodfiil'  Ittd aliquideftcempus vel adio, cunc incermicco, eft  paufo»fimilicerincerpono, quafinitranegocium pono diT'  feparans iHttd.Sediat £rfin'n rft i nmpumre i Hiquod in ter  aliad;vnde 'qiian3o eft homo vel anjmal fignificat id»  quod occido&macto , quienim ponic ferrium aut nlmd  diuidens,intraanimal ,reparat ipfumac proindeoccidic  dicimusetiam intcrmitto &: mtrofpicio, quando non vi-  dentur quippiam incroducimus ; nuc faltem intclleclun^^  licdidum,qaiaintus legic, incrofpicit. Diciturimpofens  quafi valde potens quoniam impccuofe potefb , dicitur  iillicgatiui,,qnoniam ly tion fiKflum eft o;7 , tSc de inde in  ficut oUi tranfi in ////. Sedraro aut nunqunm fiicit cum  verboficcompofitionem, fed cum participio verbi,dicitttreniminnocensid cftnonnocens. non tamcninnoceo:  iuauditus, 8c cranficaCttSynon tamenin audio necinucoc:  infedus/ed non inficio,nifi fubalcero fignificacu.   Icem didmns obiicio,oppoao,ofFero : quafi^concra ia^  cio, concrapobo,coocrafero » ecenim ly conna dicic op-  poficionem contrariam; &: dioeriam & priuaciuam) & To^.  calem , ^ed oim dicimas Qmitto , idem eft qua£re*  linquo^quoniani^qttt concra nii dionem eft non mttcic,fed  definit mitteife : ^'dqai coiitiiiji |)6mcaliqa&l &ciCCOD»^  trsmcflf dnmp riaatia)&.   Trem proiicio procul iacio (ignificar. SeJ propono pro  aIiopono:5c non procul dicinnis fccundum vfum.Pro-  micco autc dicitur quafi pro alio mitco,»S: pro re facienda  mitco vcrbum pollicitans ,vel procul mitto, vndedicimus promifTam barbam ideft prolixam, dicitur etiam  permitcoideftperaliudmitto vt fiarjyenim pcr caula-  licatemdenunciar, percipioperaliudcapio, vcl valdc ca-  pio,quoniam caufalitasnotitiam inluflrat.Dicimus pra:-  micco ,ideft ance mitto , 6c pr^pono ideftantepono  pofl:pono,8c poftlial^oinon tamcn poftmitco^quoniam  non eft iii.vlu,& non quia non poceft fieri fecundunx  nacuram. Icemreiicio,repono remitto jquafi iacio,rctropono  ideftpoft pnmam vicem , & rcmitto , 6c refcnbo, & hoc  verum , quandoly ,re, breuis efl: fyllaba ^fed quando eft  longa ,dicitur,arcs, vc referc, ideft res fert : &: vtilitAs  fert. Amplius dicimu.s fnbiicio ^fubmitto j quafi fubjacio, pono rub,mitto fub. B. enim fit.p.ecf, exfono (equen-  tiSjVCfuppono ,& fufFero. 5"ed bonus Grammaricuso-J  riginem retmebir. 1 icimus etiam fepono, femoueoj'  quafifeorfumpono,8cfcorfum moueo,fimiliccr feparo,.  jk. fegrego , feorfum paro & feo-^um a grege. Itcm fuf--  vpicio, q ua fi fuffum afpicio. Jcem fuperpono ,& fuper-^  >Jedeo, 5c fupcr, quorum erhymologiapatct.  «Amplius traduco,traiicio,tranrpono,tranfmitto,tranC' lego, cxtrans &:ducoi& iacio&c.H^catculimusexempla,vcinaliisidem ^cx:^^ fncere"  & dtclamare, dicimusenim exdo das, abdo, addo,, condo, dedo,edo, indo, obdo, prodo,fubdo, reddo , tra.do. Similiterexeo,is,habes ,adeo, comeo ,ineo, obea,  pro eo,prareo, tranfeo. Quprum fii^nificata ccfiabori-  pnaliclongcncur, camenalToriginalihabent VIM SIGNIFICATIVAM ftrto cnim fignificacperaIiudeo, ficucfumus5  Imperativum vero non habet nin praessens & futdriim,  caretque pr^tcriio,quoninm non poteft imperari qiiod  tran(M]it, Deqae Deuspoteft fa^ere vt non Fucrit, quia fi-  bi contradiceret Imperafnus id folum quod nuhc^auc  ' poftei exitinadum; Caretetiaralmperatiuum perfonis primis in fingutari  numero ;quoniam fibi ipfi nemo imperare poteft, fed al-  teri,nifi ieipfiim vtalterumaccipiat, & tuiic erit quafi  fectinda perfonaqui eft prima?fic Petrus air , quKl agi^ Petre>& fjc Peire, Non caretin plarali , quoniam muici  imperio mutuoaiiiciuntur..   m  Optativum h.abet prxfcns^prxrer tcm , .S: furiiruni :  Jefi Jerium .n-ad omnia fcrtur rcmjiora i npt.Tinus  ecenim ali quidfuiire, 6c eir.', 6c fore, habctque nocas fua^ Subiunctivum liabct fimiiiteromnia tempora^qaoniiC'  poceft fubiungi ad quodcunqae verbum alibram moi-  d|or um, V t// c ames^vil xffnm #if ,qu6d amatferim, i tem nini'4imaremfit?piraidm^tCei^ mamdU€ro fuffirah*   NotandumquodS^ubiani^niu habetpro noraly e&m^  qu^orationem farpcndicdonecairud veiTDum fibi adian«  gacpoftfe,vei^fque ly «Mfiibiudgituralteri verbo^vt  iMtmefivtfaeias^ petaliqoam notam co£ujatioonim di^  ^r^m taliogicai.  Liherpri/fUis. 6i  Dcinjkmtiuo*   INiinitiQum etiiani tria tempdra habec , fed fine perfo-  nis, dependentenim fcmpcrexfinito verbo: quod poced mulciplex efTe & ad omnia tempor;! r&Ferri , quo»  piam bxcrclatioeftindeterminararum pcrfonarumjom-  nibus enim pedbnis copulatur , progcsrea infinitiui modi Garent diuindione perfonarum rHijc^us enim tred^ te  Mmdtt iwsamatiiJU • & h^nnmaii^Mum^ effcibL quxli- betperfbna cuilibetaddt pote(t,veff«fFamulantia fem'  pcrinfioiciuum expofcunc poftfe^tiuiftn locopatebit.   t)e Cermdiis, parna^iis, ^fupims. Gerundia, participia et supina non sunt verborum  modij sed nominuin simul 5c verborum 'participa-  tiones ^ proprerea de cis alia nars oracionis eft conlicien-  da ; nec verbi$ addcnda, vc tecece priore^.   PIlxccritaprsefie£b,imperfe<f):a,& pluTqpam perf^Aa'  non funtin dperatittis^ fed idem omtfifl tempora re«  praeientac  quoniam fubxatione V6]iti nonmultiplicacur'  prxteritio; ucut fub Aftibiv indicati, Subiuni^iuuni veirdhftbetpmnia pr^i^td^^ qubniimi  cuhi dmtii verboalceriusmodifiibittndioh^ fikcere po- Granmiacicioon inteltexei!^ qiioddeftderattuo^potius  «utetn (ubiuo^liuodeeftpars prsefentis rempori, did   mus enim vulgo/o amafli .h amaret fftti caminafii , iovcr^  r^ir^fo : quxnon re^lecuiUundunnir apud latinos et vulgares etiam peccant quoniam \) amafei non ad uc<u  deraciuum,fred ad (ubiundiuum verc /pedar.non enim pronunciatur, abrqaerubiun<5toanre vel pofl^nquiscrgO'  iterumgramn^acicare^ur boc coQilderare debere{:.  QVxrituf autem, cur pweritum multiplicamr, &  non fucurum 5cprrerens ? refpondeo , quia praccc-  ricum porefb non cotalicerprxteriflre , & iterum totaliter et tandem mulcoance ,poteftcliuidi Sed prarfens ell  nunc indiuifibiIe,quapropter non potefl diuidi. Sed  quod imperfedum eft prxfens pertinet ad antecedens,  vel ad fubfequens tempusi igitur vnius tft temporis . Sed  de futuro non ficraliud enim eflmoxfuturum,aliud poft,  aliud longc poft SedGramaticinon acceperunt hanc di-  ftinclionem : quoniam vfus loquendi apud vetereseiuf^  modi expreffioncs non habuit, ficut de prxteritis,verun-  tamenfuturumfubiundiui videturefTe defuturo prxte-  Tito-fecero enim idcm eftlatincquod vulgariter haver\  fatt9. Apud Hxbreos tempora ficut magis confufa   l^ikttfiovefborum ex ordine.   Efborum aliud primitiuum , vtDo. -aliud deriua-  tiuum, vcdono.  Dlftinclio ab ordine eft fimilisci, qujc fit nominum. Deri Hamorum muUipUcitas verborum   ex verbis.   APUD LATINOS verboru deriuatiuoru aliud est inchoativum , vt a caleo ^xtcalefco, quafi inci ijio calefcere.  Aliud meditatiuum,vt acocno canaturio dcriuatur, qua-   fimeditorcocnare. Aliud £requentatiuum, vt alego lemp, ideft frequenter   lcgo :i rogo rogito.   AUuddiminutiuum^Yt ajiri/^,/tfrW/*,a fcriip/criiilU 6$   pauktim , &diminutcfcribo&:c. Deefl: Latinis ma?!;ni.  ficatiuujn,dicimusenim vulgoda beuofbeuacciiiare: da  Aico (bracchiare francheggiare.   . Deriu^ia wrborum^x nominibus.   DEriuatio verborum ex nomiaibus irerum mulci-  plex jalia a similitudine: vc i pacre onwpmiftff^  fiue pMtfix^YMizkhtjQi^ rei fioe exi(lenns,fiue mui^cioD^  fubeopcis » vt ifronde fhnltfco ,a lapide lapidefco, i ca^  lonecalefco..   regvlA.   QVoniam'verbum fignificat a<?lum ; cuiufcumque  autem rei efl adus : igitur a quocumque nominc  rem iignifican tepocejd dcnuari rerb um.   HJ£c rcgula valecapiid Grxcos , & Italos vuIgaTCSi  TedLaiininon vf^oeadebipraviirunc. Lulliusta  men eliciceam exquocumque nomine : namqueaic,ho-  TCio ^hQmificauhdmlficaHo^homificabile. Sedlidcex compositione fir non ex deriuatione ,di: pertinetad adum  agendj. Sed detioatioptoi ^flr ex.forman, stUpUef:  t^^metallefio^U^nefco^fenefco^pt. treJc4tj^W9jbcfloreUo a flo.  re.f Sed ab homine non dicicur hoimeo^ntc d I-upo lupefco,.  & caroen ft cundum nacnf ficri deBcc : vnde vu I gaiiter \  icampo ^^Cit^t9mpe(i<jiare^'2ihvit^xi^f  U dmnaii^ lioiuutff ^ ficoc Latini dicitur mafculeftire &:  «jlf^WfMri. dfnafculo, &: fa;mena.   Qoiatitem nouasartescudir potcftf.iccre deriuatio-  Hes verbales ex quocumquc nomine, ex omni enimre  egreditur aclus exiftendi , vcl operandi, vel imicandi Ucu.  X^uid^uid Ciraminaciciinhoc minusfapianc.  T)i dcritiatione temporum ex temporibus   ^erharum,     DEriuanturetiam temparaverborum fucceclentia ex prxcedentibuseiufdcm fpcciei^vt omniapfscterita  ex primo prxtetito profeAo, ex amaui enim oafcitur  affMuc/jw^ amauiJ^e^i^mduerim^'^ Mmatierc^ amautje': VErc dcriuanrur ex prxtcrita cx prxtcrito perfc-  non autem cx imperf-edo, quod enim iniper-  feLlium eil , gencrarc non potcll: fibi fimile , irem  fufurum lubiundiui deriuaturcx prxtc.rKo, quoniam  Micit futurum fub r.uione pr.vrerici , idem emm^^,/*^/*   dc iii m ^ m m h a h x^^' DerMatio ex pujintii   DEriuantaromnia ptasfentia tempora exprxfenti Iti.  dicaciuo,vt ab amo ^amaytmanm^mim^hLamaniSc  ab amoryamare^ amafeffiimeriamarifVt Silc^o, Deriuatioexfuturo. Ex futuro aurem indicatiui , non videnturoriri alia  futura. Non enim ex amabo deriuatur amato,6C  amem,&amauero ,& amaturum cfTe, fecundum vocem  licetderiuantur fecundum rem ,quaproprer in Iiiscon-  fulendus efl: vfus • ac for(an & quanpus iyllabaibm  primjarum. ! formatione virloriym$  Arc VU. . V   Verboruinaliudfiniplex YcAs#:aiittd compofiniinV  t iramligf : ^nd decompofitimi > yc ttmttU^   'EAdem ratione dcclaratur compoficio simplicitasque  verborum ac nominum. Decompofitumautem non  ex comporitisjed cxcompofitoacdcnuatiuo, vClfrfK/-  erMU ex crans & rcribo : ex quo erac fcribilio.   Compositio vcrborum alia est ex duobusfeuplun-  bos erbxs vtmUfaw^cx caleo acfaciQ,alia eftez  verbo & aduerbio vtmakfatth/aOsfiiekj alia ex verbo U  prxpofitione, vt</^i^^ «»jB<^,qi> afiexira fado »ncum  alio facio : alia ex wbo & nomine, iftfa»iitj!(o^magnif €0,   OMniscompofitio ex nominee & verbofignificat a-  (^ionem alicuius rei , vel paflionem ,vt fruajiico &-  con^dificor > arefacio^Sc areno, £c Ixcifico. Omnis compoficio ex verbo & aduerbio fignificat  qualificationem adioni$,reuadus»fiUe aditti|fiue "fzS baxiftfaiiifst UjtcJail^p fiLWk Afi^.    OMoMCompoficio eif yerbo 6t verbo figotficdtft Afi» editionem, vt/r/^<f><7,(juoniam ficadus fhgoriSift ta^  menda tHh  ADditum-edin hac reg^ala f tamen datuf j quonianv  non videtur e"x duobus verbis fiefi compoficio^  quoniam duo adus coirenon poflunt, fed, fi alcer ab al-  tero fitjiabebitur vnus vteficntiaaiaus, alcer vcadujfeu-  ftibo& paffio eiusjicutpatec mfiigefipt^ntltfit.^  Omnis compofitio ex verbo &pr^poficionc;( fgDifrcatradum cam relatione & refpeduad aliquamefieo^  tiam,^qiiaib, vel deqna, vel cnm qua , velin qna, ver   Sptft qnamr.,j'vel per.qttam, vel fpper quam ^^veU  q)!lt>meircaqi]am» v«l enins gcatui^ jeditiirs^&it^^    QVotruntprxpoilnone.srotrunt vcrbornm exprjc;-  pofitionibiis conipofitiones fecundnm naturam..  Sed focundum vocemad cern^jjipi^iiR-reftringun^ur.''':  Exemplade verbirubftannur compofitionibusi  Verbum rubftanriuum babet compoCriones o£tb^  Dicitnr enim i/«w,adrum, id^^daliud fum^quafi prx-  fens. £r^4/to,ideflabaii^^.quafidi   fiis abicHH^ v;,^,. ^i^-',r:v:   ixcmdtfim , quafideorfiim fum- & feparatntiH^ ; Infim^ qttafiitt altp fum; Wl incns fttni .pcazpQfittaefiltfii.  %|4|^u§u^^ quaodo venit in com£ofitionf m«    iinir/im > quafi intra aliquod fum , vt praefens j vtl tan .   tjuamiuu.ins .nirnccefrnrium.   Item oSfim^ quafi ob aliud rum,&ftdtterruo).8cconcm  iignificac enim ly eh oppofitionem quamictfnque, Sc  qaamuis ngnificec eflc caufale finaleinccrdum^ tamenia  compoficioneponitur vccaufaopponitureffeftai iaitem  relatiue.   /^r^?/»»!, quafi pro alio fum, vel propteraKudjideft illud   iuvans:/?r^/«^,!defl: fuprafum jvnde praeefledicicur ,qui  imperat, &qui aLiceic.   Sul^frvn ciuSiCifwb a\\o Cmvi. /'f^wz quafi pofteflefum.  Qaj enim poteft , port: cft, potentia .n. exeflencia manat,  vt declaratum efl in Metaphyf. ^hocdico ex vicpmpo-  iitionis. Datur Sc/^/^^r/ni».   De compofinontln^s verborum non jubSlofh  ttaliHmcHm^rdfofitiomhm.   IN verbisaliis longe pluresfunc compofitiones:dicimas  enimexjr^«:i0, abucioy&adiicio^quorum primum fignir  ficac feparationem peria^um,-fecundam ver6 addi*  tionem Sic ex ffiil#/^amitto,6c admiccp, quamuis ^dva ad-  miccoreferacur ad peribnam miccencem ; in adiido v^&  ftd ean^/^JmiamfiK iaftus ^ ficut 8c appono.   ConitoolwefKKiM^^ iacio,& fiiu   perdifcurfionemly c^mcioetiam idem est arque con-  fidero ;quia quimulta /imui lacic intelledu, ryliogizat:  ^ commicto quafi alteri trado , quo cum mitco quid fa-  ciendum,6c fimiliter committo fignificatfa/ ciojfimulcum.  inftrumentisvelaliisrebusaiiquid. Daturcciam circqnv  iicio , & circumpono , quando <j4rca;amljii|um rd qqid  poiiimusyvcloperamur, ' Vf,.   Demicco6c dimitto,deiicio,& df6jdQhaBcm.us*,<ie- mictereepifn qft quafi deorfum micce^revVeLdealiomit-  *cere,fimilitcr6c deiicere & deponere.Dimitterevero eft  quafidiuifiin mittere. & potins ad .Terbalein.fikcit c6po. Ttemproiicio prociiliacio {igniticir. ^cJ proponopio  aIiopono:5c non proculdicinnis rccuiuiuin vruni.Pro-  mitcoauccdicirurquafiproalio mitco,iS: pro re facicnd.i  mitto verbuai pollicitans.vel procul mitco ,vndedici-  mas prpmiflam barham id^ prohxam , dicitur etiam  jpermitt6ideftperaiiudmiitb'^Vc fiat,lyenrmf pcr caufa-  fitatemdenunciatjpercipioperaliuclcapio, vclvaldc ca^  piOyquoniam cauraiicasnociciaminludrat.Dicipnis prx*  mitto ,ideft ante micco pr^pdno ideftantepono  poftpono,6c Doft lial^oinon tamcn poftmitto^cjuoniam  non eft in.viu,^ npn quia non potcft^eii fecundan^  naturam.   Icemreiicio,repono remitto ^quaff latio.rctropono  ideftpoft primam vicem , 5c remicto , 6c refcnbo, iScboc  verum , quandoly ,rc, brcuis cfl lyllaba : fcLl quando cd  longa , dicitur,arcs, vc rcferc , ideft res krt v ^ vciiicAs  fert.   \ Amplius dicmui5 fubiicio , /ubmirro j quafi fubjacia,  pono fub, mitto fub. B. enim fic.p.etf, exfono fequen-  tis,vt fuppono fufFero. ^Vcd bonus Grammacicus originem recmebic. . r icimus etiam fepono , femoueo^  quari feorfumponb^&reorrum moaeo,fimiiitcr /eparo^  ,4^f«(gfflgo , feorrum paro-^ &feo-njm.a grcge. Iiem fiiH  picio , q uafi ru#fiEin| afpicio. Item fu per pono et fuper-  iedeo, rupcr,quorumcthymo!ogiapatet^\>5^^-:^^^^^   lego, ex traris-I^Bfii^ti&i^^^^ ,5&S^^^ '  H/£cattuIimusexempIa, vtin aliisidem k\:\s facere-  & dtclamare, di c mms en im ex do das , a b d o , add d,,  condo, dedo, f do, indo, obdo, prodo, fubdo, reddo , trado. Smiditercxeo,i5,liabes ,adeo, comco ,ineo, obeo,,  pro eo,prxeo, tranfeo. Quorum fii^nificata etfiabori-  ginaliciongcntur,caiiienaboriginaiihabent vim figni-  ficatiaam ^fn^ Cfutn.fijgpificatpcr aUudeo,(icucfttmu8i   \ ' I «i     per adrem', 6c aqua perbinum, compenecrando j quod  nim per ic , didbciatur ab eo , p er quod it , vnde e tiam  cUar incerlre :quomam difToIurio atomarum euncium in .  atiasreSyCompoficamdeftruic. Vnde perire& interireeft  •proprium compoficorum diffipabiiium £c friabilium,  sdem concipe deperdo, 8cc,   "DeTarMif to.  PARTICIPIUM est vocabulum, pars orationis declinabilisj fignificans effenriam fimul cum fuo adu, veladum cum eflentia^ cuius eilactus^   D E-Gi-A A T ra  IN hac definitidne ponitur ^fcaMam fdfs oratiotjis  detUnaiilis eadccum declaratione, quain nominis,fic  yerbiy&pronominis tradatione vfi fumus. Dicit urfizni^  fe4m4ffeiu^tmmfi^a9u\ VfdtBmmmeffmiafimuttZd  differencia pro Qominis» qaod perfonam^ non efleiM^m  dicict&nominisquod fignificaceflentiam/en remabr>  queadafuo i6cverbi,qaod fignificata^lum.fednoncam  eflentiafen re. Quapropter cum dico ;2df/l:m,figrtifico  rem, qux nafcicur,yet aclum nafcendi cum re, aduara ta-  li aclu. Et ideo quot funcaclus,totidem funt participia .f.  substantialia, cxiftenrialia » operatiua, adiua, pafliua,  Deutraiu,communia,&: deponencia.  Dlcicuf propcerea oarticipium , qoia capi t parcem fi-  gnificationis verDi, & partemnominis, vel pronominis, id eftadas 6crei. Vndedicicur eciamnomen verbaie vel verbum nominale propter idem.   JUberfrimitsl 7/   Grammatici dicunt , quia pdriem eapit a nomine^ p.tr-  tremkverbo partem ab vtroque: a nominc .f. genera &; carus -,averbo tempora&figmficA4ione!i«ab vcro»  ^ue namecam £c figurani- Pere^Mr^iiitelligiint kxnmrfet'ea/um vahecatem^  indidionts fine. Sed bsecvarietas eriam eflin verbo»   fednonitaatqueinnomine. Ibi enimtTe. scafusfingula-  riter funt, in nomine fex & pluralirer etiam fex , ncc mu- '  tant prefonam ficuc in veroo. Vet tempora intelligunt  pra?fens,prieceritum &futurumjqua: aclumconcernunr. Sed nomen figmficat tempus , vt ens eft, fcd non cum  temporevt verbum, Per fignififationem incelligic adio*  nem vcl pafiionem ,&:inhocfaIIuntur Grammatici:non  enim afoloveibo habet partictpium fignificationem,  alioquin (igniHcaret folummodo adum Sed quia figni«  > ficat efientiam cum adu.nonhenedixerujDr, quod aver*  bo (0lohabet6gnificQtionem:tquod autemaddunt n$>^  .m^rnm ^l%«r4fiil*idefl: formationem fhnplicem com*  poncamab vtroquehabere non mal^ addant. Sed non*  efthsBcnarticipkmifn rario propria^fedinmodo fignifc .  candiftbi vtrumque parcicipar, fbrfan etiam pronomenr  ^veirbiiniparricipat, omnisenim eflTentia indota fuun».  didum eft perfbnara,^ adu^ eftperfohahs, proprere^  dicendam efl^quod pirticipatpronomen &verbam,ver  forfan quia nomcn efilnrinm fignificans habetaclnm  ^flrcndifiibflanculiter.poceft concedi quod parrcm capit  a nomine,'cum reueraplusd pronomme capiac-' adu?; e*  nim exiften Ji,agendi,operandi,pr^tiendi fnnr potius per.  fonarumqu.im effenuaium, ijifi, vc pcrfouaurum. Sicdi  liocinMetafii,.     72 gratnmaticAltutn CampaaelU,   P Articipt» oriuntur ex verbis, 6c terminantur inmo^ '  mina , vc ^Xitmabmm&tamam , mucata verbaliin  rfii/ noiiunalem. Confimilitcrm vulgari lingua.  DeriHaihfarticiftorum.   DEfmuntparticipia in am & ia rus, vc^hians&ama^  curus : & in tas 5c in ^«/,vt^inatusdc amandus  Addemus, in ^i/ii,&iirffi^vtainabiUs & ainatittiiS) Vtt  iat*Ukrovidebimus. Participium ui a4iii/oiiiuj:u4^aprimaperronapra:ceri  ti iiupcrfedi .murata <fwin, v;, vcamabam, amanb facir, in w, in /1»^ ,formacur a fupino pafliuo.vtamatu fa-  cic amatns, prout addic , r#/, auc in ,formacur a ge-  ninuo parcicipij in am^ mucatO|fi/^a ^/t/yVt amantu facic  anundus.     INiingua^atina itarehabentderluationes paucisex^  cepcionibus additis. Sednon in otniaiidiomatedan--  tur participia nifi vbi breuitas Srfiicus attcodiior.   Poccx tamen noftratesvti ceperuntjdicuiltlHiim/Siitoi^  faH9, faBihili fucJiaoyfaBufo & facignd^.quod poftremum  cft mumsvfitatum. Atquidcm deriuationesomnespoC  funrfiericx imperatiuo per adiedionem ,& ex fecunda  perfonaindicatiui, fi enim<*«i^,accipiat,»j facitamans,  f\ tus^ amacus , fi, ndas araandus , fi tums , amaturus. Tut  vertitur intns eftin xa/,vcvifus amplexus , proutfupin^i  jEjjrunr. Etideo redc (^ranuuirici funina refpuunc.  <'Duo func parcicipuex parce edcntisai^umkhabentia»  .Camaoa     Ly Gc     Ltberfrimtis, 7i   amans&amaturus,alterum prxrentis,alcerum fucuri  temporis.'   Duo funcerinmex pj:rterecipientis aclum .f. amatus  & amandu5,pertincntiaad prxtentum 6c fucurum.   . Duofuncex partepocenria:,vt amatinns <5c amabite,  cfpa^poiruiH: muLtiplicari adkiue 5^pa(riuc per omnia cem.  pbra , vc dixitnufi de oomine loquences.   Tfofofihodetemfortyus^   TRia enind runttemporaparcicipiorum, pricfens,pr3p-  tencum &futurum, quar multiplicancurinadliua^  pafliua .f faciencia & recipicntia: excepto prxterito»  quod non poteft elTe adiuum.nifiin verbis communibus,  ic deponcntibus , vt (equens /equutus , fecuturus, lar-  giens,Iarc;itus,5c largicurus ,atque infuper quibufdam  vocariN neutns paHlnis, vc gaudens, gauifu.s, & gauifurus,  tido ctiam , ca:no,prandco, iuro,placeo, foleo, audeo* af-  'fuefGO, quieko,titubo,lnuboi fierienim pa/fiua triplicf-  teifdeberencyciiens fadtts&fiendus,iedndn eft auistfi  Vlb.   ' Etquiaqubd eft in potenria eft fucumm.fittnrilma-  tittum & amdbile^adiuttm tcpaffiuttmin potencia&pof?*  ieat triplicari. ' : .  QViECumque carent fupino verba,carcnt etiam par-  ticipio,in cus&in rus , vc<iircO| ftudeo yCompefco  apudLacl   cafus exigentia.   »   PArticipia exigurlt cafus {ttbrum verbonmi , ficot fiio  in lotodocebtmlis, quando non fiimuntur penitus  nominditer. J)oH»i enim p^t^ft.efle nomen, ver^i  De fextu. Prasterea participia habent sexum masculinum ,vc  foemeninum,vt^» 7<i^/,8camanda, neucram  vt amatum j commune, ^tamantcm ,omne^VC<iwww>tiici-  tur eaim Jiic» 6c hazc^ £^ hoc amans^   >   OMniaparticipia iai«ffi& vsihtk futittertixrieclinatioms nominam, in ntSt ia /«r in ifti & inijiffj  funcftcundas&primaSf ficutboaus.bona , bonttm,icaa-  maturusjomacura, amaturum dcc.   '^- lyejorma. c   DAntur'fimpIicia,&comporita&'decompofira , vc-  iegenSy perlegens, &per leduriens , flcuc m ver-   bis.   £t babent compoficionemilmihcer cu m nomine,cum;  terbo^cum aduer bio,cum propoficione^iicuc declarauL-mus loquendo de yerbis«.   De frttpojltione feu adn omine.  PKxpontio eft V ocabulum indicb*nabile, confignifi'.  cans rerum feu elTeniiarum cum iuisadibusrcfpe-  aus&circunftantias. ^ ' ' "  Ideoque nominf adhasrec figoificanci efl!enciara.  Uberfrmuil 7/ Dictc Qr 1^4«&tff^f»!/) ficoc decaeteris.  DimviViniitlHiatlbi ad differentkun decliii&biliam  ooniinuiTi,verborurn, participiocunr8cp Fon6niiattm.   Dicitur conf$gntficans nfpecfui ^ circnnfiantias epentKt"  ruminfatsafitbrts : quoniamperfe non fignificat , nifi ad^  datur nominibus: & non nifiper adum eflendi 6icxi-  ftendi 6: ag;endi 6c patiendi U. operandi pofliint res ad  inuicem rcferri.   jDicicur cfseniiaram^ ad differentiam aduerbiorum qu«  adtum refpcAus & circunftantias dicunt, non rerum , 6c  idcirco aduerbium coniungitur verbo j pra^pofitio vcro  tiomini,vnde re^ns vocaretur Adnomium» quam prs-  ponno:pnepomenimeftornnium rerum, qux antcce*.  dilnr iiue in nacttra /lue ia ^vocabuiis : fed^omini  . praepioni eft proprium huius partis orationis } quam ex  %oz pra^fitionem vocamus Meliorem ergo adaer*  biuni nomenclaturam«Praeponicttreciam pronominiiSc  ^rticipio, quatenus aiiquo pado fuht nomina etia»'  ipfi.   jijfirno comfaratiM.   Slcutiaduerbium fehabetad verbom^itaprxpofitio  ad nomen:hoc vno demptO|qubd non fimiliter qualificac,necquantificat. Dlcitaduerbiumcircniiftantias &refpe< fbu$a<fluum;  &infttperqualitates, & guantitates, teroporalitates, iocaiitates«&aUamttiia pracdicai Aentaha* Adno-      miumautemreu prxpofitio ^olum rc^pecbus dicit eiTcn-  tiarum & circunftantias. Qvi:\lirate$ enim qunntiratef.  que , ciEteraque pric^V-mentalia indicanturabadiedi-  uis nominibuj circa frJ »flantiua, rii;nificantia efTentias,  verba autem adiccHiuia non vniuntur fubftantiuis nifi,  participiaiiterfumpra. Dicimus enim igo fnmiuryem^vsk  esanuQSyVoseftis icribentes^&c. Omnis entmadusre-  foluirarin eiTeatiftni, & idei^ ner effeotiale yerbum expri-  muntorinnomine participiaU,6cciini<licimus cufnrie^  tftoMefiy fttmitucl/carrere^motteri nominaliter iqu^  tencis, ad\useflqoaRkmres,&aoii vt egreffiortjfe,   De numero prApo/itionHm certos cafu$   exigentium.   Prepositionum an« trahunjLDxmifitt Ai^afomaccu-  fatmtmi ,vt aiJ, “apud” , “ante” , “aduefros”, “cis”, “citra” jCir-  ca^ circitcr, “contra” ,erga,extra , “inte”^, “intra”, “infra”,iuxra,  “ob” ,'pone, penes, “pcr”, prope,propter, “pofl”:,pra:ter;, fecun-  dum,fupra, verfus, vltra. AIix vcro adablariuum , vra^  ab, abs,abl'que,cum, coram, clam, dec,ex,pro pra;^  palam.-fine. Alia: adnccufatiuum &ablatiuum, vrjn,.  fiib, fuper^fubter. Alixa^ geniriuam ,vt inftar gratia.  Aiia: genitiuo, &abIatiuo, vttenus, quodpoftpof]tum.  " nomim(ingulahferiHcabIatiuovt capuiotenus^ pluralii  veri,g;eniciua, vccrunim cenus« Ratia honun exiogica)  & ex ^idisin capJde nomine confbit   DiJlinSfio frApopionum exJ^nijicatiQne.   hiu in.   PHarppfitionumalias flguificant refpe^um ,alije  cumltaaciaiiio ALke sigmficanc r^rpedttm principijac! termlfium»  qua prioci[>i; xyt i^ex : principij jid termimim     S   ALiae fignificar refpedun^ caufae a.d effe(^um ,&c '  contra,<)uarum   ALix (ignificantrerpedum cauialem caufx agentis  vcab>a,ab5> fecttficlum ; vti peo fadum eftfe*  eulum.&ib.   Anxcatt& materialis^vt i&^^,-nde Juto ^dus eft  . homot&exelementtselementacum*   'Alise.caii&idealh^vtinftaf.. U >;   A liz caufaefindis 6c perfedionalis^ vc propcery Ugra-   Alix omnium caufarum,vcp€r,pra:jcipue aucem ui>  ftrumeiiulis.  Slgnificantium circunftanrias,alix rignificantcircniiu.  itantias \oc^\^s\stsfnd^c\s^citra^vlsra,cnmm^tlnf^  fropK imxta^hiira^)^tfa^veffus , fnpra^infra, in.   Alix ctrcunflantias ordini s fetf difpofitionis, &ficil3f  yrtante^f^fypra M^fupr^ fifher^ tenmr yfn^iitter»   lias ojppofitronem vt  « Aliapcmunftantkm fccimtis '«IBnmta&'v«tsegac&  ^tit^^pUiabfgue^fratcrrCoratn^{dUnt^afiU^ " '     Dijiin&io ex fomatione.  . Arc. IV-   PRxporinonum aliae fiinplicesvt^^jaliieconipofiia:,  vtaduirfit$.   Diiiin&io ex Qtdine.  Arc, V. ' .  ITem alias primitiua: siprofe , & i-//r.z'-, alix deriuatiux  vc propui&cUiriut , formancur enim comparatiua , 6c  faperlaciua nominaex prxpo{icionibus »dc umuladuer*     v;     Proprium est pr^pofitionum compbfitionem fiicere  cum verbis: non camcn omnium ^ vc^ipitraft^tli dc   verbiJi compercumtuiL  IDe ad$ieriiio. Adverbium eft vocabulnm ii^dec Unabile configni'  ficanscircc inftantias pr^dicamenbjes , &affedEi<^   nes,,modificad Qne/quea6lus.  Ideui^ue lernjiqjr verbo adbicret, significanciadunL ,D^dume(lpiili9^q,U9d aduerbium dicitur quia flac  tttU3fc.mb»int|:cemnam9difiGationesadt]s,fignifi- ^ ti^verb j(»,dfcl4ratK7. »  DiciCMr^oyv &par5ordinis icKieclinabilis , ex rop gene* . yg   re,i&: clifferentiadcclinabiliiim.   T)\c\z\xr confiniificdns circun(hiLttat (sr Tnotlificittkne^ fi^   IhS'^ qaoniamomne prxdicamentiim denominansa^ flmn   percinecadadus circunftantiam.qualificans veroad mo-  dunir . .   . .DecircurjjlantthHs actum. Circumstantatium: tempus, locus, eventus, magnitudo, numerus, ordo, similitudo, ficanimi excen-.  fiones.  Dlcitur circunAare quidauid non pertinct ad tC  fentiam re, fed pertinetad eius exiftentiam ; omnes  enim res diuerfbrum prxdicamencorum circunftanr,  quac Ain t eiufdem prxdicamenri , non circunftan t/ed ef.  fentiant , vt in Metaph. probatum eft. Et quoniam alia  funt eflfentiaiia ,alia exiftentialia rquar pertinent ad exi-  ftentiammagisdicuntur circunftare ,vtfunrrempus,lo«  cus, correlatiua,5c cocxiftencia.   De adHerbtorHmyfpecfantiumad circmflan'  • tias^varietate.   PRopterea aliafunt aduerbiatempprjs vt quande:, ho~  die heri^ cras^pidUyfoQridie^ quandiu,mod9,\olim^quen-:^  darn^ nupefynunquam^ mox^fdttUfper^pereniie^c*   Aiia funtaduerbia localiafignificantjaa^flum in loco  vt ybi 5 hic^iHic^ iftif^ intusJorit Mfqttd,nttlMii vtro^ique^  fUutr^biqtte. A lia ad localem ly^oxione^^vtqno^httC^ilkCyi^ttCi intro^  fora ^ttoieis^quocttnque vtro^ue^nentrpqttu_, ^     /o Aiia moto de loco, vc vndeJjinc^ilUiu^i^inc: vndijue^/i^  ferni^infcrne indtdcm.vtrinque,   A\i3Lipetlocum ^\t^ttaJ?ac, ttIac^ifiac^ qttaoisqUa!iie^e4''   demvtraque.  Dancur vcrfus locum , viquoffiim, iUorfum^ dextrsr-   fim inextrorfuni, Daacur  6c vr<|ue ^d locttin, Jtt^^nc^ffm, iUft^^ vfpi^  qu^ufqu9^hdcienii$.  Alia fuDt euennis, vc/i^r/^ tf^nuna J^nmtu, cmingen*,  terSniceffario,  Aiia sunt ad.ttCFbia niagniradini$» vt/^ir/ki»,^ir«riiA»»»t  faruum^ minianm % fherimum, fumwmm^ atis^nimii^ntul-  eumyaii ^uanfuium:m:tgiSyampli MSymintts.   Aliarunt aduerbianumeralia fignificantiavicesaduum,  vt quoties, totuiy ((mei^bts^ ter, quater^ dectes^ eenfes ^mtilies^  &c. ex pronominibus numeralibus deduda.   Alia func aduerbiaordinis , v^^rrw» yfecand^^^ytertio ^c»  deinceps^dehi h\pofiremo^dentqtte tandemydemum,   Alia ordmis,&dirpofitionisfimul , quoniama<ftusauc 'congregancaucreparanc.  Congregandifunr, (imul^  fotrim^ ceniunHe , generatimyturmaeim^ vnluersh Separan. di faqt ^fiurfum^ ei^em Uimt friuatim , ffeciatim^ figulatim^  ' hfariamytr^ar Um>,fitatri/h^ ymultifariamidtt^ltiteF^  triflieiter. SpeOanciaadlimilitttdinem funt, tanquam ^feu ^pcuti^  puktignitvt qitomedu^ iimaim ^Jkmm De fpcHanfibHS ad anim^ etctenfioms^ Aekierbiapercinentia ad animsc circunftantiamrunc  multiplicia. Nam vei anmia alfirmat vei negac  eilefeu adum, vel dubitat , vel incerrogac,ve! vocat,vel  rdpondec: vel optat,vellK>reacur, vei eligit vel proliibec,  ^exoftintbuslitrceanima: extcnfibnifcusad obie(fla,naf. canrur adnerbia» (icirca verbumftaat: v^l fide re-|faQt  inlceric^ionis, qu^ eqtrin^entoraf ibni. Affimandiadilerbia 9m^fo,mi, etiami{rofc0i qtappc^   umfu Negandi aduerbia func, nov>haudimimm^ne^Hac[iianif   j^a^d^uaijuam neutiquan),   Dubitandi funt, fGrs.forfan>forfitan ^fortafsii I fortajfr ',  Interrogandi (un r, r , quayt^quam^h im ,^muU npnm^ vtfnm^nunquifit^ quidnam, qutdne^ ^i/idita,  . lurandifanc , p^l, edeftil» eea^erthercU^ meierclf»nuintt^   .Vocandi fanc «i^fir/t^cea einquefiinc rerponde jidiin.  tecduinadtterbia. ^  D^monftrandi ((int, eccc^ tn^ eccnmjMleet^viddieet. Interrogandi vcf Wandiendi ,vt/tfJ^ji  Optandi func, 0 ,Z'//»*Jw/V/,%*<^*w.  " "Hortandifunc,w^,rfgf,</^//^.   'E\\2,Gndi p/*tttts/utit4s,p0Hfiimumiimd^^ttin. ^ Pfolnben4i,«^,f<iar.   ^ K Duerbia aiianjim f^rcunftant verbo >tanmiam tt>  gni6Ccaotia, qaodaifi Miiiniicejepr^d ^ledqoaF   lifi^antaiEciancqueadaiil*<^alifici Mio,veleAexparrea^m ^deQtis, vel f^fd^  pieort5jyel'«xparceinfiui?ni ecdus.  Aduerbia .qualitans ex parte agentis, funt puUre, doRe^  fortitif, ^.'ne.male, Gr^c^^Latjue^CUeraniane- dcp\cTum*  que ex omni nomine adifcliuo qualificante cHentiam  dcriuatur aduerbium quali4cansadujii;igitur (juotad^  iecliuatot aduerbia. r-  RE^e didum ePcex omniadieBiu^ firiadtieriim>iio*  mina enim fubilantiua) tunc &mt aduerbia cum,  adiediuantuTj vccxCicerooefirCioeropianus a&exhoc     n fammaticaJium CampanelU]   Ciceronianc liciit enim adiecliuuui qualificacrem, ita  aduerbium aclus rcj.   Dantur aducrbia qiianticatis, qualiracifque poficivia,  vtdofl^^^ U comparatiuai vc doiiius , vc fuperlaciuaj vc   De aducrbits affeiiionis ipfius a^us\   ADuerbu qualicads ex parte a&ttvpertioentad a£. fe<2ionein eiufdem ,feualteracionem» Alikfiint inten/iud, vtnutp$,m»Mimh^lt Mm^4imdum^  ferqu4m ,ma^nopefeyVehementer ^frorfuh fenUMf>mmuttb^   nmium/tnngCylate. imfens^.   A I i a fu II t re mi fli ua, q ux min u u n t a^lram , v : /2- nfinf.Pa  Litim ^vix, agrh pene Jeri yferm^i : fedentm \ a foco afoco  fianfiatto. SiLcvnlgaiitcr. ;7a D Nax A T L a.   Sciendufn» quodadie(f); iuanomina pertinentad e/Ien  ciam,quanticacem,formam, fpeciemjvc humaniis,  rongus^quacrangttlaris albu ideo aduerbiort|maIiud  quanttficat adttm^aiittdqualificac, aiiud format;fl/jud  fpecificat » ic hasc omma fttb racione affe^^ionis; di^a  funt!6c qualifcationis. Qualitasenim eft non foluns fub*  ftantiae, (cd etrani quantrcatis,'& formse , & adus,&^onnte^  .aiuro praedicamencorum,vtin iogicadeclaratumeft.   Icem intenfio , reaiifiiQ percinent. ad qualicacis3&.  magoitudinis adus.   De Qrdineaduerhiofum.  liaaduerbiafttD€pfimiciuA>ytti^i-aiia denvati- aa|Vtfi!^i^&   Liberfrimusl ^ Sj  iJtf formanone Adu4%biorum   Itcmaliafiinplic UjVt Ja^^^alia cornpona-, vtfM«*  y^^^ lalia de compofica, vc^tf^m d^Hifiimh  Confi Jerandum , quodalia adiuerbia com^onont cum  aduerbio ; vcfxjfr>(^v/i,'fic ficaci:ali*cam npmine^ vc  maUftcuiy^W^cmk pronomine vrMf ^fr^/r^ltacttm verbo,  sifMiifuciOf maUfaciOt malo- ideft niagis volo.   •GRammaticulicunt fex cfreprxpofitiones.qux 1.0«  nifiiacompoficionercperiuucur , videlicet ''ditdn^  re> fet itf«^r«», Veruncamen videncur ex parceerrare, nam ^  ai^eon^ fit prarpontio veniens eum tnmen\'^dis ori- carexdifiundim t Scdi, exdiuifisaduerbiisi/^eic feorfum^ r^exf#^« saduerbio ordinis.,veipra:gofidone ;aa forfiui  CXantefrapofiUue^  OMne aduerbiumaffedionem aclusintrinfecam, aut  circun (lanccm,figDihcat,tam m compoficionCjCum  verbo quam cum nomLne«Noa enim nominiiungicur ni«  ii per fubaudicum ver^un. DtcwimShnefcjftimM ar^aionisfsrte^ Comundio eft vocabulum indeclinabile con/igni-  iicans copoiam ellenciarani^inter ierciatarum ad     Sdf Cj rammaticaUum Ca mp.i ne lU, num aduni) aut rerum & ficnul .acluam earumi»*  terfe,6c propcereainorationecboii|ngic c^teras partes  orationis& fententias, vcPecru^&Ioannes fuiit noroi'neSy item Petru»currit> & loannes»   POoiturvocabuIum fariapithnhittJeilin^i^&fex ge^  nere6e<)iflerentiacomii)ums, ficut in^efioi^nonc ad.   Uerbij &pra:pofitionis.   Dichiir con,^^nI(7cjn s coPf$ldm cfftntirram inffr fe reltt.f   fumadvnum achim, a J ditlcrcnciam prarporition 11111,- ».^ua-  rum aliqua flgnilicant coniunclioncm, vt cfl refpc(Jius  nonvcadadum aliquem coniun^:^iintur j vt Petrui ctnn  Jodnnetji^ vbi ly cum^ folam relanonem Ibci^cacis indi-  cac. Scd 9etrui& loannet funt hornineSy]^ & coniungit  Petrjimicum loaiiiictll a2tUL enenJi,8c quidem lyorm gua.  Cenusfiini adu coniungit fpedac ad cohiundionemj^ua*  tenuscafiimregit,adpra:()oficionem, Dicitur vel tevMm fimi/l^ & afhm earttm\ quonfatp pbC  fnnt coniungi invndaAfi, Vel in duabus: vt Petm eurrit,  ^ /pamtes Uge» vbi ly, t^Petrqm currentem 6clpad-  nem legentem coputat , 6c propterea Grammatici lii*  cunt, qupd coniUngit parte^orationis & fententia*s,vti&a*  mo ti* ajtnuf funt animal ^ & bomo eft racjonaljs vjcar^ito  ijrationalis. Et ideo non poteftreperlri coniun^ioin oratione  fimplici vnius pr^dicati*5c vfiius fiibiei3:i fimpbciter ft*  vt homo est animal,tnqua nulla coniuoAio eft/Oifibo-  nms. cimaisim$di» fed verb^Us».  S\   ^econimclionis f^ccJantibtis^  COniun^tionumaliacopuIatinD^aliadifluncliua nlia  aducrfatiua , alia conditionalis, alia comparatiua,   aIiarationalis,aliaillatiua, aliaoppx)ntiua, aliaexcepti-  oa, aIiatemporaliS5 alialocalis. .   DefinitiocopHlanti^,   COpulatlua coniuncliojeft quar prorfirs conlunDT  res in vno aclu vel res adufque.Sunt autem copula-  tiuic, ^yat^ffe^ac, (juem^etiam^^uoque ^nccnon^ vt^cumi  fubiun^fliuifque feruientes omncs.   GOniungere & copulare funt idem , & quoniam c&- pulatiuaprorfusconiungitjhaberpomen fui gene-  'Tis, per antanomafiam.   i. Sed alix particulic non corriungunt nifi cum aliqua di-  wiiiifione interpofita. Cttmy&ut ^qu&nia?» fubtunchuo de-  £cruiunt, funtcopulatiua:,y7w///7rf C^^oci/Definitio difiun^lim^     Dlfiundiua efl qux copulat vocahula & non rcs,vel  copulatfecundum vocem, & di/Tbciat fccunduni  rem. Suntqueiftx.^a^VirAv/jfisrr /^tf,vt tuaur^chomo,  autbeftiarvelfcribis^vellegis. Et, velego rummaius;  vcltues malus. Grmm^ticalmm QimfamlU] Defimtiuo aducrfatiud^ numerus.   Aduerfatiuaeftj quijconiungic-rcsvelaaus/cd cil di-  M^rCKn^^^^itueihonus Sednonintmmhus Pctrtis effc  cio AusfitIoanesiniiodus. Sucaclueriatiuac, fcd,at^«aiwc,  tamen,verum,autem, vero aQ:, cxterum, atquejverunca-  men, nihilominus,Iicet,5cIicet, ecri,quamquani .qudm.  fiis^tameifi. Quaccunque coniunguncado criando. la  vuI^Ari lin^ua ly^nij roium "aduerfatur, Kunc addunc  ^crcJ, (lenliter. ' ' De conditionali.   COnditionalisexqua: eft fuppofitione Facitcomun Aionem,ex fi fol efl: lUoer terrani dies eft, ^uac con-diaioaaleiS/^Atf jwij^j » \x\i,mxi\,\A^, if/iUbK     c   De comparatiua.   I Oniun^io comparacittaefl:cua:per aflimilacloiieim   res fimpliciter,velcum a^libus fim.ul interfecon-.   iunaic .rquando ,vel excedcndp , vt ficuc Petruseftdi^-  dus jta Francifcus eft ignarus,vel Pecrus cfi: doc1:us ficut  eftbonu? , cam dodus quim bonu5 : vei magis dodus  quam bonusjvcl quam Pccrus.   Sunt comparaciu^ fi^ut , uj, veht, veht:,vtr, vt^tan»^   Omparatib ^quans eft quarqualiracem fapic incet  V^rescomparatas > vc (icuc Pecrus eftalbus, ica loannes  <eft niger: vel vm tii es Piialorophtts quam Poifca , alia  ponit io^qualicate«,vttU esma^lM>nttsqttamef tPe*  Ltbevfrimus.   Nominaomniacomparatiua &: fuperkuitia ^qitoniam  .inclirdancly magjs» £cly mdiiimk fttnc coqiuo^iua oractb-  Biim^ didionum. *     rationalL * •  RAtionalis coniunflio efl: qucX disflum cum ratione  didifeu caufa dicUconiuugip^vc/ff e$ dfUMS ^quia^  JluduifiiCiceroni,   SuQcradonales coniun(^ione$,f »^r^f  «Af, tmim^fu^w^mtUsUi^iJideo^Ttftefia^uotUami^iU^  dem^fyMidem. DeiUafmaconiUn&kW.   Illativa est, auq^contungic anfecedens cum conre-  qnfncididoaircrumexalteromferendo ,vt Petrusefl-  fendus, ergo carusDco, runtillariu^ ^g^tur yergoy.ita"  ^eexpofitimsi   EXpofiitiua quac rei non clarx coniungft clarifi*  cationem, vt homo .fKibilis^.idel^ pacens ridexe^  ^andtii Uber.   Di exceftiuis^,.   EXceptiua eft,quae excipiendoaliquicTex didaconi.  iungirexpcetumei, vncfe excipitur^vt^?^?// homoed  mtndax , prater lejum Chi^Hm. Ec quadraguica accepi^,  ynaminns, -Sunc excepciu^niji^i juraec ef , xcepcoi^niii^  De tem^oralk   npEmporaliscouiundio cfl:,qi]arcomiingi'c resatqne  A aAds per cempons fimultateni, vc quando magi-  ftec legic/ffiiif^difcipuliaudiiinCs&poflquamveneriSjda-.  . botibi libnim. Sunc temporales, aMond^yfoftquam^tunci  QVamuis temporales coniunctiones (inc nduerbia,  quatenusafficiunc.adum temporalitate: nihilomi-  nus quatenus coniungunt parres ora[ionis 6c oratiua-  £uias,perciaeatadcomudionem. Idcm dic delpcaii.  Dt buUb^l '   LOcalis eft, quie aut res fignificat, vt lUnftas loco, vel  iungiclocalitcT , vc v:n tt inuent<f^ihite ludico»  Suntautem locaIesf<^^ vnde ,ijuo ^qua^^uor/utn^qu^*  j<y^«^i6c aiix dum comuugere poflunc,  Vnt alix coniuncUones primiciuas vc<2/ialixdenua.   0 s   DipmHio ex diffofitiine^ '   Itemaliacdir ponuncunn primolocooratioiiiSiVtifr,^Aliae so   AWx pon:ponuntur, voci»cuia cliunguntar,vt^tt;ti^;/4,  Alix vtnijue loco dL^unitir, igilur^equidcw ffahiw^   Ex formatione^   ITem quandam funt (implices*, n tamen^fttadani.ccm* fofitiC^atfamn,   C^u^flio dc nnmcYO ^aniHm orationis. QVxricuran fiiicplures oracionis pnrces? no viucntur  enim omnesfignifiaitinnrs per parces prarfacas e-  uacuari : fiqiudem articulusadliuc defidcratur, qui ap-  pofitus demonflrat non (oluni fexum , fcd criam quod  perantonomafiam ,autpercflrentiam,autper proprieta-  xm ed tale* 3ed hoc verumeAinlinguaGrxca&vuU   Sariltalica,cum enim dico P ietra ttno ^Qfnzh&co (iib.  antiam Petri: cum dico P///r0//^0jr9,proprietatem Pc-  triper excelienriam declaro *. dc cum dicimus Chrifio ed^  gnelh^b ^giia di Dh : nihil excdiens dcimtis,tiec propriiL  Sed dicendo Cirifi^ k tAfftetto^ o ilfiglio di Dto^ prpf e-  rimusquidfpeciale decantatum,aut quod vere autper  effentiam eik ,6cnon per fimilitudinem (oiam v.tChryf.  adnotapic/edlatinicarent liac particula.   Videnid?tamiaicerii eflc in hoc, quod Gerundium  & fi.ipinumitadiftinguuncura nomine^Sc verbo , vc par-  ticipium fpccialem habcncmodum figniiicandi ; idcirc4  inccr parces ordinis numerari debercnt. Scd forlan ad  participia reducuntur» veiex verbo &participio com-  ponuntur. Amandoenim amandi ,^amandum , parti-  cipiafunt in Dus. Sedtamcn verbalircr nia^^is fignificac  quam participia. Sed cafus luabent & formationema  ' participiis. Similicer amatum» 6l amatu participio paf^  uuo refpondent 'a&uique prxterieiy vt cocnatami $c  pranfum adliue fonanc j &:auxtliatuin zamattts w6 paf-   vndefitper decnincasioneni amaittm*   M     . De Oratme confufaM^^ de Imerieclionc.   Oratio confusa est indicatio quae in didiones diftfn-  guitur, rediniperfedisvocibus,& minusbenearn*  cttlaci> I iignificacaniiiii paffiones , ootiones, & affiediones   «    JN hac definitione ponitur sndicatio , quoniam aliquid  pftendic vcprxfens omnisconfufa oratio.  Quar (ubiunguntur, ponunturaddifFerentiam oratio*   iiisdiiU0L£ti£* — Dicicur figmfitatpaf$Unc$^ n^$bms , & affeBionei \ quo-  hia ift« funt extenfioncs animx crga obie<Sla extcndcncis  (e pcr poteftatiuum,autper cognorcitiuum,aucpcrvo*  iitiuum: & ciuidem omncf cxtcnfionespcr hanc orationem, vocatam i Qrammaticis IntmeaionmyAthmnt  cxprimi,&defaclbcxprimuniur. Sed non inomirf^ Iingua habemusvoculas itgnificantes carum^ncquceardcm;.  fedinains ali.ismchufcul'e, autdeteriufcule.   LIcetpa<riones,noriones8c afFeclioncs fint exdemin-  omni hnci;ua,& exprcflioipfarqm in corporis commotioneeadem'^?non^amen expreffiopervocujas^ledalibi  Aliar,   SVntqurdjEfm^animas extenit0ne9eardcm, quoniamtb  einfdem^ci^iaiiimabtts i>maia.hoinisiiua corpora   tiher primusl pt   informantur,& eirdemobiedis paricer mouentur.Sed  .expreflio notionis animae reprsefenracurincorpore 6c in   exprefloaerejinillo fimiliter,in hoc diflimilirer , vnde   afre(5tusdeliderantislacinc exprimicur p:r voculum, vtinam; Italiccper vde^ediQ , Hilpaniccpcr tfx^/J, Gra:cc  perci. . . ' ;   OMnis vox de fe folam anirai cxccnfionem exprimen s  dicicar compofica oracio : qux aucem cuid alii^ par-  tibus oracionis» nequaqMam*  De exfrefsionibHspafsifinum^ - In lingua latina pa/noncspotefl-atiuifuntpauc^Etalir  quidem hortantis , vc ^j./, age, agitc, A Ji^e prohibentis/  necautfroh, Aiixirafcentis^vcto/ffit^iv. Ahaztimentis,  VC ha^ bei : Alfa: animaduertentis » vc apagefis. Defunc  fperantis vocula:, bc irruentis, & imperancis , 6c impocentis,(clonganimicaiiS|&audencis>6c;Cimenci$&Qi \ TDeexprepiombHsnotionunt. '. .Notiones cognofcitiui iiTlingua Ladfia^aliac fiincaf-  ferencis,vc :alia:negancis jvc»#a,/&<fip</. Ali«  dttbicancis vtfifrfitnfcrfaan^ fprtafiU^oftaffe. A lix incer-  roeancis>vCAvr,f«i//8^ffli. AJisevocancis^vc^Mi, Aliac  relpondencis,vc «• Alias admirancis, vc pafe^ hem. hWx  demonftrancis, vc en^tece-   Defunt auteminteriedioncs memorantis,difcurrenti$>  imaginantis, cogitantis, incclligentis , &: declarancis.     M ij     52 rammMicalium CampamlU^.   De exfrimentibus a^eHionum l . .  AFfeftionis fignificatur per tiotas confimiles, alix*  enim func defiderantis » vt vthuim^i , /T. Alia: gau-  dentis, vtr//.'t% h\\^\M^tm\svihau/heUy€h\. Alix  dolentis, wzheujjti.ah. k\\xv'\dentis\tah .,ah^eh. Alix  blandientisj.vt.^*;. Alix iniprccantis, irimalMm,  ^ veh, c\\.\x etiam enrexclamantis.   Dcfunchisinteriediones aduerfantif ^qua: poceft effe  '^pagffif, &miferercentis-, quxapud Virgilium exprmii-  turperwi/I?/tfw, <S: xmukn:is5c muidentis,quas non in-  uenimus apud Latinos.Icem approbantis £cxeprobantis,haoc volgjaricer expnmimuspenfii^) qux Latina non eft« t_,0..QVcimquam pofuerimus viiaam.ojjeus^^forfan.nwil-  tafque aliasextenfionum notioftrs inter aduerbiai  hoc camen verum eft , vbi verbo adharrcntad modificandum afluni. Sed vc folummodo animi exprimuncafFe-  ^iones,percinenc ad forationem confufam.Nihil iuceni prohibet,vc idemficin dluerfis fii;noriim ordinibus, vbi i  jbueiiasiuibeciationes, vt pacecin Logica» QVJT> CONT INETVB^-   in lihro fecundo.  Oftquam parres Grammatica! dixi-J   rnus,6c orationis enumcrauimus par—  liculas ,. tam perfe(fla: , quam confu-  fa: :reliquumeft defcribere conftru-  (f^ionem orationis ex fuis partibus, 6c  quomodo cohafrent declarare. Ec  qooniam partes orationis habentca.  /bsjfexus, numeros, perfonafque ,illa: quac declinantur,  qua rarionedifponendx funt fecundum diCtas ipfaruniJK  afFe<5liones,operaepretiumeft dicere fpeciarim :nam in-  declinabiles particula: folam difpo/itionem requirunt CiJ.  Meiurmodieoncordantiis. De concordantia innationHmlwguis]\^qu^  denuo inflitm pojfunt,   Qucmadmodum in lingua Hebraica Itala, Arabua,  Hilpana, 6c Gallicana non dantur cafus nommum,  fed loco ipfarum ponuncur articuli^ficeciam mlingua  Concmcinorum , Scaliarumoriencalium non danturde-  clinationes verborum aptanda: perfonis, neque te/npo-  rumvarietates,nequevarietatcsverborum aptandxcem.  poribus : &: ideo omne verbum eft inflar imperfonalis vei  infiniciui. Diftinclioaucc ficperaduerbia cemporalia , vc  a dicercm, nHc ^mo^tmpoftefum^^ tmo^ante amo Sicin perfo.  w\%^'\nnt\ez^oam9tuamo^Pietroamo^ '\l^c\v\od non dantur  concordantio: temporum nec perfonarum,nequc cafuum  fed parciculx aducrbiales, &agnominales totam orarip-  nem conftruunc , 8c didinguunt mirifica breuitate ac dicendi facilitate. Quapropterqui nouam linguaminue-  nireftudec.hxc notabit ^&quxdida funt, dumdepar-  cibusoracionisloquereipur.  T>e cancorda ntia partium in Latind orationis   firuiiura.   Arc. I.   XNoracione diftinda femper declaratur aliquis acSlus  de aliqua elTentia, fi ueadus ille fic elTendi^fiue exiften-  di, fiue operandij/iue quiuis alius.   §luar€omnis res^ cuius efi affus^ponitur  in nominatiuo.   F.sfme cflencia^dequa dicitur ac1:us jetiamfi paf-  fiuus,poniturin noininatmocafu,qucm vocamus     re£lum ,quoniam cx ipfoflexionescafuum incipiunt,6c  a<n:usexipfoegreditur,veitanquam egredieas cxprimi-tur. Quareverbumcum nominatiuo concordah   SEmper concordat adus cnm co, cuius eft adlus fe-  cundum naturam > altoquin non|efiet c i ii s adus:pr6«  pterea nominatittus cum verbo dicente adum , concor*  dari? debent ih numero 6c perfona,' vtijr# am% i tu ama$ ,  Petnis amat^nos amamus^vosamatiSyiui amant:&c facie».  in reli^is tempotibus verBortim in omni lingua^   EXcipiuntur verba imperfonalia ,& infinitiua,in qui-  bus non ponirurres, feu eius notamen in nominati-  \\o , nec concordat ergo verhum cum nomine fcm*  per.   Dicimus cniai me f(Kniif^emrum;iAardf$i : & fao,tc  cffedodum,.   EX textu reclc patet , quare verbum concorddtcunj:  nomincin pcrlona 5cnumero:quoniamafhiS'eftrer, Sed in vcrbi.s imperfonahbns^vbi poftponitur infinitiuii  •vcTbr.mnon verbi loco , fed nominis,adiicitur,& tcrti^  femper perfonx fingularis quoniam fi^^nificat aclum mo-  renommi.s quali rem , propterca vidctur quod verbum  Bonconcordarcum nomine, 5c ramcn orationeconcor-  dat. Cum enim dico, mihi difplicct viuere , bc me deie-  datfcribcre,&Petri intereft legere ly viufte fcrihre^z.  le^retmt loco nominis pofiri innommatiuo & ideni  fitntac vitayfififth , lecho , & concordant cum verbo.  Patetenim <)uomam fidico, petriinterefdeFiio.benedico,   jaonaucem, CiptrimtirifikSims^^^ murfmjfic^  "iiS GrdmmdticalMm QnmpamlU]   falluntur Grammatici purantes efle imperfonalepro^  pterinfinitum \y irjtereftSc deUFfat.   In ralaergoimperronaIiumquintaaIiter/ebabet,cuiv;  6\co^petrumtedctviLt , !y enim t^edee cum nullo concor-  -datnomine. eftrque verc imperfonaie. Sed ramen fcien-  <ium,quoddeberet concordare cum iy vita , ficuci in  vtt!ganrerinone«&in dliis linguis accidit. Sed Latini  appofuerunt geDiciaum prononiinaciuo^velquiainteiU  ligitur aliquid , vtcumclico,aliquidbooi,6cnonboniiiny  vel aclus, idefV^adus vitse.   Sedinfecundo imperfbnalium palBuorum ordineTes  obfcurior eft,dicimus cnim a mf/atisft titi. Sed fiquis  confideret quod z&us fatisfaciendi sl me egreditur , Sc  qu6dcanfaadiuainablatiuoponitur quando non vta-   gens confideratur, redvcid, vadeegreduuracbio,ftatim   ceflabic dubitatio,   In infiniriuisquoaiainC^iwpera v^rbotiniriuo concor-  dante cum fuo nomine regunrur , facile intellj{^imus ,  quando non ponuntur, vt edens actum, fcd vt obicdum:  proptereaque in accufatiuo , vxCcio ego,teefse dofiBm^vbi  lyte efse doiittm^tdobiediuin fcientiarmea: , & propterea  omniainfiniriuaaccufatiuaexigunc,&cum dicimus,'ego  fii9 fcri^ere^ly fcribere b^bet vc^ Domenindicans obie*  dnmadttsiaendi.   Quapropterin concuflaeftreguk,qu6did ,cniu$eft  aduspropric, veicui attribuiturvt proprium /|in nomi-  natiuo ponendum eft, concordandumque cam propdo  a&u : ergo nomen cum verboconcordat in numero &  perfona^alioquin non eilet adus illius , fed alterius,&  cumdico,//^r^/<far0»f, refpicioplurale inclufum in illo  fingulari /«r^rf fecundum rcm, licet nonfecundum vocc.     De <^on€ordaMM sdieHm cnm Ju^fiantiuo*   NOn modo ac^iisconcordatcumeojCuiuscfladus,  redeciam quaiicas, 6c quancius.&^i^uidquid dbi  .adluerec»yei inefty vel eftipfum.   Qu^rein omni lingua adkBiuum coneordat   fuhfiantim. Quapi^opter nomen adiediuuni cum fublUnriuo  concordacin oninilingua^qaoniamaccidens ScprO'  /priecasei ,cmuseft accidens proprietafqiie.» conuenit» cordacque,(i ems eft.   Jn quibus concordat adiediuum cum   Mfiantiuo^      COncordacaiitem in fexu « numero , 6c csfuJUferh'  na» dlcimtts , ez,o vir&mtSytu malier bona , manci-:^  Aium bonnm, nobis boms^ vosmulieres bon^e , mancipia  4>ona.    X fe ratio pacec h n i u s concordantiaB. Sed aduerceiK dum,quod. apttdG5ammaticos ttonponicurconcor«  dannainperrona,quoniamparantadie<fliuae/re perfbr naramterciantm. Nosattcempu camttsnttiliusefTe perfbnac ,fedeius, cttiadhxrentfubftattnuo <»vel loco /ub-  ftancitti.pronominis^perfbnam' fufcipere. Q^apropcerin  wi//»vf , ly bonus eft perlonjc primse , voi mali maU •  i-' eft,fecundaj, -   PRa^erea etiam nomuuvidentur non habereperfo,  nam, fcd a pronominibus eam fortiri, trahique in  ipforum ordinem. Quoniam fecundum Mctaphyficam  effentia non agit nifi quatcnus habetexiftentiam Sc eil:  pcrfonara:cr^o adum habet ex perfonalitarc . propterque a pronomme, perfonam fignificantc,contrahuntur ad personam. Igitur Petrur eft prima» /n i^^/rr eftfecunda , Pctmi autem abrolucceftcerda> qiioniamno fiiiiclui£  perfonam.   Y) econcordiardai'mi ctm antccedcnte,quocl   ufert^  Qubniameandemrem contingit pluresliabereadin  qu6> ,dum referc intelledus, non poceft eandem  rem replicare,ne fatietasfiat fedrefertipiam pernotamj,  quamvocant Grammatici relatiuum^nec aeeftvVtre'-  latitfum concordet cum relato antecedenci^ quoniarar  idemfunc.   Concordant autem in fexu , numcro perfona , non  autem incafUjquoniamrelatum non (^r-iiales habct a-  dus/ed alium eUcndi^alium agendi , aliuni patiendi ^DH fexu numero eadem eft dedaratio. Sed de^per^-  Ibna filuerunc Grammatici»ficutin adiediuoiub-  ftantiQb-^verumtamen eadem rationeconfnrantur cum  enimdico. tfo qui fnmbMs^ Hmf Demn : ly qoi SclybHmi  fiint perfona: primaf,quoniam aAus funt perfonarum , vt  dicluni.cft, Non concordancautera in cafu, quoniaui.   Hf, 99   111 vna pfBpofitipinp pnt-ffl- pflV j»/>us enef?cli,&inaliapa«-  tiendi : adus autem paneo^conpord.it cum agcntc ,  qttan^o adiU£pronunciatiit^^l|H^ noD palliu^ve  in quo-Quapropter ciicimusci&«j^,^i^^^ ydo*  fhs efiyvhi ly ^tiim cfk pacien>^um eviiicationis» 6c hcma  faabens eft a6tum exiftendi dck^q^ , vnde iloo poflunt in  eodemcafuponiremper^nifi qiiiDdi^Bltfta^sftuj^  -conditionis , vt cum dico , Petrus qui eft Gramm«iicus,  erit diucs , vel quando fignificanturdealiquoadus, eo-  ilem fii>nihLandimodoiVt: cum dico.Pctrus aui eftGrammaticus ,dicabitur , vcl doccbirdifcipulos, vbi ^l/^ir/di-  citaclum, vtinhqrenrcm Petro, ^^«ftfr^ acium^vc m Pc-  tro operante : idcirco quam.quar « alcer pafTiuus , iilter-  adiuus,tamen concordantcum actu exili?njii • 6cjGraji>»  ,niaticein modo fignificAndi.   OMnerelatiuamiacicontcioiiemdupIicem ,'8ceftfi«  ciic cbniandjo nominalis oncionum , nec poceft  reperiri oracio fimpleXi in quamxelaciuum ingredicur*  Dc conftrudlione orationis. Ba; reruM comuniiione difiunQhnefier aHumoftameJfeconSiruSi^m  oratifinis. Quoniameirentia Breriimperie (ttntimpermi%: pe»-'  mifcentur aacem per proprios a^fttts , jlttmalieniin  ^teram extendicur» £citenim ipfarttm finiplicitas^lM;     mulripIicirAs ,ab intellcdu concipitur ,per aclus inteU  leclus permiicetur £C vnitur,ill3 per mtclledium facia  jnultiplicitas; propteica ad declarandum res cumluis-  adibus & per Adus coniundas 6c difiundas eft oratio^,  cuius miiidplicitas exaduum niuicipiicitate couftabic.   ^mt funt gmera aSuum tot $jfe regulas fit^  ordines CQn[lrmndan*m oranonHm.   CVmque fitalius aclus eiTendi ,alias cxiflcndi^aliuS'  opcrandi, aliusagendi,aliuspatiendi,alius mixtusj  proptereafuntfepcem ve^rborum ordines : dequibus re-.  gulae fepcem laciend^ fanc iecundum redam philofO'^  phiam^qajimquam Girammacici alicer reotianc.   Deregula verbarii^eJfentxalium^imHmor^^dincmcomirHcliomsQrationum   duceme.   Art 11.   PRmi um ordinem con ru d 1 o n i s o rarionum effici u n r -  verba (ubllanciua : qua: exigunt ante fe & pofl fc no-  minatiuum proptcrea » quod prx-dicatum fubflantiale  nonlequituradadura eflcndi sed continctnrin illojvc  b&m9efi4mmaUvh'iK\\xoT\myi ly ammjl eftic^cm qnoJ ho-  ma,aAus eiFendi nqn facit differentiam mccr id quod:.'  jnr«Lcedic& qaodfequicar ad verbumr^/   eandemconBruffiortem verbumej fentialir,.  quandofrddicataUnm acadcnukm  ' permod$meJfendL   PR3rtejrea.quidquid pr^dicacur, vtfubftantiale vel per-  m^ttsR iuib{bDciali$» licec noa fii, nifi feconduia    roccm^pomtiiretianii innominatiuo, vt homoeftalbus,  lycnjiTi ^fi^af /hacret homioi accidentaliter.ec non cft  idem quod homo. Sedtamcn pracdicatnrquafi cnsidem:  qaoniam eft idem in perfona,licetnonin fubftantia, vc  inMccaphy. declaracLii.   Sandem conilruBimem facere "verba accidentalia qHando aBus non e(fentiales  per modum efsenhaiu  connotant.   O-Mnia verba ctiam non fiibflantialiaquarenus irn-  plicanc adVum eiTcndi , quanmis pcrtineant per  fe.prim6 ad exiftenciam, velaclrionem vel pafTionem,  etiamexii^unc ante&.poft nominatiuum ,vtPetrusma-  aet martusjlcoincedit grauis, Mulicrextatp/ompia:;  anti^uiladabattcur nudi.   Vnumefseverb Hmfub^MnHum]   On vidcrur verba fubflantiua feu efTentialia, i\c di-  _<n:aquoniam adumefTcndi rubHantialitcr aut ac-  cidentaliterexprimunc^cflepiura vno,vz./' «^^^'SoV declinationeshabecod Grattfknacjfcis^etcnim ly viuo^\^o  mamviuereeftefle,non {bmper fubftantial? eft.vtliic,  tu viuisbom^^ Sedincerdum accidentale, vt in viaisfccUxy  tuvithvitamUn^af^amy hoc cft habcs^veledis vitam lon-  gxuamutem quoniamdenominanturTesab his quac ha-  bcnt extra fc, & non mbdo ab his, qux funt , vt dicimusy  Tetrus eff NeaptUtamtt ^t^ pilcatus, eft fortanatus : propterea ly habeg^ dieic/flw , & ly fiim hahu per commuta-tionemfignificationisi ricucenjmooihabetarmadicitur armatus,ita qui eft homo dicitur haberehumanicarcm habcreefrerationale, cum'vcrcfitranonalis6cnonba-   bcns ratiojaale i hinc Gxammaticj ponunc# loco haz,.    here.vtmihi funr pccani^: 6c tu cs mihifaflidio^cum vno^'  & cumduobus daciuis, &iioc cum pronunciacur eflec«-  xtftemialicer. Qupd enim exiftic in alcero efl,$c alcerHni*.  h^recreu incn:: namcum proounciatureilenciaciuepo-  ntcurinrede ^viejfi fum ftamio/u^^^ic cuesmeumiaiti*  diam«   Cur fHbBmtkium dicit ^opcfsionem^   ITemlyefldicicexhac radice poflc/noncm, notatquej  quoniam connotachabcre, vzlibethic ejl Peiri^xqua.*  ualecenim l.uic,Petrus hahcc hunc hbruni feu cpcur*  jnuni|6cPecrusc(tcocurnacu$« . Decompo/ttiuaftsm.  CQ>m»o(itSLirfitm , vcadAim^abfum » defiim . itiifam  pra^ni, profum.fubfum , regunt cafus prxpofitionis componentis com/«w,prxter adfum, quq datiuum  .rei^it quomam xquiualec accufauup cum ad,6cmutaac  ^llecum exiflere . ^   Omnia "uerb^ redm ad ffihjlantimt^;   OM n ia^erba refoftuntar in fabftantiuam, fam,es,f/?^  quoniam qaidquid facic aut habet mz patitur , ed:  idipfum S, faciens,habens,autpatiens, idem crgo valer,  cgocurro, quodegofum currens,proptcr caufas dictsts  ;inMetapk.p.i. GH.ammaci ciincipiuntfegalas.con{lru(H:ionis a pri«  ma a^iupram , & falluncur, Prias enim eft effe fe-  condttmnacaram,6c deinde exiftere , 8c deindeager^»  iQoamobrem verbum eiTeaciale pr«cedit«       LiberprimHs. Yo^   ItemTecundum dodrfnam. Prius enim eft nomina-  tiuus cafus quam dccnfatiuus} & (impIiGior eft ontio,  in qua nominatmus pr^cedit &rubfequirur;quam in qua  fequitQra6bus:a finiplicioribus autem & prioribu sinci.  piendumeft.  Z)< regula verhorum exi^entialium \fecmh  Aimordinem conft^ru^ ignis  ducente. Secundum ordinera conflrudkionis efEcmnt*yerba(f^  g.uficantia ajftum exiftendi : quij ante fe exigunt nominatiuum rei exiftentis.poft fe vero ablatiuum cum   prxpofitianein ^pmneenim «juod exiftit^jextrafe exilUt  inalio.. Qut>t modiexiftendi. D     Tcunturresexiflereinalioproprie,ficutinioccxex-  cepnuo efTentia: deduc^las ad exiftentiam extrn cau-  "IjEtttfuam,vt munhse^ tnfpafio\ ex hocextenla eftcxi-  "'^nti ia { in temporc , vt Perrvi e9 m hocauno^ ad in.. .  iubieao, vKalbedo %n parictc ,ad in caufa ,yf fBntiW'  lyeo^ & leui in lun^his Abr^.hac : ad/« cfeUu\ vtneuseft in'  mindo Ad m roro,vt inTn^hnro jr/r/'';     ^#//aiawr^,auesinaere. - /Mhes hi modi eflendi indicant principaliterairt  'connotatiui exift^ndamyextepto^ effe in^caufa , 8c  in effiedu, vbifaltem fecundum loqaendi modom coiii-  notant.    o  o4 (jrammancaUum Camyanelu^ Dewrbigexi^entialibus fnncifaliter.   VErba exiftentialia funt exifto, exto , irifiim , priBl  cipalitcr. Ac cunda verba conccrneiuia aduivi  -exiftendi dcducunturad ifthxc.   Qiiapropterinanco, fedeo, moror, dormio, iaceo,ca-  ftra mecor,6c cxtera huiu/modi,exigunc poftre,abIa-<: jCiuum cum pnepofiaoue Ux.  Deconnotantihm exifienti^ m^  I^H^ceFeaomneverbunfi figoificans dSendi aAiim agendi.Scpatiendi, quacenusdmul exiftenciam con-  cernunc,exigunceofclem cafuSjdicitur enim homo pati   in anipna,agercin foro,gAuderein ccckii i ; 2c intelligere  in Deo, loqu: in rapienda^^ira.q.uodiiuiluiii eft verbum,  xjuod non poflTt poft fe babcrc abUitiuum & in: quonum  .omnis aclaseciamcxiftit & poceftrignificari, vcens^dc Vjc  .exiftefls. GrammatkaUter dumtaxat exiSicn-   SVnt verba qux foluin GrAmanricaliter connotanc  exiftentiam . vthomo eft rationaiis in anima ,  Seo eftiufticia&inanimaii renfitiuam. Secundum rem  jenim non eftiufticia io Deo, fed Dea^eftiufticiatneque  rationa|e in anima. 6^d ^niaia eftrationalis^prouc ixk  Mecaphy^ docuimus.   %^egula vcr borum a^uatiuorum, tcrtium   ordinem n Hru^ionis fercns. Ertiumordinem efficiunr verba fignificaociaadunci  operandi immanencem , qttt proprijbvecacnra^us» l ' roi   "& verbaeiusa(fluatiun , ^ exi^untantefenominatiuum,  & poft fc ablatum abique pri pofifione fignificantc aftuationem eflenra: nominata; , vc ego aiuo aaiore^tu  moueris niotione arbor virec virore.  Qyamqtiam operatio ex prima impofitione indicee  adumtranfeuntem in opus& operatum extcriusj  tamcn & aTbcologis & Metaphyficis folet lumiproa- Auimmanente: qui non cMuiaexteriorisreiacquirL-n-  vcl penicnda:, vcl quociiibec operam-ia: : Iioc cnim  pertinetadadionem. Sed proprin: enticacisconferuatio-  ne ac manifcflatione: 2c propcerca proprie vocarura-  ^lus-.&eius verbum efl acltiarc: iJcirco verbaha:c ccr-  tii ordmis acluatiua dici poilunt, etiaxnfi firammatici   hoc voc^ibulocarcanr. uomodo omms diSio figntficms auf conno^  tans a^lum^ aut.per modum adns fe ba^.  tens.ponitHrinahlarmo   GAu(a!formaIis ,quonianf eft a^tts.materlx, &a£tus  (brma: , eius imnuMiens opus eft , & inftru-  mentum,quonilm modtficat iaidlionem ficuti a(5lus, &:  omneopus & res fis^nificans modum & aduationem6c  i)arcem,ponitur inatilatiuo i maxime autcm fi exvcrbo  cftjautverbum defe formar, vc i^/r^"/ ^'//cr^.   Ahlatiuum autem hoc vercnonefl fedvocaridebec  a<?\:uatiuus cafiis quem feptimum dicunt Grammatici  lioc olfa.cie.aces^ non enim aufcrc, fed dat forinalicer.   Tcimus in ablatiuo quidquidadum figDificac:quor  iiiam a^snonrecipitiir 19 iU{9>iedeitis«ft yquod    aduatur \ 6c ideo' nullam exigit pr.-Epoficionem refcreii-  tem ad aliud coexidens. Ncque vuit nominaciuum,  qttoniamnonefl:icl,quodaci:iiatur,red efl vel formavet   "perniodum formxeiusiidcuco ricutcaufa formalis po«  niturin ablatiuo feu porius acluatiuo dum fuam caiu  fationem exprimimus,ita& aclus. Similiter inftrumen tumin ablatiuopontCttr «quon^am modifTcac a^ionem  5caftuacadcertum modum operandi ivtloquorlingtta,  fodio ligone,' Ecquoniam verbum fignificat a^um cum  . ponicttira^^us nominaIiter»ablatiuumcxigit»vt€um dicimus viret virore ,agicaclione,gattdct gaudio ^idcircc^  (X\\\m\is^^\c(l cxverbo.   Diximus , auc ^ verhum de fe fQtmat , vt nonien formac  nomino i & amor amo. • Prxccrea omiiispars qux aclum cdic,cum tribuitur   ' adus coti ,ponicLirin ahlariuo : vc homo intellip^ic animo^  Chriftus pacicur carnc , cjaandofe habent ad fimilicudi-  nem formx.vei organi,cam coniuncli quam feparati.   OMne noihen fecundum natutam per MetaplivfT-  cumformat de feverbum^quoniam omnis effei>-  tialiabetj)roprittm a&tim^licct Grammaticaliter tion  fit!nvf«,vtabhomine oritur hojnifico, &^ calorec:».  leo,ec calefacio,&aausacforraa> vndeformatur.po..  rjicurin abLuiuo ;&principium,quo ngicur/ .   RArio cu V ic hocaflTertum^etemm homo-op^ran»  fecundum qupd homp didcurA^ww in fe ,  rn^carc , alcerum calor calctacere , &rcalerei 8ciudex iuw  ' dicare^&Rexregcre^ ScUgonligonizare, &.ocuIusoeu-  hzare : verunl fi nomcn pure ciTentiam dicic , non vc ope-  . rance, formatur exadu fme efFcclu ad excenora,vt Petrus  C^&pWp^^^ corpptf^Qum.autem ad esLterioia pof-  * icj^   rigicur adus , vel per moauni tranfeuntis elicitur in obieduni, a idi tur verbum facio , quoniam princeps adio*  num significant bre(l^vthomifacio^caIefacio,!a:r!^cc\pe-  . trifico; AAioefgoquateRuseftadusagcntisvt ngenns,  ctiamponiturln acluaniio vtcalefa^n^ioncignis caicfacic  formactiaraqna ap^it, vtigniscalore calehicit, vcl cali-  dirate, item piincipium agcndi vt effentialitasi dicjtur - .   cnin^annna iuielligeremtelicc1:u, & mtellcdione 2cm* ' " '  telIecbip.o,(S: intelligibili fpecie ,qua: fe habet per rno-  u*arn informantis 6c inflrumenti , 6c comprincipijadiQ-  telligendum Hint LogicidiAinguuncagcntem, v/f»^i ' Verbafrimo aSuannia efsetriflicis ordinis^   V£rborumaftttaQtium,quiedamrpe<£!btitad potefta-  tiuu, vrpoffiim,valeo,viuo, vigeo polleo, queo,ne-  queo, caleofrigeo, morior,pereo,intereo, areo,vjreo,la, pidefco,horrefco,tremeo,ruOiCrefco,decrerco, cumeo,  audeo, abundo,egeo.   Quardam ad cognofcitiuum, vtintelIigo,fcio,ncfcio, icrnoro» reminifcor,ratiocinor,imaginor, nofco,intucor,  Yidco ,audio,odorory gudo^ fapio,deiipio, obiiui[cor,  jt^cordor  Qu^edam advolitiuum»vtvolo, nolo, amo odi, cupio,  opto>lxtor»graculor 9m^reo>trifl:or, doleo, gaudeo,fruor,  vcor4iocor, iucundor» afBcior, cruci Qr, ri<Ieo,lacrymo/ur«  piro» inhio, & qjox ex his detiiu|ntttr,& componun*  cnr, • . . Qvoniama ftuseliciunrurexprineipiis^principiaau- .  tcm ex primalitatibus trious > idcirco func triplicis ordinis, &cum pronunciantur per modumaclus, j  ..adluaciuum poftulant,non foium dengnantemacluum, sed^ obieilorura ^ vndc occafipaeni trabic aftus. ics GrammaticaUum (ampanelld,   citnus enimego gaudeo gaudiomagno ;5^egogaildeo  dodriuis, Scarbor virefcitvirorey&virercic aqua:6cin«  telHgo iflCeiieauSc intdleAione ,6c fpecie intelligibilij  videovifuvifione& visibili. Sedcum.ifl:iaausreferun- .  tur ad obieda non per modum adlus , fedper modum a-  Aionistuncfiuntacliuaverba ,de quibusdicemusquod  exiguntaccufatiunm , vfec^o video vifit-^ilcmrcm. Sunt  aucem vcrh.i neurropaiiuia dida Grammaticisquxpaf^  lioiics^ afFcclionci iii;ivficant/edqua: notionesponun-  tur interacliiia non rcctc, oiiinis cnim ndus pcr moduUT  aclusdebccdici ncutro paUuium in iproriim dogmate:  in noflro aurcmacluatiuum \non enim fola pafTioinccr-  nenir fcinpcr , fed cum notione , 6c afFedione fxpiiiim^,  Prrrrerca Grammatici refpiciunt liceraturam^vndenno-  rior «6c Lxtor, & lacrymor,fiint iliis deponcntia ; nobis  autemacbuantia non fecus ac vocara neucropadiua, fic  adiua apud ilios ex a&u ;,gc non ex a/lionj;,, Principa-*  lia autem £wea{f9ffmn,Zftl9i ^ 'vqJo^cxict^ concerne Dtiov  ftntliorum. PR.xirrca omne vcrbum ouatcnus conflruitur cum  forma aut inflramento^aur acflu, cxijzir al^Uuuum,  quaniuis Gcm principaliri2;nifiGatu rubllannuum,autexi-  fle ntiale,aut acliuum, aut pafliuum: diciiv. v. s cn i m fcr^bo  pennadc fcriptione : doceo libris, doclrina : tacio  manu, fac1ionc,cruce, Paciorpallione, cordej,crucc^iteni.  aiHciorgaudio&aiiicio Uc.  Regfda de a£tims qtiartum ordinem coniir$t-   ,£tipmse J^cienUtim.   ACtiuaverba funt,quac figmficantacflum caufx tran'  feuiuemmexc^riora obiecl3,propcerca^ue VQca^ ^og^   min at^lionffm , 5c idco exieic norninntiiium Cdura^ nc;en-  tis, &acculktiuum reifacl^Icupatieutis, vc fol calciacit  lerram»     Slcut a&useileadi edefreQCialitacumieii pHmalirafu  adiatra^exifteQdiveroe^rttmdem adextra: aduandi-  aucem priQcipiorum egrediencium ex primalicacibus per  refpeftum ad propriam conferuacionem i ica a£lus agen«  di eft prindpioltmi > ve excenforum ad obiefta, ac proiiw  dein caufacionem.   JFundamennm caufarHm.   QVnproptcr fiunt fexcaurarum gcnern , vidclicet cu-  clnjLim^ pa/fiiuim, qnx egrediunrurcx poceflati-  uo : ideale &:Formale, quxex cognofciciuo principio jfi^  Hale £c perfedionale,quflBexvonciQOr ,  tioexigmdicafusexcmfarumr^,   ET quoniamcaufa agens effi , qui aljquid facic , a  quaaliquidfit ipa{huaefl, quasaliqW* paticur, yeidc  quaaliquidfic:ideali^s eft inrkarcuius aliquidfic:forma«  lis eft ,.qtta aIiq]Liid fic : iinalis eft propter quam aliquid ficr  perfedionalis eft fecundum quam aiiquld perficicur,  vet benefic:inftrumencalis,*per quam aliquid fibocca»  fionalis, vndeincspicmoriuumcau &ad cau&odum..   TtAterea raiio de ca p4 caufi, agentu.   PRoptereadicimus, qupd caufaagens femper efi: po'  nenda in nominatiuo& in re(!iO)Cum a(flus cius in ip-   ia expriniitur: vc (oi calefacit cerram s ci^m veio inpao i\o . ' ^ramr^^^iticai Hm CaffiparielUj  tienceexprimitur,vcabageiue,poniturinablatiuo,cum  prxpoGcione vel rf^, vc a Sole calefic cellus. Secunda dc caufa ^aticnte.   ^r^Mniscaufamaterialis&paniua, quando ex primiponicurm abhuiuo cum  pr.vpoHcione de, vc de ligno licianua 5c de argcnco phia-  la ' quando vero exprimicur caufatio agentis in materiali  &pa(rma, ponitur hxc caufa patiens in noniinatiuo, v£  licTnumficianuaafabro^ &PetrusverberaruriFrancifco,  rargentum vertiturm aurum A nacura. Tertia de causa idcali, Mniscaufaidcalis. quandoexprimicureiuscaufatio  vc ipfa caufat jponicuxin &eniu.uo cum pnvpoficio-  ne inft?ir,vt LupHtn terraft injiaf dentis tn animal/^vel  cr.maclub eiiisiri/iccufaciuo cuin prcxpoficione ad,vc/;<?-  mo faUus eft adimaq^inmX'^'*' Aliquando eciam in accu-  faciuo cum praipofitione fecundum^vc/^^f omnia fecundum  exemplar, quodtibi monfir atum\e fi ^quxwt enim vt bina-  rius ab vnicate , exemplatum ab cxcmplari primo : &: hic  ortusperly/?^«»<i«wexprimitur.   Quartadecaufaformali.   Mnis caufaformalis', quandocxprimitur in caufa-,  ^^ionc fuaponiturin aduatiuoabfque prsepoficione,  vt paries albedim fit /.Similitcr etiam id,quod eft cau-  faformxdum formalitcr exprimitur,ponituriin ablati-  xio i vc pariei calce (it aUus : 5c Francifcus cibo repletur  &aluus fcecu tumcfcicicuius fenfuseft, repleturjrepie-  tioneacibo,velcibi:8ccumefcic tumore a foctu;vt ho-  mo intelligit intelleaione intelleclus, & Chriftus pa-%  titur carne,ideft palTione carnisrquod in logica confide-  r^iredebebamus.  Libcr primtis.  iii  ^Hinfa de canfa Jinali.  Omnis causa finalis in sua causatione poniturinnc-  curatiuo cumprcTpofuionepropterrxgcrambulat  propterfanicatem ,5cmedicus propter pecuniam medi-  . catur: vel in genitino ^ cum \s grcit^awz vidcndi tuigra-  tiaegohuc acccfii : 6c hxc verafuntdc caufa finalicon-  fummatiua A.tcaufi,cuius viui perfediuo autcorrup-i  tiuo a(flos deftinatur ;ponitur in datiuo: dicimus enim e-  C^oferuio Regi :hxc res placcrmihi :tu noces Fabio:au-  xiharisPetro. Etquidem qnoniam omnisadus ad al-  teriusvfum potcftedi ,idcirc6 omne vcrbum poteflha-  beredatiuum: vt tibi emo gladiiim :tibi amo vxorem;  tibi doceo filium. Pctro occidi filiam. Semper ergo da-  tiuum aliquamfinahratem vfusindicat. Alicjuando finis  connotnrus ponitur cum prxpofitionc pro in ablatiuoi.  vt eo iVIc/Ianam pro li bris, & occidj pro rc tauruin, ^c.   Ssxtade cauja perftxliorjali'   CAufa pcrfe<Shionaliscbncurritcum finali:5c propter--  ea poni foletin gcnitiuo cum ly gr^itu : aliquando  ?^cuformali, quoniamintroducla forma in materiaacce- •  tlit perfcclio • ?c proprcrca ponirur in abhitiuo, vc 'lorro  perficiturdifcipiina, 6c caufadifciplina;, ^ augetur a:ta-  rc : fons fcatctaquis^ligo pohtui*v/u, aut rratia vfus, aut  .'^Jvfum. Septimadeinjirumentaii'   OMneinftrumentum naturale &:arrificiale ponirur  inablatiuo fine prxpofitione, quando fumitur vc  modificans acflum a^entis caufx, cuius efl inflrumcntum  vt cgo fcri bo manu vcl penna. Sed quando fumitur etiam  vt coagens : tunc ponitur in accufatiuo cum prxpofirio-  ne per ; vt Rex per mihus prxliatur. Nam 6i cauia agens   :GfdmmaticdiumCsmpAnelU;   €tiam in accufj.ciL!o cum ly perMct poni! maximeau-  temfi non eft principalis. ApudHcbi\tosautem poni-  turin ablatiuo cum pra;po(jcione/;7,vc/«^<^fa/fl mo$ian*  fui Urdanm , quacenus m eo agcns agic.   Ociaua de Qccafwnali cauja^   CAuHi occafionalis; qaoniameft moriuum aliarum  caufarum ad caufandiim , poniturin ablaciuocum  prxpolkionc f V , vtf.v raptu Helenx conflacuin eft bei-  lumTroianum: ponitaraliquando^a^vc *ib ou<j ifcd vt in-  xluic racionem a^^encis. Principium quoque iuftaroc-  cnfionis ,aqua nicipic caulatio ioler nmihter poni , vc  cx nHhdici , cx inuinis rixa , cx Lipidc via, 6c hot m^.  talimhomm,^ 6cexfonteaqua«   ^ppi^MJiMdi fHHiijjionSteUmento.  PRincipiaergo 5celementaetiamin ablauuo ponuni.  tur cum ly ex^ vr ex dominico die feptimana : & ex li>  terisoratio. ex terra^c fole lapis lignum>&acs&c.   Eie men tum enim eft id, ex quo aliquid fir : 6c mateda  aliquandoponiturvt elementum. Principium yerd ell  id^exquoaliquidefl:.QVoniampnmaiitateseminentcrcontincntin fc ipfis  cauias^l^incipia. &elementa^omnes didlos caius  recipiuntiti rutsadibusmirificeQtiflinAis^ficuc in Metap«  4cclaratum eft, De primoordtnea BiuorufH.   POrrb fia(5liuum 'verbum cxigit nominatiiuiru rfia-  {(eocis,^ accuraciuum pacicntis » omaiafigniticantia   ft^ionem     f Liberfrimus. ' fu   aftiooem tranreantem in patiens^ pertineb^uxvt ad ph-" mamregulamaaiaorum, ^  iSedqaaedam dircAe funt in hac recTuIa quoniam eram   adionem dicunt, vc</^j,/</a<^,6c compofica exeis,Ccc-   (^uiuaicntia.De wrhs aSimis primiordinis. aclionem  pote^atiHiimportamibus. Sunt autem quidam adns dircdc poteftatiui & exe-  cuti ui : vt pra:rerd icla vi ii ; fico^occido/oluo, Iigo,incipio, finio r,t:nero,pano,iuftcro , tcrreo, timeo,quero^  amitto capio,ceneo|iib£ro» reliQquO (moueQ,|: ero,for..  mo, defVruo , iiipero , cogo iacio , pono , depono , collo^  planco,ptit(;^ro,remiao, inrero»pinro,& quidquid peni-  netad rem >u(licam , & arcificum: ecenim alif a^Uones-  func naruralef,«liaEartificiales .'iisaddefequori medicQr^  &criminor«    DVoniam aclio proprib efl: efFufio fimilicudinis a-  gentisin'patiens:fimilicudinum ver^ alianaturalis,  vthomo generatliominem, & calor calefacit ^aiia artifi-  cialis vrhomo fcribit , anc fodic,autd omi^'cat,facit n-  do aliquid fimile fibifccundum ideam: idcirco vtraque  adtio fpedat ad primam regulam diredc, Vndeerranc  Grammatci ponentes in tfuarta peutror^m verba fignt-  ficantiaadiionesrafticanastcum verius fi!)ta<fiiua,qaam  amo, & lego » (c emo, &c. Simsliter indeponen tibus.     Deadiuis primi ordinis aCiionem. cognffcintU      XX tv     tmi   r    ia verba pertinent ad adionem cognofc i ti ui,qux   tunc vere.eft adiocumad excenfiora progredicur  Vc de c i r. r o . vi o c e o /cnl) o j moneo ^ c «elo^re uelo^maoife Ao-,  ligncreFero. QaaQdoauremnon progreditur ad exteriora sed irn.  manet, artamea)vcreiata exterius profertur tunc fpe-  Aancadadiuorum ordinem fecnndario I vtfcio .ignora»  memini}Video,audio, olfacio,gufto,intelligo,lego,caileo  iapiOiCogito, opinor,imaginor,credo, affirmo, nego, exi-  fiimo, pendo,nofco, confiaero» Addemeditor|recordor»  €ontempIor,tmitor^&:€. ' ,  Dlfferenria eHinter aciionem tranreiinrem»& immn-  ncntem Qii3cenimtranfit vercadioeft, vcc{oceo,&:  declaro:quaenon trannc componitur ex a^flu Sc paXsione  BC a(flione. Si qnidemhomoparicurivifibilidum vider,  acfimula^lumedit, exfpecie viriibliremobiedunofccs,  &c quia ex. Anriii i>i i fprcfe bPictgS ad obiedium exteriDs  ferturiproptereavp caturaaio»^ verbum adiuum,fefl  nonDure,igiturfciQ^videOxexi(timo >&c. (untaftiua fe-.-  cun^ari3.   2>^ a^iuis ordims , aSlioncm voliiiui imfortantibus^   ALia verbaadiurrpnmi orJmis rpe^anr^advoiitittlS  quardam prjiiuno a(flionem tranfeuntem fignificantia,vcmanduco,nucrio,caco,futuo, mingo, appcco,  ad requor,declino, verfor^inrideo, quxdam (ecundario  fignificanca Aionem.nam perprius affec1ionem >vcamo,  diiigo, fperno,voIo, cupioj(K{i.erurio, aueo,ambio>opco^,  <lieiUero>: Adde fiaoiilascorj triftoc, &c     Liberprlmut.  EX praccecienti declararione rumiturhorum vcrboru  nocio : nquidem adus volitiui 5c cognofcitiui fpe-  clantpotiusadaduationcm quam ad adionem. 6ed quia  referuticiH adobie4!2a,iaduunc vlm a-diuoriun.ficquac pri-  mo.rcferontuj, vt manduco, bibo^fatuo,funtprimoa-  ^Uiaprimi atfeclualis ordinii?: qiub flutseni fecundo, fe-  cundo^vtamo. Noaenim amor ttktmr adexcranifi  ^uia ^rimo obie Aum mouecpoceftatiuum motio.  neficmdiciumin coenofdciuo^-Scl^^p^^e^userga  ie^fcum in voliciuo j de quibus iri Mccapffi^ DE SECVNDA S F,eci 0   a^HuorHmjictmdum Grdfnmktkos   reguU correHio. . ' '   V£rba adi ua fecudi ordinis apttd Grjunmacicos func  qucx rpec1;ancadiudicium ancad commerciumope-  iraciui principij , & propcerea eziguncagencemperfonam  mQominacitto» rem paciencem in accuiacitto :addicur  ^tte terdtts iafus ablathius, quando nominanir prectum^  aur ciimen de quo ficittdicittmpauccominercium ; vc ego  accufote crimitie furri,&emo librum carolinp. Kun- quamatttem pDnicurgenitiii9isnifi prae intelle&o abla^  ttaom|fe babencis quafiinftrumencalicer. GRammatici faciuncTecundamadiiuorum fpeciem:  qua: exigarnominatiuum agentis rei, 6cacciirariuu  patientis,&genitiuumpro certio cafu^fignificante rem  quaficadio^pafljo ipforum. Sed reuerafaUuncur. Noa.  enimaccufo,reprchcndo'^tfifimulo , moneo ,voluncee--  nitiunm. Nam cttmdicO»accttfo€eiiirci;moneo tedo* Qrammaticalitim CampanelU]   loris intelligitur crimine fcu culpa furti, 6c paflionc  doloris:omnisenim adio edicain alteram habecinftru-  mentum aut modum quo fit. Dicebamus autem quod  caufainflrumencalis femperponicurinablnciuojfimilicer  quidquid ad inflrumentationem aciionis fpedac , & ideo  dicimus.cmolibrijcaroleno, vendoprecio magnoprqciu-  enim nominacuSc inftrumentu ,quoficempcio5c vendi-  tio vulc abl. 6c cum Grammatici ponunt non nomina-  tum prctium m genitiuo^vt cmoma<iriiy tarui,quanti^pIuTi\ .  mmorii ^iuaritilibet^ &c. fubintelligitur ly pretio^ inablati-  uo,id efl: emo prctio tanti. vbi ly tanti ponitur neutraliter  6c non adiec^liuc , alioquin diceremus tanto, vndc Virgi-  lius. Moc Jthjcttsvelit ,^magno mercentur AtridiC, Ac  quidcm Grammatici dicunt magno hoceffc ptetio magrtl  fonderiSjied w4<^«ocum pro ly ^r///«:dicimusenim'mmori-  pretio,maiori,paruo.magno^quanto, quantocumque-vc  peritis in lingua obviameflrSimilfW dicimus,magni ^fVi.  ino,magni facio , floccifacio , floccipendo , pilipendo ,  hoceftpretiomagni, pretioflocci&pili. Sed nondici-  musx>/7/^a^^^ ,fed Ti/ipendo; quoniam in neutrum non  tranfit ly t/////j vt aliqua prctium counotantia.   P^crl^a iHdicialia, ^ commertium con-'   notantia.:   VErba fignificantia iudicium^funt accufo . pofiul^  accerfo, defendo,rcprehendo.incrcpo, admoneo, punio, damno, broluo^ca{iigo ,inflmulo, arguo,conuinGo, incufo, muldo. Commercium vero, cmo, vendc^,  venundo, veneo jmejcor, & deriuata , compofitaquc  exhi.v,. r  BE T EI^T SPECIE   cafiopem,rigula^ €orre£ijo..   Verba rertix fpecici 'adiuorum pofl: nominatiuum agen(is5caccuratiuumpaticntis, exiguntda-  tiuumreiillius, cuiusvfui applicaturacflusifcmpcrcnim  fehabct vtifinis vfualisadionisfiuein bonum,flue in ma-  lumquidqLiidponiturindatiuOjVtcmo tibi librunvido  Petro diploidenn fcribo tibi epiftolam; • -CAufa ob qua dathium exigititrinhacregula prima- -  rio» efl: qukt finis^cui applicatur^ vfiis acflion is 6c adVaPi  lei, da.niiain «xigit: vt dicebamu» loqu^ndo de caufi^,  ^propterea verba iftapofriincvockri applicantia. Dcverhorumterti^ JpMeimtdnplmtatL.. Verborum fini adionem applicantium , quacdam funt poteflatiui operantis,vt do,promitro, prxfi-  cio, impero , fubiicio . mitto , impartio, admoueo 3 &: fua  compofita deriuatiua, vt arquipollentia.   Quxdam fpedantad cognofciciuum.vr decIaro, oCkcnrdo, monn:ro, fcribo,dico,fero,arfirmo ,nego,fuadeo,&  . fua xquipoUentia^c compofuaScderiuatiua.   Qtuedafn fpecfcanc ad volitiunm , vr commodo, foluo,arrpgo,concilio,&ccnfimilia,apud auorcsnotanda. Exiguntverbapixfataetiam ablatiuum cumpr^po*^  fitione pro, qoando mofatooni fi n al i caufa; vfualis connoi»'"   tatar^vtfi/i^» tdipiMUtmfrpUif^t & pane^ pro  cibo, s*Exigunt etiam accufatiaum cum praepofirione*^  ouando applicario vfusadioniun longum trahituryvi y   oeftino> fcribo&mittcoUtcras<«/iP^,nedumi<iM .    irs- .  QVamquaniiflafint verba apud Grammaticos da-  duiim exigenda \ nihilominus omnia verba pofTunc  datiuumliabcre quandoactionem & aclum , &, paffio-  nemcum applicatione confignificamus, vt cibi eftpe-  cunia,emo'tibi folium , doceo tibi filium Grammati-  cam.* fpoliotibi aucm pennis: perfequor tibi inimicum. 'CVatulof tibi pro magiflratu^&fimiliterly pro potefliii  omni vcrboapponi cum motiuum applicationis, vcl fi-  militudinem circum loquimur ^vtmitto ad u p^o lihis ,6c  habeodoJoremprQ voluptatef - DE Q^VJT^TA SPeciE  a^iuorHm JignifiuinhHmdufUcfter aSlioncm re^ula ^ correiiio, - • Verbaquartac fpccieiadiuorum SIGNIFICATIONEM UNAM cumduplicipafllonepropterca exigunt poft  fe duos SLCCuiatinos-.wtego doceo fcGrammaticam. A<flio enimcaditin te, &in Grammaticam :in te WmiiKUiuh  in Grammaticam/flfAv»  H^cregula declaratione non indiget .fed animad-  uerfione : quod proptcrea accuiatiui duo fubfe-  quuntur,quoniamad:ioin duo cxprimiturnn receptiuum  videUcet paflionis, & in id quod flui t in adione ab agente  inrccipientem. Hoc autem jn Metaph. meliusinlligi--  mus. Adio cnim docentis fert Grammaticam,vt padens;  & qui docetur accipit eam, vt terminus huiufmoai lationis.      V Ltherfrmkfl,   VErba ngnificanciahanc doplicemadiomsdifferca-  ciara Ajncdoceo,mon?o,poftriIo,orQ,confiilo c«'-  lo,^c omnia compofita & «qui|?ollemia,& diriuaciira  iftormn, ^ vt4> lurimumad cognofcirioum videntur^fpe-  ae j fuDC etiam aliqutf/ qua5adl|ai>ir6m exrcriorcm  fpeaanr>vrye.ftia,: indo<S«uo f qu» volun t duos accura  tiuds. : Sedcum reii , qua v«ftfmus, fumicur inflrnmentalu  ter^ponirarinablariuo, 6c fpcaantad quin^amfpeciem- .  ytvefthfiiexuo tefannU,  Etcum non ponituranimatus accaratnius, vtpatiert.  - tisrei/ ed vt cui applicatio fic ponitur in datiuo»Yt'w«-   D JS ^^JN T A:S P E'€ Tb  aSiuomm /ignificanttutn a£iionem , ^  • falf^nem,^idquo fit a0m.   /-\Viinx fpeciei vcrba aftiiia fignificantaaionem itx  ,<WaIiquod..paxiens , & fimul id, quo excrcerur aftio ic-  pi^terea poniturablatiuum poftaccufatiuum fine nre-.  po itionc , vt ego Ippl^p tepannis 5.&,flnero JibriSi&jHvl   jy  ETiara infiacrcgula (Jrahimaricorum pnTcorum a-  peritur r^tio , cur in ablariuo-ponitup iti , q u oci n on  , eft agens. peque patiens : quiaividelicec; inrfucit itti/^-  ,»ejnioftrumci?ti,&modi, &foxm«. .l ^'-^.   OMnia verba, in quibuspoft'patieiHcmrem,adJunt i^o (^rammaiicalium CampdnelU)   velpa{nonis,pertinent ad quintam fpecicm. QuapraT  prer quxcumque pofita£uncinrecuiida fpecie^ ipedant  etiam ad qiiintam.   Suntaucemyerba,!qviint«x principalicer^veftio & fpo-  \\Q ,6tomnia acguipol^nria eorumiiccttiimpleo ^ceiia-  caocumruis arquipollencibus, ic-cm iuro,&i«do,6c ipsrorumiCqttipoIlencia. S^miiiter augeo 6c minuo, cum fuis  aireclis, purgo&inqaino «cttmruisconfimiiibtts. Secundario aucem /pe^anc ftd banc reeutam pmnia  verba cuiufcunquc fpecieiScordinis^quando exprimunc  modam vot fornfiam auttnllrunoencMm actionts , vel paf-  fionis , vt rcribolibrum penna iafficio te e;audio ,planro  vincam palo : Munio & cxpugno vrbcm armis;.muigo ^  ir.riCQ te verbis/ef^ionbigladioL,6cc» DE SEXTA SPECIE  4^iuorUfn ^rpgnijicannum aSionem f-  fionifque illanonem.mm p> ^napio^. ^  caHfa/unde habetur^tanqHam   j . inde habiiam.Erba fextaefpeciei ^gnifi<;ant a^onem , & id^t|ao  cau(a vel occafio» vel principium aftionis eft : &  propcereapoftaccu(ariuum €xigitabla*im?m cum pr«-  pofitionei, vcl t/^,vei «"^vt ego audio ledionem '^ma^   Vbniam caufa ^rgens^excepro Dco, occafioncm,  ^^velviTn fux cadfationis ib*unde accipirtpropterea  illud quod eft occafio(»'yel principium» Vel caufa csu^a-  tionis in a^i^ p^nietii' iin. abUtiuo cum«ff^. Nota fan^ -  pnnci'f»acioniSt vt dic^um eftinregQlisi^ommunibp^cx  MetajiliY ratibtt^ yt flifca QramfnacicSmi rTiac'ftro;eft  magiildF cauia il2dpii^<tblnan& f fi&tedainenT«»/e(l:   eiiimi  Q  - laberprimus. $zr   'enimliindam^iuni principium :5c hatiiio dquamapii.  tto :^u«tenas eft cau& cootentiua aqiue» Sed vt etiam  4natem{t9,4iicimti«i^ ^iiPiUdfm^tri^ Sedvtetiam ele-  mentariS)dtcimtis etiain^ (Sc expuico , Sdneftoccafio-  nalisdicimus Agnmemndn bellom conHauir ex tiiftu   • ; V^rba fextiH fpcckL   AD hanc fpeciemprincipftliter pertinenc omnia ver*  bafigmficantiapi^tcraAioiiem Ccpaffionem , id,  a..qaQ habemttsoccafionem,veI caufanonem,veI princi-  piacionem ac^iioni^ \ vt audio , intelligo , 6CGonumilias  ^vtoblacio , guftp, lego , icem liaurio , wd, moiieo , diui*  4o,pdlojrapii>vabdicO|faahpp,Hcapio,endo« Prxt^rea fecundarib fnnt fauins regtflac omliiaverba,'  in qtiibusadiiciturpoftaAionis Sepamonisremaetiatiirea  eau^tionem conferens » vndedicimus , nfft99 tthi mahni  A^Tjr^nno , H emo Iibrum|dccato^Jibrario , cupio^^/ h  emoiumencu. ELemo.ueo libruma^ienramanibus»   Defiftima fpccie wrhrum exigentwm tnji'-  mifmumfr4>accufanuo^   SE ptimam regulam addUnt eornm verborum >qua: lo-  copaiientisliabetinfinitum verbum, vt fpero, cupio,  fcio, volojdebeo iieRomam » legereledionem : 6v hxc  omnia fignificantacVum animximmanentemaquo tran-  fiensorituraliusacl:us; ?C idcirco ponicurilleioco adus,  iftelacoefie^us^^propterea omojeverbum poteft ad  hancregulam pertmere«qnoniara aAu5adumin%r|^«c   Omnia verbaadprimalitates Mctaphyf*cas {^e^bn-  cia qux runtpocentia/apientia^ amor,iuntprima-   riorpeccanciaaci hanc rcgulamjquoniatn ex eisoriuntur  a<flasincranei, &exhisextcnfiones ad obie<fla-qui func  cciam adus ,vcvoloambuJare, vbi ly voU adum intcr-  num amoris dicic, dCdtmhfilare ^Aum cxternumcxillo.   Prxterea omnia verba ad obieda primalitatum spedantia, fimilicerinfinitiuumhabcntproaccufatiuotfunt  aurem ohxQckOiypafsihile verun & l>pn»m^6L Aia ^quipollcn-  tiaj vt polnbile eft, vcrum eft,bonumeft ambulare,  & fu*  oppoCitSiyVt tmpostfalfumifrulum.   Cxtcraautem vcrba po(funthabere infrnitum , vt fa-  cio te currere. Sed quatenus fimul & agencem rem ha-  bent loco patientis, vt doceo te fcriberc.   De papiuorumverhrumreguU.  Art. VI.   OMnia verbahiibentia lireraturam & fenfum a^^iuu;  fiunt pa/fiux literaturac per additioncm r, cuin»  fuisdeclinationibus^&exigunt rem p.itientem innomi-  natiuo ^quoniam refcrturvthabens ac^umi & agentem  m ablatiuo cum pr.xpofitione, canram aftiuam, nQtante,  qu^,eft A,ab,abs,quoniamagens non vt agcns ,(ed vc  aquoemana! paflTo repra:fentatur.  Dlc^um eft prius , quod caufa pofi^ca in actuagendiV  nominatiuumexigit&reclum: quoniim hic figni-   :^ficateditionemadionis,adautem quod patitur, accufa-  ^^tiuumrquoniam inipfum fercura<f^us Nunc autem di-  • -cimus,quod cum patiens ponitur vt recipiens adum,  *exigitredum,agensver6quoniam tunc poniturvta quo  eft adus , ponicjr in ablatiuo cum A.vA^h, dcfipianti-  ' buscaufalitacem. Etquidem dicin-rtis omnia verbaaAi.  7»! ff cundu & vocem fieri pafiiua, vtamo, accufo, do, do-  iceo, audio, fpolio ; cxii s enim fit amor ,    tiUrprimitT   doilor,siUili^/fpolior,fperor. At qua: folum fcnfu funt  ^aanon fiuntpaffiua, vtfcquor.auxilior. & deponcn.  tia TOcata latinis : tamcn in j^ng«M^ vernacula fiunt vti- .  i)uepaffioa^ Similiterquxvofie ijyMU adiua^fod  vt gaudeo, vapulo,abundo , feruio,&alia neutra vocata  Giammatlcis, ooii fiant pi|^Ef|a: ^i^mtts enim qood lit-  ' texatofam , U jr^tatem ^ed^VKi^^m vectuntur  in paffiuam.  donfiderano de aliis c^hs-pajsitioru??^,   VErba a^fliua verfa in pafTiua prxter nominatiuum  patiencis rei, 6c ablatiuum agcncis^quofcumque ca-  fus recipiunt^jaoQ mutanc, fedretinent, vti quando exant  aAiua,   ALiquando v«fba pafsiua ponont agentem rem in  datiuo: vt PUmi jboc do|nia poHtumeft , ideft d  pUutit* AliqUandoinaccufaBUoapporita prarpofitio-  ne p<T,vt res, agituc per eofdem creditores. Sed in his da-  tlOttsponitorfokis.cnmagenscaoraeft fimolilla) coint  appHcatio. Accufaciunmvcricom agensponitor iaii-  qiiam mftrumenrum vtin prarfatis patetexempli?. Ali«  quandoponicurablaciuum fiiie ^fieporitionej verbama- Ximcautempra:pu{Itio, verbo|adici(citur*   De verbis vocatis nemro pafssuss.   Art. VIU   SVQtqu.Tclim verba apud latinos vocata neutro-paf-  ua, quoniam habent literarurnm non paffiuam, vt va-   {>ulojexulo,Uceo,veneo , c]u« exigunt calus confiini-  iom pafsiuorom « ?t di/afitL v^tf$iani kmdg^^it.^it^  Secundum rert non fuftti paffiaordm tHimeraexplo-  dendayerbahacc,c|Bam vis pAf,iuam litmtoffam noir  habeant:nonenimvox facit pafsionem , fed fignificatio Coniimiliaveneo&Iiceo, fuftcvendoF:rapulo v^r^  beror: exttloyceleger..    FIo eciam dkitur neutropafsiuumapud Grammatn"  cos, qaoniam verc pafsiuum fccundum rem cfl,fi minusjTecundum vocem. Adduncenam fido, confido, U  nubo, au.lco . foleo •qux potiusadionem vtaanmdefi»  gnant : U exigunt cafus,applicationi , eo refpcau reoui-.  fKos. .-i  Devtrbis^ voc4t$s mutrhi  Arc. VI 11. Verba d jcu^turneutra^qu^ ^ec adionem ncc pafiicjw-  nem fignincantapudGrammatkos. Sednonprcb-'  pcereaneucra dicendi erant,cum &aaumcircndidcei-  xillendi dicant, &finonagcndinec-patiendi5Vt/*»i,^   ' (jorreSio Grammaticorum.  Verborum proprie neurra dici debent,qu.T aduni  acluatiuum modo figmficant» 6c funt pcrrinen-  tiaadpoccfwriuum, ad confcitiuum.&ad voIitiuum,de  t^uibus diximus fupra. Quapropter pofTum ,6cfcio*,&   gaudeo cum fuisafledis jfiintvere «auaciua feuneutEtL   dequibusfupra.   Pxinu reguia Crammaticorumcleoemhsfpeaatafl  .   verL)a,e{rendine^iim Hgnificanria^^^ exiftcndi.   Secunda , (\\)x cil, egeo.abundo.carco, perrinet ad a.  ^uatiua prophc.    Tertiaqu(j eH:, reruio.profum. noceo.defum , &: alia,  qujeapplicacionem/lgnificJanraclusadalirjuid f^e<^anc  adad ionem fine paffione explicaram , fedcuni applica-  tioneadilludin cuius gratiam fit j vtferuio recrj^confido"  tibi,noceofiliis,^c. qua^verbaaAionem fi^^nTficanr Sc<.V  nonfonnanr pafTinum^quoniam nondicunt Kcxfcrui-  turameifcd R:egiferuirur,quonfam taeeturpaiicns^ec-propterea,imperfonalirer folum firpafsiuum.   Quarcare^ulade. rebus peninentibus ad Agricuitu-  ramaclusexplicantia,func verc acfliua, quoniam eriam  patiexisexponunCj& propcerca fiuntpafsiua omnino vf  aro,5caror. Quintaquai tertiasperfonasIiaF>e'nt/ingularis, tantu  propcerpa,quod foJus Dcuv poteA illos edcre n(flus , po.  tius ad Theologoj quam ad Grammaticos fpedlansi non  'rite.deciaratur. Cum enim dico , Tonat , ningir, pluit  Iucefcic,grandinar,adverperafcir, non folum Deusin-'  telhgicuri fed etiam rempus, diluculac enim fole tem-  pus : ad vcfperafcir rencbris rcmpus: irem fubaudirur  natura apud phiIofophos,irem necrec;ulaeft ccrra pro-  pterhanc rationcm. Nam efl creare/blius Dei : nihilcy-  rnmus creohabet omnesperfonas: itcm rorareefl flcut  pluere:m fcnpturisautem dicitm, Rorare cceU Aerupn,^  mbespluantiulium^.^v^o reguUipforum cflfallax. Sed^  vfus, & id,quod /ubauditur confulendi funt. SextaregnlavbiafFc<fbionesanimi& corpornmcele-  brancur habens verba, gaudeo, doleo , virco, albeo , caleo, frigeo, tumeo, areo, conualeo, a:groto', & c.Ttera   huiufmodi.pertinciiradaauantium,fpeciem:de quibus  fupra. Dc vtrhisfigntjicantihm motum. Verba fignificantia motam cxig«fit nominatiuu^  rci edencismotum.&poftrenuTlumcarum^ quan-  do non paflionem fedrefpecius locales adducunc,fcii  pra^pofitioncs exigencescatum.   Qjiot fknt figmficdntia motum &   eiufmodi.   OMnis motus cft ex cermino aquo ad terminum ad  quem per medium, idcwco triplicis fpeciei Cunc ver-  mociua, vt difcedo deforg ,tranieo fer viam^venio in  tempUmitixc enim^gnificant motumdcloco,&motum  per locum,& n\otum ad locum. Quxcumquc verba iis  adiunguntur , iunt ciuldem fignificationis , item idem  verbum poccfl: tres iftosadus connotare, vt, de vinca per  viridarium eo inciuitatem.   Verbadeponentia func: eiufdemgenerismotiuiphiri-  ma,quxadhanc regulam pminent, vt gradiar,trans-  •gredior, proficifcor, &c.   Quomodo omnia verha reducHntur ad^ra^  fcntem regulam.   PKxtcrcl omnia vcrta quatcnus fignincant motum,  polTunt cfle luiius regula?, dicimus enim fcnbo ad  rontificem,6cde Pontifice,& pcrdifcipulum ^quatenus  enim fi<2;nificant terminum ad qucm, autmedium ,aut id,  Jequoficadus, fiue illud ficvcterminus, fiuc vt materia,  <iequaqiioniam cerminia quo eft connotatiua fimilitct  ^xic;unt cafus cum prarpofirionibus confimilibus, vc de  albopf ries verricur in nigrum pcr atramentum Qua-  propcer 6c acliua^pafnua,&:omniaverbaad hanc re--Liherprimusi ur  gukmtrahantur per refpeiflus confeqneotes aAiinisTe  plunroiini aatem quae oe fefignificaat muutioiiefn U  - . motuni*   ^cv€rbis,mcatiscommtmittis^   Art. IX.   VOcatit Grammadci verba commaiiiisfc , quas iitenr'  toram habent paffiuam,& poflunrfieri a Aiui & pa£-  Sxti conftrofcum «afibt»» vt laij^rsampledor^Teneforl  cxperkWypmuotor,ofcttIoi^icriminor,,n^   Hxc ficapud btihos: n vfti uiath m idiomacibusalii  Honitem.   Dedt^onenttl>us/verl)ii, .'  ' Aft. 3C,'" •   Dlcontur apuJ iWtinorum deponenria qnaK baBenr  liceraturampaniuam Scfignificationem adiuani^c  proinde acliuc coDftruuntux^nec ta.men omnialigmfi.  cantadioneni, . I Sedc|uncdamaduationem , 5c propterea volunt poft  feahlaciuum, vcvcorjraor, pptior, vercor, 6cconrimjlia.  z Cina:^-%niiicant aftum cum re non de qua/cd  . cuiusel'ta<flus, egrediens ab inrelle<?lu,vtrecordor,ob]i-  uifcor. rer.iini^^co. qiia: propterea exiguncgenitiuum< \  ,3 Qoaedain figniiicanc adum cumapplicanone, $cpro*  /pterea poft fedatiuum voiunt, viauxiljpryf».i^agQr:» me.  'diCOfjminorJrafcor. Quxdam fignificanr^i^ipipm, tc id q\iod patixur: «c  jwopterea exiguijt^)i?jndcacca6tiuw^  rw,c6ntiinifcor» loquor^   ptacftolor\ feteor, &cacteTam^ItP,qiK)rupiqij(E '  proptereaibUtiuttin exigQDr9'Vtlan:or«chltor, ftoma-  chor» vcreciindor, cxpergifcor^iiidignor^niorior: & silui,  qu^e alios carttsexigtinc. prottcadus r^fercttr > mxea regiu  ia^ J it^s de caiitesxMilMnr^6ttao(&^^   Qjrdaai quoniamfignlfiaantmotum ve! pcrroodum  IV. nus, exijunccafus cum.prcX^pddcionibiis connoranti-  ba^vl'.^ ioco ad locum per locum vel cum alio, vcl Con-  .tra aliud, vcl circaaliud^vtgriiiiv-YsP^^^^i^^^Jo^^^^i^Juc^or,  apicor.nafcor, philofophor , verfbr.ncgotior,hallucinor  <auillor ^auguror, 2^ nmilia, qua: apud Grammaticos  , umcrantur :qux ex prxpoficigims.ftatMra.qups^earus  .exigunccoaii;noiiftran,c. ' 'iim^erJoriaUum^ * J^Mporfonah'um acliuxvoci.*; primusbrdo confVrurc   'jLtntffe^^dr^^f^^fi^^^o^ infinitiuo,vc /V/r eCtvel  .Jncereft,vel referticribere ad vos. Infininuum vei^o re-   'gic cafumexpra^fcriptisre^ulisflbi debitum, Ratio reg'ila; eft, c|uoniam verbafuncperfbnaliatfe fui  ' >acara;; Sed cum addicut Ibco perfon p',.patiehiis vel   !ftg0n tis al i qu i s adaspefv erbu m infinicittte facalcaci s, ideii , \t\it cermihatse c^niiiQfticAns.eKpxeflus nec,effiiri&  iUcidaseftperG*n^ccerciac,&: propcereaotjnpia imperfo*   ' nalt^ habere dicuiiair rc^orh tercias perfonas Idco omnium pcrfonarumv..M 1 n ifeflun 1 e<t: ert!rri'i|uod q uando pohTtor tfomifn 6c   nonadiu p?r verburtfitifiA}tum,fIuntperfonalia,dicimus    eni^ Pctft tnfe^^f^tnflihrs vcl nosPecn incerfumus: non   ii*?^"^^ dicam , ^ef^rvnu^ ob aliam cau.fam.  «jC^uarea;jtentpo(luIeflc gemiiuttm , nonintelligic ni fi   ' . quaii   Digitized by GoogU     Ltherprimus. i fip   xyii alium cafum rubintelligtc ex parte vei bi vcl nominis.  fiquidcm Refert idem ell ac Reifen: 6c proptereadicimus  Pctri rcfert fcribere, ideft , res Petri fert fchbere . iritere(f  veroidemfignificatac in rcen::& proptereadicimusPc-  tri interefl:, ideft» in re Peiri c(i fcnbere. Quj autern.lv  ivter confiderant non in fua originc, & accufatiuum ci  adclunt,(ubinteiiigunc Petri inccrciyioc cft iwerreiVe-   Probatur aucem racio daraiquoniam cgo tu, fui , nos»  tc vos,6ccuiiis, non ponuntur in genitiuo.fed inablaciuo  fiBOiioinolingulari} vtmea,taa,(oa, noftra,veftra,& cuia  refert > feu iotereft , hoc eft i» fe meA cfi^ in tta eft^o^c, vel  forfaA in nominatitto cum Jff/ert\ vt me^ refert, ideft  fef mafert xefmLJkn ^in accu&tiuQ nentropluraii vt  ' meaintereft, hoc^iff/^mf<f#)^w   Etproptereaeft vultnominatittom neutrale vtmeoai  eft»tuuraeftfcribere»cum pronomtnaprimitiuaponuii-  turderiuadoi* , .T>efecundo ordinc imferfqnalium.   INfecundo ordinc ponuntur pertinet, attinetJcfpc-.  £l:at,cum accufatiuo & pr<Tpontione.c^i/& infinitiuOf  iqco nominatitti , vt ad meipedat fcribere : at fl nomina»  tittUmadeftfunt perfonalia,vtad mepertinentlibri-.vtin-  tellig?ttexiirfBnitiU(i>; quoniamindeterminatum fubiuit*  £kittumeft,deponderc indetermlpationem petfbn«t&  proptereafieti imperfonalia Hase triaverbaadpoteftau  tiuum tedncuntnr. Nam attinetex</M compo-   nitor : pertinet exper acM^: quoniam pofleffiorei eft ad  benim 8e perherum : ifpeAatvero a fpicio , quando q uod  alicuius eft ad ipfVim conoerfiooem babet.nuc /ir per po.  teftatiuum, vc poiTefrio, fiui per cognofGitiiium,vcad  ipeftus» iiue per Toiifiuum^ vtajndcum,^ QUiieficumc Ji 0 De tertioordinemfcrfonaliHm.   TErtuis ordo fimilicer fir imperfonalis ex infinitiuo  fubiequence.-quoniam continetverba quxfignifi-   cacapplicationemaftusjn determinatir&proprereavulc  datiiium cum infinito ) vt mihi plicctleq^tre 5 & concingit  mjhigauderc ^fed vbiadfunc nomina fiuncperfonalia, vc  mthiplacenthhrt , d(3lentdences & omne verbum fignifi-  cans appiicacionem vlus^cfthuius ordims; vd rcducicur  adhunc.   quarto ordine imperfonali$m.   QVartUJordoimperfonaliumeft de primaadiuorum,,  r^xigit cnimaccufatiuum ciiminfiHicoioconomina-  iiui^ vc deleffat //«^ii-r^ dececfcribere, iuuatcurrere;-  acfiapponas nominaciuum func perfonalia, vtmedec.  virtutts^iti cundis ergocumceademratio.   D^quintaorMneimperfonalium^   QVintps ordb con ftruicur cum accuaciuo & infinico fimiliccr,vcpoenicet,puder, cxdec,miferec,oporcer:  ecenimfignificacpafiionem illaram ab obiec^lo^ quod /1  efta<^lus,nabet fe loco noininarim , \tmettdct ftHderc-At  ireft res, ponicur cum genitiuo,vcw<f tadit fti^diiiSi qiudc -  iiocgcniciuum regiturab aclu, velabaliofub intelIc<n:o  nomine,quando egodico,me paertitctpeccciroru.rubau-.  dicurajfluspecatlT&me rcdet ftudiijubauditur exercitiu iludij,6cfnemiferer mfirmorum, fubaudicur officioinfir.  rnormii rJiVahqnam ennn ponitur genitiuus, p.i& qiij^prjp  intelligataripfius,vel vtfepfe probacum dl in rcgulis-  prioribas : vt videasomnia verba imperfonalia ciTeper*  fonalia,&pertrneread efTendum^vel aduandom ,vela-  g^juliinuf el gacicndum^touliil vltra:Scquid^ad aftua^       Liherprtmus. n\   tionem affedionuin rpcchanc verba quinti oYdiris .-'^ ca  tranfeuQCin nacuram adiuorum|,dnm obieda coniide-  raacar, quaceniisaificiunt faculcaces mouencque.   De imferfinalihus Pafsiuh^  Arc. II. \ IM perfocfMiai^flioac Vdcis exiguhlf^atibum agcntis  caofac ficoc ^asterar paffiua :£c poft fenoiiadduntnb-* m{natiaan[i,alioqfiiii nerenc perronaliiifcd quemcum-  qu^aliumcafum ,ddmmodo paflionts non recepriuum,   fed vfus, aut applicationis,auc circunftantix , vc a me fer-  ttitur i?^^i',icurin filuam :6c propterea Hunt ex verbis a  £tiuis,&: neutris appficatiuis & motiuis , 6c exiflcnriali .  bus, vt n 0 cet ttfyamb uUt nr Jta tuf ^xxon^wtQm dicimus^</Rf-  detvr^ ^ux.mctalle[cittif qiioniam iftorum palTionon transit: neceftplenc paflio : fedmimanec,&eft quafi adus  aduansverba deponentialicf t fecundumrem po/Hncef^  ieiimperfonaliapa(I]ua,vcpacec intuenci omneslinguas,  tamen apad Lacinos non nanc ob vocis 6c iiceracor^ im-  pcdiiiiencom.  Deimferfonal^ineutrisL '  BEnefit malefic,racisfic.diciittn3riniperronaUa ne«-  cra^quoniam nec cum adiuis nec com pafliois viden*  tnrnomerari apod Ladnos^fed com neucrit:& tamen  iecundam rem veri paflioa fonc, licet non fecundum   vocem ,&quoniam applicacionem connotant,exigunc  datiuu|ii,vc a me benefit egenis , racio ex didis pacec: in alii$  omnia imperrouaVa fiunc paifiua non aucem ne ucra.     ij2 ^rammatUahHm QampanelUl     De wrBisfirmhbHs^   SEruiliaautcmverba non funt perfonalia nec impef-  fonalia , quoniara induunt naruramcorum ^quious-  addunturadinftniriuum : funt autem I acc, incipio,dcfi-  uojfoleojpoflum , debeo,dicimus eninv, tg^di^i^ psi^f^  tentiamdgeriili mt debetpanitert, Ratioeft quoniam TCr-  bxtfb non fignificaucadus pteaos , fed aUonim aftttmn  aliquid » videlicer principium , aut finem , auc mo^  rem ^ 6c propcerea illorum aAwim nattvam fcquuiif.  fur idicinKM enim : eeo incipia legere , qnoniam adiu^  qui eft/p{m ati<|ttidefteios inceptio :6c propfertaad oa».  totametoatiahit ur. Seddeind e di^iT^y^^ jjP^/^f^* ttwug»   ^dcjtaJittnim a^om-fnotadus.  Sedfi adosferuilis eft plenos non>cran/ir in nnturam  iaiini ti ; non en im dicimus, vuh t^^ere , fed ez4 v^U me  tadtrs^ diamus meporeftra^dere ,'obimperfe6lioncma-  ftuspotendirfed non dicimus, me valett« dere,ob pleni^  tttdincmadtu^k VakQCis^qaj nopaliejaacurdfci Dalium.i^-   Deinfinitiuis.  PR.opeereat QfinitioftTo!unt anteft'areiiif3ttfiium,quoi  niam regunturabalio verbo: cuiusadum excipiunt tanquam cadentemin fe,vtin perfonam patientem ,ct-  iam fi non fit p^ticns-yVt certumellmeanuire >vbiadusccr-  Cirudinis^cadit fupcrmeamancem; ^*'   Quando verbum aliquod carcr pra^terito vel futuro in^  fimco» refoluiturper lyt;/,aut^flc?^i,in fubiudiuum.quo-^   fiiaQi^vccrqu^ alL modtts comua&iis ciibos£umis in   porttiHMtionibushic detcrminate,iniinitus vero inde-  tciminatc,vidiaumeftpriu$. . 'GErundia reguntur anomine fubftantiuo, & fic funt  gemtitii caftistauia prarpofirione ^c/, ^ihicaccu-  fatiui :aoti«,vel^r# v«iil#,^ficabiatiui, per (eautcm nu  htl fttfitiiifiparticipium verbi nomimrque,& aliquando  famttotBra(beaaQ^iii|iiando robftantiuc exiguntr^ue  dtfasfiipfum vcfbonwit&com.fe» pr a e ytf ti^  mus], Mib4/Mif#ir/i#&i; pomn«r   IfsnwiterinalibtiniaL   SVpina edam funt participiorum rcs , fed indetermi--  natoruni,niore infinitiui, & propterea reguutf t ab a«-  lio nomine & verbo ram adiuai Vt ##^jiu/w» }jqiiam   • Departtctpns.. SEit funt partfcipiaiecondtmi rem , tria paAiia.vra^  mabiiej amatQm^Sc a.maDduni , & tria adiua vtanu^  tioQmamans 6c amatlirus. 'jtriuiSiU enim eft q uod poteftt  Jim^ri refertur a d ai|iariQonl e qubd pdteft amare. ^*.  ffU/«» eft quod ado amator , 8c refcrtur ad amans l^a. *4iM<raA^eft qQod^mabiror^aot debct ama £c refert'  :tQradaimaforQmgd eA;^de)imqM (i^cumqttealiterTeffrrtvfiifflrQi*.' Grammatici non a^nofcunt amabile &amatiuum,  xdificabile& aodificariuum inter|^rticipia:& fal»-  lunrurrh^c eoimparrem^apiunt a nomme^ partem^l*  verbo : & res;u^nt cafus fuorunl verBorum : dicimos eofte^  knif^misiUe ^ te Sedam^nttnm non dicitor con^accofi-   lus fapi t qiikile verbo.namtt*     ly dmam cum fumitur nominalicer exigi c genitivum, non  accusativum i vt Petruseft^j?;??^!!! tui^ fed etiam aliis par-  'tictpiisaccidit. Participium autem fucuri pafMui tranfir,  ingerundiumex pncporicionibus 6i fubftantiuo Aibfc-   quenre nomine. Hmcvidemusquod quaniam a reegreditur adusid-  circo A nominc e^^redicur verbum jOrtab^^JiM^-rjfcui^rJ^d  pacre pacrizo , deindeakvcrifquc participiwm , quaii.  do res cum fuo adu concipitusfimul , & a partkipiis ee^  runjia ^rupiiw^.infiaiiapiMBiiti & fucuri'; quidquia  ;G/aj^wwWiJswaniimaduerteni)esiiliterdocedf Ji: QTArM E-N. CVnt verbaneutropaffiuatriplifli aAkoparticipio in- ^\ip^it^ytetmmis^ci^t0Hii^C9nat^rw$i & duobiis pafsiuis,  vtftrwl«jSc«e»if»i«/,v Ddeapparetqu6d aaiuum prarte-!  ntnmdeeftplnnmisverbis/icutpafsiuum pr^^fens aliis  multis. „ Qja^auchornm paffiua Aoufiunt, pnm is cribus  jRint QQtiten^^pladens,pncims , dr^UcUurMf , folens, folU  trtf,& fclitarus.qiiomodo autem agnofcuntur ex nacurj*  adus paf ionis,& adionis, &^dqatfonis,& exifteniic no-  iUerimus,vtfupra.Utiuorum. Comparadua propijereaeKiguntabI^tj9iinj,^Hodk4  ad quod comparatqr^i^^Jb^xi^fl^^  forma , &iBenfani: vt tf^l^iilfgSift^^mySi aoiemp^o.  natur ly quam cttm no^i^tiuoiijftcs ^minam Pe^  truf, fubintelligitur verbuihfubfliandale.viij^/rr^Ai^ SVpcrlaciua vero exigunc genidunm pluralis numo-'  ri^velreipluralicarem includentis, vc taescUa^ims   ' jjj   rcfertur nifiad numenim. Sed ii dical , forti/simut fuptr  i2^«u;;«7j,tunc fuperlacionis adus bene ex^rcetur bfer  prxpoficionem CKcunilaneialera, vt diiaUin*'eft.Vcum  depraspQlicionibusageremus. ;   DerationeparH^ tpiorumin/nmerfah  QuidquidGrammatici dicunt de nominibus parti--  ciuis & vniuerfalibus , pertinet ad dddrinarh de  pronommibus: omnia enim hxc fiint*pronomina ioco  propriorum nominum pofira. Smiilicer &parronimicaj  vcdi^bum cll: ihi/unc pronomina gentilitia, vc prLtmieies^  cefartanns , dommicanus , quncaliquaDdo abfque substantiuo incclledol nominum racionem habenc adiecliuo-  rum.ficucfuoin locodiamneft. Ratio denominationis  iftorum ex Granimadcoroni vfu agnofcenda eft.   Ratio , qiia gemciuum aucablatiuum cum pf jef ofitio •  ne exiguht, patet cfr rfegults coratmunibus : dicimus cnim *  fmsye/fmm» tc^idsill T^ii/, quoniam de numero vnuili  vnDsfubaudimns.     Flgurarum alia ConftfUifkionis,alia verboram^alia fen-  centiarum. ' De Figuris verbo funi Jc!rencenf1arum diximusinpoa-  tica.Rhecoricajad hasenim artespcrtinenc.   Fi^ura conftrucflionis propria GrammaciCorum eft   cum A commudicdnfui^tudine ioqp^ndi iratiohabfliter'  difcedunc; -  ^iiv^Sdj-i^ ^^^^r^P^ vods^fifrvt/ifrli^ww/^ic  ^ffmMhiitQ MUrmt %ens aWa : vt nefiU ^suimfenke  tnhisniHatmnimlldmt In Iii)guavuf{;ari pforiinacftli^c '  fiigiva,nam pro poiiitui v^fsc v^Proicpfi; cttmtotuminpartibttspracfainicar,n^i7?i^^   pulifiudinr. aliasphiiofephU^aliui Grammaiifm.C ftudet.  5 Aotipcofis ponic ca.iuni pro cafu clegancer vc  chtm ^quemdeiifiinokit qitauurbai dcdit. Elegancius aut  prxponirur relatiuu vc , quem dedtfii eunucham^ quas tnrbas  dedtt, Ecquidem dumaduspafllonisrejpicicurplufquam  adlionis ponitur in acctifatiuo cocum nomen cum pro-  n o m 1 n e . S\m\ zcr^uorum eqei Ith ro rum^ ^i^t^ndkUi eoim  egeadiplusad fe craliic quam dandi.   4 SUabifauis eft,quidam Gr/^coFu loquendi modas:(e4  cameaapud nos fpaifieati^ dici poiTec & fic cum adie-  itiuum prxdicaciVopalaturftbiedo fubftantialiter^Cc   / pr^dicati fubilaatiuum ponitnr in abkdoo vel acCofiu Uuo.JtiBfsaligsdeniiti ViliiniiiMs «lioc eft bahes dinies  ^tf«ia<Ujiiivel, ifff^«ijtffiytanquamin(bomentaIi, .ant forraali prsedicato,fpecificat enim id qoo tu es tahs fi.  liejormaliterfiuein ftrurnencalicer.iiiue parcialicer : dici«  mus enim acdrtffks enfem\decorattts Uteris^ drc.  Evocatio ert cum pronomen cacetur, & eiuslocum  /upplec nomen , vc trots reytmuSyifxo nos iroes. Zeugma est cum vnumverbumveladie<fbiuumrcruit   i)Iuribus,vc P*em d^Hamni^alcrudelisefl' vbi ly^-z^eciam  y funt vicem gerit. Similicer & patet fltj /stntdi^wk  vbi ly digni tii^m ly ^igfliri,Iocum habei^   7 Syllepfis eft» qoaiido fin^larisnumerus comprekesft-  ditor iipiurali tanquam k dignioh» vt Vux & miutetfr^  bdsitnr. veirexusmafculinus comprehenditfacmininomy  vt Ren & Regbsdinfiifinn. AltqaandQ etiam nettcram,ve  ienss & memeipiumfimetenli. Sed in Inanimatis neutmm  concipit maibalinttm, & fcminimim , vt ficus ficulnea , ic  fyrumjuni iena «^cimos & Uhr , ^ velnftds funt cerf^  riviilia/ide(ivtiles.  Appositio fic quando fubftantiuo vni aliud apponicur,  vceius dcclaratiuum in eodemcafu, \i yEffodiuntur opes^  irriumentamalorum, Quandoaucem noneddeclaratiaui  Xokcppmio g.eui€iuo,vc fuo in loco dcdarauvnus.    «SSgH^SS?» -sg^^^it _^!8g^j^2»  iag0 Oftquam dclocutioneTocutifumuSideScri.  pcione ,CC Leflione fermo debecur. Siquu  dem Grammacica eft Ars red^ Ioquendi,5c  fcribendi , & legendi. Triplex ergo illius  a£kus ,videhcet,dicere»rcribere,&: legere:  iic^t primum f\t folum per fc adus : fcribere enim 5c lc-  o-cre eiufdem accidcntia propria. Vefimtio fcnptionis^  Vldeturquidem /5:r/W,e(Ielprum ///r^rr permanens:  Jicere ^uiehi/in^ee tranfiens',Hoc autcm ex rece-  ptiuoinftrumentaH^nanautcmprincipali.accidit. Ani-  ma recipit principalicer orationcm,tenetque : fed per a<5-   rcm,6c cartam, vtpcrinftrumentaldicenris^ AcJt autcm^  cumfic tenuis, figirrarque nonbabeac proprias , recipiaC'^  qae facilealienas, non retinec ob fui inftabiliraceni , pro -  prerearertnoineoeftfcriptio cranfiens. Nec nifi feniel  audiensanimapercipere poteft. Vtautem pluries,cercuf-  que,& obliuioni non obnoxiusfermo fieretjperlapidem,  autlignum, autaliam quancunquefolidam,conflantcrn«  que molemjdeoquepotencem feruarefermoncm^qui in  acrecuanefcit',loqm ^gyptiusTheutli, fi Platonis Philebo credimus,adinuenit : licct ruccenfeant lilijquod  negligentixcaufam ftudiofis dederit. Lucanus autem  Phocnicibusidadfcribit. Philo £cIofeph ancediluuittn»  Enoch excogicafle induabus cohimniS| memocant.    Llcerxergo infolsdo auc inTimc^ vc charaAeresRo^  imnnrnrn inrrfa r mir iininr TrTypn^jnphnmm  notula^ferreir^saacranLnhacin pagina excolonscetri»  velrubrileneatx fucco. ' .   Jiiimitatione rernm in di^ionibHs (f  fcriftiombus^   . Art, IL   ^^Esinnatutapofitac imitando idcas Diuini inteir,  Jfe<fbusrunt venu: ctenim,ait e§ fuiffkl^^   j^j fimtlitttdo, Inteliedushumanus iniicandares,qoa9^  ^^(ferciDit, ac proinde intcUigendo eas, ficuti func, ve-  ^xuseft. Concej^cus enim obie<aavvndcrconcipicur, eft  £millimtts«S^mo yocaiisimitacur canceptiones,feu no>  l4onesmeiici$ii|9a£^ inJPc^cicalacijlsd«^  jhonftramiis.. ^j^i^ caodem fism voQjencK^  propcere aqvie^ramn4o,eas figuras imii^ri conuenitf  quasocg^Mndo menci^ oociones perinftnimenca vo^  ~ t;gucgtf «l^ngaam^ palac um^ab   Libertmius.    in ittt fpirAto figuramus. Hinc Alphabetum elcmentA  vocis explanans inuentum eft. A t varium , atoue multi-  plex apud nationes mulcas ^ qupniam imiuri iaem variis  jnoduusinuenere.   Jmitstio per cbaroBeres.  ALij quidem vno charadere fcribant vocabulum v-  num i 6chocduphcitercontingit,vel delmcatione  imitando, ica'vc ver. gr. O, fignificet panem . & t^, vmum.  Sicut Chinenfibus vlurpatur jexquibus iliedodior.qui  plures charaderes fcic : quoniam plura vocabula 5c  res* Afcenduntftutem charaderesquailadodies mille.  AUj verivtunturfigura confimili,vti€gypcij ,vel rym*  bolicaiqueinadmodum Chaldaci Planecas, &iZodiact  /ignaiisnorancanimalium guris, qua in eircuii parti»  builocantur^aatillorumaliquid pingunt,TtproTauro  corjiuaTauri» caudam l^eonispro Leone»j6f<b. Sicut  Aftronomi spfbrum haeredes adhuc Ytuncur; queroad*^  modum i£gy pci j myflicelaibunt pro Deo^diaraAeiem  •^lis.qui Dei ftatua eft i pro vbertace comucopiam, Sce.   parti^um vocis indiuiduastvc^ebrxi,  C£idti^^^||amv Gneci^vemntamen charci^eresfcn.  pferutitf enim,qux fola arteria   profeninta^Thltpii^Hiififcfa^^ quod camen   inO,& /jfoliim oUrct^Stliif^, redi^s pro   vociilibuspundis , vtunturj corifonantes autem figuris,  quacfimiles funt inftrumentis,quibusformantur; vtAf^  quoniamlabiis compreflisfbrmatur, pingendum efTetfi-  gurareferentelabiaduo,C, ver6, quoniam sumiratelin-  gua: tangenre dcntes fiiperiores formatur,charadereid  fingente delineandum : ficut in Poetica docuimus:.  vbi quomodo cxreri charaderes formaBdieiTent a lin  gttaruminftitttt9iibu»9<C^ui fignificaiiopt deferuirear,  cpi]ifidei^uimi»^ ij^ Ut   cum fic cenuis, figurafque non babeac proprias.recipiat-  que facilcalienas, non retinet ob fui inftabilitaiem , pro-  ptereafermoineoeftfcriptio tranfiens. Nec nifi feniel  audiensanimapercipcre poteft.Vtautem pluriei,certaf.  qae|6c obliuioni non obnoxiusfermo ficretjper lapidem,  aut lignum, autaliam quancttnquefoiidam,conftantemI  qttemolem,idcoque potentem fcniarcfcrmonem, qui in  aereeuancfcit», loatti^gyptiusTheuth, fi Platonis Philebo credimus. adinucnit: lic^t fuccenfeant illi,qu(>d  uegli^enriacattfaro ftudiofis dederit. Lucanus autem  Phderiicibusidadfirribit. Philo &Iofeph anrediluuiuiiv  Enoch excogicafle in duabus columnis, memorant LJcerxergo infolido aut infunt, vt charadcresRoI -  /manorum in cera^ a wt a wKmg ^-nrTypographorum  liotulx ferreas jaut funt, vtfaacin pagina cxcoloristctri»  ycl rubri leneatacfucco.   Peimitatme rerum in di^tionihs   fcriftionibus   Resionana apofitaeimirando ideas Diuini intelle-  Ausfuttt vene: v/ri/^i etenim ,ait Aug fuifffin-  iipij fimtlitnd0: Intclle<fiushumanus imitandores,qua»  percioit, acproinde intcUigendo eas, ficuri funt, veruseft. Conccptus enim obicao ,vnde concipitur, eft   fimillimus. Sermo vocalis imitator conceptioncs, feuno-.  lionesmentisivtinprimo libro, & in PoeticaJatiiisde*  monftramus. Scripturi tandem fcrmoncin vocalem,  proptercaquc fcri bendo , eas figuras imii«iri conucnici  quascxprjraendo raenttf notioncs pcr inftrumenta voim   Lihertmius.  inicre fpirAto figuramus. Hinc Alphabetumelcmentt  vociscxplanans inuentumeft. Acvarium,atciuemulti-  plex apud nationes multas j quoniam imitajri iaem vanis  modufisinuenere.   Imitatio per characleres.  ALij quidem vnocharacflerefcribunt vocabulumr-  num i & hoc dupliciter concingic , vel delineatione  imitando,*ita'^cver. gr. 0,fignificetpanem. & f^,vinum.  SicutChinenfibusvuirpatur jexquious illedodior ,qui  plures charaAeres fcic : quoniam plura vocabula 2c  res. AfcenduntAUtem charaderesquafiadodies mille.  AUj verovcunturfigura confimiIi,vt ./£gypcij ,vel fyin*  bolicajquemadmodum Chaldxi Planecas, &iZodiaci  flgnaiis norantanimalium figuris, qua in circuli parti»  buslocancur,autiIlorumaIiquidpingunt ,vtproTauro cornuaTaurii caudam Leonis pro Leone, &c. Sicur  Aftronomi ipforum ha:redes adhuc vtuntur; quemad^  modum y£gyptij myfticc fcribuncpro Dco,charaftcrem  Solis,qui Dei ftatua eft j pro vbertate cornucopiam, &c.  ^ Alij ijTiitantur particulas vocis indiuiduas: vc Hebrasi,  Chaldi, Latini, Grxci, veruncamcn charecflercs fcripferunc parum imicances. Vocales enim,quar fola arceria  proferuncur,fimplici lincafcribendaefiTent: quodcamen  inO,& /^foliim obfcruatur. Hebrarivero rediiis pro.  vociilibuspunclis, vtuntur jconfonantes autem figuris,  quxfimiles func inrt:rumencis,quibusformancur:vcAf,  quoniamlabiis compreflis fbrmatur, pingendum elTet fi-  gura refercnce labia duo> C, ver6, quoniam sumicate lin-  gua: tangencc denccs fuperiores formacur, charadereid  lingence delincandum : ficuc in Poecica' docuimus:  vbi quomodo cscreri cbaraderes formandieficnt a lin-  guanimin{licucoribus,5c^ui fignificationi deferuirent,  confidcrauimus.  Dcnfimerofii Hramm,  I^expreffionem Jdeoque lid vi^ti oclo in primo Libro illosreduximas:quorum viginri duocon fbnantes,  ficdiAxJqaon.iam inftrumenrom verberancium aercin  concurrurormmcur. Iiein quoniam coniunc^! non pod  (unr,ni(i perv )cales- vc Pbco m Sophifla^uiur. Anibesetiam vifTinci oda h.ibcnt omnes conlonanccs pro  corundcmronorum diffLTentiis exprmendis; inquoa-   . bund.inr/Trcs auccni vocales . quibu5 ramen vtuntur  vcqninque , ficu, orJincqLie vanantibus. Hvbrrt vigioci duas conronantes,fiquidem pro vocalibas , punckis.  vrn n ni r j Vjixh i Xj q i i i i Vf mmm 111h ' i 1 1 f i r m fimplicibus, '  vtipfi purant^-tt^Spic-fl^d cOftmA^^^rfi^  in^lar. Nobtsaureminlcaiica fingtiahac ratione torefl  fcntdiphchonc^i ,ouot vocalittmcopulstjVtplanum eft,  Galii prunbiifdipnrhongisvtuntur. Grxci vieintiqua*  ea6r habenfftedras • qnarum fepcem funr vocales , quoi.  niam {),& Jf, ftrifti &amplc;apud eo$ , ncar& in aortra  Vulgarilingua, prbferancur/ Natfones excedenres hunc  numerum viginci o£bo, ftorfvidi, nifi Iaponenfes,qui  quadraginta ocko Htteras habent i quod cquidem inde  eucnircpiito .'quoniam cotifonaTitesduas conflanc in vn.im, qiicm adinoJum nos X , pro 5 , 6c.C, vtimur. Sic   . poirjmLU hccerasifias duplicf*s (-acere: vr pro , Z , .fic  character vniisraiiiis pro i?, r^^\m:\s proP, ff, ^cSicwii   . vci'niir^?^. (Sc rr/Ti. 9. pro cnbiis fircensiacque i pro da.ibusi^c. obuia iunc /vlla^:vrnm varietatcni   peroeiidenci •• fiquidem, vtdiclum eltin primo libro.aliae  lyllabxcondituunrur ex vocah vna . vr ahaeaddunr  irocaliconronafitm^TC^^^ali^ dmr^v^ Ba\9i\\x trcs^  vt(^'SaIisquaruor;vc ^/«^aliacquinque>vc /f4n/,aha:fex,  yc//r/^/.NaIfibiatttepltts vcucvocaUiQtfiindiphtbongis,  Lther tenias, /^t   G ^riii-inoram verS Sc Polonorui-ii lingn.i feptcni 5c oclo  coiiloiiaQCevvnivoci^ .lih^Uiu Caius ranon^^in in Phy-  fioio^ia ^iximus. iNfonreitU camen AriftoteJes fyllabas  poHe exfoliscon^bnancibusfieri docet}nulIumenim fo-  nani habene, aiCiexvocali «caiadiUncconfonanclo.   Poflontenam literqper pun<fH miilciplican.-vr Ara^  bes 6c Hebraei faciunt, vt P^c^m pundko icruiat pro du-  pltct P ^CivaAxttt & vocales : ynicuiqee ergo regula eflr  vfus: Philorophisautem ratio.  vt   B.egiila{igurandarnmlU?rarumi   DRhentin fe lirc^T appiri^ntamhabcrc elegantcm,  claram,diftin(flioncinab inuiccm pcrfpicuam. lcem  occLiparc mo hciini Ipanum, nec fe inuiccm impedire.  Proptercn vocaIc^punLlis,& ficu vtiliorcs,quam iiguris.   Formodcharaderes-A^abici, mirhieUpr.ptenn fpa-  tium niiilrum oc4?upant. Occurruncpun(fla htiic defe^  dui. Hebraici graucs fd non adcodiftincl i,nec figu-  racu faciles; Lirini diflincki ,clan : arnonfatis elegan-  tes : Gr«ci,clari ^ forjiiofi> exigui, niodicuni pccupantes  .fedexpa.rte^coihplicati-. . Aliarumnationum Alphabefa  conrulancnr.   T IcercTLacinrc pro liceri^ tancum valcnt^Grarc.T pro  ^liceris & numeris i y^lpha enimdicic A , & vnum : Hc-  braica:proliceris,& numeris,6c vocabulis: Aleph enim  figmiicat /t ^^vnmHyU princiffem , Bech n ^(^uo.dcd^mm &c.Propterea ex JitehsSLabbiniphilofophantu*aoi^ivi^AQagrammata eliciunt, : '(jrdmmdticalium Cdmpdmlld]D^ra Mnefcribendiper vfiratasHteras. Quoniam careinus Alphabeto mionali imitanw  prorfusinftrumenca 5 nec rperamtts illud nifi a nou^  lingua ccondicore^qui vocibus res^& voces chara^leri-  bttsadamuflimmncecur. Ynde facilferebusinrpedis ip^  fisdifcerenrfiomines ducefimilicudine^ l^gere, fcribe.  reque!donecergo^liiigttam,& charafteres proprios  Plulofopbisedereiipndacur, vteodum conTuecis in fcri*  bendo. Proquofcqucnccsdanturcanones.  I Literasclarasa propnafigura non defcifcenres deli- '  neabis , vna continuaca dimcnfione •, ou{eiiU^pier> vndc  fjcilius duci.poce(VprrroTaTft calamus. ^^-^  X Literasmaiufcufas Scminufculas obferuabis in omni  ' lingua , qu.imuisHcbrxis id non vfurpetur. Maiufcuiis  vteris in pnncipiis orationis , 5c in omnis perio Ji princi-  pio ,&nominum propriorum cxorjiis. Dicimub propria  Jndiuiduorum, prxfcrcimhumanorum , rcrum nomen  .^curam fortiencinm indiuidualem • vt Perrus honio ytc  Bi^ttneUns ^aais. Icera earum rerum , de quibus fcrmo  teexitur, quaccunque fint> eric maiufcula exordiens  Bgura. Cum enim trado de SoIe,autdc Aqua,attt d«  tnde in'Phyfioiogia > dico Sol , Aqua , Iris , in toto rra^  : &atu. Nomen aucem D ]g I tjRtiii|^^ pie^f^^^  ^bendumdbcec.  Omneslicerae vnam diAionem (romponentes , nmnl  ponantur ; nec incer eas pond:umtnec fpatium interttcni»-  relicebic,ad retinendam figno rei vnitacem. Onwaee-  nim cns necefTaric) vnum eft. Dantur in vulgan linj^ua  apudnos, & Arabeslicerarum copulaceiufdem vocabu-  liiatextrcmxfigurccprxc edentisextenfioadprincipiuni  ponfef^uencis,non inepu» (iperfpicuicacem iedionis uon i /4!   intercurbat: alioquin fuc;ienfln. RedeTypographiim-  ittfmodicomplcxus omncs fuflulere.   Si]uandoin fine verfus non poceft rerminaridic^io^  Arabcspriccedencem excendunt. Si poceft finalis rcci-  pere excenfiones : (in mioLts>amplian(medias. Alixve-  r 6 nacionesapponuDcnoeulas, quibus abfoiucain non eC-  ie di^onem, fignanc, vc in noftra fbriptione apparec.  Vbipraccerea nocabis, qaod vna licera^qu^ eftin finj? ver-  rusfpacittm non habec>in quo fc ribatur, noti eft pohen*  do vck principio fequencis: fed vel coarftanda cxcecis»  vel incegra fyllaba, ficamen non eft vnias cliafa^eris,  afportandaad fcaitends verficali exordium, Francis ca*  jnen concrariaseftvfus. Omnesdicliones^&fingulscreorfum abaiiis,non per  punfta incerpofica, fed perfpaciola diftinguantur.necon-  Fufiofenfuumfiac. SpaCioIa vcro incer liceras ciuidem  didionis finc n:q ualia : ne videancur didioncs dua:. Caufa breuiracis folent,vbi duplicanda efi: eadem  licera,apponerepundum Hebn-ci medium in omnicon-  fonanti> nos titulum fuperponimus :fed foliimin N-^tC  Ji/,dapIicacionem exigente,6c folu fuper vocalem , aut  Ciaefiiram confonanti caufa breuitatis. ScdaUceralijipia  Vtuocar. Confulenduseftvfus. Nam,f>fr, fcribimusfic  9^fr^%^pf9 Similicer etiam vfus eft in dickioni.  bus feruandus. Nampro didione liceram ^liqaando  faibimus. Siquidempro enim,fcribimus.«.pToautem  ,4. vcrique pundacam ; pro verA jv. confimiliter ali-  qoando paacis liceris^pro mulctSy vt pro vniaerfidicer J&lr>  pro,^0tf8lM,qm. £ft|eciamTfus Arabam,vtalifereamdemritera[fi>rm^t  in principio aliterinmedio, aliterinfine.Noftrate 5fblum  JW,infinedefledunr:nam pro w. vtunturi.  sxlnquaz,-  % Obrcru<\ndum eftjneeadem abbreuiatio alicer alibi  fignificec: fienim confufionem paritr vnde rudicer qui.  dam, locopfr,&/>r4',vcuncur/: & fiquis nouamabbre-  «iaturam intrudit, perpctuo ea^Ttarur^femel ramen ita  fcribat clar^ ; vtin allis di&ionibusi Uaptimaicrijua  fitlumen» aneUnf. Ponende eciam fuoc noculx tonorum, qui dicun tor  ftccencas, vrpronunciadononaberrec. Suncaucemcres,   actttus y qui acuit, eleuacque ryllabam.:grrf«/i , qui depri-  iTiit: f/w;/?fxrt/,quicomponiturexacuto, & graui. Pki-  ribusabudanc Cocincinenlcs, quoniam hiis iuonofylla-  ba, funtomniavocabula.&plura iiguihcaiic,pro pluraii  vanetaceaccencuum. Teflc P. Borro.  fo PonicuracccncusTuper vocalibus: quoniam vocales  func lyllabarum lubflantia , &: anima j conlonanrcs ma-  teriaiicer fe habent^^ acadeatalicer quodammodo yei  tanquam corpus.   T I Cum aliqua vocalis in fine didionis -caditper (yna<'>  ]a:pham«vtimurin lingualtalicaaccencu furfum retorro« Graecisquoque v(iirpatur,l.at Lnisrar6»nifivbicadit  femiuocalisapud Lucretium) qui dixitp/^//7ii'; ^uhte:frj9   ^ A^2^ndix ach. Art. da^' X.  CHalda:i> Arabcs, Hebrc-ei a dexcra parte fcriptionem  exarantad fi niflram Grxci, Lacini, 6cali) ccontra.  Contenditur vtrum redius. Antiquicas, auchoricafque  facra: Iingu« fauet illis : iftis vero Phyfis. Magis cnim  fecundiim natttcam eftab iniperfc<5lo Scfiniftro adperfe-  ftum dexcrumque ire. Metaphyiis e contra. PxaEcedic  enim femper op timum perfeftiffimum | trahens materia^  lia deimperfedoadpecfeftum.   Slmundi poficionem fpeAesPytha^oricoricu,qnem  nos ^diim fcribimus,noftra pofirione imitari debemus:  Scriptio enim qiiidam mocus, coclimotum imitans : dex-  trum efl: polus Borcus : finiflrum Auftrinu?;. Etficnos,  ad Occiaentem vultu (pe^Slantefcriberc oporter. Ergo  inciperemusahniflroaddcxtrumjimitancesmocum latitudinis, tanquam fiex Auftraliplaga cocpiiTet huiufiiiodimocus-ficuii iuPiiyficisf ucabamus. iQ^auccnipu-   cac  tat^ncepifle folumyerfusauftrum moueri ab ini^o^vci .  nunc viciffim mouetur 5 vtique a dexcro inciperefcriptio-  nem putat. Ac fi , quod Mofes in caftraraetatione ob-  ferua c , obfeniemus idextrum eric Occidens: Ariftoceli  vero Oriens. Ecexhisimitacioaptamagls. Scriptor enim loiv^itudinismotumvelocera potiufquclatiaidinis  obferuac^niam Lunaris. Propterea ficfcribeodo , & qoi  vultumhabetad Auarumjcribicadextro nd finiftrum,  ideftaborcuino ccarum, inricuGraEco & Latino. Ete  contra in ntu Chaldaico. Qui ad Boream fpedac, ab oc-  cartt in Latino, abortumChald<jo. Aliiconfideranc commoditacem lcribendi &facilita-  tcm. Qu«meliorconftac a fmiftroad dcxcrum : quoniam  matlusa centro circunforentiam fcrtur,vbi muenit fi-  nem, Actamen poteftaddi tertius & quartus modus: vc  fifcribasabalto-acimumpagin^, vtin rolo 5. lohan. La-  ter. Romaefaftamvidinuis. Ecin verfibusfybillinisfic C  contw. Hinc noua qu^ftio, & confimilisrefolotip.   Defarmione ^ 'ferfficuitateperfun^4 ,lk   neajkue ojienpi,   Art. IL   IN ftrudttraorationisinteraeniuntpunda:6c pun<fium  cum iineola adunca ; & lineola illa fol t taria , Hoc autc  ia<tefic,qiloniaojracio criplex : alia fimplex,vt ego fcribo:  aliacompofita,vtcgofcrLbo : dum cu diaas : aha decom-^  pofita vt Epigrammt»& liias Homeri, oratio Ciceronis  pro lege ManUia. Quammali» trlbus,ali«m!ilti$>a  pluribus «cplorlmis conftant periodis. Oiatibfiropllci  nullum patitur punaiJm, necdiftinaidncm, nifiyocabu-  lorumperintercapedincspania $:hacvtuntnrLogici,vt,  €mnh homo eflanimai tationdle, Omtio Compofita diuidir  turin duas coniundas per copulatiuam riotam*.vt £j#  i^riwtfjd^^^w&^velperdi^^ vt^h^di^vel/gr^'*  iMUVflmngit\vt\ per cowdk\ov\:i\Qm:vtJtvenerisadm( daboiibiltbrumxwx^QT\ocAcvc\^vt,vbithef^turus, ibi  cof : aac per tcmporalem, vc,f maqtf.er le^tt.ciifcipv^  Uatidinnt aut pcr comparnniium . vt , y^a//fl/ wrfr/,  /rff/ 2^^;7// //2 - ; aiic pcr caufaleii-i : vc , qMniamn^n fkit^,  JhrtUfcttntcampi ;auc per rclatiuam i vc, mercaiores lucrati sunt muhtimquitamenUborauerum., Erhofumficdifttn-  dio perlineascommaravocatas.   Omio decompoifcA conftat cxperiodis plurimisipe-  nodusemm fir, cum ex finali Dunao. velexordioinfinem;  oracionis perfedxabfqiie ruipenfioneaudientis peruenimus. Ibi pttndum &cimus: omnesergo periodi pund^is  adftringuntur,vtinprima CICERONE Epiftola. Egoemni  •ffici9^ep4iih piefdte ergdte^Cdtefis fatisfacio emmbus i mihiipftnunqnam fatisfacio ^ &c. Ac pcriodus diftinguitur  percola&commataapud Ciceroncm.Cola funcparteg.  periodi maiorcs : quarum quxlibetquafi perficitoracio-  nem,&in dido exemplo terminatur in ly omnibttt, Et horum diftmcflionobisfic per punda duo ,auc perlineo-  lam cum puncflo. Commaca vero func parces mmores,  cx quibils cola conficiuntur Ucetnon omnia femper, vt  i iodiAo exemplo.   Vbi poftquam dixttammofffcioySiddityacpoiiufpietdtey  quod diAinguicur a prioriparte periinea. Confideranda^  eftetiamiquod vbi diffidium maius eflincer commaca,ap--   Sonendum efl pundum cnm lineoia: vbiminus, lineoia':  iie putido. Similiter in diui fionek compofitorum^ ali^.  quandopun&ocum linea^vt«^ ntdgWerlegit ^dtfcipvU^»Jiffis/:aliqnando duobus punAis :yt^Rexcafiigauitml^  Iite$'qttifugeriimdepr4i0, Hinc eft , guod antea^uer&ri-  uamponuntur pun6i:adtto,(i nonett completa periodus>  in vno: Quando maximcaduer/acur, vt.Pctrus rfido^ui:  fedfilius eius ignoranS' Aliquando lincola , vc, Petrus c$  doHus quidemjednonvalde, Similicerancc relaciuamcft  lineola in modicOjVCj/^f/rflJ, qtticurrit^moaetur. In mulco,.  iuncpunda.vcfupra. Similiccrponicurlineola anteno-  tas cogalaciuaA^quaado copuUs i^.u^gitivVtt^^/Wfiffrir Mmi«^quado non mulcumy poofta,vt,/rr/r0ir eMrru :  fii propeM 9(eafum, AliquatiHo nihil , ii Yalidifsimc  copulac , vc, Petrus evnditus darui nohilis^ fed & Scc.  idqiie magis,vSi deeft copula,abefto 5c lincola.   Ponitur eti.irn puntflum^vbi didioeftnota; & ngnifi-  cacpcrvnam literam ^vcM-T. CicerotiSc D. Francefco:  &vbi per plurcs vc Cic. pro Cicero : 6c Franc. pro Fran -  cifco. £ciahisv^lecconrenfusrcj:ibenciuxu,§crauo bre«  uiecacis.   Ait. I.   LEgereauccm,eftocuIis,qu fc npra.-crunt-^colligcreiit  mentc,ac mox per linguam colleda icerum pronun-  " ciare. kaque eft circulus , ex dicere , pcr (crthere^^le^en  ad tpfum dtcere, Ocuins fen(us lcdionis ziauduus didio-  flis.   1 Qui ergo iegic,prius difcaccharaderum iignificationes  & pronunciacionem. Quasdacninicum gutturc,vcvoca-  lia quxdam lingua , & paiaco , vt confonantes ,fic femi-  oocalcs ;& quacdam labiis, vc mutx , pronunciancur. Si-  militerquid valeanc punda,&afDiraciones;doceadifunr,  qui legeredifcuntfiuxta phmi iiori pr^cepca.   2 Moxquemfonum , quacvocaIis,cumquaconfonan«  ce, faciat* Vinculum enini confonantiuin vocalis efl.  Faciliatttemaddifcttnt, ficonlbnanseundem fonum fer.  uet cum omni vbcalf. Hincfic,vc, quoniam carcmus  altero , C «non poffint facili noftram nationis aiien^  linguam,addifcere. Alicerenimpronuncio, C,cumA,  & alicer C, cum E, fimiliccr,G, vt norum efl:. Vnde deri-  uationcs verborum ,&cafusnommum fallunr.Cum au-  differRegis itcluopi; filius,//g4^, pronunciabac,/r^Aw,     i (^rammaticalium £ampanelU]   dcriuationem falfam exofus. Ec pro C(£Co , ctUo diccbar^  vc C , fecundum eflet primo fimilc.   Nos aucem ha:c non cogitamus, vfu dudi: 6c quia;  pueri noftri nefciunt dubitare/ed authoricate trahuncur.  5 Prius quidem fimpHcibus ryllabis,vc^<^,deinde com-  pofiiis.vc j^r./, airuefcanr.   4 Tandem vc didiones cocas pronuncient didindas,  iK)n n>ixcascumalii$,proucin copuiando dicere , aiTue-  faciendi func. Mox enim vfus, vc celeriterlegant, pre-  ftabit : veluti Cithara:di, vbi primiim elemenca, & difcri- niinafonorum,&confonantias calluerinc, in eifqueaf-  fueucrinr.   5 Item quomodo pronuncianda interrogatio j quomo».  (io admiracio, &quomodo lcuisoratio.   6' Item inpcriodi finc paufindum.   7 Item diftmguant legendo cola commata, illa ma-  gis,ifl:a minus.vcfen fum aonco Qfundant, necdifTocicnt:-  Verumque enim ti 6'fu m . Quiautem carminalegunt, carmincis pedibusqua/f  incedant,nec fenfum obfcurent mctriamore : qui pro.*  fa5,,numeris,qui Philofophica grauiter. Item quar abbreuiationesfinrin vfu, & quomodo ci  notandar. Alia: enim aliisnationjhus. Item quibus acccntibus lint pronunciandicr yllabap.  vltimc,& penultiniii: : 6c monofvllaba in vocalem deii--  nentia : & hoc ad quautitacem fy llabarum fpedac, ex Ar.:,  temecrica, - Quxvoces quibus verbis defcribendis func apcx^ ior;  Saecicaiuuenies. CVmirouamlinguam difcere legendo cupis :pone  feriacim vocabula noca cu^ linguj^, cor,quoc funt Ju  terxeiin^quamaddifcisiicavtprimxlicer^vocabuiorana     Lihertertius.    laceant fecuhdum fcriem Alphabeti difcendi. Diclio-  nesautemtux lingux iiceris propriis priLis,dcindeaIie-  nisalternadm exurabis. Tuncenimmirafacilitacein vno  dic.quibufquclegereaddifcet. Gognitaemmfttntiumi-  aaignoratorum. De eHfjtic^ iane ferfnonum Granmaticali*  TOn modo GrammtticiTidetnr offidum ,tradere'  1 A| rcLtionem rcAi loqucndi & fcribcHdi & Icgepdii  fed infnper declarandi fcrmoQCTO.fiUC di^kumfiucfcri:-   ' ptum a quocunque autorc.   2 Hoc quidem verum , quoniam omnis- Autor Gram-  niaticus primo eft,& mox Philofophus Ivhetor,L ogicus, Poeta, Mathemacicus, Hirt:oricu5,Mcraphyficu\ Thcologus, 5<c. nemoenim fcribicin quacumquercientia^nifi  Grvimmatico 5c congruo fermone. At plujr^ pr^Iumit  Grammatica, Philpfophica^quam ciuihsi   3 A t cum omnis fcientia-popriis quibufdam vtaiur vo«  cabulis,quxapud vuigusaliumfaciuntfcnfuni, res quoquede quibus.traclaniigDOtacfUDrvu)go^inTheolo^; ^  & Aftron. patet. PfopjCf rca non puto Graciunatici efte  .ciuilis.omnes fenitoncs enucleare ,fcd tahnnn vulgires  familiarcs .quiin cpilloliti^l^Q^c^jbntineDtur. Adde  eciamin Po^tis & Oratoribus^^To|i(1Ck.i.deot^^ Ij  em^ propius ad vulgi inftrudionem adcedtmr. Nihil oniinus dicendum , quod exponere poetas 6d  oratorcsnonfitisvalent^nifiquiarcem poeticam &: 01 a-  toriam etiam didieere ; ergo noii pun Granamacici eil  oratio ipfbrum.  PlaroetiJin cracilodocet impofitiones vocabulorum jTon efle Grammatici, fedfapientjflimi Dialedici, idjjft   Mecaphyficireriiinuentoris&fcicntiarum ordinaroris-,   6. Pxiuseniaioportecicj^ Ctfeta&deiadc notpinarebut^     i$o U,   f ci t i s i ni p oncte : Gramma tic us ^tgo co n ferua c enu cl ea t  hon|inuenic ncc imponic. Inueutor bombardse dcdic  hombardx nomen, 6c noui hemirphenj Amcncus Anie-  ncam dixic.&jlouispedifrequosplanetasvocac Galileus "  Mediceos : non quidem ex reinacura ifedpkcUo hum^  ino/xpeque cafu.  Nominaquidemdcbentabipfisrebus nooninatts ex«  primii vt bombarda a bombo ardente huius inftruroend»  &lapisd ia:dendo pedem,&fol quia roloslucecSed quo-  niam rerum eflenciae latent, & proprietacesfcfnt inn Qmi-  natae»8cconfu&: &c philorophifenim inueftigtitoresco*  gunturvuIgariTCt fermone. &Principesad libitumfine  arteimponuntnomina>& iie, dcab euentu ,ra:p&:noa  potcflcercafcientiafieride iproruimpofitione nccfa<fta  leruari quamuisinhoc Hcbrari fint cxtens ccnaciores*Icem quoniam quotidie voces corquencur ,mucilancur,  breuiantur^producuncurj^cransferuncur.vt iy, loannes  in Hcbraro, aicicur Ican Gallicc;, Ans Germanice , Gro.  uanni in Ecruria : lanniin Calabriai CianniParcenopeis:  crefcitdifficulcas.  Grammaticus ergo non declarabicquiddicaces rcrum  pervocabttlafignacarum^haccenim pertinenc ad fcien*  'tiasillarum renim:fedtantummodo vocom fignificationes, & ftrudttram orationis. Vnde Plato, profanosvo*  * catjGrammattcos, qmTOcabulaTheologorum declai»-  repraefumunt, magisaatem fificirridere.Idem S. Greg.   f Propriaautem Gtammaticomm declaratio eft ety*   inologia,qua*nonrefpicit quidditates « ad quas nomina  imponuncur^fed vnde imponuncur.Cicer.i. Acad •& qua '  decaufa, «Sca quibus&quando, fipocis eft.  10 Ecquoniam vocabula apud alios Aucores aliarum  fcienciarum & apud vulgus aliis tempoiibus aliter SIGNIFICANDUM apud PLAUTUM aU erat jrcuU Sc quafi ollay  APUD VIRGILIO eih naxima xdm regiarum. Item lusapudlu-  rifpcritose(l/ifjtf,apud Oeconomos eWhoJiH ^wndc vulgo  feruis distributio quocidianadicitur/ii rim.Qujt Phy ficis eft r7ifw>i.f,Lo£;icis/tr^f/mW;^//^, Soloni/rjc, itcm  hypo^.t/jsMedico c fl: fedimenf^m v rinq: G rcXci s e fl h(Iantia indiuidua Thcologis perfona perronn auten:i Comicis  e^laruabLC, Propterca Grammaticus iflharc onmia scire et declarare deber, 5cquarealijalitervtunturi^confu-  ffonem/ermonis tollere qaantum poteft.  n ItemfigttrasGrammadcales , etfi poteftedan^ Rhe^  thohcas&pocricas dicec«&cbnfl:ni^onem orationis. 6cvaTiof diceodi modos rem eandemi & eiiocleandi de  linguain Ungixam :id quod dicitorinr^rpr^cacio;  la Vcitor enim grammaticos etymologia: interpretatione, dercriptione, 6cdefinitioneali (^ando, fioecircom' Locutione, quando vocabulum ceriumnon habet vel  res vocara, eftignota. Etymologia docet;vnde vox imponiturV& quaratione. Addetquc! quas pafTa eft mutationesapudmul-  tos. Interpreratio de lingua in linguamfert notitias, bL  de proprietate ad metaphoras et ceconiierfo. Defcripno REM SIGNIFICATAM PER VOCABULUM MONSTRAT ex effedibus et similitudine aliarum et quiburcumque potefl adminicolis. Definitio per similitudinem, ic dissimilitudinem  proprias, est entialeiqnevr per genos et differentiam et  circomlocutio pertni|Ica vocabula unum deciarat.  1% 'Jteni notabit Grammatieos synonima, vnioo<sa, jtk  qoioocai;^ 6c denomination^s. Ad qoas redocitor dertnatto vocabi^bt»i»i$[ Vul^ & cafoom ex noroinaCt;  cioo.6c temporom.ex priHnf^teritis & fotorit,vtnotar jGcIliosnon femei» Icem'compofttione$,& parcico]as; emimqtievfQSyVtin i.lib. notacom est. Item qua pars orationis eft quje libetdidio, qUem Iocum habet inuruura: 8cqucm cafum exigit, &c. Dccarminis et accentus notitia dicemus in poetica, quienccefTaria eft Grammatico ad docendum pronunciationes. Item de figurisorationis in Rhetorica esl: fermor quac necessaria rTunt ad fermones eorundem enucleandos. De figuris vocabuloxam &, ftrudura & liocin; Ibco cJttac syntagOtta,;  j4ffendix dc phi UJophka lingua infiitutione.  Slquis novam linguam philosophica constituere vellet  formare literas debec consimiles instrumentis et sufficiences abfque variatione in copula vocalijum cum consonancibus, vcm r. lib & in Poccica docuimus.  Imponere nomma ex reram nacura & propriecacibu Verba omnia ex nominibus deriuare & vnius cbniugationis omnia excepco substantivo & omnia cempora  onmibus cribuere et ordinare ea ex adibus essendi, existendi, operandi, agendi, et patiendi. Parcicipia pra:cerici, et pnefencis, se fucuri cam adiua quam paf Hua. caniaiSlu aliaqiuun pocencialia. Pronomina omnia iuxca omnes species suas et non a  dissidentia. Adverbia exmodi$, locis, temporibus et circumstantiis a (3: cum addere. Adnomia vero ex circunstantiis et re spedibus. Coniunctiones temporales,  locales, sociales, difrocxale$, continuativas, conditionales et  alias ut suo in loco  dictum est.  Casus omnes distindos in fine, et articulos ponec æquivoca, synonima, et metaphoras ab olebic: cunitis rebus proprium dabic vocabulum, ut tollat confussionem, quas videtur pulcracum sic vitium in oIitum: hac omnia in libris hiscecribus liquido constanc, et ex Mc- altius constant. Ars mensurandi versus in poetica posita est syllabarum quantitate sufficic quod Grammatici feribu QC rationes autem a poetica pecancur. Tommaso Campanella, al secolo chiamato Giovan Domenico Campanella, noto anche con lo pseudonimo di Settimontano Squilla. Tommaso Campanella. Settimoontano Squilla. Giovan Domenico Campanella. Campanella. Keywords: utopia italiana, lingua artificiale, lingua perfetta, la lingua d’utopia, lingua utopica, l’utopia di Campanella, il problema del linguaggio nella utopia di Campanella, grammatica la prima parte della sua filosofia rationale, citato da Vivan Salmon (Keble, Oxford) per il linguaggio inventato per megliorar il linguaggio volgare. Grammaticalium libri tres, Parigi, vietnamita, armeno. Deuteron-esperanto—Highway Code -- Italia. Campanelliana  civitas solis CIVITAS SOLIS – Taprobane – Sri Lanka -- -- Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Campanella," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Grice e Canio: la filosofia romana sotto il principato di Caligola -- il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Porch philosopher, martyred in the reign of CALIGULA (si veda) and mentioned by BOEZIO in his Consolazione della filosofia. Member of the Porch. One of those who opposed Caligola. When Caligola ordered C. to be executed, C. is said to to have thanked him, and to have gone to meet his death calmly and without apparent concern. He is admired for his exemplary demeanour by Seneca and BOEZIO Giulio Canio. Canio.  

 

 

Grice e Cantoni: il Kant fascista – filosofia italiana – Luigi Speranza  (Gropello Cairoli). Filosofo italiano.  “Kant”. Filosofia fascista.

 

Cantoni: l’implicatura conversazionale delle literae humaniores -- Romolo e Remo; ovvero, il mito e la storia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “You gotta love Cantoni; I call him the Italian Hampshire! Cantoni philosophises on ‘anthropology’ and he has not the least interest in past philosophies, -- only contemporary! – Oddly, he reclaimed the good use of ‘primitive,’ meaning ‘originary,’ and he has philosophised on pleasure and com-placent – also on ‘seduction,’ and eros. It is most interesting that he reclaimed the concept of ‘umano,’ when dealing with anthropology, as he considers the ‘disumano’, and the ‘crisi dell’uomo,’ and also the ‘desagio dell’uomo’ – He has philosophised on the complex concept of the ‘tragic’ alla Nietzsche – and he dared translate my métier and Fichte’s bestimmung as ‘la missione dell’uomo’! – Like other Italian philosophers they joke at trouser words and he has philosophised on ‘what Socrates actually said’! My favourite is his treatise on Remo and Romolo in ‘mito e storia’. In opposizione alla tradizione storicista, idealistica crociana si occupa di cultura e storia usando contaminazioni sociologiche e antropologiche. Per queste aperture venne considerato uno dei maggiori promotori dell'antropologia culturale in Italia. Nel solco del maestro Banfi e uno dei maggiori esponenti della scuola di Milano. Oltre ai numerosi volumi pubblicati fonda le riviste Studi filosofici e Il pensiero critico.  Fu allievo di Banfi, amico di Sereni e Formaggio. Nella cerchia di amicizie di Banfi conobbe Antonia Pozzi che di lui si innamorò di amore non corrisposto. In una lettera a Sereni ella scrisse. Non riesco nemmeno a trarre un senso da tutti questi giorni che abbiamo vissuto insieme: sono qui, in questa pausa di solitudine, come un po' d'acqua ferma per un attimo sopra un masso sporgente in mezzo alla cascata, che aspetta di precipitare ancora. Vivo come se un torrente mi attraversasse; tutto ha un senso di così immediata fine, e è sogno che sa d'esser sogno, eppure mi strappa con così violente braccia via dalla realtà. Sempre così smisuratamente perduta ai margini della vita reale: difficilmente la vita reale mi avrà e se mi avrà sarà la fine di tutto quello che c'è di meno banale in me. Forse davvero il mio destino sarà di scrivere dei bei libri per i bambini che non avrò avuti. Povero Manzi: senza saper niente, mi chiamava Tonia Kröger. E questi tuoi occhi che sono tutto un mondo, con già scritta la tua data di morte. Un'ora sola in cui si guardi in silenzio è tanto più vasta di tutte le possibili vite. C. define come primitivo quel pensiero sincretico che non distingueva nettamente tra mito e realtà tra affezione e razionalità. In questo senso "primitivo" assume una valenza psicologica più che antropologica. Il pensiero mitico, scrive in "Pensiero dei primitivi, preludio ad un'antropologia", non è "arbitrario e caotico", ma pervaso di una razionalità, una razionalità fusa in un crogiuolo affettivo. Yna delle differenze fondamentali tra il pensiero moderno e quello primitivo consiste nel fatto che il pensiero moderno ha una chiara coscienza della relazione e dell'intreccio delle varie forme culturali tra loro e può sempre transitare da una all'altra quando lo voglia; mentre noi sappiamo, ad esempio, che v'è un conflitto tra la scienza e la religione, l'arte e la morale, il sogno e la realtà, il pensiero logico e la creazione mitica, i primitivi mantengono tutte queste forme su di un piano indistinto per cui fondono e confondono ciò che noi non sempre distinguiamo, ma possiamo pur sempre distinguere. Questa mancanza di distinzioni nette è uno dei caratteri più salienti della mentalità primitive. Quindi sogno e realtà trapassano uno nell'altro e costituiscono nella loro saldatura un continuum omogeneo. Si ocupa  occupò con prefazioni, traduzioni, curatele e altro di Kierkegaard, Dostoevskij, Nietzsche, Kafka, Spinoza, Fichte, Renan, Hartmann, Huxley, Balzac, Jaspers, Banfi, Durkheim, Sofocle e Musil.  Altre saggi: “Il pensiero dei primitivi, Milano: Garzanti); Estetica ed etica nel pensiero di Kierkegaard, Milano: Denti); Crisi dell'uomo: il pensiero di Dostoevskij, Milano: Mondadori, Milano: Il Saggiatore); La coscienza inquieta: Soren Kierkegaard, Milano: Mondadori, Milano: Il Saggiatore; Mito e storia, Milano: Mondadori); La vita quotidiana: ragguagli dell'epoca, Milano: Mondadori,  (articoli apparsi su "Epoca"); n. ed. Milano: Il Saggiatore); La coscienza mitica, Milano: Universitarie,  (lezioni dell'anno accademico) Umano e disumano, Milano: IEI); Il pensiero dei primitivi, Milano: La goliardica, Il tragico come problema filosofico, Milano: La goliardica); La crisi dei valori e la filosofia contemporanea: con appendice sullo storicismo, Milano, Goliardica; Filosofia del mito, Milano: La goliardica); Il problema antropologico nella filosofia contemporanea, Milano: La goliardica,  Tragico e senso comune, Cremona: Mangiarotti; Società e cultura, Milano: Goliardica, Filosofie della storia e senso della vita, Milano: La goliardica, Scienze umane e antropologia filosofica, Milano: La goliardica,  Illusione e pregiudizio: l'uomo etnocentrico, Milano: Saggiatore, Storicismo e scienze dell'uomo, Milano: La goliardica, Personalità, anomia e sistema sociale, Milano: Goliardica); Che cosa ha veramente detto Kafka, Roma: Ubaldini); Il significato del tragico, Milano: La goliardica, Introduzione alle scienze umane, Milano: La goliardica); Che cosa ha detto veramente Hartmann, Roma: Ubaldini,  Robert Musil e la crisi dell'uomo europeo, Milano: La goliardica, Milano: Cuem); Persona, cultura e società nelle scienze umane, Milano: Cisalpino-Goliardica); Antropologia quotidiana, Milano: Rizzoli); Il senso del tragico e il piacere, prefazione di Abbagnano, Milano: Nuova, Kafka e il disagio dell'uomo contemporaneo, con una nota di Montaleone, Milano: Unicopli).  Attiva tra 1950 ed il 1962 e edita dall'Istituto Editoriale Italiano  Lettere d'amore di Antonia Pozzi Carlo Montaleone, Cultura a Milano nel dopoguerra. Filosofia e engagement in Remo Cantoni, Torino: Bollati Boringhieri, Genna, «Il pensiero critico» di C., Firenze: Le Lettere, Massimiliano Cappuccio e Alessandro Sardi, Remo Cantoni, Milano: Cuem, Reda, L'antropologia filosofica di Remo Cantoni. Miti come arabeschi, Fondazione Ugo Spirito, Antonia Pozzi Antonio Banfi Scuola di Milano Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Remo Cantoni Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Remo Cantoni  sito di Antonia Pozzi, su antoniapozzi. Filosofia Letteratura  Letteratura Università  Università Filosofo Accademici italiani Professore Milano MilanoStudenti dell'Università degli Studi di MilanoProfessori dell'Università degli Studi di Cagliari Professori della SapienzaRomaProfessori dell'Università degli Studi di PaviaProfessori dell'Università degli Studi di Milano Fondatori di riviste italiane Direttori di periodici italiani.  Haverfield. The Study of Philosophy at  Oxford   A LECTURE   DELIVERED TO UNDERGRADUATES READING FOR   THE LITERAE HUMANIORES SCHOOL. Lectures are seldom published singly unless they  have been read on ceremonial occasions to a general  audience and to which their style and subject are suitable. My present lecture is not of that kind, since it is addressed to mere pupils, or ‘under-graduates’ – those below the minimum qualification here at Oxford, the B. A. But I am delivering it to undergraduates beginning the study of  philosophy at Oxford, since H. P. Grice thought it would be a good idea, especially for those pupils coming from, of all places, Italy. The purpose of my lecture, then, is to set out in the plainest words the main features of that study. It aims at  emphasising three points. First, the need well known  to all, but realised by few, of the chronology of philosophy (e. g. Locke – Hume – Berkeley) --  and still more  of geography (Cambridge to the south-west of Oxford), as geography is now understood, in any  study of philosophy (where is Koenigsberg?). Second, the character of the Oxford philosophy course as a study of rather short periods – say, philosophical analysis between the two world wars, to echo the title of J. O. Urmson’s essay -- based  on a close reading of the authorities: H. P. Grice, and his followers. Third, the relation between Italian and Oxonian philosophy – none --  which by their very differences supplement each other  to an extent which learners and even teachers do not  always see what is not there to be seen. At the end I will say a word or two – but not in Italian! -- about the  connection between this course and the training of  future researchers. Some of my colleagues, who kindly read  the lecture in typescript, told me that, if published, it  would help “those Italian pupils” and interest others elsewhere  who have to do with the study of philosophy. I once had a pupil who began his Oxford course by reading for Classical Honour Moderations. Reasons which I have forgotten made him change his plans after  a term or so. He took up Pass Moderations instead and  I had to teach him for that examination! He was very confident that he could surmount the Pass hedges with complete ease, but I had soon to tell him that the work  he had done for Honours would lead him straight to  a heavy fall. He could translate Berkeley alright, or most  parts of them. But he had just no idea whatever of getting up its content – what Berkeley meant --, and when one asked him the usual  question, 'He meant what? ', he was beaten. The difference which my pupil found to exist between  Pass and Honour Moderations is almost exactly the  difference which, even after recent changes, still divides  Honour Moderations from “Literae Humaniores”. This  difference is not so much, as the language of our Oxford statutes might suggest, a contrast between the classics on the one hand and Ordinary-Language Philosophy on the other. It is, rather, a variety  of the old difference between Aoyoy and e'pyoz/, between  the language which is the form, and the fact, which is  the content. I am told that, in reading for Honour  Moderations, a man learns how to translate Cicero – or “Cicerone,” as the Italians miscall him -- and to imitate his style. I know, by my own experience, that  he hardly ever learns what Cicero MEANT. A pupil may scramble through any page of the ACCADEMICA with whih he shall be confronted, and you’ll soon find out that he is utterly unable reproduce the matter of what CICERONE meant for any purpose whatever, and if  you ask him in detail why Cicerone called the thing “Accademica”, the chances are  that he does not know – or worse, care.  In reading for Greats, a man goes almost to the *other*  extreme. Whether he can translate CICERONE into reasonable Oxonian becomes a trite point. What he has  to know and what, I think, in general he does know, is what Cicero MEANS – not just in ACCADEMICA, but in the concept of the ‘probabile’. He may not know it with all the  refinements and shades of meaning that an accurate  scholar such as Grice shall detect, but he does get a sound general  idea of Cicero's meaning – if not his ‘implicature,’ as I say.  His danger now is that he neglects the form. He is bidden to compose ‘the essay’ on a philosophical topic every week for FIVE years! These essays are only too often ayamV/zara e?  rb irapaxpfjpa, agonised efforts at the eleventh hour, and, even if they rise superior to such human frailty and are result of exhaustive and deliberate reading in the dark chambers of the Sheldonian, both  teacher and taught tend to set more value on the essay’s *content* than on its *form* -- or deliverance: lots of ‘ums’ to be expected. Sixty or eighty years ago  the “Literae Humaniores” School was considered to give  a special training in lucidity of language and in logical arrangement of matter. That has gone into the background. Of the three great intellectual excellences which this School might develop, powerful thought and  profound knowledge and clear style, the third now counts as least, if you can believe me. It is not a good resul, but it is a  natural one in a course which is so closely connected  with concepts and facts. Facts are the first need of the student of philosophy: who wrote the Critique of Pure Reason, and why? Why did he choose such an obscure Teutonic idiom to express his vague idea? He must know 'who did what when,’ and hopefully, ‘where.’ Indeed,  if he knows the facts of philosophy in the order which they occurred (Anassagora after Anassimandro), he can often reconstruct and interpret the long history of philosophy for  himself. There is a vast deal more value in dates than the most early Victorian schoolmistress ever suggested to her classes. Half the mistakes and misunderstandings in our current notions of modern Oxonian philosophy arise from some  belief that events – i. e. the publication of books, etc. -- happened at OTHER than their actual  dates. Much, for example, has been written about the  causes of the decline and fall of the Roman Empire, but why did Marcus Aurelius addressed his memories to HIS SELF? Among these causes the depopulation of Italy and of the  Roman Provinces has been quoted as one of the most  important reasons for the creation of Oxford. But, when one comes to examine the facts,  it appears that a great deal that is urged under this head  is a transference to the Empire of an agrarian evil which  belonged to the Republican period and which probably  lasted only for three or four generations. Those who  hold this evil wholly responsible for the fall of the Empire, start with a chronological  blunder, and naturally do not reach even a plausible  solution of their problem, as Nerone would! So again in smaller problems. The critics of the  Roman Emperor CLAUDIO, the ancient parallel (as is  generally said) to James I (who reined over Oxford) usually omit to  notice what sorts of events occurred in what parts of his  reign. As it happens, dates show that he, or maybe  his ministers, began with an active and excellent policy. They boldly faced foreign frontier questions which had  been neglected or mismanaged by their immediate predecessors. They took steps to amalgamate the  Empire by romanizing the provincials. They carried  out numerous and useful public works. Dates also  show that, after some six or seven years of good administration, they fell intelligibly enough into evil  ways. We might indeed apply to Claudius the idea of  a quinquennium of five years' wise rule which is usually  ascribed to Nero. And curiously enough, if we go to  the bottom of the facts about Nero, we find that the  outset of his rule was marked by no want of unwisdom  and crime and that the notion of a happy first five years  is a modern misinterpretation of an ancient writer who  meant something quite different. Begin history therefore with the plain task of knowing dates and facts.  Write them out large if you will, and stick them up over  your bed and your bath.  There is another simple-seeming subject which  students of history, and above all of ancient history,  must not neglect. I have mentioned the old question,  ' who did what when ? ' There is an equally important  question, 'who did what where?' It is no good studying history, and above all ancient history, without  studying geography, and geography of the right sort.  The subject is, of course, held in little honour even at  some Universities. Cambridge lately  issued a small series of maps to illustrate an elaborate  work on mediaeval history. On the first, or it may be the second, of these maps, London is shown to be  33 miles from York and 43 miles from Paris, while the  sea passage from Dover to Calais is about 4 miles long.  This is, no doubt, an exceptional view of the world. But  our ordinary attitude to geography is little more satisfactory. Very often, when we admit the subject at all,  we confine it to lists of place-names and of political  boundaries, which are mere abstractions and convey  nothing definite to the average student. Or else, under  the title of geography, we bring in the important, but quite distinct study, of the topography of battle-fields,  a study which is not really geographical, which is  specialist in character, and which is suited properly to  those who are particularly interested in the details of  ancient tactics and strategy. If we are to make any-  thing of geography, we must get beyond this. We  must treat it as the science which tells us about the  influence (in the widest sense) of the surface of the  earth on the men who dwelt upon it.   In the earlier ages of mankind this influence was  enormous. It was far greater than it is in the present  day : it was greater even than in the Middle Ages. In  the youth of the world, in the days which we are still  apt to picture to ourselves as the ages of innocence and  unconstrained simplicity and pastoral happiness, man-  kind lived in fear. He knew he was weak, weak alike  in his conflict with nature and his conflict with the  violence of other men. Whenever he advanced a little  in civilization, in wealth, in comfort, he was beset by  terror lest hostile outside forces should break in and  destroy him and his civilization together. If he looked  back over preceding ages, he found one long tale of  wreckage, of nations that went down whole to a disas-  trous death, of towns stormed at midnight and destroyed  utterly before dawn, of unquenchable plagues, of con-  suming famines. These evils came from many causes.  But among the causes the character of the earth's sur-  face is by no means the least potent, though it may not  seem the most obvious. Man had not then learnt to  tunnel through mountains and traverse the worst and  widest seas, and thus ride superior to the great barriers  which nature has set between human intercourse. Nor  had he acquired that coherence of political government and social system which can sometimes defy moun-  tains or seas and successfully battle with pestilence  and hunger. He was ruled by his geographical  environment.   The form in which this environment affected him was  very definite. It was the broad features of the earth's  surface which then especially influenced mankind that  is, the general distribution of hills and of plains, of moun-  tain heights and mountain passes, of river valleys and of  gorges breaking these valleys up, of harbours and rocky  coasts, of trade winds which brought or failed to bring  rain. All the simple and general physical conditions  which affect comparatively large areas in a more or less  uniform way, were felt to the full by the Greek and  Roman world. Illustrations of their influence are strewn  broadcast over the shores of the Mediterranean.   That sea itself provides perhaps as good an example  as any. To-day it is a sea that belongs to many nations ;  one dominant power in it is not even a Mediterranean  state. Under the Roman Empire, it was the basis of  one state whose capital lay in its centre and whose  provinces lay all around it like a ring-fence. The cause  is to be found in geography. The Mediterranean is  not merely, as its name implies, a sea in the middle of  the land : it has more notable features. Though it is the  largest of all inland seas, it is also the most uniform.  Its climate is the same throughout its length and  breadth ; its coasts are equally habitable in almost every  quarter ; therefore, it easily attracts round it a more or  less uniform population and men move freely to and fro  upon it. It is no mere epigram that Algeria is the south  coast of Europe. Moreover, as modern strategists have  noted, it is dominated, as no other sea is, by the lands which surround it and by the peninsulas and islands  which mark it. Therefore, it was singularly fitted to  form the basis of any Empire strong enough to control  so large an area. It aided the formation of the Roman  Empire. It determined parts of its constitution, notably  its semi-federal provincial system. It provided the unity  needful for its trade and language and intercourse. We  can mark the influence of this sea even in pre-Roman  politics. Though it was then divided up between  Greeks, Persians, Carthaginians, none of them were able  to hold a part of it without at least aspiring to extend  their sway over the whole. Only in the present day,  when political unions have become stronger and more  coherent, is it possible for geography to be put in the  background.   Let me give two more illustrations. To-day Italy  is a south-eastern power: she looks to Tripoli and  the Levant, she finds her outlets and she passes on  her traffic from Brindisi eastwards, and her sons are  scattered over the eastern Mediterranean. But geo-  graphically if I may repeat a saying which is trite but  nevertheless valuable ' Italy looks west and Greece  looks east', and in the Graeco-Roman world this fact  counted. Thanks to it, the earlier Roman Empire, the  Empire of Augustus and Claudius and Trajan, was  a west- European realm, and its greatest achievements  of conquest and of civilization lay in the western lands  which we still call Latin or Romance. That French  is spoken in France to-day is (if indirectly) a result of  geography. Once more, under the normal conditions  of to-day food is brought to our great towns from  considerable distances along railways or good roads.  We are not much troubled by geographical obstacles; we find human nature a much worse impediment, and  a strike hinders far more than any mountain or river.  In the ancient world as indeed in parts of the mediaeval  world when food was carried along ill-made roads in  / ill-made carts, towns were impossible unless food-stuffs  could be grown close by, and landed estates could not  be worked at a profit unless markets lay within easy  reach. Throughout, we see the Greeks and the Romans  face to face with an external nature which dominated  them as it does not dominate us. If they were not, like  the prehistoric races, living in ceaseless dread, they  were slaves to rudimentary difficulties. It is these  natural circumstances of geography that we cannot  omit from our study of ancient history. Hang up your  maps beside your tables of dates ; draw maps of your  own, and if you would remember them properly, measure  the distances upon them.   I venture to recommend this method of studying  geography along with history for a further reason. It  is the best way of studying geography itself which  ordinary students can use. The pure geographer too  often wishes to teach the facts of the earth's surface  as facts by themselves. He wishes, for instance, that  the student should know the whole configuration of  France, its mountains, rivers, geology, minerals, before  he proceeds to realize the effects of these various  features on the history of the world. That is all very  well for the specialist. But, as one who has taught  geography in Oxford for a good many years, I am  convinced that applied geography is far more easily  learnt by the ordinary man than this more theoretical  and abstract science. By applied geography I mean  the geography of a district studied in definite relation to its history, with definite recognition of which geo-  graphical features mattered in one age, and which in  another, and which in none at all. This method involves  that association of ideas, that learning of things in con-  nexion with other things, which is in truth the most  stimulating and helpful of all aids to knowledge. Here,  as elsewhere, the motto of the teacher should be o-vv  re 8v epxo/jLvc, not in the sense of the teacher marching  along with the taught, but of two kinds of knowledge  helping one another.   4. From these preliminaries of time and space I pass  to the actual study of ancient history in Oxford. The  chief characteristic of that study is its limitation to short  and strictly defined periods. Among these periods  several alternative choices are intentionally left open  to the student. In Greek history he may read, as most  men do, the Making of Greece and the Great Age of  the fifth century. Or he may combine the fifth century  with the story of Epaminondas and Demosthenes and  that curiously modern figure, Phocion, though, for some  reason, he will here find few companions in his studies.  In Roman history he may study the death-agony of the  Republic and the beginnings of the Empire under the  strange Julio-Claudian dynasty. Or he may confine  himself to the Empire and follow its fortunes till the  end of Trajan's wars. Or thirdly he may read though  few care to do so the tale of the conquest of Italy and  of Carthage, the days which formed the great age of  the Republic and the glory of the Senate. In any case  he is confined to one definite epoch of no excessive  length.   Secondly, he will read this epoch carefully with  many and certainly all the most important of the original literary authorities, and these he will read in  the original tongues. The study of a period of history  through the medium of translations is one which finds  no place, at least in theory, in our Oxford ancient  history. This is a point, perhaps, which deserves some  notice in passing. In the present condition of classical  studies there is a strong tendency for men not merely  to study ancient history but even to research, with a  very slight knowledge of the classical languages. In  the local archaeology of our own country this tendency  has existed for centuries, and' it has been usual to work  at Roman Britain without any knowledge at all of  Latin. Abroad, the tendency has been growing of late  years. I have had lately to write for a foreign publi-  cation a paper in Latin on some Roman inscriptions  and I have been a little surprised at the Ciceronian  words which the editor of the publication has pointed  out to me as too likely to puzzle present-day students  of Latin epigraphy. Now, it is probable that an educa-  tional course which studied Greek and Roman history  through translations might have a distinct, though  obviously a limited, educational value. But it is idle  to pretend to go beyond a somewhat elementary course  without knowing the ancient languages.   This Oxford course has been made the subject of  many criticisms. We are told that history is one and  indivisible, and that fragments cut out of their context  not only lose their educational value but become  meaningless. We are told secondly that it is absurd to  omit all the momentous occurrences which lie outside  our limited areas. We are told also that by confining  students to one or even two periods we prevent them  from acquiring a variety of distinct interests and discussing their various periods together and widening their  respective outlooks. Of the first of these I shall say some-  thing in a moment. The other two in my judgement  amount to very little. It is quite true that our system  omits a great deal. But there are after all only two ways  of learning. You can learn a little of many things or you  can learn much of one thing. Unless you are a genius  or a reformer you cannot learn a great deal about  many things. All education is in a sense selective.  Here, as so often, much good may be done by the free  lance. He prevents our selections from being clogged  by pedantry. In the end, however, there must be  selection. Lastly, the third criticism, that the use of  limited periods limits the total width of interest and  discussion among the body of students, does not I  believe apply in the very least to our own system with  its alternative periods and its extraordinary range of  general knowledge.   Moreover, I am clear that, if a limitation of periods  has its evils, it has also solid merits. It has been  generally the English tradition to prefer the plan of  learning much about one subject to that of learning  a little about many, and the warning Cave hominem  unius libri used often to be quoted by Oxford scholars  of forty or fifty years ago. It is a good maxim. For it  does not simply warn us against the tortoise who hides  in his shell ; it points out that the dangerous enemy is  he who knows one subject with exceeding thoroughness,  who controls one weapon with absolute mastery and  precision. The student who really works out one short  period of history, knows one part at least of the ways  of human nature. It is impossible to over-rate the  practical value of such a bit of accurate knowledge of how men move and think and act. Moreover, as  educationalists are constantly and rightly observing,  the power of thoroughly getting up a limited subject,  the complete mastery of all the relevant details, is  a very valuable power in actual life. It may be obtained  in other ways than through a brief period of ancient  history; it could not be gained by a study of ancient  history at large.   5. Ancient History is singularly suited to this method  of the intensive culture of a small plot. If the period  chosen be not very long or very ill-chosen, it is here  possible to combine the following advantages. First,  we can bring the student into touch with periods of the  highest importance, periods which are full of the most  diverse interests and which allow the most different  minds to expand on political or constitutional or economic  or geographical or military problems. Secondly, we let  him come to close quarters with the great mass of the  original authorities, whether written or unwritten, so  that he can compare the account of any event or  problem which is given him by Grote, or Bury, or his  own tutor, with the actual evidence on which it ought  to be based. Thirdly, he can work at historical writings  written in the great style and really worth reading as  literature. There is no part of mediaeval or modern  history of which all this can be said with complete  truth. There we have to face multitudes of charters,  family papers, legal documents, broadsides, which are  far too vast a chaos for a student to overhaul in the  course of his University career, and to compare with  the conclusions based on them. There, too, our authori-  ties are for the most part not even literature by courtesy.  When we ask for original authorities, we are given not a Gibbon but a mass of matter which has no value save  as the husk, too often the tasteless husk, outside a grain  of fact. In ancient history, when all is said and done,  when the longest list of ' books to read ' has been made  out that the most conscientious tutor can devise, the  total will not exceed the powers of a reasonable student.  You will find, indeed, when it comes to lists of ' books  to read', that the philosophical teachers, not the historical  teachers, will go to the greatest length.   6. I have only one criticism of my own to make : our  limited period does ignore the unity of history. We  ought to do something for a view of history as a whole.  Let me quote a historian who is not, I fear, as much  admired in Oxford as he used to be, the late Mr. E. A.  Freeman. He was a writer of the old school, on the  one hand much too fond of battles, sensations, emotions,  and even rhetoric, and on the other hand much too  dependent on written sources and too cold to the charms  of archaeology. Perhaps his true greatness lay in the  realism with which he taught some of the greater  general historical ideas even though he hammered  them home with a wearying emphasis. One such idea  of his was the unity of history, on which I will quote  one of his utterances :   We are learning that European history, from its first  glimmerings to our own day, is one unbroken drama,  no part of which can be rightly understood without  reference to the other parts which come before it and  after it. We are learning that of this great drama  Rome is the centre, the point to which all roads lead  and from which all roads lead no less. The world of  independent Greece stands on one side of it ; the world  of modern Europe stands on another. But the history  alike of the great centre itself and of its satellites on  either side, can never be fully grasped except from a point of view wide enough to take in the whole  group and to mark the relations of each of its members  to the centre and to one another.   These are true words ; how can they be reconciled  with our limited periods ? It may occur to some that  we lecturers should prefix or add to our ordinary courses  some special hours on universal history. Time, however,  would hardly allow for more than eight or ten such  lectures ; the lectures themselves could hardly be other  than in some sense popular, and it is possible that they  would be better read in a book than delivered as a  dictation lesson. There is another remedy in each  man's hand who cares at all for the historical side of  his Schools' work. He can read what he likes of other  and later periods of history in such books as may suit  his own taste. Even on the lowest plane of motives  such reading would not be wasted. It may be less true  than it was, that Greats is concerned de rebus omnibus  et quibusdam aliis. But it is still true that there is very  little knowledge which does not at some point or other  help in the understanding of Greats' work. It is a  School in which a man can ' improve his class ' by not  reading directly for it. Let me now pass to the two individual topics of  Greek and Roman History with which Oxford students  are concerned. People are apt to think that they are  just the same. The educational system which has  dominated Western Europe for the last three centuries  sets the Greek and Latin, language, literature, and history,  side by side, as subjects which may be studied and  taught by the same men and the same methods. Even  now it is supposed in some places of instruction, that  a man who is competent, perhaps extremely competent, to teach Greek History, will be equally competent to  teach any part of Roman History. But we are begin-  ning to learn that Greece and Italy are not the twins  which they seemed to our forefathers. We know that  the Greek and Latin languages stood in their origins  far apart ; that Latin, for example, comes nearer to  Celtic than to Greek ; and we shall have to recognize  something of the sort in reference to Greek and Roman  History. But here fortune favours us in a remarkable  and indeed quite undeserved fashion. For these two  subjects are in reality so dissimilar that their very  differences form a rare and splendid combination. Each  supplies what the other lacks. Together, they remedy  many of the evils which arise from the limitation of the  periods studied. They differ, firstly, in the character  of the original authorities for the two subjects and in  the different historical methods which the student is  constantly required to use. They differ, secondly, in  the actual events which they record and in the kinds  of lessons which they teach. The one shows us  character and the other genius. The one confronts  us with the city state, the other with the full range  of problems of a world empire. The one exhibits the  different forms of political development proper to the  brief life of Greece, the other the principles of constitu-  tional growth which was gradually unrolled in the long  history of Rome.   8. First, as to the authorities. Alike in his Greek  and in his Roman history, the Oxford learner has to  deal with a large part of the original authorities for  the periods which he is studying; he has to study  those periods with definite reference to the evidence  of the authorities, to appraise their general value and to criticize in detail the meaning of their various  assertions. But these authorities are by no means  uniform. On the contrary, those which he meets in  Greek History and those which he meets in Roman  History are startlingly unlike. The history of Greece,  at least during the great age of the fifth century,  depends on two first-rate historians, whose works have  reached us intact, and who form the predominant and  often the only authorities for the series of events which  they describe, Herodotus and Thucydides. Everything  else that we know of this age can be hung by way of  comment or criticism, foot-note or appendix, on their  narratives. The evidence of lesser writers, of geo-  graphical facts, of inscriptions or sculptures or pottery,  may be and often is very valuable, but it is always  subsidiary. This is especially true of Greek inscrip-  tions, which I mention here partly because I shall have  presently to say something of the very different character  of Roman inscriptions. By far the largest and the most  important sections of Greek inscriptions are lengthy  legal or financial or administrative documents, such as  in modern times would be engrossed on parchment or  printed on paper. They are, indeed, just like those  documents which the student of early English History  finds selected and edited for him by Bishop Stubbs.  There are, no doubt, other Greek inscriptions, such as  tombstones. But the epitaphs of Hellas can rarely be  dated ; they rarely belong to the historical periods  studied in Oxford, and they rarely say enough about  the careers or official positions of the dead, or of their  heirs and kinsfolk, to be used for historical inductions.  Like Stubbs* charters, therefore, Greek inscriptions are  best suited to provide the foot-notes and technical appendices to connected literary narratives. It is a curious  and a pleasant chance which has given us for a unique  period of history both admirable narratives and a copious  supply of supplementary inscriptions.   Turn now to Roman History. The Roman historian  has a different and more difficult task than his Greek  colleague. In the long roll of centuries which form  his subject, the literary narrative and the subsidiary  evidence are often defective and seldom united. Not  one single writer is at the same time a great writer and  contemporary and continuous. The Republic has been  described for us by authors who either, like Livy, wrote  long after most of the events which they describe, or  who lived at the time, like Cicero, but wrote no con-  tinuous history, while it is painfully true that most of  the ancient writers on the Republic have little claim  to be called good historians. Nor is this all. These  writers, good or bad, Polybius or Livy or Appian, are  very imperfectly preserved ; our stuff is fragmentary.  We have to deal with a mosaic that has been shaken in  pieces : we have to form our picture out of patchwork.  Nor, lastly, is there supplementary evidence to aid us.  Archaeology throws singularly little light upon the  history of the Republic. Excavations, like those of  Adolf Schulten at Numantia, have shed some light, and  there is no doubt more to come when Spain has been  better opened up : more also may perhaps be gleaned  some day from southern Gaul. But the Republic was  one of those states which mark the world, but not indi-  vidual sites, by their achievements. Such in Greece  was Sparta : and, as Thucydides saw long ago, the  history of such States must always lack archaeological  evidence. The Roman Empire was in many ways a new epoch.  It is natural that the authorities on which our knowledge  rests should be in some respects unlike those of the  Republic. Continuous literary narratives are still few,  and their value is not very great. Like many important  political organizations, the Roman Empire was only half  understood by the men who lived in and under it or  perhaps, as Kipling says of the English, those who  understood did not care to speak. Not even the greatest  of the Imperial historians, Tacitus, appreciated the state  which he served and described. He gives his readers,  for home politics, a backstairs view of court intrigues,  and, for foreign affairs, a row of picturesque or emotional  pictures of distant and difficult campaigns described  with a total absence of technical detail and a surfeit  of ethical or rhetorical colouring. All the real history  of the centuries of the Empire was ignored by almost  every one of those Romans or Romanized Greeks  who essayed to describe it. Moreover, this literary  material, like that of the Republic, is broken by all  manner of gaps. We have painfully to reconstruct our  narrative out of detached sentences and chance frag-  ments and waifs and strays from works which have  perished.   On the other hand and here the difference between  Republic and Empire comes out clearest the archaeo-  logical evidence for the Empire is extensive and extra-  ordinary. No state has left behind it such abundant and  instructive remains as the Roman Empire. Inscriptions  by hundreds of thousands, coins of all dates and mints,  ruins of fortresses, towns, country-houses, farms, roads,  supply the great gaps in the written record and correct  the great misunderstandings of those who wrote it. Most of this evidence has been uncovered in the last two  generations : the Empire, misdescribed by its own  Romans, has risen from the earth to vindicate itself  before us. The largest part of this new material is supplied by  the inscriptions. A few of these are documents, such  as form the bulk of the Greek inscriptions which I have  mentioned already, and of those few some five or six at  least are perhaps of greater importance than any other in-  scription, Greek or Roman, that has yet been found. But  the great mass are not in themselves individually striking.  Their value depends not on any special merits of their  own, but on the extent to which they can be combined  with some hundreds of other similar inscriptions. If  Roman History is the record of extraordinary deeds  done by ordinary men, it is also a record of extraordinary  facts proved by the most ordinary and commonplace  evidence. The details directly commemorated in the  tombstones or the dedications or similar inscriptions  which come before us seldom matter much. It is no  great gain to learn that water was laid on to one fort  in one year and a granary rebuilt in another fort a  dozen years later. But if you tabulate some hundreds  or thousands of these inscriptions, they reveal secrets. Take, for instance, the birth-places of the soldiers, which  are generally mentioned on their tombstones. Each by  itself is a trifle. It is quite unimportant that a man came  from Provence to die in Chester or from Asia Minor to  serve at York. But, taken together, these birth-places  tell us the whole relation of the imperial army to the  Roman Empire. We can see the state gradually drawing  its recruits from outer and yet outer rings of population.  We can see the provincials beginning to garrison their own provinces. We can see the growth of that barbariza-  tion which befell the Empire when it was compelled, in  its long struggle against its invaders, to enlist barbarians  against themselves. From similar evidence we can  deduce the size of each provincial army ; we can even  catalogue the regiments which composed it at various  dates and the fortresses which it occupied, and can trace  the strengthening or the decay of the system of frontier  defence. It is true, indeed, that inscriptions of this  character are not very easy for students to deal with.  For they have to be taken in unmanageable masses,  and they often involve remote problems of dating and  interpretation. But selections, such as those of Wil-  manns or Dessau, will help the learner through, and the  short courses on Roman Epigraphy which are now given  in Oxford will start him on his road.  I do not know whether I shall seem an unbending  conservative or a hopeless optimist or a liberal who  is trying to make the best of a bad business. But  the facts which I have just stated suggest to me that, in  respect of the training which they give x in historical  method, Greek and Roman History, as studied in Oxford,  fit into each other and supplement each other in a most  happy manner. . Almost every form of authority, the  first-rate narrative, the second-rate abridgement, the  stray fragment, the long legal document, the brief in-  scription of whatever kind, all the varieties of uninscribed  evidence, come before him in turn. He has to consider  and weigh these, and, whether he proposes in after life  to research in history or prefers the active business of  trade or politics, he will gain much by the criticism  which this task imposes on him. To survey many state-  ments made by fairly intelligent men, many accounts of complicated and obscure incidents, is to train the  judgement for practical life quite as much as for a  learned career. We talk somewhat professionally of  archaeological evidence. It is well to remember that,  if that evidence had happened to refer to the present,  instead of the past, we should call it economic and not  archaeological : so much of it refers to just the things  which engage the reader of an ordinary social pamphlet.  If Greek and Roman History thus supplement  each other in respect of historical methods, they do so  still more in respect of the historical problems of  political life and of human nature which they bring  before us. In one or the other of them we find most  of our modern difficulties somehow raised, and in many  cases one aspect is raised in Greek History, another in  Roman. In the first place, there is the contrast of  character and genius, which is really the twofold con-  trast of individualism as opposed to common action and  of intellect as opposed to practical common sense.  Greek History is a record of men who were extra-  ordinarily individual, extraordinarily clever, extraordi-  narily disunited. Our Oxford study of Greek History,  divorced as it is by chance or necessity from the study  of Greek poetical literature and of Greek art, lets us  forget how amazingly clever the Greeks were and the  place which intellect and language and writing played  in their world.   Roman History, on the other hand, is the record of  men who possessed little ability and little intellect, but  great force of character and great willingness to com-  bine for the good of their country to produce a result  which was not the work of any one of them. The  history of the Roman Republic in its best period, in the great age of the Punic wars, is in very truth ' a long  roll of extraordinary deeds done by ordinary men '.  This aspect of it is, of course, less prominent in the  later Republic, the period of revolution, than in the  greater epoch which we here so seldom study. But  it reappears with the Empire. Though the historians  of the Principate generally talk of nothing but the  Princeps, we can detect throughout a background of  hard-working, capable, probably rather stupid governors  and generals in the provinces. If any one wishes to  study the conflict of genius and character, that conflict  which a hundred years ago the English waged with  Napoleon, and to realize the defects of being clever and  the advantages of being stupid defects and advantages  which (I am bound to say) are overrated by the average  Englishman he will find this in his Greek and Roman  History. There are few lessons for guidance in practical  life and politics which are so valuable as an under-  standing of this simple-seeming subject.   Again, in respect of constitutional history, Greece  and Rome supplement one another in a useful way.  The history of Greece, and especially of Athens, is too  short to include a long and orderly constitutional  development. But it does teach a good deal about the  nature and value of those paper constitutions which are  in reality political rather than constitutional, but which  play their part more particularly in the acuter crises  of almost all ages. Rome, too, in the earlier part of  the death-agony of the Republic, in the generation  which began with the Gracchi and ended with -Sulla,  saw several of these pseudo-constitutions. But the  Athenian examples teach us most, if only because they  are the work of an intellectual race, which believed  firmly in the value of things which could be written  down on paper.   Rome, on the other hand, shows that slow growth,  here a little and there a little, of constitutional life on  which true constitutional philosophy is based. Nowhere  can we find so near a parallel to our English constitu-  tion as meets us in the flexible order of the Roman  Republic and Empire. Nor is this all. Of most con-  stitutions, as of our own, we know the maturer years,  but not the details of the birth and infancy. But the  Roman Empire is, as it were, born before our eyes.  The cold unostentatious caution of Augustus may, no  doubt, have left his contemporaries a little doubtful  whether the old had really died and the new been born,  and the scanty records which have survived shed an  uncertain light. Yet the fact is plain, and the manner  in which it happened.   ii. And thirdly, Greek history sets forth the successes  and failures of small states and of ' municipal republics ',  while Rome exhibits the complex government of an  extensive Empire. For the present day the second  matters most. Perhaps the world will never see again  a dominion of city-states. The fate of the Polis was  sealed when Plato wrote his Politeia and called for  philosopher-kings. It was more decisively settled when  the Romans discovered that men could be at once  citizens of a nation and citizens of a town. The failures  of the mediaeval Republics of Italy and Germany to  maintain themselves against the stronger powers of  Emperors and Tyrants simply emphasized the result.  The world will have to supply otherwise that intellectual  and artistic splendour which has been the finest fruit  of the city-states. But the administration of a great Empire concerns many men to-day and in a very vital  manner. Our age has not altogether solved the pro-  blems which Empires seem to raise by their very size  the gigantic assaults of plague and famine, the stubborn  resistance of ancient civilizations and nationalities to new  and foreign ideals, the weakness of far-flung frontiers ;  it can hardly find men enough who are fit to carry on  the routine of government in distant lands. The old  world was no better off. Too often, its Empires quickly  perished ; too often, they survived only through cruelty  and massacre and outrage. Rome alone did not wholly  fail. It kept its frontiers unbroken for centuries. It  spread its civilization harmoniously over western and  central Europe and northern Africa. It passed on the  classical culture to new races and to the modern world.  It embraced in its orderly rule the largest extent of  land which has ever enjoyed one peaceable and civilized  and lasting government. It was the greatest experiment  in Free Trade and Home Rule that the world has yet  beheld. I have limited myself in the preceding remarks to  ordinary matters which come in the way of ordinary  students. I am well aware that we can add to the  Oxford ancient history course other and more delightful  vistas down the by-ways of folk-lore and religion, of  anthropology and geology. We can trace in Herodotus,  quite as plainly as in the Oedipus Tyrannus, that sub-  stratum of savagery which underlies all ancient and  most modern life, and which lay closer to the Greek,  despite his intellectual refinement, than to the less  humane but more disciplined Roman. We can plunge  into the labyrinths of 'Middle Minoan' and classify  'protos' from all the coasts of the Aegean and the Levant. We can trace from geological ages the growth  of the continents and seas and climates which made up  the background of the older Europe. These things are  full of interest, and for some minds they are both a relaxa-  tion and a stimulus. They are not, I fear, so well suited  to all of us. There is, indeed, enough in the nearer fields  of ancient history for any student to fill his time with  the more obvious subjects of politics and geography and  economics and archaeology. He may even, if he wishes,  find in his prescribed books an opportunity of beginning  to prepare himself for research. He cannot, indeed, as  in the Modern History School, offer as part of his degree  examination a dissertation on a subject chosen by him-  self, and I am not quite clear that, if he did, his thesis  would be worth very much. But his study of original  authorities may teach him not only how to weigh the  statements of men for practical purposes, but also to  note how history is built up out of such statements. He  can even carry his examination of original authorities  far enough to approach the region of independent work,  and to go through some of the processes which are  connected with the august name of the Seminar.   But, let me add, this historical course which gives  the man who wishes it a glimpse of what research  work means, is not, and cannot be, a full preparation for  it. For that a further training is indispensable, whether  it be in archaeology or in any other subject, and that  training cannot be included in the ordinary curriculum,  since it is only a tiny fraction of the whole body of  students which intends to, and is fit to, pass on to  research. The ordinary course lays the foundation of  general knowledge, without which it is useless to  attempt any advanced study. The advanced work prepares a few competent men for original and inde-  pendent research, and the function of the Seminar  in Oxford would seem to be to train such men, if they  will stay here, after they have finished the ordinary  course. I had once a pupil, an American, who wished  to work for a ' research degree ' by offering a disserta-  tion on a subject in Roman History. He asked to be  allowed to attend two courses of my lectures, one a  general sketch of the early Empire, the other a some-  what more advanced treatment of Roman inscriptions.  After a while, he asked if- he might drop the latter  course ; he had, he said, already heard a good deal of  it in his own American University. When I replied  that in that case he had better drop the elementary  course also, he told me that this was mostly new to him.  It appeared, on inquiry, that his teachers had given  him no training in general Roman History ; they had  taken him through a series of important inscriptions,  had explained to him the persons and things which  happened to be mentioned therein, and had said nothing  of other persons and things which chanced not to be  mentioned. This is, of course, not a fair specimen of  University education in America. It is, unfortunately,  a rather good example of the mistakes often made by  those who are too eager to encourage advanced study.   I am told that I ought to conclude such a lecture as  this by practical hints on the way in which men should  1 read their books '. The one hint I care to give is to  attend to the matter and not only to the manner. There  are many devices which will help in this. It is, for  instance, an aid to some students to read their ancient  texts twice, in two different languages, first in the  originals and then in some translation, in English or French or German, using these translations not as  ' cribs ' but as continuous and (in a sense) independent  narratives. But different men work by different  methods, and it is not always easy to give sound  general advice. An individual teacher may aid indi-  vidual men by advice suited to them personally, and  his personality may inspire whole classes. But general  advice, a panacea for every learner, is a rather dan-  gerous thing. It is not, indeed, always much use to give  it. I remember a friend of mine who once attended  such a lecture as this. When I asked him what prac-  tical good he had got out of it, he told me that the  lecturer advised his hearers to buy pencils with blue  chalk at one end and red chalk at the other and to mark  their Herodotus in polychrome. He bought the pencil :  the day after his examinations were over, he found the  pencil still uncut. Remo Cantoni. Keywords: Romolo e Remo; ovvero, il mito e la storia, Carlo Cantoni, filosofo, Remo Cantoni filosofo, mito e storia, implicatura mitica, la morte di Remo, prejudices and predilections, umano, preludio a un’antropologia, umano, umanismo, literae  Humaniores – literæ Humaniores – Lit. Hum.  il primitivo. Il mito di Remo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cantoni” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Capella: l’implicatura conversazionale --  Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Capella Marziano Minneo Felice Capella, africano di Carta- gine, di religione pagana, scrive il "De nuptiis Philologiae et Mercurii" in nove libri. Il titolo dell’opera (che è una mescolanza di prosa e di versi e perciò è simile a una satira menippea), si applica propriamente ai due primi libri introduttivi, in cui si parla delle nozze del Dio dell'attività intellettuale (Mercurio = Hermes) con la personificazione della erudizione enciclopedica. Principale fonte di questi libri si ritengono gli scritti teologici di Varrone, mediati probabilmente da | Cornelio Labeone. Il contenuto vero dell’opera, che è un'enciclopedia, è costituito dai libri III-IX, in cui, sono trattate le sette arti liberali considerate dall'autore (grammatica, dialettica, retorica, geometria, aritmetica, astronomia e musica), presentate come donne che accompagnano la Filologia. Marziano ricorda altre due discipline incluse da Varrone nella sua enciclopedia (medicina è architettura), ma non vuole considerarle.Può darsi non sia stato il primo a procedere così, ma è probabile che da lui il Medio Evo abbia preso la distinzione delle arti del trivium e del quadrivium. Marziano deve avere preso a modello l'enciclopedia varroniana, che gli è anche servita sino a un certo punto come fonte; ma è probabile che abbia attinto principalmente a lavori spe- ciali più tardi. Sebbene sia una compilazione priva di valore intrinseco e piena di cose male intese e anche di contraddizioni, l’opera di Marziano fu studiata appas- sionatamente nel Medio Evo che l’usò anche come testo scolastico, la commentò e la tradusse. Per la storia della filosofia hanno importanza, più della trattazione della dialettica (1. IV), ciò che dice il libro VII (De arithmetica) sulla sacra monade, identificata a Giove e quali- ficata altrove pater ultra mundaniis. Essa è il padre di ogni essere, è il seme degli altri numeri e da essa sono.procreate tutte le altre cose. La monade è prima che siano le cose esistenti e permane quando esse si distruggono, perciò deve essere eterna. È così presentato un monismo che dalla forza causatrice di quella realtà ideale e in- telligibile, fa provenire sia i puri numeri che gli esseri numerabili che si collegano a quelli. In tal modo dal- l’unità prima sono generate la diade, che è riferita alla materia procreante, e la triade che conviene alle forme ideali e all'anima (in quanto, secondo Platone, include tre parti); e dalla diade provengono gli elementi che in- sieme costituiscono il mondo, che come tale ha per nu- mero il cinque. Questa derivazione dall'unità è molto confusa, ma si collega evidentemente alle teorie del- Neo-Pitagorismo. Secondo Macrobio univa in sè il sapere di Carneade (neo-accademico), di Diogene (stoico) e di Critolao (peripatetico) ; aveva conosciuto tutte le scuole, ma seguiva la più credibile : ciò fa pensare che aderisse al probabilismo di Carneade.  Marziano Capella Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.  Retorica, illustrazione del De Nuptiis Philologiae et Mercurii, Biblioteca Apostolica Vaticana ms. Urb. lat. 329 f 64v (seconda metà del XV secolo) Marziano Minneio Felice Capella (in latino: Martianus Mineus Felix Capella; Madaura, IV secolo – V secolo) è stato un grammatico romano, noto per il suo trattato didattico De nuptiis Philologiae et Mercurii che ebbe grande fortuna nel Medioevo.   Indice 1Biografia 2De nuptiis Philologiae et Mercurii 3Riconoscimenti 4Edizioni e traduzioni 5Note 6Bibliografia 7Voci correlate 8Altri progetti 9Collegamenti esterni Biografia Le informazioni disponibili sulla vita di Marziano, che si faceva chiamare Felice o Felice Capella, sono molto scarse e in parte dubbie, ricavate da allusioni autobiografiche presenti nelle sue opere. Mancano informazioni cronologiche e nella ricerca sono state espresse opinioni molto diverse sulle date della sua vita; le congetture hanno oscillato tra la fine del III e l'inizio del VI secolo, e oggi si ipotizza di solito il V o l'inizio del VI secolo.  Marziano nacque probabilmente a Madaura (secondo quanto riferisce Cassiodoro). In ogni caso, sembra che abbia trascorso la maggior parte della sua vita a Cartagine. Anche le ipotesi sulla sua professione e sulle sue origini sociali sono speculative. Si è ipotizzato che provenisse da un ambiente contadino e fosse autodidatta. Secondo un'altra opinione, più diffusa nella ricerca, egli apparteneva alla classe superiore. Da una formulazione poco chiara, si è dedotto che fosse un proconsole in Africa.  Non è inoltre chiaro se Marziano fosse cristiano. È da notare che la sua opera non contiene alcuna allusione al cristianesimo. Questo silenzio e alcuni altri indizi, tra cui la descrizione dei luoghi abbandonati degli oracoli del dio Apollo, suggeriscono che egli fosse un seguace dell'antica religione, i cui contenuti principali volle riassumere nella sua opera. I ricercatori hanno persino sospettato una velata spinta anticristiana.[1].  De nuptiis Philologiae et Mercurii Ci è noto per il trattato didattico indirizzato a suo figlio, Le nozze di Filologia con Mercurio, noto anche come "De septem disciplinis" o "Satyricon", scritto in forma di prosimetro, ossia un misto di prosa e versi di vari metri. L'opera è peculiare per il suo impianto allegorico, con l'ascesa al cielo di Filologia accompagnata dalle arti liberali per sposare Mercurio, ovvero l'Eloquenza.  I nove libri dell'opera sono così intitolati: Liber I: De nuptiis Philologiae et Mercurii Liber II: De nuptiis Philologiae et Mercurii Liber III: De arte grammatica Liber IV: De arte dialectica Liber V: De rhetorica Liber VI: De geometria Liber VII: De arithmetica Liber VIII: De astronomia Liber IX: De harmonia Le arti liberali sono ridotte dall'Autore da nove a sette, poiché, dopo le dotte esposizioni delle arti del Trivio - Grammatica, Dialettica, Retorica - e del Quadrivio - Aritmetica, Geometria, Astronomia e Musica - alle ultime due, Medicina e Architettura, non viene permesso di parlare alla festa nuziale, che si è prolungata troppo.  L'autore utilizza varie fonti nella compilazione della sua opera, fra cui Varrone Reatino e Apuleio. Il suo non è certo un latino molto raffinato: la prosodia talvolta lascia a desiderare e molte metafore appesantiscono la narrazione.  In età medievale e rinascimentale vennero effettuate aggiunte e rettifiche di ogni tipo al testo originario. Essa risulta, in effetti, una specie di enciclopedia dell'erudizione classica diffusissima nel Medioevo cristiano. Un noto commento fu pubblicato dal grammatico neoplatonico Remigio d'Auxerre che lesse Boezio alla luce del consimile filosofo Scoto Eriugena.  Riconoscimenti Il cratere Capella, sulla Luna, è stato battezzato in suo onore.  Edizioni e traduzioni Martiani Minei Felicis Capellae Afri Carthaginiensis, De Nuptiis Philologiae et Mercurii et de septem artibus liberalibus Libri novem, edidit Ulricus Fridericus Kopp. Francofurti ad Moeunum: apud F. Varrentrapp, Martianus Capella, accedunt scholia in Caesaris Germanici Aratea, Franciscus Eyssehardt (a cura di), Lipsiae in aedibus B. G. Teubneri, 1866. (LA) De Nuptiis Philologiae et Mercurii, ed. Adolfus Dick, 2. ed. 1925, 3. ed. Stuttgart Martianus Capella, ed. J. Willis, Leipzig 1983. Le nozze di Filologia e Mercurio. Introd., trad., comment. e appendici di Ilaria Ramelli, Milano, Bompiani 2001. (EN) Martianus Capella and the Seven Liberal Arts, edd. W.H. Stahl, R. Johnson, E.L. Burge, vol. 2: The Marriage of Philology and Mercury, New York-London, Columbia, Martianus Capella. Die Hochzeit der Philologia mit Merkur, ed. Hans Günter Zekl, Würzburg Martianus Capella. Les noces de Philologie et de Mercure. Livre I, ed. critica e traduzione di Jean-Frédéric Chevalier, Parigi, Les Belles Lettres, 2014. (FR) Martianus Capella. Les noces de Philologie et de Mercure. Livre IV : la dialectique, ed. critica e traduzione di M. Ferré, Parigi, Les Belles Lettres, 2007. (FR) Martianus Capella. Les noces de Philologie et de Mercure. Livre VI : la géométrie, ed. critica e traduzione di M. Ferré, Parigi, Les Belles Lettres, Martianus Capella. Les noces de Philologie et de Mercure. Livre VII : l'arithmétique, ed. critica e traduzione di J.-Y. Guillaumin, Parigi, Les Belles Lettres, 2003. (FR) Martianus Capella. Les Noces de Philologie et de Mercure. Livre IX : L'harmonie, ed. critica e traduzione di Jean-Baptiste Guillaumin, Parigi, Les Belles Lettres, 2011. (IT) Martiani Capellae De nuptiis Philologiae et Mercurii liber IX, introd. trad. e comm. di L. Cristante, Padova, Antenore Le nozze di Filologia e Mercurio, a cura di Ilaria Ramelli, Milano, Bompiani, Scoto Eriugena, Remigio di Auxerre, Bernardo Silvestre e Anonimi, Tutti i commenti a Marziano Capella. Testo latino a fronte, a cura di Ilaria Ramelli, Milano, Bompiani, 2006. Note ^ William H. Stahl, To a Better Understanding of Martianus Capella, in "Speculum", Bovey, Disciplinae cyclicae: L'organisation du savoir dans l'œuvre de Martianus Capella, Trieste, Edizioni Università di Trieste, 2003. Brigitte Englisch, Die Artes liberales im frühen Mittelalter (5.-9. Jahrhundert). Das Quadrivium und der Komputus als Indikatoren für Kontinuität und Erneuerung der exakten Wissenschaften zwischen Antike und Mittelalter, Stuttgart Glauch, Die Martianus-Capella-Bearbeitung Notkers des Deutschen, Tübingen 2000 (Münchener Texte und Untersuchungen 116/117) (Max-Weber-Preis der BADW 1Sabine Grebe, Martianus Capella, De Nuptiis Philologiae et Mercurii. Darstellung der Sieben Freien Künste und ihrer Beziehungen zueinander, Stuttgart-Leipzig Fanny Lemoine, Martianus Capella: a literary re-evaluation, München 1972. Claudio Leonardi, I Codici di Marziano Capella, Milano 1960. R. Schievenin, Nugis ignosce lectitans. Studi su Marziano Capella, Trieste 2009. D. Shanzer, A Philological and Philosophical Commentary on Martianus Capella's De Nuptiis Philologiae et Mercurii Book I, Berkeley-Los Angeles, University of California Publications, 1986. William Harris Stahl, Richard Johnson and E. L. Burge, Martianus Capella and the Seven Liberal Arts, Vol. 1: The Quadrivium of Martianus Capella: Latin Traditions in the Mathematical Sciences (Columbia University Press: Records of Civilization: Sources and Studies, 84), New York 1971. Mariken Teeuwen, Harmony and the Music of the Spheres. The Ars Musica in Ninth-Century Commentaries on Martianus Capella, Leiden Voci correlate Agogica Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Marziano Capella Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina in lingua latina dedicata a Marziano Capella. Capèlla, Minneo Felice, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Gino Funaioli, CAPELLA, Minneo Felice Marziano, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1930. Modifica su Wikidata Marziano Capèlla, Felice, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata (EN) Martianus Minneus Felix Capella, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata (LA) Opere di Marziano Capella, su Musisque Deoque. Modifica su Wikidata (LA) Opere di Marziano Capella, su digilibLT, Università degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro. Modifica su Wikidata Opere di Marziano Capella, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Modifica su Wikidata (EN) Opere di Marziano Capella, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata (EN) Marziano Capella, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata V · D · M Grammatici romani Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Letteratura Categorie: Grammatici romaniRomani del IV secoloRomani del V secoloNati nel IV secoloMorti nel V secoloScrittori africani di lingua latina[altre]

 

 

Grice e Capitini: l’implicatura conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Perugia). Filosofo italiano. Grice: “I love Capitini: his idea (or ‘paradigma,’ as he prefers, echoing Plato and Kuhn) of ‘compresenza conversazionale’ is genial and Griceian! Capitini abbreviates all my pragmatics in the ‘tu’ – or ‘noi,’ – “I am born when I say ‘thou’’ – translated alla Buber – what more conversationally implicaturish can THEE be? (I’m using West-Country puritan patois!”). Fu uno tra i primi in Italia a cogliere e a teorizzare il pensiero nonviolento gandhiano, al punto da essere chiamato il Gandhi italiano.   Nato in una famiglia modesta, Capitini si dedica dapprima agli studi tecnici, per necessità economiche e, in seguito, a quelli letterari, come autodidatta. La madre lavora come sarta e il padre era impiegato comunale, custode del campanile municipale di Perugia. Ritenuto inabile al servizio militare per ragioni di salute, non partecipa alla Prima guerra mondiale. Dopo gli studi della scuola tecnica e dell'istituto per ragionieri, dai diciannove ai ventuno anni si dedica alla lettura dei classici latini e greci, studiando da autodidatta anche dodici ore al giorno, dando così inizio al suo ininterrotto lavoro di approfondimento interiore e filosofico.  In questi anni legge autori e libri molto diversi tra loro, su cui forma la propria cultura letteraria e filosofica: Annunzio, Marinetti, Boine, Slataper, Jahier, Ibsen, Leopardi, Manzoni, la Bibbia, Gobetti, Michelstaedter, Kant, Kierkegaard (profondamente influenzato dal Vangelo), Assisi, Mazzini, Tolstoj e Gandhi. In questo periodo aderisce quindi al pensiero nonviolento del politico indiano.  Vince una borsa di studio presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, nel curriculum universitario di Lettere e Filosofia. Capitini critica aspramente il Concordato con la Chiesa cattolica, da lui giudicato una "merce di scambio" per ottenere da Pio XI e dalle gerarchie ecclesiali un atteggiamento "morbido" nei confronti del fascismo. In uno dei suoi libri arriva ad affermare che «...se c'è una cosa che noi dobbiamo al periodo fascista è di aver chiarito per sempre che la religione è una cosa diversa dall'istituzione. Nominato segretario della Normale di Pisa. Durante il periodo trascorso a Pisa, C. matura la scelta del vegetarianismo come conseguenza della scelta di non uccidere, e ogni suo pasto alla mensa della Normale diventa un comizio efficace e silenzioso, un'affermazione della nonviolenza in opposizione alla violenza del regime fascista.  Insieme a Baglietto, suo compagno di studi, promuove tra gli studenti della Scuola Normale riunioni serali dove diffonde e discute scritti sulla nonviolenza e la nonmenzogna. Allorché Baglietto, recatosi all'estero con una borsa di studio, rifiuta di tornare in Italia in quanto obiettore di coscienza al servizio militare, scoppia lo scandalo e il direttore della Scuola Normale Giovanni Gentile, per reazione, chiede a C. l'iscrizione al partito fascista. C. rifiuta e Gentile ne decide il licenziamento. Sergio Romano scriverà:  «Gentile e C. si separarono poco tempo dopo nella sala delle adunanze del palazzo dei Cavalieri. Il filosofo disse di sperare che "le future esperienze gli facessero vedere la vita e la realtà delle cose sotto un aspetto diverso"; e C. rispose che non poteva fare altro che contraccambiare l'augurio. Fu certamente una rottura. Ma non appena il giovane pacifista uscì dalla sala, il filosofo si voltò verso Arnaldi, che aveva assistito a questo scambio di battute, e disse "Abbiamo fatto bene a mandarlo via perché, oltre tutto, è un galantuomo. Croce; in riferimento a lui C. scriverà: «dal Croce può venire il servizio ai valori.  Croce è greco-europeo, perché la civiltà europea porta al suo sommo l'affermazione dei valori». A questo punto C. torna a Perugia nella casa paterna, vivendo di lezioni private. Compie frequenti viaggi a Roma, Firenze, Bologna, Torino e Milano per incontrare numerosi amici antifascisti e intessere in questo modo una fitta rete di contatti.  A Firenze, a casa di Russo, ha modo di conoscere Croce, a cui consegna un pacco di dattiloscritti che Croce apprezza e fa pubblicare nel gennaio dell'anno seguente presso l'editore Laterza di Bari con il titolo Elementi di un'esperienza religiosa. In poco tempo gli Elementi diventano uno tra i principali riferimenti letterari della gioventù antifascista. In seguito alla larga diffusione del suo libro, C. promuove assieme a Calogero un movimento culturale che negli anni successivi cercherà di trasformare in un progetto politico atto a realizzare le idee di libertà individuale e di uguaglianza sociale contenute negli "Elementi". Nasce così il Movimento Liberalsocialista, in un anno segnato dall'assassinio dei Fratelli Rosselli, dalla morte di  Gramsci e da una forte ondata di violenza repressiva contro l'opposizione antifascista. Alle attività del movimento collaborano, tra gli altri, Ugo La Malfa,  Amendola, Bobbio e Ingrao. La polizia fascista effettua una retata nel corso di una riunione del gruppo dirigente liberalsocialista, in seguito alla quale Capitini e gli altri partecipanti alla riunione vengono rinchiusi nel carcere fiorentino delle Murate. Dopo quattro mesi C. viene rilasciato, grazie alla sua fama di religioso. Quale tremenda accusa contro la religione, se il potere ha più paura dei rivoluzionari che dei religiosi», commenterà più tardi.  Nasce il Partito d'Azione, la cui dirigenza proviene direttamente dalle file del liberalsocialismo. C. rifiuta di aderire a qualsiasi partito, poiché a suo giudizio il rinnovamento è più che politico, e la crisi odierna è anche crisi dell'assolutizzazione della politica e dell'economia. Per il suo rifiuto di collocarsi all'interno delle logiche dei partiti, C. rimane escluso sia dal Comitato di Liberazione Nazionale, sia dalla Costituente, pur avendo lui dato un'impronta indelebile alla nascita della Repubblica con il suo lavoro culturale, politico, filosofico e religioso di opposizione morale al fascismo.  C.viene nuovamente arrestato e rinchiuso, questa volta, nel carcere di Perugia; viene definitivamente liberato. C. cerca di realizzare un primo esperimento di democrazia diretta e di decentralizzazione del potere, fondando a Perugia il primo Centro di Orientamento Sociale, un ambiente progettuale e uno spazio politico aperto alla libera partecipazione dei cittadini, uno spazio nonviolento, ragionante, non menzognero, secondo la definizione data dallo stesso C.. Durante le riunioni del COS i problemi di gestione delle risorse pubbliche vengono discussi liberamente assieme agli amministratori locali, invitati a partecipare al dibattito per rendere conto del loro operato e per recepire le proposte dell'assemblea, con l'obiettivo di far diventare "tutti amministratori e tutti controllati". A Partire da Perugia, i COS si moltiplicano in diverse città d'Italia: Ferrara, Firenze, Bologna, Lucca, Arezzo, Ancona, Assisi, Gubbio, Foligno, Teramo, Napoli e in moltissimi altri luoghi.   Aldo Capitini nel 1929 I Centri di Orientamento Sociale si sono diffusi sul territorio nazionale, scontrandosi tuttavia con l'indifferenza della Sinistra e con l'aperta ostilità della Democrazia Cristiana, che impediscono l'affermazione su scala nazionale dell'autogoverno e della decentralizzazione del potere sperimentati con successo nelle riunioni dei COS.  Nel secondo dopoguerra Capitini diventa rettore dell'Università per stranieri di Perugia (come Commissario), un incarico che sarà costretto ad abbandonare a causa delle fortissime pressioni della locale Chiesa cattolica. Si trasferisce a Pisa, dove ricopre il ruolo di docente incaricato di Filosofia morale presso l'università degli Studi.  Parallelamente all'attività didattica, politica e pedagogica, C. prosegue la sua attività di ricerca spirituale e religiosa, promuovendo il Movimento di religione insieme a Tartaglia, singolare figura di sacerdote scomunicato ed audace teologo, che però se ne allontanerà. Il Movimento di religione organizza una serie di convegni con cadenza trimestrale, che culminano con il "Primo congresso per la riforma religiosa" (Roma). Pinna, dopo aver ascoltato C. in un convegno promosso a Ferrara dal Movimento di religione, matura la sua scelta di obiezione di coscienza: è il primo obiettore del dopoguerra. Pinna è processato dal tribunale militare di Torino e a nulla serve la testimonianza a suo favore di Aldo Capitini. Pinna subisce una serie di processi, condanne e carcerazioni, fino al definitivo congedo per una presunta "nevrosi cardiaca". Si dimetterà dal suo impiego in banca per raggiungere Danilo Dolci in Sicilia e dopo un anno si trasferirà a Perugia per diventare il più stretto collaboratore di C..  Dopo l'arresto di Pinna, C. promuove una serie di attività per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza, convocando a Roma  il primo convegno italiano sul tema.  Il Centro di Orientamento Religioso (COR)  In occasione del quarto anniversario dell'uccisione di Gandhi, C.  promuove un convegno internazionale e fonda il primo Centro per la nonviolenza. C. affianca ai Centri di Orientamento Sociale il Centro di Orientamento Religioso (COR), fondato a Perugia con Emma Thomas (una quacchera inglese di ottant'anni). Il COR è uno spazio aperto, in cui trova espressione la religiosità e la fede di tutte le persone, i movimenti e i gruppi che non trovavano posto nel Cattolicesimo preconciliare. Lo scopo dei COR era quello di favorire la conoscenza delle religioni diverse dalla cattolica, e di stimolare i cattolici stessi ad un approccio più critico e impegnato alle questioni religiose.  La Chiesa locale vieta la frequentazione del Centro di Orientamento Religioso, e quando C. pubblica Religione Aperta il libro viene immediatamente inserito nell'Indice dei libri proibiti. Nonostante l'ostracismo delle alte gerarchie ecclesiali, C. stabilisce ugualmente degli efficaci rapporti di collaborazione con alcuni cattolici come Milani e Mazzolari.  C. organizza a Perugia un convegno su La nonviolenza riguardo al mondo animale e vegetale e, insieme a Edmondo Marcucciautore di Che cos'è il vegetarismo e, al pari di Capitini, mai iscritto al partito fascistafonda la prima organizzazione nazionale di coordinamento delle tematiche del vegetarianismo, la "Società vegetariana italiana".  La polemica tra C. e la Chiesa Cattolica continua anche dopo il Concilio Vaticano II, con la pubblicazione del libro Severità religiosa per il Concilio. C. insegna all'Cagliari come docente ordinario di Pedagogia e ottiene un definitivo trasferimento a Perugia. Tra i fondatori dell'ADESSPI, l'Associazione di Difesa e Sviluppo della Scuola Pubblica in Italia. C. arriva a chiedere al proprio vescovo di non essere più annoverato nella Chiesa, lui profondamente religioso, della quale non condivideva più i metodi e le idee.   La prima Bandiera della pace  Bandiera della pace portata da C. nella prima marcia Perugia-Assisi, attualmente custodita presso la Biblioteca San Matteo degli Armeni del comune di Perugia. C. organizza la Marcia per la Pace e la fratellanza dei popoli, un corteo nonviolento che si snoda per le strade che da Perugia portano verso Assisi, una marcia tuttora proposta in media ogni due/tre anni dalle associazioni e dai movimenti per la pace. In questa occasione viene per la prima volta utilizzata la Bandiera della pace, simbolo dell'opposizione nonviolenta a tutte le guerre. C. descrive l'esperienza della marcia nel libro Opposizione e liberazione: «Aver mostrato che il pacifismo, che la nonviolenza, non sono inerte e passiva accettazione dei mali esistenti, ma sono attivi e in lotta, con un proprio metodo che non lascia un momento di sosta nelle solidarietà che suscita e nelle noncollaborazioni, nelle proteste, nelle denunce aperte, è un grande risultato della Marcia». Aderiscono molte personalità, tra cui lo scrittore Calvino. L'impegno di C. per la pace infranazionale e internazionale (con particolare attenzione al pericolo atomico) lo coinvolse sempre più in una collaborazione con Bobbio, il quale raccoglierà tali riflessioni nell'opera Il problema della guerra e le vie della pace.  Negli ultimi anni della sua vita Capitini fonda e dirige un periodico intitolato Il potere di tutti, sviluppando i principi di quella che lui definì "omnicrazia", la gestione diffusa e delocalizzata del potere da lui contrapposta al centralismo dei partiti. In questi anni C.  promuove anche il Movimento nonviolento per la Pace e il mensile "Azione nonviolenta", l'organo di stampa del movimento, che attualmente viene pubblicato a Verona.  Dedito completamente al suo lavoro di divulgatore della nonviolenza, C. non si sposò mai, per scelta, in modo da poter dedicare tutte le proprie energie alla sua attività.  C. muore circondato da amici e allievi, dopo aver subìto un intervento chirurgico che consuma le sue ultime energie. Il leader socialista Nenni scrive una nota sul suo diario: «È morto Capitini.” Una eccezionale figura di studioso. Fautore della nonviolenza, disponibile per ogni causa di libertà e di giustizia. Mi dice Longo che a Perugia e isolato e considerato stravagante. C'è sempre una punta di stravaganza ad andare contro corrente, e C. e  andato contro corrente all'epoca del fascismo e nuovamente nell'epoca post-fascista. Forse troppo per una sola vita umana, ma bello». È sepolto a Perugia nella tomba di amici del C.O.R., insieme a Thomas.  Il pensiero Religione e laicità  Il Mahatma Gandhi C. aveva l'abitudine di definirsi un religioso laico. Egli accomunava la religione alla morale in quanto essa critica la realtà e la spinge al cambiamentoin positivo. Quella di Capitini era un'opposizione religiosa al fascismo. Il sentimento religioso, inoltre, nasce nei momenti di difficoltà e sofferenza, in particolare nel rapporto individuale con la morte. L'idea di laicità nasceva dal distacco di C. dalla Chiesa cattolica, complice del regime: egli sosteneva che col Concordato la Chiesa avesse legittimato il potere di Mussolini, dimenticando le violenze squadriste e, in tal modo, lo sostenesse garantendo la sua moralità di fronte alla maggior parte della popolazione che riponeva fiducia nell'istituzione religiosa. C. è molto distante dalla religione istituzionalizzata. Dio, come Ente, non esiste per C.: per evitare ogni equivoco e marcare la distanza della sua concezione religiosa da quella corrente, C. preferirà parlare di compresenza piuttosto che di Dio; per la stessa ragione, per indicare la vita religiosa così intesa non parla di fede, ma riprende da Michelstaedter il termine persuasione. C. si dichiara post-cristianoevidente anche dal suo "sbattezzo"e non cattolico, ma ama e si ispira alle figure religiose. Ogni figura con una profonda credenza, anche laica, è per lui un "religioso". Egli nega con decisione la divinità di Gesù Cristo: convinzione senza la quale non si può essere cristiani. Contesta, come Tolstoj, tutti gli aspetti leggendari e non dimostrabili dei Vangeli, compresa la Risurrezione. Ciò che apprezza sono le Beatitudini, il modello spirituale di un agire verso gli ultimi. Gesù ha insegnato dove può giungere una coscienza religiosa, è stato più di un uomo: "fu anche lui, come tutti, un essere con certi limiti; ma d'altra parte fu in lui, come in ogni altro essere, la qualità della coscienza che va oltre i limiti, che è in lui come in un mendicante" scrive negli Elementi. L'imitazione di Cristo secondo C. non è altro che realizzazione della propria realtà umana. Si potrebbe ugualmente parlare di una imitazione del Buddha, d’Assisi, di Gandhi, di Tolstoj e molti altri.  Persuasione, apertura, compresenza, omnicrazia Col termine "persuasione", ripreso da Michelstaedter e da Gandhi, C. indica la fede, sia in senso laico sia religioso, la profonda credenza in determinati valori ed assunti, e tramite essa, la capacità di persuadere gli altri della bontà del proprio ideale. L'apertura è l'opposto della chiusura conservatrice ed autoritaria del fascismo, e l'elevazione dell'anima verso l'alto e verso Dio.  Un concetto chiave nella filosofia capitiniana era la compresenza di tutti gli esseri, dei morti e dei viventi, legati tra loro ad un livello trascendente, uniti e compartecipi nella creazione di valori.  Nella vita sociale e politica la compresenza si traduce in omnicrazia, o governo di tutti, un processo in cui la popolazione tutta prende parte attiva alle decisioni e alla gestione della cosa pubblica.  La nonviolenza e il liberalsocialismo Non può mancare il concetto di nonviolenza, un ideale nobile, sinonimo di amore, coerenza di mezzi e fini, la forza in grado di sconfiggere il fascismo, che non è solo un regime, ma anche un modo di essere violento e autoritario.  Il liberalsocialismo di C. e di Calogero si sviluppa in modo autonomo dal socialismo liberale di Carlo Rosselli. Si forma infatti in un periodo posteriore, quando il regime fascista è vicino al collasso, nell'ambiente dei giovani crociani che hanno studiato ed insegnato alla Normale di Pisa, mentre il pensiero di Rosselli, che lo precede temporalmente, essendosi forgiato nel fuoco della lotta antifascista, in Italia e in Europa, già a partire dagli anni Venti, si iscrive in modo diretto nella tradizione socialista. C. per liberalismo intende il libero sviluppo personale, la libera ricerca spirituale e la produzione di valori. Il socialismo è invece nei suoi intendimenti la realizzazione nel lavoro, l'assistenza fraterna dell'umanità lavoratrice soggetto corale della storia. Anche se «...il socialismo liberale di Rosselli è una delle eresie del socialismo, mentre il liberalsocialismo è un'eresia del liberalismo» (Piane), si può affermare tuttavia che entrambi condividessero la critica ai totalitarismi,sia di destra che di sinistra, una visione laica della politica e l'obiettivo di una profonda riforma morale e sociale dell'Italia distrutta dalla guerra.  L'educazione e la civiltà L'educazione "profetica" è quella di colui che, con uno sguardo al futuro, è capace di criticare la realtà sulla base di valori morali, anche a costo di sembrare fuori dal suo tempo. Con l'espressione "civiltà pompeiana-americana" intende biasimare la mentalità materialista che vede nel lusso e nel possesso la realizzazione delle persone. Il "tempo aperto" è il tempo libero che ognuno potrebbe destinare alla discussione, alla socializzazione, al raccoglimento, all'elevazione spirituale. A C. sono intitolate strade in molte città di Italia: Perugia, Firenze, Roma, Pisa, Milano, ecc  Riconoscimenti A C. sono oggi intitolati un Istituto di istruzione tecnica economica e tecnologica, un centro congressi a Perugia, un'Aula magna all'interno dell'Cagliari, presso la Facoltà di Studi umanistici. Altre opere: “Esperienza religiosa” Laterza, Bari); “Vita religiosa, Cappelli, Bologna); “Atti della presenza aperta, Sansoni, Firenze); “Saggio sul soggetto della storia, La Nuova Italia, Firenze); “Esistenza e presenza del soggetto in Atti del Congresso internazionale di Filosofia (II ), Castellani, Milano); “La realtà di tutti, Arti Grafiche Tornar, Pisa); “Italia nonviolenta, Libreria Internazionale di Avanguardia, Bologna); “Nuova socialità e riforma religiosa, Einaudi, Torino); “L'atto di educare, La Nuova Italia, Firenze); “Religione aperta, Guanda, Modena); “Colloquio corale, Pacini Mariotti, Pisa); “Discuto la religione di Pio XII, Parenti, Firenze); “Aggiunta religiosa all'opposizione, Parenti, Firenze); "Danilo Dolci", Piero Lacaita Editore, Manduria); “Battezzati non credenti, Parenti, Firenze); “Antifascismo tra i giovani, Celebes editore, Trapani); “La compresenza dei morti e dei viventi, Saggiatore, Premio Viareggio Speciale); “Le tecniche della nonviolenza, Feltrinelli, Milano (rist. Linea D'Ombra, Milano 1989; rist. Edizioni dell'asino, Roma); “Educazione aperta” La Nuova Italia, Firenze); “Il potere di tutti, introduzione di N. Bobbio, prefazione diPinna, La Nuova Italia, Firenze); “Scritti sulla nonviolenza, L. Schippa, Protagon, Perugia); “Scritti filosofici e religiosi, M. Martini, Protagon, Perugia); “Il potere di tutti, Guerra Edizioni, Perugia); “Opposizione e liberazione: una vita nella nonviolenza, Piergiorgio Giacché, Napoli, L'ancora del Mediterraneo. Le ragioni della nonviolenza. Antologia degli scritti, Martini, ETS, Pisa scheda; Lettere;  "Epistolario di Aldo Capitini, 1"con Walter Binni, L. Binni e L. Giuliani, Carocci, Roma (intr.di Martini). Lettere, "Epistolario di C., 2"con Dolci, Barone e Mazzi, Carocci, Roma); La religione dell'educazione: scritti pedagogici, Piergiorgio Giacché, La meridiana, Molfetta); Lettere; "Epistolario di C., 3"con Calogero, Casadei e Moscati, Carocci, Roma.  L'atto di educare, M. Pomi, Armando editore, Roma.  Lettere, "Epistolario di Aldo Capitini, 4"con Edmondo Marcucci, A. Martellini, Carocci, Roma.  Religione Aperta, M.Martini, Laterza, Roma-Bari.  Lettere; "Epistolario di C., 5"con Bobbio Polito, Carocci, Roma.  Lettere familiari, "Epistolario di C., 6"M. Soccio, Carocci, Roma.  Un'alta passione, un'alta visione. Scritti politici; L. Binni e M. Rossi, Il Ponte Editore, Firenze.  Attraverso due terzi del secolo, Omnicrazia: il potere di tuttiL. Binni e Rossi, Il Ponte Editore, Firenze.  La mia nascita è quando dico un tu, quaderno per la ricercaLanfranco Binni e Marcello Rossi, Il Ponte Editore, Firenze.  Antifascismo tra i giovani, collana «Opere di Aldo Capitini», Il Ponte Editore, coedizione con Fondo Walter Binni e Fondazione Centro studi C., Firenze.  Nuova socialità e riforma religiosa, collana «Opere di C.», Il Ponte Editore, coedizione con Fondo Walter Binni e Fondazione Centro studi C., Firenze.  La compresenza dei morti e dei viventi, collana «Opere di Aldo Capitini», Il Ponte Editore, coedizione con Fondo Walter Binni e Fondazione Centro studi Aldo Capitini, Firenze.  Educazione aperta collana «Opere di C.», Il Ponte ditore, Voll. 1-2, coedizione con Fondo Walter Binni e Fondazione Centro studi C., Firenze. Note  Incontro con il "Gandhi" italiano, La Stampa; Il Gandhi Italiano, Panorama, Tale soprannome è condiviso con altri, come Dolci e Corbelli  C. ricorderà: «Gentile era impaziente che io sistemassi le cose e me ne andassi, perché ero divenuto di colpo vegetariano (per la convinzione che esitando davanti all'uccisione degli animali, gli italianiche Mussolini stava portando alla guerraesitassero ancor di più davanti all'uccisione di esseri umani): e a Gentile infastidiva che io, mangiando a tavola con gli studenti, come continuavo a fare, fossi di scandalo con la mia novità». (citato in Guadagnucci, Restiamo animali, Milano, Terre di mezzo); Romano, C. e il pacifismo alla Scuola Normale, Corriere della Sera; C., La compresenza dei morti e dei viventi, Il Saggiatore, Milano;  Da Le lettere di religione in. C. Marcucci, Che cos'è il vegetarismo?, Società vegetariana italiana; Angioni, Tutti dicono Sardegna, Cagliari, Edes. Dal sito del COS fondato da C. Testimonianza di Luciano Capitini, figlio del cugino di primo grado Piero, il parente più stretto di C.;  Vigilante, Religione e nonviolenza in C.; Martini, C. e le possibilità religiose della laicità, Nuova antologia, Firenze (FI): Le Monnier,.  Aveva reso visita a Martinetti, ritiratosi nella sua villa di Spineto a Castellamonte, con le cui concezioni religiose aveva una grande sintonia.  Per un approfondimento, vedi i seguenti testi: G. Calogero, Difesa del liberalsocialismo, Marzorati, Milano; Bovero, Mura, Sbarberi, I dilemmi del liberalsocialismo, La Nuova Italia Scientifica, Roma; C., Liberalsocialismo, e/o, Roma, che raccoglie una serie di scritti; Premio letterario Viareggio-Rèpaci, su premio letterario viareggiore paci; Craveri, C. Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Bobbio, La filosofia di C., Religione e politica in C., in Id., Maestri e compagni, Firenze, Passigli Editori, Areddu, La via italiana al gandhismo in “Il Manifesto”, Antonio Areddu, Non violenza e utopia. C. ed Bloch, in “Behemoth”, trimestrale di cultura politica;  Zanga, C.. La sua vita, il suo pensiero, Torino, Bresci; Capanna, Speranze, Rizzoli,  Mario Martini, L'etica della nonviolenza e l'aggiunta religiosa, in "Il Ponte", Martini, C. ispiratore di Bucchi. La sintesi di pensiero del Colloquio corale, in "Esercizi Musica e spettacolo", Antonio Vigilante, La realtà liberata. Escatologia e nonviolenza in Capitini, Foggia, Edizioni del Rosone; Martini, I limiti della democrazia e l'aggiunta religiosa all'opposizione, in G. B. Furiozzi, Aldo Capitini tra socialismo e liberalismo, Milano, Franco Angeli, 2001. Pietro Polito, L'eresia di Aldo Capitini, prefazione di N. Bobbio, Aosta, Stylos, 2001. Giuseppe Moscati, La presenza alla persona nell'etica di Aldo Capitini: considerazioni in alcuni scritti minori, in "Kykeion", n. 7, Firenze; Tuscano, Pasquale, Poetica e poesia di C., Critica letteraria. Napoli: Loffredo; Martini, Mazzini, C., Gandhi: una religione umanitaria per la democrazia, in "Il Pensiero Mazziniano", Rocco Altieri, La rivoluzione nonviolenta. Biografia intellettuale di C., 1ª ed. BFS; Pisa, BFS; Martini, Laicità religione nonviolenza, in M. Soccio, Convertirsi alla nonviolenza?, Verona, Il Segno dei Gabrielli;  Martini, Religiosità, ateismo e laicità: la religione aperta, in D. Tessore, L'evoluzione della religiosità nell'Italia multiculturale, Roma, Settimo Sigillo, 2003. Federica Curzi, Vivere la nonviolenza. La filosofia di Aldo Capitini, Assisi, Cittadella; Sanctis, Il socialismo morale di C. Firenze, CET; Pedretti, Spirito profetico ed educazione in C.. Prospettive filosofiche, religiose e pedagogiche del post-umanesimo e della compresenza, Milano, Vita e Pensiero; Pomi, Al servizio dell'impossibile. Un profilo pedagogico di Aldo Capitini, Firenze, La Nuova Italia, Tortoreto, La filosofia di Aldo Capitini. Dalla compresenza alla società aperta, Firenze, Clinamen; Cavicchi, C.. Un itinerario di vita e di pensiero, Bari, Piero Lacaita;  Martini, La nonviolenza e il pensiero di C., in, La filosofia della nonviolenza, Assisi, Cittadella; Zazzerini,  di Scritti su C., Perugia, Volumnia. Caterina Foppa Pedretti,  primaria e secondaria di C., Milano, Vita e Pensiero, Catarci, Il pensiero disarmato. La pedagogia della nonviolenza di Aldo Capitini, Torino, EGA, Vigorelli, La nostra inquietudine. Martinetti, Banfi, Rebora, Cantoni, Paci, De Martino, Rensi, Untersteiner, Dal Pra, Segre, C., Milano, Bruno Mondadori; Martini, Lo stato attuale degli studi capitiniani, in "Rivista di storia della filosofia", Paolini Merlo, La teoria della compresenza di Aldo Capitini. Fisionomia logica di una categoria religiosa, in "Itinerari"; 'Erba, C., in Id., in "Intellettuali laici", Padova, Martini, C. oltre il quarantennio della sua scomparsa. Una rassegna, in "Quaderni dell'Associazione Diomede", n. 2,. Mario Martini, Capitini, maestro di rigore intellettuale e politico, in "Il Ponte"; Martini, C. e le possibilità religiose della laicità, in "Nuova Antologia", Furiozzi, C. e Matteotti, Nuova antologia. APR. GIU; Rigano, Religione aperta e pensiero nonviolento: C. tra  d'Assisi e Gandhi, Mondo contemporaneo: rivista di storia: 2,  (Milano: Franco Angeli). Polito, Pietro, editor; Impagliazzo, Pina, editor, Bobbio: testimonianze e ricordi su Aldo Capitini, Nuova antologia: (Firenze (FI): Le Monnier). Martini, C. e le possibilità religiose della laicità, Nuova antologia:  (Firenze (FI): Le Monnier). C. (Lanfranco Binni e Marcelo Rossi), Numero speciale di “Il Ponte” n.4, luglio-agosto.  Danilo Dolci Pietro Pinna Calogero Mahatma Gandhi Nonviolenza; Abate; C. Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana; C. in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Aldo Capitini, su sapere, De Agostini. Opere di C.,.  Associazione "Amici di C.", su citinv. Puntata de "La grande storia", su rai; Tesi di laurea: Calogero, C.,  BobbioTre idee di democrazia per tre proposte di pace, su peacelink. Predecessore Rettore dell'Università per Stranieri di Perugia Successore Lupattelli  commissario Sforza Filosofia Politica  Politica Filosofo Politici italiani Antifascisti italiani Perugia PerugiaAccademici italiani del XX secolo Attivisti italiani Educatori italiani Nonviolenza Pacifisti Persone legate alla Resistenza italiana Poeti italiani Politici del Partito d'AzioneSostenitori del vegetarianismoTeorici dei diritti animali.  con C.  Questo disegno di mani intrecciate in una stretta che cancella ogni differenza di razza. Guttuso l'ha inviato a Capitini con l'augurio che la marcia della pace sia un gesto che  faccia profondamente riflettere gli uomini e dia  loro quel senso di responsabilità che non hanno. :he la "Normale" a Pisa. Dopo la laurea e assistente  ri... di. Momigliano, quin-  co- di segretario del collegio  te, universitario. Ma Giovan-  al- ni Gentile mi ordina di  pa- iscrivermi al partito fascista:cia e io rifiutai. Venne cacciarle to. Torna a Perugia e visse  on dando lezioni private. Il suo  ìon studio e uno sgabuzzino  me della torre: i fascisti (co¬  in- me poi faranno anche i ele¬  vo- ricali ) cominciarono a chiamarlo il gufo. Ma era  un gufo che da fastidio,  che tene contatti con antifascisti come Pintor, Banfi, Flora,  Alicata, Ingrao, Corona, Bufalini,. Ragghianti, Dessi,  Natta, Spinella, Casagrande, Agnoletti, Ramat, Calogero. Allora eravamo entrambi  radicai-socialisti — dice Calogero —: ma lui in  senso laburista, io rivoluzionario. Venne arrestato  e portato a Firenze. C’era  una trama in tutta Italia, ricorda, ma non riuscirono a scoprirla. Dopo  tre mesi di carcere, e rimesso in libertà. Con l’aiuto di  Croce pubblica “Elementi di un'esperienza religiosa,” che, come  scrìve un giornale e allora letto e meditato da non  pochi giovani che poi si ritrovano nella guerra partigiana contro la repubblica  di Salò e i tedeschi. E di nuovo arrestato. Dopo la liberazione, pensa  di iscriversi ai Partito d'azione. poi non ne fece nulla . Ha un programma  troppo limitato, di tipo radical-repubblicano, che non  della non-violenza. In Inghilterra ne fanno una ogni  anno, a Pasqua, ricorda, da Aldermaston a Londra.  Il corteo e lungo 5 chilometri: camminano in silenzio assoluto, soltanto un tamburo batte le lettere “d” e “ n,” disarmo nucleare, in alfabeto morse. Addirittura, le marce sono state  due. Una è partita da Aldermaston, Tal tra da Wetherfields, dove si trova  una base della Nato. I due cortei si sono fusi a Londra: c'è stata un'imponente manifestazione davanti  al ministero della Difesa. I  dimostranti erano migliaia,  rappresentavano europei tutti uniti contro la  guerra del nostro inviato MAGAGNINI rale alTuniversità di Cagliari. Parlate il meno possibile di me — dice —. Non  è che io sia modesto, ma  ho paura delle contraddizioni. Sono su con gli anni,  non posso camminare per  tanti chilometri. E’ seccante, ma è così. Organizzo la  marcia è non vi partecipo. Quand’ero giovane, invece. Cera un pretore ad Assisi, un amico mio, un  anti-fascista. Ogni giorno, si  può dire, lo andavo a trovare a piedi. Parla  svelto: a prendere appunti,  quasi si fatica a stargli dietro. Piccolo,  grassoccio, nasconde gl’occhi vivi sotto uno spesso  paio di lenti: tutto in lui  è passione, energia, vitalità. A Perugia abita in un  attico, con un grande terrazzo, che superando la  parte nuova della città  guarda verso   Perugia, settembre   PARTIRÀ’ da Perugia,  il 24 settembre, la prima « marcia della pace italiana. È una  marcia breve, 23  chilometri in tutto, fino ad  Assisi. Ma non per questo  avrà minor significato, un  minor valore. Vi parteciperanno migliaia di persone: verranno da tutta l’Umbria, dal Lazio, dalla Toscana, dalla Liguria, dall’altre regioni d'Italia. Cammineranno quasi in fila indiana, sul lato sinistro della strada, per non turbare  il traffico, perché da noi  solo per le processioni la  polizia si mostra larga di  maniche e di vedute. Cammineranno in silenzio. Per  loro, parleranno i cartelli. Tutto per la pace, niente per la guerra. Più scuole niente bombe. Viva la coesistenza pacifica. Libertà per i popoli coloniali. No all’imperialismo. Liquidiamo il razzismo. Per la pace e la sicurezza  disarmare la Germania. Scuòle, case, ospedali :  non armamenti. Fianco a  fianco, inarceranno comunisti, democristiani, socialisti,  repubblicani, socia 1 democratici, radicali, uomini di ogni partito e di ogni  condizione. Da Genova, persino Un terziarie francescano ha inviato la sua  commossa adesione : verrò  anch'io, non si può soltanto  pregare..Padre delTiniziativa è Capitini, filosofo. ALTRI nomi? Rossi, Donini, Ragghianti, Peretti Griva, Gavazzani, Spini,  Jemolo, Segre, Lombarde Radice, Borghi, Bucchi, Carocci, Benedetti, Arpino, Guaita,  Butitta, Zavattini. Sono uomini politici, giornalisti, musicisti. scrittori, pittori, giuristi, docenti universitari : sano  tanti, non posso ricordarli  tutti... Non credevo che la  iniziativa venisse subito cosi compresa : persino dalla  India mi hanno scritto, persino protestanti, quacqueri,  obiettori di coscienza. Capitini non ha avuto una vita facile. Perugino della generazione di Gobetti », come ama definirsi,  nacque da una povera famiglia. Suo padre era il custode delia torre del campanile. Ero tanto povero  dice -rry che studiai in  ritardo il latino. Frequenta  Anche in Olanda,  nella Germania occidentale,  negli Stati Uniti, nel Canada, nella Nuova Zelanda  fanno marce della pace. Da  noi, in Italia, niente. Così alcuni mesi or sono, durante un incontro fra amici, l'idea divenne decisione. Ora, per raggravata situazione internazionale, essa  sta per essere finalmente  realizzata. Quando parla delle adesioni, C. si  commuove. Sono tante,  tante: ho ricevuto centinaia di lettere. Un ragazzo mi ha chiesto se può  portare un cartello con una  frase di Anna Frank. Benissimo, benissimo, gli ho  risposto. E' lo spirito giusto. Mi scrive gente del popolo operai contadini. Questa invece è di Guttuso (e mostra una lette-    campagna incredibilmente verde. Vive con la vedova del fratello. Il suo studio è una  stanza nuda, quasi un solaio, con una stufa a legna e enormi finestre: alle pareti, grezzi scaffali carichi di libri. Si dice socialista, ma non è iscritto ad  alcun partito. E' uno studioso di questioni religiose,  ha pubblicato numerose opere, una delle quali (Religióne aperta) è stata  messa all'indice. Anti-cattolico, ha fatto di Gandhi e  San Francesco i suoi maestri.  L'idea della marcia gli  venne molti anni fa, quando fondcPil Centro italiano. C., docente di filosofìa morale a Cagliari, è l’organiziatore della marcia  della pace, che parte da Perugia, 11 24, alla volta di Assisi. à 15. Aldo Capitini. Keywords: il noi, l’io, il tu, un tu, la compresenza conversazionale – il noi conversazionale – il noi duale – la diada conversazionale – praesentis – praesentia – presenza -- diada e compresenza – “io” e “non-io” – io e tu – Hegel. Du, Thou, I and Thou, Buber, The ‘we’, -- the dual ‘us’ – both, entrambi noi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capitini” – The Swimming-Pool Library. Capitini.

 

Grice e Carbonara – l’implicatura conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza. Carbonara Avant, do lutter  pour la libertà de penser et pour l'indépendance de sa patrie, il avaiti  pour s'assurer le pain du jour, endnré toutes les rigueurs matórielles et sociales; et de tant d’èpreuves diverses, il était sorti plus vigoureux, plus courageux, plus convaiucu de ce que peut et vaut la noblesse d’àme. Ausai ne saurait-ou contempler, sans ètre à la foia touchó et fortifié, le tableau de ses souffrauces et de ses victoires, na'ivemeut et inodesteraeut trace dans cette Vie et correspondance, qu’a  publiée lo lils qui porte si eonvenablemeut son illustre nom. con tutti i suoi difetti, i suoi errori e, diciamolo pure,  la sua oscurità — un vero sistema.  In esso trovi subito un’idea che l’ha generato tutto quanto, che ne è il centro,  l’anima e ne fa l’unità: idea ovunque presente e ovunque  feconda, da cui nascono il metodo, le divisioni, gli svolgimenti, le applicazioni, e da cui germogliano in ogni direzione soluzioni, buone o cattive, a tutti i problemi teoretici e pratici. Carbonara.

 

Grice e Capizzi: l’implicatura conversazionale della topografia di Velia -- filosofia italiana – Luigi Speranza  (Genova). Filosofo italiano. Grice: “You gotta love Capizzi; he is the type of philosophical intellectual we do not have at Oxford, where it is clever to be dumb! Capizzi knows almost everything! His ‘Parmenids’s door’ is genial – and so is his philosophy on Roman philosophy (‘il colosso romano,’ ‘Catone,’ ‘Roma madre,’ ‘Roma e Sparta,’) – but my favourite is his tract on conversational implicature which he entitles, in a most Italianate manner, ‘Per l’attualismo del dialogo’.” Insegna a Villa Mirafiore, Roma. Si contraddistinse per l'accurato studio storico e filologico dei filosofi italici (Velia, Crotone, Girgentu, Roma). Contesta radicalmente le ricostruzioni ottocentesche del pensiero occidentale del VI e V secolo a.C., che attribuiscono validità storica alle interpretazioni di Aristotele e alla dossografia dipendente da Teofrasto. A questo scopo collabora con il circolo urbinate di Gentili nello sforzo di inserire i sapienti italici nelle tematiche concernenti le città, il pubblico, il committente, l'evoluzione delle strutture sociali, il trapasso dalla tradizione orale alla società della scrittura. Si forma alla scuola di Carabellese. Ben presto entra nei circoli degli studiosi che gravitavano intorno ai filosofi Spirito e Calogero. Insegna a Frosinone e Roma. Si evidenziandosi per l'originalità delle vedute e la radicalità del temperamento.  Coltiva due interessi paralleli.  Uno, da storico, per la sapienza italica arcaica, che lo portò a contestare la narrazione dei italici fatta da Aristotele. Questi, secondo lui, scrisse per esigenze di insegnamento del proprio pensiero nell'ambito del Liceo, e non con lo scopo di ricostruire quanto realmente accaduto. Dopo di lui, per un colossale equivoco, Teofrasto, i grammatici alessandrini, Hegel, Zeller, Gomperz e Burnet protrassero una sistematica falsificazione. Riprese, per contro, la lezione di Diels, Reinhardt, Cherniss, McDiarmid e Kirk, i quali dimostrarono che Aristotele ha avuto solo interessi speculativi. Aristotele, come tutti i filosofi, parla sempre e soltanto del suo tempo, della cultura del suo tempo, dei problemi del suo tempo. Approfondendo gli studi di Calogero sul “pre-logismo” italico, di Detienne sul mito antropomorfico, di Havelock sulla diffusione della filosofia e di Colli sulla sapienza pre-filosofica, fu il primo storico di formazione filosofica a scoprire l'importanza della dimensione politica negli enigmatici frammenti dei sapienti italici. Ritenne che, ogni volta che si studiano filosofi italici, occorra privilegiare il rapporto tra ogni singolo autore e la sua singola città: Velia, Crotone, Roma, Girgentu.  L'altro interesse, preminentemente teoretico, si svolse sui temi dell'attualismo, che tenta di superare liberandolo dal presupposto interioristico e cogitativistico e proponendo di passare alla interosggetivita della comunicazione, in particolare a quella comunicazione protesa verso una risposta futura che è il dialogo o la conversazione. Intransigente oppositore dell’assoluto hegeliano, nei sui saggi di maggior rilievo filosofico, distinse la filosofia in "comica" e "tragica". Per filosofia comica intende quella che presuppone una struttura unitaria a priori della realtà, che pertanto analizza cose come l'essere, l'uomo, la conoscenza, la ragione, che ignora i modi di essere delle singole diada conversazionale, i tipi di uomo, i modi di conoscere legati ai modi di vivere, le ragioni dei singoli gruppi esistenti in vari luoghi e in vari momenti. L'altra filosofia, ampiamente minoritaria e controcorrente, è quella che presuppone la pluralità delle culture, dei costumi, dei pensieri, e che, avendo a che fare, nei vari momenti storici, con incontri e scontri di alcune culture, alcuni costumi e alcuni pensieri, entra nell'età adulta del dilemma tragico, della scelta tra due opzioni contrarie le quali, in assoluto, non rappresentano il bene o il male, ma ciascuna il bene in un determinato sentire che spesso coincide con il male di un sentire opposto.  Altre saggi: “Protagora. Le testimonianze e i frammenti); “Il libero arbitrio”; “Per un attualismo del dialogo”; “Dall'ateismo all'umanismo: correnti incredule del dopoguerra e loro prospettive dialogiche”); “Socrate e i personaggi filosofi di Platone: uno studio sulle strutture della testimonianza platonica e un'edizione delle testimonianze contenute nei dialoghi, Roma); “Impegno e disponibilità: la doppia morale degli intellettuali di oggi); “I Presocratici. Antologia di testi, Firenze, La Nuova Italia); “Introduzione a Velia”, Roma-Bari, Laterza); “La porta a Velia: per una lettura del poema”; “I Sofisti. Antologia di testi, Firenze, La Nuova Italia); “Sinfonia patriarcale. Storia antologica dela filosofia maschile” Roma, Savelli editore); “La radice ideologica del fascismo: il mito della libertà” (Roma, Savelli); “Socrate. Antologia di testi, Firenze, La Nuova Italia); “Eraclito e la sua leggenda. Proposta di una diversa lettura dei frammenti); “La repubblica cosmica. Appunti per una storia non-peripatetica della nascita della filosofia” (Roma, Edizioni dell'Ateneo); Platone e il suo tempo, Roma, Edizioni dell'Ateneo); Forme del sapere nei presocratici, Roma, Edizioni dell'Ateneo); L'uomo a due anime. Il comico-tragico adolescenziale” )Firenze, La Nuova Italia); Il tragico in filosofia, Roma, Edizioni dell'Ateneo); I sofisti ad Atene. L'uscita retorica dal dilemma tragico” (Bari, Levante Editori); “Paradigma, mito, scienza” (Gruppo editoriale internazionale); “Platone nel suo tempo. L'infanzia della filosofia e i suoi pedagoghi”; “Corpo ed anima”, “Veleatismo”; Il 'mito di Protagora' e la polemica sulla democrazia”; "A proposito di Parmenide e di Socrate demistificati", in Il demistificatore"; "I italici furono ‘filosofi’? L’origine dello specifico filosofico"; "Tracce di una polemica sulla scrittura in Eraclito e Parmenide", "Cerchie e polemiche filosofiche del V secolo", in Storia e civiltà dei Greci,  III, Milano) "Veliadi Eliadi Meleagridi Pandionidi: la metafora mitica in Parmenide" "Eraclito e Parmenide, un tipico luogo comune"; "Parmenide", "Eschilo e Parmenide",  "Sono/fui; sum-fui: oysia/physis; eimi/phyo: due concetti”; "Mente elevata e mente profonda" in  Il Sublime: contributi per la storia di un'idea (Napoli);  "Trasposizione del lessico omerico in Parmenide ed Empedocle", in "Quattro ipotesi veleatiche/eleatiche", "Di Pitodoro, di Omar, di Don Ferrante e anche degli aristotelici attuali", Platone, Protagora, Firenze, La Nuova Italia.Partecipa con una delegazione di professori ad un'assemblea a Roma. La discussione si fa animata soprattutto con Rosario Romeo, professore di Storia Moderna, che prima lo accusa di fiancheggiare gli "squadristi rossi" e poi lo schiaffeggia. Gli Indiani metropolitani rincorrono Romeo al grido di "Compagno Capizzi, te lo giuriamo, ogni Romeo preso te lo schiaffeggiamo" In actual fact, Odysseus and the charioteer are complete opposites.4 Antonio Capizzi thinks that the journey is through the streets of Velia, out of the northern gates of the city and down to the inlet where the Velians moored their ships.5 This...  I Romani, nel cui alfabeto figurava la V, non ebbero problemi di trascrizione: influenzati probabilmente dalla Velia o Veliae del Palatino24, modificarono in tal senso il Vele... Dichtersprache und geistige Tradition des  studi sul pensiero italico, IPOTESI ELEATICHE. Elea: nascita di un nome In epoca romana la città di Parmenide e di Zenone era detta Velia o Veliae dagli scrittori latini (a partire da Cicerone ), Eléa da quelli.. La porta di Parmenide. Due saggi per una nuova lettura del poema (= Filologia e Critica). Edizioni dell ' Ateneo, Roma Diese Arbeit hat zwei Kapitel, die mit „ Il proemio di P. e gli scavi di Velia “ bzw Giovanni Casertano Antonio Capizzi. Tuttavia, Alcmeone fu... 132; Catalano, ' L'Asklepeion di Velia ', estratto dagli Annali del Pontificio Istituto Superiore di Scienze e Lettere « Santa Chiara », Napoli, a pag la homoiòtes e l'atrékeia, proponendosi di trasformare Velia (prima aggregato di corn, di villaggi autonomi ) in una polis compatta e stabile. L'uomo. IL CARTESIO DI GIANNONE. Un grande storico della filosofia C., La porta di Parmenide. Une interprétation nouvelle de certains passages du poème de Parménid à la lumière des fouilles de Velia. Eléa commencées par Napolil'uscita retorica dal dilemma tragico C.. feste quinquennali Zenone ricomparve in città, e il...Pozzi PAOLINI, Problemi della monetazione di Velia nel V secolo a. C., La parola del passato” e ritiene l'argomento c irrilevante in quanto Parmenide poteva essersi ispirato alla Velia reale anche in una metafora (p.... che si preoccupa di riu- -- nire una città sotto una costituzione aristocratica, omogenea e proposta di una diversa lettura dei frammenti Antonio Capizzi... del corpo sociale, doveva conoscere bene anche quei gruppi di cittadini che usavano la scrittura nelle loro ricerche scientifiche, come la scuola medico - astronomica di Velia. 1 tra le vie e le porte di Velia, recentemente dissepolte; e i " mortali ignoranti ” del fr. 6 tra i nemici non metafisici, ma politici, che insidiavano la libertà della polis velina. Antonio Capizzi, incaricato di filosofia teoretica presso l'Università di... un superdio – chi siede di fronte a te e ogni moeclittico è già il proemio: di recente C. (La porta di...MACCHIONI Velia, e Renzo Vitali (Una ricostruzione del Jodi ). poema, Faenza ) una allegorica e... da dove nasce l’idea di un ciclo di convegni sulla figura di Parmenide proprio qui dove Parmenide è vissuto? Mi pare di non potermela cavare con due parole appena. Consideri solo questo, che i riflettori su Velia si accesero quando Napoli pervenne a identificare la strada e la porta di Parmenide e, contemporaneamente, Gigante pubblica sulla rivista “La Parola de Passato” una nota, «Parmenidee», che attira l’attenzione su due iscrizioni anch’esse emerse grazie agli scavi condotti da Napoli. Si gettarono allora le premesse per una progressiva riscoperta della patria di Parmenide e Zenone. L’emozione dei visitatori colti venne alimentata dalla memorabile foga con cui C. si dedica a proclamare che non può capire Parmenide chi non ha visto gli scavi. La scoperta del sistema viario che collega il quartiere meridionale con quello settentrionale, di cui fanno parte la porta rosa e la porta arcaica, con il conseguente disvelamento della topografia del sito, stimolano C., a una rilettura affascinante del “Sulla Natura” parmideo. C., La porta di Parmenide, Roma,  e, dello stesso autore, Introduzione a Parmenide, Bari. Il lavoro qui proposto è il risultato di anni di confronto con il testo e la letteratura parmenidei, sollecitato dalla discussione con Rossetti, cui sono riconoscente per stimoli, idee ed esempio, e alla cui vivacità e intelligenza d’approccio alla filosofia italica sono debitore di non pochi elementi di riflessione. Per rintracciare nel tempo le origini di questo specifico interesse su Velia, devo invece risalire agli anni universitari pisani, alle lezioni di COLLI (si veda), nel periodo in cui i volumi della “Sapienza italica” stano vedendo la luce presso l’editore Adelphi. Il primo impatto con il filosofo velino avvenne infatti nei riferimenti alla discussione intorno alla natura della dialettica arcaica e all’origine della filosofia, nonché attraverso la lettura del “Parmenide” platonico, proprio in occasione di un corso seguito, tra gli altri, anche da due affermati studiosi e recenti editori dell’opera del sapiente di Velia: Tonelli e Giuseppe. Prima dell’impegnativo lavoro di esegesi che ha richiesto una paziente frequentazione delle interpretazioni classiche e contemporanee, la mia fatica si è concentrata sulla restituzione di un testo che tenesse conto dei contributi originali degli editori più recenti, conservando tuttavia, a dispetto delle molte suggestioni, una coerenza complessiva. La traduzione non ha alcuna pretesa di conservare le qualità letterarie del verso epico, puntando piuttosto alla massima prossimità possibile ai termini e alla costruzione dei versi stessi. Il mio sforzo non attende quindi riconoscimenti per originalità ed efficacia nella resa del testo parmenideo: esso ha puntato piuttosto, sin dall’inizio, a ricostruire la fi- sionomia di un’opera complessa, cercando di strapparla alle ipoteche metafisiche da cui è stata spesso condizionata la lettura. Ho già avuto modo di proporre le mie idee sulla posizione del “Sulla nautra” nel quadro della storia della sapienza arcaica in due saggi stesi in parallelo alla composizione della presente edizione: Parmenide e la tradizione del pensiero arcaico (ovvero, della sua eccentricità), in Il quinto secolo. Studi di filosofia antica in onore di Rossetti, a cura di Giombini e Marcacci (Aguaplano, Perugia). Parmenide e la περὶ φύσεως ἱστορία, in Elementi eleatici, a cura di Pozzoni, Limina Mentis, Villasanta (MB). Il lettore trova nel commento ai frammenti e nella introduzione generale un’ampia difesa della lettura cosmologica del “Sulla natura,” ma, allo stesso tempo, attenzione per le tracce delle interazioni di Parmenide con la cultura del suo tempo: un campo d’indagine che ritengo ancora del tutto aperto a nuove suggestioni. Nel presentare il risultato del mio lavoro mi sia concesso ringraziare i miei genitori per il sostegno che non mi hanno fatto mai mancare e che ha reso possibile le mie ricerche e i mei studi, e Umbi e Gigì per la loro pazienza. Nonostante tutto. A loro questa fatica è dedicata. Secondo quanto ci attesta Diogene Laerzio, Parmenide e autore di un'unica opera, “οἱ δὲ κατέλιπον ἀνὰ ἓν σύγγραμμα· Μέλισσος, Π., Ἀναξαγόρας.  Parmenide lascia un unico scritto (DK). “Sulla natura” e un poema in esametri, cui la tradizione posteriore attribuisce la titolazione di “Περὶ φύσεως”: ἢ ὅτι Περὶ φύσεως ἐπέγραφον τὰ συγγράμματα καὶ Μέλισσος καὶ Π.... καὶ μέντοι οὐ περὶ τῶν ὑπὲρ φύσιν μόνον, ἀλλὰ καὶ περὶ τῶν φυσικῶν ἐν αὐτοῖς τοῖς συγγράμμασι διελέγοντο καὶ διὰ τοῦτο ἴσως οὐ παρηιτοῦντο Περὶ φύσεως ἐπιγράφειν. Parmenide intitola il suo poema “Sulla natura”. E certo in questo poema tratta non solo di ciò che è oltre la natura. Tratt anche delle cose naturali. Per questo non disdegna di intitolarli “Sulla natura” (Simplicio; DK). Che in effetti tale intestazione puo risalire a Parmenide è sostenuto da Guthrie, sulla scorta della parodia che ne fa Gorgia con il suo “Περὶ τοῦ μὴ ὄντος ἢ περὶ φύσεως”. E comune la convinzione che, prima dei sofisti, la designazione di un testo avvenne attraverso la citazione dell’incipit, che dove risultare particolarmente incisivo, con l'indicazione del contenuto, preceduta dal nome dell'autore sulla prima riga del testo. Analogamente a quanto registriamo nel caso di Erodoto. Il trattato ippocratico Sull'antica medicina riferisce la formula indentificativa -- “περὶ φύσεως” – sulla natura -- almeno ai testi -- Ἐμπεδοκλῆς ἢ ἄλλοι οἳ περὶ φύσιος γεγράφασιν. Empedocle di Girgenti, e gli altri che scriveno sulla natura (De prisca medicina). È opinione ampiamente condivisa che essa funziona, a posteriori, da etichetta per classificare una certa tipologia di scritti, manifestandone il tema. In questa direzione è possibile che, in particolare, la “Συναγωγή” di Ippia contribusce a fissare un certo numero di categorie storiografiche tradizionali, tra cui appunto la nozione unificante di “φύσις”. La denominazione “Περὶ φύσεως”, il termine generico “φυσιόλογος”. Si tratta, infatti, di uno dei primi sforzi dossografici, un'opera molto utilizzata da Platone e Aristotele intesa a selezionare, raccogliere, mettere in relazione e commentare gl’enunciati trovati in ogni genere testuale (poetico e [Guthrie, The Sophists, Cambridge, Naddaf, The Greek Concept of Nature, SUNY, Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa. Balaudé, Hippias le passeur, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di Sassi, La Normale, Pisa. Gorgia ne avrebbe portato avanti uno analogo, ma connotato più in senso critico, per sottolineare gli insolubili contrasti tra filosofie. Gorgia influenza direttamente Isocrate, Platone e lo stesso Aristotele..]6 in prosa), di ogni epoca, per coglierne convergenze e stabilire linee di continuità. In ogni caso, al di là della discussione sull'attendibilità storica di quel *titolo*, non è contestato il fatto che fosse individuabile un gruppo di autori περὶ φύσεως, impegnato, in altre parole, in ricerche sulla natura delle cose. Sebbene risulti problematico accertare se coloro che chiamiamo «filosofi» fossero consapevoli di contribuire a una specifica impresa culturale, sottolineandola nell'intestazione o incipit dei propri contributi, è tuttavia difficile negare che si fosse diffusa la convinzione dell'esistenza di una tradizione di ricerca sulla natura – la “φυσιολογία” -- iniziata con Talete. A quali contenuti ci si intendeva riferire con l'etichetta “περὶ φύσεως”? Quale significato è da attribuire a tale espressione? Secondo Naddaf, che al problema ha dedicato un'ampia indagine, con ἱστορία περὶ φύσεως si dove intendere una storia dell'universo, dalle origini alla presente condizione: una storia che abbraccia nel suo insieme lo sviluppo del mondo, naturale e umano, dall'inizio alla fine. In effetti, origini e sviluppo sono etimologicamente implicati in “φύσις” o “natura” di “natio”. Nella forma attiva-transitiva, “φύω”, o “natio” – “nazione” --, il radicale del sostantivo significa «crescere, produrre, generare». In quella medio-passiva-intransitiva, “φύομαι,” (nascior), invece, «crescere, originare, nascere». La prima occorrenza del termine sostantivo astratto femmile “φύσις” – cf. “natura” --, nell’Odissea, si registra nell'ambito delle istruzioni, da parte da Mercurio a Ulisse, per la preparazione di una «pozione efficace» (φάρμακον 5 Balaudé, Leszl, Aristoteles on the Unity of Presocratic Philosophy. A Contribution to the Reconstruction of the Early Retrospective View of Presocratic Philosophy, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici.] ἐσθλόν) contro gli effetti delle «pozioni velenose» (φάρμακα λύγρα) di Circe. Ulisse racconta come Mercurio, estratta dalla terra (ἐκ γαίης ἐρύσας) una pianta medicamentosa, “μῶλυ,”  ne illustrasse la natura – “καί μοι φύσιν αὐτοῦ ἔδειξε.” Per un verso, in quel contesto, il sostantivo astratto “natura” o “φύσις” può apparire immediatamente sinonimo di εἶδος, μορφή, φύη, termini ricorrenti in Omero indicanti la «forma»: è per altro evidente, tuttavia, che quanto Mercurio rivela non riguarda semplicemente l'aspetto esteriore, identificativo della pianta, piuttosto le sue effettive qualità e la costituzione interna da cui esse discendono. In particolare Mercurio si riferisce alla radice, nera, da cui cresce il fiore dal colore opposto, bianco. Omero o Ulisse utilizzano il termine astratto “natura,” quindi, per denotare non tanto la forma fenomenica, né propriamente quella che potremmo anacronisticamente definire l'essenza della pianta, quanto la sua origine (la radice), differente da quel che appare (il fiore, che ne è comunque sviluppo). In questo senso il termine astratto “natura” – that Austin hated (“The De deorum natura, -- what else can Cicero speak, and in what way is this different from De dei?) “natura”, o φύσις occorre nelle più antiche citazioni della sapienza: τοῦ δὲ λόγου τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται ἄνθρωποι καὶ πρόσθεν ἢ ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες τὸ πρῶτον· γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε ἀπείροισιν ἐοίκασι, πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιούτων, ὁκοίων ἐγὼ διηγεῦμαι κατὰ φύσιν διαιρέων ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει. τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους λανθάνει ὁκόσα ἐγερθέντες ποιοῦσιν, ὅκωσπερ ὁκόσα εὕδοντες ἐπιλανθάνονται. Di questo logos che è sempre gli uomini si rivelano senza comprensione, sia prima di udirlo, sia subito dopo averlo udito. Sebbene tutto infatti accada secondo questo logos, si mostrano privi di esperienza, mentre si misurano con parole e azioni quali quelle che io presento, analizzando ogni cosa SECONDO NATURA [KATA PHYSIN] e mostrando come è. Ma agli altr’uomini rimane celato [sfugge] quello che fanno da svegli [dopo essersi destati], così come sono dimentichi di quello che fanno dormendo (Sesto Empirico; DK) φύσις δὲ καθ’ Ἡράκλειτον κρύπτεσθαι φιλεῖ [la natura, secondo Eraclito, ama è solita nascondersi (Temistio; DK). Sebbene nell'incipit dello scritto di Eraclito l'espressione “κατὰ φύσιν” sia per lo più resa dagli interpreti moderni intendendo φύσις come «natura, essenza», incrociando i due frammenti eraclitei è inevitabile pensare al passo omerico sull'erba moly: l'«origine» che si cela dietro il fenomeno. In questa accezione la natura o φύσις – secondo l'Efesio – «ama nascondersi». Kahn ha marcato, invece, come la formula del frammento di Eraclito attesti già un uso tecnico a ozioso del termine “natura” nel linguaggio contemporaneo, per designare il «carattere essenziale» di una cosa, unitamente al processo da cui scaturirebbe. La comprensione della «natura» di una cosa – e non la comprensione della cose -- passerebbe attraverso la ricostruzione del suo processo di sviluppo. Analogamente Naddaf valorizza la dimensione dinamica implicita nella “natura” o φύσις: «la costituzione reale di una cosa così come si realizza – dall'inizio alla fine – con tutte le sue proprietà» Se ora torniamo al trattato ippocratico sull'Antica medicina, da cui abbiamo tratto conferma dell'esistenza di una produzione a posteriori classificata come περὶ φύσιος, possiamo evincere dal contesto alcuni elementi del modello: Λέγουσι δέ τινες καὶ ἰητροὶ καὶ σοφισταὶ ὡς οὐκ ἔνι δυνατὸν ἰητρικὴν εἰδέναι ὅστις μὴ οἶδεν ὅ τί ἐστιν ἄνθρωπος·ἀλλὰ τοῦτο δεῖ καταμαθεῖν τὸν μέλλοντα ὀρθῶς θεραπεύσειν τοὺς ἀνθρώπους. Τείνει δὲ αὐτέοισιν ὁ λόγος ἐς φιλοσοφίην, καθάπερ Ἐμπεδοκλῆς ἢ ἄλλοι οἳ 8 M.L. Gemelli Marciano, Lire du début. Quelques observations sur les incipit des présocratiques, «Philosophie Antique» (Présocratiques),  Kahn, Anaximander and The Origins of Greek Cosmology, Hackett, Naddaf] περὶ φύσιος γεγράφασιν ἐξ ἀρχῆς ὅ τί ἐστιν ἄνθρωπος, καὶ ὅπως ἐγένετο πρῶτον καὶ ὅπως ξυνεπάγη. Ἐγὼ δὲ τουτέων μὲν ὅσα τινὶ εἴρηται σοφιστῇ ἢ ἰητρῷ, ἢ γέγραπται περὶ φύσιος, ἧσσον νομίζω τῇ ἰητρικῇ τέχνῃ προσήκειν ἢ τῇ γραφικῇ. Νομίζω δὲ περὶ φύσιος γνῶναί τι σαφὲς οὐδαμόθεν ἄλλοθεν εἶναι ἢ ἐξ ἰητρικῆς. Alcuni medici e sapienti [sofisti] sostengono che nessuno possa conoscere la medica a meno di non sapere che cosa sia l'uomo, ma che ciò debba conoscere colui che intenda curare correttamente gl’uomini. Il loro discorso verte dunque sulla filosofia, proprio come NEL CASO DI EMPEDOCLE DI EMPEDOCLE DI GIRGENTI E DEGL’ALTRI FILOSOFI COME PARMENIDE CHE SCRIVENO SULLA NATURA: che cosa sia dal principio l'uomo, come sia stato dapprima generato e come costituito. Io ritengo che quanto è stato scritto da medici [FISICI] e filosofi sulla natura abbia più a che fare con il disegno che con la medicina [L’ARTE DEI FISICI]. Ritengo che in nessun altro modo si possa conoscere qualcosa di chiaro sulla natura se non attraverso la medicina (De prisca medicina). L'autore, evidentemente polemico, marca in effetti lo scarto tra indagine medica – da parted ai fisici -- e indagine περὶ φύσιος: nell'apertura dell'opera contrappone all'approccio di coloro che ricorrevano a postulazioni e ipotesi (ὑποθέμενοι) – cioè speculazioni - per l'indagine dei fenomeni celesti e terrestri (περὶ τῶν μετεώρων ἢ τῶν ὑπὸ γῆν), il principio e il metodo (ἀρχὴ καὶ ὁδὸς) della medicina (ARTE FISICA), in altre parole le «scoperte» (τὰ εὑρημένα) avvenute nel corso del tempo e l'osservazione. Per avere un'idea più precisa dell'impostazione alternativa che egli anda criticando, possiamo leggere un altro trattato ippocratico – il De carnibus – il cui estensore sottolinea di prendere le mosse da convinzioni condivise (κοινῇσι γνώμῃσι): Περὶ δὲ τῶν μετεώρων οὐδὲ δέομαι λέγειν, ἢν μὴ τοσοῦτον ἐς ἄνθρωπον ἀποδείξω καὶ τὰ ἄλλα ζῶα, ὁκόσα ἔφυ καὶ ἐγένετο, καὶ ὅ τι ψυχή ἐστιν, καὶ ὅ τι τὸ ὑγιαίνειν, 11 Naddaf, op. cit., pp. 24-25. 10 καὶ ὅ τι τὸ κάμνειν, καὶ ὅ τι τὸ ἐν ἀνθρώπῳ κακὸν καὶ ἀγαθὸν, καὶ ὅθεν ἀποθνήσκει. Non devo parlare di questioni celesti se non per quanto necessario a mostrare, rispetto all'uomo e a tutti gli altri viventi, come si sono generati e sviluppati, che cosa sia l'anima, che cosa la salute e la malattia, che cosa sia cattivo e buono nell'uomo, e perché muoia (De carnibus 1). Il passo rivela quelle che dovevano essere le comuni assunzioni (le ὑποθέσεις contro cui polemizza l'Antica medicina – ARS FISICA) nella tradizione della ἱστορία περὶ φύσεως: lo schema adottato è infatti il seguente: Originaria caoticità e indistinzione di tutte le cose; Processo di discriminazione degli elementi (etere, aria, terra); Formazione dei corpi. Centrale risulta il parallelo tra formazione dei viventi e formazione del cosmo che deve aver effettivamente costituito un asse portante nella cultura arcaica, sin dalla produzione teogonica. Ciò risulta confermato dall'autore anonimo del “Della dieta”,  De diaeta: Φημὶ δὲ δεῖν τὸν μέλλοντα ὀρθῶς ξυγγράφειν περὶ διαίτης ἀνθρωπίνης πρῶτον μὲν γνῶναι καὶ διαγνῶναι· γνῶναι μὲν ἀπὸ τίνων συνέστηκεν ἐξ ἀρχῆς, διαγνῶναι δὲ ὑπὸ τίνων μερῶν κεκράτηται· εἴ τε γὰρ τὴν ἐξ ἀρχῆς σύστασιν μὴ γνώσεται, ἀδύνατος ἔσται τὰ ὑπ’ ἐκείνων γιγνόμενα γνῶναι· εἴ τε μὴ γνώσεται τὸ ἐπικρατέον ἐν τῷ σώματι, οὐχ ἱκανὸς ἔσται τὰ ξυμφέροντα τῷ ἀνθρώπῳ προσενεγκεῖν Affermo che colui che intenda scrivere correttamente sul regime di vita dell'uomo deve prima conoscere e riconoscere LA NATURA a di tutto l'uomo: conoscere allora da quali cose è composto dal principio, riconoscere da quali parti è governato. Se non conosce infatti quella composizione originaria, sarà incapace di conoscere quanto da essa generato; se poi non conosce quel che prevale nel corpo, non sarà in grado di prescrivere all'uomo il trattamento adeguato (De diaeta I, 2) Conoscere «la natura di tutto l'uomo» (παντὸς φύσιν ἀνθρώπου) è condizione del corretto intervento medico. Ciò implica evidenemente conoscere (i) quanto costituisce originariamente l'uomo (ἀπὸ τίνων συνέστηκεν ἐξ ἀρχῆς), per rintracciarne e riconoscerne gli effetti (τὰ ὑπ’ ἐκείνων γιγνόμενα), e (ii) le componenti che lo governano (ὑπὸ τίνων μερῶν κεκράτηται). Conoscere LA NATURA comporta, insomma, risalire alla composizione originaria e al successivo processo. Significativamente questa riduzione al principio riconduce «tutte le cose» a due elementi originari, fuoco e acqua: Ξυνίσταται μὲν οὖν τὰ ζῶα τά τε ἄλλα πάντα καὶ ὁ ἄνθρωπος ἀπὸ δυοῖν, διαφόροιν μὲν τὴν δύναμιν, συμφόροιν δὲ τὴν χρῆσιν, πυρὸς λέγω καὶ ὕδατος I viventi e tutte le altre cose e anche l'uomo sono composti da due elementi, l'uno ha il potere di differenziare, l'altro il temperamento che combina: intendo il fuoco e l'acqua (De diaeta I, 3) L'analogia tra formazione biologica dell'individuo umano (nel senso dell'odierna embriologia) e processi di strutturazione dell'universo (cosmogonia), è un dato riscontrato anche nelle testimonianze relative ad Anassimandro e autori pitagorici, oltre che nei precedenti mitici 12: l'antropologia non poteva prescindere dalla antropogonia, come la cosmologia dalla cosmogonia. Altre tracce antiche del modello Se queste indicazioni - ricavate dalla letteratura scientifica risalente plausibilmente al V-IV secolo a.C. – consentono di farsi un'idea circa la ricezione antica della περὶ φύσεως ἱστορία e dunque dell'argomento cui i pensatori arcaici avevano dedicato le loro opere, alle origini della letteratura filosofica, prima che il modello si affermasse e consolidasse definitivamente nella narrazione peripatetica, un primo abbozzo ne era stato tracciato in un celebre passo del Fedone platonico: Naddaf, ἐγὼ γάρ, ἔφη, ὦ Κέβης, νέος ὢν θαυμαστῶς ὡς ἐπεθύμησα ταύτης τῆς σοφίας ἣν δὴ καλοῦσι περὶ φύσεως ἱστορίαν· ὑπερήφανος γάρ μοι ἐδόκει εἶναι, εἰδέναι τὰς αἰτίας ἑκάστου, διὰ τί γίγνεται ἕκαστον καὶ διὰ τί ἀπόλλυται καὶ διὰ τί ἔστι Io, Cebete, da giovane ero straordinariamente affascinato da quella sapienza che chiamano indagine sulla natura. Mi sembrava fosse magnifico conoscere le cause di ogni cosa, perché ogni cosa si generi, perché si corrompa e perché esista (96a). Il filosofo racconta la storia della fascinazione esercitata (non è chiaro se effettivamente sul protagonista Socrate o sullo stesso autore) da una forma di sapere – evidentemente già riconoscibile e dunque assestato, come rivela la formula impiegata («che chiamano», ἣν δὴ καλοῦσι) - in grado di rispondere agli interrogativi sulla generazione e corruzione, e così di dar ragione dell'esistenza di ciascuna cosa. Anticipando lo schema del primo libro della Metafisica aristotelica, Platone disegna una storia della sapienza incentrata sull'efficacia della esplicazione causale, nella quale intende marcare la svolta radicale rappresentata dalla propria «seconda navigazione» (δεύτερος πλοῦς): il filosofo non discute la necessità di ricondurre le cose alla loro ragion d’essere; contesta invece la riduzione limitata all’orizzonte delle cause fisiche, per Platone insufficienti a dar adeguatamente conto del perché della disposizione del tutto. È probabile che, pur attingendo a raccolte dossografiche organizzate in ambito sofistico, egli ne adottasse il materiale in modo creativo, allo scopo di giustificare e valorizzare una prospettiva filosofica peculiare13. Un'ulteriore attestazione dell'originaria accezione dell'espressione περὶ φύσεως ἱστορία ritroviamo, tra i contemporanei di Platone, nel riscontro accidentale di un non-specialista come Senofonte: Adomenas, Plato, Presocratics and the Question of Intellectual Genre, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, οὐδεὶς δὲ πώποτε Σωκράτους οὐδὲν ἀσεβὲς οὐδὲ ἀνόσιον οὔτε πράττοντος εἶδεν οὔτε λέγοντος ἤκουσεν. οὐδὲ γὰρ περὶ τῆς τῶν πάντων φύσεως, ᾗπερ τῶν ἄλλων οἱ πλεῖστοι, διελέγετο σκοπῶν ὅπως ὁ καλούμενος ὑπὸ τῶν σοφιστῶν κόσμος ἔχει καὶ τίσιν ἀνάγκαις ἕκαστα γίγνεται τῶν οὐρανίων Ma nessuno mai vide o sentì Socrate fare o dire alcunché di irreligioso o empio. Egli infatti non si interessava della natura di tutte le cose, alla maniera della maggior parte degli altri, indagando come è fatto ciò che i sapienti chiamano "cosmo" e per quali necessità si produca ciascuno dei fenomeni celesti (Senofonte, Memorabili). Non solo appare assodata - a livello di opinione diffusa - (i) la sostanziale equivalenza tra sapienza e ricerca «sulla natura di tutte le cose» (περὶ τῆς τῶν πάντων φύσεως), ma anche (ii) la funzionalità di cosmogonia e cosmologia (ὅπως [...] κόσμος ἔχει), e ulteriormente (iii) l'attenzione per la spiegazione di fenomeni specifici (ὅπως [...] τίσιν ἀνάγκαις ἕκαστα γίγνεται τῶν οὐρανίων). Una "istantanea" che aiuta a fissare, dall'esterno, i caratteri del naturalismo presocratico è infine costituita dal frammento dell’Antiope di Euripide (fr. 910 Nauck)14: ὄλβιος ὅστις τῆς ἱστορίας ἔσχε μάθησιν, μήτε πολιτῶν ἐπὶ πημοσύνην μήτ’ εἰς ἀδίκους πράξεις ὁρμῶν, ἀλλ’ ἀθανάτου καθορῶν φύσεως κόσμον ἀγήρων, πῇ τε συνέστη καὶ ὅπῃ καὶ ὅπως. τοῖς δὲ τοιούτοις οὐδέποτ’ αἰσχρῶν ἔργων μελέδημα προσίζει 14 A. Laks, «Philosophes Présocratiques». Remarque sur la construction d’une catégorie de l’historiographie philosophique, in A. Laks et C. Louguet, Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) Beato è colui che alla ricerca ha dedicato la sua vita; egli né i suoi concittadini danneggerà né contro di loro compirà atti malvagi, ma, osservando della immortale natura l'ordine che non invecchia, ricercherà da quale origine fu composto e in che modo. Tali individui non saranno mai coinvolti in atti turpi. In questo caso, addirittura, abbiamo il privilegio di veder sottolineato dal poeta il nesso tra contemplazione (καθορᾶν) dell'«ordine che non invecchia» (κόσμον ἀγήρων) della «natura immortale» (ἀθανάτου φύσεως) e ricostruzione delle sue modalità di formazione. A dispetto degli aggettivi coinvolti - ἀθάνατος e ἀγήρως (di uso omerico ed esiodeo) – evidentemente il κόσμος oggetto d'attenzione – l'ordinamento attuale dei fenomeni – è percepito come il risultato di un processo di composizione (πῇ τε συνέστη καὶ ὅπῃ καὶ ὅπως), e il suo studio non può prescindere dall'indagine (speculativa) sulle sue tappe. Il modello peripatetico Della περὶ φύσεως ἱστορία la storiografia peripatetica ha certamente fissato il canone interpretativo che ha pesato su tutta la tradizione: nella ricostruzione aristotelica delle origini della filosofia, infatti, si attribuisce alla «maggioranza di coloro che per primi filosofarono» (τῶν δὴ πρώτων φιλοσοφησάντων οἱ πλεῖστοι) la convinzione che «principi di tutte le cose» (ἀρχὰς πάντων) fossero «solo quelli nella forma di materia» (τὰς ἐν ὕλης εἴδει μόνας), così argomentando: ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ σωζομένης 15 ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da cui dapprima si generano e verso cui infine si corrompono, permanendo per un verso la sostanza, per altro invece mutando nelle affezioni, questo sostengono essere elemento e questo principio delle cose, e per questo credono che né si generi né si distrugga alcunché, dal momento che una tale natura si conserva sempre. (Metafisica I, 3 983 b8-13) Nella lettura di Aristotele, la specificità del contributo dei «primi filosofi» risiederebbe nella riduzione degli enti (ἅπαντα τὰ ὄντα) soggetti a divenire alla stabilità della φύσις soggiacente, ovvero, come lo stesso Aristotele precisa: ὥσπερ φασὶν οἱ μίαν τινὰ φύσιν εἶναι λέγοντες τὸ πᾶν, οἷον ὕδωρ ἢ πῦρ ἢ τὸ μεταξὺ τούτων come affermano coloro che sostengono che il tutto [l'universo] è una certa, unica natura, quale l'acqua o il fuoco o qualcosa di intermedio (Fisica), all'unità di una sostanza materiale originaria, «elemento» (στοιχεῖον) e «principio» (ἀρχή) delle cose (τῶν ὄντων). Il quadro si definisce ulteriormente nella ricostruzione che Teofrasto propone delle origini in Anassimandro: [A.] [...] ἀρχήν τε καὶ στοιχεῖον εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον, πρῶτος τοῦτο τοὔνομα κομίσας τῆς ἀρχῆς. λέγει δ’ αὐτὴν μήτε ὕδωρ μήτε ἄλλο τι τῶν καλουμένων εἶναι στοιχείων, ἀλλ’ ἑτέραν τινὰ φύσιν ἄπειρον, ἐξ ἧς ἅπαντας γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τοὺς ἐν αὐτοῖς κόσμους· ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς ἐστι τοῖς οὖσι͵ καὶ τὴν φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεών· διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν [B 1], ποιητικωτέροις οὕτως ὀνόμασιν αὐτὰ λέγων. δῆλον δὲ ὅτι τὴν εἰς ἄλληλα μεταβολὴν τῶν τεττάρων στοιχείων οὗτος θεασάμενος οὐκ ἠξίωσεν ἕν τι τούτων ὑποκείμενον ποιῆσαι, ἀλλά τι ἄλλο παρὰ ταῦτα· οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ στοιχείου τὴν γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ 16 ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως. Anassimandro [...] affermò l’infinito principio e elemento delle cose che sono, adottando per primo questo nome di “principio”. Egli sostiene, infatti, che esso non sia né acqua né alcun altro di quelli che sono detti elementi, ma che sia una certa altra natura infinita, da cui originano tutti i cieli e i mondi in essi: «è secondo necessità che verso le stesse cose, da cui le cose che sono hanno origine, avvenga anche la loro distruzione; esse, infatti, pagano la pena e reciprocamente il riscatto della colpa, secondo l’ordine del tempo. Così si esprime in termini molto poetici. È evidente allora che, avendo considerato la reciproca trasformazione dei quattro elementi, non ritenne adeguato porre alcuno di essi come sostrato, preferendo piuttosto qualcos’altro al di là di essi. Egli poi non fa discendere la generazione dalla alterazione dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del movimento eterno  (Simplicio; DK). Senza scendere nel dettaglio dell'analisi, la testimonianza e la citazione lasciano intravedere chiaramente alcuni punti su cui si sarebbe concentrata l'indagine del Milesio: l'individuazione di un principio-origine delle cose (ἀρχή τῶν ὄντων) sottoposte a generazione (γένεσις) e corruzione (φθορά); (ii) la formazione – nel linguaggio peripatetico della testimonianza - degli «elementi» (στοιχεία), costitutivi materiali da cui (ἐξ ὧν, «dalle quali cose») le cose hanno la loro generazione, e verso cui (εἰς ταῦτα, «verso quelle stesse cose») si produce (γίνεσθαι) la loro corruzione; (iii) le modalità del processo dalla natura originaria, attraverso gli elementi, agli enti: «secondo necessità» (κατὰ τὸ χρεών), secondo l’ordine del tempo» (κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν); (iv) il perché, la causa del processo: il costante e compensativo confronto conflittuale tra i contrari (διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας). Le osservazioni di Teofrasto documentano quindi, agli albori dell'indagine περὶ φύσεως, un'attenzione che non si esaurisce nella determinazione della materia originaria (secondo l'interpretazione 17 di Burnet15), ma si rivolge almeno anche ai processi di formazione delle «cose che sono» (come pensava Jaeger, accostando φύσις e γένεσις 16 ). Complessivamente ciò doveva conferire alla ricerca quella caratteristica impronta speculativa da cui l'autore dell'Antica medicina prendeva le distanze. Che l'interesse non dovesse comunque risolversi in una mera dimensione archeologica e abbracciare invece anche i risultati dei processi, e dunque l'ordinamento dei fenomeni, è suggerito da varie fonti. Aristotele, per esempio, marca in modo sufficientemente netto il focus cosmologico: οἱ μὲν οὖν ἀρχαῖοι καὶ πρῶτοι φιλοσοφήσαντες περὶ φύσεως περὶ τῆς ὑλικῆς ἀρχῆς καὶ τῆς τοιαύτης αἰτίας ἐσκόπουν, τίς καὶ ποία τις, καὶ πῶς ἐκ ταύτης γίνεται τὸ ὅλον, καὶ τίνος κινοῦντος, οἷον νείκους ἢ φιλίας ἢ νοῦ ἢ τοῦ αὐτομάτου, τῆς δ’ ὑποκειμένης ὕλης τοιάνδε τινὰ φύσιν ἐχούσης ἐξ ἀνάγκης, οἷον τοῦ μὲν πυρὸς θερμήν, τῆς δὲ γῆς ψυχράν, καὶ τοῦ μὲν κούφην, τῆς δὲ βαρεῖαν. Οὕτως γὰρ καὶ τὸν κόσμον γεννῶσιν. Gli antichi, che per primi filosofarono intorno alla natura, indagarono, circa il principio materiale e la causa siffatta, che cosa e quale fosse, e in che modo da questa si generasse l'intero, e da che cosa il movimento, ad esempio dall'odio o dall'amore, o dall'intelletto, o dal caso, poiché la materia sostrato ha una certa siffatta natura per necessità, ad esempio calda quella del fuoco, fredda quella della terra, una leggera, l'altra pesante; in questo modo, infatti generano anche il cosmo. (Aristotele, Le parti degli animali, Trad. Carbone, BUR Rizzoli, Milano). La ricerca περὶ φύσεως degli «antichi primi filosofi» (ἀρχαῖοι καὶ πρῶτοι φιλοσοφήσαντες) sarebbe stata variamente modulata intorno a: 15 J. Burnet, Early Greek Philosophy, Black, London, Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, La Nuova Italia, Firenze (i) natura e proprietà del «principio materiale» (περὶ τῆς ὑλικῆς ἀρχῆς); individuazione della causa del movimento (καὶ τίνος κινοῦντος); modalità di generazione dell'«intero» (πῶς ἐκ ταύτης γίνεται τὸ ὅλον) ovvero del «cosmo» (τὸν κόσμον γεννῶσιν). Parmenide e la φύσις Tornando ora alla titolazione del Poema parmenideo, le testimonianze di coloro che hanno contribuito a trasmetterne citazioni – sopra tutti Sesto Empirico e Simplicio (il secondo molto probabilmente disponeva di copia dell'opera, il primo plausibilmente) – sono univoche nell'attribuirgli l'intestazione Περὶ φύσεως. Abbiamo già letto le affermazioni di Simplicio (ἢ ὅτι Περὶ φύσεως ἐπέγραφον τὰ συγγράμματα καὶ Μέλισσος καὶ Π.), in linea con quelle di Sesto: ὁ δὲ γνώριμος αὐτοῦ Παρμενίδης ἐναρχόμενος γοῦν τοῦ Περὶ φύσεως γράφει τοῦτον τὸν τρόπον «Il discepolo di lui (= Senofane), Parmenide  iniziando appunto il Peri physeōs scrive in questo modo» (Adv. Math.). Si tratta ora di capire entro quali schemi avvenisse la ricezione dell'opera e del pensiero di Parmenide nella tradizione περὶ φύσεως. Parmenide nella περὶ φύσεως ἱστορία Prescindendo dagli inquadramenti della produzione per noi frammentaria di Gorgia e Ippia, alla collocazione e al ruolo di Parmenide nel quadro della sapienza antica pensò per primo Platone. Delineando in un lungo passo del Sofista, che costituisce indubbiamente l'antecedente diretto della disamina 19 dossografica aristotelica, il panorama delle teorie dell’essere, egli introduce di fatto alcune categorie destinate a grande fortuna storiografica: l'occasione è fornita proprio da un rilievo su Parmenide: Εὐκόλως μοι δοκεῖ Παρμενίδης ἡμῖν διειλέχθαι καὶ πᾶς ὅστις πώποτε ἐπὶ κρίσιν ὥρμησε τοῦ τὰ ὄντα διορίσασθαι πόσα τε καὶ ποῖά ἐστιν Mi sembra che con leggerezza si siano rivolti a noi Parmenide e tutti coloro che a un certo punto si sono impegnati a determinare gli enti: quanti e quali enti esistano. L’opposizione tra pensatori pluralisti e unitari, e la «battaglia di giganti» (γιγαντομαχία) tra coloro che riducono «tutto a corpo» (εἰς σῶμα πάντα) e coloro che, al contrario, pongono l'essere (οὐσία) «nelle idee» (ἐν εἴδεσιν), sono fatte scaturire proprio dai problemi (πόσα τε καὶ ποῖά ἐστιν, «quanti e quali enti esistano») sollevati (anche) dal Poema. L'ottica "ontologica" adottata non può nascondere, nel contesto, il riferimento all'indagine περὶ φύσεως, e, in particolare, l'equivalenza tra ὄντα e ἄρχαί17: Μῦθόν τινα ἕκαστος φαίνεταί μοι διηγεῖσθαι παισὶν ὡς οὖσιν ἡμῖν, ὁ μὲν ὡς τρία τὰ ὄντα, πολεμεῖ δὲ ἀλλήλοις ἐνίοτε αὐτῶν ἄττα πῃ, τοτὲ δὲ καὶ φίλα γιγνόμενα γάμους τε καὶ τόκους καὶ τροφὰς τῶν ἐκγόνων παρέχεται· δύο δὲ ἕτερος εἰπών, ὑγρὸν καὶ ξηρὸν ἢ θερμὸν καὶ ψυχρόν, συνοικίζει τε αὐτὰ καὶ ἐκδίδωσι Mi sembra che ognuno racconti una storia, come fossimo bambini: l'uno [racconta] che gli esseri sono tre, alcuni di essi talvolta sono in qualche modo in lotta reciproca, talvolta al contrario, diventano amici, si sposano, fanno figli e procurano nutrimento alla progenie; un altro, invece, sostiene che [gli esseri] sono due - umido 17 Su questo punto Cordero nel suo commento a Platon, Le Sophiste, traduction et presentation par Cordero, Flammarion, Paris; Palmer, Plato's Reception of Parmenides, Clarendon Press, Oxford. e secco ovvero caldo e freddo -, li fa convivere e li unisce in matrimonio. È appunto all'interno di questo ampio disegno di ricostruzione della tradizione di pensiero precedente che Platone fa della «stirpe eleatica» (Ἐλεατικὸν ἔθνος) 18 il prototipo del “monismo”. È chiaro nel contesto come esso sia, tuttavia, da intendere non ingenuamente - non come se esistesse una sola cosa -, ma in riferimento alla discussione sulla realtà fondamentale: alcuni pongono tre principi, altri due, gli Eleati uno solo: τὸ δὲ παρ’ ἡμῖν Ἐλεατικὸν ἔθνος, ἀπὸ Ξενοφάνους τε καὶ ἔτι πρόσθεν ἀρξάμενον, ὡς ἑνὸς ὄντος τῶν πάντων καλουμένων οὕτω διεξέρχεται τοῖς μύθοις da noi la stirpe eleatica - che ha avuto inizio da Senofane e anche prima – riferisce le proprie storie secondo cui ciò che è chiamato "tutto" [tutte le cose] non è che un solo essere (Sofista). Nell'intenzione di Platone, ricondurre l'eleatismo a Senofane era probabilmente funzionale alla sua collocazione entro un dibattito culturalmente definito19: nella prospettiva di questa ricerca, in particolare, risulta significativa la scelta di non isolare il contributo di Parmenide dallo sfondo d'indagine sui principi (τὰ ὄντα διορίσασθαι). In termini analoghi il Parmenide (180a) delinea le posizioni di Parmenide e Zenone: σὺ μὲν γὰρ ἐν τοῖς ποιήμασιν ἓν φῂς εἶναι τὸ πᾶν, καὶ τούτων τεκμήρια παρέχῃ καλῶς τε καὶ εὖ· ὅδε δὲ αὖ οὐ πολλά φησιν εἶναι, τεκμήρια δὲ καὶ αὐτὸς πάμπολλα καὶ παμμεγέθη παρέχεται. τὸ οὖν τὸν μὲν ἓν φάναι, τὸν δὲ μὴ 18 È probabile che la genealogia sfumata del gruppo eleatico (ἀπὸ Ξενοφάνους τε καὶ ἔτι πρόσθεν ἀρξάμενον) fosse motivata dall'intenzione di accentuare la "profondità" (l'antichità) della dottrina di Parmenide in direzione delle origini. Su questo il commento di Fronterotta in Platone, Sofista, a cura di F. Fronterotta, BUR Rizzoli, Milano; Palmer, πολλά, καὶ οὕτως ἑκάτερον λέγειν ὥστε μηδὲν τῶν αὐτῶν εἰρηκέναι δοκεῖν σχεδόν τι λέγοντας ταὐτά Tu [Parmenide], infatti, nel tuo poema affermi che il tutto [l'universo] è uno, e porti prove di ciò in modo brillante ed efficace; questi [Zenone], invece, sostiene che i molti non esistono, e anche lui porta prove molto numerose e consistenti. Il primo dice quindi che esiste l'uno, l'altro che i molti non esistono: così ciascuno parla in modo che sembri che non sosteniate alcunché di simile, mentre in realtà affermate le stesse cose, mentre il Teeteto sottolinea la continuità tra Parmenide e Melisso: καὶ ἄλλα ὅσα Μέλισσοί τε καὶ Παρμενίδαι ἐναντιούμενοι πᾶσι τούτοις διισχυρίζονται, ὡς ἕν τε πάντα ἐστὶ καὶ ἕστηκεν αὐτὸ ἐν αὑτῷ οὐκ ἔχον χώραν ἐν ᾗ κινεῖται e le altre [dottrine] che i vari Melissi e Parmenidi propongono con convinzione, opponendosi a tutti costoro [i sostenitori della dottrina del flusso universale], secondo cui tutte le cose sono uno e questo rimane stabile in se stesso, non avendo luogo in cui muoversi. Ciò che questi passi confermano è – almeno nell’elaborazione della maturità di Platone - la riduzione della dottrina di Velia alla formula ἓν τὸ πᾶν (ovvero ἕν πάντα), con un’implicita valenza cosmologica che si affaccia, oltre che in Parmenide, nel Sofista: Εἰ τοίνυν ὅλον ἐστίν, ὥσπερ καὶ Παρμενίδης λέγει, πάντοθεν εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ, [Sulle fasi della ricezione platonica di Parmenide è oggi fondamentale J. Palmer, Plato's Reception of Parmenides, cit.. 22 τοιοῦτόν γε ὂν τὸ ὂν μέσον τε καὶ ἔσχατα ἔχει, ταῦτα δὲ ἔχον πᾶσα ἀνάγκη μέρη ἔχειν Se allora è un intero, come sostiene anche Parmenide: «da tutte le parti simile a massa di ben rotonda palla, a partire dal centro ovunque di ugual consistenza: è necessario infatti che esso non sia in qualche misura di più, o in qualche misura di meno, da una parte o dall’altra», essendo tale ciò che è avrà un centro e dei limiti estremi, e, avendoli, necessariamente avrà parti, e che il Timeo sembra esplicitare21, riferendo l'opera di produzione del cosmo da parte del demiurgo: σχῆμα δὲ ἔδωκεν αὐτῷ τὸ πρέπον καὶ τὸ συγγενές. τῷ δὲ τὰ πάντα ἐν αὑτῷ ζῷα περιέχειν μέλλοντι ζῴῳ πρέπον ἂν εἴη σχῆμα τὸ περιειληφὸς ἐν αὑτῷ πάντα ὁπόσα σχήματα· διὸ καὶ σφαιροειδές, ἐκ μέσου πάντῃ πρὸς τὰς τελευτὰς ἴσον ἀπέχον, κυκλοτερὲς αὐτὸ ἐτορνεύσατο, πάντων τελεώτατον ὁμοιότατόν τε αὐτὸ ἑαυτῷ σχημάτων, νομίσας μυρίῳ κάλλιον ὅμοιον ἀνομοίου. λεῖον δὲ δὴ κύκλῳ πᾶν ἔξωθεν αὐτὸ ἀπηκριβοῦτο πολλῶν χάριν. ὀμμάτων τε γὰρ ἐπεδεῖτο οὐδέν, ὁρατὸν γὰρ οὐδὲν ὑπελείπετο ἔξωθεν, οὐδ’ ἀκοῆς, οὐδὲ γὰρ ἀκουστόν· πνεῦμά τε οὐκ ἦν περιεστὸς δεόμενον ἀναπνοῆς, οὐδ’ αὖ τινος ἐπιδεὲς ἦν ὀργάνου σχεῖν ᾧ τὴν μὲν εἰς ἑαυτὸ τροφὴν δέξοιτο, τὴν δὲ πρότερον ἐξικμασμένην ἀποπέμψοι πάλιν. ἀπῄει τε γὰρ οὐδὲν οὐδὲ προσῄειν αὐτῷ ποθεν - οὐδὲ γὰρ ἦν - αὐτὸ γὰρ ἑαυτῷ τροφὴν τὴν ἑαυτοῦ φθίσιν παρέχον καὶ πάντα ἐν ἑαυτῷ καὶ ὑφ’ ἑαυτοῦ πάσχον καὶ δρῶν ἐκ τέχνης γέγονεν E gli diede una figura a sé congeniale e congenere. Ma la figura congeniale al vivente che doveva contenere in sé 21 Secondo le indicazioni di Palmer sulla concentrazione di termini parmenidei nel dialogo. 23 tutti i viventi non poteva essere che quella che comprendesse in sé tutte le figure possibili; per cui, lo tornì come una sfera, in una forma circolare in ogni parte ugualmente distante dal centro alle estremità, che è la più perfetta di tutte le figure e la più simile a se stessa, giudicando il simile assai più bello del dissimile. E ne rese perfettamente liscio l'intero contorno esterno per molte ragioni. Infatti, non aveva bisogno di occhi, perché nulla era rimasto da vedere all'esterno, né di orecchie, perché nulla era rimasto da sentire; né vi era intorno aria, che dovesse essere respirata, né aveva bisogno di un organo per ricevere in sé il nutrimento o per eliminarlo in seguito, dopo averlo assimilato. Nulla, del resto, poteva da esso separarsi e nulla a esso aggiungersi da nessuna parte, perché nulla vi era al di fuori; infatti, è stato prodotto in modo da offrire a se stesso, come nutrimento, la propria corruzione e da avere in sé e da sé ogni azione e ogni passione. Indizi lessicali che invitano a supporre che Platone vedesse nell'Essere di Parmenide una sorta di entità cosmica23, nell'interpretazione platonica modellata secondo il precedente della divinità cosmica di Senofane24. Come ha prospettato Brisson25, la stessa discussione del Parmenide potrebbe essere imperniata sull'alternativa: (a) tutte le cose (l'universo) costituiscono una realtà unica (ἓν εἶναι τὸ πᾶν) – come sarebbe stato affermato da Parmenide; la molteplicità degli enti è solo apparente, dal momento che la loro pluralità reale condurrebbe a paradossi: in questo senso «i molti non esistono» (οὐ πολλά εἶναι) - secondo quanto argomentato da Zenone; 22 Platone, Timeo, introduzione, traduzione e note di F. Fronterotta, BUR Rizzoli, Milano. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 24. 24 Su questo punto Palmer, Brisson, Introduction a Platon, Parménide, présentation et traduction par L. Brisson, Flammarion, Paris. esistono realmente molteplici realtà sensibili, esse sono componenti dell'universo a loro volta costituite da componenti elementari26. Eccentricità di Parmenide nella περὶ φύσεως ἱστορία Nel terzo capitolo del primo libro della Metafisica, Aristotele, riprende uno schema platonico, contrapponendo «coloro che sostennero che uno solo è il sostrato» (οἱ ἓν φάσκοντες εἶναι τὸ ὑποκείμενον) a «coloro che ammettono più principi» (τοῖς δὲ δὴ πλείω ποιοῦσι), ribadendone poi (nel quinto capitolo) le implicazioni cosmologiche, in conclusione della discussione sui Pitagorici: τῶν μὲν οὖν παλαιῶν καὶ πλείω λεγόντων τὰ στοιχεῖα τῆς φύσεως ἐκ τούτων ἱκανόν ἐστι θεωρῆσαι τὴν διάνοιαν· εἰσὶ δέ τινες οἳ περὶ τοῦ παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως ἀπεφήναντο, τρόπον δὲ οὐ τὸν αὐτὸν πάντες οὔτε τοῦ καλῶς οὔτε τοῦ κατὰ τὴν φύσιν. Da queste cose è possibile intendere a sufficienza il pensiero degli antichi che sostenevano la pluralità di elementi della natura. Ci sono poi coloro che parlarono del tutto [dell'universo] come di un'unica natura, ma non tutti allo stesso modo, né per convenienza né per conformità alla natura, Evidentemente in relazione a Parmenide e ai suoi seguaci, Aristotele osserva: εἰς μὲν οὖν τὴν νῦν σκέψιν τῶν αἰτίων οὐδαμῶς συναρμόττει περὶ αὐτῶν ὁ λόγος (οὐ γὰρ ὥσπερ ἔνιοι τῶν φυσιολόγων ἓν ὑποθέμενοι τὸ ὂν ὅμως γεννῶσιν ὡς ἐξ ὕλης τοῦ ἑνός, ἀλλ’ ἕτερον τρόπον οὗτοι λέγουσιν· ἐκεῖνοι μὲν γὰρ προστιθέασι κίνησιν, γεννῶντές γε τὸ 26 Ivi, p. 21. 25 πᾶν, οὗτοι δὲ ἀκίνητον εἶναί φασιν)· οὐ μὴν ἀλλὰ τοσοῦτόν γε οἰκεῖόν ἐστι τῇ νῦν σκέψει. Una discussione intorno a costoro esula dall’esame attuale delle cause: essi, infatti, non parlano come alcuni dei naturalisti, i quali, posto l’essere come uno, fanno comunque nascere [le cose] dall’uno come da materia; essi parlano, invece, in altro modo. Mentre quelli, in effetti, aggiungono il movimento, facendo nascere il tutto [l’universo], questi, al contrario, sostengono che [il tutto] sia immobile. Almeno quanto [segue], tuttavia, è appropriato alla presente ricerca (986 b12-18). Nell'ambito di una indagine sulle cause e sui principi primi, il confronto con le dottrine eleatiche non avrebbe dovuto trovare spazio: in questo senso è marcata una radicale differenza rispetto alla ricerca dei «naturalisti» (ἔνιοι τῶν φυσιολόγων). Essendosi espressi «sull'universo [sul tutto] come fosse un'unica natura [realtà]» (περὶ τοῦ παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως), «immobile» (ἀκίνητον) e immutabile, gli Eleati, in effetti, lo avevano pensato incausato27. In De Caelo si sottolinea ulteriormente la peculiare posizione di Parmenide e Melisso: Οἱ μὲν οὖν πρότερον φιλοσοφήσαντες περὶ τῆς ἀληθείας καὶ πρὸς οὓς νῦν λέγομεν ἡμεῖς λόγους καὶ πρὸς ἀλλήλους διηνέχθησαν. Οἱ μὲν γὰρ αὐτῶν ὅλως ἀνεῖλον γένεσιν καὶ φθοράν· οὐθὲν γὰρ οὔτε γίγνεσθαί φασιν οὔτε φθείρεσθαι τῶν ὄντων, ἀλλὰ μόνον δοκεῖν ἡμῖν, οἷον οἱ περὶ Μέλισσόν τε καὶ Παρμενίδην, οὕς, εἰ καὶ τἆλλα λέγουσι καλῶς, ἀλλ’ οὐ φυσικῶς γε δεῖ νομίσαι λέγειν· τὸ γὰρ εἶναι ἄττα τῶν ὄντων ἀγένητα καὶ ὅλως ἀκίνητα μᾶλλόν ἐστιν ἑτέρας καὶ προτέρας ἢ τῆς φυσικῆς σκέψεως. Ἐκεῖνοι δὲ διὰ τὸ μηθὲν μὲν ἄλλο παρὰ τὴν τῶν αἰσθητῶν οὐσίαν ὑπολαμβάνειν εἶναι, τοιαύτας δέ τινας νοῆσαι πρῶτοι φύσεις, εἴπερ ἔσται τις γνῶσις ἢ φρόνησις, οὕτω μετήνεγκαν ἐπὶ ταῦτα τοὺς ἐκεῖθεν λόγους 27 Perplessità analoghe sono espresse e discusse da Aristotele nei primi capitoli della Fisica (I, 2 e 3). 26 Coloro dunque che dapprima filosofarono intorno alla verità sono stati in disaccordo sia rispetto ai discorsi che noi proponiamo, sia reciprocamente. Gli uni, infatti, eliminarono completamente generazione e corruzione: sostengono in vero che nessuna delle cose che sono si generi o si corrompa, ma semplicemente che ciò sembra a noi. Così i seguaci di Melisso e Parmenide, i quali, anche se si esprimono adeguatamente sulle altre cose, tuttavia non si deve credere che parlino da un punto di vista fisico, dal momento che l'essere alcuni degli enti ingenerati e completamente immobili è proprio piuttosto di un'indagine diversa e prima rispetto a quella fisica. Costoro, invece, da un lato non ritenevano esistesse altro oltre la sostanza dei sensibili, dall'altro per primi pensarono delle nature di tale specie, se doveva esserci una qualche forma di conoscenza o intelligenza: così trasferirono su questi enti [sensibili] i ragionamenti riferiti a quell'ambito»(Aristotele, De Caelo III, 1 298 b12-24). Alludendo esplicitamente a Melisso e Parmenide, Aristotele ne disloca il contributo rispetto a una ricerca incardinata sulla ricostruzione dei processi di «generazione e corruzione» (γένεσις καὶ φθορά): considerare gli enti «ingenerati» (ἀγένητα) e «completamente immobili» (ὅλως ἀκίνητα) è proprio «di un'indagine diversa e prima rispetto a quella fisica» (μᾶλλόν ἐστιν ἑτέρας καὶ προτέρας ἢ τῆς φυσικῆς σκέψεως). Eppure l'analisi della Metafisica rivela come, secondo Aristotele, l’eleatismo presentasse al proprio interno incrinature e fratture che l'appiattimento operato dalla dossografia sofistica doveva aver coperto o trascurato28. Nel primo libro (Ι, 3 984 a27-b4) – dopo aver discusso «l'opinione circa la natura» (περὶ τῆς φύσεως ἡ δόξα) dei pensatori orientati a ricercare la causa prima (περὶ τῆς πρώτης αἰτίας) in ambito materiale (di cui Talete sarebbe stato «i- 28 J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, OUP, Oxford 2009, p. 35 giustamente sottolinea come i raggruppamenti operati da Gorgia nel suo Sulla natura o sul non essere avessero incoraggiato l'assimilazione "riduttiva" di Parmenide e Melisso. Aristotele avrebbe avuto il merito di recuperare le differenze tra le relative posizioni. 27 niziatore», ἀρχηγὸς) – lo Stagirita marca una discontinuità nel contributo di Parmenide, capace di individuare la causa specifica del mutamento (τῆς μεταβολῆς αἴτιον): οἱ μὲν οὖν πάμπαν ἐξ ἀρχῆς ἁψάμενοι τῆς μεθόδου τῆς τοιαύτης καὶ ἓν φάσκοντες εἶναι τὸ ὑποκείμενον οὐθὲν ἐδυσχέραναν ἑαυτοῖς, ἀλλ’ ἔνιοί γε τῶν ἓν λεγόντων, ὥσπερ ἡττηθέντες ὑπὸ ταύτης τῆς ζητήσεως, τὸ ἓν ἀκίνητόν φασιν εἶναι καὶ τὴν φύσιν ὅλην οὐ μόνον κατὰ γένεσιν καὶ φθοράν (τοῦτο μὲν γὰρ ἀρχαῖόν τε καὶ πάντες ὡμολόγησαν) ἀλλὰ καὶ κατὰ τὴν ἄλλην μετα βολὴν πᾶσαν· καὶ τοῦτο αὐτῶν ἴδιόν ἐστιν. τῶν μὲν οὖν ἓν φασκόντων εἶναι τὸ πᾶν οὐθενὶ συνέβη τὴν τοιαύτην συνιδεῖν αἰτίαν πλὴν εἰ ἄρα Παρμενίδῃ, καὶ τούτῳ κατὰ τοσοῦτον ὅσον οὐ μόνον ἓν ἀλλὰ καὶ δύο πως τίθησιν αἰτίας εἶναι· Coloro, dunque, che fin dall’inizio aderirono completamente a tale tipologia di ricerca e sostennero che uno solo è il sostrato, non si resero conto di questa difficoltà, ma alcuni di coloro che affermano tale unicità, quasi sopraffatti da questa ricerca, sostengono che l’uno è immobile e che lo è anche la natura nel suo complesso, non solo rispetto a generazione e corruzione - questa è, infatti, [convinzione] antica, su cui tutti concordavano -, ma anche rispetto a ogni altro genere di mutamento. Questa è loro peculiarità. A nessuno, pertanto, di coloro che affermarono che il tutto [l’universo] è uno è capitato di scoprire tale tipologia di causa, tranne, forse, a Parmenide, e a costui nella misura in cui pone non solo l’uno, ma anche che le cause sono in un certo modo due. È significativo che, illustrando queste affermazioni di Aristotele nel proprio commento (in Metaphys. Ι, 3 984 b3), Alessandro di Afrodisia citi Teofrasto: τούτωι δὲ ἐπιγενόμενος Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης (λέγει δὲ [καὶ] Ξενοφάνην) ἐπ’ ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ 28 ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν. Venuto dopo costui (si riferisce a Senofane), Parmenide - figlio di Pyres, velino da Velia - percorse entrambe le strade. Dichiara infatti che il tutto è eterno, e cerca anche di spiegare la generazione degli enti, pur non affrontando entrambe allo stesso modo: piuttosto sostenendo, secondo verità, che il tutto è uno e ingenerato e di aspetto sferico; ponendo invece, secondo l’opinione dei molti – allo scopo di spiegare la generazione dei fenomeni [delle cose che appaiono] - che i principi siano due, fuoco e terra, l'una come materia, l'altro come causa e agente (DK 28 A7). Condizionata dalla stessa ricezione schematica, in entrambi i casi la valutazione del contributo di Parmenide è chiaramente orientata dalla prospettiva della περὶ φύσεως ἱστορία: non solo per l'attenzione alla «natura nel suo complesso» (τὴν φύσιν ὅλην), al «tutto uno» (ἓν τὸ πᾶν), ma soprattutto per l'evidenza della «ricerca dell'altro principio» (τὸ τὴν ἑτέραν ἀρχὴν ζητεῖν), cioè del «principio del movimento» (ἡ ἀρχὴ τῆς κινήσεως), per «spiegare la produzione dei fenomeni» (εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων). In questo senso Teofrasto poteva proporre Parmenide al centro di una delle due serie di pensatori affrontati sistematicamente: quella che collegava i primi a «rivelare ai Greci l’indagine intorno alla natura» (τὴν περὶ φύσεως ἱστορίαν τοῖς Ἕλλησιν ἐκφῆναι) 29 agli atomisti30. 29 G. Colli, La sapienza greca, Vol. II, Milano 1978, Adelphi, p. 247. Teofrasto, in effetti, prospetta Parmenide discepolo di Senofane - come riferiscono Diogene Laerzio (IX, 21, DK 28 A1), e i commentatori aristotelici Alessandro e Simplicio (DK 28 A7) - e di Anassimandro (secondo quanto attesta sempre Diogene Laerzio), associandolo poi a Empedocle - «ammiratore» (ζηλωτής) e «imitatore» (μιμητής) di Parmenide (DK 28 A9) - e Leucippo - «unito a Parmenide nella filosofia» (κοινωνήσας Παρμενίδηι τῆς φιλοσοφίας, DK 28 A8). 29 Per quanto possa apparire inverosimile da un punto di vista cronologico, l’accostamento ad Anassimandro non è tuttavia sorprendente31 e rivela il modus operandi di Teofrasto nelle sue ricostruzioni: egli insegue le tracce di problemi che sarebbero giunti ad adeguata formulazione solo successivamente, cogliendone lo sviluppo attraverso la connessione tra le principali personalità (per altro all’interno di rigide categorie aristoteliche)32. In questa prospettiva, allora, Parmenide, come abbiamo sopra registrato, avrebbe compiuto quanto da Anassimandro solo impostato: non si sarebbe limitato a mantenere la prospettiva del divenire distinta da quella del sostrato materiale, ma ne avrebbe anche individuato chiaramente i principi diversi33. Un secondo elemento di discontinuità all'interno dell'eleatismo è da Aristotele individuato nella concezione dell'unità dell'universo (περὶ τοῦ παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως), di cui si sottolineano le ricadute interessanti anche «sull'indagine in corso intorno alle cause» (εἰς τὴν νῦν σκέψιν τῶν αἰτίων). Parmenide, infatti, avrebbe inteso l’uno «secondo la nozione [forma]» (κατὰ τὸν λόγον), ovvero come unità finita (essendo la finitezza espressione di determinatezza); Melisso, da parte sua, «secondo la materia» (κατὰ τὴν ὕλην), come unità indeterminata e quindi infinita. Senofane - «il primo tra costoro a essere partigiano dell'Uno» (πρῶτος τούτων ἑνίσας) e per ciò ancora una volta riconosciuto maestro di Parmenide – si sarebbe invece limitato, volgendosi «all'universo nel suo 30 L’altra doveva raccogliere Anassimandro, Anassimene, Anassagora, Archelao, Empedocle, Diogene di Apollonia. Determinante il ruolo riconosciuto complessivamente ad Anassimandro. 31 Nella ricerca contemporanea è stata sottolineata la dipendenza della cosmologia del poema Sulla natura dalla cosmologia e cosmogonia attribuite al Milesio: si veda in particolare Naddaf, op. cit., p. 138. D’altra parte, a dispetto di singoli elementi di convergenza, David Furley ha opportunamente marcato la distanza tra «the centrifocal universe» del poema e quello «lineare» delle cosmologie milesie (D. Furley, The Greek Cosmologists.Volume I: The formation of the atomic theory and its earliest critics, C.U.P., Cambridge 1987, pp. 53 ss.). 32 Un’ampia discussione della storiografia teofrastea sui presocratici si trova in G. Colli, La natura ama nascondersi. Physis kruptesthai philei, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano 1998, cap. II (Storicismo peripatetico). 33 G. Colli, La sapienza greca, Vol. II, cit., p. 327. 30 insieme» (εἰς τὸν ὅλον οὐρανὸν), ad affermarne la divinità (τὸ ἓν εἶναί φησι τὸν θεόν). Ribadendo un giudizio di valore già espresso nel Teeteto platonico (183e), lo Stagirita registra l'acutezza del contributo di Parmenide, a dispetto della sua eccentricità rispetto al focus "aitiologico". Messi da parte Melisso e Senofane come «un po’ troppo grossolani» (μικρὸν ἀγροικότεροι), egli infatti sottolinea: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν (περὶ οὗ σαφέστερον ἐν τοῖς περὶ φύσεως εἰρήκαμεν), ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (986 b27-987 a1). Nella ricostruzione aristotelica due sarebbero i cardini della dottrina parmenidea: (i) la convinzione circa l'unità dell'essere (ἓν οἴεται εἶναι) - da un punto di vista razionale (κατὰ τὸν λόγον) necessaria (ἐξ ἀνάγκης), imposta dalla disgiunzione e mutua esclusione tra essere e non-essere: «non esiste ciò che non è al di là di ciò che è» (παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν εἶναι); (ii) la presa d'atto dell'evidenza fenomenica: così, secondo noi, è da intendere l'espressione greca ἀναγκαζόμενος ἀκολουθεῖν τοῖς 31 φαινομένοις (letteralmente «costretto a essere guidato dai fenomeni [cose che appaiono]»). Proprio l'ineludibile rilievo empirico della molteplicità (πλείω κατὰ τὴν αἴσθησιν) avrebbe imposto un nuovo campo d'indagine, inducendo Parmenide a introdurre «due cause e due principi» (δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς), ciò legittimando la sua rilevanza per la discussione aristotelica. Si tratta di una lettura che trova conferma nella dossografia successiva, anche in un autore, Plutarco, che attingeva probabilmente a una tradizione accademica, relativamente autonoma rispetto alla linea teofrastea: ὁ δ’ ἀναιρεῖ μὲν οὐδετέραν φύσιν, ἑκατέρᾳ δ’ ἀποδιδοὺς τὸ προσῆκον εἰς μὲν τὴν τοῦ ἑνὸς καὶ ὄντος ἰδέαν τίθεται τὸ νοητόν, ὂν μὲν ὡς ἀίδιον καὶ ἄφθαρτον ἓν δ’ ὁμοιότητι πρὸς αὑτὸ καὶ τῷ μὴ δέχεσθαι διαφορὰν προσαγορεύσας, εἰς δὲ τὴν ἄτακτον καὶ φερομένην τὸ αἰσθητόν. ὧν καὶ κριτήριον ἰδεῖν ἔστιν, ‘ἠμὲν Ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεκ < ὲς ἦτορ >’, τοῦ νοητοῦ καὶ κατὰ ταὐτὰ ἔχοντος ὡσαύτως ἁπτόμενον, ‘ἠδὲ βροτῶν δόξας αἷς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής’ (Parmen. B 1, 29. 30) διὰ τὸ παντοδαπὰς μεταβολὰς καὶ πάθη καὶ ἀνομοιότητας δεχομένοις ὁμιλεῖν πράγμασι. καίτοι πῶς ἂν ἀπέλιπεν αἴσθησιν καὶ δόξαν, αἰσθητὸν μὴ ἀπολιπὼν μηδὲ δοξαστόν; οὐκ ἔστιν εἰπεῖν. [Parmenide] non elimina alcuna delle due nature, ma a ognuna conferendo ciò che le è proprio, pone l'intelligibile nella classe dell'uno e dell'essere, definendolo "essere" in quanto eterno e incorruttibile, e ancora uno per uguaglianza a se stesso e per non accogliere differenza; il sensibile invece in quella di ciò che è disordinato e in mutamento. Il criterio di ciò è possibile vedere: «il cuore preciso della Verità ben convincente», che raggiunge l'intelligibile e quanto è sempre nelle medesime condizioni, e «le opinioni dei mortali in cui non è vera certezza» [B1.29-30], perché esse sono congiunte con cose che accolgono ogni forma di mutamento, di affezioni e disuguaglianze. Come avrebbe potuto allora conservare sensazioni e opinione, non conservando il sensibile e 32 l'opinabile? Non è possibile sostenerlo (Plutarco, Adversus Colotem 1114 d-e). Le osservazioni di Plutarco sono particolarmente significative perché intervengono a correggere l'interpretazione "melissiana" di Parmenide (proposta da Colote), secondo cui «Parmenide cancella ogni cosa postulando l'essere uno» (πάντ’ ἀναιρεῖν τῷ ἓν ὂν ὑποτίθεσθαι τὸν Παρμενίδην): è appunto contro questo fraintendimento che il platonico attribuisce anacronisticamente all'Eleate l'articolazione della realtà in «intelligibile» (τὸ νοητόν) e «sensibile» (τὸ αἰσθητόν), avendo in precedenza ricordato lo sforzo del Poema di produrre un «sistema del mondo» (διάκοσμον), in conformità con quanto ci si poteva attendere da un «naturalista arcaico» (ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι): ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro (Adversus Colotem 1114b, DK 28 B10). Questa testimonianza rafforza la convinzione che - sia per la tradizione dossografica antica, sia per la posteriore (in gran parte però dipendente da quella) - il tema del Poema parmenideo fosse anche la φύσις (nel senso sopra sommariamente ricostruito), seb- 33 bene se ne registrasse la "eccentricità" 34 e quindi la problematica riducibilità al paradigma della περὶ φύσεως ἱστορία. Tra ricerca περὶ φύσεως e ricerca περὶ τῆς ἀληθείας Aristotele, introducendo l’indagine «sull’essere in quanto essere» (περὶ τὸ ὂν ᾗ ὂν), su ciò che appartiene «a tutte le cose in quanto enti» (ᾗ ὄντα ὑπάρχει πᾶσι), la differenzia rispetto a ricerche più specifiche: ciò che la connota è, infatti, accanto alla eziologia propria di ogni sapere, l'apertura alla totalità della realtà. Riguardo alla περὶ φύσεως ἱστορία, tuttavia, la sua posizione è più sfumata: l'originale speculazione sull’«essere in quanto essere» è proposta, infatti, in continuità con la precedente tradizione: ἐπεὶ δὲ τὰς ἀρχὰς καὶ τὰς ἀκροτάτας αἰτίας ζητοῦμεν, δῆλον ὡς φύσεώς τινος αὐτὰς ἀναγκαῖον εἶναι καθ’ αὑτήν. εἰ οὖν καὶ οἱ τὰ στοιχεῖα τῶν ὄντων ζητοῦντες ταύτας τὰς ἀρχὰς ἐζήτουν, ἀνάγκη καὶ τὰ στοιχεῖα τοῦ ὄντος εἶναι μὴ κατὰ συμβεβηκὸς ἀλλ’ ᾗ ὄν· διὸ καὶ ἡμῖν τοῦ ὄντος ᾗ ὂν τὰς πρώτας αἰτίας ληπτέον Dal momento che ricerchiamo i principi e le cause supreme, è evidente come esse riguardino necessariamente una certa natura [realtà] in quanto tale. Se dunque coloro che ricercano gli elementi delle cose ricercavano questi principi, è necessario che fossero anche gli elementi dell'essere non per accidente ma in quanto essere. Per questo motivo dobbiamo comprendere le cause prime dell'essere in quanto essere» (Metafisica IV, 1 1003 a26-32). «Gli elementi costitutivi delle cose che sono» (τὰ στοιχεῖα τῶν ὄντων) – nella misura in cui sono intesi come principi di tutte – 34 Ci siamo occupati di questo aspetto in Parmenide e la tradizione del pensiero arcaico (ovvero della sua eccentricità), in Il quinto secolo. Studi di filosofia antica in onore di Livio Rossetti, a cura di S. Giombini e F. Marcacci, Aguaplano, Perugia] risultano in effetti «elementi dell'essere in quanto tale» (τὰ στοιχεῖα τοῦ ὄντος ᾗ ὄν), costitutivi di tutto ciò che è. In questo senso la cifra sapienziale comune alla «scienza dell'essere in quanto essere» (ἐπιστήμη ἣ θεωρεῖ τὸ ὂν ᾗ ὂν) e all'indagine dei φυσικοί è data, in definitiva, dalla convergente modalità di realizzazione: «ricercare i principi e le cause prime» (τὰς ἀρχὰς καὶ τὰς ἀκροτάτας αἰτίας ζητεῖν) della realtà. Più avanti nello stesso libro, infatti, Aristotele rileva come «alcuni dei fisici» (τῶν φυσικῶν ἔνιοι) si fossero mostrati evidentemente consapevoli di «ricercare sulla natura [realtà] nella sua interezza e sull’essere» (περί τε τῆς ὅλης φύσεως σκοπεῖν καὶ περὶ τοῦ ὄντος, Metafisica IV, 3 1005 a32- 33), intendendo quindi la «natura» come una totalità omogenea (dal punto di vista dell'essere), cui ineriscono determinate proprietà riconducibili a principi universali. Ritenendo così che φύσις e τὸ ὂν coincidessero, che la φύσις cioè costituisse «tutta la realtà», quei «fisici» avrebbero manifestato interesse per gli «assiomi» (ἀξιώματα), i principi più generali di tutti, quelli che «appartengono a tutti gli enti» (ἅπασι ὑπάρχει τοῖς οὖσιν), la cui discussione non è di competenza dello specialista (che si limita ad applicarli) ma appunto della «ricerca del filosofo» (τῆς τοῦ φιλοσόφου [σκέψεως]). Il riferimento è indeterminato ed è stato precisato in modo diverso dagli interpreti: noi riteniamo che esso coinvolga direttamente Eraclito (per la riflessione sul logos) e in particolare Parmenide, soprattutto in considerazione del lessico dei frammenti B2 e B8. Un lessico che effettivamente sembra istituire la riflessione ontologica, sia con l'analisi dei «segni» (σήματα), delle proprietà che manifestano τὸ ἐόν, sia con l'insistenza sulla reciproca implicazione di verità ed essere. Natura, essere, verità Lo Stagirita, in effetti, rilegge la tradizione anche alla luce di un'intenzione veritativa di fondo: 35 ὅμως δὲ παραλάβωμεν καὶ τοὺς πρότερον ἡμῶν εἰς ἐπίσκεψιν τῶν ὄντων ἐλθόντας καὶ φιλοσοφήσαντας περὶ τῆς ἀληθείας consideriamo comunque anche coloro che prima di noi hanno proceduto alla ricerca intorno agli enti e hanno filosofato intorno alla verità (Metafisica I, 3 983 b1), Espressioni come «coloro che dapprima filosofarono intorno alla verità» (οἱ μὲν οὖν πρότερον φιλοσοφήσαντες περὶ τῆς ἀληθείας, De Caelo III, 1 298 b12), ovvero che «indagarono la verità intorno agli enti» (περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν, Metafisica IV, 5 1010 a1), rivelano come Aristotele intendesse l'indagine sulla natura come indagine sulla verità, la prima comportando una presa di posizione circa ciò che è Realtà 35. In questo senso i primi filosofi avevano contribuito «all’indagine sugli enti» (εἰς ἐπίσκεψιν τῶν ὄντων): in quanto convinti che la natura fosse la realtà fondamentale, ricercando «sulla natura [realtà] nella sua interezza» (περί τε τῆς ὅλης φύσεως) essi avevano offerto anche riflessioni «sull’essere» (περὶ τοῦ ὄντος): ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. Coloro che per primi hanno ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti, furono sviati come su una certa altra strada, sospinti dall'inesperienza: essi sostennero che delle cose che sono nessuna si generi o si distrugga, poiché ciò che si genera origina o da ciò che è o da ciò che non è; ma ciò è 35 W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994, p. 16. 36 impossibile da entrambi i punti di vista. Ciò che è, infatti, non si genera (dal momento che è già); né da ciò che non è è possibile si generi alcunché: è richiesto in effetti qualcosa che funga da sostrato. E aggravando in questo modo la conseguenza immediata, affermarono che non esistano i molti ma che esista solo l'essere stesso (Fisica I, 8 191 a25 ss.). Il passo è di grande interesse: nell'ambito di una discussione sui principi (il primo libro della Fisica compare nei cataloghi antichi come Περὶ ἀρχῶν), Aristotele (i) intende la riflessione dei primi filosofi (οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι) come indagine a un tempo sulla natura e sulla verità (ζητοῦντες τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων), e (ii) attribuisce il loro "sviamento", la loro erranza, a una precoce analisi ontologica condotta con imperizia (ὑπὸ ἀπειρίας). Benché spesso riferita dai commentatori specificamente agli Eleati, la difficoltà segnalata potrebbe intendersi rivolta a coloro che avevano operato la riduzione a elementi base (questo appare il significato nel contesto di τὰ ὄντα) 36. In tal caso Aristotele riconoscerebbe all'indagine dei «fisici» un filo conduttore ontologico, che in Parmenide sarebbe stato pienamente esplicitato. È significativo che dalle intestazioni attribuite (probabilmente sin dall'antichità 37) alle opere di Melisso e Gorgia (di una generazione posteriore a quella di Parmenide) emergesse già la consapevolezza dell'inadeguatezza del tradizionale repertorio Περὶ φύσεως, con la proposta di Περὶ φύσεως ἢ περὶ τοῦ ὄντος, nel primo caso, e Περὶ τοῦ μὴ ὄντος ἢ περὶ φύσεως nel secondo; e che in ambi- 36 Su questo in particolare Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 130 ss.. 37 È tradizionalmente riconosciuto che l'intenzione dello scritto gorgiano era di ribaltare le tesi eleatiche (per esempio, W.K.C. Guthrie, The Sophists, C.U.P., Cambridge 1971, pp. 270-271). I due resoconti dell'opera – quello di Sesto Empirico (che ci fornisce anche la titolazione completa) e quello dell'Anonimo del De Melisso, Xenophane et Gorgia (forse I secolo d.C.) – potrebbero dipendere da Teofrasto ed essere stati semplicemente elaborati in modo diverso. In alternativa, per la seconda redazione, si è supposta la mano di un peripatetico antico (si veda la nota di M. Untersteiner in Sofisti, Testimonianze e frammenti, a cura di M. Untersteiner, con la collaborazione di A. Battegazzore, Bompiani, Milano 2009, p. 234). 37 to sofistico proliferassero opere sulla «Verità» (Περὶ τῆς ἀληθείας e Ἀλήθεια sono le titolazioni attribuite alle opere principali rispettivamente di Antifonte e di Protagora). Aristotele, in ogni caso, con la formula «indagine sulla verità» intende un’indagine sulla realtà genuina, tesa ad accertare quale essa sia, spingendosi oltre le apparenze che la occultano38. Illuminante un passo di De generatione et corruptione: Ἐκ μὲν οὖν τούτων τῶν λόγων, ὑπερβάντες τὴν αἴσθησιν καὶ παριδόντες αὐτὴν ὡς τῷ λόγῳ δέον ἀκολουθεῖν, ἓν καὶ ἀκίνητον τὸ πᾶν εἶναί φασι καὶ ἄπειρον ἔνιοι· τὸ γὰρ πέρας περαίνειν ἂν πρὸς τὸ κενόν. Οἱ μὲν οὖν οὕτως καὶ διὰ ταύτας τὰς αἰτίας ἀπεφήναντο περὶ τῆς ἀληθείας· ἐπεὶ δὲ ἐπὶ μὲν τῶν λόγων δοκεῖ ταῦτα συμβαίνειν, ἐπὶ δὲ τῶν πραγμάτων μανίᾳ παραπλήσιον εἶναι τὸ δοξάζειν οὕτως A partire dunque da questi ragionamenti, e spingendosi oltre la sensazione e ignorandola, dal momento che si dovrebbe seguire il ragionamento, alcuni dicono che il tutto [l'universo] è uno, immobile e infinito: il limite, infatti, confinerebbe con il vuoto. Costoro, dunque, in questo modo e per queste ragioni si sono espressi sulla verità: ora, alla luce dei ragionamenti sembra che queste cose accadano così; alla luce dei fatti, invece, il pensare così sembra quasi follia (Aristotele, De generatione et corruptione I, 8 325 a13ss.). Qui Aristotele stigmatizza, per la sua paradossalità (sintomatico il riferimento alla «follia»), una forma di «razionalismo eleatico» 39 che, nel riferimento all'infinito, appare sostanzialmente melissiano40: il contributo all'indagine sulla verità scaturisce da una 38 Leszl, op. cit., p. 17. 39 Così Migliori, Aristotele, La generazione e la corruzione, traduzione, introduzione e commento di M. Migliori, Loffredo Editore, Napoli 1976, p. 200. 40 Non è un caso che Reale abbia accolto le prime righe del passo aristotelico come un vero e proprio frammento di Melisso: Melisso, Testimonianze e frammenti, traduzione, introduzione e commento di G. Reale, Firenze 1970, La Nuova Italia, pp. 98-104. 38 ricerca volta alla comprensione della realtà naturale nel suo insieme (τὸ πᾶν). Una ricerca, dunque, a un tempo "ontologica" ed "epistemologica" (in senso lato), nella misura in cui la determinazione della realtà genuina dipende da considerazioni di ordine gnoseologico (delineate nella contrapposizione ἐπὶ μὲν τῶν λόγων - ἐπὶ δὲ τῶν πραγμάτων). Ora, nei frammenti parmenidei non mancano indizi (come rivelano le letture antiche) della possibilità che l'espressione τὸ ἐόν («ciò che è» ovvero «l'essere»), di cui si definiscono proprietà strutturali - «senza nascita» (ἀγένητον) «senza morte» (ἀνώλεθρον), «tutto intero» (οὖλον), «uniforme» (μουνογενές), «saldo» (ἀτρεμές) (B8.4-5) – si riferisca a quel che Aristotele indica come τὸ πᾶν, il Tutto dell’universo41: Parmenide, nel suo sforzo di evitare le incongruenze colte nelle coeve indagini sull'origine e sulla struttura del mondo naturale42, avrebbe trasfigurato lo spazio cosmico nel compiuto, omogeneo, immutabile campo dell’«essere», così spingendo la filosofia naturale ai limiti di logica e metafisica43. Né, d'altra parte, mancano tracce di una trattazione περὶ τῆς ἀληθείας44: la prima sezione del Poema si apre e si chiude con chiare menzioni della Verità – intesa come la Realtà oggetto dell'esposizione stessa, mentre l'impianto dicotomico dell'opera tràdita riflette la tensione tra il resoconto genuino di quella realtà e una sua accettabile ricostruzione a partire dall'esperienza che gli uomini ne hanno. 41 Interpreta in questo senso D. Furley, The Greek Cosmologists, cit., p. 54. Conche – in Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec, traduction, présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1996, p. 182 – osserva come l’essere abbia a che fare con il Tutto, con l’insieme di ciò che è, e sia dunque coestensivo al mondo. Una prospettiva analoga a quella che proponiamo è espressa da M. Kraus, "Sein, Raum und Zeit im Lehrgedicht des Parmenides", in G. Rechenauer (Hg.), Frügriechisches Denken, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2005, pp. 252-269. Di particolare rilievo le pagine 260-1. 42 Lasciamo qui indeterminati i bersagli possibili, da ricercare comunque in ambito ionico e pitagorico. 43 D.W. Graham, “Empedocles and Anaxagoras: Responses to Parmenides”, in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, edited by A.A. Long, C.U.P., Cambridge 1999, p. 175. 44 Leszl, op. cit., p. 19. 39 Natura e verità in Parmenide In effetti, nel caso del poema di Parmenide, presumendone unitarietà e coerenza, possiamo registrare: (i) lo squilibrio di struttura: la (seconda) sezione dedicata all'esposizione dell'«ordinamento [del mondo] del tutto appropriato» (διάκοσμον ἐοικότα πάντα, B8.60) doveva essere assai più consistente di quella (la prima) relativa al «percorso di Persuasione, che si accompagna a Verità» (Πειθοῦς κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ, B2.4); (ii) il costante richiamo, nell'introduzione del διάκοσμος, a un lessico di conoscenza: B10 appare, in questo senso, un vero e proprio programma di istruzione cosmologica e cosmogonica, tra l'altro in sintonia con il modello poetico esiodeo della Teogonia45: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης [5] καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων. Conoscerai la natura eterea e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma dello splendente sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche della luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo vincolò a tenere i confini degli astri. 45 L’accostamento è naturale in Aristotele, quando, in apertura di Metafisica I, 4, introduce l’analisi della causalità efficiente, rinviando proprio ai precedenti di Esiodo e Parmenide sul ruolo cosmogonico di Amore. 40 Che l'articolata indagine prospettatavi possa essere rubricata come περὶ φύσεως ἱστορία sembra, alla luce delle considerazioni introduttive, indiscutibile, così come appare chiara la sua intenzione cognitiva: nella costruzione del Poema, è allora possibile rintracciare una corrispondenza tra la ricerca della seconda sezione e l'impegno ontologico-veritativo dei frammenti B2-B8. L'obiettivo dichiarato (nel proemio) della comunicazione divina è compiutamente conoscitivo, scandito da espressioni verbali dalla inequivocabile valenza cognitiva, in relazione tanto a Ἀληθείη quanto ai δοκοῦντα: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Ora è necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità. Nondimeno anche questo imparerai: come le cose accolte nelle opinioni era necessario fossero effettivamente, tutte insieme davvero esistenti (B1.28b-32). La Dea sottolinea il proprio impegno a (i) rivelare la realtà genuina (Ἀληθείη), tradizionale appannaggio divino, e (ii) denunciare le infondate (senza «reale credibilità», πίστις ἀληθής) «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξας), in ciò riflettendo il canonico pessimismo sulla condizione e comprensione umana che aveva trovato espressione nella poesia e nella sapienza antica: τοὔνεκά τοι ἐρέω, σὺ δὲ σύνθεο καί μευ ἄκουσον· οὐδὲν ἀκιδνότερον γαῖα τρέφει ἀνθρώποιο [πάντων, ὅσσα τε γαῖαν ἔπι πνείει τε καὶ ἕρπει.] οὐ μὲν γάρ ποτέ φησι κακὸν πείσεσθαι ὀπίσσω, ὄφρ’ ἀρετὴν παρέχωσι θεοὶ καὶ γούνατ’ ὀρώρῃ· ἀλλ’ ὅτε δὴ καὶ λυγρὰ θεοὶ μάκαρες τελέωσι, 41 καὶ τὰ φέρει ἀεκαζόμενος τετληότι θυμῷ. τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε. Per questo io ti dico e tu ascolta e comprendi: nulla è più inconsistente dell'uomo tra tutte le cose che nutre la terra, e sulla terra camminano e si muovono. Egli sostiene che nulla di male mai gli accadrà, fin quando gli dei concedono forza e le membra sono in movimento. Quando invece gli dei beati infliggono anche dolori, pure questi sopporta, suo malgrado, con animo paziente. Tale è la comprensione degli uomini che vivono sulla terra, quale il giorno che manda il padre degli dei e degli uomini (Odissea XVIII, 129-137) θνατὰ χρὴ τὸν θνατόν, οὐκ ἀθάνατα τὸν θνατὸν φρονεῖν il mortale deve pensare cose mortali, non cose immortali (Epicarmo, DK 23 B20) ἄρα θεὸς μὲν οἷδε τὴν ἀλήθειαν δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται soltanto dio conosce la verità, a tutti è dato solo opinare (Senofane, DK 21 A24). Ma il programma non si esaurisce nella contrapposizione tra comprensione divina e incomprensione umana, pur limpidamente e criticamente evocata. La rivelazione della realtà autentica - per la quale Parmenide ricorre a una perifrasi, impiegando due immagini: letteralmente «cuore che non trema» (ἀτρεμὲς ἦτορ) di «Verità ben rotonda» (Ἀληθείης εὐκυκλέος ovvero, secondo altri codici, «ben convincente», εὐπειθέος) - è certamente occasione per condannare di fronte al giovane poeta (κοῦρος) l’inattendibilità delle convinzioni umane. Essa, nell'economia del poema, appare tuttavia funzionale anche alla presentazione di un resoconto alternativo, plausibile (δοκίμως), del mondo dell'esperienza (τὰ δοκοῦντα): a dispetto dell'inaffidabilità delle correnti opinioni mortali, è possibile delinearne una sintesi compatibile con la lezione di verità della prima istruzione. Difficile credere che Parmenide non fosse in qualche misura convinto della bontà del punto di vista espresso negli attuali frammenti, ovvero della ἱστορία περὶ φύσεως tracciatavi, anche perché i rilievi del testo richiamano puntualmente i divieti di B2-B8: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9). Discorso affidabile e ordinamento verosimile Eppure il passaggio tra le due sezioni è marcato in modo inequivocabile: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando che può ingannare (B8.50-2). 46 Lesher, op. cit., p. 240. 43 In questi versi si incrociano le due prospettive che Parmenide tenta di salvaguardare all'interno della tradizionale opposizione tra umano e divino: (i) da un lato la "superiore" ottica della divinità, che si esprime in un logos degno di fiducia: svolgendo rigorosamente la propria disamina dall'alternativa «è e non è possibile non essere»-«non è ed è necessario non essere», esso riconosce che: ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον· οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές senza nascita è ciò che è e senza morte, tutto intero, uniforme, saldo e senza fine; né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo (B8.3b-6a), (ii) dall'altro i punti di vista umani, molteplici e concorrenti, insidiosi e potenzialmente dispersivi: è esplicitamente all'interno di questo orizzonte che la Dea introduce la seconda sezione: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti. Nessun resoconto cosmologico, nella misura in cui si riferisca alle vicende di una molteplicità di enti in divenire (instabili e mutevoli), può essere considerato completamente affidabile, come, invece, il discorso su «ciò che è» (τὸ ἐόν), sulla realtà colta come totalità (unitaria, immutevole, essendo nel suo complesso tutto ciò che è). Per valutare correttamente l'impresa parmenidea dobbiamo tenere conto di due elementi: 44 (a) del contributo scientifico47 (prevalentemente in campo cosmologico48) riconosciuto a Parmenide nell’antichità: ancora una volta è interessante soprattutto il fatto che Teofrasto (DK 28 A44) gli attribuisse la scoperta della sfericità della Terra: ἀλλὰ μὴν καὶ τὸν οὐρανὸν πρῶτον ὀνομάσαι κόσμον καὶ τὴν γῆν στρογγύλην, ὡς δὲ Θεόφραστος [Phys. Opin. 17] Παρμενίδην, ὡς δὲ Ζήνων Ἡσίοδον [in riferimento a Pitagora] ma fu anche il primo a chiamare il cielo cosmo e la terra sferica; per Teofrasto fu invece Parmenide, per Zenone Esiodo, e che altre fonti risalissero all’Eleate per osservazioni sulla identità di Espero e Lucifero (DK 28 A40a): Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ καὶ Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι· μεθ’ ὃν τὸν ἥλιον, ὑφ’ ὧι τοὺς ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ οὐρανὸν καλεῖ Parmenide pone come primo nell'etere Eos, lo stesso da lui chiamato anche Espero; dopo di esso pone il Sole, sotto questo, nella parte ignea che chiama cielo, gli astri, e sulla natura solare della luce della Luna: Π. ἴσην τῶι ἡλίωι [sc. εἶναι τὴν σελήνην]· καὶ γὰρ ἀπ’ αὐτοῦ φωτίζεται 47 Per una recente valorizzazione di questo aspetto G. Cerri, La riscoperta del vero Parmenide, introduzione a Parmenide di Elea, Poema sulla natura, introduzione, testo, traduzione e note a cura di G. Cerri, Milano 1999, BUR Rizzoli (in particolare pp. 52-57); D.W. Graham, Explaining the Cosmos.The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton University Press, Princeton and Oxford 2006, pp. 179-182. 48 Naddaf ha d’altra parte segnalato come il modello cosmogonico della seconda sezione del poema dovesse essere influenzato da una prospettiva biologica e ricordato opportunamente le tracce di una «antropogonia», attestata da Diogene Laerzio (DK 28A1). Si veda G. Naddaf, The Greek Concept of Nature, cit., pp. 137-138. 45 Parmenide [dice che] la luna è uguale al sole: da esso è infatti illuminata (DK 28 A42); (b) dell'evidente contrasto tra la condanna della confusione "mortale" tra le due vie: οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso torna all'indietro (B6.8-9) οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα Mai questo sarà forzato: che siano cose che non sono (B7.1), ovvero dell’irrisolta opposizione nelle cosmogonie correnti (ioniche? pitagoriche?): μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν· τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme, delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada (B8.53-4), e la sottolineatura (nel già citato B9) della riduzione omogenea all'essere delle forme introdotte per il διάκοσμος ἐοικώς: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9). 46 La distinzione tra i due momenti dell'istruzione divina sembra quindi consapevolmente delineare due distinte forme di conoscenza: (a) la certezza della comprensione razionale – evocata dalla reiterazione di νοεῖν (comprendere, concepire, pensare) e νόος (intelligenza, pensiero), nonché di espressioni come κρῖναι δὲ λόγῳ («giudica con il ragionamento») - degli attributi universali di «ciò che è» (τὸ ἐόν, il complesso della realtà colto come tutto-intero); (b) la plausibilità di una conoscenza – l'uso di verbi di conoscenza è indiscutibile nei frammenti attribuiti alla seconda sezione - che possiamo definire "empirica", dal momento che si concentra sulla natura delle cose che incontriamo nella nostra esperienza49. In realtà il quadro è più complesso, perché fortemente condizionato da una cornice religiosa che deve indurre cautela. Intanto, quella che abbiamo indicato come «conoscenza razionale» (via d'accesso privilegiata alla Verità) è proposta come contenuto diretto di una rivelazione (B1) che costituisce il contesto dell'intera esposizione del Poema, e che pone immediatamente (B2) le premesse da cui dipendono i ragionamenti successivi. Come avremo modo di sottolineare nel commento, tale rivelazione non appare un semplice escamotage poetico, estrinseco rispetto alla comunicazione di verità, ma, al contrario, il vero nucleo propulsivo dell’opera, la condizione di continuità entro cui le due sezioni assumono il loro senso e il loro statuto50. Un elemento andato perduto nella ricezione di Parmenide nel IV secolo a.C. (che, infatti, non ci ha conservato citazioni dal proemio), ma in sé di grande interesse per la collocazione culturale dell'Eleate e per la valutazione del suo contributo. L'oggetto di tale conoscenza - τὸ ἐόν – appare, a sua volta, nei frammenti sia come risultato di una costruzione logica: 49 Lesher, op. cit., p. 241. 50 Su questo punto insiste Lambros Couloubaritsis, nella nuova edizione (La pensée de Parménide, Éditions Ousia, Bruxelles 2008) del suo Mythe et Philosophie chez Parménide. 47 ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale (B8.15b-18), sia come concrezione di una sintesi intuitiva, a partire dallo sguardo rivolto alla molteplicità degli enti: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere, né disperdendosi completamente in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi (B4). In questo secondo caso, la costante presenza dell'essere è giustapposta alla presenza-assenza degli enti, prefigurando l'opposizione tra l'immutabile presente dell'uno: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo (B8.5-6a) e il divenire - scandito da passato, presente e futuro – degli altri: οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι 48 καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε τελευτήσουσι τραφέντα Ecco, in questo modo, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, in seguito sviluppatesi, avranno fine (B19.1-2). Ciò può suggerire che i due momenti del discorso divino riflettano l'originale rielaborazione parmenidea della tensione, implicita nella cultura delle origini, tra la dimensione temporale delle cose in divenire (τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, «le cose che sono, le cose che sono state e le cose che saranno», Iliade I, 70) e quella peculiare alla concezione arcaica del divino (θεοὶ αἰὲν ἐόντες, «dei che sono sempre», Iliade I, 290)51. La distinzione ben delineata nei frammenti tràditi, come abbiamo visto, è quella tra: (i) la certezza (πίστιος ἰσχύς) che scaturisce dal giudizio razionale su τὸ ἐὸν: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν Dire e pensare: «ciò che è è», è necessario: essere è infatti possibile, il nulla, invece, non è (B6.1-2a); (ii) la verosimiglianza del resoconto cosmologico, che pur legittimato dalla parola divina: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti (B8.60-1) si rivolge all'origine e sviluppo di fenomeni prodotti dall'azione celeste: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα 51 Ivi, p. 102. 49 σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης καὶ φύσιν Conoscerai la natura eterea e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma dello splendente Sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche della Luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura (B10.1-5a), e, ulteriormente, ai fondamenti cosmogonici e cosmologici (in questo senso alle condizioni generali del mondo naturale): εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidando lo vincolò a tenere i confini degli astri (B10.5b-7). La certezza è prodotto del «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος) associato a Verità (Ἀληθείη) ed essere (τὸ ἐὸν): Parmenide insiste sulla necessità di tale sapere, chiaramente correlata a immutabilità, identità e stabilità del suo oggetto. La ricostruzione del διάκοσμος ἐοικώς riflette, d'altra parte, la mutevolezza dei fenomeni fissati dall'arbitrio delle denominazioni umane: in questo senso, rispetto all'affidabilità del «percorso di Persuasione» che manifesta la genuina realtà (la Verità), essa è proposta dalla Dea come κατὰ δόξαν, «secondo opinione». Essere e natura in Parmenide Nel proprio schema (Metafisica I, 5 986 b27-987 a1) - che già abbiamo commentato - Aristotele aveva dunque colto sostanzialmente nel segno: 50 Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν (περὶ οὗ σαφέστερον ἐν τοῖς περὶ φύσεως εἰρήκαμεν), ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere. La lettura aristotelica suggerisce, infatti, che l'oggetto – apparentemente diverso - delle due sezioni del Poema sia in verità identico, sebbene prospettato secondo differenti modalità gnoseologiche: «secondo ragione» (κατὰ τὸν λόγον) e «secondo sensazione» (κατὰ τὴν αἴσθησιν). Una considerazione puramente razionale fa emergere la realtà (naturale) come uno-tutto; il riferimento all'esperienza manifesta la pluralità dei fenomeni: nel primo caso il livello di astrazione fa perdere di vista i connotati fenomenici e risaltare i tratti di fondo della realtà; nel secondo l'urgenza di dar conto dei fenomeni spinge all'individuazione di efficaci principi esplicativi. Come non è possibile parlare di due oggetti diversi, così non può sfuggire nei frammenti il tentativo di Parmenide di ripensare il problema dei principi in termini ontologici, attribuendo cioè ai principi alcune caratteristiche dei «segni» di τὸ ἐὸν: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων, τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, 51 τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma etereo fuoco, che è mite, molto leggero, a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (B8.55-9) τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9). Questo autorizza l'ipotesi che la prima sezione – pur compiuta, autosufficiente e autonoma – fosse effettivamente intesa come preparatoria alla seconda, con la quale l'autore entrava in competizione (come sottolineato anche dalle parole della divinità) con altre cosmologie. È plausibile che il modello esplicativo del mondo naturale che vi si delinea abbia profondamente influenzato quello, fondato sulla nozione di mescolanza, adottato da Empedocle e Anassagora52, sensibili, tra l'altro, ai rilievi “ontologici” di 52 In modo diverso giungono a sostenere questa ipotesi P. Curd, The Legacy of Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton University Press, Princeton 1998; P. Thanassas, Parmenides, Cosmos, and Being. A Philosophical Interpretation, cit.; D.W. Graham, Explaining the Cosmos, cit.. 52 Parmenide53 – come risulterebbe da una serie di frammenti (DK 31 B8, B9, B11, B12; DK 59 B17). 53 D.W. Graham, “Empedocles and Anaxagoras: Responses to Parmenides”, in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit., p. 167. Per una più meditata e articolata riflessione sullo stesso tema, si può ora consultare D.W. Graham, Explaining the Cosmos, cit.. Si ipotizza che la consistenza dell'unica opera di cui la tradizione sostiene Parmenide sia stato autore, fosse approssimativamente di un migliaio di versi, 160 (circa) dei quali abbiamo ricevuto attraverso posteriori citazioni da parte di altri autori. Essi riferivano in qualche caso direttamente da una copia del poema, in altri indirettamente da selezioni antologiche ovvero da citazioni altrui. Riflettendo sulla storia di queste citazioni testuali, possiamo concludere che il poema di Parmenide sia stato oggetto di due distinti momenti di attenzione, a distanza di 4 secoli l’uno dall’altro, prima di scomparire definitivamente54. Il materiale del Poema Possiamo supporre che una prima diffusione di copie del Poema avvenisse sotto il controllo dell'autore e che forme di controllo sul testo e sulla sua circolazione fossero esercitate dagli allievi nel periodo immediatamente successivo alla sua morte. È plausibile che nel mondo greco occidentale si conservasse una memoria testuale autonoma, da collegare forse ad ambienti pitagorici 55, e che, analogamente, tradizioni del testo si affermassero anche in altre aree di civilizzazione greca, come l'Asia Minore, dove il poema sembra essere stato conosciuto abbastanza presto. Si tratta solo di congetture, dal momento che non disponiamo di evidenze di questa fase pre-platonica, ma, secondo Passa56, non è da escludere che a una di queste tradizioni abbia attinto Sesto Empirico. La prima attestazione del Poema risale a Platone, che cita per cinque volte Parmenide: nel Teeteto (180d a proposito della tesi dell’unità e della immobilità dell’Uno-Tutto), nel Simposio (178b 54 N.-L- Cordero, L’histoire du texte de Parménide, in Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, t. II, Problèmes d’interpretation, Vrin, Paris 1987, p. 4. 55 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 143. 56 Ibidem. 54 a proposito del primato di Eros), tre volte nel Sofista (237a e 258d a proposito del «parricidio»; 244e a proposito della struttura e indivisibilità del Tutto). Aristotele, a sua volta, replica la descrizione del Tutto già citata da Platone (Fisica 207 a18), cita il verso su Eros (Metafisica 984 b26) e trascrive l'attuale frammento 16 (Metafisica IV, 5 1009 b22). L’ultima citazione della prima "esistenza postuma" del Poema è in Teofrasto, che riprende tre volte il fr. 16 (in una versione diversa da quella aristotelica). È probabile che le citazioni del frammento 8 nello pseudo-aristotelico Su Melisso, Senofane e Gorgia e in Eudemo derivino da Platone 57. Dopo un lungo silenzio - segnale, secondo Cordero58, non propriamente di scomparsa del testo parmenideo, piuttosto di «mancato utilizzo» - il platonico Plutarco (I secolo d.C.) torna a fare uso abbondante dei frammenti del poema, aprendo di fatto la seconda stagione d’attenzione per l'opera - la più ricca di citazioni testuali - che dura fino a tutto il VI secolo. Caratteristica di questa fase è il ricorso al Poema non per illustrare la posizione dell'autore, ma per confermare o chiarire il tema oggetto di analisi da parte dei commentatori: è probabile che le citazioni non siano di prima mano, ma dipendano in gran parte da Platone, Aristotele e Teofrasto. A Simplicio, l’ultimo autore conosciuto che abbia usato un manoscritto dell’intera opera di Parmenide 59, dobbiamo la citazione (in gran parte come unica fonte) dei due terzi dei 160 versi tràditi del poema: egli cita estensivamente anche perché consapevole della rarità del testo già nella sua epoca (clamorosamente quella in cui aumenta il numero di autori che direttamente o indirettamente citano Parmenide: Damascio, Filopono, Asclepio, Boezio, Olimpiodoro60): καὶ εἴ τωι μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη τοῦ Παρμενίδου μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε 57 Cordero, op. cit., pp. 4-5. 58 Ivi, p. 5. 59 A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum, Assen/Maastricht 1986, p. 1. 60 Cordero, op. cit., p. 6. 55 τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου συγγράμματος anche a costo di sembrare insistente, vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto parmenideo (DK 28 A21). Cordero giudica molto probabile – sulla scorta del lavoro filologico di Diels – l'utilizzazione da parte di Proclo (V secolo) e Simplicio (VI secolo) di due differenti versioni del poema di Parmenide61. Damascio (V-VI secolo d.C.) cita sulla scorta del commento perduto di Giamblico (III-IV secolo d.C.) al Parmenide platonico. Altri autori antichi (V e VI secolo d.C.) come Ammonio, Filopono, Olimpiodoro e Asclepio potrebbero non aver avuto la possibilità di accedere direttamente a copia dell’intero poema62. Le fonti e i loro problemi Da un punto di vista culturale, possiamo rileggere questa storia disponendo le fonti in tre raggruppamenti63: (i) Platone, Aristotele, Teofrasto e Eudemo (tutti del IV secolo a.C.), gravitanti intorno alle due principali istituzioni filosofiche ateniesi: Accademia e Liceo; (ii) figure eterogenee appartenenti a centri di cultura ellenistico-romana: Plutarco (I sec.), Galeno (II sec.), Clemente Alessandrino e Sesto Empirico (II-III sec.), Diogene Laerzio (III sec.); (iii) figure cronologicamente e geograficamente distanti, ma unite culturalmente dal fondamentale neoplatonismo: Plotino (III sec.), Giamblico (III-IV sec.), Proclo (IV-V sec.), Damascio e Ammonio (V-VI sec.): Simplicio è loro discepolo. 61 Cordero, op. cit., p. 5. 62 Coxon, op. cit., p. 2. 63 Seguiamo Passa, op. cit., p. 21. 56 Fonti attiche Possiamo supporre che le fonti del primo gruppo abbiano avuto accesso a copie del poema: secondo Passa64, si può facilmente dimostrare, tuttavia, che in molti casi esse citano a memoria, ma è probabile che sfruttassero anche la prima sistemazione del materiale presocratico a opera dei sofisti. Si ritiene, infatti, che Platone e Aristotele ricorressero alle selezioni approntate nella seconda metà del V secolo a.C. da Ippia (che nella sua Συναγωγή aveva estratto, messo in relazione e commentato tesi presenti in opere poetiche e in prosa65) e Gorgia (che, a sua volta, aveva estrapolato dalla prima produzione filosofica enunciati teorici che potevano essere organizzati per contrapposizioni, così sottolineando gli insolubili contrasti tra filosofie: un'impostazione che certamente ha lasciato tracce ancora nelle opere ippocratiche, in Senofonte e Isocrate). Platone e Aristotele, che rivelano nelle loro opere di combinare i due approcci, pur avendo modo di consultare direttamente almeno una parte delle opere attribuite ai primi filosofi, sarebbero stati comunque condizionati dagli schemi sofistici nella loro lettura66. Se è plausibile, dunque, che le nostre fonti più antiche - Platone, Aristotele e i suoi discepoli Teofrasto e Eudemo - avessero accesso a copie dell’intero poema, è tuttavia significativo che Teofrasto e Eudemo non siano fonti primarie dei versi che citano e che lo stesso Aristotele citi (3 volte su 4) probabilmente sulla scorta dei dialoghi platonici (per altro poco accurati nel riportare il testo parmenideo)67. La disponibilità, inoltre, di differenti versioni dello stesso frammento (B16) in Aristotele e Teofrasto può essere indizio dell’esistenza, già nel IV secolo a.C., di almeno due distinte tradizioni manoscritte. Nonostante sia praticamente impossibile per noi risalire oltre la redazione attica del poema pos- 64 Ivi, p. 25. 65 J.-F. Balaudé, Hippias le passeur, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, pp. 288 ss.. 66 J. Mansfeld, Sources, in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit., pp. 26-27. 67 Ivi, pp. 2-3. 57 seduta dall'Accademia e dal Peripato, è dunque almeno ipotizzabile discriminare al suo interno tra il testo usato (o citato a memoria) da Platone e Aristotele e quello usato da Teofrasto. Né, come abbiamo in precedenza segnalato, si può escludere che redazioni alternative autonome siano sopravvissute nella tradizione più tarda68. La recente ricerca linguistica69 sottolinea come Platone citi da una versione già in parte "atticizzata" del Poema, che aveva dunque sopportato interventi simili a quelli operati (nello stesso periodo) sul testo omerico: modificazioni del vocalismo e introduzione di aspirazioni (in origine il testo doveva essere psilotico). Il testo riportato da Platone è nel complesso accurato, sebbene, secondo Passa, proprio a Platone si possa far risalire la spiccata propensione a interpretarlo, che diventerà poi norma per i neoplatonici, con conseguenti gravi alterazioni nelle loro redazioni. Da Platone e dalla sua scuola deriverà, fino a Proclo, quella tradizione "accademica" da cui è tratta la maggioranza delle citazioni del Poema disponibili. In considerazione di quanto sopra osservato, è plausibile che Aristotele, a sua volta, dipenda da Platone, mentre Teofrasto potrebbe aver attinto da fonte alternativa: è dalla ricerca dell'allievo di Aristotele che si sarebbe formata, in ambiente peripatetico, la tradizione "dossografica", quella delle fonti che derivano le proprie citazioni da compilazioni70. 68 Passa, op. cit., p. 26. 69 Ibidem. 70 La tradizione dossografica si apre in effetti con le Φυσικαὶ Δόξαι (nella tradizione per lo più indicato come Physicorum Opiniones) di Teofrasto (in 16 libri): integrata in periodo ellenistico, l’opera sarebbe stata poi utilizzata dagli Epicurei, Cicerone, Varrone, Enesidemo (fonte di Sesto Empirico, seconda metà II secolo), dal fisico Sorano (I-II secolo), Tertulliano (II-III secolo). Diels denominò questa revisione Vetusta Placita. Essa sarebbe stata ulteriormente rivisitata, abbreviata e integrata – nel I secolo – da un autore indicato come Aëtius, la cui raccolta, per noi perduta, è stato ricostruita da Diels. Il filologo tedesco ha mostrato come i Placita attribuiti a Plutarco (in realtà pseudo-Plutarco, II secolo) fossero una sintesi dell’opera di Aëtius (e il De historia philosophica di Galeno un’ulteriore riduzione di pseudoPlutarco) e soprattutto come da Aëtius (anche attraverso il materiale riassunto da pseudo-Plutarco) dipendessero la monumentale antologia (solo 58 Fonti ellenistico-romane Plutarco (esponente di punta della Media Accademia) è il primo autore, dopo il lungo silenzio dell'età ellenistica, a citare passi del Poema: gli attuali frammenti B1.29-30, B8.4, B13, B14, B15 hanno Plutarco come fonte; degli ultimi due egli è la nostra unica fonte. Sebbene dichiari di ricorrere ad appunti (ὑπομνήματα), alcune varianti di testo fanno supporre che egli citi da fonti attendibili71. È probabile attingesse a una tradizione vicina o identica a quella "accademica" (le sue citazioni presentano coincidenze con varianti trasmesse da Proclo), prima, tuttavia, delle alterazioni intervenute nella successiva tradizione neoplatonica. La redazione plutarchea di B1.29, infatti, coincide con quella di Sesto Empirico e Diogene Laerzio, ed è alternativa a quelle di Proclo e Simplicio72. Indicativo della validità della fonte plutarchea è soprattutto il caso di B13 (trasmesso anche da Platone, Aristotele, Sesto Empirico, Simplicio, Stobeo): Plutarco è l'unico testimone in grado di menzionare chiaramente soggetto e contesto del frammento, con l'indicazione della sezione cui la citazione apparteneva (un unicum nelle fonti)73. Dimestichezza con il Poema, secondo Coxon74, mostrerebbe nel complesso Clemente Alessandrino (per noi fonte più antica di quasi tutto ciò che cita75: B1.29 s., B3, B4, B8.3 s., B10), ma il fatto che di B8.4 egli sia l'unico a riportare la variante ἀγένητον (nella dossografia impiegata per sottolineare l'accordo di Parmenide con Senofane) - dove Simplicio presenta ἀτέλεστον - fa suppore, nella ricezione del testo, un condizionamento da parte di in parte conservata) di Stobeo (V secolo), Eclogae physicae, e la Graecarun affectionum curatio di Teodoreto (V secolo). A Teofrasto sarebbero in ultimo da ricondurre anche la Refutatio omnium haeresium di Ippolito (III secolo), gli Stromateis di altro pseudo-Plutarco (conservato da Eusebio), i capitoli dedicati ai primi filosofi greci nelle Vitae philosophorum di Diogene Laerzio (III secolo). Su questo Mansfeld, op. cit., pp. 23-24. 71 Passa, op. cit., p. 27. 72 Ivi, pp. 27-28. 73 Ivi, p. 28. 74 Coxon, op. cit., p. 5. 75 Ivi, p. 3. 59 versioni dossografiche. Più recisa la valutazione di Passa76, secondo cui gli atticismi delle citazioni rivelerebbero come Clemente lavorasse su un testo fortemenete modificato, di fonti atticizzate. Il livello di corruttela farebbe escludere (contro l'ipotesi di Coxon) la disponibilità di copia integrale del Poema. La ricerca di Passa ha evidenziato la peculiarità del contributo di Sesto Empirico nella storia del testo del Poema: egli sarebbe, in effetti, il solo a conservare nelle proprie citazioni tracce di una tradizione testuale alternativa a quella attica77. In particolare è Sesto - cui dobbiamo anche la citazione di B7.2-7 e B8.1-2) – l'unica fonte del Proemio (B1.1-30) e una sua interpretazione allegorica: in genere si afferma che esse dipendano da fonte intermedia, probabilmente di ambiente vicino a Posidonio, ma lo studioso italiano ha avanzato l'ipotesi che Sesto abbia utilizzato fonti diverse per il testo del proemio e per la sua parafrasi78. Questa dipenderebbe effettivamente da commento stoico; nel caso del testo del Proemio, tuttavia, Sesto è l'unico a conservare traccia dell'antica redazione psilotica del poema: probabile, dunque, che egli disponesse di una buona copia del Proemio, verosimilmente da esemplare di tutto il poema79. Che Sesto (ovvero la sua fonte) possa aver attinto a una terza tradizione testuale, è ipotesi che anche Cordero80 avanza, sebbene la citazione di B1.29-30 in tre lezioni differenti non ne possa costituire prova conclusiva. A tradizione testuale molto vicina a quella sestana (quindi non attica), potrebbe aver attinto anche Diogene Laerzio, che fornisce identica redazione di B1.29 e, con Sesto, una buona porzione di B7 (vv. 3-5)81. Fonti neoplatoniche La prima fonte neoplatonica – ovviamente dopo lo stesso Plotino (III secolo d.C.), che cita solo di passaggio frammenti isolati: 76 Passa, op. cit., p. 32. 77 Passa, op. cit., p. 29. 78 Ivi, p. 31. 79 Ibidem. 80 Cordero, op. cit., p. 5. 81 Coxon (op. cit., pp. 2-3) presume invece, nel caso di Sesto e di Diogene, fonti peripatetiche e stoiche. 60 B3, B8.5, B8.25, B8.43 - è costituita da Proclo, che fu scolarca dell'Accademia fino alla morte (fine V secolo). A lui dobbiamo un consistente numero di citazioni: gli attuali B1.29-30, B2, B3, B4.1, B5, B8.4, B8.5, B8.25, B8.26, B8.29-32, B8.35-36, B8.43- 45, che rivelano la sua familiarità con l’opera parmenidea82, ciò suggerendo la possibilità che avesse accesso a testo completo. Oggi si concorda83 sostanzialmente sulla notevole approssimazione dei suoi riferimenti, probabilmente risultato di citazioni a memoria, eppure si conviene che, in considerazione delle coincidenze non casuali con la versione di Plutarco, il testo di Proclo dovesse essere antico almeno quanto quello di Plutarco, e derivare dalla medesima tradizione testuale accademica84, sebbene ormai modificata dall'interpretazione neoplatonica di Parmenide. Nella propria edizione del Poema (1897)85 Hermann Diels attribuì a Simplicio - come fonte per la ricostruzione dell'opera di Parmenide - enorme valore. A conclusione della propria introduzione, il filologo tedesco da un lato assumeva che l'esemplare di Simplicio dovesse essere di qualità eccellente (im Ganzen vortrefflich), forse (vermutlich) risalente alla stessa biblioteca della scuola di Platone86, di cui egli fu uno degli ultimi esponenti prima della chiusura a opera di Giustiniano (529 d.C.); dall'altro, però, riconosceva anche come Simplicio e Proclo non potessero aver ricavato dalla stessa copia le rispettive citazioni. Così, nonostante risultassero legati alla stessa istituzione, secondo Diels i due commentatori neoplatonici avrebbero utilizzato codici diversi87, esemplari di versioni testuali alternative all'interno della stessa tradizione accademica. L'impostazione dielsiana nello specifico è stata di recente discussa con acribia da Passa88, secondo il quale è difficile credere 82 Coxon, op. cit., pp. 2-3. 83 Coxon, op. cit., pp. 5-6; Passa, op. cit., pp. 38-39. 84 Passa, op. cit., p. 39. 85 H. Diels, Parmenides Lehrgedicht, Academia Verlag, Sankt Augustin 20012, pp. 25-26. 86 Ivi, p. 26. 87 Ibidem. 88 Op. cit., pp. 35 ss. 61 che Simplicio potesse derivare la propria copia dalla biblioteca dell'Accademia, dal momento che: (i) dopo la chiusura decretata nel 529 dall'editto di Giustiniano, i filosofi neoplatonici (il diadoco Damascio e l'allievo Simplicio) prima si recarono in esilio presso il re persiano Cosroe (531), per ritirarsi poi (532) entro i confini dell'impero bizantino, a Harran (Mesopotamia) o in Siria; (ii) tutti i trattati simpliciani furono stesi dopo il ritorno dalla Persia, secondo questo ordine: (i) de caelo, (ii) in physicam, (iii) in categorias, (iv) de anima89. Simplicio – cui dobbiamo citazioni degli attuali B1.28-32, B2.3-8, B6, B7.1-2, B8, B10, B11, B12, B13, B20 - è stato, in effetti, generalmente considerato fonte attendibile anche dagli editori successivi: ancora Coxon90 giudicava l'esemplare a disposizione di Simplicio «a rare and excellent copy». Nonostante si possa registrare come un certo numero di sue citazioni sia ricavato da testi platonici, e plausibilmente sospettare che sia ricorso a ὑπομνήματα e/o compilazioni antologiche (conosce infatti due redazioni di B8.4, di cui una molto vicina all'esemplare di Plutarco e Proclo)91, a favore dell'affidabilità dell'attestazione di Simplicio depongono l'esplicito impegno a trasmettere documenti del pensiero antico ritenuti fondamentali e il fatto che egli mostri di padroneggiare la struttura del Poema sin dal primo commento aristotelico (de caelo) 92. Soprattutto hanno pesato, nella valutazione del suo contributo, i suoi espliciti rilievi, in precedenza citati: «vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto parmenideo» (DK 28 A21). Passa93 ha tuttavia messo in dubbio l'attendibilità della redazione simpliciana, facendo leva in particolare su un indizio: citando i vv. B8.53-59, Simplicio (in physicam 31, 3) segnala: 89 Ivi, p. 36. 90 Coxon, op. cit., p. 6. 91 Passa, op. cit. p. 40. 92 Ibidem. 93 Ivi, pp. 41-43. 62 καὶ δὴ καὶ καταλογάδην μεταξὺ τῶν ἐπῶν ἐμφέρεταί τι ῥησείδιον ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου ἔχον οὕτως· ἐπὶτῶι δέ ἐστι τὸ ἀραιὸν καὶ τὸ θερμὸν καὶ τὸ φάος καὶ τὸ μαλθακὸν καὶ τὸ κοῦφον, ἐπὶ δὲ τῶ ι π υ κ ν ῶ ι ὠ ν όμασται τὸ ψυχρὸν καὶ τὸ ζόφος καὶ σκληρὸν καὶ βαρύ· ταῦτα γὰρ ἀπεκρίθη ἑκατέρως ἑκάτερα tra i versi si riferisce un passo in prosa come dello stesso Parmenide, che dice così: per questo ciò che è raro è anche caldo, e luce e morbidezza e leggerezza; per la densità invece il freddo è indicato come oscurità, durezza e pesantezza. Dopo B8.57, evidentemente, nella copia utilizzata da Simplicio, uno scolio era stato incorporato (da un copista che non si era reso conto trattarsi di καταλογάδην τι ῥησείδιον, di «un passo in prosa») all'interno del testo del Poema. Il commentatore, tuttavia, nel citare il passaggio, non sembra preoccuparsene, riferendolo sostanzialmente allo stesso Parmenide (ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου)! Whittaker94 ne ha inferito che: (i) l'esemplare simpliciano del Poema doveva presentarsi come «the product of unintelligent transcription from an annotated source»; (ii) la competenza del commentatore (che non si avvede dell'inquinamento del testo) in relazione al testo parmenideo doveva essere discutibile. Una valutazione che dovrebbe far riflettere sulla problematica situazione testuale del Poema, soprattutto accreditando l'ipotesi di Deichgräber95 che tutta la copia di Simplicio fosse corredata di scolii. Passa ha proposto un'interessante spiegazione dell'atteggiamento del commentatore neoplatonico: il mancato allarme di fronte all'inserto in prosa nel corpo esametrico del Poema deriverebbe dalla piena assimilazione del quadro proposto nel Sofista platonico (237a): 94 J. Whittaker, God, Time, Being. Two Studies in the Transcendental Tradition in Greek Philosophy, Osloae Citato da Passa, op. cit., pp. 41-2. 95 K. Deichgräber, "Xenophanes' περὶ φύσεως", «Rheinisches Museum» Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ διὰ τέλους τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ μέτρων - Οὐ γὰρ μή ποτε τοῦτο δαμῇ, φησίν, εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ’ ἀφ’ ὁδοῦ διζήμενος εἶργε νόημα [B7.1-2] Questo discorso ha osato ammettere che il non essere sia: il falso, in effetti, non potrebbe darsi diversamente. Il grande Parmenide, invece, caro figliolo, a noi che eravamo ragazzi testimoniava contro ciò dall'inizio alla fine, ribadendo ogni volta, nelle sue parole e nei suoi versi, che: «Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero». Platone documentava una pratica di insegnamento in cui si intrecciavano la memorizzazione dei contenuti fondamentali del Poema, l'esposizione dettagliata del maestro, l'approfondimento e il chiarimento di temi attraverso la comunicazione di informazioni supplementari96: è possibile che in tal modo egli recuperasse un modello effettivamente operante in ambito eleatico97. Non va inoltre dimenticato che, proprio a partire da questa "testimonianza" platonica, nella tradizione tarda (come attesta Suda, X secolo) si diffuse la convinzione che Parmenide avesse composto, oltre al Poema, anche opere in prosa: Παρμενίδης Πύρητος Ἐλεάτης φιλόσοφος, μαθητὴς γεγονὼς Ξενοφάνους τοῦ Κολοφωνίου, ὡς δὲ Θεόφραστος Ἀναξιμάνδρου τοῦ Μιλησίου. [...] ἔγραψε δὲ φυσιολογίαν δι’ ἐπῶν καὶ ἄλλα τινὰ καταλογάδην, ὧν μέμνηται Πλάτων 96 Passa, op. cit., p. 25. 97 Ne sono sostanzialmente convinti sia Cerri sia Passa, che richiamano questo punto. 64 Parmenide, figlio di Pireto, filosofo eleate, fu discepolo di Senofane di Colofone; secondo Teofrasto, al contrario, di Anassimandro di Mileto. Scrisse di scienza della natura in versi e di altri argomenti in prosa, come ricorda Platone (DK 28 A2). Non sorprenderà, quindi, che Simplicio, poco avveduto sul piano filologico, potesse frettolosamente ricondurre l'inserto in prosa a commento dello stesso autore. Queste considerazioni contribuiscono a ridimensionare la fiducia nell'attendibilità dell'attestazione simpliciana, che Passa98 giudica fondamentale ma sopravvalutata: [Simplicio] mancava infatti sia della capacità di inquadrare correttamente Parmenide nel suo vero contesto storico-culturale, sia di strumenti critici in grado di smascherare i vizi dell'esemplare in suo possesso. Quel che però risulta più preoccupante per l'editore del Poema parmenideo è la prospettiva che nelle citazioni simpliciane si riflettano interventi diretti sul testo, operati all'interno della scuola platonica, perché rispondesse alle sue aspettative teoriche: proprio il caso di Simplicio potrebbe essere esemplare, se accettiamo la ricostruzione di Passa99. Nell'ambiente siriaco in cui Simplicio avrebbe sviluppato tutta la sua opera di commento, si era radicata, a partire dal II secolo, una tradizione che, da Numenio a Giamblico (III secolo), aveva puntato a una rilettura della storia della filosofia (Φιλόσοφος ἱστορία era il titolo della grandiosa ricostruzione del maestro di Giamblico, il neoplatonico Porfirio, allievo diretto di Plotino) imperniata sulla rivelazione della Verità: la filosofia vi era infatti interpretata come recupero, con gradi variabili di approssimazione, di una verità eterna, di cui Pitagora (erede delle antiche dottrine di Zarathustra, Anassimandro, Egizi, Fenici, Caldei ed Ebrei) prima, 98 Passa, op. cit., p. 145. 99 Ivi, pp. 35 ss.. 65 e poi soprattutto Platone sarebbero stati i più lucidi testimoni100. Caratteristica dell'interpretazione siriaca di Giamblico (cui si deve un importante "canone" di lettura tematico-gerarchica dell'opera platonica101) rispetto all'interpretazione porfiriana102 era la valorizzazione dell'essenza "pitagorica" del pensiero di Platone (e Aristotele), che finiva per coinvolgere, in prospettiva, anche i pensatori presocratici: così, per esempio, Parmenide figurava nel catalogo dei pitagorici103. È in tale ambiente che Simplicio avrebbe recuperato in genere gli strumenti necessari al ripensamento di Platone e Parmenide (visto come anello di congiunzione104) e il materiale per le proprie citazioni. Le citazioni di Simplicio rimangono comunque fondamentali (in particolare per la possibilità del commentatore di ricorrere direttamente a esemplare del Poema, che consente di conservare caratteristiche formali autentiche, perdute in altri settori della tradizione105), ma non senza riconoscimento e consapevolezza della presenza - all'interno delle citazioni stesse - di (i) un evidente processo di adattamento linguistico (contrazioni, crasi) al modello attico; (ii) un possibile intervento sul lessico per impreziosire il testo106; (iii) una probabile "normalizzazione"107 del testo sul piano dei contenuti, alla luce della chiave di lettura neoplatonizzante e pitagorizzante. 100 Molto utili per la ricostruzione di questo quadro il saggio introduttivo di G. Girgenti, Interpetazione filosofica della Vita di Pitagora, in Porfirio, Vita di Pitagora, a cura di A.R. Sodano e G. Girgenti, Rusconi, Milano 1998, e l'introduzione dello stesso Sodano alla sua edizione di Porfirio, Storia della filosofia, Rusconi, Milano 1997. 101 (i) Platone-etico: Alcibiade Primo, Gorgia e Fedone; (ii) Platone-logico: Cratilo, Teeteto; (iii) Platone-fisico: Sofista e Politico; (iv) Platone-teologo: Fedro, Simposio, Filebo (per il sommo bene). Il tutto era poi ricomposto nella lettura di Timeo e Parmenide, che riassumevano tutto l'insegnamento platonico sulla natura e la teologia. 102 Girgenti, op. cit., p. 11. 103 Passa, op. cit., p. 37. 104 Ivi, p. 145. 105 Ivi, p. 42. 106 Operazione caratteristica del Neopitagorismo secondo Passa, ibidem. 107 Ibidem. Edizioni del testo consultate Per il testo e la traduzione ho tenuto conto delle seguenti edizioni contemporanee: H. Diels – W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Weidmannsche Verlagsbuchhandlung, Berlin 19526 [indicheremo l'edizione come Diels-Kranz ovvero DK. Per la traduzione italiana, quando non abbiamo personalmente tradotto, abbiamo utilizzato quella, a cura di Reale, “I presocratici” (Bompiani, Milano). P. Albertelli, Gli Eleati. Testimonianze e frammenti, Laterza, Bari  [indicheremo l'edizione come Albertelli] I presocratici. Frammenti e testimonianze. I. La filosofia ionica. Pitagora e l’antico pitagorismo. Senofane. Eraclito. La filosofia elatica, introduzione, traduzione e note a cura di A. Pasquinelli, Einaudi, Torino 1958 [indicheremo l'edizione come Pasquinelli] Parmenide, Testimonianze e frammenti, Introduzione, traduzione e commento a cura di M. Untersteiner, La Nuova Italia, Firenze 1958 [indicheremo l'edizione come Untersteiner] G.S. Kirk, J.E. Raven, The Presocratic Philosophers. A Critical History with a Selection of Texts, C.U.P., Cambridge 1963 [indicheremo l'edizione come Kirk-Raven] Parmenides. A Text with Translation, Commentary and Critical Essays, by L. Tarán, Princeton University Press, Princeton 1965 [rimane, per i problemi testuali e la loro discussione, una edizione di riferimento. La indicheremo com Tarán] Parmenides, Über das Sein, übersetzt von J. Mansfeld, herausgegeben von H. von Steuben, Reclam, Stuttgart 1981 Les deux chemins de Parménide, édition critique, traduction, études et bibliographie par N.-L. Cordero, Vrin, Paris 1984 [da 67 integrare con l’opera interpretativa aggiornata - dello stesso autore – By Being, It Is, Parmenides Publisher, Las Vegas 2004: complessivamente offrono un grande contributo testuale, grazie alla discussione delle difficoltà e al confronto costante con la tradizione dei manoscritti. Indicheremo lo studio del 2004 come Cordero] Parménide, Le poème, présenté par J. Beaufret, PUF, Paris 19863 (edizione originale 1955) A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum, Assen/Maastricht 1986 [fondamentale, anche per i riferimenti alla tradizione testuale e ai manoscritti, nonostante le riserve di O’Brien. La indicheremo come Coxon] Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, t. I, Le Poème de Parménide, texte, traduction, essai critique par D. O’Brien, Vrin, Paris 1987 [strumento molto utile per la discussione delle difficoltà testuali, ma anche per la doppia traduzione, francese e inglese, con le scelte conseguenti. Lo indicheremo come O'Brien] Parmenides of Elea, Fragments. A Text and Translation with an Introduction by D. Gallop, University of Toronto Press, Toronto 1987 [indicheremo l'edizione come Gallop] Parmenide, Poema sulla Natura. I frammenti e le testimonianze indirette, presentazione, traduzione e note a cura di G. Reale, saggio introduttivo e commentario filosofico a cura di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1991 [non si distingue tanto come strumento filologico, quanto per l’ampio commentario filosofico di corredo. Indicheremo la traduzione come Reale e il commento come Ruggiu] Parmenides, Die Fragmente, herausgegeben von E. Heitsch, Artemis & Winkler, Zürich 1995 [indicheremo l'edizione come Heitsch] Parménide, Sur la nature ou sur l’étant. La langue de l’être?, présenté, traduit et commenté par B. Cassin, Éditions du Seuil, Paris 1998 [indicheremo l'edizione come Cassin] Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec, traduction, présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1999 (edizione originale 1996) [indicheremo l'edizione come Conche] 68 Parmenide di Elea, Poema sulla Natura, introduzione, testo, traduzione e note di commento di G. Cerri, BUR, Milano 1999 [strumento essenziale – pur trattandosi di edizione tascabile - per la discussione dei principali problemi testuali, e la chiarificazione dei nessi con la letteratura greca arcaica. Lo indicheremo come Cerri] H. Diels, Parmenides Lehrgedicht mit einem Anhang über griechische Türen und Schlösser, mit einem neuen Vorwort von W. Burkert und einer revidierten Bibliographie von D. De Cecco, Academia Verlag, Sankt Augustin 20032 (edizione originale 1897) [rimane opera fondamentale, soprattutto per la comprensione dell’ambiente culturale e i motivi del poema. La indicheremo come Diels] Parmenide, Poema sulla natura, a cura di V. Guarracino, Edizioni Medusa, Milano 2006 Parmenide, Sull’Ordinamento della Natura. Per un’ascesi filosofica, a cura di Raphael, Edizioni Asram Vidya, Roma 2007 Die Vorsokratiker, Band II (Parmenide, Zenon, Empedokles), Auswahl der Fragmente und Zeugnisse, Übersetzung und Erläuterung von M. Laura Gemelli Marciano, Artemis & Winkler Verlag, Düsseldorf 2009 [indicheremo l'edizione come Gemelli Marciano] Le parole dei Sapienti. Senofane, Parmenide, Zenone, Melisso, traduzione e cura di A. Tonelli, Feltrinelli, Milano 2010 [indicheremo l'edizione come Tonelli] The Texts of Early Greek Philosophy. The Complete Fragments and Selected Testimonies of the Major Presocratics, translated and edited by D.W. Graham, Part I, C.U.P., Cambridge 2010 [indicheremo l'edizione come Graham] Per specifici problemi testuali risulta ancora illuminante A.P.D. Mourelatos, The Route of Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the Fragments, Yale University Press, New Haven – London 1970 (ora in edizione aggiornata presso Parmenides Publisher, Las Vegas 2008) [indicheremo l'opera genericamente come Mourelatos]. 69 Molto utili per la discussione di singoli problemi interpretativi J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964 [indicheremo l'opera genericamente come Mansfeld] e W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994 [indicheremo l'opera genericamente come Leszl]. In generale, per lo status interpretativo fino alla seconda metà degli anni Sessanta, è strumento di inquadramento l’aggiornamento, a cura di G. Reale, di E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume III: Eleati, La Nuova Italia, Firenze 1967 (ora ristampato come E. Zeller, R. Mondolfo, G. Reale, Gli Eleati, Bompiani, Milano 2011, con aggiornamento bibliografico a cura di G. Girgenti). Per una dettagliata analisi del frammento B8 e delle sue premesse è davvero illuminante la lettura di R. McKirahan, “Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008, pp. 189-229. Per la storia e lo stato del testo di rilievo, insieme al fondamentale Les deux chemins de Parménide cit., il recente lavoro di E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009 [che indicheremo come Passa]. Letteratura critica consultata J.E. Raven, Pythagoreans and Eleatics. An account of the interaction between the two schools during the fifth and early fourth centuries B.C., Cambridge University Press, Cambridge 1948 J. Zafiropulo, L’Ecole Eléate, Les Belles Lettres, Paris 1950 J.H.M.M. Loenen, Parmenides Melissus, Gorgias. A Reinterpretation of Eleatic Philosophy, Van Gorchum, Assen 1959 W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, La Nuova Italia, Firenze 1961 (edizione originale 1953) 70 W.J. Verdenius, Parmenides. Some Comments on His Poem, Hakkert, Amsterdam 1964 Parmenides, herausgegeben von K. Riezler, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. (edizione originale 1934) M.C. 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Wöhrle (Hrsg.), Die Milesier: Thales, De Gruyter, Berlin 2009 [Traditio Praesocratica] Die Vorsokratiker, Band III (Anaxagoras, Melissos, Diogenes von Apollonia, die antiken Atomisten), Auswahl der Fragmente und Zeugnisse, Übersetzung und Erläuterung von M. Laura Gemelli Marciano, Artemis & Winkler Verlag, Düsseldorf 2010 Il quinto secolo. Studi di filosofia antica in onore di Livio Rossetti, a cura di S. Giombini e F. Marcacci, Aguaplano, Perugia 2011 La Sagesse Présocratique. Communications des Savoirs en Grèce Archaïque: des Lieux et des Hommes, sous la direction de M.-L. Desclos et F. Fronterotta, Armand Colin, Paris 2013 Con la sigla LSJ indichiamo H.G. Liddell, R. Scott, GreekEnglish Lexicon, revised and augmented throghout by H.S. Jones, Clarendon Press, Oxford. Frammenti testo greco e traduzione italiana. Le note al testo si riferiscono a problemi di determinazione del testo originale; quelle alla traduzione, invece, a problemi di resa del testo greco e di interpretazione. 76 DK B1 ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι, πέμπον, ἐπεί μ΄ ἐς ὁδὸν βῆσαν πολύφημον ἄγουσαι δαίμονος1, ἣ κατὰ †... †2 φέρει εἰδότα φῶτα· τῇ φερόμην· τῇ γάρ με πολύφραστοι φέρον ἵπποι [5] ἅρμα τιταίνουσαι, κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον. ἄξων δ΄ ἐν χνοίῃσιν ἵ < ει >3 σύριγγος ἀυτήν αἰθόμενος - δοιοῖς γὰρ ἐπείγετο δινωτοῖσιν κύκλοις ἀμφοτέρωθεν -, ὅτε σπερχοίατο πέμπειν Ἡλιάδες κοῦραι, προλιποῦσαι δώματα Nυκτός4 [10] εἰς φάος, ὠσάμεναι κράτων5 ἄπο χερσὶ καλύπτρας. ἔνθα πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός εἰσι κελεύθων, καί σφας6 ὑπέρθυρον ἀμφὶς ἔχει καὶ λάινος οὐδός· αὐταὶ δ΄ αἰθέριαι πλῆνται μεγάλοισι θυρέτροις· τῶν δὲ Δίκη7 πολύποινος ἔχει κληῖδας ἀμοιϐούς. [15] τὴν δὴ παρφάμεναι κοῦραι μαλακοῖσι λόγοισιν 1 Diels-Kranz (ma non Diels nella sua originaria edizione del poema parmenideo, 1897) accolgono la correzione (Stein, 1867) del genitivo δαίμονος nel nominativo δαίμονες, di cui oggi si riconosce l'arbitrarietà. Non si tratta di lacuna testuale, ma di testo presumibilmente corrotto: KATAPANTATH, trasmesso nei codici come κατὰ πάντ’ ἄτη (N), κατὰ πάντἀτη (L), κατὰ πάντα τη (E), κατὰ πάντα τῆ (codices deteriores). Diels legge: κατὰ πάντ’ ἄ < σ > τη (partendo dall'errore di decodifica del codice N da parte di Mutschmann). Per il resto gli editori hanno fatto ricorso a congetture plausibili nel contesto: Cerri: κατὰ πάντ’ ἃ τ’ ἔῃ; Cordero: κατὰ πάν ταύτῃ; Coxon suggerisce κατὰ πάντ’ ἄ < ν > τη < ν >. Per la traduzione si veda nota relativa. 3 χνοίῃσιν ἵ < ει > è correzione di Diels (1897) a χνοῖησινι del codice N, χνοιῆσιν (codici EL). 4 Scegliamo, seguendo Diels, di considerare Νύξ nome proprio della divinità, così come nel caso del successivo Ἦμαρ. 5 Il genitivo κρατερῶν dei codici è stato emendato in κρατῶν da Karsten e il κράτων da Diels. 6 La forma pronominale greca σφας è evoluzione dell'accusativo plurale di terza persona in uso nell'epica arcaica (σφε) all'interno della aedica ionica: la presenza della forma in Parmenide è considerata notevole da Passa (pp. 99-100). La forma Δίκη è degli editori moderni: nei codici δίκην. πεῖσαν ἐπιφράδέως, ὥς σφιν βαλανωτὸν ὀχῆα ἀπτερέως ὤσειε πυλέων8 ἄπο· ταὶ δὲ θυρέτρων χάσμ΄ ἀχανὲς ποίησαν ἀναπτάμεναι πολυχάλκους ἄξονας ἐν σύριγξιν ἀμοιϐαδὸν εἰλίξασαι [20] γόμφοις καὶ περόνῃσιν ἀρηρότε9 · τῇ ῥα δι΄ αὐτέων10 ἰθὺς ἔχον κοῦραι κατ΄ ἀμαξιτὸν 11 ἅρμα καὶ ἵππους. καί με θεὰ πρόφρων ὑπεδέξατο, χεῖρα δὲ χειρί δεξιτερὴν ἕλεν, ὧδε δ΄ ἔπος φάτο καί με προσηύδα ὦ κοῦρ΄ ἀθανάτοισι συνάορος12 ἡνιόχοισιν, [25] ἵπποις θ’ αἵ 13 σε φέρουσιν ἱκάνων ἡμέτερον δῶ, 8 La forma del genitivo πυλέων trasmessa dai codici potrebbe rivelare (Passa, p. 84) la familiarità di Parmenide con la dizione epica, manifestando in particolare la vicinanza a Esiodo. Si tratta comunque di un caso dubbio di metatesi quantitativa. Diels, nell'edizione del poema (1897), si interrogava (pp. 26-27) sull'opportunità di conservare πυλέων in vece di πυλῶν. 9 La forma duale ἀρηρότε è stata restaurata da Bergk e generalmente accolta dagli editori. Si distingue Cordero, che conserva la forma del participio plurale ἀρηρότα dei codici NE e deteriores. 10 Il genitivo in αὐτέων, accolto per lo più dagli editori, è conservato dal solo codice N; gli altri (LE e deteriores) riportano αὐτῶν. Sarebbe esemplare dello stile solenne (di ascendenza epica ionica) adottato da Parmenide. Diels, in verità, nell'edizione del poema (1897), optava per αὐτῶν, come oggi fa Cordero. Effettivamente si possono trovare precedenti omerici (Iliade XII, 424) e esiodei (Scutum 237) nella formula ὑπὲρ αὐτέων: rimane comunque il sospetto (Passa, p. 85) che la lezione apparentemente superiore del codice N, copia di uno scriba doctus, rifletta un tentativo di "omerizzazione" del poema. 11 Si veda la successiva nota a θ’ αἵ del v. 20. 12 I codici di Sesto Empirico attestano unanimemente συνάορος, il cui vocalismo - ᾱορος appare fuori posto in un poema in esametri, composto da un autore ionico. In Omero è attestato συνήορος, preferito da Brandis (1813) e, nel nostro secolo, da Coxon (ἀθανάτῃσι συνήορος). Diels (1897) rifiutò la correzione, seguito dalla quasi totalità di editori successivi. La scelta di Diels è stata di recente difesa, su diverse basi interpretative, da Passa (pp. 132-137), che vede nel vocalismo - ᾱορος il segno di una incidenza della lirica corale nella letteratura arcaica e tardo-arcaica: συνάορος non è lezione dei codici attici del poema (che dovevano riportare συνήορος), ma probabilmente è la forma voluta dallo stesso Parmenide, che se ne appropriava appunto in quanto forma di successo nella poesia contemporanea. 78 χαῖρ΄, ἐπεὶ οὔτι σε Μοῖρα14 κακὴ προὔπεμπε νέεσθαι τήνδ΄ ὁδόν - ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν -, ἀλλὰ Θέμις15 τε Δίκη16 τε. χρεὼ 17 δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης18 εὐκυκλέος19 ἀτρεμὲς 20 ἦτορ 13 I codici LE riportano ταί; N riproduce θ’ αἵ; i codices deteriores τε. Come osserva J. Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, O.U.P., Oxford 2009, p. 378): «the postpositive connective is required here». La presenza di ταί nei codici si giustifica probabilmente per l'eco quasi letterale del v. 1, che può aver confuso i copisti: i codici, infatti, riproducono per B1.1 la stessa lezione data in B1.25 (Passa, p. 59). Passa fa tuttavia osservare come il passaggio da un originale ΘΑΙ (nella scriptio continua dei codici) al ταί della copia non sia facilmente spiegabile, mentre è più naturale ipotizzare che, meccanicamente, ΤΑΙ sia stato reso come ταί. È probabile che il copista di N abbia corretto (come ha fatto in altri punti) il testo che aveva di fronte (ΤΑΙ), allineando la lezione dei versi 1 e 25, ovvero rilevando una sintassi difettosa: introducendo l'aspirazione, l'originale ΤΑΙ sarebbe stato copiato appunto come θ’ αἵ. Secondo Passa, è probabile invece che la tradizione di Sesto Empirico riportasse ΤΑΙ, da rendere come τ’ ἄι, senza aspirazione: θ’ αἵ sarebbe forma normalizzata di τ’ ἄι (congiunzione τε seguita dal pronome relativo ἄι senza aspirazione), che conserverebbe traccia di psilosi, la mancanza di aspirazione, comune nel dialetto ionico in cui il poema fu originariamente composto. A conferma lo studioso italiano porta, sempre nel proemio, il caso di κατ΄ ἀμαξιτὸν del v. 20, conservato dai migliori codici di Sesto Empirico (NLE), in luogo della forma aspirata καθ΄ ἁμαξιτὸν, da attendersi. È possibile, dunque, che la redazione del proemio da cui discende la tradizione sestana fosse psilotica. 14 Scegliamo, a differenza degli altri editori, di considerare Μοῖρα nome proprio, coerentemente con il contesto divino. La scelta della maiuscola è solo di alcuni editori. Secondo M.E. Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A new view on their cosmologies and on Parmenides’ Proem, Hakkert, Amsterdam 1974, p. 59, l'uso della minuscola in questo caso sarebbe legittimo, in quanto non ci troveremmo di fronte alla «nozione concreta» di Δίκη incontrata al v. 14. 17 Un caso di metatesi: χρεώ forma epica da χρήω. L'epica conosce anche la forma più antica χρειώ (Passa, p. 77-9). 18 È interessante segnalare che in questo caso, nelle vecchie edizioni (Diels 1897; Diels-Kranz), il testo greco riportava il maiuscolo Ἀληθείη, evidentemente classificando Verità tra le rappresentazioni divine. In considerazione della posizione - che, seguendo Passa (p. 53), si potrebbe definire di «ipostasi divina» - riconosciutale anche in B2.4, reintroduciamo la maiuscola iniziale. La stessa scelta è stata compiuta da Marciano] ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα21 χρῆν δοκίμως22 εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα23. 19 Degli ultimi versi del proemio abbiamo, oltre a quella (vv. 1-30) di Sesto Empirico, diverse citazioni: Simplicio cita 28b-32 nel commentario al De Caelo aristotelico; Diogene Laerzio cita 28b-30, mentre Plutarco, Clemente di Alessandria, Proclo e ancora Sesto (nella discussione) citano 29-30. Il testo di Simplicio riporta εὐκυκλέος («ben rotonda»), accolto da Diels in forza della qualità e interezza (presunte) del manoscritto di Simplicio. Il filologo tedesco è stato in passato seguito (tra gli altri) da Untersteiner, Guthrie, Tarán, Hölscher, e oggi da Cordero, Reale, Cerri, Ferrari, Tonelli, Palmer. I manoscritti ellenistici (quello di Plutarco, Sesto Empirico e Diogene Laerzio), tuttavia riportavano εὐπειθέος (che viene tradotto come «ben convincente»), che i più (tra gli altri Mansfeld, Mourelatos, Coxon, Conche, O'Brien, Gallop, Curd, Gemelli Marciano, Passa) preferiscono. Solo Proclo usa εὐφεγγέος («risplendente»), poco attendibile. Come in altri casi, si è rivelata decisiva la convinzione della affidabilità della redazione di Simplicio. Passa è certamente colui che, con maggiore acribia, ha argomentato, in tempi recenti, la propria opzione (pp. 55 ss.), tra l'altro all'interno di una ricostruzione delle tradizioni testuali del poema che mette in discussione proprio l'affidabilità della versione di Simplicio, che risentirebbe pesantemente di adattamenti platonizzanti (come quella di Proclo). Di diverso avviso Cerri (p. 184), per il quale Simplicio sarebbe invece molto attento alla conservazione del testo e del lessico parmenidei. Buone osservazioni a difesa della lezione εὐκυκλέος, si trovano ora in Palmer (op. cit. pp. 378-80). 20 Plutarco, Diogene Laerzio e Sesto Empirico (in math. 7.111) trasmettono ἀτρεκές («non torto»). Sulla lezione ἀτρεκές ha pesato la liquidazione di Diels (1897, pp. 54 ss.), che vi ha colto una trivializzazione, riconoscendo, invece, nell'alternativa ἀτρεμὲς un «predicato caratteristico dell'Ἐόν parmenideo». A contestare la liquidazione dielsiana, riproponendo la lezione ἀτρεκές, è stato di recente Passa (pp. 53 ss.), il quale ha dimostrato come l'aggettivo non implichi alcuna trivialità, vantando invece precedenti illustri in Omero e Pindaro. Come tutto il verso, anche ἀτρεκές sarebbe stato vittima di un rimaneggiamento secondario. 21 Passa (p. 121) segnala come la forma contratta δοκοῦντα sia molto probabilmente un atticismo nella tradizione del testo: egli esclude che δοκοῦντα (come anche φοροῦνται in B6.6) sia lezione autentica. La lezione δοκοῦντα sarebbe stata sostituita a δοκέοντα o δοκεῦντα. 22 Nella sua edizione del poema Diels propose di leggere δοκίμως εἶναι come δοκιμῶσ(αι) εἶναι. Tra gli editori novecenteschi Untersteiner è tra i pochi ad aver rilanciato tale lezione, seguito di recente da R. Di Giuseppe, 80 [vv. 1-30 Sesto Empirico, Adversus Mathematicos VII, 111; vv. 28b-32 Simplicio, In Aristotelis De Caelo 557-558; vv. 28b30 Diogene Laerzio IX, 22; vv. 29-30 Plutarco, Adversus Colotem 1114 d-e; Clemente Alessandrino, Stromata V, 9 (II, 366); Proclo, In Platonis Timaeum I, 345; Sesto Empirico, Adversus Mathematicos VII, 114] Le Voyage de Parménide, Orizons, Paris 2011, che documenta ampiamente, anche nella tradizione latina, le ragioni della propria scelta. 23 La lezione dei codici DEF di Simplicio è πάντα περ ὄντα, che accogliamo, mentre il solo codice A riporta πάντα περῶντα («tutte le cose pervadendo»), per lo più preferito dagli editori, sulla scorta del precedente omerico (Iliade XXI.281 ss.). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei presocratici, Aracne, Roma 2010, p. 43) osserva che la forma περῶντα (da περάω) non ha riscontri nelle parti del poema che ci sono pervenute. Passa (p. 127-8), incerto sulla lezione, ritiene che, accettando l'opzione περ ὄντα, si debba comunque correggere la forma attica del participio di εἰμί in quella ionica ἐόντα: in rapporto a un verbo fondamentale, nell'uso e nella frequenza, all'interno del poema, è plausibile che Parmenide «abbia voluto usare sempre la stessa forma, quella propria del suo dialetto». 81 Le cavalle1 che mi portano2 fin dove il [mio] desiderio3 potrebbe giungere4, 1 Il testo greco riporta ἵπποι ταί, con il sostantivo dunque al femminile (come in Pindaro, Bacchilide e Sofocle). Il tema del tiro di «cavalle» sarebbe di origine omerica: secondo Tarán (p. 9) sarebbe forzato cogliervi prova di una influenza orfica. 2 Il verbo φέρουσιν è al presente, che, come tempo verbale, si alterna nel proemio all’imperfetto (che indica abitualmente azioni continuate) e all’aoristo (impiegato normalmente per azioni puntuali). Secondo Coxon (p. 14) l’uso del presente sottolineerebbe come il poeta sia ancora sul carro, con un viaggio ancora davanti a sé. È possibile, invece, che Parmenide intendesse effettivamente marcare delle sequenze temporali, costruendo un proemio in cui nel canto (presente) del poeta fosse rivissuta un'esperienza di rivelazione (passato): rivelazione con cui il poeta stesso giustificherebbe la propria attività, la scelta della via poetica (ὁδός πολύφημος, «via ricca di canti»). G.A. Privitera ("La porta della Luce in Parmenide e il viaggio del Sole di Mimnermo", «Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di scienza morali, storiche e filologiche» s. 9, v. 20, 2009, pp. 447- 464) osserva come il Proemio sia «fondato sulla memoria» e «autobiografico»: Parmenide avrebbe «elevato alla dignità di proemio una sua lontana esperienza». A proposito dell'uso dei tempi verbali, il presente «mi portano» indicherebbe in particolare che sono state «le solite cavalle di adesso e di sempre ad averlo indirizzato nel viaggio»; il successivo imperfetto πέμπον che l'azione è avvenuta nel passato; il sostantivo κοῦρος (v. 24) segnalerebbe l'età in cui il viaggio fu intrapreso. (p. 449). 3 Traduciamo θυμός come «desiderio», ritenendo che il termine greco, nel contesto dinamico in cui è inserito, abbia il valore di «slancio», ovvero – ma il significato appare più generico - di «animo». È plausibile che θυμός si riferisca non alle cavalle (ἵπποι) ma al poeta che parla: il termine, tuttavia, può essere simbolicamente collegato anche allo sforzo della corsa delle cavalle (Coxon, p. 157). Secondo Chiara Robbiano (Becoming Being. On Parmenides’ Transformative Philosophy, Academia Verlag, Sankt Augustin 2006, p. 124), che interpreta come se i primi versi rinviassero all'inizio del viaggio verso la rivelazione, la scelta di θυμός nell’apertura del poema suggerirebbe come la guida possa dirigere all’obiettivo solo se si è già motivati e disposti ad assumere un ruolo attivo nel perseguirlo. 4 L’ottativo ἱκάνοι è stato considerato (Tarán, Coxon) iterativo, indicante cioè un’indefinita frequenza (dunque: «giunge»), ma nella poesia omerica è attestato un uso potenziale (senza ricorso alla particella ἄν: Robbiano, op. cit., pp. 65-6, n. 189), che autorizza la traduzione che proponiamo. Anche Mourelatos (The Route of Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the Fragments, Yale University Press, New Haven – London 82 mi guidavano5, dopo che, conducendomi, mi ebbero avviato6 sulla via7 ricca di canti8 1970, p. 17, n. 21) sottolinea – sulla scorta di precedenti omerici - che la modalità rilevante è quella della possibilità. Cerri (p. 166) segnala come la metafora del moto del pensiero, paragonato al moto traslatorio, sia molto radicata nell’immaginario greco arcaico. 5 Il verbo greco è all’imperfetto (πέμπον): l'uso di imperfetto durativo e participio presente (φερόμην v. 4, τιταίνουσαι v.5, ἡγεμόνευον v. 5) denoterebbe che l'apertura del proemio proietta al centro dell'azione in corso; le forme dell'aoristo (βῆσαν v. 2, προλιποῦσαι v. 9), secondo uno schema ricorrente in Omero (O’Brien, p. 8), indicano, per contrapposizione, quanto precede. Conche interpreta πέμπον come “imperfetto storico”, optando dunque per una traduzione con il presente indicativo. Ferrari, nella sua analisi del proemio (F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza dall’Odissea alle lamine misteriche, Pomba, Torino 2007, p. 104; ora anche Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei Presocratici, Aracne, Roma 2010, p. 162), ha sottolineato come l’intreccio dei verbi al presente e all’imperfetto sembri evidenziare la continuità tra il presente e il ritorno dall’oltretomba. 6 Ferrari (La fonte del cipresso bianco, cit., p. 102) coglie in questo passaggio un’eco dell'iniziazione poetica di Esiodo: ciò che Parmenide intenderebbe suggerire è che le cavalle (figure dello slancio interiore del poeta) del suo θυμός lo hanno avviato sulla via poetica (connotata come ὁδός πολύφημος, «via ricca di canti»), che gli permetterebbe di comunicare la rivelazione ricevuta nell’Ade. Parmenide porrebbe in primo piano il risultato dell’incontro con la divinità iniziatrice. 7 La ὁδὸς πολύφημος δαίμονος, ἣ κατὰ †... † φέρει εἰδότα φῶτα è contrapposta – secondo Cerri (p. 170) – alla strada pubblica, frequentata da tutti (secondo precedente omerico). Possiamo individuare nel rilievo la possibile eco di un precetto pitagorico riferito da Porfirio: τὰς λεωφόρους μὴ βαδίζειν («non percorrere le strade popolari»). Maria Michela Sassi ("Parmenide al bivio", in «La Parola del Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 383- 396) – accostando sistematicamente il Proemio ai frammenti di letteratura orfica, alle laminette e ai miti escatologici platonici – interpreta l'espressione come indicante la via che precede la porta dell'oltretomba, oltre la quale Parmenide troverà la dea (p. 387): simbolicamente vi si potrebbe cogliere il riferimento al processo di iniziazione (donde poi il coinvolgimento di termini "tecnici" come εἰδώς φώς o κοῦρε. Questo potrebbe spiegare anche la presenza di guide divine: come rivelano i miti platonici (Fedone 107 ss.), le anime devono percorrere un certo cammino per giungere propriamente nell'Ade; cammino non agevole, per il quale è richiedo l'intervento di δαίμονες come ἡγεμόνες. 83 della divinità9 che10 porta †... †11 l’uomo sapiente12. Ma l'espressione potrebbe più semplicemente riferirsi all'attività poetica intrapresa (con eco esiodea), proposta in un contesto pubblico (come suggerirebbe l'eco omerica di πολύφημος). O ancora, come sostiene con buoni argomenti Palmer (J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, O.U.P., Oxford 2010, p. 56) in relazione al contesto, essa potrebbe designare il percorso che il carro del Sole deve tracciare ogni giorno. 8 Il termine πολύφημος è qui reso in senso attivo, a indicare l’abbondanza di canti, leggende, ma anche voci, suoni e informazioni: si tratta del valore più antico, omerico, riferito per esempio a una piazza (che risuona di voci e rumori), come di recente ribadito da Ferrari (La fonte del cipresso bianco, cit., p. 102). Diels e altri decidono invece di tradurre, sottolineandone il valore passivo, come «molto celebrata». 9 Il termine δαίμων (maschile o femminile, secondo i contesti) potrebbe riferirsi al successivo (v. 22) θεά: alla Dea interlocutrice del poeta. Di diverso avviso Ferrari (La fonte del cipresso bianco, cit., pp. 106-7): riferendo il successivo pronome ἣ alla divinità (e non alla via), egli osserva che «il ritmo stesso del verso» suggerisce di considerare la relativa come «una perifasi che sollecita l’identificazione della daimôn». In tal senso, essa non coinciderebbe né con la divinità in genere (come crede invece Cerri, il quale traduce ὁδὸν δαίμονος come «strada divina»), né con Dike, né con la θεά del v. 22: i paralleli omerici ed esiodei inducono a credere che questa divinità femminile, che guida su un carro condotto dalle figlie del Sole «l’uomo sapiente», sia da identificare con Ἡμέρη, la figlia di Notte, ovvero Ἠώς, Aurora. In Odissea XXIII.241-246 troviamo Aurora condotta attraverso l’Etere dai cavalli «che portano luce ai mortali», un possibile modello per Parmenide. Il genitivo è da considerare possessivo. Un’alternativa suggestiva – richiamata dal successivo coinvolgimento delle figure mitiche delle Eliadi (vedi v. 9) - è quella secondo cui l’allusione sarebbe al Sole, sul cui carro il poeta starebbe viaggiando (Leszl, p. 147). 10 Mantengo l’ambiguità di riferimento del relativo ἣ: alla Dea o alla via (ὁδός): l’analisi convincente di Ferrari spinge nella prima direzione, ma la nostra soluzione lascia aperta la possibilità che il relativo possa riferirsi a un tempo alla divinità – Helios, il Sole – e al tracciato celeste che essa percorre quotidianamente. 11 Abbiamo già segnalato in nota al testo greco il problema della corruzione del passo. Le principali proposte degli editori: κατὰ πάντ’ ἄ < σ > τη (Diels, seguito da molti), «per tutti i luoghi» ovvero, letteralmente, «per tutte le città»; κατὰ πάν ταύτῃ (Cordero), «là riguardo a tutto»; Conche, che accoglie la proposta di Cordero, interpreta tuttavia ταύτῃ non come forma avverbiale, bensì come dativo del dimostrativo femminile, riferito a ὁδός; κατὰ πάντ’ ἄ < ν > τη < ν > (Coxon), «through every stage straight onwards»; 84 Su questa via13 ero portato14, su questa via mi portavano15 molto avvedute16 cavalle, κατὰ πάντ’ ἃ τ’ ἔῃ (Cerri), «per tutte le cose che siano». Ferrari (op. cit., nota p. 114) ha sostenuto a più riprese l’opportunità di recuperare la lettura κατὰ πάντ’ ἄ < σ > τη, «come emendamento anche se non più come lezione tramandata». In questo caso sarebbe tuttavia necessario tenere ben distinta la ὁδός πολύφημος δαίμονος dell'apertura del proemio da quella di cui proprio la Dea sottolinea il fatto che è ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου («lontana dalla pista degli uomini»). 12 L’espressione greca εἰδὼς φώς si riferisce, per alcuni (Bowra, Untersteiner, Burkert), alla figura dell’«iniziato», secondo la terminologia propria della tradizione misterica: «espressione quasi tecnica in tal senso», come nota la Sassi (op. cit., p. 387), attestata nei frammenti orfici (fr. 233 Kern). Per altri (Fränkel, Tarán), invece, all’uomo che già conosce la via per averla percorsa; Coxon e Cerri insistono sul riferimento alle competenze e conoscenze preventivamente richieste per la piena conquista della verità. Di diverso avviso Mansfeld (J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964, pp. 226-7), il quale, partendo da Senofane B34, sottolinea come εἰδώς abbia un valore legato all’esperienza visiva, che si conserverebbe in Parmenide: la conoscenza che il poeta rivendica è dunque legata a un esperire, vedere, diretto. Il termine εἰδώς dovrebbe rendersi allora come «[l’uomo] che ha visto» ovvero «che ha conoscenza». Nella stessa direzione si è mosso Ferrari (op. cit., pp. 102 ss.), il quale sottolinea come la qualifica di sapiente, che indirettamente viene attribuita al poeta narrante, presupponga che l'incontro con la Dea e la rivelazione siano già avvenuti. La qualifica di εἰδώς indica, infatti, ancora in Aristofane e Euripide, la condizione del «miste», di colui che ha ormai superato la prova dell’iniziazione. L’immagine del sapiente che per il mondo diffonde con la paola poetica la verità conquistata, suggerirebbe dunque di riferire la situazione (e la condizione del poeta) a un tempo successivo all’incontro con la θεά. 13 Intendo la forma avverbiale τῇ (ταύτῃ), ribadita nello stesso verso, come se si riferisse non a un luogo determinato ma alla via lungo la quale il poeta è condotto: «lungo questa via», dunque, o al limite «qui». Scegliendo di tradurre in questo modo e non come per lo più si fa («là»), intendo marcare questa sequenza – concentrata sul viaggio-missione del poeta - dalla successiva, che si apre (v. 11) con un altro locativo (ἔνθα) e che propriamente introduce alla rivelazione. La traduzione in questo caso ha un peso: dal momento che τῇ può rendersi tanto con «qui» che con «là», le indicazioni di luogo, analogamente ai tempi verbali, possono avere un'incidenza nell’interpretazione complessiva. Abbiamo scelto una perifrasi, cercando di conservare, anche in questa occasione, l'ambiguità: «questa via» 85 [5] trainando il carro17: fanciulle18 mostravano la via. Nei mozzi emetteva un sibilo acuto19 l’asse, può riferirsi alla via su cui al momento si muove il poeta nella sua missione pubblica, ovvero la via al centro del successivo racconto. 14 Le due forme verbali del verso – φερόμην e φέρον – sono imperfetti in diatesi passiva e attiva: sottolineano l'azione di trasporto (delle cavalle) e il privilegio di essere trasportato (del poeta). 15 Si tratta dell’ennesima ripetizione di una forma del verbo φέρω nei versi iniziali. Tale ripetizione, sottolineata dagli interpreti, è intesa da alcuni (Mourelatos, p. 35) come un difetto, un limite della poesia di Parmenide, da altri (P. Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, Duckworth, London 1999, p. 135), invece, come mezzo per incidere sull’audience: la ripetizione sarebbe «una tecnica per creare un effetto incantatorio». Secondo Chiara Robbiano (op. cit., p. 124), essa avrebbe essenzialmente una funzione retorica: preparerebbe l’audience al concetto di guida, centrale nel «second journey», cioè nel viaggio intrapreso, appunto sotto la direzione della Dea, verso la verità. 16 L’aggettivo πολύφραστοι, riferito alle cavalle, significa letteralmente «che hanno molto da dire»: supponendo che πολύ comporti intensità, si può rendere con «molto avvedute», «molto sagge». Parmenide vuole forse sottolineare le affinità tra le cavalle e le guide cui si allude ai vv. 5 e 9. 17 Cerri (pp. 96-7) ricorda come il carro trainato da cavalle o cavalli sia chiara metafora della poesia, impiegata spesso nella lirica corale: il poeta sul carro guidato dalle Muse è avviato all’itinerario espressivo più adeguato all’occasione. D’altra parte anche lo sciamano mediatore tra uomini e dei, come sottolinea Mourelatos (pp. 42-3), ha la capacità di lasciare in trance il proprio corpo e viaggiare in cielo o nell’oltretomba, per accompagnare altre anime o ricevere istruzioni mediche o cultuali da una divinità. Il suo viaggio, pericoloso, avviene talvolta su un carro volante: frequentemente accostata a certi animali, come i cavalli, la figura dello sciamano - spesso poeta o cantore - narra in prima persona le sue esperienze celesti. L’associazione con le Ἡλιάδες κοῦραι (v. 9) e i riferimenti (v. 9) alla «dimora della Notte» (δώματα Νυκτός) e (v. 11) alla «porta dei sentieri di Notte e Giorno» (πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων) suggeriscono un nesso tra il carro (ἅρμα) di cui si parla e il carro del Sole. La possibile contestualizzazione oltremondana del viaggio fa pensare, d'altra parte, al carro di Hades. 18 Si tratta, come risulta dal v. 9, delle Eliadi. 19 Così traduciamo σύριγγος ἀυτήν, letteralmente «lamento di siringa [organetto a canne]». Ferrari rende con «sibilo di zufolo». Si tratta del sibilo prodotto dall’asse nella sua rotazione all’interno delle sedi (χνοῖαι) che lo fissano al carro. Kingsley (op. cit., pp. 89 ss.) ha rilevato che le fonti antiche (Ippolito, Plutarco, Giamblico) collegano l’esperienza del suono della σῦριγξ a 86 incandescente20 (poiché era mosso da due rotanti cerchi da ambo i lati), mentre si affrettavano21 a scortar[mi]22 le fanciulle Eliadi 23, avendo abbandonato24 la dimora25 della Notte resoconti di incubation, cioè a esperienze di trance: uno dei segni che accompagnano il passaggio a un diverso stadio di consapevolezza (tra sonno e veglia) sarebbe appunto il fischio della σῦριγξ. 20 L’aggettivo αἰθόμενος letteralmente «infiammato», ma anche «surriscaldato». 21 L’ottativo σπερχοίατο avrebbe, secondo Coxon (p. 161) e altri, valore iterativo (come ἱκάνοι, v. 1). O’Brien (p. 10), invece, ne rileva – sulla scorta di analoghe espressioni omeriche – l’uso per designare semplice concomitanza di azioni. 22 Il testo greco non riporta alcun complemento pronominale, ma è ovviamente da sottintendere, come nel precedente v. 4, che πέμπειν si riferisca al poeta. Coxon (p. 161) fa osservare come il soggetto di πέμπειν - e quindi anche della conduzione del carro del poeta - a questo punto non siano più le cavalle ma le Eliadi. 23 L'espressione greca Ἡλιάδες κοῦραι determina il precedente (v. 5) uso indefinito di κοῦραι: si tratta delle Eliadi, le figlie del Sole. In Omero (Odissea XII.127-36) esse attendono all'immortale bestiame del genitore, ma nel mito, cantato in un frammento esiodeo (fr. 311 Merkelbach-West) e ripreso in un'opera perduta (Ἡλιάδες, appunto) di Eschilo (alla cui rappresentazione in Siracusa Parmenide potrebbe aver presenziato, secondo quanto ipotizza A. Capizzi, "Quattro ipotesi eleatiche", «La Parola del Passato», XLIII, 1988, pp. 42-60; il riferimento a p. 52), sono direttamente coinvolte nella drammatica vicenda del fratello Fetonte, al quale consegnano il carro del Sole, all'insaputa del padre. In questo modo esse sono corresponsabili della sua impresa punita dall'intervento di Zeus con la morte di Fetonte. Per punizione Zeus le mutò in pioppi: le loro lacrime si trasformarono in ambra. Nel contesto è significativo ricordare che la prole del Sole è connotata nell’universo mitico in termini sapienziali (Cerri, p. 173), e, d'altra parte, appariva funzionale all'economia del racconto, del viaggio e della rivelazione. 24 Il participio aoristo προλιποῦσαι – secondo il precedente omerico - indica il punto di partenza dell'azione corrente (la conduzione del poeta da parte delle Eliadi). La «dimora della Notte» - luogo di soggiorno alternato di Notte e Giorno – è, dunque, naturale luogo di destinazione delle Eliadi che accompagnano il poeta. 25 Il termine δώματα è al plurale («case»), probabilmente per accentuare le dimensioni della casa della Notte. L’espressione δώματα Nυκτός richiama l’analoga Nυκτός οἰκία esiodea (Teogonia, 744) e fa pensare, dunque, a una collocazione nell’abisso del mondo infero (che in Esiodo domina sulla 87 [10] verso la luce26, rimossi con le mani i veli dal capo27. prigione dei Titani): la casa della Notte - in cui alternativamente soggiornano Notte e Giorno – è probabilmente situata, oltre la porta presso cui essi si danno il cambio, nel χάσμα sottostante. In questo senso potrebbe leggersi l'indicazione del v. 11 a «i battenti dei sentieri di Notte e Giorno» (πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων). Mantenendo il riferimento esiodeo, sembrerebbe quindi che Parmenide alluda in questi passaggi non a una locazione genericamente ai limiti occidentali della Terra, ma a una direzione sotterranea, verso le regioni del Tartaro e dell’Ade (Cerri, p. 173). Nella letteratura orfica (fr. 105 Kern) abbiamo attestata l'espressione ἐν τοῖς προθύροις τοῦ ἄντρου τῆς Νυκτὸς («sulla porta dell'antro della Notte»). Da notare che, in questo caso, l'«antro» è sorvegliato da Dike, Adrasteia e Nomos. D’altra parte, le porte di Notte e Giorno potrebbero intendersi come le omeriche porte del cielo (Iliade V.754 ss.), sorvegliate dalle Ore: Dike - in Esiodo - è proprio una di loro (Mourelatos, p. 15). È possibile, tuttavia, che sia Esiodo sia Parmenide in realtà si appoggino a una tradizione mesopotamica: W. Heimpel ("The Sun at Night and the Doors of Heaven in Babylonian Texts", Journal of Cuneiform Studies, 38, 127-51) ha mostrato come i testi sumerici e accadici presentassero esattamente lo stesso immaginario celeste e infero, con analogo ruolo dei cancelli del cielo rispetto al passaggio del Sole, analoga descrizione dei loro meccanismi di apertura, analogo soggiorno notturno presso un dimora locata tra mondo celeste e mondo infero (il Sole in effetti avrebbe svolto anche funzioni di giudice oltremondano). Su questo Palmer, op. cit., pp. 55-6. 26 L’espressione εἰς φάος può essere riferita a πέμπειν (v. 8), nel senso di «scortare verso la luce», ovvero, come è più naturale, a προλιποῦσαι (v. 9), scelta preferibile, anche per la prossimità del collegamento. Quindi: «[le fanciulle Eliadi] abbandonata la dimora della notte [muovendo] verso la luce». In ogni caso la costruzione appare intenzionalmente ambigua e l'interpretazione è stata spesso condizionata dalla punteggiatura: DielsKranz, per esempio, inserivano la virgola prima di εἰς φάος, forzando il suo riferimento a πέμπειν. L’espressione è ricca di implicite possibilità simboliche: un viaggio verso il regno della luce è metafora appropriata per una esperienza di illuminazione (Mourelatos, p. 15) ovvero di rivelazione; ma potrebbe richiamare il fatto che il poeta accede all’αἰθήρ, alla estrema regione di fuoco dell’universo fisico, di cui la dea innominata successivamente (v. 22) citata sarebbe personificazione (Coxon). Ma la luce potrebbe anche rappresentare il nostro mondo, se interpretiamo il racconto come resoconto di un νόστος, di un periglioso viaggio di ritorno dal mondo dell’Ade, dove il poeta ha ricevuto la rivelazione (così Ruggiu, pp. 162-3). Cerri (p. 173) segnala come l’espressione ricorra in altri testi arcaici, per indicare l’«azione portentosa del riemergere dall’Ade». Ferrari (op. cit., pp. 101-2) con buoni argomenti sostiene questo tipo di lettura: nel 88 Là28 sono i battenti29 dei sentieri30 di Notte e Giorno: proemio il tempo del racconto scorrerebbe a ritroso: il ritorno finale alla luce precederebbe il racconto della catabasi nel regno della Notte. Secondo Privitera (op. cit., p. 460), invece, proprio l'indicazione προλιποῦσαι δώματα Nυκτός εἰς φάος rappresenterebbe «precisazione inequivocabile e scoglio funesto, contro cui è destinata a naufragare ogni interpretazione catabatica del viaggio di Parmenide». 27 Esiodo descrive la dimora della Notte avvolta nelle tenebre: καὶ Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι E di Notte oscura la casa terribile s’innalza di nuvole livide avvolta (Teogonia 744-745). Nella stessa opera, le Muse sono introdotte come figure notturne: ἔνθεν ἀπορνύμεναι κεκαλυμμέναι ἠέρι πολλῷ ἐννύχιαι στεῖχον Di là levatesi, nascoste da molta nebbia, notturne andavano (Teogonia 9-10). I due passi, che non sono sfuggiti a Cerri (p. 174), potrebbero concorrere a illustrare il moto e i gesti delle Eliadi nel dettaglio fornito da Parmenide. Anche Palmer (op. cit., p. 57) suggerisce l'accostamento. 28 Cerri (p. 174) segnala come l’avverbio locativo ἔνθα ricorra nella tradizione epico-teogonica in relazione all’Ade come connotazione aggiuntiva. Nella lettura di Ferrari, a questo punto comincia «il resoconto dell’esperienza oltremondana» (p. 103). 29 Il testo greco presenta il plurale πύλαι, letteralmente «piloni» ovvero i pilastri che sorreggono un grande portale a due battenti (su questo punto si leggano le osservazioni di O’Brien, p. 11, e Conche, p. 49). Altri (Cordero 1984, p. 180, Coxon, pp. 161-2) riferiscono il plurale a due porte distinte, una in faccia all’altra: Coxon, per esempio, seguendo le letture neoplatoniche di Simplicio e Numenio, crede che le «porte» si riferiscano a quelle celesti, per le quali le anime sono condotte, rispettivamente, a discendere εἰς γένεσιν («alla generazione, incarnazione») e ad ascendere εἰς θεούς (verso le divinità), in altre parole a viaggi di genere opposto. Il verso successivo sembra tuttavia smentire tale lettura. In Omero è attestata l'espressione πύλαι Ἀΐδαο (Iliade V, 646; IX, 312; Odissea XIV, 156) per indicare i cancelli che immettono al mondo infero; uso analogo (Ἄιδου πύλαι) nella tragedia eschilea. Secondo Privitera (op. cit., p. 453), che ricostruisce l'immagine del mondo nel mito arcaico attraverso i versi di Omero, Esiodo, Mimnermo e Stesicoro, Parmenide avrebbe rinnovato il quadro che 89 architrave e soglia31 di pietra li incornicia32; emergeva dalla tradizione unificando quelle che erano in precedenza due porte distinte: la Porta dell'Ade (attraverso cui si davano il cambio Notte e Giorno) e la Porta del Sole (attraversando la quale, a occidente, l'astro trascorreva, sul bordo dell'Oceano, verso una porta orientale, per tornare a risplendere all'alba). Secondo lo studioso italiano, Parmenide avrebbe trasferito la Porta della Notte e del Giorno sulla Terra e l'avrebbe unificata con la Porta del Sole (sdoppiandola dunque in una porta occidentale e in una orientale): la Porta varcata dalle Eliadi riassumerebbe allora la doppia funzione nella tradizione distribuita tra Porta del Giorno e della Notte e Porta del Sole. 30 Già negli usi omerici e nella tragedia eschilea, il termine κέλευθος può indicare, secondo il contesto, «via», «sentiero», «strada», ma anche ciò che viene effettuato lungo quella via, cioè «viaggio» ovvero «spedizione». Il plurale κέλευθα potrebbe rendersi in questo caso, mediando tra i due significati segnalati, come «percorsi», come suggerisce anche Ferrari (op. cit., p. 109): si tratta in effetti degli itinerari compiuti da Giorno (Ἡμήρη) e Notte (Νύξ). La Sassi (op. cit., p. 388) fa notare come la porta, presso cui si incontrano e attraverso cui accedono alternativamente al cosmo Giorno e Notte, dia accesso a un «luogo mitico, analogo al Tartaro», dove, come in Esiodo (Teogonia 736 ss.) è situata la «dimora della Notte». 31 L’Olimpica VI di Pindaro si apre con un analogo riferimento alla soglia (οὐδός), a indicare l’esordio del canto. In relazione alla espressione πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων è probabile che οὐδός sia da intendere come entrata del mondo infero, accettando il suggerimento di Cerri (p. 175) di accostare il passo parmenideo ai versi esiodei di Teogonia 748-751: […] ὅθι Νύξ τε καὶ Ἡμέρη ἆσσονἰοῦσαι ἀλλήλας προσέειπον ἀμειβόμεναι μέγαν οὐδὸν χάλκεον· ἡ μὲν ἔσω καταβήσεται, ἡ δὲ θύραζε ἔρχεται, οὐδέ ποτ’ ἀμφοτέρας δόμος ἐντὸς ἐέργει, ἀλλ’ αἰεὶ ἑτέρη γε δόμων ἔκτοσθεν ἐοῦσα γαῖαν ἐπιστρέφεται, ἡ δ’ αὖ δόμου ἐντὸς ἐοῦσα μίμνει τὴν αὐτῆς ὥρην ὁδοῦ, ἔστ’ ἂν ἵκηται […] là dove Notte e Giorno incontrandosi si salutano, al momento di varcare la grande soglia di bronzo, l’uno per scendere dentro, l’altra per la porta se ne va, né mai entrambi a un tempo la casa trattiene dentro di sé, ma sempre l’uno, fuori della casa, la terra percorre, l’altra, dentro casa, attende la propria ora di viaggio, finché non giunga. 90 essi, alti nell’aria33, sono agganciati34 a grande telaio35. Nel poema di Parmenide troviamo λάινος οὐδός invece di χάλχεος οὐδός, come appunto in Esiodo e Omero (Iliade VIII, 15). Secondo Cerri (p. 176) la correzione nell’uso dell’aggettivo potrebbe essere dettata dalla finalità del poema fisico dell’Eleate: la collocazione nelle viscere della terra avrebbe consigliato «pietrigna» piuttosto che «bronzea». 32 Rendiamo ἀμφὶς ἔχειν come «incorniciare»: il poeta intende segnalare i limiti verticali (la soglia e l'architrave appunto) della struttura, che, così descritta non può essere propriamente un cancello ma un vero e proprio portale. Sembra da escludere anche la possibilità delle due porte. 33 L’aggettivo αἰθέριαι si riferirebbe, secondo una certa tradizione interpretativa (Deichgräber, Coxon), alla collocazione della porta nella regione estrema del cielo; per altri, più semplicemente, il poeta sottolineerebbe la dimensione in altezza del portale (Cerri: «battenti che toccano il cielo»; Ferrari: «alta fino al cielo»). Alcune traduzioni (Tarán, O’Brien) privilegiano il valore materiale dell’aggettivo, dunque la natura eterea della porta: è vero però che Parmenide marca che essa è di pietra. Proprio con l’incrocio lessicale di pietra ed etere egli potrebbe allora suggerire che la porta è punto di incontro di terra e cielo (Leszl, p. 151). La scelta dell'aggettivo sarebbe significativa, secondo Privitera (op. cit., p. 453), perché rivelerebbe come la porta che le Eliadi stanno per varcare non è quella dell'Ade, la cui volta è descritta da Esiodo come sottostante il soffitto del Tartaro. Al contrario, la PellikaanEngel (op. cit., p. 57) ritiene che l'espressione αἰθέριαι πύλαι potrebbe essere ripresa sintetica del verso esiodeo: τῶν πρόσθ’ Ἰαπετοῖο πάις ἔχει οὐρανὸν εὐρὺν Di fronte a essa il figlio di Iapeto tiene il cielo ampio (Teogonia 746). Il riferimento ad Atlante, che con i piedi piantati per terra solleva il cielo con testa e braccia, potrebbe (come vuole Burkert) essere avvalorato proprio dall'uso di λάινος οὐδός («soglia di pietra») in relazione a αἰθέριαι πύλαι, quasi a indicare gli estremi (terra e cielo) dello sforzo del titano. Parmenide potrebbe dunque aver avuto Esiodo come modello per la sua porta dei «sentieri di Notte e Giorno», replicando l'analogo portale di Atlante (Pellikaan-Engel, op. cit., pp. 57-8). 34 La «strana» (Passa, op. cit., p. 100) forma verbale πλῆνται ha ingannato gli editori: normalmente la si riferisce a πίμπλημι («riempire»), ma, come ha con acribia dimostrato Passa (pp. 100-4), va ricondotta a πίλναμαι («avvicinarsi»), di cui rappresenterebbe forma "corta" del perfetto medio (πέπλημαι). Rendiamo, come suggerito dallo stesso Passa per il nostro contesto. 91 Dike36, che molto castiga37, ne38 detiene le chiavi dall’uso alterno39. [15] Placandola40, le fanciulle, con parole compiacenti, 35 Anche in questo caso molti editori sono stati imprecisi, lasciandosi sfuggire il significato tecnico del termine θύρετρα, che è plurale tantum usato anche come variante di θύρα («porta»), ma il cui valore primario è «telaio [della porta]», come correttamente inteso da Coxon e recentemente ribadito da Passa. 36 Nella tradizione omerica ed esiodea, Dike era, con Eunomia e Irene, una delle Ore, sorelle delle Moire, figlie di Zeus e Temi: compito delle Ore (Iliade V, 749; VIII, 393) era quello di sorvegliare le porte del Cielo. È significativo che anche Eraclito (DK B94) alluda a Dike e alle coadiutrici Erinni come garanti del corretto percorso del Sole. Secondo Robbiano (p. 155), la figura di Dike è tradizionalmente introdotta in relazione al rispetto dei confini: non a caso la ritroviamo a sorvegliare il cancello che discrimina i percorsi di Giorno e Notte. Essa sarebbe responsabile delle divisioni e distinzioni all’interno di natura e società (dei confini tra parti e gruppi): in questo senso sarebbe garante di equilibrio (p. 157). Tuttavia, come la studiosa correttamente segnala (p. 158), l’ordine cui sovrintende la Dike parmenidea, rivelato nei versi successivi, non è quello tradizionalmente inteso. 37 L’espressione Díkh πολύποινος è attestata nella letteratura orfica (fr. 158 Kern), ma la datazione è incerta (Coxon, p. 163). D'altra parte, come abbiamo già avuto modo di segnalare, Dike compare nella stessa tradizione (fr. 105 Kern) come sorvegliante (con Adrasteia e Nomos) dell'«antro della Notte». Molto critico su questa prospettiva orfica Cerri (p. 104). Certamente, come osserva Mourelatos (p. 15), la figura di Δίκη πολύποινος, che tiene le chiavi (delle retribuzioni?), ricorda quella di una divinità infernale. Ferrari nella stessa direzione traduce come «Dike sanzionatrice». Nell'economia del racconto proemiale, accettando l'ipotesi di una katabasis, la funzione di Dike sarebbe quella di permettere al poeta di accedere, vivo, alla realtà oltremondana (Sassi, op. cit., p. 389). 38 L'interpunzione dell'edizione Diels-Kranz autorizza a intendere il genitivo pronominale iniziale τῶν riferito (come il pronome αὐταί, nella stessa posizione del verso precedente) a πύλαι. 39 L’aggettivo ἀμοιϐός – raro – sembrerebbe indicare successione: potrebbe riferirsi al fatto che le chiavi consentono l’apertura alternata della porta (Coxon, p. 164) ovvero al loro uso complementare (O’Brien, p. 11). Nel contesto è probabile che il riferimento sia all’alternanza di Notte e Giorno: Dike regolerebbe con la propria sorveglianza il passaggio del Sole. Questo potrebbe spiegare la situazione drammatica di seguito descritta: non era in effetti plausibile che Dike potesse lasciar passare il mortale viaggiatore. 40 Il verbo πάρφημι (παράφημι) ha un valore simile al successivo πείθω, ed è spesso associato all'inganno (come segnalato da LSJ). In questo senso forse 92 [la] persuasero41 sapientemente affinché per loro la barra del chiavistello togliesse rapidamente dai battenti42. E questi43 nel telaio vuoto enorme44 produssero aprendosi, i bronzei cardini nelle cavità in senso inverso facendo ruotare, [20] applicati per mezzo di ferri e chiodi45. Per di là46, anche la scelta del complemento μαλακοῖσι λόγοισιν, per sottolineare la gentilezza dell'espressione. 41 Il racconto della (possibile) catabasi, introdotto con la descrizione del portale al v. 11, ha qui il suo effettivo inizio, segnalato dall’uso del primo aoristo (βῆσαν al v. 2 era stato utilizzato all’interno di una subordinata), cui seguono quelli ai vv. 18, 22, 23. Il racconto, secondo Ferrari cui si devono queste osservazioni (op. cit., p. 105), è prospettato come premessa e ragione del “ritorno”, cui sono stati dedicati i versi iniziali del proemio. 42 Un analogo repertorio di immagini, movimenti, meccanismi di chiusura e apertura di portali, così come analogo superamento divino dello stesso portale che discrimina mondo celeste e mondo infero a opera del Sole è documentato negli antichi testi sumerici (per i quali si rinvia ancora a Heimpel e Palmer, op. cit., pp. 55-6). 43 Anche in questo caso, come nei precedenti ai vv. 13-14, il pronome ταί si riferisce a πύλαι. 44 L’espressione χάσμ΄ ἀχανὲς sembra evocare il χάσμα μέγα esiodeo (in entrambi i casi χάσμα è in relazione con il genitivo πυλέων), il baratrochaos che Esiodo nella Teogonia (740) pone al di là della soglia della porta di Giorno e Notte: si tratta della voragine al fondo della quale è collocata la prigione in cui, al termine della titanomachia, furono rinchiusi i titani sconfitti. Leszl fa notare (p. 151), comunque, come non si abbia l’impressione che la porta di cui parla Parmenide sia la porta di accesso alla casa della Notte. La Robbiano (p. 150), invece, rileva la funzione drammatica dell’immagine, che si frappone, con la soglia petrigna, tra la quotidiana esperienza mortale del viaggiatore e l’incontro con la divinità. A rendere estremamente probabile la diretta evocazione di Esiodo da parte di Parmenide contribuisce un dato significativo: il termine χάσμα non ricorre in letteratura almeno fino alla metà del V secolo a.C. (M.E. Pellikaan-Engel, op. cit., p. 53). 45 A struttura e dinamica della “porta” dedicano spazio i commenti di Diels e Conche, che si servono anche di opportune illustrazioni a sostegno della spiegazione. 46 Seguiamo Ferrari nel rendere in italiano la formula greca τῇ ῥα δι΄ αὐτέων, costruita con la particella avverbiale locativa e il complemento di (moto attraverso) luogo. Letteralmente si dovrebbe tradurre: «Là, attraverso quella [porta]». 93 dritto condussero le fanciulle lungo la via maestra47 carro e cavalli. E la Dea48 benevola mi accolse: con la mano [destra] la [mia] mano 47 L'aggettivo (qui in forma sostantivata) ἀμαξιτός, comunemente associato a ὁδός, indica la strada attrezzata per il passaggio dei carri, quindi, derivatamente, una strada principale. Secondo la Pellikaan-Engel (op. cit., p. 54), la scelta del termine segnalerebbe che dalla porta al luogo dell'incontro con la Dea il percorso non è breve. In questo senso potrebbe dunque approfondirsi la dimensione sotterranea del viaggio. 48 Traduco θεά con «la Dea» per accentuarne il valore religioso: mi pare plausibile alla luce del suo ruolo personale di interlocutrice privilegiata, che guida, sollecita, espone, proibisce ecc.. Per l'identificazione dell’anonima divinità, tra le proposte degli ultimi decenni è interessante l’indicazione di Cerri (pp. 180-1): nelle città della Magna Grecia (Locri, Posidonia e varie altre) erano diffuse iscrizioni alla «dea infera», «ninfa infera» o semplicemente «alla dea», in cui il riferimento era chiaramente a Persefone. A conclusioni analoghe è giunto, indipendentemente, Kingsley (op. cit., pp. 93 ss.). Anche Passa (p. 53) ha di recente riconosciuto in Persefone la dea rivelatrice del poema. Secondo West (M.L. West, La filosofia greca arcaica e l'Oriente, Il Mulino, Bologna 1993, p. 289 n. 57), la θεά alluderebbe a Θεία (Tia), in Esiodo (Teogonia 135) una delle Titanidi (come Temi), figlie di Urano e Gea, e madre di Sole, Luna e Aurora (371-4). Anche in Pindaro (Istmiche V.1) Θεία è invocata come «Madre del Sole». Pugliese Carratelli (“La Θεά di Parmenide”, «La Parola del Passato» XLIII, 1988, pp. 337-346) ha proposto – sulla scorta di una laminetta orfica dedicata a Μνημοσύνη, ritrovata nel 1974 a Ipponio – l'identificazione della dea appunto con Mnemosyne (a sua volta una Titanide). La stessa ipotesi è avanzata su basi analoghe da Sassi (op. cit., p. 393). Ferrari (op. cit., pp. 107-8), sulla scia di J.S. Morrison ("Parmenides and Er", «Journal of Hellenic Studies», 75, 1955, pp. 59-68) e W. Burkert ("Das Proömium des Parmenides und die Katabasis des Pythagoras", «Phronesis», 14, 1969, pp. 1-30), ha di recente concluso che la non meglio definita divinità del v. 22 altri non sarebbe che Νύξ (Notte), variamente attestata nella tradizione oracolare e orfica. In particolare egli ha osservato come, nella tradizione epica, l’uso di θεά senza ulteriori determinazioni sia anaforico: nel contesto, a parte Dike guardiana del portale, l’unica divinità nominata è appunto Νύξ. Anche Palmer (op. cit., pp. 58-61), seguendo Morrison e Mansfeld (pp. 244-7), è tornato a insistere su Νύξ, giustificando la propria opzione non solo nel contesto del proemio, ma rinviando anche all'ambiente culturale orfico, in particolare al poema oggetto di commento nel Papiro di Derveni, e alle funzioni oracolari associate alla figura di Notte nel mondo greco. A suo tempo la Pellikaan- 94 destra prese49, e così parlava e si rivolgeva50 a me: O giovane51, che, compagno52 a immortali guide53 Engel (op. cit., pp. 61-2) aveva opposto a questa proposta di identificazione l'osservazione sensata che la compresenza di Eliadi e Notte era quanto mai improbabile, proprio alla luce del precedente esiodeo. In alternativa, quindi, aveva suggerito l'esiodea Ἡμέρη (il Giorno), da Parmenide evocata come Ἤμαρ. A Πειθώ, invece, ha pensato Mourelatos (op. cit., p. 161). Di recente, riprendendo il suggerimento di Hermann Fränkel, Privitera (op. cit., pp. 461-2) ha proposto la Musa, portando sostanzialmente tre argomenti: (i) la ricorrenza del termine θεά all'interno del proemio di un poema epico; (ii) l'analogia con Iliade, nel cui primo verso la Musa è allusa appunto come θεά; (iii) il costume che prevedeva una invocazione alla Musa per poema "epico" di argomento sapienziale. In ogni caso, è significativo che questa δαίμων subito interpelli il poeta: ciò ha riscontro nell'immaginario viaggio oltremondano tratteggiato nelle laminette orfiche conservate, dove l'iniziato è interrogato da «custodi» (φύλακες) presso la palude di Mnemosine (Sassi, op. cit, p. 390). 49 Kingsley (op. cit., pp. 93 ss.) rinvia a testimonianze vascolari che ritraggono Persefone nell'atto di accogliere nell'Ade Eracle e Orfeo, offrendo loro appunto la mano destra. 50 Il verbo greco προσηύδα è all’imperfetto, come il successivo προὔπεμπε (v. 26: «spingeva»): i verbi che esprimono l’idea di un ordine o di una missione sono impiegati all’imperfetto perché implicano uno sforzo e indicano il punto di partenza di uno sviluppo. Così per i verbi che significano «dire» (O’Brien, p. 8): la forma epica φάτο, in effetti, può essere anche imperfetto. 51 Il termine vocativo κοῦρε non si riferisce necessariamente alla giovinezza del poeta, potrebbe piuttosto marcare lo scarto tra la natura divina e quella umana degli interlocutori. Il termine κοῦρος (forma epica e ionica di κόρος), relativamente raro nei testi arcaici, indica sia il giovane contrapposto all’anziano, sia il figlio, sia il ragazzo contrapposto alla ragazza. Esso può implicare anche un legame particolare con la divinità, dal momento che κοῦρoι erano chiamati i giovani addetti ai sacrifici, ma anche i figli degli dei (negli inni omerici a Hermes e Pan, e in Pindaro Olimpiche VI): in ogni caso, il termine sarebbe titolo di onore (Coxon e Kingsley). Conche (p. 59) fa notare come l’appellativo sia coerente con il contesto educativo, giustificando la disponibile e benevola accoglienza della dea. La Sassi (op. cit., p. 387) associa l'appellativo κοῦρε a εἰδὼς φώς, come espressione legata a una prospettiva iniziatica. 52 Il termine συνάορος non significa semplicemente «accompagnato da», ma «associato a», «collegato a»: la traduzione «compagno» è sufficientemente ambigua da accoglierne le sfumature. Etimologicamente è connesso a συναείρω («aggiogare»), con il significato immediato di «aggiogato insieme»: anche in questo caso, dunque, è evidente il debito del proemio 95 [25] e cavalle che ti conducono, giungi alla nostra casa54, rallegrati, poiché non Moira55 infausta ti spingeva a percorrere questa via56 (la quale è in effetti lontana dalla pista degli uomini57), ma Temi58 e Dike 59. Ora60 è necessario61 che tutto62 tu63 apprenda64: parmenideo all'immaginario dell'ippica (Passa, p. 137). Da sottolineare il fatto che la formula utilizzata dalla Dea fa del κοῦρος in questo modo un «compagno» delle Eliadi, a loro volta presentate (v. 5) come κοῦραι. Secondo Couloubaritsis (Mythe et Philosophie chez Parménide, Ousia, Bruxelles 1986, p. 93), il rilievo della Dea si riferirebbe alla comune giovinezza delle Eliadi – κοῦραι - e del poeta - κοῦρος. 53 Il sostantivo maschile ἡνίοχος designa chi guida un carro, l'«auriga»; derivatamente è utilizzato anche per indicare chi governa e indirizza una nave, e, in senso lato chi guida e governa. Nel contesto il termine si riferisce alle Eliadi. 54 Secondo Ferrari (op. cit., p. 107), l'espressione ἡμέτερον δῶ («la nostra casa») richiamerebbe δώματα Nυκτός («la dimora della Notte») del v. 9, spingendo alla conclusione che la Dea sia da identificare appunto con Νύξ. 55 In Esiodo abbiamo tre Moire, figlie di Zeus e Temi. L’espressione μοῖρα κακή ricorre in Iliade XIII, 602 per indicare la morte: nel contesto, dunque, essa potrebbe alludere a un luogo preciso dell’incontro con la divinità: l’oltretomba. In questo senso Cerri e Ferrari traducono come «sorte maligna»: i traduttori, in effetti, per lo più preferiscono associare al termine, nel nostro contesto, il valore di «fato» o «destino». Così intende anche la Sassi (op. cit., p. 389). 56 L'espressione τήνδ΄ ὁδόν sottolinea, con il dimostrativo, il privilegio del κοῦρος: a partire dalla prima evocazione (vv. 2-3) della ὁδός πολύφημος δαίμονος, il tema della strada/via è rimasto dominante sullo sfondo del racconto, che si è sviluppato lungo l'itinerario del poeta. 57 Conche (p. 60) osserva che il riferimento coinvolge costumi, abitudini, modi di pensare diffusi tra gli uomini. È probabile ritrovare in questo passaggio un’eco del precetto pitagorico conservato da Porfirio (e sopra citato proprio in relazione alla ὁδός πολύφημος δαίμονος dei vv. 2-3): τὰς λεωφόρους μὴ βαδίζειν («non percorrere le strade popolari»). 58 In alternativa: «norma divina», ovvero «legge» (θέμις). Temi era una delle Titanidi, figlie di Urano e Gea, madre delle Moire e delle Ore, nonché una delle spose di Zeus. 59 Complessivamente il coinvolgimento di Temi e Dike sembrerebbe essere proposto a garanzia della eccezionalità dell’evento rivelativo. Il riferimento a Temi potrebbe giustificare l’intervento delle Eliadi presso Dike per persuaderla ad aprire una porta che avrebbe altrimenti dovuto rimanere 96 sia di Verità65 ben rotonda66 il cuore67 fermo68, serrata per un mortale (in vita), e il rilievo della associazione delle due dee nelle parole della divinità innominata. Tenendo conto della associazione delle due dee con la norma e la giustizia divine, il loro coinvolgimento proietta e impone sulla successiva “rivelazione” una forte impronta d’ordine e di necessità (cosmici). In questo senso Tonelli, nella sua edizione dei frammenti (p. 116), rileva come Moira, Temi e Dike, unitamente ad Ananke (Necessità), rappresenterebbero «la divinità femminile nella sua dimensione di norma cosmica». 60 Pochi traduttori traducono la particella δέ. Ferrari le riconosce valore avversativo («Ma»), altri continuativo: Diels («so»), Gemelli Marciano («also»), Tonelli («e»). L'introduzione della particella non è legata forse solo a ragioni di equilibrio metrico, ma anche al senso della rassicurazione iniziale della Dea: ella dapprima tranquillizza il poeta circa il suo destino, quindi sottolinea il compito che lo aspetta. 61 Il termine χρεώ è associato nell'epica a χρειώ, che nelle fasi antiche dell'epica era utilizzato come vero e proprio nome femminile: nel corso del tempo esso fu trattato come un neutro. Analogamente χρεώ, che, preso il posto di χρειώ, finì per diventare un sinonimo di χρή (Passa, p. 77-8). La formula (con copula sottintesa) χρεώ rende una necessità soggettiva, dunque opportunità, convenienza, piuttosto che una costrizione oggettiva: si potrebbe rendere anche con «è giusto», «è opportuno». In ogni modo, l’uso di tale formula implica che quanto la Dea sta per esprimere è parte del compito, del dovere che il viaggiatore deve assumere (Robbiano, op. cit., p. 75). Ferrari (op. cit., p. 104) giustamente osserva come il kouros per la dea sia in fondo solo un «apprendista» (apostrofato appunto come κοῦρε). 62 La scelta del pronome neutro plurale πάντα («tutto», ovvero «tutte le cose») è significativa perché garantisce al programma della comunicazione (rivelazione) della Dea un orizzonte di verità piena, totale, giustificandone le articolazioni annunciate negli ultimi versi. 63 L'insistenza sui pronomi personali è confermata anche nei frammenti successivi (soprattutto la polarità «tu» e «io», in contrapposizione ai «mortali»). 64 Il verbo πυνθάνομαι ha il valore di «imparare per sentito dire (raccogliendo informazioni)» ovvero «imparare per indagine». Può implicare dunque sia un atteggiamento di passiva ricezione, sia di attiva ricerca («di tutto fare esperienza»). 65 Secondo Coxon (p. 168) il sostantivo ἀληθείη e l’aggettivo ἀληθής non significherebbero nel contesto del poema «verità» e «vero», ma «realtà» e «reale». Di recente Palmer (op. cit., pp. 89-93) ha rilanciato con buoni argomenti. Anche Ferrari traduce con «Realtà». Nel suo Parmenides und die Anfänge der Erkenntniskritik und Logik (Auer, Donauwörth 1979, pp. 33 ss.), E. Heitsch mostra, sulla scorta della preistoria del termine, come 97 ἀλήθεια etimologicamente (non occultamento e non dimenticanza) suggerisca una originaria affinità tra il senso oggettivo e soggettivo di verità: ἀλήθειαν εἰπεῖν verrebbe per esempio a significare «riportare nel discorso qualcosa che nel mondo si mostra come non nascosto». In effetti, in Omero ἀληθείη e ἀληθέα compaiono in dipendenza da verba dicendi: Gloria Germani ("ΑΛΗΘΕΙΗ in Parmenide", in «La Parola del Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 177-206) ha sottolineato in questo senso la «peculiarità sintattica» del termine nella individuazione del processo unitario che connette soggetto e oggetto (p. 181). Tipico di ἀληθείη sarebbe infatti il riferimento a chi parla: l'oggetto si manifesta solo se c'è un soggetto a cogliere tale manifestazione. Il termine designerebbe dunque una relazione in cui «conoscere e realtà si completano e si realizzano a vicenda» (p. 185). In effetti, già Aristotele, riferendosi ai pensatori presocratici (Metafisica IV, 5 1010 a1-3), poteva sottolineare: αἴτιον δὲ τῆς δόξης τούτοις ὅτι περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν, τὰ δ’ ὄντα ὑπέλαβον εἶναι τὰ αἰσθητὰ μόνον la causa di questa opinione presso di loro è che essi certamente ricercavano la verità intorno agli esseri, ma supponevano che gli enti fossero solo quelli sensibili. L'accostamento verità-realtà (sensibile) proprio in relazione ai pensatori presocratici è ribadito in Aristotele, per esempio: ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων Coloro che per primi hanno ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti (Fisica I, 8 191 a25). Ma rispetto al nostro contesto è significativo, come ha fatto notare Leszl (p. 16), il fatto che, a un certo punto, in relazione alle opere di Melisso e Gorgia (seconda metà V secolo a.C.), siano state utilizzate, accanto alla corrente indicazione περὶ φύσεως, rispettivamente le formule περί τοῦ ὄντος e περί τοῦ μὴ ὄντος (rivelando una certa consapevolezza della inadeguatezza della tradizionale titolazione). Passa (p. 53), che interpreta il proemio come itinerario dell'iniziato verso la Verità, sostiene che esso contiene «la rappresentazione poetica di esperienze sciamaniche vissute da Parmenide»: Ἀληθείη, in questo senso, sarebbe «figura del contenuto essenziale rivelato dalla dea, assurto esso stesso a ipostasi divina». Come segnala l'autore, per altro, Verità ritorna, "ipostatizzata", anche nei reperti archeologici (placche d'osso) recuperati a Olbia Pontica. 98 È allora da soppesare con attenzione l'ipotesi interpretativa che fa della figura divina appena introdotta il perno simbolico della ripresa e della soluzione parmenidea del problema della verità, dopo la profonda incrinatura dell'orizzonte arcaico, soprattutto a opera di Senofane: il tema dell'accesso alla verità potrebbe fungere da chiave di lettura generale (oltre che, specificamente, dello stesso proemio). Su questo punto ancora la Germani, op. cit., pp. 186-7. 66 Accogliendo la lezione εὐκυκλέος rendiamo letteralmente con «[Verità] ben rotonda». Effettivamente ci sarebbero buone ragioni per l'adozione di εὐπειθέος, se si potesse senza problemi tradurre come «persuasiva» (o «ben persuasiva»). Nel verso successivo si rileverà come nelle «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξας) non vi sia «vera credibilità» (πίστις ἀληθής): con una inversione, Parmenide passerebbe da una «verità» (ἀληθείη) «persuasiva [credibile]» (εὐπειθής) a una «vera» (ἀληθής) «credibilità» (πίστις). In B2.4, la Dea rimarcherà come la via «che è» (ὅπως ἔστιν) sia «sentiero di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος), in quanto «a Verità si accompagna» (ἀληθείῃ ὀπηδεῖ). In conclusione della sua esposizione della verità, la stessa Dea sottolineerà (B8.50-1): ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno alla verità. È indiscutibile l'insistenza parmenidea sul nesso tra ἀληθείη e πειθώ, che in B2 sono proposte sostanzialmente come ipostasi divine. Il vero problema dell'opzione εὐπειθέος è che il significato antico dell'aggettivo εὐπειθής – attestato ancora in Platone e Aristotele - è quello di «obbediente» «disponibile/pronto all'obbedienza»: il significato di «persuasivo» è posteriore. Nell'economia del poema, anche l'aggettivo εὔκυκλος – attestato sia in Pindaro sia in Eschilo – è comunque denso di implicazioni, soprattutto in relazione ai versi del poema più citati in assoluto nell'antichità (vv. B8.43-5), dove ritroviamo il ricorso a un'immagine: εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ («simile a massa di ben rotonda palla»). 67 Il sostantivo ἦτορ era impiegato prevalentemente per animali, uomini, dei, quindi in senso non astratto: il suo significato sarebbe vicino a quello di θυμός, per veicolare l’idea di un’attività intellettuale emotivamente tonalizzata. In Omero il termine ἦτορ (insieme a κραδίη), come θυμός, sembrerebbe coinvolgere soprattutto la sfera degli affetti, dei sentimenti. È significativo che Parmenide opti di correlare Ἀληθείη a ἦτορ, la verità all’uomo che la deve conoscere (Stemich, op. cit., pp. 78-80): nella letteratura arcaica ἦτορ è piuttosto 99 [30] sia dei mortali le opinioni69, in cui non è reale credibilità70. connesso al corpo (Passa, p. 52). Il termine ἦτορ può indicare la «coscienza vigile» («un cuore di bronzo», in Omero), da cui la fermezza rilevata da Parmenide, ma anche la parte essenziale dell’uomo: in riferimento al Tutto, la «verità ben rotonda», compiuta, perfetta (Ruggiu, p. 199). R.B. Onians (The Origins of the European Thought, C.U.P., Cambridge 1951, p. 106) vi vede racchiusa «la sostanza della coscienza», cui è associata la sede del linguaggio. Questo può significare che all'espressione Ἀληθείης ἦτορ Parmenide intendesse far corrispondere la «sostanza conoscitiva e insieme linguistica del messaggio in esso [poema] contenuto» (Passa, p. 53). 68 L'aggettivo ἀτρεμές (letteralmente «che non trema»), variamente tradotto (per adeguarlo al contesto) come «intrepido» (Ferrari), «saldo» (Reale), «incrollabile» (Cerri, che rende però la formula ἀτρεμὲς ἦτορ come «il sapere incrollabile»), suggerisce immobilità, saldezza (e in questo senso lo ritroveremo annoverato tra i σήματα in B8.4). 69 Contrapposte alla Verità, la Dea propone βροτῶν δόξας («opinioni dei mortali»), insistendo sia sul tradizionale discrimine tra sapere divino e ignoranza umana, sia sulla opposizione tra «l’uomo che sa» (εἰδώς φώς, v. 3) e «i mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν B6.4): a dispetto dei mortali che non hanno conoscenza, il kouros deve conoscere tutto. Per connotare il punto di vista dei mortali, la dea (Parmenide) ricorre a un termine – δόξαι – che, a differenza del mero manifestarsi (φαίνεσθαι) e di una passiva registrazione empirica, implica giudizio e accettazione (ancorché affrettati e scorretti), opinione assunta attraverso una decisione, di cui, dunque, i «mortali» non sono vittime ma responsabili. In questo senso Couloubaritsis, per esempio, traduce con «considerazioni». È allora opportuno il rilievo di Conche (p. 66): Parmenide evita di contrapporre la sua verità a quella degli altri, un punto di vista ad altri alternativi. Il poeta, invece, è presentato come portavoce di una divinità anonima, scevra della soggettività dei mortali, impersonale: ella non è altro che la Verità stessa. Significativo l’accostamento a Eraclito: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι non me, ma il logos ascoltando, è saggio convenire che tutto è uno (DK 22 B50). Interessante il rilievo di Leszl (p. 37), in conclusione di un lungo esame della nozione di ἀληθεια: δόξα indicherebbe a un tempo l’opinione che abbiamo circa le cose e il modo in cui le cose si presentano a noi. 70 Il termine greco πίστις conserverebbe – secondo Heitsch (Parmenides, Die Fragmente, p. 95) – il valore di «prova, dimostrazione per credibilità o 100 Nondimeno71 anche questo72 imparerai73: come le cose accolte nelle opinioni74 fiducia» o semplicemente di «prova, dimostrazione» (Beweis) sia negli oratori attici, sia in Platone e Aristotele. Egli propone di utilizzare questo valore anche nel contesto di B1. Palmer (op. cit., p. 92) osserva, invece, come πίστις sia in questo passaggio impiegato con valore soggettivo, dunque nel senso di «trustworthiness»: tale (non genuina) «credibilità» si riferirebbe, tuttavia, non direttamente alle βροτῶν δόξαι, ma alla loro esposizione nel resoconto della Dea. 71 Come segnala LSJ, la formula ἀλλ΄ ἔμπης - composta da congiunzione avversativa (ἀλλά) e avverbio (ἔμπης) – è impiegata nel greco omerico come sinonimo di ὅμως (all the same, nevertheless, «nondimeno»), più tardi con valore più debole (at any rate, yet, «tuttavia, comunque»). Cordero (p. 32) osserva come la formula ἀλλ΄ ἔμπης sia utilizzata in Omero per introdurre una restrizione di senso rispetto a quanto appena enunciato: nel nostro contesto, dunque, secondo lo studioso argentino, la Dea intenderebbe sottolineare il fatto che, a dispetto della loro non-verità, il kouros dovrà essere informato sulle opinioni. La stessa convinzione era stata espressa da un altro grande interprete di Parmenide, Tarán: i vv. 31-32 del frammento «show the purpose that the goddess has in mind in asking Parmenides to learn the opinions of men in spite [rilievo nostro] of the fact that they are false» (p. 211). 72 Il pronome ταῦτα (letteralmente «queste cose») può indicare quanto precede immediatamente, quindi riferirsi alle «opinioni dei mortali», ovvero specificare ulteriormente πάντα («tutto», v. 28), riferendosi a quanto segue (in funzione prolettica rispetto a quanto introdotto con ὡς). La prima soluzione appare più naturale rispetto all'uso corrente, tuttavia è possibile la lettura dei due versi finali con un futuro programmatico (μαθήσεαι) e una proposizione dipendente introdotta per definirne gli obiettivi. In effetti, come nota Cerri, nell’uso corretto greco, per anticipare quanto segue sarebbe stato più naturale τάδε; ma, come dimostra M.C. Stokes (One and Many in Presocratic Philosophy, The Center for Hellenic Studies, Washington 1971, p. 302 nota 27) con paralleli in Erodoto, l'uso contemporaneo non escludeva un valore prolettico del pronome. Nella nostra lettura, la Dea, effettivamente, si riferisce ancora alle «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξαι), i cui contenuti («le cose accolte nelle opinioni», τὰ δοκοῦντα) intende riscattare: ταῦτα, quindi, a un tempo (e ambiguamente) evoca quel che precede, precisandone il senso, e introduce l’ultimo punto del programma della rivelazione (corrispondente alla seconda grande sezione del poema). 73 Il verbo μανθάνομαι ha il valore di «imparare per esperienza o studio» (analogamente a πυνθάνομαι), ma anche di «comprendere, discernere». 101 Patricia Curd (The Legacy of Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton University Press, Princeton 1998, pp. 113-4) ha marcato le differenti implicazioni semantiche rispetto al precedente πυνθάνομαι: πυνθάνομαι suggerisce che si raccolga informazioni e apprenda per esperienza, mentre μανθάνω suggerisce piuttosto apprendimento e comprensione acquisiti con un atto di giudizio. 74 Abbiamo scelto questa traduzione faticosa per τὰ δοκοῦντα, cercando di salvarne le implicazioni semantiche. L'espressione participiale τὰ δοκοῦντα indica le cose accettate nella opinione di qualcuno, ovvero che sono accolte nel giudizio di qualcuno. Non si tratta di punti di vista soggettivi, quanto del loro contenuto, delle cose cui ci si riferisce (che si manifestano) in quei punti di vista, delle cose (plurale), di quelle che sono dette anche τὰ ἐόντα (Ruggiu, p. 207). Cordero (p. 33) rende come «ciò che appare nelle opinioni», le cose che sembrano, che sono pensate, tra i mortali: il mondo come è visto dai mortali. Conche (p. 64) parla, a proposito di τὰ δοκοῦντα, di «correlati intenzionali (nel senso della fenomenologia) delle doxai». Mourelatos (p. 204), che ha scritto pagine illuminanti sul significato dei termini greci in radice dok-*, marca l’ambiguità del valore di τὰ δοκοῦντα: «le cose che i mortali ritengono accettabili», ma anche «le cose come i mortali [le] ritengono accettabili». Parmenide intenderebbe, insomma, suggerire che i termini con cui i mortali accettano o riconoscono le cose costituiscono l'identità propria dell’oggetto della accettazione dei mortali. Brague (Études sur Parménide, t. II, Problèmes d'interpretation, pp. 54-5) ricorda come in Simplicio ricorra la formula τὸ δοκοῦν ὄν, «l’essere apparente», «ciò che sembra [essere] ente» in contrapposizione a τὸ ὄν ἁπλῶς, «l’essere in senso pieno, assoluto». Una formulazione senza paralleli, che potrebbe quindi essere eco di una espressione autenticamente parmenidea. Couloubaritsis (op. cit., pp. 267 ss.), ribadendo il doppio registro semantico di τὸ δοκοῦν (τὰ δοκοῦντα) - in una direzione rivolto al discorso, in altra alla cosa - segnala il posteriore accostamento aristotelico (Confutazioni sofistiche, 33, 182 b38) di τὰ δοκοῦντα a τὰ ἔνδοξα e in genere la convergenza insistita in ambito peripatetico tra τὸ δοκοῦν ἑκάστῳ e τὸ φαινόμενον ἑκάστῳ. La specificità di τὸ δοκοῦν rispetto all'altro termine sarebbe tuttavia da rintracciare proprio nell'aspetto opinativo, nell'implicazione di un giudizio. Il nesso con δοξάζειν («considerare») si preciserà in relazione all'atto del nominare: è in quanto legata alla parola e all'imposizione di nomi, che la via della doxa viene sviluppata nel poema. In questo senso Couloubaritsis (op. cit., pp. 269-270) crede che l'espressione τὰ δοκοῦντα rimandi alle cose in quanto designate dai mortali piuttosto che da loro percepite. Più puntualmente: le cose che i mortali hanno designato per spiegare il mondo in divenire. 102 era necessario75 fossero effettivamente76, tutte insieme77 davvero esistenti78. 75 L’imperfetto χρῆν seguito dall’infinito può indicare un tempo reale del passato (pensando soprattutto all’origine delle erronee opinioni mortali e all'alternativa proposta esplicativa di Parmenide), ovvero un tempo irreale, del passato o del presente. Nel contesto, come segnala Robbiano (p. 180), la forma verbale può riferirsi a un requisito nel passato che o è stato o non è stato ottemperato. Ricordiamo che nel greco arcaico il verbo esprime piuttosto convenienza che necessità logica (quindi «è giusto, opportuno»). La concomitante presenza di δοκίμως rende, secondo noi, più logico pensare che Parmenide intendesse contrapporre alle «opinioni dei mortali» una prospettiva esplicativa alternativa e plausibile rivolta agli stessi oggetti di quell'opinare: questo passaggio del testo è colto efficacemente nella resa di Palmer (op. cit., p. 363): «Nonetheless these things too will you learn, how what they resolved had actually to be [...]». 76 L’avverbio δοκίμως è qui usato come complemento dell’infinito εἶναι: il predicato in effetti può essere espresso da un avverbio, facendo così assumere al verbo «essere» il suo valore pieno di esistenza. L’avverbio può tradursi sia con «plausibilmente», «accettabilmente» (Mourelatos, p. 204), sia con «realmente, genuinamente» (secondo l’uso eschileo). Rendendo l’imperfetto (χρῆν) come forma di irrealtà, si determina una costruzione ambigua, che afferma e nega a un tempo (come irreale) un’esistenza qualificata come reale ovvero plausibile. Ne deriva una sorta di gioco espressivo, del tipo rintracciabile nei frammenti di Eraclito (O’Brien, pp. 13- 4). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 43) cita in proposito DK 22 B28: δοκέοντα γὰρ ὁ δοκιμώτατος γινώσκει, φυλάσσει... (anche) l'uomo più considerato conosce e custodisce cose apparenti [ovvero opinioni]. Secondo lo studioso italiano, proprio la relazione tra τὰ δοκοῦντα e δοκίμως comporterebbe un «cortocircuito etimologico»: il participio sostantivato, con le sue potenzialità semantiche negative (parvenze), è coniugato con un avverbio dal significato positivo di accettabilità, plausibilità. δοκίμως deriva da δόκιμος («accettabile», «approvato», «stimato»); il verbo δοκιμάζω conferma il senso di «mettere alla prova» e «approvare»: l'avverbio ha dunque in sé implicite le sfumature di «come conviene» e di «realmente», «veramente». La sua radice indoeuropea *dek- evidenzierebbe il senso di adeguazione, conformità (Couloubaritsis, op. cit., p. 271). Accettando, invece, la vecchia lezione di Diels (δοκιμῶσ(αι) εἶναι), ripresa, tra gli altri, da Untersteiner e recentemente da Di Giuseppe, il senso di ὡς τὰ 103 δοκοῦντα χρῆν δοκιμῶσ(αι) εἶναι sarebbe: «come era necessario acconsentire (riconoscere) che le cose che appaiono ai mortali sono». 77 Traduco in questo modo il testo greco, intendendo διὰ παντὸς πάντα come una formula, secondo il suggerimento di Mourelatos (p. 204), il quale fa leva su paralleli testuali che vanno dalla letteratura ippocratica a quella platonica. Essi suggeriscono la traduzione «tutte [le cose] insieme» (all of them together), ovvero «tutte [le cose] continuamente». Sulla scorta dell’uso platonico (Repubblica, 429b-430b), Mourelatos (p. 205) propone di leggere in διὰ παντὸς il riferimento alle prove sopportate nel corso di una competizione. In alternativa si traduce διὰ παντὸς come «in ogni senso» (Tonelli), «in un tutto» (Cerri), «dappertutto» (Ferrari»), mantenendo autonomo il significato e la funzione di πάντα («tutte le cose»). 78 Si è dato notizia, in nota al testo greco, delle due lezioni (περ ὄντα e περῶντα) dei codici di Simplicio. Come ha giustamente fatto notare la Curd (op. cit., p. 114, nota 52), entrambe le letture rendono complessivamente lo stesso significato. Traduciamo ὄντα come participio e non come sostantivo (manca, in effetti, l’articolo τὰ), ricordando, tuttavia, come il termine, in Omero e Esiodo, designasse le realtà che esistono davvero e nei filosofi ionici l’oggetto della ricerca, la realtà permanente del mondo (Brague, pp. 61-2). 104 DK B2 εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν 1 ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας, αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι· ἡ μὲν ὅπως ἔστιν2 τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, Πειθοῦς 3 ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ 4 γὰρ ὀπηδεῖ -, [5] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών5 ἐστι μὴ εἶναι, τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα6 ἔμμεν ἀταρπόν7 · οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν8 - 1 Coxon, invece di ἄγ΄ ἐγὼν (proposto come emendazione dei codici di Proclo da Karsten e accolto da Diels-Kranz e dagli editori posteriori), legge con i codici εἰ δ΄ ἄγε, τῶν («orsù, parlerò di queste cose»), difendendo la propria scelta con la consuetudine epica del genitivo di argomento in dipendenza da verba dicendi. La proposta di Karsten non solo è considerata più naturale dal punto di vista paleografico, ma valorizza anche l’opposizione ἐγώ - σύ, che nel testo pare significativa. La forma ἐγών riflette l'uso omerico, che dissimulava l'antico digamma perduto nel dialetto degli aedi ionici: per eliminare gli iati creatisi nella dizione, fu introdotto –ν nel testo omerico (Passa, p. 74 nota). Qui il –ν di ἐγὼν supplisce il digamma iniziale di ἐρέω. 2 Come segnala Cordero (N.L. Cordero, "Histoire du texte de Parménide", in Études sur Parménide, cit., t. II: Problèmes d'interprétation, p. 21), ἔστιν è correzione di Mullach: la tradizione manoscritta conserva ἔστι. Il codice moscovita W di Simplicio è l'unico a presentare la forma similare ἐστίν. Passa (p. 97) osserva come i sei casi, in Parmenide, di ἐστιν con ν efelcistico davanti a consonante rappresentino «una vistosa innovazione rispetto alla dizione omerica». 3 Come in casi precedenti, intendo Πειθώ come nome personale. 4 Seguiamo Gemelli Marciano (II, p. 14) nell'intendere il sostantivo greco maiuscolo. I codici di Proclo e Simplicio riportano ἀληθείη: ἀληθείῃ è proposta degli editori. 5 La formula χρεών ἐστι è tipica della prosa: nella tragedia e in Pindaro si trova solo l'uso assoluto dell'accusativo χρεών, nel senso di χρή (Passa, p. 79). 6 I codici di Proclo riportano παναπειθέα e παραπειθέα; quelli di Simplicio παναπευθέα, forma corretta, come rivela il confronto con Odissea III, 88. Secondo Passa (p. 38), è evidente che in questo caso Proclo cita a memoria. 7 Si tratta della forma ionica - ἀταρπός – dell'attico ἀτραπός (da τρέπω). 8 I codici di Proclo riportano ἐφικτόν («che si può raggiungere», da ἐφικνέομαι), quelli di Simplicio ἀνυστόν. La lezione di Proclo, che presenta paralleli in Empedocle (B133) e Democrito (B58, B59), ha una sua 105 οὔτε φράσαις· [vv. 1-8 Proclo, In Platonis Timaeum I, 345; vv. 3-8 Simplicio, In Aristotelis Physicam 116-7; vv. 5b-6 Proclo, In Platonis Parmenidem, 1078, 4-5] plausibilità, ma la forma ἀνυστόν («che può essere compiuto») ha riscontri "eleatici" in Melisso (B2 e B7), e si trova ancora in Anassagora (B5). In questa occasione Proclo potrebbe nuovamente aver fatto ricorso alla citazione a memoria: il significato di οὐ ἐφικτόν è prossimo a quello di οὐ ἀνυστόν: «risultato che non si può raggiungere». 106 Orsù1, io dirò - e tu2 abbi cura3 della parola4 una volta ascoltata5 - 1 La formula εἰ δ΄ ἄγε per «orsù» è ampiamente attestata nell’epica, anche in relazione al pronome ἐγώ (Cerri – p. 187 - cita a esempio un verso formulare che ricorre identico in molti luoghi di Iliade e Odissea). 2 Il pronome personale «tu» (σύ) si riferisce al poeta\filosofo, cui la Dea si rivolge. Questa interpretazione dà continuità a B1 e B2. Untersteiner (p. LXXX) ipotizza, invece, che a parlare sia lo stesso Parmenide: alcune espressioni che ricorrono nei frammenti (in relazione ai «mortali») confermano la lettura tradizionale. 3 Il senso dell’imperativo aoristo κόμισαι è quello di ricezione e cura (come di cosa preziosa), forse anche di trasmissione (come vuole Mansfeld, pp. 95-6). Tonelli (p. 119) rende questo complesso di significati con «accompagna la mia parola». Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 135) recupera, invece, da Kingsley il senso di «take away» e traduce come «riporta con te». 4 Il termine greco è μῦθος, che nella lingua greca tarda significa (come il latino fabula) una narrazione meravigliosa, in origine indicava qualcosa di completamente diverso: la «parola», la parola che esprime ciò che è realmente, effettivamente accaduto, implicando quindi la dimensione della oggettività: la parola che dà notizia del reale, che stabilisce qualcosa, e, in questo senso, è autorevole (W.F. Otto, Il mito e la parola (1952-3), in W.F. Otto, Il mito, a cura di G. Moretti, Il Melangolo, Genova 1993, pp. 30-32). Parola, quindi, intesa non come termine isolato, ma come discorso, comunicazione di verità. Mourelatos (p. 94, nota) contesta la traduzione di Tarán («word»), preferendole nel contesto di B2.1 «account», quanto la Dea ha da dire, la sua comunicazione. In questo senso egli si appoggia a Omero, in cui il valore del termine è quello di «discorso», «pensiero» o «consiglio». Solo progressivamente, nell’uso post-omerico, il significato di «discorso» sarebbe sfumato in quello di «resoconto», finendo poi per indicare «mito». Anche alla luce di tale evoluzione, altri autori (Coxon, Robbiano, Curd) hanno preferito tradurre con «story». Morgan (K. Morgan, Myth and Philosophy From the Presocratics to Plato, C.U.P., Cambridge 2000, pp. 17-18) distingue tra l’uso di ἔπος per «parola» o genericamente «affermazione» e quello di μῦθος, che, come rivelerebbero alcune ricorrenze omeriche, si riferirebbe a un «authoritative speech act». In questo senso, di recente Couloubaritsis, nella nuova edizione del suo volume su Parmenide, ha insistito su una resa poco familiare ma attenta a conservare un aspetto essenziale del valore originario del termine greco: egli traduce (La pensée de Parménide,, Ousia, Bruxelles, 2008, p. 541) come «ma façon de parler autorisée». Una traduzione di compromesso potrebbe essere: «e tu abbi cura delle mie parole dopo averle ascoltate». 5 Tutto il verso ha una forte assonanza con Odissea XVIII, 129: 107 quali sono le uniche6 vie7 di ricerca8 per pensare9: τοὔνεκά τοι ἐρέω, σὺ δὲ σύνθεο καί μευ ἄκουσον Per questo io ti dico e tu ascolta e comprendi. 6 Il valore di μοῦναι è stato da alcuni interpreti relativizzato, intendendolo nel senso debole di «le sole legittime» (Conche, p. 76), da altri reso in senso forte, come se le «vie di ricerca» indicate costituissero le due sole possibilità per pensare (Cordero, p. 39). In effetti è difficile scindere il valore di μοῦναι dal successivo infinito e dal relativo significato. 7 È interessante segnalare come il termine ὁδός – che, nota Cerri (p. 60), ossessivamente ritorna nel versi parmenidei – non abbia solo il valore metaforico di metodo, cioè del percorso lungo il quale si sviluppa un’indagine per giungere alla verità: esso può suggerire anche l’idea di «direzione di vita», linea di condotta (Stemich, op. cit., p. 199), come è possibile riscontrare in Eraclito, letteralmente e metaforicamente (in riferimento al comportamento da assumere nella ricerca della verità). In Parmenide, tuttavia, nel ricorso a ὁδός prevarrebbe la suggestione di un peculiare metodo di pensiero e ricerca. La Stemich in questo senso indica (op. cit., pp. 200-1) una convergenza tra l’illustrazione parmenidea del metodo per giungere alla conoscenza dell’essere – inteso come via che conduce oltre l’ambito sensibile in un ambito metafisico - e il percorso di ascesi filosofica all'idea del Bello nel Simposio di Platone. 8 Coxon (p. 173) osserva come l’espressione ὁδοὶ διζήσιος occorra solo in Parmenide (e in un frammento orfico di dubbia congettura), forse per sottolineare la peculiarità della propria ricerca rispetto a quella ionica. Secondo Kahn (Ch.H. Kahn, Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009, p. 147) δίζησις costituirebbe «equivalente poetico» del termine ionico ἱστορίη («ricerca scientifica»). Oggetto di investigazione è (B6-B8) l’essere (τὸ ἐόν), ovvero (B1.29 e B8.51) la realtà (ἀληθείη): «vie di ricerca», dunque, perché hanno come obiettivo la verità. Leszl (pp. 124-5) rileva come il verbo δίζημαι, corrente in Omero nel significato di ricercare una persona o cosa scomparsa, ovvero ricercare per identificare qualcuno, assuma il senso definito di indagare (e anche interrogare) in Eraclito e Erodoto. L’espressione δίζησις sottolineerebbe così che la ricerca riguarda qualcosa che non è manifesto o accessibile fin dall’inizio. Secondo Chiara Robbiano (op. cit., p. 125) il termine suggerisce anche l’attiva partecipazione richiesta per l’indagine stessa. 9 Come puntualmente rileva Cordero (p. 40), l’infinito aoristo νοῆσαι ha valore di infinito finale o consecutivo, ma è spesso stato letto con valore passivo, come se εἰσι («sono») avesse a sua volta valore di possibilità («siano [possibili] da pensare», «logicamente pensabili»). La scelta del valore attivo 108 l’una10: [che11] è12 e [che] non è possibile13 non essere14 – comporta che sia più facile spiegare la presenza delle successive congiunzioni dichiarative (ὅπως, ὡς), che possono corrispondere alla attività di pensare («l’una per pensare che …», «l’altra per pensare che …»). È possibile inoltre trovare un riscontro nel poema Sulla natura di Empedocle, dove il frammento DK 31 B3.12 presenta costruzione analoga: ὁπόσηι πόρος ἐστὶ νοῆσαι («dove ci sia passaggio per conoscere»). O’Brien (pp. 153-4) fa dipendere invece νοῆσαι da μοῦναι ovvero dall’unità sintattica μοῦναι + εἰσι: «Je dirai quelles sont les voies de recerche, les seuls à concevoir». La Robbiano (op. cit., p. 82) valorizza l’ambiguità nell’espressione di Parmenide, e propone, di conseguenza, di accettare contestualmente entrambe le interpretazioni: quella che fa delle vie l’oggetto del νοεῖν (da pensare) e quella che fa del νοεῖν la meta delle vie (per pensare). Contro la resa attiva e finale dell’infinito le osservazioni di Sellmer (S. Sellmer, Argumentationsstrukturen bei Parmenides. Zur Methode des Lehrgedichts und ihren Grundlagen, Peter Lang, Frankfurt a.M. 1998, pp. 11-12), in particolare il problema dell’impraticabilità della seconda via per il pensiero. Contro la lettura potenziale di εἰσι νοῆσαι Kahn, Essays on Being, cit., p. 146, nota 4. Abbiamo reso νοεῖν genericamente con «pensare», ma – come suggerito da vari interpreti - si potrebbe scegliere una espressione più specifica, come «comprendere», o anche «afferrare», che ancora conservano traccia dell'originario valore di percezione mentale, capace di vedere in profondità e più lontano, nel tempo e nello spazio (su questo punto Mourelatos, pp. 68 ss.). Vero è che nei frammenti ci si riferisce a νόος (πλακτὸν νόον, B6.6) anche per designare una intelligenza offuscata, confusa: ciò potrebbe indicare che Parmenide non si senta vincolato a un uso di νοεῖν e derivati nel loro significato cognitivo più forte, che, a nostro giudizio, rimane, tuttavia, l'unico a giustificare l'alternativa che la Dea qui propone. Recentemente Palmer (op. cit., pp. 69 ss.), nel tentativo di mediare tra una resa generica e una più specifica, ha proposto understanding ovvero achieving understanding. Tonelli, invece, rende direttamente come «intuire», per la continuità tra il verbo greco e l'intueor latino, che implica un vedere che «attraversa e penetra l'oggetto di conoscenza [...] facendosi tutt'uno con esso» (p. 118). 10 L’indicazione delle «uniche vie» è introdotta (v. 3 e v. 5) dalla formula ἡ μὲν - ἡ δέ: si tratta di una alternativa ulteriormente delineata con coerente corrispondenza anche nella costruzione sintattica. 11 Consideriamo in questo contesto ὅπως e il successivo ὡς congiunzioni che introducono una dichiarativa (retta da un sottinteso: «per pensare» ovvero «che pensa», «che dice»). In questo senso, suggeriamo la possibilità di 109 di Persuasione15 è il percorso16 (a Verità17 infatti si accompagna) – leggere il verso come: «l’una: è e non è possibile non essere» (analogamente il v. 5: «l’altra: non è ed è necessario non essere»). L’uso di ὅπως e ὡς per introdurre le due vie sarebbe – secondo Chiara Robbiano (op. cit., p. 82) - illuminante: esso suggerisce che esse sono due modi di guardare alle cose, due prospettive: ὡς sarebbe, infatti, preferito a ὅτι quando si voglia accentuare una affermazione come opinione, ovvero introdurre qualcosa intorno a cui esistano opinioni differenti. Per la studiosa italiana (p. 83), insomma, ὅπως\ὡς, con le loro implicazioni avverbiali, servirebbero a esprimere uno stato di cose da una certa prospettiva, manifestando dunque il proprio punto di vista. Analogamente Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 40), il quale rende in entrambi i casi con «secondo cui». 12 La terza persona singolare – ἔστιν - del presente di εἶναι, «essere», è qui resa letteralmente, senza decidere del suo valore (esistenziale, copulativo, veritativo), per conservarle tutte le sfumature. Tra i traduttori moderni, Tarán sceglie di renderla con «exists», Conche con «il y a», per sottolineare l’idea di presenza. In coerenza con il testo greco, non attribuiamo un soggetto al verbo, lasciandolo sottinteso: si rinvia al commento per un chiarimento. Coxon ricorda che l’omissione del pronome indefinito come soggetto sia ampiamente diffusa nell’epica e nel greco posteriore (p. 175). 13 Letteralmente ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι si potrebbe rendere come «che non [c’]è/esiste non essere», ovvero, sostantivando il μὴ εἶναι finale, «che il non-essere non è», cui corrisponderebbe, simmetricamente ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι: «che, come necessario, il non essere è». Ma, proprio considerando l’emistichio 5b (dove la traduzione «è necessario che… appare più naturale), optiamo per attribuire a ἔστι valore potenziale e considerare μὴ εἶναι come infinitiva: «che non è possibile non essere» (più ambigua), ovvero «che non è possibile che non sia». Si tratta, in ogni caso, di un passaggio controverso, anche per le sue implicazioni logiche, per le quali è molto lucida l’analisi di Leszl (pp. 131 ss.). 14 La nostra traduzione è vicina a quella di Heitsch: «Der eine, (der da laPomba) “es ist, und Sein ist notwendig”». Frère (J. Frère, Parménide ou le Souci du Vrai. Ontologie, Théologie, Cosmologie, Kimé, Paris 2012) rende: «Le premier chemin énonçant: est, et aussi: il n’est pas possible de ne pas être». 15 Come divinità, Persuasione è nella cultura arcaica (Pindaro) collegata ad Afrodite, alla dea dell'Amore, in quanto esercita fascinazione e seduzione. È dunque originale e significativa la connessione stabilita da Parmenide, in apertura della comunicazione divina, tra Πειθώ e Ἀληθείη: nel suo caso i legami persuasivi saranno il risultato del rigore e della coerenza logica 110 [5] l’altra: [che] non è e [che] è necessario18 non essere19. Proprio20 questa ti dichiaro21 essere sentiero22 del tutto privo di informazioni23: impliciti nella affermazione appena introdotta:«è e non è possibile non essere». 16 Il termine κέλευθος viene da Coxon distinto da ὁδός come il «viaggio» lungo la «via», contribuendo in questo modo a determinare successivamente (Platone) la nozione di μέθοδος, e di filosofia appunto come viaggio (p. 174). 17 Abbiamo già segnalato in nota a B1, come nel poema ἀληθής (e ἐτήτυμος) significhino «reale» e ἀληθείη «realtà». Heitsch (p. 97) argomenta a favore di una resa più esplicita, che ricava dai contraddittori caratteri negativi di μὴ ἐὸν (verso 7): egli traduce, infatti, con «evidenza» (Evidenz). Palmer ricorre a una formula inequivocabile: «true reality». Pur concordando che la Dea si riferisce alla realtà, insistiamo nel tradurre con il nostro «verità» e con la maiuscola, intendendo Verità come entità divina. In ogni modo, come nel linguaggio omerico, anche in Parmenide il contrario di ἀληθείη non sarà il falso, indicato da ψεῦδος o ψεύδεσθαι, ma l'assenza di ἀληθείη, la mancata manifestazione della realtà (su questo Germani, op. cit., pp. 183-4). 18 Colleghiamo, come appare naturale, l’espressione greca χρεών al verbo ἔστι, traducendo con «è necessario», conservando il valore modale. Come segnala Leszl (p. 136), χρεών può stare da solo, inteso come un participio (χρή ἐόν), che, preceduto da ὡς, assume valore avverbiale: ὡς χρεών potrebbe essere dunque inciso avverbiale in una frase il cui significato complessivo non sarebbe modale («come conveniente»). Il termine è usato nella cultura greca arcaica (e non) in espressioni come κατὰ τὸ χρεών (Anassimandro DK 12B1: «that which must be» secondo LSJ), ma per lo più nell'espressione χρεών [ἐστι] con il significato di χρή («è necessario»). 19 Considerato μὴ εἶναι come infinito sostantivato e interpretato ὡς χρεών avverbialmente, la traduzione del secondo emistichio potrebbe essere: «e, come conveniente, il non-essere è». Si tratta di una possibilità, che suona tuttavia piuttosto improbabile. Così come la traduzione proposta da Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 137-8): «l'una (via) secondo cui è lecito e non è possibile che non sia lecito... l'altra secondo cui non è lecito ed è necessario che non sia lecito». Coerentemente con la scelta del v. 3, Heitsch traduce: «Der andere, (der da laPomba) “es ist nicht, und Nicht-Sein ist notwendig”»; Frère (J. Frère, Parménide ou le Souci du Vrai…, cit.) rende: «L’autre chemin énonçant: n’est pas, et aussi: il est nécessaire de ne pas être». 20 Traduciamo avverbialmente la particella δή, che molti decidono di non rendere ovvero di rendere come congiunzione («e») per marcare una 111 poiché non potresti conoscere ciò che non è24 (non è infatti cosa fattibile25), né potresti indicarlo26. transizione nel discorso della Dea. In effetti, δή è frequentemente posposto a un pronome (nel nostro contesto τὴν con funzione pronominale), con il risultato di accentuare il rilievo nella frase. 21 Coxon osserva che il verbo φράζω, che in epica significa «indicare, evidenziare», è usato da Parmenide con oggetto diretto o accusativo e infinito nel senso (poi regolare) di «spiegare» (p. 177). 22 Il termine ἀταρπός è contrapposto a ὁδός e κέλευθος, impiegati in B1 (vv. 2 e 11) e qui ai vv. 2 e 4: mentre in B1.21 eravamo informati del fatto che il poeta viaggiava κατ΄ ἀμαξιτὸν «lungo la via maestra», in questo passaggio, accennando alla seconda via, Parmenide ricorre a un’espressione che veicola l'idea di sentiero, tracciato secondario, scorciatoia. 23 L’aggettivo παναπευθής può indicare – attribuendogli senso passivo - ciò che è del tutto ignoto, ovvero, in senso attivo, appunto «ciò che è del tutto privo di informazioni», ovvero «imperscrutabile» (Tonelli p. 119), come la via che pensa che «non è». Si tratta, nell'economia del discorso divino (e del poema), di un punto essenziale: la seconda via delineata non è proposta come «falsa», non è scartata come follia (non è prodotto di un πλακτὸς νόος, come si sottolinea in B6.6 a proposito della presunta ὁδος διζήσιός «inventata» da coloro che sono apostrofati come βροτοὶ εἰδότες οὐδέν); di essa si afferma che è sentiero lungo il quale non si possono raccogliere informazioni, che non può manifestare la realtà, come chiarisce immediatamente il verso successivo. 24 L’espressione τό μὴ ἐὸν si potrebbe rendere anche come «il non essere». Secondo Coxon (p. 177) essa si riferisce al soggetto della seconda via, di «non è», come manifestato in B6.2 dall’uso del pronome indefinito μηδέν (nulla). In effetti l'espressione τό μὴ ἐὸν è introdotta a giustificazione della dichiarazione del verso precedente, dunque per identificare il presunto contenuto della seconda via, necessariamente priva di informazioni. 25 L’aggettivo verbale ἀνυστόν è attestato in Simplicio: con la precedente negazione (οὐ), il valore – da ἀνύω («fare, compiere») - è quello di cosa che non è possibile compiere. Nel suo commento (p. 220), Ruggiu sottolinea come il valore di οὐ ἀνυστόν sia prossimo a quello del termine ἀμηχανίη: esprime una impossibilità che scaturisce da ontologica impotenza. Mourelatos (p. 100) insiste sull'idea di impraticabilità che οὐ ἀνυστόν porta con sé: «that which cannot be consummated». 26 La traduzione di φράζω con «indicare» vuol rendere il senso di «manifestare in segni» (anche a parole): ciò che non è non può rendersi (e essere reso) manifesto attraverso tracce, come saranno i σήματα dell’ἐόν in B8. 112 Mourelatos (p. 76) segnala che φράζω è impiegato nell’Odissea all’interno del motivo del viaggio, in riferimento al gesto di una guida che mostri a un viaggiatore il luogo o il percorso della sua destinazione. Si potrebbe rendere οὔτε φράσαις, restringendo il campo semantico del verbo, con «né potresti parlarne». 113 DK B3... τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν1 τε καὶ εἶναι. [Clemente Alessandrino, Stromata VI, 2.23 (II, 440); Plotino, Enneadi V, 1.8; V, 9.5; Proclo, In Plat. Parm. 1152, Theologia platonica I, 66 (ed. Saffrey, Westerink)] 1 Il codice di Clemente riporta ἐστί; il testo di Plotino, in due luoghi diversi, ἐστί e ἔστι. ἐστίν è correzione degli editori. 114 La stessa cosa, infatti, è1 pensare2 ed essere3. 1 Zeller, seguito da Burnet, Cornford, Raven e altri, rende i due infiniti come dipendenti da ἔστιν (non ἐστίν) con valore potenziale (analogamente a B2.3: εἰσι νοῆσαι), quindi con «denn dasselbe kann gedacht werden und sein». Tarán, che accetta il suggerimento di Zeller, rende con «for the same thing can be thought and can exist». Anche per O’Brien (pp. 19-20) i due infiniti sono complementi del pronome (τὸ αὐτὸ) o dell’unità sintattica pronomeverbo. Quest’uso completivo dell’infinito (νοεῖν) ammetterebbe che lo si traduca come un passivo o equivalente: «C'est en effet une seule et même chose que l'on pense et qui est» («For there is the same thing for being thought and for being»). Il fatto che, optando per questa soluzione interpretativa, il soggetto di uno dei due infiniti (εἶναι) diventi oggetto dell’altro (νοεῖν), non rappresenterebbe un problema, essendo già attestato nei poemi omerici. È un fatto, comunque, come osserva Conche (op. cit., p. 89), che Parmenide ha scritto νοεῖν e non νοεῖσθαι. D’altra parte, seguendo Plotino, la resa «più fedele» (Heitsch, p. 144), il senso «ovvio» del greco (Conche, p. 89) sarebbe «pensare ed essere sono la stessa cosa», con τὸ αὐτὸ predicato, νοεῖν e εἶναι soggetti della frase. Un’alternativa sensata, che tiene conto di analoghe costruzioni nei frammenti sopravvissuti e soprattutto del senso dei vv. 34-36a di B8: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. [35] οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν è quella di Coxon («for the same thing is for conceiving as is for being»), variata nella recente resa di Palmer (op. cit., p. 122): «for the same thing is (there) for understanding and for being». 2 Secondo Cerri (p. 194), qui per la prima volta νοεῖν assumerebbe il significato specifico di «capire razionalmente», significato che, tuttavia, non si può regolarmente attribuire a νοεῖν (e νόος) nei frammenti. In una sua classica ricerca filologica, von Fritz (K. von Fritz, “Νοῦς, νοεῖν and Their Derivatives in Presocratic Philosophy (Excluding Anaxagoras). I: From the Beginnings to Parmenides”, «Classical Philology» 40, 1945, pp. 223-242) osserva come νοεῖν in Omero significhi «comprendere una situazione» e come questo valore sia ancora presente nel poema di Parmenide, indicando qualcosa di diverso da un processo di deduzione logica: sarebbe ancora sua funzione primaria essere in contatto con la realtà ultima (p. 237). Abbiamo sopra ricordato come Tonelli renda νοεῖν come «intuire», cogliendo la continuità tra il verbo greco e l'intueor latino, nella percezione che 115 «attraversa e penetra l'oggetto di conoscenza [...] facendosi tutt'uno con esso» (p. 118). 3 Gallop (p. 8) e Heitsch (p. 144) osservano che, sebbene la continuità di B3 con B2 sia incerta, metricamente B3 costituirebbe con B2.8 una perfetta linea di testo. Calogero (op. cit., pp. 22-23) aveva in effetti già proposto di leggere B3 come prosecuzione di B2, integrando il testo tràdito in questo modo: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· [B2.7-8] τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι < ὅσσα νοεῖς φάσθαι >, Ché quel che non è non lo puoi né pensare né dire: pensare infatti è lo stesso che dire che è quel che pensi!. 116 DK B4 λεῦσσε δ΄ ὅμως1 ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει2 τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον. [vv. 1-4 Clemente Alessandrino, Stromata V, 2 (II, 335); v. 1 Proclo, In Platonis Parmenidem 1152; Teodoreto, Graecarum Affectionum Curatio I, 72 (22); v. 2 Damascio, Dubitationes et Solutiones de Primis Principiis in Platonis Parmenidem I, 67] La proposta e l'integrazione sono state poi ancora rilanciate da Giannantoni. 1 Due codici di Teodoreto con la citazione di Clemente riportano ὁμῶς («ugualmente») in vece di ὅμως. Tra gli editori moderni solo Hölscher e Untersteiner preferiscono quella lezione. 2 I manoscritti di Clemente riportano ἀποτμήξει, quelli di Damascio ἀποτμήσει: ἀποτμήξει sarebbe effetto di una atticizzazione del testo parmenideo, probabilmente antica (come evidenziato dall'unanimità dei manoscritti). Secondo Passa (pp. 34-5), come avevano colto gli editori ottocenteschi che correggevano ἀποτμήξει in ἀποτμήξεις, la forma verbale corretta sarebbe quella della seconda persona singolare del futuro medio (ἀποτμήξῃ) nella probabile trascrizione di un esemplare attico. 117 Considera1 come cose assenti 2 siano comunque3 al pensiero4 saldamente5 presenti6; 1 Il verbo λεῦσσω è già impiegato da Omero (Couloubaritsis, pp. 336-7) per indicare la capacità di considerare simultaneamente passato e avvenire per comprendere il presente: capacità associata alla maturità dell’anziano, al suo discernimento, contrapposto alla precipitazione dei giovani. Molti traduttori optano per una resa che ne accentui il valore percettivo: «osserva», «guarda». Etimologicamente, d’altra parte, il verbo deriva dall’aggettivo λευκός, che nel linguaggio omerico significa «chiaro», «limpido»: porta con sé, dunque, l’idea di chiarezza, luminosità, trasparenza, come nell’italiano «chiarire», «rischiarare». 2 Ovvero «cose lontane». Il verbo ἄπειμι, come il successivo πάρειμι, ha un valore a un tempo materiale e mentale, indicando la distanza (πάρειμι la vicinanza) nel tempo e nello spazio. Manteniamo in traduzione un senso indefinito. 3 Traduciamo così la congiunzione ὅμως: nelle varie versioni, il suo valore oscilla tra l’avversativo e il concessivo, secondo i contesti. Dal momento che è possibile legare il termine sia al verbo iniziale, sia a ἀπεόντα, Ruggiu (p. 238) suggerisce che la collocazione sia intenzionalmente polisignificante, secondo lo stile attestato anche in Eraclito. 4 A chi debba essere immediatamente riferito il dativo νόῳ è oggetto di discussione: è possibile infatti accostarlo direttamente a lεῦσσε, nel senso di «chiarisci con intelligenza\intendimento», ovvero lasciarlo legato a παρεόντα, sottolineando come il nesso ἀπεόντα-παρεόντα dipenda dalla visione dell’intelligenza: l’espressione νόῳ παρεῖναι avrebbe appunto il valore di «essere presente alla mente, allo spirito». 5 L’avverbio βεϐαίως (saldamente) può essere collegato direttamente al verbo, come suggerisce Coxon (p. 188): «gaze steadily with your mind…». Lo studioso giustifica la proposta per il parallelo con il verso di Empedocle DK 31 B17.30: τὴν σὺ νόωι δέρκευ, μηδ’ ὄμμασιν ἧσο τεθηπώς Guardala con intelligenza, non restare con sguardo esterefatto. La collocazione dell’avverbio fa pensare tuttavia a un rapporto stretto con παρεόντα, di cui esprimerebbe il modo d’essere, la solidità, la permanenza. L’avverbio veicola infatti l’idea di stabilità, ma anche quella di costanza e lealtà. Robbiano (op. cit., p. 130) rileva la connessione con ἀτρεμὲς ἦτορ 118 non impedirai7, infatti, che l’essere8 sia connesso all’essere, (B1.29): βεϐαίως esprimerebbe l’attitudine dell’uomo che ricerca sulla via della verità; un modo di guardare, ma anche un modo d’essere. 6 Ovvero «prossime». Sulla struttura del verso (lεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως) ha richiamato di recente l’attenzione Graham (Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton University Press, Princeton and Oxford 2006, p. 151), il quale ne ha rilevato la struttura a chiasmo, che ricorderebbe quella di alcuni frammenti eraclitei, per esempio DK 22 B25: μόροι γὰρ μέζονες μέζονας μοίρας λαγχάνουσι destini di morte più grandi ottengono sorti più grandi. 7 La forma verbale ἀποτμήξει può essere terza persona singolare del futuro indicativo attivo (così intendono per lo più gli editori moderni, sottintendendo νόος come soggetto), ovvero, considerando la probabile atticizzazione del testo parmenideo, come forma (attica appunto) della seconda persona singolare dell’indicativo futuro medio: «tu non impedirai…». Secondo Passa (pp. 34-5) sarebbe questa, in coerenza con analoghe espressioni del poema (εἶργε, «allontana» B7.2b; μάνθανε, «impara» B8.52; εὑρήσεις, «troverai» B8.36), l'interpretazione corretta del passo. 8 Traduciamo il participio ἐόν preceduto dall’articolo (τὸ ἐόν) come «l’essere», senza articolo come «ciò che è»: per noi si tratta di espressioni sinonime, ma la formula con articolo è più astratta. Come nota Cordero (By Being, It is, cit., p. 169), Parmenide molto raramente usa l’articolo τò davanti al participio ἐόν; in effetti participio senza articolo cattura più precisamente il carattere dinamico della presenza denotata da ἐστί: «essendo, è». Il problema della traduzione del termine è comunque complesso: Heidegger (M. Heidegger, Was heisst Denken, Niemeyer, Tübingen 1954, p. 133) richiamò l’attenzione sul duplice valore di questo participio: nominale (ciò che è) e verbale (l’Essere di ciò che è), per sostenere la tesi che già con Parmenide la filosofia sarebbe scivolata nell’oblio dell’Essere, non riuscendo a mantenere distinti i due valori, confondendo quindi Essere e enti. Di recente Thanassas (pp. 44-5) ha insistito sul fatto che Parmenide avrebbe impiegato ἐόν esclusivamente in senso verbale, come equivalente semantico di ἐστί. Il rischio di intendere il participio nel valore nominale sarebbe quello di riconoscerne implicitamente l’esistenza come unico ente, negando dunque la pluralità del mondo. Il che sarebbe contraddetto dall’uso frequente di plurali (ἐόντα) nella sezione sulla Ἀληθείη (B4.1-2, B8.25, B8.47-8). L’identità semantica e la sinonimia tra ἐόν e ἐστί sarebbe inoltre 119 né disperdendosi9 completamente10 in ogni direzione per il cosmo11, né concentrandosi. confermata da Parmenide nel poema stesso (B6.1-2). Thanassas sostiene che ἐόν possa identificarsi estensionalmente con la totalità degli enti che appaiono; intensionalmente (dal punto di vista del suo contenuto concettuale), invece, ἐόν sembrerebbe distinto da essa: il suo significato verbale, insomma, non si limiterebbe ad abbracciare la totalità degli enti, ma farebbe del loro Essere il proprio obiettivo. 9 Il participio σκιδνάμενον, come il successivo συνιστάμενον, si riferisce a τὸ ἐόν. 10 La funzione dell’avverbio πάντως (interamente, completamente) sarebbe, in congiunzione con l’altro avverbio πάντῃ (dappertutto, ovunque), quella di intensificarne valore spaziale. 11 L’espressione κατὰ κόσμον appare come uno dei più antichi passi presocratici in cui il termine κόσμος assume il valore di «ordinamento del mondo», «cosmo» (Cerri, p. 199). Tarán, tuttavia, contesta che la nostra espressione possa tradursi (così come abbiamo fatto) con un complemento di moto «nel mondo» (o «per il mondo»), preferendo renderla letteralmente come «in order», con il significato, dunque, di conformità a un ordine. Analogamente la Stemich (p. 190) sottolinea come dalla Dea il kouros sia chiamato a non alterare l’essere «secondo l’ordine delle cose», attribuendo quindi alla formula valore normativo. Coxon sottolinea il precedente omerico, traducendo «in regular order». Noi preferiamo attribuirgli il valore cosmico, considerando κατὰ κόσμον insieme alla forma avverbiale precedente (πάντῃ πάντως). 120 DK B5 ξυνὸν δέ μοί ἐστιν, ὁππόθεν1 ἄρξωμαι· τόθι γὰρ πάλιν ἵξομαι αὖθις. [Proclo, In Platonis Parmenidem 708] 1 La forma ὁππόθεν è correzione degli editori: i codici di Proclo riportano ὅπποθεν. 121 Indifferente1 è per me da dove cominci, dal momento che là, ancora una volta, farò ritorno. 1 Bicknell (“Parmenides, DK 28 B5”, «Apeiron», 13, 1979, pp. 9-11) ha proposto di tradurre ξυνὸν come «a basic point»: «It is a basic point from which I shall begin: I shall come back to it repeatedly». Collocando il frammento subito prima di B2, il senso complessivo effettivamente è assicurato e, come è stato notato (Gallop, p. 37), suggestivo. Difficile però avere un riscontro della traduzione proposta per ξυνὸν. 122 DK B6 χρὴ τὸ λέγειν τò1 νοεῖν τ΄ ἐὸν 2 ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν· τά σ΄ ἐγὼ 3 φράζεσθαι ἄνωγα. πρώτης γάρ σ΄4 ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος †... † 5, 1 I codici di Simplicio riportano unanimente τό; nel 1835 Karsten congetturò invece τε νοεῖν, ripreso poi da Diels. Il testo corretto, dopo la riscoperta a opera di Tarán e la ripresa da parte di Cordero, è tuttavia accolto solo da una minoranza di editori contemporanei. 2 I codici D e E di Simplicio riportano τὸ ὂν, il codice F τεὸν: τ΄ ἐὸν è correzione degli editori. 3 Il testo greco in DK è τά σ΄ ἐγὼ, secondo la lezione di Bergk. Cordero (pp. 101-2) preferisce la versione del codice D di Simplicio (considerato il più affidabile dallo stesso Diels 1897): τά γ΄ ἐγὼ. Il codice E riporta: τοῦ ἐγὼ; il codice F: τά γε. 4 Il codice D di Simplicio riporta σ΄ (così come E e F); B e C, invece, τ΄. 5 La tradizione manoscritta presenta a questo punto una lacuna: la proposizione manca del verbo. Congettura Diels, tradizionalmente accettata: εἴργω («tengo lontano», «distolgo»), sulla scorta di B7.2 (ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα - «ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero»). Congettura Mourelatos: εἷργον («tenevo lontano»), in riferimento al rifiuto della seconda via di B2. Congettura Cordero: ἂρξει («comincerai»). Congettura Nehamas: ἂρξω («comincerò»), ripresa di recente anche da Patricia Curd, che la preferisce alla precedente in quanto mantiene il baricentro del discorso sulla divinità, coerentemente con gli altri versi del poema. La Curd insiste in particolare sul parallelismo con i versi B8.50-52: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo punto pongo termine al discorso affidabile e al pensiero intorno alla Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, ascoltando l’ordine delle mie parole che può ingannare. L’espressione «pongo termine» corrisponderebbe a «comincerò per te» appunto di B6.3, così come «da questo momento in poi» a «da questa via di ricerca». A più riprese (cominciando da B1.28-30) la dea sarebbe ritornata sulla 123 αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν [5] < πλάσσονται > 6, δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν 7 νόον· οἱ δὲ φοροῦνται κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος. [vv. 1-2a Simplicio, In Aristotelis Physicam 86; vv. 1b-9 Simplicio, In Aristotelis Physicam 117; vv. 8-9a Simplicio, In Aristotelis Physicam 78] propria strategia, enunciando i suoi principi fondamentali (B2), ribadendoli (B6.3-4) e ricontestualizzando la propria esposizione in B8.50-52 (Curd, The Legacy of Parmenides, cit., p. 58). Tarán, che pur accetta la congettura Diels, suppone una lacuna successiva, tra i versi 3 e 4. 6 La tradizione manoscritta di Simplicio riporta πλάττονται, dichiarato corrotto in apparato da Kranz. In effetti πλάττονται sarebbe, secondo Cordero e Cerri (p. 210), atticizzazione (intervenuta nella tradizione manoscritta stessa) di πλάσσονται, da πλάσσομαι («mi invento»). Dello stesso avviso O'Brien e Gemelli Marciano (II, p. 82). Coxon (p. 183) sostiene la derivazione (per corruzione) da πλάζονται («vagano»). Diels fa della espressione una corrutela medievale di πλάσσονται, variante dialettale di πλάζονται, utilizzato nel poema (e in altri autori) per indicare sbandamento intellettuale, errore. Una recente messa a punto della questione testuale si trova in Passa (pp. 104 ss.), il quale ha con acribia sostenuto, su basi parzialmente diverse, la soluzione dielsiana con precoce corruzione di πλάσσονται in πλάττονται. Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 47 nota) ha contestato tale ricostruzione, preferendo tornare alla vecchia correzione πλάζονται, coerente con πλακτὸν νόον e φοροῦνται (v. 6). Accogliamo la correzione πλάσσονται, pur considerando l'emendazione πλάζονται, come sinteticamente insegna Ferrari, una valida alternativa. 7 I codici DE di Simplicio riproducono πλακτὸν, il codice F πλαγκτὸν, forma preferita da diversi editori (Coxon, O'Brien, Conche, Cerri, Gemelli Marciano, Palmer). 124 Dire e pensare1: «ciò che è è2 », è necessario3; essere4 è infatti possibile, 1 Accogliendo la restituzione del testo originale di Simplicio proposta da Cordero (su indicazione di Tarán), abbiamo qui due infiniti (λέγειν, νοεῖν) introdotti da τό, da intendere: (i) come articolo determinativo (sarebbe allora più corretto rendere con «il [fatto di] dire e il [fatto di] pensare»), ovvero (ii) come pronome dimostrativo («dire questo e pensare questo»). Nella nostra traduzione abbiamo seguito la prima soluzione: i due infiniti articolari costituiscono soggetto congiunto del quasi impersonale χρή, come suggerisce Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., p. 111; ma si devono registrare le riserve di Cassin, p. 146). Costruzioni alternative: (a) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui λέγειν e νοεῖν sono soggetti; τό è il loro articolo e ἐόν il loro complemento oggetto («è necessario che dire e pensare ciò che è sia»): così, per esempio, Fränkel e Untersteiner. Una variante interessante è quella sostenuta da Tarán e Cordero (Les deux chemins de Parménide, Vrin, Paris 1984, pp. 111-2): essi suppongono la costruzione χρὴ εἶναι (ἔμμεναι) τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν («è necessario dire e pensare ciò che è». Cordero, tuttavia, nella revisione (2004) della sua opera, traduce diversamente: «It is necessary to say and to think that by being, it is». (b) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui λέγειν e νοεῖν sono soggetti; τό è articolo e ἐόν nome del predicato di ἔμμεναι («dire e pensare è necessario che siano un essere»): così, per esempio, Diels (1897), Heidel, Verdenius. Coxon (pp. 181-2) sostiene l'uso predicativo di ἐόν, supportandolo con paralleli (ἐὸν εἶναι) in autori influenzati da Parmenide (Gorgia, Leucippo, Platone, Aristotele). La sua traduzione (che accoglie il testo emendato da Karsten) è, di conseguenza: «it is necessary to assert and conceive that this is Being». Soggetto della proposizione sarebbe τό, pronome (che Coxon riferisce a τὸ αὐτὸ di B3). (c) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui τό...ἐόν è soggetto, da cui dipendono λέγειν e νοεῖν («ciò che è da dire e pensare è necessario che sia»): così, tra gli altri, Burnet e Raven. 2 Traduciamo ἔμμεναι con «essere», per mantenere l'ambiguità che a nostro avviso caratterizza il testo, attribuendogli tuttavia valore decisamente esistenziale. 3 L’impersonale χρή è formula di necessità ma anche di opportunità: il valore del vincolo implicato può variare in intensità, dal necessario, al corretto, all’opportuno. Ha insistito su questo punto Patricia Curd (1998, p. 53), 125 il nulla5, invece, non è6. Queste cose7 io ti esorto a considerare8. riducendo così l’impianto modale dei primi due versi del frammento. Ma il nesso con B2 suggerisce la forma di necessità. 4 Nel caso di B6.1b, l'impegno per l'interprete è doppio. Si ripresenta infatti il problema di traduzione di ἔστι e si aggiunge quello della traduzione dell’infinito εἶναι in questo contesto: si tratta di due problemi correlati. Se, come scelgono di fare alcuni traduttori, si considera εἶναι come infinito sostantivato, soggetto di ἔστι, avremmo: «l'"essere" esiste» (Cerri); «infatti l'essere è» (Reale), «denn Sein ist» (Kranz), «for there is Being» (Tarán). Analogamente intende la Germani (op. cit., p. 191). Questa lettura potrebbe essere avvalorata dal fatto che due codici (BC) di Simplicio riportano τò εἶναι (Cordero, Les deux chemins de Parménide, cit., p. 24). Nel caso si accolga tale soluzione, in 6.1b-6.2a avremmo la piena esplicitazione dei soggetti delle vie di B2.3 e B2.5: rispettivamente εἶναι e μηδὲν. Per certi versi questa traduzione appare naturale, sebbene non risulti del tutto perspicuo l'uso di γὰρ, a meno di privarlo del suo valore esplicativo per riconoscergli una funzione confermativa. Se, invece, si intende εἶναι come infinito retto da ἔστι, allora è naturale attribuire a questo valore di possibilità (che sembrerebbe dare un senso alla particella γάρ). Alcuni sottintendono ἐὸν come soggetto, traducendo: «solo esso infatti è possibile che sia» (Pasquinelli); «For it is for being» (Coxon); «è possibile, infatti, che sia» (Giannantoni); «perché può essere» (Tonelli, Ferrari). Altri, come O'Brien e Cordero, optano per una formula impersonale: «car il est possible d'être»; «for it is possibile to be». 5 Secondo Coxon (p. 182) μηδέν conserverebbe in questo caso il suo significato più stretto, quello di «non una cosa». L’intera frase, dunque, asserirebbe che ciò che non ha essere, non è per niente una cosa. Kranz (in apparato) riteneva che μηδέν equivalesse a μὴ ἐόν (citando in questo senso B8.10: τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 46 nota) considera possibile un rimando al non-essere, intendendo la lezione (corrotta) del codice greco di Simplicio (Phys. 117) come μὴ δ’ ἐόν. 6 Anche in questo caso conserviamo l'ambiguità dell'«essere», intendendolo comunque in senso esistenziale: la necessità di affermare l’esistenza dell’essere sarebbe giustificata incrociando la possibilità dell’essere e l'inesistenza del nulla. Guthrie decide di attribuire al verbo essere nell’intera formula valore di possibilità: «for it is possible for it to be, but impossible for nothing to be». Analogamente Mansfeld: «denn dieses (sc. Das Seiende) kann sein, ein Nichts hingegen kann nicht sein». O’Brien (p. 27) è convinto che i due indicativi ἔστι e οὐκ ἔστιν abbiano valore potenziale, con l’infinito in funzione completiva, e suppone un secondo infinito per completare l’espressione negativa μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν: «il n’est pas possible 126 Per prima, infatti, da questa via di ricerca 9 ti 10, e poi da quella11 che appunto12 mortali che nulla sanno13 (οὐκ ἔστιν) que (εἶναι) ce qui n’est rien (μηδὲν)». L’alternativa, seguita da alcuni, è quella di rimanere fermi, in entrambi i casi, al valore esistenziale, affermando (Tarán): «for there is Being, but nothing is not». È possibile, tuttavia, attribuire senso potenziale a ἔστι e senso esistenziale alla negazione οὐκ ἔστιν, come fanno Cordero (2004) e, seguendo Colli, Tonelli, a dispetto delle obiezioni di O’Brien, che ritiene improbabile la soluzione. Per conservare il senso modale di B2.3, Palmer (p. 113) propone di considerare ἐόν unico soggetto sottinteso di B6.b-2a (ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν), e rendendo μηδέν con valore predicativo: «(What is) is to be, but nothing it is not». Letteralmente più aderente al greco la traduzione senza articolo: «nulla [ovvero niente] non è». 7 Il pronome τά (accusativo neutro plurale) difficilmente può essere riferito esclusivamente al contenuto dei vv. 1-2a: è invece probabile che esso alluda a quanto seguiva B2 precedendo immediatamente B6, cioè la esclusione della via «che non è e che è necessario non essere» come effettivo percorso di indagine. 8 La formula τά σ΄ ἐγὼ φράζεσθαι ἄνωγα è mutuata da Omero ed Esiodo: richiama l’attenzione sull’esclusione della via «che non è e che è necessario non essere». 9 Concordiamo con Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 49) nel considerare questo riferimento alla «prima via di ricerca» (πρώτη ὁδός διζήσιος) vincolato alla discussione di cui B6.1-2a costituisce la conclusione, e che doveva vertere sul non-essere. Si tratta della discussione cui allude Simplicio nel contesto della citazione di B8.1-52: ἔχει δὲ οὑτωσὶ τὰ μετὰ τὴν τοῦ μὴ ὄντος ἀναίρεσιν Le cose stanno in questo modo dopo l'eliminazione del non essere. Per evitare confusione, alcuni traduttori hanno fatto ricorso a costruzioni meno ambigue: «this is the first way of inquiry from which I hold you back» (Kirk-Raven-Schofield); «Questa è la via di ricerca da cui ti distolgo per prima» (Cerri); «Questa è la prima via di ricerca da cui ti tengo lontano» (Tonelli). Come quella che proponiamo, si tratta di soluzioni interpretative, che indubbiamente forzano la resa più naturale. In ogni caso, per rimanere più aderenti alla costruzione greca, abbiamo considerato πρώτης in funzione predicativa. 10 Manteniamo, pur con prudenza, la congettura Diels. 127 [5], uomini a due teste14: impotenza15 davvero nei loro petti16 guida la mente errante17. Essi sono trascinati18, 11 Il compemento ἀπὸ τῆς riferisce il pronome a ὁδοῦ διζήσιος: questo porta Coxon a concludere che nel contesto Parmenide si riferisca a filosofi, ricercatori. 12 Normalmente si lascia cadere in traduzione δή, che pure, seguendo un pronome relativo, ne enfatizza la posizione nella frase. L'uso nel contesto potrebbe alludere alla discussione che precede B6. 13 L’espressione greca βροτοὶ εἰδότες οὐδέν riprende il tradizionale contrasto tra sapienza divina e ignoranza umana, riferendolo in particolare a una tipologia di errore che nasce dal fraintendimento della κρίσις di B2. La ἀκρισία delle «schiere scriteriate» (ἄκριτα φῦλα) manifesta la loro «impotenza» (ἀμηχανίη). Nell’epica e nella lirica l’espressione βροτοὶ εἰδότες οὐδέν ritorna frequentemente per caratterizzare il fatto che i mortali non conoscono la totalità del passato, né possono prevedere il futuro, ristretti alla limitatezza del loro presente (Ruggiu p. 259). Nello specifico, l’ignoranza dei mortali è implicitamente contrastata dalla conoscenza che Parmenide ha rivendicato per sé in B1.3 (εἰδότα φῶτα). 14 Il greco δίκρανοι si riferisce alla condizione di coloro che manifestano una sorta di schizofrenia e in questo senso hanno una testa (una mente) divisa in due: affermano a un tempo essere e non-essere, fingendo di poter incrociare due vie in realtà (verità) incompatibili. Robbiano (op. cit., pp. 104-5) segnala come nella lirica arcaica il tema della indecisione-confusione propria della condizione umana fosse espresso nel riferimento a un νόος diviso (Teognide) o a una sorta di doppia mente (Saffo). 15 Il sostantivo greco ἀμηχανίη segnala la mancanza di mezzi, di aiuti per risolvere una situazione di difficoltà: insomma, una condizione di impotenza. In Omero gli dei possiedono σοφία, un saper fare (abilità nella costruzione di oggetti) che garantisce loro una vita facile, mentre gli uomini, ignoranti, conducono una esistenza dura. In Esiodo è grazie a Prometeo che gli uomini hanno potuto strappare agli dei alcuni dei loro segreti, facendo fronte alla propria impotenza. 16 L’espressione ἐν αὐτῶν στήθεσιν rinvia a Omero, dove è marcato il nesso tra ἀμηχανίη e θυμός, la cui sede è appunto nel petto. Coxon (p. 184) assume che nel contesto ciò possa alludere a un ruolo di θυμός distinto da νόος, secondo il modello pitagorico ripreso nell’immagine iniziale del carro (e poi reso celebre nel mito del Fedro platonico). 17 L’espressione πλακτὸς νόος sottolinea lo sbandamento, l’erramento in primo luogo della «mente» (così traduciamo in questo caso νόος) e quindi del «pensiero»: la mente, invece di essere guida sicura, conduce fuori strada. 128 a un tempo sordi e ciechi19, sgomenti, schiere scriteriate20, per i quali esso21 è considerato22 essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti23 il percorso torna all'indietro24. 18 La forma verbale φοροῦνται rafforza il senso di sbandamento, deriva, cui conduce la mente dissennata dei «mortali che nulla sanno». 19 L’espressione greca κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί vuol marcare una condizione di disorientamento, a un tempo (ὁμῶς) di isolamento uditivo e visivo. Anche Eraclito utilizzava l’aggettivo kwfój denunciare la stoltezza manifestata dalle opinioni correnti. 20 Il greco ἄκριτα φῦλα sottolinea l’incapacità, da parte di un gruppo numeroso (φῦλόν indica razza, tribù, classe, genia), di giudicare, di discernere. Evidentemente la Dea intende marcare, per contrasto, la prospettiva di ricerca aperta in B2 con l'alternativa delle «vie di ricerca per pensare»: in questo caso, la «mente» erra, e i «mortali» non conoscono alcunché. Alcuni ritengono (tra gli altri anche Cerri, p. 212), che Parmenide si riferisca qui ai seguaci di Eraclito. 21 Traduciamo in questo modo il pronome τό, che, come aveva a suo tempo rilevato Burnet (seguito poi da Coxon e ora da Palmer), potrebbe fungere da articolo per sostantivare πέλειν, ma non οὐκ εἶναι. Nel contesto del frammento τό è da riferire a ἐόν del v. 1. Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, pp. 115-6), oltre a ricordare il frequente impiego da parte di Parmenide dell'articolo come dimostrativo (secondo l'uso arcaico), ha segnalato una costruzione analoga in B8.44b-45: τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ è necessario, infatti, che esso non sia in qualche misura di più, o in qualche misura di meno, da una parte o dall’altra, in cui τό rinvia a τὸ ἐόν del v. 37. 22 Il perfetto medio-passivo νενόμισται ha attirato l’attenzione di Jaeger (La teologia dei primi pensatori greci, cit., p. 170, n. 36), il quale lo riferisce non all’opinione di un uomo o di qualche individuo, ma alla malignità del νόμος dominante (costume, tradizione), alla opinio communis degli uomini. Leszl in questo senso osserva (p. 230) come il passivo di νομίζω abbia il significato di «è pratica corrente». Il ricorso a νομίζω, con la soggettività implicata, fungerebbe, secondo Coxon (p. 185), da contrasto ai positivi (e oggettivi) λέγειν e νοεῖν. 129 23 Il genitivo plurale πάντων può essere qui inteso come neutro, riferito dunque a «tutte le cose», ovvero come maschile, riferito quindi ai «mortali», come il precedente relativo οἷς, «per i quali». Coxon traduce: «and for all of whom»; analogamente O'Brien, Palmer, Gemelli Marciano, che abbiamo seguito. La Gemelli Marciano (II, p. 83) segnala la composizione ad anello, con cui nell'ultimo emistichio Parmenide riprenderebbe il v. 4. 24 Secondo Mourelatos (p. 100), il senso dell’aggettivo παλίντροπός sarebbe da vedere in connessione con οὐ γὰρ ἀνυστόν (B2.7), indicando l’infinita regressione della ricerca lungo la via dei mortali. Potremmo dire che la Dea in questo modo stigmatizzi la inconcludenza della presunta via di ricerca inventata dai mortali, e quindi il destino di erranza che colpisce chi pretenda di seguirla. Secondo coloro che propendono per una interpretazione del frammento in chiave anti-eraclitea, qui avremmo una eco di DK 22 B51: Οὐ ξυνίασι ὅκως διαφερόμενον ἑωυτῷ ὁμολογέει· παλίντροπος ἁρμονίη ὅκωσπερ τόξου καὶ λύρης non capiscono che ciò che è differente concorda con se stesso, armonia di contrari, come l’armonia dell’arco e della lira. Contro questa interpretazione, tra gli altri, di recente A. Nehamas (“Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, in Presocratic Philosophy, edited by V. Caston & D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, pp. 55-6), il quale sottolinea come il termine παλίντροπός si riferisca qui in realtà ai mutamenti sequenziali delle cose reali l'una nell'altra (come nella cosmologia milesia); in Eraclito, invece, esso sarebbe impiegato in riferimento a un equilibrio statico. 130 DK B7 οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ 1 εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος2 εἶργε νόημα· μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν, κρῖναι δὲ λόγῳ 3 πολύδηριν4 ἔλεγχον ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα. [vv. 1-2 Platone, Sofista, 237 a 8-9, 258 d 2-3; Simplicio, In Aristotelis Physicam 135, 143-144; v. 1 Aristotele, Metafisica 1089 a; vv. 2-6 Sesto Empirico, Adversus Mathematicos VII, 111; v. 2 Simplicio, In Aristotelis Physicam 78, 650; vv. 3-5 Diogene Laerzio IX, 22] 1 Alcuni codici di Aristotele (EJ) e Simplicio (DE) riportano τοῦτο δαμῇ, quelli di Platone τοῦτ’ οὐδαμῇ. Sono attestate anche le forme τούτου οὐδαμὴ (Simplicio F), τοῦτο μηδαμῇ (Simplicio D), τοῦτο δαῇς (Aristotele recc.). 2 I codici di Sesto e Simplicio riportano διζήσιος (nelle varianti dialettali διζήσεος, διζήσεως), quelli di Platone il participio διζήμενος. 3 Nonostante i codici di Sesto e Diogene Laerzio riportino la forma del dativo λόγῳ, Kingsley (P. Kingsley, Reality, The Golden Sufi Center, Inverness (CA) 2003, pp. 139-140), all'interno di una lunga discussione sul valore da attribuire al termine (prima di Platone), propone (seguito da Gemelli Marciano) di leggere, in alternativa, il genitivo λόγου. 4 Il testo di Diogene Laerzio riporta πολύδηριν, quello di Sesto πολύπειρον. 131 Mai, infatti1, questo2 sarà forzato3: che siano cose che non sono4. Ma tu da questa via di ricerca5 allontana il pensiero6; 1 Coxon (p. 190) osserva giustamente che la presenza di γὰρ presuppone un'asserzione da giustificare, per noi mancante: questo solleva dubbi sull'effettivo riferimento del successivo τοῦτο. 2 Cerri (p. 215) osserva l’uso apparentemente irregolare di τοῦτο in funzione prolettica (per la quale sarebbe stato naturale piuttosto τόδε): nel contesto il pronome sembra in realtà riferirsi anche a quanto precede (per noi perduto). 3 Seguiamo Tarán (e Diels) nel preferire questa resa a quelle suggerite da O’ Brien e Conche: «Jamais, en effet, cet énoncé ne sera dompté» («Mai, infatti, questo enunciato sarà domato») ovvero «Car jamais ceci ne sera mis sous le joug» («Poiché mai questo sarà posto sotto il giogo»). Secondo l’indicazione di Diels (Parmenides Lehrgedicht, p. 74), il senso dell’aoristo congiuntivo passivo di δαμάζω \ δάμνημι è da ricavare dalle citazioni platoniche del Teeteto (196b: viene usato ἀναγκάζειν) e del Sofista (241 d5- 7): Τὸν τοῦ πατρὸς Παρμενίδου λόγον ἀναγκαῖον ἡμῖν ἀμυνομένοις ἔσται βασανίζειν, καὶ βιάζεσθαι τό τε μὴ ὂν ὡς ἔστι κατά τι καὶ τὸ ὂν αὖ πάλιν ὡς οὐκ ἔστι πῃ. Ci troviamo di fronte alla necessità, per difenderci, di mettere alla prova il pensiero del padre, Parmenide, e di forzarlo [biázesqai] col dire che il non-essere «è», sotto un certo aspetto; e che, per converso, l’essere, in un certo senso, «non è» (traduzione M. Vitali, Bompiani, Milano 1992). A rafforzare questo valore, c’è anche il βιάσθω del v. 3. Interessante anche il suggerimento specifico di Liddell-Scott-Jones, di rendere il verbo in senso lato come «sarà provato», che Cerri (p. 215) difende, pur apprezzando l’interpretazione del passo offerta da O’Brien. Contro la scelta di Diels e LSJ argomenta tuttavia in modo convincente Coxon (p. 190). A suo tempo Calogero (Studi sull’eleatismo, cit., pp. 24-5, nota) aveva puntualmente contestato l'ipotesi τοῦτο δαμῇ, preferendole τοῦτο δαῇς (l'emistichio risultava così: «Non ti lasciar mai insegnare questo»). Alle osservazioni di Calogero si richiama oggi la Gemelli Marciano (II, p. 84). 4 Il non-essere è in questo caso espresso con il participio plurale μὴ ἐόντα, «cose che non sono». Secondo Tarán (p. 75), ciò si collegherebbe alla successiva polemica contro il dato dei sensi. 132 né abitudine7 alle molte esperienze8 su questa strada ti faccia violenza9, 5 Simplicio (Fisica 78, 2) sembra riferire l’espressione τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος - «questa via di ricerca» - alla seconda via: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα· εἰπὼν γὰρ [B6.1b-2] < ἐπάγει > [B6.3-9] μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] sostiene che la contraddizione non sia vera [cioè: le proposizioni contraddittorie non siano vere] a un tempo in quei versi in cui biasima coloro che mettono insieme gli opposti: dice infatti [citazione B6.1b-2a] e aggiunge [citazione B6.3-9]. (In Aristotelis Physicam 117, 2) Dopo aver biasimato infatti coloro che congiungono l'essere e il non-essere nell'intelligibile [citazione B6.8-9] e aver allontanato dalla via che ricerca il non-essere [citazione B7.2], soggiunge [citazione B8.1 ss.]. Secondo Simplicio, insomma, B7.2 alluderebbe alla «via che conduce al nonessere»; inoltre B7.1-2 seguirebbero B6.8-9, precedendo B8.1. Come fa osservare Tarán (p. 76), Simplicio sembra distinguere anche tra l’obiettivo polemico di B6 e quello di B7. 6 Il sostantivo νόημα è qui impiegato probabilmente nel significato – già omerico - di mente, intelligenza, organo del pensiero e della comprensione. I primi due versi del frammento sono citati da Platone e Simplicio: essi costituiscono un primo blocco testuale. Diogene cita isolatamente i vv. 3-5, secondo blocco. Sesto consente di cucire i due blocchi, citando i vv. 3-6 dopo il verso 2. nella sua citazione, tuttavia, non c’è posto per il verso 1. Non sorprenderà, dunque, che nella storia delle interpretazioni il frammento abbia subito vari smembramenti e montaggi. Noi scegliamo di conservare l’ordinamento che si può ricavare da Simplicio, l’ultimo autore che si ha fondato motivo di ritenere disponesse di una copia del poema (ancorché non esente da rielaborazioni linguistiche e contenutistiche). 7 Coxon (p. 191) legge ἔθος in contrapposizione a νόημα (abitudine versus analisi intellettuale): la prima forzerebbe, la seconda condurrebbe in modo persuasivo. 8 Dal momento che ἔθος si connoterebbe autonomamente in contrasto a νόημα, secondo Coxon (p. 191) πολύπειρον sarebbe da riferire a ὁδὸν: contribuirebbe a determinarne il valore rispetto a τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ del verso 133 a dirigere10 l’occhio che non vede, l’orecchio risonante11 [5] e la lingua12. Giudica13 invece con il ragionamento14 la prova15 polemica16 precedente. Cerri (p. 216) giudica tuttavia inaccettabile la proposta (anche) per ragioni metriche. Robbiano (p. 97) segue Coxon, insistendo sull’abitudine generata lungo la via di cui i mortali hanno molta esperienza. Anche Nehamas (op. cit., p. 59 nota 50) preferisce riferire πολύπειρον a ὁδὸν, ma suggerisce la possibilità che Parmenide intendesse riferirlo anche a ἔθος. Per quanto riguarda la traduzione, abbiamo optato per una resa che sottolinei nell’aggettivo il riferimento all’origine dalle molte esperienze; altri scelgono, invece, di marcare l’effetto implicito in esse, rendendo quindi con «molto esperta», «molto abile». 9 Il verbo βιάσθω si potrebbe rendere anche con «induca»: come informa Cerri (p. 217), esso ricorre frequentemente nella poesia tra fine VI secolo e inizi del V (Simonide, Pindaro, Bacchilide, Eschilo) nel senso di violenza esercitata dalla menzogna sulla verità. 10 Cerri (p. 217) osserva che νωμᾶν nel linguaggio epico significa «muovere, dirigere con abilità e destrezza». 11 Cerri (p. 217) rileva la natura ossimorica del verso: ἄσκοπον ὄμμα e ἠχήεσσαν ἀκουήν evocano le metafore eraclitee. Lo studioso giustamente le collega a B6.7, trovandosi però in difficoltà nell’interpretazione. In B6, infatti, esse sarebbero riferite agli eraclitei, qui, invece, recuperate (nella stessa prospettiva eraclitea) contro il sapere tradizionale. 12 Coxon (p. 192) sottolinea come l’epiteto ἠχήεσσαν qualifichi tanto ἀκουήν quanto γλῶσσαν: la lingua replicherebbe la confusione degli occhi e delle orecchie. La sua proposta è contestata, per ragioni semantiche (il significato dell’aggettivo - «risuonante» - mal si accorderebbe nel contesto con γλῶσσα), da Tarán (p. 77), il quale suggerisce invece di considerare ἄσκοπον riferito tanto a ὄμμα quanto a ἀκουήν e γλῶσσαν, con il valore avverbiale di «senza scopo», «a caso». Come riconosce lo stesso Tarán, tuttavia, la lettera del verso 4, con i due aggettivi immediatamente riferiti ai due sostantivi, rende più plausibile la solitudine di γλῶσσαν: il termine, in relazione a ἔθος πολύπειρον, indica il linguaggio ordinario. Heitsch (p. 161) suggerisce che, nel contesto, senza ulteriori predicazioni, γλῶσσα non sia da porre sullo stesso piano degli altri organi di senso: qui, dunque, il termine indicherebbe non l’organo del gusto ma l’organo del linguaggio, come riconosce anche Robbiano (pp. 97-98), insistendo sull’«organo che produce nomi che non sono in grado di riflettere la verità». 13 Kingsley (Reality, cit., p. 140) rende κρῖναι come «judge in favor of», nel senso di «scegli» (opzione adottata anche da Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 50); la Gemelli Marciano (II, p. 19) preferisce «entscheide dich für» («deciditi per»). 134 14 Secondo Cerri (p. 218), del termine λόγος – corradicale di λέγω (dire) e dunque originariamente sinonimo di μῦθος - qui sarebbe valorizzato l’aspetto semantico del ragionamento mentale (emergente anche in Eraclito), mentre nella seconda occorrenza nel poema (B8.50) l’aspetto semantico del discorso che verbalizza il ragionamento (λόγος è in tal caso complementare a νόημα). Tonelli (p. 126), insistendo sul parallelo con il contemporaneo Eraclito, mantiene una stretta connessione tra λόγος e νόος: λόγος non indicherebbe qui «il raziocinio ma la facoltà umana di cogliere il senso». A suo tempo Conche (p. 122) aveva sottolineato come, a differenza del νόος che può errare (B6.6), il λόγος non si allontani dalla verità, evidentemente intendendo con il termine la facoltà razionale. Ma di recente Kingsley (Reality, cit., pp. 129-50) ha lungamente argomentato che tale significazione è solo platonica e post-platonica, mentre in Parmenide λόγος avrebbe ancora il valore di «discorso» o «discussione»: in questo senso, egli preferisce (come segnalato in nota al testo greco) emendare il dativo in genitivo, facendone dunque una specificazione di ἔλεγχος. Contro la tendenza a contrapporre, in Parmenide, il λόγος all'esperienza, si esprime anche Cordero (By Being, It Is, cit., pp. 136-137), convinto che il significato base sia ancora quello di «discorso». A noi pare che la resa con «ragione» sia forzata, e che l'invito espresso dalla Dea sia quello di valutare discorsivamente, argomentativamente: il suggerimento di Cerri, insomma, evitando l'identificazione di una facoltà (la ragione appunto) e limitandosi a evocare un esercizio di controllo della discussione (λόγος, ἔλεγχος), pare prudente e funzionale. 15 Si tratta di una delle prime attestazioni del termine ἔλεγχος. Liddell-ScottJones, con esplicito riferimento al nostro testo, indica come significato «argument of disproof, refutation». Di recente, Chiara Robbiano (pp. 106- 107) – che legge B7 e B8 come costituissero un testo continuo - ha ricordato come ἔλεγχος debba riferirsi non solo alla contestazione già implicita nei versi precedenti, ma anche agli argomenti di B8, che hanno «la forma di un elenchos». In B8.1-49 la dea metterebbe alla prova varie strategie tradizionalmente ritenute in grado di condurre alla conoscenza. Interpretando correttamente il suo (della dea) logos, l’audience non solo sarebbe stata completamente persuasa dal non seguire la seconda via, ma avrebbe anche riconosciuto alcuni dei caratteri dell’Essere che concorrono all’obiettivo della prima via: la comprensione (insight) dell’Essere. 16 L’aggettivo πολύδηρις sarebbe, secondo Coxon (p. 192), di conio parmenideo, e si riferirebbe alla polemica contro la fisica ionica e pitagorica, poi ripresa da Zenone. In πολύδηρις – come osserva Conche (p. 123) - c’è l’idea di lotta, di combattimento (δῆρις): la forza della ragione opposta alla forza dell’abitudine. Liddell-Scott-Jones – con esplicito riferimento al nostro testo - rende con una espressione di senso passivo: «molto contestata». 135 da me enunciata17. Interessante l'analisi di Patricia Curd (The Legacy of Parmenides, cit., p. 104): «The elenchos (testing) is poludēris (rich in strife) because it must repeatedly fight against habit and experience; it is a battle to be won over and over». Efficace la resa di A. Nehamas (“Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, cit., p. 59), il quale traduce κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον come «giudica con la ragione l'argomento che molto contesta». 17 Mentre Diels e Calogero riferiscono la prova (che così sarebbe genericamente «annunciata») alla sezione sulla Doxa, Verdenius, Tarán e Mourelatos la intendono riferita ai passaggi precedenti (il participio va allora tradotto più opportunamente con «enunciata»), in cui la Dea ha introdotto le due vie e argomentato contro la presunta terza via. Si tratta della posizione prevalente tra gli interpreti, tenuto conto dell’uso del participio aoristo ῥηθέντα, che proietta il termine cui si riferisce (ἔλεγχος) verso un passato appena compiuto. Preferiamo lasciare sospeso il riferimento, tenendo conto anche del suggerimento di R.J. Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness", in Presocratic Philosophy, cit., p. 76) di tradurre in questo caso il participio aoristo come «when it has been spoken by me». 136 DK B8 vv. 1-49 μόνος1 δ΄ ἔτι2 μῦθος3 ὁδοῖο λείπεται ὡς ἔστιν· ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε4 καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον5 · 1 È possibile, sulla scorta della citazione di Sesto (Adversus Mathematicos VII, 111), che il verso iniziale di B8 costituisse il secondo emistichio (b) di B7.6a (ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα). Il testo dei codici di Sesto - μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο - è tuttavia improbabile in epica, dove si attenderebbe μοῦνος, forma (presente nei codici DE di Simplicio) che, in effetti, alcuni editori preferiscono; d'altra parte, rettificandola, l'intero verso non reggerebbe metricamente. Di recente Passa (p. 87) si è espresso per la continuità tra B7 e B8, ritenendo di dover accettare μόνος come forma autenticamente parmenidea. 2 In vece di δ΄ ἔτι, i codici DEF di Simplicio e LEV di Sesto riportano δέ τι; il codice C di Sesto δέ τοι. Il contesto, tuttavia, suggerisce l’adozione – largamente prevalente tra gli editori – dell'attuale versione. 3 Sesto in vece di μῦθος riporta θυμὸς. 4 L'emistichio οὖλον μουνογενές τε è lezione attestata in Simplicio (commento alla Fisica 120.23, 145.4, 30.2, 78.13, 87.21 e al De Caelo 557.18), Clemente e Teodoreto (che tuttavia non è considerato fonte indipendente), originariamente accolta anche da Diels e per lo più ripresa dagli editori contemporanei. Nella V edizione dei Vorsokratiker a cura di Kranz, tuttavia, essa fu sostituita dalla trascrizione dei codici di Plutarco (Contro Colote 1114 c) ἔστι γὰρ οὐλομελές («è infatti intero [nelle sue membra]»), accolta tra gli altri anche da O’Brien e Reale. Come segnala Coxon (p. 195), ἔστι γὰρ potrebbe essere formula introduttiva di Plutarco: Passa fa notare, tuttavia, come la stessa formula sia ripetuta in B8.33. Proclo cita (commento al Parmenide 6.1007.25, 6.1084.29-30) in un caso solo οὐλομελές, ma, quando riporta l'intero verso (nello stesso commentario, 6.1152.25), il testo del primo emistichio è οὖλον μουνομελές τε. Si ha quindi l'impressione di una citazione a memoria (in effetti il testo è per il resto identico a quello citato da Simplicio). La forma οὐλομελές, come suggerisce Passa (p. 63), potrebbe essersi insinuata nella tradizione testuale parmenidea a partire dall'atmosfera pitagoreggiante dell'Accademia, tra II sec. a. C. e I sec. d. C.. Analogamente, deformazione del testo a noi tramandato dai codici simpliciani potrebbe essere anche μοῦνον μουνογενές, attestato in PseudoPlutarco, Teodoreto ed Eusebio. 5 La ricostruzione del testo di questo secondo emistichio è molto controversa. La versione più attestata nelle fonti antiche è: καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀγένητον. 137 [5] οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν 6, ἕν, συνεχές7 · τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; οὔτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω8 φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι. τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος9 ὦρσεν [10] ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών10 ἐστιν ἢ οὐχί. Tuttavia Simplicio presenta anche (nel commentario alla Fisica 30.2, 78.13, 145.4) la variante ἠδ΄ ἀτέλεστον. La forma ἠδ΄ ἀγένητον non pare sostenibile, in quanto ripetizione di ἀγένητον del verso precedente. Sulla variante esistono comunque dubbi e non mancano le trascrizioni alternative nei codici: ἢ δ’ ἀτέλεστον, ἢ ἀτέλεστον, ἤδ’ ἀτέλεστον, ἢ δι’ ἀτέλεστον. Il testo potrebbe dunque essere corrotto, dal momento che il suo senso appare contraddetto da οὐκ ἀτελεύτητον (v. 32) e τετελεσμένον... πάντοθεν (vv. 42-3). Accettando la variante di Simplicio e volendone evitare le implicazioni contraddittorie, Karsten propose di emendare il testo come ἠδὲ τελεστόν (quindi «e perfetto»), seguito poi da Tarán e Cordero. Owen e altri (Kirk-Raven-Schofield, McKirahan, sostanzialmente Mourelatos e Coxon) hanno proposto ἠδὲ τέλειον («e completo»). Una minoranza (ma significativa: Hölscher, Cassin, Leszl, Gemelli Marciano) ha ripreso la versione di Brandis: οὐδ’ ἀτέλεστον. 6 Del verso esiste una variante attestata (con leggere differenze) in Ammonio, Asclepio, Filopono, Olimpiodoro: οὐ γὰρ ἔην οὐκ ἔσται ὁμοῦ πᾶν ἔστι δὲ μοῦνον. A seconda della punteggiatura potrebbe rendersi come: «poiché non era, non sarà, tutto intero insieme, ma è solamente», ovvero: «poiché non era, non sarà, ma è solamente, tutto intero insieme». 7 I codici di Simplicio riportano ἕν, συνεχές; in Asclepio è attestato invece οὐλοφυές («di natura intera»), lezione difesa e preferita da Untersteiner. 8 Alla forma ἐάσσω, riportata da alcuni codici di Simplicio, è da preferire ἐάσω, presente nei codici omerici e per lo più anche in quelli di Simplicio (che presentano anche la variante ἐασέω). 9 Nell'epica χρέος è forma recente di χρεῖος: essa è attestata in Odissea nel significato originario di «debito» e in quello secondario di «bisogno» (che ha riscontri in lirica e tragedia), come sottolinea Passa (pp. 82-3). 10 I codici attestano qui unanimemente χρεών ἐστιν; al v. 45, dove troviamo formula analoga, le lezioni si dividono: alcuni codici riportano χρεόν ἐστι. Passa (pp. 80 ss.) ha discusso specificamente il rapporto tra le forme χρεών e χρεόν, sottolineando come sia accettabile in Parmenide (analogamente a quanto riscontriamo nel caso di Erodoto) la forma ionica recente χρεόν, 138 οὐδὲ ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος11 ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό· τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, [15] ἀλλ΄ ἔχει· ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν12; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο; [20] εἰ γὰρ ἔγεντ΄13, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι. τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται καὶ ἄπυστος14 ὄλεθρος. οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος. [25] τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει. mentre χρεών sarebbe atticismo: a confermare un meccanismo di atticizzazione parallelo a quello operante sul testo omerico. 11 Il codice di Simplicio riporta ἐκ μὴ ὄντος («da ciò che non è»): l’emendazione proposta da Karsten - ἐκ τοῦ ἐόντος consente di concludere la dimostrazione come si trattasse di dilemma: l’essere non può avere origine dal non-essere (v. 7), né dall’essere, dunque è senza origine (ἀγένητον). La necessità dell’emendazione è analiticamente sostenuta da Tarán (pp. 95-102), ma combattuta con buone osservazioni da Coxon (pp. 200-201). Accogliamo, con qualche riserva sia relativamente alla fonte emendata – i codici di Simplicio rendono sostanzialmente in modo unanime il testo emendato – sia alle implicazioni teoriche, la correzione, in considerazione soprattutto del senso della successiva proposizione γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό. 12 I codici DE di Simplicio riportano πέλοι τὸ ἐόν, generalmente accettato; il codice F rende πέλοιτο ἐόν («potrebbe essere ciò che è», «essendo, potrebbe essere»), che una minoranza di editori (tra gli altri Coxon e Cassin) fanno proprio. Karsten propose di emendare il testo come ἔπειτ’ ἀπόλοιτο ἐόν («potrebbe poi perire ciò che è»), soluzione accolta da Kranz (Vorsokratiker, V edizione), ma oggi abbandonata. 13 La forma [εἰ γὰρ] ἔγεντ΄ è correzione (Preller) non attestata nei manoscritti simpliciani della edizione di Simplicio, che riportano invece ἔγενετ΄ (EF) e ἔγετ΄ (D). 14 Qui, in vece di ἄπυστος (De Caelo A e Fisica F), nei codici DE del commento al De Caelo abbiamo ἄπαυστος («incessante»), nel commento alla Fisica (ed. aldina) ἄπιστος («incredibile»), in Fisica DE il testo corrotto ἄπτυστος. 139 αὐτὰρ ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν ἔστιν ἄναρχον ἄπαυστον, ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε15 μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής. ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον16 καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται [30] χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει· κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει, οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν 17 δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο. ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. [35] οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ 18 πεφατισμένον19 ἐστίν, 15 Cordero ha restituito τῆλε sulla base dei codici EW di Simplicio (Phys.); i codici DF riportano τῆδε (τῆ δὲ E a ). 16 Della prima parte del verso abbiamo due redazioni: i codici di Simplicio (Phys.) riproducono (con varianti) ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον; quelli di Proclo (in Parmenidem 1134.22, 1177.5/6) ταὐτόν δ’ ἐν ταὐτῷ μίμνει («identico, resta in un identico [luogo]»). 17 La prima parte del verso è trasmessa con varianti nei manoscritti di Simplicio (Phys.): ἐπιδευές· μὴ ἐὸν (30, 10, 40, 6 Ea F) ovvero ἐπιδεές· μὴ ἐὸν (30, 10. 40, 6 DE); ἐπιδευές· μὴ ὂν (146, 6 EF) o ἐπιδεές· μὴ ὂν (146, 6 D). Da un punto di vista metrico, ἐπιδευές· μὴ ἐὸν non regge; d'altra parte ἐπιδεές non è forma epica: Cerri (pp. 234-5), che discute ampiamente i problemi connessi con la scelta del testo greco più plausibile, propende – con riserve – per l’adozione della soluzione ἐπιδεές, accettabile appunto per la misura del verso. Analogamente Coxon (p. 208). Vari editori (Tarán, O'Brien, Palmer, Graham), invece, seguendo la proposta di Bergk, espungono μὴ, conservando la forma epica ἐπιδευές. Passa (pp. 112 ss.) ha con buoni argomenti suffragato la scelta di Cerri, marcando come ἐπιδεές riflettesse in origine, prima ancora dell'atticizzazione del testo, l'adozione da parte di Parmenide, autore tardo-ionico, di forme dello ionico parlato, in cui già era caduta la più antica forma indoeuropea [w]: egli avrebbe preferito all'ἐπιδεῖς parlato la sinizesi ἐπιδεές, «la sola grafia adeguata a un testo scritto». Preferiamo, pertanto, evitare di ricorrere alla espunzione proposta da Bergk, conservando ἐπιδεές· μὴ ὂν. 18 I manoscritti di Simplicio riportano ἐν ᾧ, quelli di Proclo ἐφ’ ᾧ, dal significato sostanzialmente equivalente. O'Brien (p. 55) ipotizza che in origine la formula di Proclo dovesse essere glossa per precisare il senso di ἐν ᾧ. La lezione di Proclo è adottata da Cordero, seguito da Couloubaritsis. 19 I codici di Proclo e Simplicio (Phys. 146, 8; 87, 15 F; 143, 23-24 EF) riportano πεφατισμένον, privilegiato dagli editori; altri manoscritti di 140 εὑρήσεις τὸ νοεῖν· οὐδὲν γὰρ < ἢ > ἔστιν20 ἢ ἔσται ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος, ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον21 ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι22· τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται 23, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, [40] γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, Simplicio (Phys. 87, 15 DE; 143, 23-4 D) presentano invece πεφωτισμένον («è illuminato»). 20 Il testo del codice di Simplicio (Phys. 146, 9) riporta οὐδ’ εἰ χρόνος ἐστὶν («nemmeno se il tempo esiste»), che, metricamente accettabile, appare poco sensato nel contesto. Coxon (seguito da Conche) ha accolto la variante οὐδὲ χρόνος («And time is not»), che, a sua volta, non risulta però illuminante. Tra le proposte per aggiustare il senso del verso troviamo quella di Bergk - οὐδ’ ἦν γὰρ («né esisteva infatti») – e soprattutto quella di Preller (la più adottata), che (con qualche perplessità) seguiamo: οὐδὲν γὰρ ἔστιν [+ ἢ ἔσται]. Essa riprende (integrandola con la congiunzione ἢ) una citazione di Simplicio (Phys. 86, 31) – οὐδὲν γὰρ ἔστιν –. Va dato comunque atto a Coxon che il suo argomento a favore della lezione χρόνος di Simplicio in Phys. 146, 9 è buono: essa si trova, in effetti, nel contesto della citazione continua dei primi 52 versi del frammento (B8), quasi a garanzia di uno sforzo di attenta trascrizione dell’originale, mentre l’altra lezione (Phys. 86, 31) ha più l’aria di una libera parafrasi. Le difficoltà di questo passaggio potrebbero dunque suffragare l'ipotesi di interventi di montaggio sulla copia del poema disponibile a Simplicio. 21 I manoscritti EF di Simplicio (Phys. 146, 11; 87, 1) riportano οὖλον (D ὅλον); l'Anonimo (In Theaet.) οἶον («solo»); Platone (Teeteto 180 e1), Eusebio, Teodoreto οἷον («come»). 22 I manoscritti di Simplicio riportano τ΄ ἔμεναι (Phys. 146, 11) ovvero τ΄ ἔμμεναι (Phys. 87, 1 EF; D τ΄ ἔμμενε); quelli di Platone, Eusebio, Teodoreto (e Simplicio Phys. 29, 18; 143, 10) τελέθει; l'Anonimo τε θέλει. 23 Il secondo emistichio è di difficile decifrazione nei manoscritti. Nei codici di Simplicio prevalgono tuttavia due lezioni, prevalentemente adottate dagli editori: (i) πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται (Diels-Kranz, Tarán, Cordero, Coxon, O'Brien, Conche, Cassin, Reale, Cerri); (ii) πάντ΄ ὀνόμασται (Mourelatos, Casertano, Kirk-Raven-Schofield, Gallop). Gli accertamenti più recenti sui manoscritti sembrerebbero suffragare questa seconda lettura, che ha un riscontro anche in B9.1. Accanto a varianti secondarie, abbiamo come lezione alternativa il testo di Platone (Teeteto 180 e1), seguito dal commentatore anonimo del Teeteto, Eusebio, Teodoreto: παντὶ ὄνομ (α) εἶναι. Abbiamo mantenuto la lezione Diels-Kranz perché, nel contesto, ci sembra più naturale il senso che se ne può ricavare, anche in traduzione. 141 καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν. αὐτὰρ ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν, εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον [45] οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν24 ἐστι τῇ ἢ τῇ. οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν 25 ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι26 εἰς ὁμόν, οὔτ΄ ἐὸν 27 ἔστιν ὅπως εἴη κεν28 ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ἄσυλον· οἷ 29 γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει30. [Fonti principali: vv. 1-52 Simplicio, In Aristotelis Physicam 145-146, vv. 1-14 id. 78] 24 Si veda l'annotazione a χρεών, v. 11. In questo caso i manoscritti riportano sia la forma χρεών, sia la forma χρεόν (sul piano filologico lectio difficilior), che, come sottolinea Passa (p. 81) difficilmente può intendersi come corruzione di χρεών. Manteniamo dunque la forma χρεόν, consapevoli dell'improbabilità del fatto che Parmenide impiegasse la stessa formula πελέναι... ἐστιν, ricorrendo ora a χρεών ora a χρεόν. 25 La lezione dei codici di Simplicio è οὔτε γὰρ οὔτε ἐόν (ovvero ὄν): l’edizione aldina emendò οὔτε ἐόν in οὐκ ἐὸν, per lo più accettato. Diels (1897) preferì l’alternativa οὔτεον (= οὔ τι), forma rara dell’indefinito. 26 La forma ἱκνεῖσθαι è attestata in Simplicio (Phys. DE), accolta dagli editori. Simplicio F riporta invece κινεῖσθαι. 27 Il testo dei codici di Simplicio è οὔτε ὄν, emendato da Karsten in οὔτ΄ ἐὸν. 28 La forma κεν è emendazione di Karsten: i codici DEF di Simplicio riportano καὶ ἓν; l'edizione aldina κενὸν. 29 La lettura οἷ (dativo del pronome personale) si è affermata nel corso dell’ultimo secolo, a partire dalla proposta di Diels, il quale però intendeva οἷ come un relativo («verso cui»). I manoscritti (DEF) di Simplicio riportano οἱ (articolo determinativo ovvero dimostrativo), emendato nell’edizione aldina come ἦ (espressione omerica per «in effetti», «certo»). 30 Così già leggeva Diels; i manoscritti di Simplicio riportano in effetti κυρεῖ (EF), ovvero κυροῖ (D): κύρει è emendazione degli editori. 142 Unica1 parola2 ancora, della via3 che4 «è», rimane; su questa [via] sono5 segnali6 1 Il complesso della costruzione greca (aggettivo, avverbio, sostantivo e verbo) μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο accentua la connessione logica del frammento con quanto precede: prospettate le due vie, esclusa una delle due come impercorribile, discusse le contaminazioni dei mortali, «rimane una sola via» da esaminare, quella, appunto, ὡς ἔστιν. Sebbene chiaramente l’aggettivo mónoj si riferisca a μῦθος, molti traduttori di fatto lo applicano a ὁδοῖο: «One path only is left for us to speak of» (Burnet), ovvero «So bleibt nur noch Kunde von Einen Wege» (Diels), «One way only is left to be spoken of» (Raven). 2 Ricordiamo che il termine μῦθος ricorreva già in B2.1, qualificato dalla fonte divina: la «parola» (ovvero il «discorso») proferita dalla Dea doveva essere accolta, meditata e custodita dal kouros. Il valore del termine sembrerebbe dunque nel contesto quello di parola, discorso di Verità. Nella relativa nota di B2.1 abbiamo richiamato alcune recenti posizioni interpretative: Morgan (K. Morgan, Myth and Philosophy From the Presocratics to Plato, cit., pp. 17-18) sottolinea nell’uso di mythos il valore di «authoritative speech act»; Couloubaritsis (La pensée de Parménide, cit., p. 541) insiste sullo stesso valore con una traduzione poco familiare: «ma façon de parler autorisée». 3 Il genitivo ὁδοῖο è per lo più reso come genitivo oggettivo, di argomento, in relazione a μῦθος, di cui specificherebbe il contenuto. Cerri (p. 219) difende una sua interpretazione “partitiva” («di via, resta soltanto una parola»), riferendolo alle vie prese in esame. 4 Il valore della congiunzione ὡς sarebbe – secondo Mansfeld (p. 93) – complesso: non significherebbe semplicemente «che», ma anche «come». Per tale valore si veda il parallelo di B1.31. 5 Coxon (p. 194) sottolinea la contrapposizione tra σήματ΄ ἔασι e il successivo (v. 55) σήματ΄ ἔθεντο («posero segni»): alla convenzionalità dell’imposizione umana è opposta l'oggettività delle evidenze dell’Essere. 6 Il greco σήματα può rendersi nel contesto come «indizi», «segnali», anche «evidenze» (monuments, Coxon p.194). Essi possono essere intesi anche come i «riferimenti» che consentono di mantenere la propria direzione lungo una via: essi garantirebbero, in altre parole, al pensiero di non perdersi. Così, secondo Cordero (By Being, It Is, cit., p. 168), i σήματα sarebbero indicazioni, «prove» del carattere necessario e unico del fatto di essere: pietre miliari e segnavia che indicano che il pensiero sta seguendo la via giusta. Thanassas (p. 44), a sua volta, ritiene che i σήματα – rigorosamente parlando – non siano da intendere come segni dell’Essere, ma della sua via, con la funzione, quindi, di guidare lungo il percorso di conoscenza dell’Essere: il concetto di ἐόν assicurerebbe alla via la determinazione 143 specifica. A Thanassas (pp. 54-5) si deve soprattutto un rilievo: i «segni» fungerebbero essenzialmente da monito contro possibili deviazioni dalla via dell’Essere, quindi non tanto da attributi positivi, piuttosto da segnali negativi, che escludono ogni sovrapposizione con il Non-Essere. Un aspetto valorizzato anche da Scuto (G. Scuto, Parmenides’ Weg. Vom WahrScheinenden zum Wahr-Seienden. Mit einer Untersuchung zur Beziehung des parmenideischen zum indischen Denken, Academia Verlag, Sankt Augustin 2005, p. 142): tutti i segni ricavati da Parmenide sarebbero conseguenze necessarie e inconfutabili della applicazione del principio di fondo secondo cui l’essere non può sorgere dal non-essere. La Stemich (pp. 211-2) propone di analizzare i segni in quanto indicatori e a un tempo strumenti di orientamento per il kouros, segnavia ma anche descrittori della sua condizione spirituale nel momento in cui attinga la conoscenza. Da ricordare, in ogni caso, che il termine designa anche i «segni augurali» interpretati dagli indovini (Cerri p. 219); per Mansfeld (p. 104) σῆμα è il mezzo di rivelazione di una potenza superiore. L’eco religiosa potrebbe essere deliberatamente evocata dall’autore anche per predisporre la propria audience (interna ed esterna) alla disamina successiva. Sempre Mansfeld segnala (p. 104) come σῆμα sia sinonimo poetico di σημεῖον, termine che ritroviamo in Melisso (B8) e negli usi giuridici. Mourelatos (p. 94) inserisce l’interpretazione dei σήματα all’interno del motivo della quest: per raggiungere il fine della quest è necessario percorrere la strada «è»; per fare ciò è necessario tenere d’occhio i «segnavia». Rimanendo fedele all’immaginario epico, Mourelatos propone di leggere i segnavia come imperativi del tipo: «cerca sempre ciò che è ….». Di recente Chiara Robbiano (pp. 108-9) ha segnalato il nesso tra ἔλεγχος e σήματα: essi, in effetti, come rivela la letteratura arcaica, possono essere usati per provare, mettere alla prova (sottoporre a elenchos) l’identità di una persona. Robbiano si riferisce all’episodio del riconoscimento di Odisseo da parte di Penelope, dove il termine σήματα è messo in relazione alla verifica dell’identità del mendicante: è offrendo segni che Odisseo persuade della propria identità. Sempre alla Robbiano (pp. 125-6) dobbiamo il rilievo circa il nesso tra σήματα e loro interpretazione. La dea guida attraverso σήματα, che l’audience deve interpretare. La consapevolezza della necessità di interpretare segni per giungere alla verità richiamerebbe Eraclito DK 22 B93: ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεῖόν ἐστι τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ σημαίνει Il signore che ha il suo oracolo in Delfi non dice, non nasconde, ma dà segni. Il modello che la dea in questo caso evocherebbe sarebbe, dunque, quello di un dio che invia segnali ai mortali, per far loro conoscere cose normalmente 144 molto numerosi: che7 senza nascita8 è ciò che è9 e senza morte10, fuori della loro portata. La Robbiano, per altro, concorda con Cerri (p. 214) sul fatto che σήματα non si riferirebbe ai predicati enumerati in B8.2-6, ma ai successivi argomenti. A una funzione essenzialmente argomentativa dei σήματα ha pensato invece Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 146): i «segni» costituirebbero gli argomenti della dimostrazione, coincidendo di fatto con gli attributi fondamentali dell’essere. Essi sarebbero in parte dimostrati nel seguito, in parte assunti senza dimostrazione, fungendo da medi aristotelici e contribuendo al carattere razionale della dimostrazione. 7 Della proposizione introdotta da ὡς (ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν) esistono varie traduzioni possibili: (a) intendendo ὡς come congiunzione dichiarativa: «Being is ungenerable and imperishable» (Tarán p. 85); «whatis is ungenerable and imperishable» (Mourelatos p. 94); (b) intendendo ὡς come congiunzione causale: «since it exists it is unborn and imperishable» (Guthrie p. 26); «étant inengendré, est aussi impérissable» (O’Brien, p. 171); analogamente Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 146). La costruzione σήματa … ὡς può (e probabilmente intende nel nostro contesto) indicare sia la significazione del come (dell’Essere) in senso descrittivo, sia il che (dell’Essere) in senso dichiarativo. I segni devono rivelare l’ἐόν e dunque la loro funzione può sembrare quella di indicare il che; al contempo, manifestandolo, consentono di prendere consapevolezza della sua natura (per cui il come potrebbe essere giustificato). Da apprezzare (secondo Mourelatos, p. 95), infine, la struttura che viene introdotta a partire da questo punto: Parmenide annuncia programmaticamente tutti i segnavia, quindi procede a una loro giustificazione. 8 Il greco ἀγένητον ricorre in pensatori contemporanei o di poco posteriori a Parmenide, come Eraclito (citazione di Ippolito di B50): Ἡ. μὲν οὖν φησιν εἶναι τὸ πᾶν διαιρετὸν ἀδιαίρετον, γενητὸν ἀγένητον, θνητὸν ἀθάνατον, λόγον αἰῶνα, πατέρα υἱόν, θεὸν δίκαιον· ‘οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι’ ὁ Ἡ. φησι. Eraclito sostiene che il tutto è diviso indiviso, generato ingenerato, mortale immortale, logos eterno, padre figlio, dio giusto, e afferma: énon me ascoltando, ma il logos, è saggio convenire che tutto è uno», ed Empedocle (B7, dal Lessico di Esichio): ἀ γ έ ν η τ α: στοιχεῖα. παρ’ Ἐμπεδοκλεῖ «Ingenerati»: gli elementi secondo Empedocle. 145 L'aggettivo indica dunque ciò che è ingenerato in contrapposizione a ciò che ha nascita (Eraclito), ovvero gli elementi primordiali, che non sono generati da altro ma che tutto generano. Diogene Laerzio sostiene (IX, 19) che Senofane sarebbe stato il primo ad affermare che «tutto ciò che è generato è corruttibile» (πρῶτός τε ἀπεφήνατο, ὅτι πᾶν τὸ γινόμενον φθαρτόν ἐστι). Secondo Coxon (p. 195), il termine potrebbe essere di conio parmenideo. Della stessa idea Mourelatos (p. 97), secondo cui esso ricorrerebbe qui per la prima volta nella letteratura greca, assumendo un significato più forte del semplice «ingenerato»: ἀγένητον in Parmenide escluderebbe ogni forma di processo in cui qualcosa venga all’essere. Possiamo qui notare di passaggio che la caratteristica essenziale dei segni parmenidei è quella di presentarsi come negazioni (alfa privativo + aggettivo) di qualcosa di significante all’interno del linguaggio e della esperienza dei mortali (Ruggiu p. 277). 9 Come già segnalato, traduciamo ἐόν come «ciò che è», segnalando invece τὸ ἐόν come «l’essere»: per noi si tratta di espressioni sinonime, ma la seconda, con l’articolo, è la formula più astratta. Nel contesto ἐόν, come forma participiale, potrebbe essere reso con valore verbale (come fa, per esempio Leszl, p. 171): «essendo ingenerato è anche imperituro». In tal caso, però, le altre determinazioni rischierebbero di essere subordinate alle prime due. Si può segnalare in questo contesto quanto sottolineato da Scuto (op. cit., p. 141), secondo cui in Parmenide assisteremmo al passaggio da un valore ancora temporale del participio a un significato atemporale: si tratterebbe di una netta correzione nella direzione dell'astrazione, con cui dall’esperienza della costante mutevolezza degli enti si concluderebbe nella certezza di un essere sottratto al tempo. 10 L’espressione ἀνώλεθρόν, come la precedente - ἀγένητον - formata con l’alfa privativo, indica letteralmente «ciò che è senza distruzione [morte] (ὄλεθρος)». Si tratta di termine veramente raro nella letteratura arcaica: prima di Parmenide ricorre una volta in Omero (Iliade XIII.761); dopo Parmenide ricompare per la prima volta solo in Platone (Cerri, p. 220). Nella testimonianza di Aristotele (Fisica III, 4 203 b13, DK 12 A15; 12 B3), in riferimento ad Anassimandro, abbiamo: καὶ τοῦτ’ εἶναι τὸ θεῖον· ἀθάνατον γὰρ καὶ ἀνώλεθρον [B 3], ὥς φησιν ὁ Ἀναξίμανδρος καὶ οἱ πλεῖστοι τῶν φυσιολόγων E tale sembra essere il divino; è infatti immortale e imperituro, come dicono Anassimandro e la maggior parte dei filosofi della natura. Ciò potrebbe significare che l’aggettivo era stato effettivamente impiegato dai pensatori arcaici: Conche (p. 131) è convinto che il termine sia anassimandreo. In ogni caso, i due aggettivi – ingenerato e imperituro – corrispondono alle tradizionali connotazioni degli dei come sempre esistenti, immortali. 146 tutto intero11, uniforme12, saldo13 e senza fine14; 11 Il termine οὖλον (che rendiamo come «tutto intero» per dar ragione sia della totalità sia della integrità implicite) è di diretta eco senofanea: οὖλος ὁρᾶι, οὖλος δὲ νοεῖ, οὖλος δέ τ’ ἀκούει Tutto intero vede, tutto intero pensa, tutto intero ode (DK 21 B24). 12 Nonostante le difficoltà rilevate (Kranz, poi ripreso da Reale) nell'uso di μουνογενές dopo ἀγένητον (v. 3), Tarán (p. 92) ha buon gioco nel marcare il valore derivato dell’aggettivo, che anche in Eschilo (Agamennone 808) non ha significato letterale di «unigenito», ma quello di «unico». Cerri (p. 221), collegando μουνογενές all’epiteto sacrale di Ecate (secondo Esiodo, Teogonia 426, 488), valorizza la «metafora arditissima» proprio nella «contraddizione sarcastica» ad ἀγένητον. In realtà la radice *γεν esprime sia la nozione di “nascere”, “divenire”, sia quella di “essere”, “esistere”. Il termine μουνογενές potrebbe alludere a γένος piuttosto che a γίγνεσθαι e dunque veicolare l’idea di unicità. Mourelatos (pp. 113-4) suppone che Parmenide usi μουνογενές in diretta opposizione alla formula tradizionale per esprimere distinzioni, familiare da Esiodo: Οὐκ ἄρα μοῦνον ἔην Ἐρίδων γένος, ἀλλ’ ἐπὶ γαῖαν εἰσὶ δύω Non c’era dunque un solo genere di Eris; sulla τerra ce ne sono due (Opere e giorni 11-12). L’aggettivo μουνογενές si contrapporrebbe a μορφὰς δύο (B8.53): dietro οὖλον μουνογενές ci sarebbe dunque il rifiuto della contrarietà. Alcuni interpreti (Barnes, per esempio) associano μουνογενές a ἀτρεμὲς: "monogeneity" e immobilità sarebbero poi contestualmente riprese ai vv. 26-33. Secondo R.J. Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness", in Presocratic Philosophy…, cit., p. 73) questa soluzione è grammaticalmente più consona rispetto alla associazione alternativa a οὖλον, sebbene rimanga preferibile considerare l'aggettivo indipendentemente, nel significato di «uniforme». 13 L’aggettivo ἀτρεμές esprime stabilità, solidità, immutabilità: Conche (p. 133) vi coglie la «calma» dell’Essere, in contrasto con l’«inquietudine» degli enti. Coxon (p. 195) associa l’aggettivo alle successive espressioni ἀκίνητον (vv. 26 e 38: «immobile»), ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον (v. 29: «identico e nell’identica condizione perdurando») e ἔμπεδον αὖθι μένει (v. 30: «stabilmente dove è rimane»): esse denoterebbero identità esente da mutamento temporale. Alle stesse connessioni rinvia anche McKirahan (R. McKirahan, “Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The Oxford 147 [5] né un tempo15 era16 né [un tempo] sarà, poiché17 è ora18 tutto insieme19, Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008, p. 210), il quale però insiste nel suggerire che l’aggettivo sia inteso a esprimere il fatto che «ciò-che-è» è pienamente e non può cessare di essere pienamente, effetto dei limiti che costringono la sua natura. Esso sarebbe, quindi, impiegato per indicare qualcosa di più e di diverso dalla mera assenza di cambiamento e movimento fisico. Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 147), tra gli altri, leggendo il verso come ἔστι γὰρ οὐλομελές τε καὶ ἀτρεμὲς, lo avvicina a Platone, Fedro 250 c3: ὁλόκληρα δὲ καὶ ἁπλᾶ καὶ ἀτρεμῆ καὶ εὐδαίμονα φάσματα μυούμενοί integralmente perfette e semplici e senza tremore e felici erano le visioni cui eravamo iniziati. Si tratterebbe di un riferimento ai misteri eleusini, dove ὁλόκληρα («integralmente perfette») corrisponderebbe a οὐλομελές, indicando la completezza di struttura fisica, mentre ἀτρεμές ritorna identico, evocando «di Verità ben rotonda il cuore fermo» (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ B1.29). La ripresa platonica suggerirebbe allora una direzione interpretativa alternativa: uno sguardo sul mondo della alētheia indimostrato, il cui apprendimento è intuitivo, tanto da essere paragonato alla conoscenza misterica. 14 Leggo ἠδ΄ ἀτέλεστον – con DK, Coxon, O’Brien, Conche, Reale, Heitsch e altri – attestato da Simplicio. Il valore da attribuire a ἀτέλεστον dovrebbe essere, nel contesto, quello di «senza fine», «senza termine». Cerri (pp. 222- 3) interpreta l’aggettivo letteralmente come «incompiuto», riferendolo, senza interpunzione, alla riga successiva: «incompiuto mai fu un tempo, né sarà, poiché è ora tutto omogeneo». Da notare che Simplicio (Phys. 30, 4), volendo accostare Parmenide a Melisso, asserisce che l’essere di Parmenide è ἄπειρον, con ciò intendendo probabilmente ἀτέλεστον (Tarán, p. 93). 15 Intendendo οὐδέ ποτe come formula avverbiale, avremmo «non mai, giammai». Abbiamo preferito conservare πότe come avverbio separato dalla negazione, riferendolo sia a ἦν sia a ἔσται. Ruggiu (p. 283) interpreta πότε come indicatore della generale dimensione temporale, cui Parmenide contrapporrebbe l’ἔστιν rafforzato dal νῦν, a esprimere il presente atemporale. 16 In questo verso, come ha fatto giustamente osservare O’Brien (“L’Être et l’Éternité”, in Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, Tome II Poblèmes d’interprétation, p. 149), gli avverbi (πότε, νῦν) sono fondamentali come le tre forme verbali di εἶναι (ἦν, ἔσται, ἔστιν). 148 17 Non è chiaro se ἐπεί si riferisca immediatamente solo a νῦν ἔστιν o anche a ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές, cioè se anche questi attributi concorrano alla determinazione delle due affermazioni iniziali del v. 5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται: appare, in effetti, più semplice escludere la possibilità che «ciò che è» (ἐόν) sia stato (e in qualche modo non sia più) o debba essere in futuro (e in qualche modo non sia ancora) per il fatto che esso è ora tutto insieme, uno e compatto, cioè che è pienamente, senza mancare di alcunché che coinvolga in qualche modo «non è» (McKirahan, p. 207). 18 L’avverbio νῦν, come giustamente sottolinea Coxon (p. 196), non denota un istante o una unità temporale, ma la simultaneità. Secondo Conche (p. 136), «l’essere è, “ora”», irriducibile a un istante senza durata, o a una durata temporale, che implichi successione di prima e poi. Così l’«ora» indicherebbe una «durata senza successione» (come il «durare di Dio» secondo Tommaso). O’Brien (Études, II, pp. 335-362) sottolinea il nesso con ἀγένητον e ἀνώλεθρόν: la Dea intenderebbe escludere generazione e corruzione e dunque, in quanto ingenerabile e indistruttibile, l’Essere sarebbe eterno. Secondo Cordero (By Being, It Is, cit., p. 171) Parmenide usa il tempo presente ἔστιν per marcare la presenza propria dell’«ora» (νῦν), cioè il permanente presente dell’essere: l’essere non avrebbe nulla a che fare con il tempo strutturato in momenti temporali. A queste letture si contrappongono tradizionalmente quelle che, nel rilievo dell’avverbio temporale νῦν e nella contestuale negazione di passato e futuro, colgono la presenza di una concezione ardita e profonda: l’Essere sarebbe presente eterno, fuori dal tempo. Privilegiano questa dimensione della “atemporalità” dell’Essere parmenideo, tra gli altri, Calogero, Mondolfo, Gigon, Untersteiner, Reale (e Ruggiu nel suo commento). Mourelatos (pp. 103 ss.) ritrova nell’uso parmenideo dell’ἔστι il richiamo a una pratica consolidata in ambito matematico: proposizioni senza implicazioni temporali (tenseless) sono le verità necessarie - definizioni, verità classificatorie e implicazioni logiche – cui la «predicazione speculativa» di Parmenide si sarebbe ispirata. In B8.5 l’enfasi è ancora su νῦν ἔστιν, che suggerirebbe un condizionamento temporale. Il senso del verso, tuttavia, sarebbe, secondo Mourelatos: «né mai era, né sarà, né è ora, dal momento che semplicemente è». In direzione analoga si muove Thanassas (p. 47), per il quale l’intenzione di Parmenide in B8.5 sarebbe quella di marcare l’irrilevanza dello sviluppo del tempo in passato, presente e futuro per il suo progetto ontologico: l’Essere non è nel tempo, non ha storia né futuro, risultando estraneo a ogni mutamento. Tarán (p. 95) insiste, a sua volta, per intendere il verso nel senso di una continua durata temporale. È significativo, comunque, che sia assente una esplicita argomentazione di νῦν ἔστιν, che per McKirahan (p. 206) sarebbe conseguenza di «ciò-che-è è» (B2.7-8, B6.1-2) e riconducibile all’essenziale pienezza dell’essere di ciò-che-è. Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness", cit., p. 73) propone una lettura 149 uno20, continuo21. Quale nascita22, infatti, ricercherai di esso? originale: in forza degli attributi che τὸ ἐόν possiede «ora» (completezza, autosufficienza ecc.), non ha senso supporre che possa non esistere in qualche momento del passato o del futuro. 19 Conche (pp. 137-8), che valorizza il nesso con l’avverbio precedente, traduce ὁμοῦ πᾶν come «tout entier à la fois», accostandolo al tota simul con cui Boezio (e poi Tommaso) caratterizzava l’eternità. 20 Tra i «segni» destinati a gravare sul destino del pensiero parmenideo, questo è senz’altro il più importante. Nel contesto, tuttavia, ἕν è solo uno dei segni, inserito in una sequenza - ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές – in cui l’autore sembra insistere sulla compiutezza, integrità e omogeneità dell’essere piuttosto che sulla sua unicità. Come opportunamente marcato da McKirahan (p. 215), infatti, è probabile che μουνογενές e ἕν fossero sostanzialmente intesi come sinonimi, in relazione al gruppo di attributi οὖλον, ὁμοῦ πᾶν, συνεχές, la cui giustificazione argomentativa ritroviamo ai vv. 22-25. Come giustamente rileva Conche (p. 138), l’essere è «uno», non l’Uno della posteriore tradizione platonica-neoplatonica. Alla lezione ἕν, συνεχές di Simplicio, Untersteiner preferisce quella alternativa di Asclepio: οὐλοφυές, «un tutto naturale». Coxon osserva (p. 196) che questo è l’unico luogo in cui sia usato da Parmenide il termine ἕν, il cui posto sarà poi preso da oὐδὲ διαιρετόν (v. 22), con cui – qui e in v. 25 – συνεχές è virtualmente sinonimo. Mourelatos (p. 95, nota) legge come un unico blocco ὁμοῦ πᾶν ἕν, interpretando ἕν come predicato modificato dall’avverbio ὁμοῦ e dal pronome πᾶν: il senso complessivo sarebbe «all of it together one». Secondo Cordero (By Being, It Is, cit. p. 177), Parmenide intenderebbe marcare come il «fatto d’essere» sia denominatore comune a tutte le cose, affermando che esso è unico, non che tutte le cose sono uno ovvero che l’essere è l’Uno. Ruggiu (p. 286), pur non accettando la variante οὐλοφυές, ritiene che l’Essere valga come intero: esso non espungerebbe il molteplice, ricomprendendolo piuttosto in sé. 21 L’aggettivo συνεχές, in relazione con il precedente ἕν, sottolinea il fatto che «ciò che è» è «uno con se stesso» (Conche p. 139). Non è del tutto perspicua la connessione di questa ultima serie di attributi con quella introdotta ai vv. 3-4: si tratta di implicazioni dei precedenti ovvero di nuovi attributi? In ogni caso, qui termina l’elenco dei segni. Da questo momento in avanti si apre la loro discussione argomentativa, che altri (per esempio Heitsch, Leszl, Plamer) fanno iniziare dal v. 5. 22 Il termine γέννα potrebbe tradursi più semplicemente con «origine», ma, seguendo il suggerimento di Coxon (p. 197), insistiamo sul valore biologico della espressione. È possibile che – come nota la Stemich (Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, cit., p. 214) – in questo passaggio il filosofo contrapponga alla comune accezione religiosa (per cui le divinità sono sì 150 Come23 e donde cresciuto24? Da ciò che non è non permetterò25 che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare26 che «non è»27. Quale bisogno28, inoltre29, lo avrebbe spinto30, [10] originando31 dal nulla, a nascere32 più tardi o33 prima34? immortali, ma non senza nascita) la sua concezione dell’essere, appunto «senza nascita e senza morte». 23 La formula interrogativa πῇ πόθεν potrebbe rendersi (con O’Brien e Cassin): «verso dove e da dove?», accentuandone le implicazioni spaziali, insistendo cioè su direzione e verso della crescita. Anche Mourelatos (p. 98, nota), attribuisce senso locale a πῇ. 24 Il passaggio dal sostantivo (γέννα) al participio aoristo (αὐξηθέν), con relativo cambio di sintassi, e il successivo (v. 8) implicito riferimento all’infinito aoristo αὐξηθῆναι (essere cresciuto) in relazione agli infiniti φάσθαι e νοεῖν, evocherebbero, secondo Coxon (p. 197) una tipica situazione di dibattito (quindi di oralità). McKirahan (p. 193) ha sottolineato le implicazioni tra le tre domande: assumendo che generazione e crescita siano equivalenti (come ragionevolmente attestato dai successivi vv. 9-10), la seconda e la terza domanda possono essere interpretate come riferentesi alle sue condizioni necessarie: la generazione è un processo («come») che richiede un’origine («donde»). 25 La formula οὔτ΄ … ἐάσω (futuro preceduto dalla negazione) vuol marcare la proibizione logica imposta e fatta rispettare dalla razionalità della Dea. 26 Letteralmente οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν dovrebbe rendersi come «non è infatti dicibile e pensabile», con la proposizione introdotta da ὅπως come soggettiva. I due aggettivi - φατόν e νοητόν – hanno dunque complessivamente il senso di «cosa che si possa dire e pensare». 27 Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness", cit., p. 77) suggerisce come soggetto implicito di οὐκ ἔστι «the potential generator»: è la generazione dal non-essere che è impensabile. 28 La formula τί χρέος; è corrispettivo poetico dell’ordinario interrogativo τί χρήμα; «quale circostanza?» (Coxon p. 198). Gemelli Marciano (II, p. 87) rinvia a Pindaro e Eschilo per la sua traduzione («Verpflichtung», dovere, servizio). 29 Come segnalato da O'Brien nel suo commento (p. 50), la funzione di καί in questo caso non è solo avverbiale: esso rinforza l'interrogazione. 30 Rendiamo in questo modo la forma «irreale» dell’interrogativo (che suggerisce una risposta negativa) veicolata da ἄν + l’aoristo. 31 Rendiamo in questo modo il participio aoristo ἀρξάμενον, che in realtà dovrebbe implicare anteriorità rispetto all'azione espressa dall'infinito φῦν: altri preferiscono ricorrere a perifrasi: «se comincia dal nulla» (Pasquinelli), «se fosse nato dal nulla» (Cerri), «se trae inizio dal nulla» (Tonelli). 151 Così35 è necessario36 sia per intero o non sia per nulla37. 32 L'infinito aoristo φῦν può essere reso come «nascere\sorgere» o «crescere»: i traduttori si dividono. 33 La particella ἢ può avere funzione disgiuntiva («o»), ovvero esprimere una comparazione (= quam). 34 Traduco letteralmente ὕστερον ἢ πρόσθεν. Le versioni più diffuse sono: «früher oder später» (Diels), «prima o poi» (Calogero), «later or sooner» (Tarán), «dopo o prima» (Reale), «dopo piuttosto che prima» (Cerri), «later or before» (Coxon), «plus tard, plutôt qu’ […] auparavant» (O’Brien). In effetti ὕστερον è comparativo dell’avverbio, ma πρόσθεν no: quindi, letteralmente «più tardi che [\o] prima», sebbene la costruzione possa sembrare asimmetrica. Nei versi 9-10 avremmo una delle prime applicazioni del cosiddetto «principio di ragion sufficiente»: nulla si verifica senza una ragione sufficiente a spiegare perché si verifichi così e non altrimenti. Secondo Conche (p. 141), si tratterebbe della seconda applicazione, dopo quella di Anassimandro (per dimostrare la centralità immobile della Terra nel cosmo), e dominerebbe nel complesso il «pensiero dell’essere» di Parmenide. Una opinione diversa in proposito è espressa da Leszl (pp. 182-5), che interpreta come se Parmenide intendesse marcare l’assenza di una ragione (causa) perché l’essere si generi in un qualsiasi momento: il non-essere, nella sua completa negatività, non potrebbe offrirne alcuna. In realtà, come viene rilevato acutamente da McKirahan (p. 194), delle due possibili traduzioni di ὕστερον ἢ πρόσθεν, «più tardi o più presto» ovvero «più tardi piuttosto che più presto», la prima evidenzia come manchi una ragione per cui ciò che è debba generarsi, cioè non ce ne sia in alcun momento; la seconda, invece, in modo più sofisticato e coinvolgendo il “principio di indifferenza”, sottolineerebbe come non ci sia ragione perché esso si generi «in un momento qualsiasi piuttosto che in un altro». Sempre McKirahan osserva come l’argomento sia formulato in termini di domanda retorica, che presuppone una risposta del tipo: in nessuna circostanza, da ciò che non è potrebbe generarsi qualcosa. 35 McKirahan (p. 194) ha contestato la tradizionale traduzione di οὕτως come «così, perciò», che introdurrebbe la conclusione di un'argomentazione. Secondo lo studioso, infatti, in tal caso il senso del v. 11 appare – nel contesto - problematico: πάμπαν πελέναι è più naturalmente collegato all'analisi dei successivi vv. 22 ss., piuttosto che a quel che immediatamente precede. La sua proposta è dunque quella di tradurre l’avverbio οὕτως collegandolo alla alternativa ἢ πάμπαν πελέναι ἢ οὐχί: il suo valore sarebbe allora «in questo modo» (cioè «essendo ingenerato»). La sua funzione sarebbe prolettica: quanto detto nel contesto sarebbe rilevante per la discussione successiva. A noi pare, comunque, che B8.11 concluda un passaggio (esclusione della generazione) dell'argomento avviato nei versi precedenti. In questo senso confermiamo la traduzione più comune. 152 Né mai 38 concederà forza di convinzione39 36 McKirahan (p. 194) traduce χρεών ἐστιν come «è giusto»: il suo significato - nel contesto dell’alternativa ἢ πάμπαν πελέναι ἢ οὐχί - sarebbe quello di prospettarne i corni come «le uniche possibilità» da considerare relativamente a ciò che è. 37 Come segnala Coxon (p. 199) la formula ἢ οὐχί sta per ἢ οὐ χρεών ἐστι πάμπαν πελέναι «o non deve essere per niente». Parmenide sottolinea la contraddizione e l’esclusione di una terza via (adottando di fatto il principio del terzo escluso): la via dell’essere esclude non solo la via del non-essere, ma anche un'impossibile combinazione tra essere e non-essere (Conche p. 142). Secondo Mourelatos (p. 101), questo verso non costituisce elemento della prova successiva, ma serve solo a ricordare la krisis radicale, la «decisione», operata in connessione con le due vie. 38 Avendo accolto con cautela la correzione di Karsten del testo tràdito, dobbiamo comunque osservare che lo stesso Simplicio, parafrasando due volte il nostro passo (Phys. 77, 9; 162, 11), offre il senso della emendazione: καὶ γὰρ καὶ Παρμενίδης ὅτι ἀγένητον τὸ ὄντως ὂν ἔδειξεν ἐκ τοῦ μήτε ἐξ ὄντος αὐτὸ γίνεσθαι (οὐ γὰρ ἦν τι πρὸ αὐτοῦ ὄν) μήτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος Anche Parmenide infatti sosteneva che l'essere in senso pieno è ingenerato: mostrava che esso non si genera né dall'essere (poiché non c'è qualche essere oltre a esso), né dal non essere (162, 11). D'altra parte, analoga impostazione dilemmatica è attestata anche da Aristotele in un celebre passo della Fisica (I, 8 191 a28-33), con chiara allusione anche agli Eleati (Palmer – Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 129- 133 - ha contestato, con buoni argomenti, che il testo si riferisca esclusivamente agli Eleati): Ὅτι δὲ μοναχῶς οὕτω λύεται καὶ ἡ τῶν ἀρχαίων ἀπορία, λέγωμεν μετὰ ταῦτα. ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. 153 che nasca qualcosa40 accanto41 a esso42. Per questo43 né nascere né morire concesse Giustizia44, sciogliendo le catene45, Che così solamente si risolva anche la difficoltà dei pensatori antichi, lo diremo in quel che segue. Coloro, infatti, che per primi hanno indagato in modo filosofico la realtà e la natura delle cose furono sviati come spinti lungo una via diversa dalla loro inesperienza. Essi sostengono in effetti che degli enti nessuno né si genera né si distrugge: poiché ciò che si genera, necessariamente, si genera o da ciò che è o da ciò che non è, ma è impossibile che ciò accada in entrambi i casi. L'essere, infatti, non si genera (perché è già) e nulla può generarsi dal non essere, dal momento che qualcosa deve fungere da sostrato. E sviluppandone ulteriormente le conseguenze, affermavano allora che non esiste il molteplice, ma solo l'essere stesso. 39 L’espressione πίστιος ἰσχύς è variamente tradotta: «la forza di una certezza» (Reale), «forza di prova», ovvero «forza di argomentazione» (Cerri). In ogni caso, come osserva Cerri (p. 224), è chiaro dal contesto che πίστις è termine da Parmenide impiegato nel valore di «convinzione razionale». Coxon (p. 199) rileva come l’Eleate scelga di esprimersi come se la certezza (πίστις, appunto) avesse un potere attivo e non solo critico. 40 Nel τι Conche (p. 145) coglie un riferimento all’ente: dall’essere non può essere generato né l’essere né un ente qualunque (esso non potrebbe che essere generato da un altro ente). 41 Attribuiamo a παρά valore locativo. In alternativa gli interpreti propongono «oltre a», ovvero «in addizione a». 42 L'infinitiva γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό sembrerebbe giustificare la scelta della variante di Karsten - ἐκ τοῦ ἐόντος. Difficile, infatti, trovare altrimenti un senso. Per chi assume la lezione dei codici - ἐκ μὴ ἐόντος – è più naturale cogliere in αὐτό un riferimento al non-essere, che appare però problematico: si dovrebbe ammettere che la Dea introduca ipoteticamente l'esistenza del non-essere (contraddicendo i precedenti divieti), per marcare come da esso nulla di diverso possa derivare ovvero nulla accanto, oltre a esso possa sorgere. Mourelatos (pp. 101-2), che segue il testo greco non emendato, riferisce comunque il pronome a ciò che è: nella sua lettura l’espressione «che da ciò-che-non-è qualcosa venga a essere accanto a esso» - interpretata come equivalente a προσγίγνεσθαι (accrual, accretion) - suggerisce l’idea di crescita come addizione (accretion) a qualcosa già esistente. 43 La preposizione εἵνεκεν, con il τοῦ dimostrativo, introduce quel che segue come conseguenza di quel che precede (Conche p. 146). 44 Intendo Δίκη come nome personale: Conche (p. 146), invece, nega consistenza mitica al riferimento, riconoscendolo come «metafora» della «legge dell’essere». Dike svolge in questo contesto quel tradizionale ruolo 154 [15] ma [lo] tiene46. Il giudizio47 in proposito48 dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità49, di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile50 (poiché non è una via genuina51), e che l’altra invece esista e sia reale52. equilibratore, di preservazione delle distinzioni e dei limiti, che abbiamo notato nel proemio. In questo caso – come osserva Robbiano (p. 163) – il limite che la dea deve rigidamente sorvegliare è quello che (al v. 42) è definito πεῖρας πύματον, «limite estremo», all’interno del quale riposa sicura l’intera realtà. L’effetto è allora quello di fungere, in quanto rigorosa garante della separazione (tra essere e non-essere), da sorvegliante dell’interezza e integrità dell’essere. 45 I termini impiegati da Parmenide (Δίκη, πέδῃσιν, nella riga successiva κρίσις) insistono sul lessico giudiziario, probabilmente per rendere con efficacia la forza della necessità logica. In effetti, come sottolinea Cordero (By Being, It Is, cit., p. 171), Dike, con Ananke e Moira, assicura a un tempo l'immutabile identità di ciò che è e l’inesorabilità della via. 46 Intendiamo ἐόν come oggetto sottinteso di ἔχει, per analogia a quanto sotto (verso 26) affermato, appunto a proposito di ἐόν. 47 Il termine greco κρίσις – così come il successivo verbo κέκριται – veicola ancora, insieme alla formalità del giudizio, l’autorevolezza della decisione: a marcare la forza razionale del passaggio nella dimostrazione della Dea. È esplicito nel contesto il riferimento all'alternativa di B2: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. In questo senso, Mourelatos ritiene che i vv. 17-18 abbiano la funzione di richiamare (come il v. 11) la «decisione» tra le due vie. 48 Letteralmente: «a proposito di queste cose», ovvero sulla questione della generazione e della corruzione o della nascita e della morte. 49 Letteralmente «come necessità»: rendiamo ἀνάγκη (preceduto da ὥσπερ) con il suo valore generico, non personale. 50 La coppia di aggettivi ἀνόητον ἀνώνυμον (proposti senza congiunzione) sono, a nostro avviso, da intendersi congiuntamente come connotazione dell’impalpabilità della seconda via (ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι). 51 L’espressione οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός si riferisce al fatto che la via «che non è (ὡς οὐκ ἔστιν)» non conduce in vero da nessuna parte e, in questo senso, non è una «via genuina (vera)». Conche (p. 147) insiste piuttosto sul fatto che non si tratti della «vera via»: in altre parole, di una via che conduca alla Verità. A conclusione del verso troviamo, invece, l’espressione τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι, che sottolinea come «l’altra [via] invece esista e sia reale», cioè una via che conduce effettivamente a una destinazione. Coxon (p. 168) ricorda come nelle occorrenze del poema, ἀληθείη (B1.29) e ἀληθής (B8.17, 39) si riferiscano non al pensiero o al 155 E come potrebbe esistere53 in futuro l’essere54? E come potrebbe essere nato55? [20] Se nacque, infatti, non è56, e neppure [è] se57 dovrà essere58 in futuro. linguaggio ma alla realtà oggettiva. Cordero (By Being, It Is, cit., p. 179) sostiene che per Parmenide la verità è prerogativa di un logos presentato da una via: solo per illegittima generalizzazione, la via stessa sarebbe da considerare vera. La verità risiede in un logos che, se valido, ha il privilegio di essere accompagnato dalla verità: così B2.4 recitava: Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ («di Persuasione è percorso – a Verità, infatti, si accompagna»). Più avanti (B8.51) Parmenide, introducendo la sezione del poema dedicata alla Doxa, utilizzerà la formula [νόημα] ἀμφὶς Ἀληθείης («pensiero intorno alla Verità»). Anche per la Wilkinson (Parmenides and To Eon…, cit., pp. 87 ss.) impropriamente una “via” può definirsi «vera»: seguendo Mourelatos, ella suggerisce che ἀληθείη nel poema si riferisca non alla via ma alla dea: la verità è connessa a Persuasione, Πειθώ, che sarebbe la dea stessa del poema; al centro del poema ci sarebbe il riferimento al discorso della dea; la via «è» potrebbe intendersi come «il mio discorso è». 52 Il valore di ἐτήτυμος (vero, genuino, reale) è sostanzialmente coincidente con quello di ἀληθής: i due termini sono impiegati sostanzialmente come sinonimi. Per le differenze Germani, op. cit., pp. 184-5. 53 Coxon (pp. 202-3) difende il testo del codice F: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοιτo ἐόν, e, rilevando in πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα formula ricorrente (tre volte) in Omero, in cui l’avverbio ἔπειτα si riferisce alle asserzioni che seguono, rende diversamente l’intero verso: «And how could what becomes have being, how come into being?». Il senso sarebbe quello di contestare che ciò che diviene (what becomes) possa essere Essere o diventare Essere. La variante (oggi trascurata) di Karsten - πῶς δ΄ ἂν ἔπειτ’ ἀπόλοιτο ἐόν («potrebbe poi perire ciò che è») - invece, introdurrebbe un argomento contro la corruzione. 54 Qui Parmenide usa eccezionalmente l’espressione τὸ ἐόν. 55 Ovvero «venuto a essere» o «divenuto», «essere stato». 56 Tarán (p. 105) ritiene che il senso dell’affermazione si colga nella contrapposizione tra il passato ipotetico di εἰ γὰρ ἔγεντο – aoristo che può riferirsi sia al processo compiuto di venire ad essere, sia a una condizione remota («fu») - e il presente di οὐκ ἔστι: dunque, se è venuto a essere, è ora diverso da come fu (Tarán p. 105). Analogamente per il secondo emistichio: se sarà, se avrà da essere, ora è diverso da ciò che sarà. Anche Mourelatos (pp. 102-3) richiama l’attenzione sulla scelta dei modi e dei tempi verbali di questo passaggio: γένοιτο, ottativo, non porta riferimento al tempo; ἔγεντo, 156 Così è estinta59 nascita e morte oscura60. aoristo, si riferisce a una azione puntuale nel passato; ἔστι, presente, veicola durata e continuità: se x è in un certo momento, allora non è in senso continuo e assoluto. O’Brien (“L’Être et l’Éternité”, in Études sur Parménide, cit., Tome II, p. 153) osserva come il presente οὐκ ἔστι non si riferisca al momento fuggevole intercalato tra passato e futuro, ma a un «presente» logico: al «nulla» anteriore a ogni possibilità di nascita («più tardi o prima»). Analogamente Cerri, che parafrasa: «se è nato (rinato), non esiste (nel momento in cui non è ancora nato\rinato) [...]» (p. 227). 57 Qui dovremmo intendere «se [è vero che]». 58 Il verbo μέλλω seguito da infinito futuro (ἔσεσθαι) può rendersi come «essere sul punto di, avere l’intenzione di». Si suppone che l’azione o la condizione indicata dall’infinito debba ancora avvenire. La presenza dell’avverbio (ποτε) rafforza questo aspetto temporale dell’espressione (O’Brien, “L’Être et l’Éternité”, in Études sur Parménide, cit., t. II, p. 139). McKirahan (p. 196) interpreta i vv. 19-20 come rivolti contro la generazione nel futuro, a completamento dell’argomento di B8.5-6, per cui ciò che è non può essere in futuro. Era rimasta aperta la possibilità che qualcosa che non è ora possa venire a essere in futuro: B8.19-20 negherebbero questa possibilità. Mourelatos (pp. 106-7) parafrasa diversamente il verso: «ciò che una cosa arriva a essere non è ciò che la cosa realmente è, nella sua essenza o natura». Egli vi coglie un contrasto non tra «arrivare a essere» e «essere durevolmente», piuttosto tra tempo e atemporalità. 59 O’Brien e Cerri pongono ἀπέσϐεσται («è estinta\spenta») come complemento verbale sia di γένεσις (genesi, nascita) sia di ὄλεθρος (distruzione, morte). Soluzione che abbiamo preferito a quella, adottata da molti, che invece sottintende il verbo essere nel secondo emistichio e fa di una due proposizioni coordinate: «Così generazione è estinta e distruzione ignorata». Secondo Thanassas (p. 46), l’analisi del primo segno intreccia intenzionalmente divenire e tempo, anticipando la correlazione aristotelica di tempo e mutamento. Gli enti individuali certamente sono sottomessi al divenire incessante: Parmenide non negherebbe ciò, dedicando al problema la parte più consistente del suo poema; ma nella Alētheia i segni non si riferiscono a enti particolari, bensì unicamente al loro Essere: solo questo Essere può rivendicare la estraneità a ogni forma di mutamento (pp. 48-9). 60 Cerri (pp. 227-8) osserva come – sulla scorta di assonanze omeriche – l’espressione ἄπυστος ὄλεθρος possa essere resa come «morte oscura (ma anche ignorata, oggetto di oblio)». Molto diversa la resa di McKirahan: «Thus generation has been extinguished and perishing cannot be investigated» (p. 196). Egli insiste (p. 223) sul legame tra ἄπυστος e il verbo πυνθάνεσθαι («imparare, investigare, cercare»), da cui anche παναπευθέα ἀταρπόν (B2.6), la via di ricerca scartata perché impossibile da investigare, da cui era impossibile, dunque, ricavare informazioni. In B8.21 ἄπυστος 157 Né è divisibile61, poiché62 è tutto omogeneo63; né c’è qui qualcosa di più64 che possa impedirgli di essere continuo65, conserverebbe lo stesso valore: la corruzione, la morte non possono essere oggetto di indagine, in quanto, come la generazione, impongono di seguire una via che non può assolutamente essere investigata. Si tratta di una osservazione già proposta da Mourelatos (p. 97), secondo il quale Parmenide non avrebbe ritenuto necessario argomentare contro la corruzione, rubricandola all’interno della via negativa: ciò spiegherebbe appunto l’uso di aggettivi come παναπευθής e ἄπυστος, riferiti alla via negativa e a ὄλεθρος. 61 L'espressione διαιρετόν ἐστιν può rendersi (ed è effettivamente tradotta) sia come «è divisibile», sia come «è diviso»: come osserva Leszl (p. 202), concettualmente la prima possibilità dipende dalla seconda, dal momento che l’operazione intellettuale della divisione non fa che rivelare divisioni già oggettivamente presenti (come attestato anche dagli argomenti di Zenone). Anche Thanassas (p. 50) rileva come, nella discussione del secondo segno, Parmenide punti a escludere la precondizione per ogni discriminazione interna dell’eon: esso non ha parti in cui possa essere articolato. Ne seguirebbe che, considerando ogni ente non come questa o quella cosa ma come Essere, non sarebbe possibile riconoscere differenze: ogni determinatezza svanirebbe all’interno della uniforme prospettiva dell’Essere. 62 Coxon (p. 203) sottolinea come da ἐπεί dipendano tutte le asserzioni successive (vv. 22-25). 63 Traduciamo così l’aggettivo ὁμοῖον, che altri rendono come «uguale»: ci sembra logicamente più efficace rispetto alla indivisibilità (οὐδὲ διαιρετόν). È possibile anche una lettura avverbiale e non predicativa di ὁμοῖον, da rendere (come fanno Owen, Guthrie, Stokes e Gallop): «esiste tutto allo stesso modo». Tarán e Mourelatos hanno tuttavia, con buoni argomenti, contestato tale lettura. McKirahan intende sia πᾶν sia ὁμοῖον con valore avverbiale: ciò-che-è non avrebbe dunque l’attributo di essere tutto uguale (o omogeneo), piuttosto ciò-che-è è in un certo modo, cioè tutto uguale, «interamente e uniformemente» (v. 11: πάμπαν πελέναι). È l’omogeneità che rende impossibile ogni discriminazione e divisione di ciò che è. Mourelatos (p. 114) ritiene che Parmenide sostenga logicamente πᾶν ἐστιν ὁμοῖον con πάμπαν πελέναι. In ogni caso la fondatezza della premessa di omogeneità è stata molto discussa: mancherebbe un argomento a sostegno nei versi precedenti. 64 Traduciamo l’espressione τι μᾶλλον genericamente come «qualcosa di più»: Coxon accentua il valore intensivo del comparativo («any more in degree»). 65 McKirahan (p. 197) sottolinea come συνέχεσθαι suggerisca non tanto continuità quanto «holding together», tenersi insieme, e accosta il significato 158 né [lì] qualcosa di meno66, ma è 67 tutto pieno68 di ciò che è69. [25] È perciò tutto continuo70: ciò che è si stringe71 infatti a ciò che è72. del verbo a quello dell’attributo ὁμοῦ πᾶν (v. 5), che egli traduce come «all together». Robbiano (p. 130) segnala come συνέχεσθαι possa riferirsi a unioni strette: l’unione sessuale di individui o le estremità annodate di una cintura. Il senso è comunque quello di estrema coesione. 66 Rendiamo τι χειρότερον come «qualcosa di meno», per rimanere coerenti con la scelta effettuata traducendo τι μᾶλλον. Coxon (p. 204) sottolinea ancora il valore intensivo dell’aggettivo: Parmenide in questo senso avrebbe usato χειρότερον (inferiore) e non *hsson (meno). 67 Intendiamo ἐόν come soggetto sottinteso; altri intendono πᾶν come soggetto («but all is full of Being», Tarán). 68 L’espressione πᾶν ἔμπλεόν ἐόντος vuol marcare come ciò che esiste è solo l’essere, quindi esso è continuo, omogeneo, “denso” d’essere (uguale in tutto e per tutto a se stesso). Tarán (p. 108) osserva come la continuità sia dedotta dalla omogeneità. Coxon (p. 204) parafrasa: «Being is adjacent to Being», che implica l’assenza di qualsiasi cosa di diverso dall’Essere. McKirahan (p. 197) insiste invece sulla completa pienezza di ciò che è, che consegue dal bando di «non è». Si tratterebbe, nella sua lettura complessiva di B8, di un “segno” fondamentale, che riformulerebbe πάμπαν πελέναι del v. 11, cui essenzialmente si riferirebbero molti altri attributi. Thanassas (Parmenides, Cosmos, and Being…, cit., p. 50), sottolineando come il contesto non sia quello di un’analisi fisica, ma di una considerazione ontologica (condotta alla luce della distinzione fondamentale tra Essere e Non-Essere), insiste nell’intendere l’espressione πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος come rilievo della «pienezza ontologica» (ontological plenitude) che non ha nulla da condividere con spazialità fisica, vuoto e massa. 69 McKirahan (p. 197) sottolinea il nesso tra πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος e πᾶν ἐστιν ὁμοῖον (v. 22): egli, infatti, intende in entrambi i casi πᾶν avverbialmente (come nel successivo v. 25 ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν), così che ἔμπλεόν ἐόντος risulterebbe equivalente a ὁμοῖον. 70 Ovvero «coeso». Riformulazione dell’inziale indivisibilità: Coxon (p. 204) osserva giustamente che, a parte la solitaria occorrenza di ἕν nel v. 6, ξυνεχὲς è l’unico termine parmenideo per «uno». McKirahan traduce diversamente il greco: dal suo punto di vista (p. 224), la relazione con συνέχεσθαι suggerisce di valorizzare il fatto che ciò che è «si tiene insieme» (holds together); così in vece di «continuo», con la sua ambiguità spazio-temporale, egli preferisce usare per ξυνεχὲς la formula, di difficile resa italiana, «holding together». 71 Il verbo πελάζω suggerisce l’idea di avvicinamento. In questo senso potrebbe essere tematicamente collegato tanto alla via quanto al viaggio che trascorre 159 Inoltre73, immobile74 nei vincoli75 di grandi catene76, lungo la via, seguendo i suoi segni. Robbiano (p. 133) insiste nel cogliere nella immagine ἐὸν ἐόντι πελάζει la suggestione dell’ultimo passo di un viaggio che si avvicina alla sua meta: l’Essere. 72 Abbiamo qui un passaggio in cui è dato intravedere come, facendo leva sui due "assiomi" di B2 - «è e non è possibile non-essere», «non è ed è necessario non-essere» - e dunque escludendo sistematicamente il ricorso al non-essere, Parmenide abbia potuto superare, nella nozione di τὸ ἐόν, la molteplicità dispersa degli enti, uniti e omogenei nell'«essere». In effetti Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 153) osserva come questi versi documentino il «continuo», dimostrando razionalmente il contatto di «ciò che è» con «ciò che è»: l’unità dell’essere sembrerebbe non escludere una sorta di molteplicità. Egli pone giustamente in relazione questo passo con B4. McKirahan (p. 197) sottolinea invece il valore figurato dell’espressione: una interpretazione letterale susciterebbe difficoltà. 73 Improbabile che nel contesto αὐτὰρ abbia valore avversativo: preferiamo attribuirgli valore progressivo (vedi Curd, The Legacy of Parmenides, cit., pp. 83-4). 74 L’aggettivo verbale ἀκίνητον può discendere dalla voce attivo-passiva o da quella media di κινέω: nel primo caso il suo significato sarebbe «non suscettibile di essere mosso dal proprio luogo»; nel secondo «non capace di muoversi dal proprio luogo» (Mourelatos, op. cit., pp. 117-120). Tarán giustamente sottolinea il nesso tra ἀκίνητον e ἀτρεμὲς (v. 4). L’aggettivo ἀκίνητον si riferirebbe sia alla immobilità sia, più in generale, alla immutabilità. Su questo si veda il commento. Una nuova, convincente luce sulla questione è stata – a nostro avviso – proiettata dalla lettura di McKirahan (p. 200), il quale insiste sul contesto immediato: «immobile» ha a che fare con i limiti dei grandi legami piuttosto che con assenza di generazione e corruzione. I vv. 27-28 ricavano dai precedenti vv. 6-21 due ulteriori conseguenze dell’essere ingenerato e incorruttibile, cioè senza inizio o fine, di «ciò-che-è» (ἐόν). Attributi che non hanno in alcun modo a che vedere con l’assenza di moto. Nel contesto l’espressione «immobile» coinvolgerebbe l’idea della natura fissa, limitata e costretta di ciò-che-è. In questa prospettiva rimane aperta la questione circa le convinzioni parmenidee sul movimento o cambiamento di ciò-che-è. Thanassas (p. 51) privilegia nella propria lettura un’immobilità fondata nell’assenza di relazioni con il Non-Essere: Parmenide escluderebbe il «movimento ontologico» che avvicina Essere e Nulla. 75 Ovvero «nei limiti» (πείρασι). Mourelatos (pp. 117-9) mostra efficacemente come alla nozione omerica di κινεῖν fosse associata non la nostra idea di traslazione rispetto a un punto di riferimento stazionario, ma quella di uscita, allontanamento da una posizione originaria e dai suoi limiti: il caso paradigmatico sarebbe, insomma, quello di "e-gresso", concettualmente 160 è senza inizio e senza fine77, poiché nascita e morte sono state respinte78 ben lontano79: convinzione genuina80 [le] fece arretrare. contrastante con la nozione di ὁδός («via»). Mentre il viaggiatore lungo la via raggiunge il luogo di destinazione, colui che si muove, invece, abbandona il suo luogo, supera, appunto, i suoi limiti. Il concetto di «via» è centripeto, quello di κινεῖν è centrifugo. La locomozione, in questo senso, sarebbe qualcosa di simile a un autoestraniamento: muoversi è essere oltre sé stessi, essere dove uno non è: è questa nozione di locomozione a essere oggetto di attacco nel paradosso della freccia di Zenone. Si esprime l’idea – arcaica, ma ancora operante in Aristotele (la teoria dei luoghi naturali) che il luogo di una cosa, con i suoi limiti-confini, sia parte della sua identità. La relazione tra ἀκίνητον e πείρατα escluderebbe dunque la locomozione intesa come moto assoluto, "e-gresso" dal proprio luogo specifico. 76 Giustamente Cerri (p. 229) segnala il cambiamento nel registro espressivo dell’autore, il cui linguaggio «torna alle movenze epiche del proemio». Questo passaggio, in particolare, è evocativo del mito prometeico, così come giuntoci nel dramma eschileo. Della relativa, breve discussione di Cerri, sembra opportuno valorizzare la possibilità che Parmenide e Eschilo (evitando improbabili contatti diretti) si ispirassero, per il tema dell’incatenamento e della conseguente immobilità, a un modello «già presente nella cultura mitico-filosofica della tarda arcaicità». Non è chiaro, tuttavia, il senso preciso dell’aggettivo «mitico-filosofica». Mourelatos (p. 115, nota), a sua volta, evoca un passo omerico (Odissea VIII, 296-98), che costituirebbe buon parallelo per l’immaginario parmenideo: ἀμφὶ δὲ δεσμοὶ τεχνήεντες ἔχυντο πολύφρονος Ἡφαίστοιο, οὐδέ τι κινῆσαι μελέων ἦν οὐδ’ ἀναεῖραι e tutto intorno le catene ingegnose chiuse, dell’astuto Efesto, ed essi non potevano più muoversi né sollevarsi. 77 Gli aggettivi ἄναρχον ἄπαυστον marcano la peculiare immutabilità dell’Essere, diversa dalla immobilità di ciò che si genera e corrompe. Per questo potrebbero implicare – se si accetta la lezione adottata – la formula ἠδ΄ ἀτέλεστον del v. 4. Coxon (p. 206) vi coglie un’eco delle affermazioni di Anassimandro (DK 12 A15): οὐ ταύτης ἀρχή, [...] ἀθάνατον γὰρ καὶ ἀνώλεθρον di esso non c'è principio [...] immortale e indistruttibile. 161 Identico e nell’identica condizione81 perdurando82, in se stesso83 riposa84, 78 All’aoristo ἐπλάχθησαν è possibile associare sia un significato attivo (Coxon: «becoming and perishing have strayed very far away»), sia un significato passivo (indicato in questo caso da Liddel-Scott): come suggerisce O’Brien (p. 53), il secondo emistichio del verso giustifica la resa passiva. 79 Coxon ricorda (p. 207) come l’espressione τῆλε μάλa occorra una sola volta in Omero ed Esiodo, dove si allude alla distanza del Tartaro: Parmenide potrebbe usarla per marcare analoga distanza dall’Essere di generazione e corruzione. 80 Traduco πίστις ἀληθής non con «reale credibilità» - come in B1.30: il diverso contesto – in particolare la sua impronta argomentativa, autorizza una differente accentuazione del valore di πίστις, intesa come convinzione, convincimento che scaturisce dall’esame condotto correttamente. In effetti il termine ha un suo specifico uso giudiziario (Heidel citato da Tarán p. 113), in cui designa l’evidenza o la prova addotta in tribunale. Il legame con la Realtà\Verità, espresso dall'aggettivo ἀληθής (reale, vera, veritiera, genuina), tuttavia, suggerisce di privilegiare il significato di convinzione. 81 L’espressione greca ἐν ταὐτῷ μένει è idiomatica, con valore variabile tra «restare nello stesso luogo» e «restare nello stesso stato» (Cerri p. 231). Heitsch (p. 172) e Coxon (p. 207) insistono piuttosto sulla condizione, Coxon escludendo il significato locale (come confermerebbe l’uso analogo dellespressione in Epicarmo, Sofocle, Euripide, Aristofane). Abbiamo privilegiato la seconda lettura per la sua portata più generale rispetto ai fenomeni del mutamento che Parmenide intende escludere dall’essere. McKirahan (p. 201) interpreta tutto il passo come una nuova sottolineatura del fondamentale rilievo della pienezza di ciò-che-è, riformulato nel linguaggio del limite, dei legami e della costrizione: in questo senso «identico e nell’identico» sarebbero implicazioni di «è pienamente». Anche le scelte verbali - «perdurare», «rimanere», «riposare» - supporterebbero questa lettura: ciò-che-è è pienamente e non può cessare di essere in quel modo. 82 L'intero verso 29 sembra evocare il frammento DK 21 B26 di Senofane: αἰεὶ δ’ ἐν ταὐτῶι μίμνει κινούμενος οὐδέν οὐδὲ μετέρχεσθαί μιν ἐπιπρέπει ἄλλοτε ἄλληι Sempre nello stesso posto permane, e per nulla si muove, né gli si addice spostarsi ora in un posto ora in un altro. 83 McKirahan (p. 201) rileva come καθ΄ ἑαυτό possa significare sia «per sé», «solo», «solitario», ma anche «indipendente» (prossimo al valore che gli darà Platone in riferimento alle Idee). Nella sua prospettiva si tratta di una 162 [30] e, così, stabilmente85 dove è86 persiste87: dal momento che Necessità88 potente89 espressione plausibile per descrivere qualcosa che è pienamente e non può cessare di essere in quel modo. 84 Opportunamente Conche (p. 155) richiama, per contrasto, le posizioni di Eraclito e, soprattutto, nell’accentuazione dello spirito eracliteo, di Epicarmo DK 23 B2.9: ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι μένει ora ciò che muta non rimane mai nel medesimo posto. I versi 29-30 sembrano riecheggiare, in negativo, quella concezione. Mourelatos (p. 119) osserva come la formula καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται manifesti noninterazione: il v. 29, dunque, esprimerebbe a un tempo, nella sua prima parte, autocontenimento e autoconsistenza, nella seconda parte isolamento, risultando complementare all’attributo ἀδιαίρετον. Thanassas (p. 52) valorizza il nesso tra ἐόν e identità: la saldezza dell’eon non si ridurrebbe alla semplice immobilità, al rifiuto di ogni relazione con il Non-Essere, ma scaturirebbe anche dal rilievo della identità (sameness) dell’eon con se stesso. 85 Rendiamo avverbialmente ἔμπεδον, che indica stabilità, fissità: come correttamente osserva McKirahan (p. 200), il termine nei suoi valori copre complessivamente le tre condizioni elencate al v. 29. 86 Traduciamo in questo modo αὖθι per evitare «qui», «là», che appaiono limitativi e troppo immediati (anche se non è da escludere a priori che proprio tale immediatezza fosse ricercata dall’autore). Conche (p. 156), invece, preferisce «qui», che indicherebbe – in parallelo con νῦν che è un «ora» non temporale – un «qui» non spaziale. 87 Come segnalano i commentatori, ἔμπεδον αὖθι μένει è formula epica, che richiama il celebre episodio in cui Odisseo si fa legare all’albero maestro della nave per resistere al canto delle Sirene (Odissea XII, 160-2): ἀλλά με δεσμῷ δήσατ’ ἐν ἀργαλέῳ, ὄφρ’ ἔμπεδον αὐτόθι μίμνω, ὀρθὸν ἐν ἱστοπέδῃ, ἐκ δ’ αὐτοῦ πείρατ’ ἀνήφθω ma con funi saldissime dovete legarmi, perché io resti immobile, ritto alla base dell’albero – ad esso siano fissate le corde. Nel nostro contesto il valore della espressione non è tanto locale quanto temporale: segnala l’esenzione dell’essere da qualsiasi variazione temporale (Coxon p. 208). Ruggiu (p. 299) sottolinea il carattere militare di ἔμπεδον μένει: «stare saldo in battaglia». In gioco sarebbe non la stabilità spaziale o 163 nelle catene del vincolo90 [lo] tiene, che tutto intorno lo rinserra91. temporale, ma l’esclusione di ogni alterità e il radicamento dell’identità. Come già segnalato in relazione a ἀτρεμὲς, McKirahan (p. 210) suggerisce una sostanziale sinonimia tra i due aggettivi: entrambi esprimerebbero il fatto che «ciò-che-è» è pienamente e non può cessare di essere pienamente, effetto dei limiti che costringono la natura di ciò-che-è. 88 Intendiamo Ἀνάγκη come nome proprio. Come Giustizia e Moira, Necessità è figura tradizionale e incarnazione della ineluttabile legge del destino (Tarán p. 117). Mourelatos, che identifica Necessità, Fato, Giustizia e Persuasione, traduce come «Constraint»: l’immagine della Costrizione che tiene ciò-che-è nel suo luogo rafforza la sua tesi secondo cui ἀκίνητον escluderebbe la locomozione intesa come moto assoluto, egresso dal proprio luogo specifico (pp. 118-9). Dalla triangolazione Giustizia, Fato (Moira), Costrizione risulterebbe che in Parmenide il concetto di rettitudine (Giustizia) assimila il concetto di necessità (Mourelatos p. 120). In un classico lavoro dedicato al concetto (W. Gundel, Beiträge zur Entwicklungsgeschichte der Begriffe Ananke und Heimarmene, Giessen 1914), Gundel individuò il significato di Ἀνάγκη nel passo in questione come Naturnotwendigkeit. Schreckenberg (H. Schreckenberg “Ananke. Untersuchungen zur Geschichte des Wotgebrauchs“, «Zetemata» 36, München 1964, pp. 1-188, cap. I) ne ha invece marcato la connessione tematica con altri termini, come giogo, catene, corde, con l’idea di legame, imprigionamento, schiavitù, rilevando così come sotto ananke non si sia in grado di scegliere che cosa fare. L’immagine platonica di σύνδεσμος τοῦ οὐρανοῦ avrebbe origine proprio in ambiente pitagorico, come Schreckenberg cerca di provare appoggiandosi alla testimonianza di Aëtius – Πυθαγόρας ἀνάγκην ἔφη περιεχεῖσθαι τῷ κόσμῳ - e collegandola alla nozione pitagorica di ἄντυξ κόσμου («limite del cosmo») e all’abbraccio cosmico di Ananke. In questo senso essa avrebbe la funzione di “destino” o “legge di natura”: qualcosa che si può esprimere in termini di legami che vincolano, l’uomo o l’universo (pp. 75-6). 89 L’espressione κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη richiama l’esiodea (Teogonia 517 ss.) κρατερῆς ὑπ’ ἀνάγχης, nella descrizione di Atlante che «sostiene l’ampio cielo per una potente necessità ai confini della terra», come segnalano vari commentatori. 90 Ovvero «nelle catene del limite» (πείρατος ἐν δεσμοῖσιν). Ancora l’insistenza sui vincoli, ancora da intendere sostanzialmente in senso logico, nonostante la tendenza da parte di alcuni interpreti a insistere sui limiti spaziali. L’associazione di Giustizia (v. 14) e Necessità suggerisce in effetti a McKirahan (p. 200) che in gioco siano soprattutto forza e\o costrizione. Nel riferimento ai vincoli e alle catene Barbara Cassin (“Le chant des Sirènes dans le Poème de Parménide. Quelques remarques sur le fr. 8.34", in 164 Per questo92 non incompiuto93 l’essere [è] lecito che sia94: Études sur Parménide, cit., t. II, pp. 163-169) ha colto un’eco di Odissea XII, 158-162: Σειρήνων μὲν πρῶτον ἀνώγει θεσπεσιάων φθόγγον ἀλεύασθαι καὶ λειμῶν’ ἀνθεμόεντα. οἶον ἔμ’ ἠνώγει ὄπ’ ἀκουέμεν· ἀλλά με δεσμῷ δήσατ’ ἐν ἀργαλέῳ, ὄφρ’ ἔμπεδον αὐτόθι μίμνω, ὀρθὸν ἐν ἱστοπέδῃ, ἐκ δ’ αὐτοῦ πείρατ’ ἀνήφθω Per prima cosa ci impone delle Sirene di evitare il canto e il loro prato fiorito. Posso ascoltarlo solo io, ma con fune saldissima dovete legarmi, così che io resti immobile, ritto alla base dell’albero – ad esso siano fissate le funi. 91 Il confinamento da parte di Necessità-Costrizione è paradigmatico della concezione tradizionale greca per cui giustizia è mantenere il proprio luogo specifico, rispettare il proprio ruolo (Mourelatos, p. 119). 92 La congiunzione οὕνεκεν ha etimologicamente (οὗ ἕνεκεν) il significato di «ragion per cui», «cosa a causa della quale»; ha anche il significato di «poiché», «a causa del fatto che» (privilegiato da Fränkel), e può essere usata come ὅτι con il valore di «che», «il fatto che». Nel contesto preferiamo la resa etimologica (privilegiata da Diels), ritenendo che la perfezione dell’essere sia giustificata in quel che precede, ancorché con il ricorso a un’immagine (la costrizione delle catene di Necessità) di probabile matrice letteraria. 93 Secondo Coxon (p. 208), Parmenide impiegherebbe ἀτελεύτητον nella sua valenza omerica di «unfinished». Rendiamo con «incompiuto», «imperfetto». Mansfeld (p. 100) sottolinea il nesso tra l’essere vincolato e l’essere compiuto e perfetto, recuperando come implicito nel greco anche il valore di «realizzazione» e, di conseguenza, l’idea di un vincolo che legherebbe la cosa alla propria realizzazione. Si veda per questo R.B. Onians, The Origins of European Thought about the Body, the Mind, the Soul, the World, Time and Fate, C.U.P., Cambridge19882, pp. 426-66. Mourelatos (p. 121) sottolinea come il verbo τελέω sia collegato al motivo del viaggio e abbia un'importante relazione con il verbo ἀνύω (consumare) e forse con l’idea di πεῖρας, come legame circolare. Nell’epica in generale il verbo esprime compimento, realizzazione di promesse, desideri, predizioni e compiti (comprensivi di viaggi). È in relazione a questa idea di compimento che il termine ammetterebbe il valore - più debole - di «fine», nel senso di «estremità» o «termine». 94 Abbiamo cercato di conservare la costruzione del verso greco, forzando la costruzione italiana. 165 non è, infatti, manchevole [di alcunché]; il non essere95, invece, mancherebbe di tutto. La stessa cosa96 invero è pensare97 e il pensiero98 che99 «è»: 95 Intendiamo l’espressione μὴ ἐὸν come participio sostantivo, in contrapposizione al precedente τὸ ἐὸν: quindi «il non essere» ovvero «ciò che non è» (espressione tuttavia meno felice nel contesto). Ci troveremmo in presenza di una articolazione del discorso imperniata su essere (τὸ ἐὸν) e non-essere (μὴ ἐὸν): non è lecito che l’essere sia incompiuto: in effetti non manca di niente; il non-essere, invece, mancherebbe di tutto». D'altra parte, μὴ ἐὸν può essere reso in senso verbale: letteralmente la Dea ipotizzerebbe: «se [l’essere] non fosse [non-manchevole], mancherebbe di tutto». 96 A questo punto avrebbe inizio secondo Mansfeld (p. 101) un excursus che impegnerebbe Parmenide fino al verso 41. Dello stesso orientamento anche Guthrie e Kirk-Raven, cui si oppone, per esempio, Mourelatos (p. 165). Molto convincente la lettura di McKirahan (p. 202): i vv. 34-41 esplorerebbero le implicazioni del precedente (B2.7-8) «non potresti conoscere ciò che non è […] né indicarlo». Se qualcosa è possibile conoscere o affermare, deve trattarsi non di «ciò-che-non-è», ma (come conseguenza dell’alternativa) di ciò-che-è. Esiste una proposta (originariamente suggerita da Calogero) di restauro del testo greco da parte di Theodor Ebert ("Wo beginnt der Weg der Doxa? Eine Textumstellung im Fragment 8 des Parmenides", «Phronesis», 34, 1989, pp. 121-138), secondo il quale il blocco di versi 34-41 andrebbe rilocato dopo il verso 52. Come ha di recente sottolineato anche J. Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 352-4), il testo guadagnerebbe in coerenza sia nel blocco centrale del frammento, sia in quello conclusivo. Dello stesso avviso Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 32 ss.). Ciò significherebbe, tuttavia, mettere in discussione l'affidabilità della redazione del poema utilizzata da Simplicio (che Diels riteneva «im Ganzen vortrefflich»): come ha sostenuto Passa nella prima parte del suo lavoro, il testo simpliciano ha alle spalle, in misura più accentuata rispetto ad altre fonti, un'interpretazione del poema di Parmenide in chiave neoplatonizzante e pitagorizzante, che può averne alterato la ricezione. Passa si limita tuttavia a indicare scelte espressive, mentre l'ipotesi Ebert (e ora Palmer e Ferrari) implica un vero e proprio montaggio del testo, aprendo una serie di possibili altri problemi testuali relativi ad altri passaggi dei codici manoscritti. A Ebert va dato atto, nello specifico, di aver sollevato un problema serio: nessun'altra fonte antica cita il v. 34 dopo il v. 33 o il v. 42 dopo il v. 41. 97 Rendiamo ἐστὶ νοεῖν letteralmente. Sulla traduzione, tuttavia, esiste grande discordanza. Prevalgono due orientamenti, che optano per una resa diversa: (i) «thinking is» (Owen, Sedley); (ii) «is to be thought» (Mourelatos), «is there to be thought» (Kirk-Raven-Schofield), «is for thinking» (Curd). McKirahan (p. 203) traduce «is to be thought of» intendendo l’espressione 166 [35] giacché non senza l’essere, in cui100 [il pensiero] è espresso101, come un richiamo di B2.2: ciò che è disponibile per il pensiero (ovvero “per essere pensato”). 98 Intendiamo il verso nel suo insieme come una ricapitolazione di B3 (a sua volta conclusione di B2): ciò che è è l’unico reale oggetto del pensiero. Solo ciò che è è disponibile come oggetto del pensiero e non esiste altro oltre ciò che è: quindi solo ciò che è può essere pensato (McKirahan, pp. 203-4). Sulla scorta di questa interpretazione, McKirahan suggerisce di interpretare anche l’affermazione di B5: «indifferente è per me donde debba iniziare: là, infatti, ancora una volta farò ritorno». 99 Intendiamo οὕνεκεν, in questo caso, come congiunzione equivalente a ὅτι («che»), come, tra gli altri, Calogero («La stessa cosa è il pensare e il pensiero che è»), Guthrie («What can be thought [apprehended] and the thought that “it is” are the same»), Tarán («It is the same to think and the thought that [the object of thought] exists»), O’Brien («C’est une même chose que penser, et la pensee: “est”»), Conche («C’est le même penser et la pensée qu’il y a»), Cassin («C'est la même chose penser et la pensée que "est"»). L'alternativa è rendere οὕνεκεν come formula pronominale, composta dal pronome neutro (caso genitivo) + preposizione. Questa lettura è difesa – tra gli interpreti recenti - da Reale («Lo stesso è il pensare e ciò a causa del quale è il pensiero»), Coxon («The same thing is for conceiving as is cause of the thought conceived»), Heitsch («Dasselbe aber ist Erkenntnis und das, woraufhin Erkenntnis ist»), Cerri («La stessa cosa è capire e ciò per cui si capisce»), Cordero («Thinking and that because of which there is thinking are the same»), Gemelli Marciano («Dasselbe ist zu denken und das, was den Gedanken verursacht»). Diels, intendendo come τὸ οὗ ἕνεκα con valore finale (ciò in vista di cui), aveva reso: «Denken und des Gedankens Ziel ist eins». Lo ha seguito Beaufret («Or c’est le même, penser et ce à dessein de quoi il y a pensée»). Lunga disamina critica in Tarán, pp. 120-3. Di recente McKirahan (p. 203) ha difeso la lettura causale di οὕνεκεν, ma ha avanzato l’ipotesi suggestiva che l’espressione abbia contemporaneamente anche una sfumatura finale. 100 Per evitare la difficoltà di una traduzione che sottolinea come il pensiero sia espresso «nell’essere», sono state proposte varie alternative. Zeller, Burnet, Cornford, Raven (tra gli altri) preferiscono rendere ἐν ᾧ con una perifrasi: «a soggetto del quale», «in riferimento al quale», «rispetto al quale». A conclusione di una lunga discussione (pp. 123-8), Tarán (seguendo Albertelli e Mondolfo) propone «in what has been expressed». A questa traduzione (cui ricorre anche Sedley) sono state tuttavia opposte obiezioni di ordine grammaticale (si veda Robbiano, p. 170). La Robbiano (pp. 169-170) intende ἐν ᾧ come equivalente a ἐν τούτῳ ἐν ᾧ, proponendo τὸ νοεῖν come soggetto di πεφατισμένον ἐστίν. Il passo in traduzione risulta quindi: «for without Being you will not find understanding in that where understanding 167 troverai il pensare. Né102, infatti, esiste, né esisterà altro oltre103 all’essere104, poiché105 Moira lo ha costretto106 a essere intero e immobile107. Per esso108 tutte le cose saranno nome109, has been given expression». In questo caso ἐν ᾧ non si riferirebbe a τὸ ἐόν, ma a una formula implicita per «le mie parole, i versi del mio poema». La dea spiegherebbe, insomma, che non si può trovare νοεῖν in ciò che esprime νοεῖν, se non si trova l’Essere (τὸ ἐόν): per raggiungere la comprensione non è sufficiente ascoltare le parole della dea, ma si deve trovare l’Essere. Preferiamo, come versione più naturale, la traduzione (per lo più adottata dagli interpreti recenti) che risale a Diels («denn nicht ohne das Seiende, in dem sich jenes ausgesprochen findet, kannst Du das Denken antreffen»). 101 Secondo Ruggiu (p. 303, nota), πεφατισμένον indicherebbe non solo che il pensiero è manifestativo dell’Essere, ma che l’Essere è tale in quanto fondamento di ogni manifestabilità. In questo senso, πεφατισμένον sarebbe equivalente a φατὸν e νοητόν (B8.8) e οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις (B2.7-8). 102 Rendiamo le due congiunzioni < ἢ >... ἢ precedute da οὐδὲν come «né…né». 103 La formula ἄλλο πάρεξ è adattamento di analoga formula epica (ἄλλα παρὲξ). 104 Secondo Mansfeld (p. 101) Parmenide affermerebbe in questo passaggio l’identità di pensiero e essere, implicando che il pensiero non possa essere qualcosa di altro, indipendente, contrapposto all’essere o comunque estraneo a esso. 105 Anche in questo caso è la costrizione della divinità di turno (Moira) a giustificare compiutezza e unicità dell’essere parmenideo. 106 Si ripete, con ἐπέδησεν, la suggestione dell’incatenamento, della costrizione (da intendere, fuor di metafora, in senso logico). La formula μοῖρ΄ ἐπέδησεν è epica. 107 Le due connotazioni - οὖλον ἀκίνητον – marcano l’integrità e immutabilità, reiteratamente richiamate nel frammento. Per ἀκίνητον, tuttavia, vale quanto segnalato sopra: la sua comprensione, come suggerisce McKirahan, è probabilmente da collegare alla metafora dei legami e della costrizione. Così, l’integrità di ciò che è (espressa da οὖλον) è sostenuta dall’immagine della costrizione a essere pienamente ciò che è. 108 Seguiamo Palmer (op. cit., pp. 171-2) nell'intendere τῷ come pronome relativo (riferito a τὸ ἐόν): dal momento che egli accoglie la lettura πάντ΄ ὀνόμασται del secondo emistichio, la sua traduzione risulta: «to it all things have been given as names». Lo studioso si appoggia a una costruzione analoga presente in Empedocle B8.4: φύσις δ’ ἐπὶ τοῖς ὀνομάζεται ἀνθρώποισιν 168 quante i mortali stabilirono110, persuasi che fossero reali111: [40] nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo112 e mutare luminoso colore113. natura è data come nome a questi [processi di mescolanza e separazione] dagli uomini. La resa pronominale di τῷ è comunque assolutamente compatibile anche con la lezione Diels-Kranz da noi adottata: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται Per esso [τὸ ἐόν] tutte le cose saranno nome. Per lo più gli editori hanno reso τῷ con valore assoluto come «perciò». 109 Il greco ὄνομα è singolare, per marcare l’identità nominale dei neutri plurali πάντα e ὅσσα: genericamente cose, eventi, fenomeni, la cui natura mutevole si rivela solo nome. La lezione alternativa dei codici di Simplicio - τῷ πάντ΄ ὀνόμασται - è variamente tradotta: «wherefore it has been named all things» (Gallop), attribuendo a τῷ valore avverbiale, ma anche «With reference to it [the real world], are all names given» (Woodbury), intendendo τῷ come un dimostrativo riferentesi a τὸ ἐὸν, ovvero (Leszl p. 231) «in relazione a questo è assegnato, come nome». Da osservare che una lunga tradizione risalente a Diels, ha tradotto l’emistichio introducendo un implicito aggettivo peggiorativo (blosser, ovvero «mero») al sostantivo «nome», assolutamente assente nel testo greco. Una diversa tendenza si è manifestata nelle versioni degli ultimi decenni. 110 Il verbo κατέθεντο ricorre tre volte nei frammenti del poema (qui, in B8.53 e B19.3): sottolinea la matrice linguistica della ordinaria comprensione del mondo. 111 Il greco è ἀληθῆ. McKirahan (p. 202) ha, secondo noi, correttamente colto il senso complessivo del passo: i vv. 34-38 argomentano che l’unico possibile oggetto di pensiero e linguaggio è ciò-che-è; i vv. 38-41 ricavano la conclusione che, a prescindere da ciò cui i mortali pretendano di riferirsi nei loro pensieri e discorsi, ciò cui essi realmente (veramente) pensano e possono pensare è ciò-che-è. Ciò-che-è è l’oggetto dei loro pensieri, anche di quei pensieri che ricorrono a formule proibite come generazione e corruzione. Leszl (p. 231) osserva come la tesi di Parmenide sarebbe che i «mortali» applicano all'essere – commettendo un errore – tutte le designazioni: il loro errore consisterebbe dunque nell'imporre nomi all'essere stesso, non nell'applicarli alle cose. 112 Tarán (pp. 138-9) ammette che, nella espressione τόπον ἀλλάσσειν, il sostantivo τόπος molto probabilmente significa «spazio vuoto». Parmenide, tuttavia, non sarebbe qui interessato a una polemica nei confronti dei 169 Inoltre, dal momento che [vi è]114 un limite115 estremo116, [ciò che è] è compiuto117 da tutte le parti118, simile119 a massa120 di ben rotonda121 palla122, sostenitori della esistenza del vuoto, ma solo a rilevare la contraddittorietà del fenomeno del moto locale. 113 Il secondo emistichio - διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν – è variamente tradotto. Coxon (pp. 211-2) rende con «change their bright complexion to dark and from dark to bright». Come Reinhardt, egli coglie un'allusione alla successiva teoria (DKB9) della composizione degli enti. Le differenze nelle traduzioni dipendono soprattutto dall’intendere χρόα – accusativo di χρώς, «colore» - come χροιά ovvero χρόα, «superficie». O’Brien (p. 56) sottolinea come al significato di «complessione» (cui si riferisce anche Coxon) sia nel contesto da preferire quello più generico di «colore». 114 La proposizione introdotta da ἐπεί può omettere ἐστι: la traduzione può renderlo in questo caso come predicato verbale (come abbiamo fatto) ovvero come copula: «il limite è estremo». 115 Mourelatos (pp. 128-9) nota come l’immagine dei legami e dei limiti si faccia progressivamente «più plastica e concreta» man mano che B8 procede, per raggiungere il proprio culmine appunto in questo passaggio. 116 L’aggettivo πύματος significa «estremo», «ultimo»: in Omero indica, per esempio, il bordo estremo di uno scudo, ciò che lo limita e oltre il quale non c’è più scudo (Conche p. 176). 117 L’espressione τετελεσμένον πάντοθεν indica la completezza di ciò che è, risultando equivalente di πάμπαν πελέναι. Come ha convincentemente marcato McKirahan (pp. 212-213), le indicazioni spaziali, letteralmente disseminate nei vv. 42-49, possono essere intese anche in senso metaforico. Si tratta di naturali sviluppi della nozione di πέρας, le cui prime occorrenze, anche in ambito filosofico, hanno a che fare con i limiti spaziali, ma che presto è usata anche per altre finalità, non spaziali (come attesta il contemporaneo di Parmenide Eschilo). Thanassas (pp. 53-4), dal canto suo, valorizza una interessante implicazione: il limite che abbraccia e conserva l’interezza del reale (preservandola dal Non-Essere), consente da un lato di riconoscere l’eon «completo da ogni lato», dall’altro di intendere tutte le apparenze (appearances) come equivalenti, come esseri. Ciò richiamerebbe l’affermazione conclusiva della dea nel proemio, che nella versione accolta da Thanassas e da noi condivisa suona: διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα, «tutte insieme davvero esistenti». 118 L’avverbio πάντοθεν, sia che lo si intenda riferito a τετελεσμένον ἐστί (come nel nostro caso), sia che lo si riferisca, invece, a εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, sembra esprimere comunque un punto di vista, una prospettiva “esterna” (Mourelatos p. 126). Come, d’altra parte, per lo più 170 suggeriscono anche le altre immagini del frammento (lacci, legami, catene che rinserrano tutto intorno). 119 L’aggettivo ἐναλίγκιον introduce indubbiamente una comparazione, che tuttavia non si riferisce, si badi bene, direttamente a σφαῖρη (palla, sfera), ma a ὄγκος (massa, estensione). 120 Il termine ὄγκος può tradursi come «massa», volume fisico (Coxon p. 214): in tal senso è da intendersi dunque la «ben rotonda palla». Parmenide si riferisce probabilmente all'estensione fisica, tridimensionale, e alla forma geometrica compiuta. Conche (p. 177) suggerisce «grosseur» o «corps». Di recente McKirahan (pp. 213-4), riprendendo la questione, ha ritenuto significativo che Parmenide non dica che «ciò-che-è» è una sfera o simile a una sfera, ma «simile al corpo di una sfera», una espressione giudicata «inaspettatamente elusiva». Non si tratterebbe, infatti, né di massa (nel senso di peso) della sfera, né della sua misura, né di altre qualità fisiche, né, pur avendo a che fare con la forma della sfera, di forma o superficie. L’espressione potrebbe approssimativamente tradursi come «estensione fisica»: «fisica» per suggerire che non si tratta di astratta nozione geometrica; «estensione», in vece di «misura», per evitare la tentazione di pensarla come una quantità determinata. Mourelatos (p. 126) aveva a suo tempo segnalato il fatto che ὄγκος è espressione parmenidea per estensione tridimensionale e che il carattere che essa accentua rispetto alla sfera è la forma. 121 Come suggerisce Mourelatos (p. 127), intendendo πάντοθεν riferito a εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, l’aggettivo εὔκυκλος definirebbe un oggetto che, osservato da tutte le parti, ha il contorno di un cerchio perfetto. Come abbiamo in precedenza ricordato, Tonelli (p. 117 e pp. 133-4) ha sottolineato il nesso tra εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ - riferito a τὸ ἐὸν – e ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ (B1.29): la forma sferica è forma archetipica della perfezione e della totalità. 122 Seguo Leszl (p. 211) nel tradurre σφαῖρη come «palla», analogamente all’omerico σφαίρῃ παίζειν (giocare a palla). Ciò rende più efficace l’accostamento: Leszl osserva che «se l’essere fosse detto «simile a una sfera», l’implicazione potrebbe essere che esso non è veramente una sfera, mentre se è detto «simile a una palla», la giustificazione per quest’affermazione può essere precisamente che è una sfera». L’espressione εὐκύκλου σφαίρης ὄγκῳ rivelerebbe invece, secondo Coxon (p. 214), che Parmenide qui non intende genericamente un corpo a palla, ma proprio la sfera (σφαῖρη), la cui perfetta rotondità è sottolineata dall’epiteto εὐκύκλου. In ogni caso è ancora da osservare – con Mourelatos (p. 126) - come la comparazione proposta non sia direttamente tra ciò-che-è e una palla, piuttosto tra la completezza di ciò-che-è e l’espansione-estensione di una palla perfetta, ben-rotonda. L’analogia si riferirebbe alla curvatura esterna della sfera. 171 a partire dal centro123 ovunque di ugual consistenza124: giacché è necessario che esso non sia in qualche misura di più, Diels e Brehier hanno voluto cogliere dietro l’espressione l’influenza pitagorica: essa alluderebbe, quindi, a una immagine geometrica. Conche (p. 177) ribatte marcando come, in tal caso, non avrebbe senso precisare εὐκύκλου. L’immagine sarebbe invece «fisica». Il sostenitore più coerente della natura geometrico-spaziale dell’Essere parmenideo è De Santillana (Le origini del pensiero scientifico, Sansoni, Firenze 1966): l’Essere sarebbe il risultato di un processo di astrazione in cui Parmenide avrebbe tenuto presenti spazio del matematico e spazio del fisico. L’Essere sarebbe dunque un plenum, un'estensione corporea densa, cristallina: la realtà fisica non sarebbe illusoria, ma avrebbe luogo nello spazio geometrico, occupandolo. Coerentemente con la propria interpretazione dei segni come indici della consapevolezza cognitiva del kouros, la Stemich (op. cit., p. 212) ritiene che l’immagine della sfera, cioè della più perfetta di tutte le forme, attesti che la conoscenza dell’essere è la forma più pura del pensiero: la somma facoltà di pensiero del kouros, nel momento della conoscenza dell’essere, è completamente conchiusa in se stessa, coincidendo a tutto tondo con la verità della Dea. 123 Dal momento che è difficile attribuire parti all’essere, il termine μεσσόθεν è stato spesso volto in senso metaforico. Concordiamo con Conche (p. 180), che il centro cui si riferisce la Dea sia quello del mondo e che ella sottolinei come in ogni parte dell’universo l’essere sia lo stesso. Coxon (p. 217), invece, sottolinea come l’equilibrio cui Parmenide allude con μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ sia di carattere «non-fisico», e funga da complemento alla nozione di perfezione universale (somiglianza con il volume della sfera), marcando la sussistenza in se stessa di questa perfezione, la sua totale ed eguale dipendenza dal suo proprio centro. 124 Intendiamo l’espressione μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ come un rilievo della compattezza dell’Essere: ἰσοπαλές concorda con il neutro ἐόν\τὸ ἐόν, non con il maschile ὄγκος (o il femminile σφαῖρη), dunque con il soggetto sottinteso («ciò che è»), non con «massa di ben rotonda palla». Dal centro alla superficie della sfera si esprime la stessa forza (Diels, Tarán), ovvero lo stesso «peso», lo stesso «equilibrio», la stessa «spinta». Ruggiu (p. 309), riprende (da Calogero, Vlastos, Mourelatos e Guthrie) l’idea che l’immagine della sfera esprima una «uguaglianza dinamica»: forza e potenza dell’Essere si estendono in modo uguale dal centro alla periferia e dalla periferia al centro, senza possibilità di differenza alcuna in intensità o potenza d’essere. O’Brien e Conche preferiscono rendere come «uguale a se stesso», privilegiando l’aspetto della omogeneità a quello dinamico dell’aggettivo: è in particolare rilevante la sottolineatura, da parte di Conche (p. 180), di un fatto che nel contesto può sfuggire: ἰσοπαλές si riferisce all’Essere e non alla sfera. Secondo Mourelatos (p. 127) avremmo qui, invece, la definizione 172 [45] o in qualche misura di meno 125, da una parte o dall’altra126. Non vi è, infatti, non essere127, che possa impedirgli di giungere a omogeneità128, né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è 129 - qui più, lì meno130, poiché131 è tutto inviolabile132. di equidistanza: ἰσοπαλές esprimerebbe l’idea di espansione uguale in ogni direzione. 125 Rendiamo in questo modo οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον, per sottolineare l’omogeneità dell’Essere in senso intensivo: non c’è un più o un meno d’essere. Si vedano anche i successivi τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον (v. 48). 126 Ruggiu (pp. 309-10) osserva come perfezione e stabilità dell’Essere non dipendano da vincoli esterni, ma dalla simmetrica distribuzione delle forze interne e dall’assoluta uguaglianza che sussiste tra le parti. 127 Traduciamo letteralmente οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι. Cerri (p. 239) osserva che, in questo caso, οὐκ ἐὸν «significa né più né meno che “vuoto”, “spazio vuoto”, “assenza di essere\materia”». 128 Traduciamo così l’espressione εἰς ὁμόν: il non-essere potrebbe teoricamente interrompere e discriminare l’identità e l’uguaglianza con se stesso di ciò che è. In questa direzione anche le traduzioni di O’Brien («à la similitude ») e Conche («à l’egalité à soi-même»). 129 Utilizziamo la forma dell’inciso (traducendo ἐόντος come «di ciò che è»), per facilitare la lettura in italiano. Avremmo potuto impiegare il pronome «di esso», ma abbiamo scelto di rimanere aderenti alla ripetizione greca. 130 L’espressione τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον ribadisce sostanzialmente omogeneità e uniformità già argomentate, e dunque la pienezza d’essere di ciò che è. Come ha osservato McKirahan (p. 213), Parmenide ha ogni motivo per concludere la trattazione di ciò-che-è sottolineando l’importanza della tesi che «ciò-che-è» è pienamente, esprimendola in modi differenti per catturare l’attenzione del suo pubblico e condurlo a comprendere il suo punto più chiaramente. 131 Recentemente Palmer (op. cit., pp. 157-8) – per evitare di fare del v. 49 (οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει) la ragione (γὰρ) dell'affermazione di v. 48b (πᾶν ἐστιν ἄσυλον), a sua volta proposta a giustificazione (ἐπεὶ) dei vv. 47-48a, che contengono una delle ragioni a sostegno di quanto affermato ai vv. 44b-45, rischiando così la circolarità – ha proposto di inserire un punto prima di ἐπεὶ, legando quindi il v. 48b al v. 49b: «Poiché è tutto inviolabile – dal momento che è a se stesso da ogni parte uguale – uniformemente entro i suoi limiti rimane». In questo modo 173 A se stesso, infatti, da ogni parte uguale133, uniformemente134 entro i [suoi] limiti rimane135. ἐπεὶ introdurrebbe la ragione per l'affermazione (riassuntiva) finale: «uniformemente entro i [suoi] limiti rimane». 132 Il termine ἄσυλον evoca uno sfondo religioso: ἀσυλία era concetto del linguaggio giuridico religioso e indicava la condizione di inviolabilità di persone o luoghi sacri, associati al culto, la violenza nei confronti dei quali era perseguita, come sacrilegio, con la condanna capitale. Secondo Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 150) l’allusione religiosa andrebbe posta in relazione con la rivelazione del proemio. Nel contesto l’inviolabilità può intendersi come altra faccia della costrizione che tiene insieme ciò che è, che gli impedisce di essere diversamente da come è: impossibilità che gli siano sottratti i suoi attributi o gliene siano imposti altri che non ha (McKirahan p. 213). 133 Parmenide afferma l’eguaglianza dell’essere con se stesso (οἷ πάντοθεν ἶσον) - che esclude non-essere e possibili gradi d’essere – in relazione ai suoi limiti. Come osserva Coxon (p. 216), l’Essere è universalmente uguale a se stesso nel senso che è uniformemente confinato da un limite (ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει), il quale, essendo estremo, non lo divide da qualcos’altro ma lo determina a essere quello che è e identifica la sua perfezione. Mourelatos (p. 127) suggerisce una lettura diversa: in riferimento alla sfera, si valorizzerebbe il fatto che è un oggetto sempre uguale a se stesso, da qualsiasi prospettiva lo si guardi. 134 Così rendiamo ὁμῶς, che si dovrebbe più letteralmente tradurre come «ugualmente», «allo stesso modo». Mourelatos (p. 127) sottolinea come dire di qualcosa che «è presente» ugualmente entro i suoi limiti sia un modo di affermare che è simmetrico. 135 Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 150) traduce κύρει come «tende»: il verbo introdurrebbe un elemento dinamico, in tensione con la precedente connotazione statica dell’essere, presentando l’essere quasi fosse un organismo vivente, che tende a espandersi come un respiro verso i suoi limiti. In questo modo l’essere sarebbe presentato dall’interno: dall’esterno ne sarebbe dunque accentuata l’immobilità, dall’interno il dinamismo. 174 DK B8 vv. 50-61 [50] ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης1 · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας2 ὀνομάζειν· τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν -· [55] ἀντία3 δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων, τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν 4, μέγ΄ ἐλαφρόν5, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε. [60] τόν6 σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη 7 παρελάσσῃ 8. 1 Come in B1.29 indendiamo Ἀληθείη come nome divino. 2 I codici DEEa F di Simplicio Phys. 39, 1 riportano γνώμας, forma per lo più accolta dagli editori; i codici DEF di Phys. 30, 23 e DEF2 di Phys. 180, 1 riportano invece γνώμαις. 3 Ι codici DE di Simplicio riportano ἐναντία; alcuni editori leggono τἀντία. 4 Nei codici DE di Simplicio ritroviamo ἤπιον τὸ in vece di ἤπιον ὄν. 5 I codici delle tre citazioni di Simplicio riproducono il verso 57 con evidenti irregolarità metriche, per la presenza di ἀραιόν (rarefatto) prima di ἐλαφρόν. Il testo risulterebbe dunque: «che è mite, molto rarefatto e leggero....». Si è per lo più ritenuto che uno dei due aggettivi fosse glossa dell'altro, con conseguente espunzione. La versione del testo che suggeriamo è quella per lo più adottata. Cerri, che sceglie di conservare il testo dei codici, senza espunzioni, in una lunga nota testuale, con grande acribia ricostruisce la probabile fisionomia del testo di Simplicio in questa forma:ἤπιον ἀραιόν ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν. Da osservare che il termine ἀραιόν («raro», «rarefatto») è probabilmente da considerare un termine tecnico della cosmogonia milesia (Anassimandro DK 12 A22, Anassimene DK 13 B1). Al contrario, il termine ἐλαφρόν non è attestato nel linguaggio fisico presocratico. Coxon (p. 223) considera ἀραιόν certamente parmenideo, in quanto utilizzato come opposto di πυκνόν da Melisso e Anassagora e nella tradizione dossografica sulla fisica di Parmenide. 6 L'aggettivo dimostrativo τόν è concordato con διάκοσμον. Karsten propose di correggere il testo dei codici con τῶν. Il senso sarebbe allora: «relativamente a queste cose, io ti espongo ordinamento del tutto verosimile». 175 [Fonti principali: vv. 1-52 Simplicio, In Aristotelis Physicam 145-146; vv. 50-61 Simplicio, In Aristotelis Physicam 38-39] 7 Nella trascrizione dei codici, alcuni editori (Stein, tra i contemporanei seguito tra gli altri da Coxon, O'Brien) intendono γνώμῃ. Il significato complessivo del verso cambia di poco: «così che nessuno dei mortali possa esserti superiore nell'opinione» ovvero «nel giudizio» (o «practical judgement» Coxon). 8 I codici Ea F di Simplicio riportano παρελάσση, i codici DE παρελάση: gli editori hanno corretto in παρελάσσῃ. 176 [50] A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile1 e al pensiero intorno a Verità2; da questo momento3 in poi opinioni4 mortali5 impara6, l’ordine7 delle mie8 parole9 ascoltando10, che può ingannare11. 1 L'aggettivo πιστὸν è immediatamente riferito a λόγον, ma può riferirsi anche a νόημα: in qualche caso le traduzioni scelgono questa strada. Qui abbiamo preferito mantenere distinti i due oggetti - πιστὸν λόγον e νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης – che ci sembrano reiterare e rafforzare lo stesso concetto. 2 Si potrebbe rendere νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης – e si deve comunque intendere - anche come «pensiero intorno alla realtà». 3 I due versi 50-51 segnano il passaggio tra una sezione l'altra: la conclusione della Verità è segnalata da ἐν τῷ σοι παύω, l'attacco della Doxa da ἀπὸ τοῦδε [...] μάνθανε. 4 Ovvero «convinzioni» o «considerazioni». 5 L'espressione δόξας βροτείας – in considerazione del soggetto divino della comunicazione - potrebbe forse rendersi semplicemente con «opinioni umane». 6 L'imperativo μάνθανε riprende, nell'introdurre la sezione sulla Doxa, il programmatico futuro μαθήσεαι di B1.31. Cerri (p. 242) sottolinea il valore "scientifico" che il verbo venne ad assumere all'epoca, non indicando il mero ascoltare e memorizzare, ma «l'essere fatto partecipe di una elaborazione scientifica, di una dimostrazione rigorosa ed esaustiva». Interessante soprattutto ritrovare un verbo come μανθάνω, senza dubbio positivamente connotato in termini gnoseologici, nell'imminenza dell’esposizione della Doxa: B10 presenterà ancora εἴσῃ («conoscerai»), πεύσῃ («apprenderai»), εἰδήσεις («conoscerai»). Lo stesso B11 doveva esordire con un'esortazione simile. Tutti indizi di consistenza, evidentemente riconosciuta dalla divinità al sapere che andava a esporre. 7 Si potrebbe forse rendere κόσμον ἐπέων come «costrutto verbale», «sintassi verbale». In ogni modo è da preferire una resa letterale del sostantivo κόσμος (come suggerisce O' Brien, p. 57: «arrangement») nel senso di τάξις (Anassimandro). Mourelatos (p. 226) indica come possibilità anche «forma». Nella cultura arcaica l'espressione ricorre tra l'altro in Solone (κόσμον ἐπέων ὠιδὴν fr. 2.2 Diels); nel V-IV secolo in Democrito (DK 68 B21): in entrambi i casi si sottolinea la composizione, l'artificio poetico. Coxon (p. 218), che rende il greco come «composition», sostiene che il termine sarebbe stato scelto per la sua congruità con il successivo διάκοσμος, «sistema», che la «composizione» deve esporre. Una interpretazione radicalmente diversa è quella di J. Frère ("Parménide et l'ordre du monde: fr VIII, 50-61", in Études 177 sur Parménide cit., vol. II, pp. 199-200), che legge il genitivo ἐμῶν ἐπέων come complemento indiretto («dalle mie parole») di ἀκούων, e κόσμον come «ordine del mondo». Robbiano (op. cit., p. 182) avanza l'ipotesi che κόσμος mantenesse in Parmenide il suo valore omerico (disposizione ordinata che è conveniente, che funziona e che è anche bella da vedere: il prodotto di un essere intelligente), precedente al riferimento (che per altro conservava aspetti della accezione originaria) all'universo (per la prima volta forse in Eraclito B30). Nello specifico, secondo la studiosa, kosmos si riferirebbe a prodotto della mente e della parola umana: a ciò che vediamo da una certa prospettiva (umana) e non a ciò che (e come) le cose sono nell'ottica divina. Nehamas ("Parmenidean Being/Heraclitean Fire", cit., p. 60) ha invece ipotizzato che κόσμος significhi nel contesto il mondo di cui la dea parla: «da questo punto in avanti, impara le opinioni mortali, venendo a conoscere (attraverso l'ascolto) il mondo ingannevole cui le mie parole si riferiscono». È possibile che le affermazioni di cui consta la Doxa, la teoria che essa contiene, non siano di per sé erronee, che descrivano correttamente un mondo di per sé ingannevole, in quanto mascherato da realtà quando è solo apparenza. 8 L'uso dell'aggettivo possessivo sottolinea l'autorità della comunicazione e l'assunzione di responsabilità nell'introduzione della sezione sulla Doxa: analogamente ai pronomi personali ἐγὼν (B2.1), μοί (B5.1), ἐγὼ (B6.2), ἐγὼ (v. 60). 9 Coxon (p. 218) segnala l'opposizione di κόσμον ἐπέων a λόγος: «discorso poetico» sarebbe contrapposto a «discorso razionale». D'altra parte la cultura del V secolo riconosceva un nesso tra ἔπη e δόξα (come risulta da Euripide, Eracle 111). Cerri (p. 243) non è, tuttavia, disposto a esagerarne, nel contesto, le implicazioni: in particolare, l'irrazionalità e l'ingannevolezza delle parole che seguono sarebbero solo relative. Tarán (p. 221) sottolinea come la Dea, pur impiegando parole secondo le regole della grammatica e della poesia, non potrà evitare che il suo discorso risulti decettivo. 10 Nuovamente (dopo B2.1) il κοῦρος viene invitato ad ascoltare, a manifestare con la disponibilità all'ascolto la propria aspirazione alla conoscenza. 11 Dobbiamo a J. Frère (op. cit., p. 201) il rilievo circa il significato antico di ἀπατηλός: che non sarebbe, come per il corrispettivo moderno, «ingannevole», piuttosto «suscettibile di ingannare». La sua resa francese è la seguente: «[un ordre du monde], où l'on peut se trompeur». Lo studioso propone in effetti di collegare κόσμον e ἀπατηλὸν, senza fare di ἐμῶν ἐπέων un genitivo dipendente da κόσμον, ma vedendovi un complemento di ἀκούων (p. 199). Reale sceglie di rendere l'aggettivo con «seducente»: Ruggiu nel suo commento (pp. 313) sottolinea come il senso dell'aggettivo vada colto nella relazione di apertura alla verità e all'errore (come sarebbe proprio di ogni seduzione), alla luce del suo oggetto, l'apparire. Mourelatos (p. 227) ha valorizzato le potenziali ambiguità della formula κόσμον ἐπέων 178 Presero12 la decisione13, infatti14, di dar nome15 a due16 forme17, ἀπατηλὸν: è la stessa combinazione di parole a celare la tensione di idee contrarie. L'espressione κατὰ κόσμον indica, in effetti, parlare veritativamente, appropriatamente: la polarità κόσμος-ἀπάτη segnalerebbe sia che le δόξαι sono decettive, sia che l'ordinamento delle parole della dea o il loro contesto può suggerire molteplici e\o confliggenti significati. In questo senso Mourelatos invita a tenere a mente la formula esiodea ἐτύμοισιν ὁμοῖα («simili a cose vere», Teogonia 27) e l'espressione ἀμφιλλογία (da tradursi come come «double talk», Teogonia 229), che Esiodo intenderebbe deliberata e maliziosa. Affascinante l'accostamento omerico all'episodio di Odisseo e Polifemo. Lo studioso ne ricava (p. 228) nel contesto una lezione di ironia da parte di Parmenide: i mortali praticano "anfilogia" innocentemente (senza saperlo), cadendo quindi in errore; la dea usa l'anfilogia in modo pienamente consapevole, svelando quindi la verità sulle opinioni umane! 12 Anche chi, come Coxon (p. 219), ritiene che il modello dualistico proposto nella Doxa possa risalire al pitagorismo antico, è convinto che κατέθεντο abbia comunque come soggetto genericamente «gli esseri umani», cogliendo una connessione tra lo stabilire nomi di questo verso e quanto sostenuto nei vv. 34-41. Tuttavia il problema del soggetto del verbo si pone: Frére (p. 203), per esempio, osserva come sia difficile pensare che tutti i «mortali» possano essere assunti come «dualisti», e decide di indicare come soggetto «alcuni» (certains). Seguendo la proposta di Ebert ("Wo beginnt der Weg der Doxa? Eine Textumstellung im Fragment 8 des Parmenides", cit.) di leggere la sequenza dei vv. 34-41 dopo il v. 52, il soggetto di κατέθεντο (e dei successivi ἐκρίναντο e ἔθεντο) diventerebbe βροτοί. Ma quali? Couloubaritsis (Mythe et philosophie, cit., p. 261) ritiene, per esempio, che, diversamente dai mortali (senza discernimento, che nulla sanno) di B6, i βροτοί di cui la Dea parla negli ultimi versi di B8 si siano smarriti solo su un punto preciso (B8.54). 13 Secondo Cerri (p. 245), la sequenza di aoristi (κατέθεντο, ἐκρίναντο, ἔθεντο) rivelerebbe un riferimento del discorso della Dea a un lontano passato. Secondo Diels (Parmenides Lehrgedicht, cit., p. 92) γνώμη κατατίσθεσθαι sarebbe da considerare formula abituale: Liddell-Scott traducono nel nostro caso κατέθεντο γνώμας ὀνομάζειν come «recorded their decision, decided to name». Si potrebbe rendere come «si decisero a nominare». In alternativa si potrebbe costruire il verso facendo dipendere da κατέθεντο («stabilirono») μορφὰς δύο («due forme») e attribuendo all'infinito ὀνομάζειν valore finale (per dar nome), con γνώμας come oggetto diretto: «stabilirono due forme per dar nome ai loro punti di vista» (soluzione vicina a quella adottata da Cerri). O ancora, considerare (come Deichgräber) sia γνώμας sia μορφὰς come oggetti retti da κατέθεντο («posero due forme 179 [come] principi per nominare»). Cordero fa, invece, di δύο γνώμας l'oggetto diretto di κατέθεντο e traduce quindi: «They estabilished two viewpoints to name external forms». Couloubaritsis (Mythe et philosophie cit., pp. 278-9) propone una soluzione analoga, intendendo γνώμας come «marque signifiante»; ne risulta: «En effect, ils proposèrent deux formes pour nommer les marques signifiantes». Pur essendo la struttura della frase molto diversa, nella sostanza il significato non muterebbe, come sottolinea anche Conche (p. 190). Frére (p. 203), invece, sottolinea come κατέθεντο non possa in questo caso essere costruito con il complemento diretto. Tenendo conto del fatto che· (i) i vari significati del termine γνώμη sono riconducibili essenzialmente a giudicare, pensare e (conseguentemente) decidere; (ii) nel contesto γνώμας si dovrebbe rendere con «opinioni», «giudizi», «punti di vista»; (iii) esiste nei codici DEF la variante γνώμαις: se accolta, la traduzione dovrebbe risultare: «[Uomini] stabilirono, infatti, due forme per nominare sulla base delle [loro] opinioni»; (iv) in alternativa γνώμας potrebbe essere inteso come accusativo di relazione (Frére: «en leurs jugements») – tutto ciò considerato, optiamo per la soluzione più lineare: quella di intendere κατέθεντο γνώμας come «risolvettero i [loro] punti di vista» e dunque tradurre «presero la decisione», «si decisero a». Va menzionata l'analisi di Mourelatos (pp. 228-9), che riscontra nel verso una costruzione a conferma della sua lettura "anfilogica" della sezione: l'effetto sarebbe quello di far avvertire all'uditore/lettore la tensione tra γνώμην κατέθεντο («essi decisero») e κατέθεντο δύο γνώμας (l'opposto: «essi erano di due opinioni, vacillavano»; situazione che può richiamare quanto espresso da δίκρανοι, B6.5). 14 Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., p. 354) ha di recente sottolineato come γὰρ qui abbia poco senso nel contesto, in quanto quel che segue non sembra giustificare le affermazioni della dea nei vv. 51-2: assumerebbe altro valore accettando la proposta di Ebert di "restaurare" i vv. 34-41 dopo il v. 52. In realtà la Dea, in quel che segue, illustra proprio come e dove possa annidarsi la distorsione nel punto di vista umano che va a presentare. 15 La decisione di nominare implica un’arbitrarietà che Parmenide ha già stigmatizzato in B8.38b-39: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ Perciò tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali. Sullo stesso motivo ancora in B19: 180 οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ. Così appunto, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, a partire da ora, sviluppatesi, moriranno. A queste cose un nome gli uomini imposero, particolare per ciascuna. Se teniamo conto della proposta di restauro del testo (vv. 34-41 dopo v. 52) da parte di Ebert, potremmo effettivamente concludere che l'arbitrio della convenzione linguistica è indissociabile dalla concezione parmenidea della Doxa. Leszl (p. 230) ha colto in questo un’anticipazione della distinzioneopposizione tra nomos e physis. 16 Interessante la proposta di Leszl (p. 230): egli suppone infatti che δύο abbia una doppia associazione, traducendo: «i mortali con doppia mente hanno dato nome a due forme». La descrizione dei mortali corrisponderebbe così a quella di B6.4-5. 17 Il valore di μορφαί sarebbe nel contesto, secondo Cerri (p. 246) quello di strutture categoriali, create dall'uomo in funzione delle sue (due) sensazioni più urgenti, sulla base delle quali si costruirebbe successivamente la trama complessa delle parole. Un parallelo in Platone, che sembra evocare direttamente il verso parmenideo: θῶμεν οὖν βούλει, ἔφη, δύο εἴδη τῶν ὄντων, τὸ μὲν ὁρατόν, τὸ δὲ ἀιδές vuoi che stabiliamo, disse, due categorie di tutto ciò che è, l'una del visibile, l'altra dell'invisibile? (Fedone 79 a 6-7). Nella stessa direzione Robbiano (op. cit., p. 181), che vede nelle due forme opposte la possibilità di ridurre il molteplice dell'esperienza «to a minimal number of categories». Per rimanere vicino all'uso arcaico del termine, Cordero (By Being, It Is, cit., p. 156) insiste per rendere μορφαί come «external forms». Analogamente Frére (p. 204) – che opta per «figures», anche alla luce del successivo riferimento a δέμας, che designa corpo e aspetto fisico - e Mourelatos, che rende con «perceptible forms». Granger (“The Cosmology of Mortals”, in Presocratic Philosophy, cit., p. 112) osserva come la scelta di μορφαί (che significa appunto anche «forme esteriori», «apparenze per un osservatore») potrebbe segnalare il fatto che la dea si è volta dalla realtà alle apparenze. 181 delle quali l’unità18 non è [per loro]19 necessario [nominare]20: in ciò sono andati fuori strada21. 18 L'interpretazione del valore di τῶν μίαν è stata oggetto di interminabile dibattito (che origina nell'antichità!). La traduzione più fortunata è quella (proposta tra gli altri da Zeller e alla fine accolta anche da Diels, inizialmente critico) che intende rilevare come, delle due forme imposte dai mortali, una non avrebbe dovuto essere introdotta, una è «di troppo» (ci si riferisce spesso alle due forme come repliche di Essere e Non-Essere: la seconda non avrebbe dovuto essere nominata); ciò costituirebbe l'errore dei mortali secondo la Dea. Si tratta di fatto dell’interpretazione di Aristotele; essa è stata oggetto di critica, in quanto: (i) da un punto di vista linguistico intende μίαν come se fosse ἑτέρην (non si potrebbe leggere in μίαν il significato di «una delle due»); (ii) da un punto di vista interpretativo accosta arbitrariamente essere e luce e non-essere e tenebra. Una seconda linea di lettura (proposta tra i contemporanei in particolare da Kirk-Raven) sottolinea come i mortali abbiano stabilito di nominare due forme, di cui non si deve nominare una sola (cioè una senza l'altra), come specificato da Raven: «two forms, of which it is not right to name one only (i.e. without the other)». Coxon segue la stessa linea. Una terza esegesi (anticipata da Reinhardt e Kranz e poi seguita Verdenius, Deichgräber, Untersteiner, Pasquinelli, Schofield) fu proposta da Cornford, intendendo τῶν μίαν οὐ = οὐδετέραν: i mortali hanno errato nell'introdurre (oltre all'essere) due forme: nessuna delle due avrebbe dovuto essere nominata: «mortals have decided to name two Forms, of which it is not right to name (so much as) one». La Curd l'ha riproposta all'interno della sua analisi delle due forme come «enantiomorfe». Tarán (p. 219) ha sottolineato come tale resa sottintenda qualcosa (οὐδὲ μίαν) che il testo greco non propone. Una quarta possibile interpretazione è quella che abbiamo seguito: si può ritrovare già nell'edizione del poema di Diels (1897), ma è stata soprattutto ripresa e approfondita da H. Schwabl ("Sein und Doxa bei Parmenides", «Wiener Studien», 1953, p. 53 ss.) e poi adottata da Tarán («for they decided to name two forms, a unity of which is not necessary»), Couloubaritsis e da Reale. Gli uomini pongono due principi che non si possono ridurre a unità, in ciò cadendo in errore. Il genitivo del pronome (τῶν) non può essere partitivo (in tal caso avremmo ἑτέρην) ma collettivo, e riferirsi a entrambe le μορφαί. Conclusione: μία (da intendere in senso numerico) deve essere «una unità» delle δύο μορφαί. Insomma l'errore consisterebbe nel porre due forme e nel non cogliere che sono riconducibili a un'unica realtà (l'essere). Fondamentale dunque l'accurata traduzione di Schwabl dei vv. 53-4, che alcuni ritengono l'unica grammaticalmente accettabile (Mansfeld, p. 126): denn sie legten ihre Meinung dahin fest, zwei Formen zu benennen, 182 von denen die Eine (d.h. eine einheitliche, die beiden zusammenfassende Gestalt) nicht notwendig ist; in diesem Punkte sind sie in die Irre gegangen. Si tratta di una lettura sollecitata dallo stesso commento di Simplicio (Fisica 31, 8-9): τοὺς τὴν ἀντίθεσιν τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας [si sono ingannati] coloro che non colgono l'unità nella opposizione degli elementi che producono la generazione. Su queste esegesi si diffonde Reale nel suo aggiornamento a Zeller-Mondolfo, Eleati, cit., pp. 244 ss.. Di recente Palmer (op. cit., pp. 169-170) ha contestato la soluzione di Schwabl, ribadendo che il significato di τῶν μίαν è «one of these», portando a esempio un testo di Erodoto (IX, 122), dove, però τῶν μίαν è riferito a una pluralità di luoghi (πολλαὶ ἀστυγείτονες) e non all'alternativa tra due elementi (che richiederebbe appunto ἑτέρην). 19 Importante per il senso complessivo stabilire se la mancata postulazione è tesi della Dea ovvero parte della sua analisi dell'errore dei mortali. Abbiamo scelto di seguire questa seconda opzione, che ci sembra suggerita anche dalla relativa seguente. Dello stesso avviso J.H.M.M. Loenen, Parmenides Melissus, Gorgias. A Reinterpretation of Eleatic Philosophy, Van Gorchum, Assen 1959, pp. 117-120. 20 L'espressione con valore modale χρεών ἐστιν richiede l'infinito: sottintendiamo ὀνομάζειν. Nei precedenti (B2.5; B8.11, B8.45) Parmenide utilizza εἶναι o πέλεναι, ma l'accusativo μίαν suggerisce nel contesto ὀνομάζειν. 21 Il perfetto medio-passivo πεπλανημένοι εἰσίν equivale a «si sono sbagliati»: conserviamo il valore implicito in πλανάομαι. Coxon (p. 220) osserva come l'uso del perfetto distingua l'allusione storica ai pensatori ionici dall'analisi dello status delle due forme espresso dall'aoristo κατέθεντο. In particolare, πεπλανημένοι εἰσίν richiamerebbe B6.4-6, per l'uso di πλάζονται (la variante che Coxon accoglie in vece di πλάσσονται) e dell'espressione πλακτὸν νόον. In questo modo si chiarisce anche che le allusioni di quel frammento erano ai pensatori ionici. La natura dell'errore cui si allude dipende dalla lettura dell'emistichio precedente: aver posto due principi, distruggendo il monismo ontologico, ovvero aver posto due principi senza coglierne l'unità; aver posto un solo principio. Secondo Patricia Curd (The Legacy of Parmenides…, cit., pp. 104 ss.) l'errore dei mortali sarebbe da ravvisare nel fatto che essi hanno fondato la Doxa su due opposti di genere speciale: enantiomorphs, «oggetti che sono immagini speculari l'uno 183 [55] Scelsero22 invece23 [elementi]24 opposti25 nel corpo26 e segni27 imposero dell'altro [...] definiti in termini di ciò che l'altro non è» (p. 107), dunque in una sorta di intreccio di essere e non-essere. Thanassas rimarca la connessione tra κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν e ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν: la formula «in questo essi si sono ingannati» concorrerebbe a restringere la validità del termine «ingannevole» alle «opinioni mortali» criticate in 8.54- 9, così da aprire la possibilità di una nuova comprensione della relativa incidentale (τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν). Essa esprimerebbe esattamente l’errore denunciato in quel che segue, poi corretto dalla «appropriata» Doxa divina (p. 65). 22 Seguiamo Coxon (p. 221) nel rendere – secondo il consueto uso epico di κρίνεσθαι - ἐκρίναντο come «scelsero». Anche in questo caso si pone il problema del soggetto: si tratta dello stesso soggetto di κατέθεντο? Ovvero, come crede Frére (p. 204), di altro soggetto, per cui «alcuni presero la decisione di dar nome a due forme» e «alcuni invece scelsero... e segni imposero»? Optiamo per la continuità di un soggetto indefinito. 23 Traduciamo δέ attribuendogli valore avversativo (per lo più non è tradotto o gli viene aatribuito valore copulativo), nella convinzione che la Dea, faccia seguito al proprio rilievo critico del verso precedente. 24 Forzando l'interpretazione, sottintendiamo «elementi» (e non genericamente «cose») nel neutro plurale ἀντία. Simplicio in effetti parla di ἀρχαί e στοιχεία. Mansfeld (p. 140), sulla scorta di Deichgräber, sostiene che i «segni» con cui sono connotate le due forme concorrano a definire la nozione di «elemento», con cui, nella sua trattazione, sostituisce il termine «forma». 25 Alcuni interpreti (per esempio O' Brien e Frère) intendono ἀντία come avverbio («in modo contrario», «oppositivamente») riferendolo alle due forme nominate, «relativamente al corpo» (δέμας, accusativo di relazione). Altri, invece, pongono δέμας come oggetto diretto di ἐκρίναντο e pongono l'avverbio in relazione a esso. Coxon, dal canto suo, fa di πῦρ e νύκτα gli oggetti diretti e di ἀντία un predicativo. Intendiamo ἀντία come neutro plurale. 26 Il termine δέμας è sempre riferito a corpi viventi: secondo Coxon (p. 221) ciò rivelerebbe che Parmenide considera le due forme come divinità. Conche (pp. 194-5) ritiene che il significato omerico di forma corporea non possa funzionare nel contesto: risalendo al valore di δέμω (che indicherebbe un certo modo di costruire, per sovrapposizione di linee uguali), egli individua «struttura» come resa più sensata. 27 Il termine σήματα avrebbe, secondo Cerri (p. 248), qui il valore di «segni di lingua», «parole». Nella scelta di ἐκρίναντο e di σήματα, Mansfeld (p. 131) 184 separatamente28 gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma etereo fuoco29, che è mite30, molto leggero, a se stesso in ogni direzione identico31, coglie una ripresa della «disgiunzione» (κρίσις) di B2 e delle proprietà dell’essere (B8). 28 Rendiamo χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων come espressione avverbiale, per ribadire l'opposizione (ἀντία δ΄ ἐκρίναντο). 29 Coxon (p. 221) ritiene che Parmenide, pur concordando nella sostanza con Eraclito sul fatto che il fuoco è costituente ultimo del mondo fisico, nella scelta della coppia luce-notte rivelerebbe come sua fonte immediata la tavola degli opposti pitagorica. Charles Kahn, invece - nel suo fondamentale Anaximander and the Origins of Greek Cosmology, Hackett, Indianapolis 1994 (originariamente Columbia U.P., New York 1960), p. 148 -, ha mostrato come l'espressione φλογὸς αἰθέριον πῦρ risenta della omerica connotazione di αἰθέρ (da αἴθω, «accendere, infiammare») come «celestial light», originariamente indicante una condizione del cielo e solo derivatamente l'elemento luminoso e raggiante connesso alla regione superiore dell'atmosfera, a contatto con la copertura celeste (οὐρανός): nel tempo, insieme al correlato ἀήρ, avrebbe modificato il proprio significato, finendo nel V secolo a.C. per indicare una regione di puro fuoco (come ancora attesta Anassagora in DK 59 B1, B2, B15). I sostantivi πῦρ e νύκτα (accusativi) sottintendono un verbo reggente: nella nostra traduzione si tratta di ἐκρίναντο. 30 L'aggettivo ἤπιος è per lo più tradotto con «mite», che nel contesto, dopo il richiamo a φλογὸς αἰθέριον πῦρ, potrebbe apparire insensato: in alternativa Cerri (p. 249) propone «utile» o «propizio». Ma anche questa soluzione, soprattutto nel confronto oppositivo con i «segni» di «notte oscura», appare poco convincente. Manteniamo «mite», nel senso fisico, suggerito da Frére (pp. 207-8), di «non intenso». 31 La due forme - «fuoco etereo» e «notte oscura» - sono poste a un tempo con la caratteristica identità uniforme dell'essere e con la non-identità rispetto alla forma opposta. Si tratta di caratteri fondamentali per l'interpretazione della cosmologia parmenidea: il sistema di spiegazione adottato riflette proprietà emerse dall'analisi della Verità. Su questo punto in particolare Graham (pp. 170-1). Couloubaritsis (Mythe et philosophie cit., pp. 281 ss.) vede in questo rilievo una sorta di indulgenza della Dea nei confronti dei «mortali» in questione, i quali si attengono parzialmente alla legge dell'essere: ciò consentirebbe di riconoscere i Pitagorici dietro alle espressioni parmenidee. Come abbiamo sopra ricordato, Mansfeld (p. 140) individua nei «segni» con cui Parmenide connota le due forme la nascita della nozione di «elemento»: 185 rispetto all’altro, invece, non identico32; dall’altra parte, anche quello in se stesso33, le caratteristiche opposte34: notte oscura35, corpo denso e pesante36. proprio «auto-identità» e «non-identità» rispetto alla forma contraria ne sarebbero i costitutivi concettuali decisivi. 32 Forse è proprio questo rilievo a segnalare il limite della posizione criticata: come suggerisce Couloubaritsis (Mythe et philosophie cit., p. 288) non aver saputo cogliere fino in fondo la legge della identità e non aver posto, per la conoscenza, l'orizzonte dell'unità. È possibile che il gioco di τωὐτόν - μὴ τωὐτόν richiami le «schiere scriteriate» (ἄκριτα φῦλα) di cui in B6.8-9a si dice: οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν [...] per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa. A questo ha di recente prestato attenzione Granger ("The Cosmology of Mortals", in Presocratic Philosophy, cit., p. 111). Mansfeld (pp. 133-4) ha osservato come l’identità dell’essere sia differente da quella delle due forme: l’auto-identità dell’essere è identità nella quiete. L’auto-identità delle forme, inoltre, è auto-identità di aspetto che non esclude ma anzi concede allo stesso tempo una contraria auto-identità di aspetto. Nehamas (“Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, in Presocratic Philosophy, cit., p. 55) ha invece sottolineato come i due principi della Doxa - separati l'uno dall'altro, ognuno completamente identico a sé e differente dall'opposto - non si mescolino in alcun modo l'uno con l'altro: la loro «separazione radicale» sarebbe dunque, «linguisticamente e filosoficamente», contraria alla «pervasiva confusione di essere e non-essere» denunciata in B6. 33 Diels (DK vol. I, p. 240) legge κατ΄ αὐτό τἀντία come se αὐτό avesse valore avverbiale («gerade») e κατὰ reggesse τἀντία («all'opposto»). 34 L'espressione τἀντία è qui intesa come τά + ἀντία («gli opposti», «le cose opposte»), come oggetto indeterminato del verbo reggente (ἐκρίναντο), utilizzato per introdurre il vero oggetto (νύκτα) e le sue connotazioni. 35 L'aggettivo ἀδαής indica l'impossibilità di discernere, percepire, conoscere (costruzione con alfa privativo del verbo δάω, «imparare», «conoscere», «percepire»): «absence de sens», secondo O'Brien (p. 60), ma anche «absence de lumière» (δαίω). Liddell-Scott indica come secondo valore «oscuro», proprio in questa occorrenza nel poema di Parmenide. Coxon (p. 186 [60] Questo ordinamento37, del tutto38 appropriato 39, per te40 io41 espongo42, 223) preferisce rendere l'aggettivo in senso attivo come «unintelligent». O'Brien in francese rende con «l'obscure nuit», in inglese offre una versione più sfumata: «dull mindless night». È da notare come questa connotazione di Notte possa essere intesa in senso epistemico negativo (impenetrabilità conoscitiva): ciò potrebbe aver spinto all'accostamento aristotelico tra Notte e non-essere. Su questo si veda Granger (op. cit. p. 113). Da osservare inoltre che alcune delle caratteristiche qui associate a νύξ (in particolare oscurità e densità) richiamano quelle arcaiche di ἀήρ, connotata come nebbia densa, oscura, fredda (per esempio Esiodo, Opere e giorni 547-556). Sulla origine e sui caratteri degli elementi nella cultura greca arcaica è ancora essenziale il contributo di Kahn, op. cit., pp. 119-165. A proposito di ἀήρ le evidenze testuali mostrano come in origine il termine non designasse una regione o un elemento specifico, ma una condizione: la condizione che rende invisibili le cose, assimilabile dunque sia a νέφος (nuvola) sia all'oscurità, intesa come positiva realtà (p. 143). 36 Mansfeld (pp. 132-3) vede nella corrispondente sequenza di segni delle due forme tre distinti aspetti: (i) denominativo (αἰθέριον πῦρ/νύξ), (ii) teoreticoconoscitivo (ἤπιον/ἀδαῆ), (iii) fisico (μεγ’ ἀραιὸν/πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε). Una quarta corrispondenza è ritrovata nel rilievo della comune autoidentità e etero-differenza delle due forme. 37 Mourelatos (p. 230) coglie nell'uso di διάκοσμος un aspetto decettivo. Esso può indicare «ordine del mondo», ma suggerire anche attività: un ordinamento in divenire nel tempo, una cosmogonia. Inoltre, in relazione a τἀντία e τ΄ ἐναντίον (B12.5), l'implicazione di ordine (κόσμος) di διάκοσμος sarebbe rovesciata nel senso di «segregazione, divisione»: il κόσμος dei mortali sarebbe dunque, in realtà, un campo di battaglia. Il termine è tuttavia impiegato anche in Aristotele per indicare l'ordinamento cosmico pitagorico e in genere anche nella forma verbale διακοσμεῖν conserva una valore positivo. Robbiano (op. cit., p. 183), riprendendo la propria interpretazione del termine κόσμος, osserva come διάκοσμος sia qui utilizzato per ribadire all'audience che il kosmos non è un aspetto della realtà, non esiste oggettivamente; che vedere un kosmos è vedere ed esprimere la realtà usando parole. Thanassas (Parmenides, Cosmos, and Being…, cit., pp. 64-5) osserva, invece, come il termine diakosmos implichi un intreccio delle due forme, che prelude alla introduzione della nozione di mescolanza, impiegata per la Doxa “appropriata”. In questo senso, le espressioni «ordine ingannevole delle mie parole» e «ordinamento del mondo del tutto appropriato» denoterebbero due diversi livelli e obiettivi della Doxa: è importante che essi non siano confusi (pp. 67-8). 187 38 Mourelatos e Couloubaritsis intendono πάντα come aggettivo, concordato con τόν διάκοσμον: «this whole ordering [system, framework]»; «l'ordonnance totale». 39 Il significato del participio ἐοικώς usato con valore assoluto è secondo Liddell-Scott «seeming like, like» ovvero «fitting, seemly». La verosimiglianza è qui da intendere in relazione ai caratteri attribuiti alle due forme, in analogia con quelli dell'essere. Ruggiu osserva come, per connotare la doxa, Parmenide ricorra ad aggettivi, con caratterizzazione positiva, che hanno radice nell'apparire: ἐοικώς e δοκίμως (B1.32). RealeRuggiu scelgono comunque di rendere ἐοικώς come «veritiero», seguendo Schwabl e il suo suggerimento di leggere l'aggettivo «sulla base del linguaggio spontaneo di Omero» (p. 323), piuttosto che con quello della (posteriore) sofistica. In Omero effettivamente il significato prevalente di εἰκώς è «appropriato, adeguato». Untersteiner (pp. CLXXVII ss.), in questo senso, insiste sul nesso con Senofane B35 (ἐοικότα τοῖς ἐτύμοισιν), marcando l'accordo e la coerenza con i fatti. Anche Couloubaritsis (Mythe et Philosophie chez Parménide, cit., pp. 264-5) sottolinea la positività del termine, optando per il valore di «conveniente», adeguato, analogo a quello (appunto) dell'avverbio δοκίμως. La dea segnalerebbe al giovane la propria intenzione di esporre l'ordinamento delle cose «che conviene», cioè tenendo conto della critica rivolta ai mortali (B8.54). Di diverso avviso Mourelatos (p. 231), per il quale anche ἐοικότα manifesterebbe lo stesso gioco di positività e negatività che in genere impronta la Doxa parmenidea: per i mortali non iniziati ἐοικότα significherebbe «adeguato, appropriato, probabile», per la dea e il kouros «apparente». Per Robbiano (op. cit., p. 183), la dea ricorrerebbe qui a ἐοικότα per correggere l'impressione negativa che l'audience poteva associare al precedente κόσμον ἀπατηλὸν. Leszl osserva (p. 223) come in questo verso di solito si renda διάκοσμον ἐοικότα come «ordine (disposizione di cose) conveniente», ritenendo che ἐοικώς non possa qui valere come «simile (a qualcosa)», in quanto sarebbe assente il termine di paragone. Ammettendo tuttavia che in questo verso vi sia un richiamo al v. 52 (κόσμος-διάκοσμος) e che la descrizione tradizionale (omerico-esiodea) della falsità sia quella di dire cose simili a quelle vere (ἐτύμοισιν ὁμοῖα), in effetti il termine di paragone risulterebbe introdotto indirettamente: l'essere, concepito come la realtà genuina. 40 Si susseguono i due pronomi personali σοι ἐγὼ: abbiamo di nuovo ben marcato nell'interlocutore diretto il destinatario dell'esposizione ancora rivendicata dalla dea. Qui il dativo è di interesse (Coxon p. 223). 41 Coxon (p. 223) rileva come, nonostante la dea attribuisca la «decisione di nominare due forme» e la scelta di luce e notte agli esseri umani, considerandole integrali alla natura dell'esperienza umana, ella invece sottolinea con ἐγώ che il sistema del mondo (caratterizzato come ἐοικώς) è 188 così che mai alcuna opinione43 dei mortali possa superarti44. suo. Un aspetto rilevato anche da Thanassas (op. cit., p. 71): il pronome personale ἐγώ, in greco non necessario, sarebbe impiegato per enfatizzare il carattere rivelativo di quel che segue, così segnando il passaggio dalla Doxa ingannevole a quella appropriata. 42 Coxon (p. 224) intende φατίζω come «io dichiaro», modificando la struttura della frase: «This order of things I declare to you to be likely in its entirety». Couloubaritsis (Mythe et philosophie, cit., pp. 262-3) sottolinea come, nel linguaggio corrente, φατίζω fosse utilizzato per indicare una promessa, un impegno. Come se la scelta verbale di Parmenide impegnasse la Dea nella esposizione che segue. Interessanti le implicazioni lessicali: il sostantivo φάτις in effetti significa «parola», in particolare la parola di un dio o di un oracolo; ma anche «ciò che si dice di qualcuno», una «voce» e, di conseguenza, «la rinomanza». Si tratta, dunque, di espressione ambigua, il cui valore oscilla tra «verità» e discorso inverificabile. Utilizzato dalla Dea, φατίζω viene da un lato a significare parola vera (B8.35), che dovrà permettere al giovane di acquisire rinomanza, così da risultare credibile come «uomo divino» (θεῖος ἀνήρ). Questo spiegherebbe, secondo Couloubaritsis, il passaggio alla proposizione conclusiva: nessun sapere umano potrà superare quello così acquisito dal giovane. In ogni caso, anche per una valutazione complessiva della sezione sulla Doxa, è opportuno marcare (seguendo Frère, op. cit., p. 209) come φατίζω rinvii, all'interno di questo frammento, alla parola che manifesta l'Essere (vv. 35-36a: οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν). 43 Il termine γνώμη ha uno spettro semantico piuttosto ampio, che spazia da «pensiero», «giudizio», «opinione», a «decisione», «massima pratica», «proposito». Reale-Ruggiu (pp. 316-7) interpretano l'espressione βροτῶν γνώμη come se non indicasse semplicemente altre opinioni, altri giudizi «dei mortali», ma una forma di "saggezza" (come quella veicolata attraverso gli enunciati "gnomici" appunto, massime di saggezza pratica) tutta umana, che si riduce a mere parole. Tarán traduce in effetti come «wisdom» e Couloubaritsis come «savoir». 44 Il verbo παρελαύνω ha il significato di «passare», «superare». Mourelatos (p. 226 nota) osserva che il verbo appartiene al vocabolario delle corse di carri. Il senso sarebbe dunque da rintracciare nel superamento/sorpasso («outstrip»), ma anche nel rivelarsi superiore in ingegno («outwit»). Untersteiner ha sottolineato anche il valore di «portare fuori strada», «sviare», seguito da Reale-Ruggiu e anche da Cerri. Manteniamo la traduzione più comune. Su questa conclusione ha fatto per molto tempo leva l'interpretazione "dialettica" della Doxa parmenidea: uno strumento, il migliore possibile, per concorrere con successo con cosmologie rivali. Ma pur sempre "ingannevole"! Una recente ripresa, ben argomentata, è quella di 189 Granger (op. cit., pp. 102-3): l'impegno della Dea sarebbe stato quello di fornire il miglior strumento per individuare l'inganno che si annida nelle cosmologie. Nella misura in cui il giovane allievo fosse stato in grado di riconoscere i difetti del pensiero dei mortali nella cosmologia che la Dea aveva approntato, nessuna opinione mortale avrebbe più potuto sorprenderlo: la cosmologia più ingannevole, in effetti, è quella più vicina alla realtà. Tarán (p. 207) aveva marcato come i due versi finali del frammento non affermino che la ragione per esporre il διάκοσμος sia che esso è il migliore, ma solo che l’intero ordinamento è offerto perché nessuna sapienza umana possa superare Parmenide. 190 DK B9 αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται1 καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν. [Simplicio, In Aristotelis Physicam 180] 1 La forma verbale ὀνόμασται è in realtà nei codici DEF2 ὠνόμασται, corretta dagli editori per ragioni metriche. 191 Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate1, e queste2, secondo le rispettive3 proprietà4, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle5, tutto6 è pieno ugualmente7 di luce e notte invisibile8, 1 Coxon (p. 232) difende l'inversione tra soggetto e predicato: dal momento che in B8.53-59 si parla di nominare due forme, «luce e notte» dovrebbero essere soggetto della proposizione, mentre «tutte le cose» diventerebbe predicativo. I due nomi sarebbero, insomma, la sostanza della molteplicità di enti fisici. 2 Il pronome dimostrativo neutro plurale τά secondo Tarán (p. 161), seguito da Conche (p. 198), si riferisce a φάος καὶ νὺξ; Diels, invece, seguito da altri (per esempio Pasquinelli, Coxon), lo intende riferito a ὀνόματα. Gigon, Fränkel, Raven rendono il verso come espressione semplice: le cose in accordo con le qualità di luce e notte sono state attribuite a queste cose e a quelle. 3 L’aggettivo possessivo σφετέρας può essere tradotto con valore riflessivo («proprie») o meno: il valore dipende dalla decisione circa il significato da attribuire a τά. 4 Il termine δυνάμεις avrebbe qui, secondo Tarán (p. 162) e Coxon (p. 233) un valore analogo a quello di σήματα. Conche (p. 199), a nostro avviso giustamente, interpreta come le «qualità opposte» associate a luce e notte. Untersteiner (p. CLXXXIV, nota 66) vi coglie invece sinonimia con φύσις. In effetti il termine dovrebbe nel contesto significare proprietà, qualità essenziale. È vero però che la dimensione entro cui Parmenide inserisce la Doxa è certamente anche linguistica, donde la scelta di Tarán di tradurre con «meanings». Coxon sottolinea nella implicazione tra δύναμις e μορφή un carattere della posteriore associazione tra δύναμις e ἰδέα o εἶδος. 5 L'espressione ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς si riferisce agli enti fisici, con i loro opposti caratteri. 6 Il pronome πᾶν può essere riferito al Tutto ovvero a «tutte le cose», alla totalità delle cose: nel secondo caso, è l'insieme delle cose a essere pieno di luce e tenebra, non ogni singola cosa. B12.1 sembra avvalorare la seconda lettura, così come Teofrasto in DK 28 A46. Tra gli altri, Tarán (p. 162), Coxon (p. 233), e Gallop (p. 77) la sostengono. Conche (p. 200) esplicitamente contesta questa lettura: come è possibile che la totalità delle cose sia ripiena a un tempo di luce e notte se non non lo sono anche le singole cose? Guthrie (vol. II, p. 57) e Cerri (p. 255) insistono sulla equipollenza quantitativa. Ruggiu (p. 328) esplicitamente sottolinea come «ogni cosa sia costituita insieme e ugualmente di Luce e Notte». 192 di entrambe alla pari9, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla 10. 7 L'avverbio ὁμοῦ può rendersi come «insieme», «allo stesso tempo», «egualmente». Se il valore sia da intendere nel senso di una rigorosa misura quantitativa, dipende da come si interpreta πᾶν. 8 L'aggettivo ἀφάντου è usato per marcare come, benché invisibile, la notte, opposta alla luce, è pur qualcosa (Coxon p. 233). 9 All'espressione ἴσων ἀμφοτέρων si può riconoscere valore quantitativo - come fanno Diels e Reinhardt e di recente, per esempio, Cerri (p. 255), per il quale Parmenide preciserebbe come i due principi debbano essere quantitativamente equipollenti – ovvero, come preferisce Tarán (p. 163), interpretare nel senso di una equivalenza funzionale, ovvero di status o potere, come vuole Coxon (p. 233). Empedocle (DK 31, B17.27): ταῦτα γὰρ ἶσά τε πάντα καὶ ἥλικα γένναν ἔασι questi sono infatti tutti uguali e coevi, sembra alludere a una equivalenza (non quantitativa) di funzioni delle quattro radici. Le due «forme» concorrono alla composizione del mondo: la loro complicità nell'opposizione assicura la stabilità del mondo (Conche, p. 201). L'idea di un equilibrio di forze, tuttavia, sembra comportare una interpretazione quantitativa. 10 L'espressione ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν è stata variamente tradotta, ciò comportando una diversa accentuazione del suo senso complessivo: (i) Diels, Burnet, Reinhardt, Cornford, Riezler, Untersteiner: «poichè nessuna delle due ha potere sull'altra»; (ii) H. Gomperz, Coxon: «con nessuna delle due c'è il vuoto»; (iii) Schwabl, Kirk-Raven, Beaufret, Hölscher, Mourelatos, Kirk-Raven-Schofield, Austin, Reale, Palmer: «poiché insieme a nessuna delle due è il nulla» (ovvero, Mourelatos: «since nothingness partakes in neither»); (iv) Zafiropulo, Casertano: «perché non esiste alcunché che non dipenda dall'una e dall'altra»; (v) Fränkel, Calogero, Verdenius, Tarán, O' Brien:·«perché non c'è nulla che non appartenga all'uno o all'altro dei principi»; (vi) Guthrie, Conche, Pasquinelli, O'Brien, Tonelli: «poiché niente partecipa di nessuna delle due». Abbiamo preferito la terza soluzione, in quanto sembra marcare con decisione la svolta rispetto all'errore imputato alle «opinioni mortali» criticate in B8.53- 59: come sottolinea Ruggiu (p. 329), il rilievo della Dea ribadisce come tutte le cose siano, come in esse si manifesti l'Essere. La lettura di Simplicio sembra corroborante: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν [...] εἰ δὲ μηδετέρωι μέταμη δέ ν καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται 193 e poco dopo ancora [citazione B9]; e se «insieme a nessuna delle due è il nulla», egli dice chiaramente che entrambi sono principi e che sono opposti. Da segnalare come Gomperz e Coxon (suo allievo) ritornino sulla questione dell'equazione nulla-vuoto: in un contesto fisico – secondo lo studioso anglosassone (p. 234) – μηδέν significherebbe spazio vuoto, la cui esistenza Parmenide avrebbe rigettato implicitamente (in B8, insistendo sul pieno), Melisso esplicitamente. 194 DK B10 εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν1 ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα2 σελήνης [5] καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν3 ἔφυ τε4 καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων. [Clemente Alessandrino, Stromata V, 14 (419)] 1 Si tratta di correzione degli editori; il codice di Clemente riporta ὁπόθεν. 2 Gli editori moderni hanno corretto la forma περὶ φοιτά del codice di Clemente in περίφοιτα. 3 Il codice di Clemente riporta, dopo ἔνθεν, μὲν γὰρ, poi espunto dagli editori. 4 La forma ἔφυ τε è correzione moderna: il codice di Clemente riporta ἔφυγε. 195 Conoscerai1 la natura2 eterea3 e nell’etere tutti i segni4 e della pura5 fiamma dello splendente6 Sole le opere invisibili7 e donde ebbero origine8, 1 La forma del futuro εἴσῃ, come la successiva εἰδήσεις, è epica. Da sottolineare il valore positivo del verbo: insieme a πεύσῃ e εἰδήσεις sottolinea la natura programmatica del frammento e la sua funzione di cerniera nell'opera. 2 Il termine φύσις è stato in questo contesto tradotto (Coxon, Conche) come «nascita»: Parmenide non si proporrebbe di esporre la «costituzione» o l'«essenza» (Diels traduceva con «Wesen») dell'etere o della luna, analizzarne la composizione, ma di spiegare il loro venire a essere, la generazione dei costituenti del mondo e la genesi dei fenomeni (Conche, pp. 204-5). Non pare tuttavia naturale rendere l'espressione αἰθερίαν φύσιν come «la nascita dell'etere», né necessario intendere «natura» come «essenza»: il riferimento alla costituzione dei fenomeni implica, nel caso della cosmogonia della Doxa, illustrarne l'origine. 3 Dalla testimonianza di Aezio (DK 28 A37) possiamo intravedere come Parmenide intendesse αἰθήρ come l'atmosfera più pura, rarefatta, nella quale si muovono gli astri, e ἀήρ, invece, si riferisse all'atmosfera sublunare, dislocata a ridosso della superficie terrestre, più densa, meno pura. 4 In questo caso σήματα assume il suo valore comune nella lingua greca arcaica (Omero): gli astri intesi in generale come «segni» per l'orientamento. 5 Il termine καθαρή, «pura», ha un valore prossimo a una delle accezioni di εὐᾰγής (con alfa breve), utilizzato in questo verso nel senso di «splendente» (εὐᾱγής con alfa lunga): si tratta di purezza anche in senso religioso. 6 Abbiamo già detto di εὐᾱγής (con alfa lunga) con valore di «splendente», da preferire all'altra forma, εὐᾰγής (con alfa breve), per ragioni metriche (Cerri, p. 260). 7 L'espressione ἔργ΄ ἀίδηλα è attestata in Omero, dove significa «azioni odiose» (Iliade V, 897): in questo contesto si potrebbe rendere – come fanno molti traduttori - come «operazioni distruttive». Ma l'aggettivo ἀΐδηλος – costruito con alfa privativo e la radice ἰδ- di «vedere» - può indicare tanto la capacità di far sparire, rendere invisibile (dunque «distruttivo»), quanto la indisponibilità alla vista (quindi «oscuro», «ignoto»). Nell'insieme il significato di «invisibile» appare più convincente. Ricordiamo, inoltre, come fa notare Cerri (p. 260), che in B8.57 la Dea aveva connotato il fuoco come ἤπιον (mite, utile). Conche (pp. 205-7) sostiene la sua traduzione «les oeuvres destructrices du pur flambeau du brillant soleil» rinviando alle funzioni cosmogoniche di Fuoco e Notte: la loro unione implica generazione del mondo, la loro dissociazione distruzione del mondo. Nella misura in cui il fuoco solare si purifica al punto di liberarsi dalla componente notturna, 196 e le opere apprenderai periodiche9 della Luna dall’occhio rotondo10, [5] e la [sua] natura11; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge12, donde ebbe origine13 e come Necessità14 guidando lo vincolò15 a tenere16 i confini degli astri. esso diviene funesto e dunque dissociatore della mescolanza e distruttore della realtà. 8 Il verbo (aoristo medio) ἐξεγένοντο, alla terza persona, è riferito a tutti i termini elencati in precedenza, e non semplicemente al neutro plurale ἔργ΄ ἀίδηλα: si troverebbe altrimenti alla terza persona singolare. 9 Seguiamo Conche (pp. 207-8) nel tradurre ἔργα περίφοιτα come «opere periodiche», evitando «vaganti», troppo generico e fuorviante rispetto al senso implicito nell'aggettivo (che LSJ traducono nel contesto come «revolving»): quello di una ripetizione costante: già nell'ambito del pitagorismo, infatti, la lunazione sarebbe stata fissata in 4 periodi di 7 giorni. Il senso del rilievo parmenideo sarebbe allora quello di sottolineare la periodicità dell'azione lunare. Tonelli (p. 137) preferisce riferire a senso περίφοιτα a σελήνης («della luna errante»). 10 Qui κύκλωψ ha il valore di «occhio rotondo» (LSJ «round-eyed») e non si riferisce ovviamente al gigante dall'occhio solo, il Polifemo omerico. 11 In questo caso, come scelgono di fare alcuni traduttori (per esempio Coxon, Conche), φύσις potrebbe rendersi con il suo valore etimologico di «origine», «nascimento». 12 L'espressione οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα (letteralmente «cielo che tiene intorno») si riferisce alla funzione del cielo nel sistema astronomico di Parmenide: quella di racchiudere in sé l'universo, l'insieme di etere (contenente gli astri) e di aria (che fascia la Terra). 13 L'espressione interrogativa ἔνθεν ἔφυ rivelerebbe l'insistenza sulla spiegazione a partire dall'origine (Conche, p. 209). 14 Ritroviamo Ἀνάγκη, a governare (ἄγουσα) il cielo e soprattutto a costringere entro i limiti (ἐπέδησεν πείρατ΄ ἔχειν). In B8 Ἀνάγκη costringeva l'Essere alla identità e immutabilità; qui garantisce l'ordine dell'universo e la sua costanza. Coxon (pp. 229-230) sottolinea la relazione di somiglianza, analoga a quella che intercorre (in conclusione di B8) tra le due forme e l'Essere. 15 Letteralmente «legò» (ἐπέδησεν): torna anche in questo luogo l'eco prometeica che il verbo porta con sé (Cerri, p. 262). 16 Significativo il fatto che il Cielo abbia una doppia funzione: avvolgente (ἀμφὶς ἔχοντα) e limitante rispetto alla marcia astrale (πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων). 197 DK B11 πῶς γαῖα καὶ ἥλιος ἠδὲ σελήνη αἰθήρ τε ξυνὸς γάλα τ΄ οὐράνιον καὶ ὄλυμπος ἔσχατος ἠδ΄ ἄστρων θερμὸν 1 μένος ὡρμήθησαν γίγνεσθαι2. [Simplicio, In Aristotelis De Caelo 559] 1 I codici DE di Simplicio riportano θερμῶν. 2 I codici AF riportano γίνεσθαι. 198 [...] come Terra e Sole e Luna, l'etere comune1 e la Via Lattea2 e l'Olimpo estremo3 e degli astri l'ardente forza4 ebbero impulso5 a generarsi6. 1 L'espressione αἰθήρ ξυνὸς si riferisce probabilmente al fatto che tutti gli astri sono immersi nello spazio etereo. 2 La formula greca - γάλα οὐράνιον – significa letteralmente «latte celeste». L'uso dell'aggettivo potrebbe autorizzare a pensare (Conche, p. 211) che per Parmenide la Via Lattea fosse composta di stelle. 3 Nel contesto l'espressione ὄλυμπος ἔσχατος - «Olimpo ultimo» o «Olimpo estremo» - si riferisce chiaramente a quanto sopra abbiamo trovato indicato come οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, «il cielo che tutto attorno cinge». Esso costituisce l'estremo limite dell'universo, così forzando in circolo il corso degli astri. 4 In Empedocle (DK 31 B115.9) abbiamo un'espressione analoga: αἰθέριον μένος. Il valore di μένος sarebbe quello di forza vitale. L'impiego dell'aggettivo θερμός si spiega con la natura ignea degli astri. 5 Significativo nel contesto il ricorso al verbo ὁρμᾶν, che sottolinea la spinta, l'impulso interiore: è tale impulso a guidare il processo di costituzione delle cose. In B12.4 Parmenide lo attribuirà alla potenza immanente di una δαίμων. 6 Come sottolinea la scelta espressiva (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), il contenuto del frammento è comunque in continuità con il tema cosmogonico-cosmologico del precedente. 199 DK B12 αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο1 πυρὸς ἀκρήτοιο2, αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα· ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· 3 γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει [5] πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄4 ἐναντίον αὖτις5 ἄρσεν θηλυτέρῳ. [vv. 1-3 Simplicio, In Aristotelis Physicam 39; vv. 2-6 Simplicio, In Aristotelis Physicam 31] 1 I codici di Simplicio riportano παηντο (Ea ), πάηντο (D1 ), πύηντο (D2E), ποίηντο (edizione aldina). Bergk ipotizzò prima (1842) πλῆντο (adottato da Diels), quindi (1864) πλῆνται, per ragioni metriche. Gli editori contemporanei sono divisi: alcuni (Tarán, Kirk-Rave-Schofield, O'Brien) preferiscono πλῆνται, che risulta tuttavia più improbabile dal punto di vista paleografico; altri la forma da noi adottata, πλῆντο, che presenta difficoltà metriche. 2 La forma ἀκρήτοιο è correzione di Bergk: i codici riportano ἀκρήτοις (DEa ), ἀκρίτοις (EF), ἀκρίτοιο (edizione aldina). 3 Il testo greco dei manoscritti DEF è πάντα γὰρ στυγεροῖο, problematico a livello metrico. Karsten e Diels propongono l'introduzione del pronome ἣ dopo γὰρ. Così ancora Cordero e Reale. Mullach preferì correggere πάντα in πάντηι, seguito da alcuni editori (Tarán, Coxon, O' Brien). Altri, appoggiandosi al manoscritto W, ignoto a Diels, leggono πάντων: così molti editori contemporanei: Mansfeld, Kirk-Raven-Schofield, Conche, Gallop. Si tratterebbe comunque, secondo Franco Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili), di congettura bizantina. 4 La forma μιγῆν τό τ΄ è correzione di Bergk: i codici riportano μιγέν τότε (DE), μιγέν τότ΄ (F). 5 La forma αὖτις si trova nel codice F: DE riportano αὖθις. 200 Quelle1 più strette2, infatti, si riempirono3 di fuoco non mescolato; le successive4 [si riempirono] di notte, ma insieme si immette5 una porzione6 di fuoco; 1 L'articolo αἱ, qui usato con valore pronominale, e l'aggettivo στεινότεραι si riferiscono probabilmente a στεφάναι, come insegna Cicerone (DK 28 A37), il quale traduce il termine come corona e orbis. Coxon (p. 235) osserva giustamente come i versi che precedevano le citazioni di Simplicio dovessero vertere sugli elementi e sulla struttura delle sfere, evocate senza dettagli o nomi qualificanti in apertura. 2 Simplicio, nel contesto della citazione, si limita a dire che i versi seguivano un passo sui due elementi, e non chiarisce quindi a quale sostantivo l'aggettivo si riferisse: si intende comunemente στεφάναι. In questo senso στεινότεραι qualificherebbe quelle «più strette», ovvero quelle «interne», dunque le corone più vicine al centro del sistema. Nell'interpretazione complessiva che Diels proponeva già nell'edizione del poema (1897), il riferimento sarebbe alle corone interne di una doppia coppia, che costituirebbe centro e periferia del sistema cosmico: (i) la coppia di corone non mescolate (quindi una esterna di pura Notte, una interna di puro Fuoco) posta al centro costituirebbe la struttura terrestre con la sua crosta solida e il suo interno infuocato (fuoco vulcanico); (ii) quella alla periferia corrisponderebbe alla solida (di pura Notte) parete esterna contenente (indicata anche come ὄλυμπος ἔσχατος in B11, ovvero come «cielo che tiene tutto intorno», οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, in B10), e alla corona di puro Fuoco, evocata in B11 come αἰθήρ τε ξυνὸς. 3 L'aoristo (πλῆντο) di πίμπλημι significa decisamente «divennero\furono riempite»: Parmenide sta dunque alludendo alla formazione delle corone (Coxon, p. 237). 4 L'espressione αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς significa letteralmente «quelle sopra [ovvero dopo] queste»: per mantenere l'ambiguità di riferimento, abbiamo deciso di rendere con «le successive» (così Tonelli). I due pronomi dimostrativi (αἱ e ταῖς) si intendono riferiti sempre a στεφάναι: il problema è capire esattamente a quali «corone» si alluda. Nell'ipotesi di Diels, di recente rilanciata da Ferrari, si tratterebbe delle corone comprese tra la coppia centrale e quella periferica (composte di "elemento puro", di Fuoco all'interno, di Notte all'esterno); corone "miste" di Notte e Fuoco. 5 Si passa dal passato (πλῆντο) al presente (ἵεται), forse per marcare la perduranza degli effetti cosmogonici: il valore dei versi è dunque sia cosmogonico sia cosmologico. 201 in mezzo a queste7 la Dea8 che tutte le cose governa9. 6 Letteralmente αἶσα – termine omerico - si dovrebbe tradurre con «parte». Parmenide preferisce l'espressione poetica, rara negli autori presocratici, a μέρος. 7 L'espressione ἐν δὲ μέσῳ τούτων è ambigua, come fa notare tra gli altri Tarán (p. 248): essa può riferirsi al centro dell'universo o al centro delle «corone miste». Nel contesto la seconda sembrerebbe la soluzione più naturale. 8 Aëtius esplicitamente identifica la δαίμων con una delle «corone miste»: τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone frammiste [di fuoco e oscurità], quella centrale è principio e causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità (DK 28A37), facendola coincidere con Δίκη e Ἀνάγκη. In tal modo egli salda nella teogonia e cosmogonia della Doxa i riferimenti sparsi in B1, B8 e B10 a Δίκη e Ἀνάγκη. Ma Simplicio, evidentemente interpretando diversamente da Aëtius il riferimento di ἐν δὲ μέσῳ τούτων, intende la dea come collocata al centro dell'universo: καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μέσωι πάντων ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione (contesto di B12). Qualcuno ha suggerito che ciò avvenisse in quanto il commentatore accostava la δαίμων parmenidea alla Hestia pitagorica: si veda, per esempio Filolao B7: τὸ πρᾶτον ἁρμοσθέν, τὸ ἕν, ἐν τῶι μέσωι τᾶς σφαίρας ἑστία καλεῖται la prima cosa ben composta, l'uno, nel mezzo della sfera si chiama Hestia (DK 44 B7). 9 L'espressione δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ sarebbe, secondo Tarán (pp. 248-9), probabilmente connessa con l'idea, più o meno corrente all'epoca di Parmenide, di una divinità suprema che governa l'universo. Coxon (p. 242) 202 Di tutte le cose ella sovrintende 10 all'odioso 11 parto e all’unione12, [5] spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile13, e, al contrario, il maschile al femminile. vi ha voluto cogliere un'analogia con Eraclito, per cui il potere razionale del fuoco governa ogni cosa (DK 22B41). 10 Il senso più appropriato di ἄρχει, in un contesto in cui si parla dell'azione della «Dea che tutto governa» (δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ), sembra essere quello di «presiede», «sovrintende». Si potrebbe rendere anche come «è principio di» ovvero «è all'origine di». 11 L'uso di στυγερός (da στυγέω, «avere in orrore») rivelerebbe il pessimismo di fondo di Parmenide, eco della Stimmung della sua epoca, come riscontrato soprattutto nella poesia, epica e lirica. Da notare (Conche, pp. 225 ss.) che in questo caso il riferimento non è esclusivamente alla nascita umana, ma alla genesi di tutte le cose: la condanna del filosofo sarebbe rivolta al divenire come tale (p. 227). Altri, tuttavia, attenuano il senso negativo dell'aggettivo proprio in relazione al sostantivo τόκος, traducendo «doloroso [ovvero duro] parto» (Reale), riferendolo quindi esclusivamente alla pena del travaglio, non ai suoi effetti. 12 Il greco μῖξις è reso, alla luce del verso successivo, come unione «sessuale», «coito» (Cerri), «amplesso» (Tonelli). In realtà non si deve dimenticare che qui il poeta si riferisce non solo all'unione sessuale di maschio e femmina, ma in genere all'unione dei due principi. 13 Le forme aggettivali sostantivate τό ἄρσεν (il maschile) e τό θῆλυ (il femminile) alludono forse - come nella tradizione pitagorica (secondo quanto attesta Aristotele) - alla riduzione del primo elemento alla luce e del secondo alla notte. 203 DK B13 πρώτιστον μὲν Ἔρωτα θεῶν μητίσατο πάντων… [v. 1 Platone, Simposio, 178b; Plutarco, Amatorius 13; Sesto Empirico, Adversus Mathematicos IX, 9; Stobeo, Anthologium I, 9, 6; Simplicio, In Aristotelis Physicam 39; v. 1b Aristotele, Metafisica, 1, 4 984 b 23] 204 Primo tra gli dei tutti ella1 concepì2 Amore. 1 La δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ di B12. 2 Traduciamo in questo modo (ambiguamente) μητίσατο: il senso – nel contesto garantito dalle testimonianze di Platone e Aristotele (che pur lasciano incerto il riferimento al soggetto), Plutarco (che riferisce il verbo a Afrodite) e Simplicio (che invece esplicitamente identifica il soggetto nella δαίμων di B12) - dovrebbe essere quello di generare, ma il significato del verbo μητιάω è «meditare, deliberare, pianificare». Il verbo qualifica dunque la dea come una potenza razionale (Coxon, p. 243). 205 DK B14 νυκτιφαὲς 1 περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς… [Plutarco, Adversus Colotem 1116 A] 1 La forma νυκτιφαὲς è correzione dello Scaligero: il codice di Plutarco riporta νυκτὶ φάος. 206 di notte splendente1, vagando intorno alla Terra2, luce d'altri3 1 Il composto greco νυκτιφαὲς significa letteralmente «di notte visibile\splendente». Come fa notare Cerri (p. 274), in tutti i composti del tipo νυκτι- il primo elemento ha valore di determinazione temporale («di notte»). Questo è il senso che anche Conche (pp. 234-5) attribuisce al composto νυκτιφαὲς: «brillant la nuit», contestando la poco convincente resa di Coxon («shining like night»?!). L'aggettivo ricorre solo un'altra volta in Orphica, Hymnii 54, 10: ὄργια νυκτιφαῆ, in relazione ai riti dionisiaci, che si tenevano (evidentemente) alla luce delle torce. Aristotele documenta analoga interessante costruzione in riferimento al Sole: νυκτικρυφές, «di notte nascosto». Rivendicato da Jaeger come citazione parmenidea, l'aggettivo è stato accolto come frammento nella edizione Untersteiner. Lo facciamo seguire come B14a. 2 L'espressione περὶ γαῖαν ἀλώμενον riferisce alla Luna il moto di rivoluzione intorno alla Terra: in B10.4 Parmenide aveva usato la formula ἔργα τε κύκλωπος περίφοιτα σελήνης («le opere periodiche della luna dall'occhio rotondo»), alludendo già con περίφοιτα al regolare movimento (e quindi all'azione periodica) dell'astro. L'espressione sembrerebbe poi implicare la sfericità della Terra, come attestato anche da Teofrasto (Diogene Laerzio): πρῶτος δὲ οὗτος τὴν γῆν ἀπέφαινε σφαιροειδῆ καὶ ἐν μέσωι κεῖσθαι questi [Parmenide] fu il primo a sostenere che la Terra ha forma di sfera e giace al centro [dell'universo] (DK 28 A44). 3 L'espressione ἀλλότριον φῶς, da intendere letteralmente come «luce altrui», si riferisce alla luce riflessa della luna (luce «presa in prestito», come traduce Conche). Parmenide consapevolmente gioca sull'assonanza con l'omerico ἀλλότριον φώς («straniero»). Come osserva Cerri (p. 275), tale formula era evidentemente opposta a ἴδιον φῶς, «luce propria». Espressione analoga in Empedocle (DK 31 B45): κυκλοτερὲς περὶ γαῖαν ἑλίσσεται ἀλλότριον φῶς in forma di cerchio introno alla Terra si aggira luce non propria (ovvero straniera). 207 B14a [...ἥλιος,... τὸ περὶ γῆν ἰὸν ἢ] νυκτικρυφές [Aristotele, Metafisica, VII, 15 1040 a31] 208 [... il Sole,... colui che va intorno alla Terra o] il di notte nascosto1 1 Secondo l'editore della Metafisica - W.D. Ross – in questo caso Aristotele non avrebbe citato Parmenide, ma forgiato il termine νυκτικρυφές in analogia con Parmenide (νυκτιφαὲς). 209 DK B15 αἰεὶ παπταίνουσα πρὸς αὐγὰς ἠελίοιο. [Plutarco, Quaestiones Romanae 282 B; Plutarco, De facie in orbe lunae 929 B] 210 sempre volta e attenta1 ai raggi2 del sole. 1 Il participio παπταίνουσα dovrebbe letteralmente tradursi come «guardando attentamente». Come segnala Cerri (p. 276), è qui molto probabile che Parmenide giochi sulle implicazioni della relazione tra i due termini, maschile (ἥλιος) e femminile (σελήνη): la Luna innamorata volge il suo sguardo intenso verso il Sole. Immagine analoga in Empedocle (DK 31 B47): ἀθρεῖ μὲν γὰρ ἄνακτος ἐναντίον ἁγέα κύκλον contempla di fronte a sé il fulgido disco del suo signore. 2 Come osserva Cerri (p. 276), αὐγὰς vale non solo «raggi» ma anche «sguardi». 211 DK B15a [Π. ἐν τῆι στιχοποιίαι] ὑδατόριζον [εἶπειν τὴν γῆν] [Scolio a Basilio di Cesarea] 212 [Parmenide nei suoi versi dice che la Terra] ha radici nell'acqua1 1 Secondo Conche (p. 242), che si sofferma a lungo a chiarire l'affermazione di Basilio, la Terra cui si allude è quella ricoperta di flora e fauna, la Terra vivente, di cui l'acqua è effettivamente fonte di nutrimento. Non vi sarebbe dunque alcuna implicazione genetica: alla luce delle testimonianze, non è l'acqua all'origine della Terra, semmai il contrario. Coxon (pp. 246-7) ritiene, invece, che il riferimento sia alla massa di terre emerse (forse per spiegare fenomeni come i terremoti). Di diverso avviso, in passato Paula Philippson (Origini e forme del mito greco, Torino 1949, pp. 269 ss.), che riscontra in questo riferimento all'acqua una allusione al mito di Okeanos, che avrebbe circondato la Terra. 213 DK B16 ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ 1 ἔχῃ 2 κρᾶσιν3 μελέων πολυπλάγκτων4, τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν5 · τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει μελέων φύσις ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί· τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ 6 νόημα. [vv. 1-4 Aristotele, Metafisica IV, 5 1009 b21; Teofrasto, De sensu, 3; vv. 1-2a Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis Metaphysicam (parafrasi del testo) IV, 5; Asclepio, In Aristotelis Metaphysicam (parafrasi) 277; vv. 3-4 Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis Metaphysicam (parafrasi del testo) IV, 5] 1 Αlcuni codici aristotelici riportano ἕκαστος («ciascuno»), preferito da DielsKranz; altri ἕκαστοι o ἑκάστῳ. Il codice di Asclepio ἕκαστον. Gli editori contemporanei (Tarán, Coxon, Conche, O'Brien, Cerri) hanno optato per la versione di Teofrasto e di autorevoli codici aristotelici (i più antichi) della Metafisica: ἑκάστοτε (lectio difficilior). 2 Seguiamo Coxon e Cerri nel preferire ἔχῃ - attestata da un solo codice (E) aristotelico – a ἔχει (per lo più accolta dagli editori) o ἔχειν: come spiega Cerri (p. 280), il congiuntivo ἔχῃ è non solo lectio difficilior, ma anche scelta più sensata nel contesto. Passa (p. 48) sottolinea l'opportunità della scelta di Cerri e Coxon, trovando riscontri nell'uso omerico delle comparative. 3 La forma κρᾶσιν è attestata in Aristotele e Teofrasto (in unione a ἔχει o ἔχειν). Estienne modificò in κρᾶσις, ancora accolto da alcuni editori (Tarán, KirkRaven-Schofield, O'Brien, Conche). A κρᾶσιν alcuni (Coxon, Palmer) preferiscono la forma ionica κρῆσιν. Passa (p. 120) avanza perplessità in proposito. 4 Il testo aristotelico, Alessandro e Asclepio riportano πολυκάμπτων («dai molteplici movimenti»). Il testo di Teofrasto πολυπλάγκτων, preferito dagli editori. 5 I codici aristotelici (insieme a quelli di Alessandro e Asclepio) riportano il presente παρίσταται, accolto da Diels-Kranz (e di recente ancora difeso da Passa, pp. 48-51), di cui tuttavia è stata segnalata l'impossibilità metrica. La tradizione teofrastea propone invece il perfetto παρέστηκε (che ha esattamente lo stesso valore), metricamente accettabile. La forma παρέστηκεν è degli editori. 6 I codici di Aristotele e Teofrasto riportano ἐστὶ; quello di Alessandro λέγεται. 214 Come, infatti, di volta in volta si ha1 temperamento2 di membra3 molto vaganti4, così il pensiero5 si presenta agli uomini6: poiché è precisamente la stessa cosa 1 Attribuiamo al verbo valore impersonale. Per l'alternativa costruzione personale sono state proposte diverse possibili candidature al ruolo di soggetto del verbo: νόος del v. 2 (Diels 1897: l'unico soggetto rafforzerebbe la correlazione ὡς... τὼς), ovvero, adottando il testo greco di Diels-Kranz, ἕκαστος, o ancora un soggetto implicito (Cerri: «qualcuno», «ciascuno», «l'uomo») o sottinteso (Ferrari: τις βροτῶν Β8.61). Altri, emendando κρᾶσιν in κρᾶσις, hanno fatto della «mescolanza» il soggetto. 2 Il termine κρᾶσις ha un valore più forte di μῖξις: quello di perfetta fusione, mescolanza in cui non sia più possibile discernere le componenti (come invece accade in una μῖξις, semplice mescolanza). La κρᾶσις trasforma gli elementi in una nuova entità unitaria e armonica: per questo il termine viene reso con «fusione» (Ferrari) ovvero «impasto» (Cerri), «unione» (Tonelli). Va tuttavia osservato che, sulla scorta della testimonianza di Teofrasto (DK 28 A46), anche tale amalgama presuppone una composizione variabile dei due elementi base. Traduciamo quindi come «temperamento», anche in considerazione della lezione che giunge dalla tradizione della medicina ippocratica, dove l'idea di κρᾶσις era associata a quella di riconduzione del molteplice a unità (Stemich, op. cit., pp. 157 ss.). 3 Ricordiamo che nei poemi omerici il termine σῶμα non indica mai ciò che noi comunemente intendiamo con «corpo», bensì il suo contrario, il «cadavere». Omero non rappresenta il corpo dell’uomo come unità di una molteplicità: impiega infatti termini per lo più al plurale, come μέλεα (o γῦια) appunto, che noi traduciamo con «membra». Ciò cui qui Parmenide intenderebbe riferirsi con il termine μέλεα non sono dunque gli «organi di senso» (Diels) o gli «elementi» (Schwabl), ma il corpo, come ha ben rilevato Tarán (p. 170). È tuttavia interessante la proposta di Cassin-Narcy (B. Cassin – M. Narcy, “Parménide Sophiste”, in Études sur Parménide, cit., II, p. 289) di mantenere al termine la doppia significazione, riferendolo sia immediatamente al corpo, sia mediatamente alle componenti universali. 4 Traduciamo l'espressione κρᾶσις μελέων πολυπλάγκτων come «temperamento di membra molto vaganti [erranti]», intendendola riferita all'unità del corpo umano, che è articolata appunto in appendici mobili, che si agitano in molte direzioni. 5 Rendiamo il termine νόος con «pensiero» ritenendo che in questo caso Parmenide non si riferisca genericamente alla facoltà (mente), ma alla sua 215 ciò che pensa7 negli uomini, la costituzione8 del [loro] corpo9, condizione in relazione alla situazione del corpo. La costruzione dei primi due versi e il loro contenuto propongono un'eco omerica: τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε tale è il pensiero degli uomini che vivono sulla terra, quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei (Odissea XVIII, 136-7). 6 È significativo che in questo contesto la Dea non ricorra a un'espressione come βροτοί ma a ἄνθρωποι: il termine assume un valore descrittivo, marcando l'identica natura degli esseri umani «tutti» (καὶ πᾶσιν καὶ παντί). 7 Ricostruzione letterale dei vv. 2b-4a: «perché è la stessa cosa ciò che pensa (τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει) la natura del corpo (μελέων φύσις) negli uomini, in tutti e in ciascuno (ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί)». Nella letteratura recente si è distinta la proposta (Thanassas, Meijer e ora anche Marcinkowska-Rosół) di tradurre linearmente il testo greco, supponendo νόος come soggetto (sottinteso) di ἔστιν: ὅπερ sarebbe complemento oggetto e φύσις soggetto del verbo (φρονέει): perché [esso (il pensiero)] è precisamente la stessa cosa che la costituzione del corpo pensa negli uomini, in tutti e in ciascuno. Un'alternativa classica (Verdenius, ripreso da Vlastos e, tra gli altri, da Hölscher, Barnes, Bormann, Mansfeld) è quella di fare di φύσις a un tempo il soggetto di ἔστιν e φρονέει: «la natura delle membra è negli uomini la stessa cosa che [essa] pensa». Tarán, Heitsch, Mourelatos, Gallop, O'Brien, Gadamer (tra gli altri) hanno avanzato a loro volta una traduzione letterale, che fa di φύσις μελέων il soggetto di φρονέει, di ὅπερ un accusativo, e di τὸ αὐτό il soggetto di ἔστιν: «la stessa cosa, infatti, è ciò che la natura delle membra pensa negli uomini». In questo modo si lega τὸ αὐτό a ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί, marcando quindi l'identità dell'oggetto del pensiero. 8 Intendiamo in questo contesto φύσις come «natura, costituzione» (μελέων φύσις: «costituzione del corpo»). Giorgio Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 189) intende φύσις come «essenza»: il νόος, come elemento della struttura dell'uomo, operebbe una fusione nella molteplicità delle «membra». Tonelli riprende nella sua traduzione queste indicazioni. 9 Rendiamo il plurale μέλεα come «corpo», secondo l'uso omerico segnalato sopra. 216 in tutti e in ciascuno: ciò che prevale10, infatti, è il pensiero11. 10 In questo caso intendiamo πλέον come comparativo di πολύ («molto»): τὸ πλέον non vale dunque «il pieno» (πλέος aggettivo: «pieno»), ma «il più», «quanto prevale», riferito, a quanto si ricava dal contesto della citazione teofrastea, agli elementi (Fuoco-Notte, ovvero caldo e freddo). Teofrasto interpreta infatti: «la conoscenza si produce secondo l'elemento che prevale» (κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις). Tra coloro che interpretano τὸ πλέον come «il pieno», interessante la posizione di Tarán (pp. 256-60), che argomenta a lungo a partire dallo stesso contesto teofrasteo. Teofrasto, infatti, citerebbe il frammento per marcare come determinante per il pensiero non tanto l'elemento che prevale, ma una certa proporzione tra i componenti (συμμετρία). Così, quando una certa proporzione delle componenti di Luce e Notte è presente nel corpo, ne risulterebbe lo stesso pensiero, dal momento che il pensiero è il risultato dell'intera mescolanza. Coxon (p. 87) interpreta «the plenum» come «the subject whose nature has been expounded in the Way of Truth»: esso sarebbe il solo contenuto del pensiero. Recentemente M. Marcinkowska-Rosół, in Die Konzeption des "Noein" bei Parmenides von Elea, De Gruyter, Berlin-New York 2010, p. 187, ha proposto di leggere τὸ come pronome dimostrativo (= τοῦτο) in funzione prolettica, πλέον come avverbio, e ipotizzando una relativa in funzione di completamento: «[denn dies ist mehr das Denken], was in der Mischung jeweils überwiegt». 11 Qui νόημα è decisamente il risultato dell'atto di pensare. 217 DK B17 δεξιτεροῖσιν1 μὲν κούρους, λαιοῖσι δὲ 2 κούρας… [Galeno, In Hippocr. Epid. VI, 48 (XVII, 1002)] 1 La forma δεξιτεροῖσιν è intervento degli editori: il codice di Galeno riporta δεξιτεροῖσι. 2 Il testo di Galeno riporta δ’ αὖ: per ragioni metriche è stato emendato in δὲ (Scaligero, poi Karsten). Cerri (pp. 283-4) ha contestato tale emendazione come inutile banalizzazione. 218 a destra1 i maschi, a sinistra le femmine. 1 Le due forme dative δεξιτεροῖσιν e λαιοῖσι sono riferite nel contesto del discorso di Galeno (che cita) alle parti dell'utero: τὸ μέντοι ἄρρεν ἐν τῶι δεξιῶι μέρει τῆς μήτρας κυΐσκεσθαι καὶ ἄλλοι τῶν παλαιοτάτων ἀνδρῶν εἰρήκασιν. ὁ μὲν γὰρ Π. οὕτως ἔφη Molti altri tra gli antichi hanno sostenuto che il maschio sia concepito nella parte destra dell'utero. Parmenide infatti afferma.... Gli aggettivi andrebbero dunque riferiti alle parti dell'utero. 219 DK B18 Femina virque simul Veneris cum germina miscent, Venis informans diverso ex sanguine virtus Temperiem servans bene condita corpora fingit. Nam1 si virtutes permixto semine pugnent Nec faciant unam permixto in corpore, dirae Nascentem gemino vexabunt semine sexum. [Celio Aureliano, Tardarum sive chronicarum passionum libri IV, 9] 1 Nella tradizione si trova At come alternativa a Nam. 220 Quando femmina e maschio mescolano insieme i semi1 di Venere, la potenza2 formatrice nelle vene3, che [deriva] da sangue4 opposto5, conservando la giusta misura plasma corpi ben fatti. Se, infatti, una volta mescolato il seme, le forze confliggono [5] e non diventano un'unica potenza nel corpo prodotto dalla mescolanza, malefiche affliggeranno il sesso nascente con il [loro] duplice seme6. 1 Dalla parafrasi di Celio Aureliano troviamo conferma della tradizione dossografica secondo cui Parmenide credeva che esistessero semi maschili e femminili, e che giocassero entrambi un ruolo nella riproduzione. Tale convinzione risale probabilmente ad Alcmeone di Crotone, ma fu contestata nell'antichità da Anassagora e Diogene di Apollonia. 2 Il latino virtus traduce il greco δύναμις («potenza, forza, qualità, proprietà»). 3 L'ablativo venis deve riferirsi o alle vene dei genitori o a quelle dell'embrione: la costruzione, con l'uso di «diverso ex sanguine» suggerisce che la seconda alternativa sia più probabile (Coxon, p. 254). 4 Evidentemente per Parmenide i semi deriverebbero dal sangue, rispettivamente maschile e femminile. Coxon (pp. 254-5) segnala come ciò differenzi la posizione di Parmenide da quella di Alcmeone (che faceva derivare il seme dal cervello), mentre al sangue pare rinviasse Pitagora. 5 Come suggerito da Conche (p. 262), «diversus» non ha qui valore generico, ma, in relazione al sangue maschile e femminile, il significato di «opposto, contrario». 6 Si allude alla situazione in cui l'individuo generato risulti possessore sia del seme maschile sia di quello femminile, caratteristici normalmente di uomini e donne separatemente (Coxon, p. 255). 221 DK B19 οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε1 καί νυν2 ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε τελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ. [Simplicio, In Aristotelis De Caelo 558] 1 I codici DE di Simplicio, in vece di ἔφυ τάδε, riportano ἐφύτα δὲ. 2 I codici di Simplicio riportano καὶ νῦν· καί νυν è correzione degli editori. 222 Ecco, in questo modo1, secondo opinione2, queste cose3 ebbero origine4 e ora5 sono6, 1 La formula οὕτω τοι è impiegata per riassumere quanto detto: introduce quindi una ricapitolazione ovvero la "lezione" che si ricava dal discorso precedente (Conche, p. 265). 2 In conclusione della seconda sezione del poema, nella quale la Dea affrontava – come recita B8.51 - δόξας βροτείας, appare legittimo tradurre κατὰ δόξαν come «secondo opinione». In realtà, molti scelgono di insistere sulla radice in δοκέω, traducendo l'espressione come «secondo parvenza», «secondo apparenza» (Tonelli), «selon ce qui semble» (Conche), «according to belief» (Coxon). Il senso della formula a noi pare comunque salvaguardato: la Dea conclude la propria trattazione della realtà dal punto di vista dell'esperienza umana, cioè di quel punto di vista che matura a partire da τὰ δοκοῦντα («le cose che appaiono e sono assunte sulla base della esperienza»: Simplicio, a proposito di tale punto di vista parla di διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν), ribadendo il carattere che contraddistingue i fenomeni che registriamo (τάδε): nascita (ἔφυ), sviluppo (τραφέντα), morte (tελευτήσουσι). Nella sua interpretazione introduttiva, Simplicio impiega una formulazione platonico-aristotelica: egli parla di ὑπόστασις τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ ma anche di δοκοῦν ὄν. Come ha fatto osservare Coxon (p. 256), i due versi B19.1-2 mettono in contrasto la natura delle cose che appaiono nell'esperienza umana con la natura attribuita all'Essere in B8.5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν. 3 Il pronome dimostrativo τάδε è qui impiegato per designare l'insieme dei fenomeni cosmici oggetto della trattazione (διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν nel linguaggio di Simplicio) precedente. Secondo Conche (p. 265) si riferisce alle cose che i mortali hanno sotto gli occhi: «queste cose qui», di cui il discorso cosmogonico ha spiegato l'origine, la natura e il destino. 4 Il testo greco riporta una irregolarità nell'uso del verbo: il plurale neutro τάδε regge sia la terza persona singolare ἔφυ, sia la terza plurale ἔασι e τελευτήσουσι: il passaggio da singolare a plurale nell'ambito di una stessa frase esistono comunque precedenti in Omero e Senofane (DK 21 B29). 5 La formula καί νυν, come segnalano Diels e Coxon, è comune in Pindaro (e Omero). 6 Come abbiamo già segnalato, è chiaro come in questo passo «queste cose» siano connotate da un punto di vista temporale in senso opposto rispetto a τὸ ἐόν: i tempi verbali (passato, presente futuro), gli avverbi (νυν, μετέπειτα), le scelte verbali (φύω, τρέφω, τελευτάω) contrastano la determinazione dell'essere come οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν di B8.5. 223 e poi, in seguito7 sviluppatesi, avranno fine8. A queste cose, invece9, un nome gli uomini10 imposero11, distintivo12 per ciascuna. 7 La formula avverbiale μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε (letteralmente «dopo, a partire da ora») contrasta la labile puntualità di νυν ἔασι. Leggiamo ἀπὸ τοῦδε collegato al participio τραφέντα. 8 La costruzione greca - τελευτήσουσι τραφέντα – consente diverse soluzioni nella traduzione (Cerri, p. 289): (i) la combinazione di futuro medio e participio aoristo può intendersi nel senso del compimento dell'azione indicata dal participio, quindi: «porteranno a termine la propria crescita»; ovvero (ii) nel senso di una cessazione di quell'azione, quindi: «cesseranno di crescere» (si interromperà il oro sviluppo); o ancora (iii) subordinando l'azione indicata dal futuro a quella indicata dal participio: «una volta cresciuti/sviluppati, avranno fine». 9 Sottolineiamo il valore avversativo di δέ, seguendo Untesteiner e Ruggiu: ciò contribusce a conferire senso critico al rilievo successivo. 10 Anche in questo caso, come in B16, il poeta opta per ἄνθρωποι: la Dea ricorre insomma a una designazione diversa rispetto alla diminutiva βροτοί. Sintomo, forse, del fatto che in questo contesto la polemica è stata abbandonata per lasciare il posto a una ricostruzione oggettiva. 11 L'espressione ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντο richiama puntualmente B8.38b-39a: πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο e B8.53: μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν secondo quella che Cerri (p. 289) definisce «la più tipica movenza della "composizione ad anello"». 12 L'aggettivo ἐπίσημος si riferisce alla funzione (in questo caso attribuita a ὄνομα) di distinguere, contraddistinguere (ἐπί-σημαίνω). All'instabilità del nascere, crescere, morire è sovrapposta la relativa stabilità del nome. Sesto Empirico, unica nostra fonte per i primi trenta versi del poema Περὶ φύσεως (Sulla natura), ne contestualizza il proemio in questi termini: ὁ δὲ γνώριμος αὐτοῦ Παρμενίδης τοῦ μὲν δοξαστοῦ λόγου κατέγνω, φημὶ δὲ τοῦ ἀσθενεῖς ἔχοντος ὑπολήψεις, τὸν δ’ ἐπιστημονικόν, τουτέστι τὸν ἀδιάπτωτον, ὑπέθετο κριτήριον, ἀποστὰς καὶ < αὐτὸς > τῆς τῶν αἰσθήσεων πίστεως. ἐναρχόμενος γοῦν τοῦ Περὶ φύσεως γράφει τοῦτον τὸν τρόπον Il discepolo di lui (= Senofane), Parmenide, svalutò il discorso opinativo – intendo quello che ha concezioni deboli -, e assunse come criterio quello scientifico, cioè quello infallibile, avendo preso le distanze anche lui dalla fiducia nelle sensazioni. Iniziando appunto il Peri physeōs scrive in questo modo … (Adv. Math. VII, 111). Il successivo commento (§§112-114), nel quale Sesto identifica il viaggio del poeta con lo studio filosofico (τὴν κατὰ τὸν φιλόσοφον λόγον θεωρίαν), ha nei secoli condizionato la ricezione del proemio, sia nel senso di proporlo come mera approssimazione metaforica all’istruzione filosofica del poema, sia, conseguentemente, nel senso di misconoscerne il rilievo teoretico, riducendolo a orpello poetico (in fondo trascurabile): ἐν τούτοις γὰρ ὁ Παρμενίδης ἵππους μέν φησιν αὐτὸν φέρειν τὰς ἀλόγους τῆς ψυχῆς ὁρμάς τε καὶ ὀρέξεις [1], κατὰ δὲ τὴν πολύφημον ὁδὸν τοῦ δαίμονος πορεύεσθαι τὴν κατὰ τὸν φιλόσοφον λόγον θεωρίαν, ὃς λόγος προπομποῦ δαίμονος τρόπον ἐπὶ τὴν ἁπάντων ὁδηγεῖ γνῶσιν [2. 3], κούρας δ’ αὐτοῦ προάγειν τὰς αἰσθήσεις [5], ὧν τὰς μὲν ἀκοὰς αἰνίττεται ἐν τῶι 226 λέγειν ‘δοιοῖς... κύκλοις’ [7. 8], τουτέστι τοῖς τῶν ὤτων, τὴν φωνὴν δι’ ὧν καταδέχονται, τὰς δὲ ὁράσεις Ἡλιάδας κούρας κέκληκε [9], δώματα μὲν Νυκτὸς ἀπολιπούσας [9] ‘ἐς φάος < δὲ > ὠσαμένας’ διὰ τὸ μὴ χωρὶς φωτὸς γίνεσθαι τὴν χρῆσιν αὐτῶν. ἐπὶ δὲ τὴν ‘πολύποινον’ ἐλθεῖν Δίκην καὶ ἔχουσαν ‘κληῖδας ἀμοιβούς’ [14], τὴν διάνοιαν ἀσφαλεῖς ἔχουσαν τὰς τῶν πραγμάτων καταλήψεις. ἥτις αὐτὸν ὑποδεξαμένη [22] ἐπαγγέλλεται δύο ταῦτα διδάξειν ‘ἠμὲν ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεμὲς ἦτορ’ [29], ὅπερ ἐστὶ τὸ τῆς ἐπιστήμης ἀμετακίνητον βῆμα, ἕτερον δὲ ‘βροτῶν δόξας... ἀληθής’ [30], τουτέστι τὸ ἐν δόξηι κείμενον πᾶν, ὅτι ἦν ἀβέβαιον. In questi versi Parmenide dice che le cavalle lo portano, [intendendo] gli impulsi e i desideri irrazionali dell'anima (1), e che esse avanzano lungo la via ricca di canti della divinità, [intendendo] nella ricerca secondo la ragione filosofica; la quale ragione guida a guisa di divinità, per la conoscenza di tutte le cose (2, 3); le fanciulle che lo precedono sono le sensazioni (5): di esse accenna all'udito laddove dice «due rotanti cerchi» (7, 8), cioè i cerchi delle orecchie, attraverso cui esse ricevono il suono. Chiama gli occhi fanciulle Eliadi (9), che avendo abbandonato la dimora della Notte (9) vanno «verso la luce> (10), poiché senza luce non può esservi uso di essi. Dice che procedono verso la Giustizia «che molto punisce» e che tiene «le chiavi dall'uso alterno» (14), [intendendo] la ragione che possiede una conoscenza certa delle cose. Essa lo accoglie (22) e promette di insegnare queste due cose: «il cuore saldo di verità ben persuasiva» (29), che è il fondamento immutabile della scienza, e l'altra «le opinioni dei mortali in cui non è reale credibilità» (30), cioè tutto quanto ricade nell'opinione, che non è saldo. In realtà, sin dalla fine del XIX secolo – dall'edizione (1897) del poema a opera di Hermann Diels - si è reagito al rischio di una banale allegoresi della poesia parmenidea, recuperando, proprio nel proemio, uno sfondo frastagliato di prospettive e possibili suggestioni culturali, che hanno in comune l’effetto di renderne la relazione con i successivi frammenti molto più complessa. Dobbiamo alla competenza del filologo tedesco l’inquadramento dell’opera di Parmenide all’interno di un’articolata cornice di plausibili precedenti (e motivi) poetici, che appaiono rilevanti per apprezzarne l’originalità. Nella consapevolezza che la conoscenza della tradizione poetica intermedia (secoli VII-VI a.C.) tra le fonti omeriche ed esiodee e il poema parmenideo è, per noi, in gran parte compromessa, Diels valorizzava in particolare1: (i) il modello della speculazione cosmogonica e cosmologica di Esiodo, che avrebbe improntato soprattutto la seconda sezione del Περὶ φύσεως, ma da cui dipenderebbe la sua stessa struttura bipartita - corrispondente all'iniziale sottolineatura delle Muse in Teogonia, vv. 27-28: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare, insieme al motivo della “doppia via” (verità ed errore), che evocherebbe l’analoga alternativa tra miseria morale (κακότης) e valore morale (ἀρετή) in Opere e giorni (vv. 287 ss.); (ii) il modello della poesia orfica, di cui nel poema riecheggerebbero termini e immagini: nel riconoscerne l’importanza, le connessioni con altre correnti religiose contemporanee (misteri) e il radicamento nella tradizione più antica, lo studioso ne marcava l’ampia incidenza nella cultura greca in genere, rilevando tracce del «pessimismo» (Pessimismus) di questo movimento di «riforma» (Reformation) anche nel «razionalismo» (Rationalimus) della filosofia ionica. 1 H. Diels, Parmenides Lehrgedicht mit einem Anhang über griechische Türen und Schlösser, mit einem neuen Vorwort von W. Burkert und einer revidierten Bibliographie von D. De Cecco, Academia Verlag, Sankt Augustin 20032 (edizione originale 1897), pp. 12 ss. 228 In tale prospettiva, Diels richiamava l’attenzione sulla tradizione dei leggendari «profeti» del misticismo greco arcaico (Epimenide, Onomacrito, Museo) che avrebbe ancora trovato espressione nei Καθαρμοί di Empedocle: nel caso della forma poetica («rivestimento poetico», poetische Einkleidung) privilegiata da Epimenide per la propria «rivelazione» (Offenbarung), ritroveremmo, per esempio, il prototipo della «narrazione in prima persona» (Icherzählung) di un’esperienza di Incubation, quale riferita da Alessandro di Tiro: ἦλθεν Ἀθήναζε καὶ ἄλλος Κρὴς ἀνὴρ ὄνομα Ἐ.· οὐδὲ οὗτος ἔσχεν εἰπεῖν αὑτῶι διδάσκαλον ἀλλ’ ἦν μὲν δεινὸς τὰ θεῖα, ὥστε τὴν Ἀθηναίων πόλιν κακουμένην λοιμῶι καὶ στάσει διεσώσατο ἐκθυσάμενος· δεινὸς δὲ ἦν ταῦτα οὐ μαθών, ἀλλ’ ὕπνον αὑτῶι διηγεῖτο μακρὸν καὶ ὄνειρον διδάσκαλον. ἀφίκετό ποτε Ἀθήναζε ἀνὴρ Κρὴς ὄνομα Ἐ. κομίζων λόγον οὑτωσὶ ῥηθέντα πιστεύεσθαι χαλεπόν· < μέσης γὰρ > ἡμέρας ἐν Δικταίου Διὸς τῶι ἄντρωι κείμενος ὕπνωι βαθεῖ ἔτη συχνὰ ὄναρ ἔφη ἐντυχεῖν αὐτὸς θεοῖς καὶ θεῶν λόγοις καὶ Ἀληθείαι καὶ Δίκηι. Venne ad Atene anche un altro Cretese, di nome Epimenide: nemmeno costui seppe dire chi gli sia stato maestro, ma era straordinariamente competente nelle questioni divine, tanto che, facendo offrire sacrifici, riuscì a salvare la città degli Ateniesi, afflitta dalla peste e dalla discordia civile. Ed era così esperto in questa materia non perché l'avesse imparata, ma si diceva che suo maestro fosse stato un lungo sonno con un sogno. – Arrivò un tempo ad Atene un Cretese, di nome Epimenide, portando un racconto difficile da credere, formulato nei seguenti termini: disse che, sdraiatosi a mezzogiorno nella grotta di zeus Ditteo, rimase immerso in un sonno profondo per molti anni, e si intrattenne in sogno con dèi e discorsi di dèi, con la Verità e con la Giustizia (contesto DK 3 B1. Traduzione di I. Ramelli e G. Reale). 229 Proprio Epimenide (nei suoi Καθαρμοί, in particolare) sarebbe figura esemplare di uno sciamanismo, presente nelle credenze religiose elleniche (in associazione con fenomeni rilevanti, anche a livello letterario, come le epifanie, i sogni, i sacrifici), in cui, rispetto al più generale tema della purificazione e della relativa iniziazione, decisivo diventa il motivo del “viaggio” ultraterreno, del contatto con una realtà trascendente: in questa direzione la poesia genericamente orfica avrebbe incrociato l’elemento “estatico”, di cui appunto il «viaggio celeste» (Himmelreise) costituirebbe frammento. All’interno di tale orizzonte culturale, il Περὶ φύσεως si propone in una luce diversa, tale da suggerire maggiore cautela ermeneutica nella riduzione dei suoi contenuti ai moduli del dibattito contemporaneo (come accade negli approcci analitici ai frammenti). Nel caso del suo proemio, in particolare, si rischia il fraintendimento proponendolo come mera introduzione d’occasione o tributo formale, in cui il sapiente (un filosofo!), per opportunità letteraria e compiacenza verso il proprio pubblico, avrebbe optato per un mascheramento allegorico della propria concettualità (assumendo l’implausibile veste del poeta!): è necessario invece conservare al testo la sua polisemia e al complesso dell’impresa teorica di Parmenide uno spessore originale2. 2 Ogni edizione del poema e ogni saggio su Parmenide si intrattengono su questo nodo interpretativo: la sintesi più recente del lungo dibattito si può leggere in L. Couloubaritsis, La pensée de Parménide [si tratta delle terza edizione di Mythe et philosophie chez Parménide], Ousia, Bruxelles 2008, cap. II "Le «Proème» comme producteur de chemins". Molto utile anche l’introduzione (“Parmenides and His Predecessors”) di M.J. Henn al suo Parmenides of Elea: A Verse Translation with Interpretative Essays and Commentary to the Text, Praeger Publishers, Westport 2003, che si apre la propria introduzione sul tema “The Poet as Shaman and Singer of Mysteries in the Homeric Style”, dedicando molto spazio all’analisi della struttura dell’esametro parmenideo. Una riconsiderazione complessiva della poesia del Περὶ φύσεως è proposta da L.A. Wilkinson, Parmenides and To Eon. Reconsidering Muthos and Logos, Continuum International Publishing, London – New York 2009: le pagine 69-79 sono dedicate al problema del proemio. Un’ampia e sostenuta lettura del proemio come chiave per l’interpretazione del poema è oggi proposta in R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, Orizons, Paris 2011. 230 Come di recente ha ricordato Maria Laura Gemelli Marciano3, il proemio parmenideo non è inutile orpello o artificio letterario: esso è invece fondamentale per comprendere carattere, metodo e finalità del poema. Nel contesto storico-geografico, sociale e religioso in cui si muoveva Parmenide, cantare un’esperienza eccezionale, rappresentare, nel ritmo e nella musicalità proprie delle forme esametriche, un viaggio nell'aldilà, evocando un linguaggio iniziatico e performativo, era cosa ben diversa dall’erudita esercitazione che l’allegoresi di Sesto presuppone: il poeta Parmenide si rivolgeva a un’audience, un pubblico convenuto per ascoltare le parole di una dea e partecipare all’esperienza evocata in versi. È significativo, per la comprensione storica del poema, che del proemio non resti traccia nelle citazioni antiche, che esso sia stato ignorato da coloro (Platone e Aristotele) che hanno contribuito a fissare i contorni della figura di Parmenide per la tradizione successiva. Perché la poesia? Il problema della natura e portata del proemio è strettamente connesso a quello, più generale, della scelta di fondo – da parte di Parmenide - del medium poetico, di cui la narrazione riflette alcuni motivi tradizionali, culturalmente di grande significato teoretico anche nella prospettiva specifica del poema. Ci si riferisce in particolare all’intimo nesso tra poesia, rivelazione e mito, certamente una chiave per decifrare l’impianto creativo del Περὶ φύσεως, in cui si intrecciano racconto, comunicazione divina della «parola» (μῦθος) e «verità» (Ἀληθείη). Rimane ancora molto utile il vecchio aggiornamento, a cura di G. Reale, di E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume III: Eleati, La Nuova Italia, Firenze 1967. 3 "Lire du début. Quelques observations sur les incipit des présocratiques", «Philosophie Antique», 7, 2007 (Présocratiques), pp. 7-37. l'osservazione è alle pp. 11-12. 231 Poesia, mito, verità In un frammento (fr. 12 Bowra) del perduto Inno a Zeus di Pindaro, contemporaneo di Parmenide, noi troviamo una sorta di autointerpretazione mitica del ruolo del poeta e della poesia nella società greca tra VI e V secolo a.C.. Pindaro racconta come, dopo aver ordinato il mondo e il regno degli dei, Zeus avesse loro domandato se, per caso, mancasse ancora qualcosa alla sua fatica: essi, allora, lo avevano pregato di creare alcune divinità per «celebrare con parole e musica quelle grandi opere e l’intero suo ordinamento»4. A tale scopo, per onorare la bellezza dell’edificio cosmico, e manifestarlo nella sua totalità, Zeus introduce nuove divinità, le Muse: così la sua opera si compie con la nascita della parola, del canto (originariamente identici), espressioni divine che ne rivelano l’essere. Per il grande filologo tedesco Walter Friedrich Otto, il supremo evento del mito è che l’essere delle cose si riveli nella parola con la sua divinità5: ogni mito genuino si rivolge alla totalità del reale, come uno sguardo complessivo sulla sua manifestazione originaria. In questa prospettiva, l’esperienza del mito è intesa come esperienza, a un tempo, della bellezza e della verità: da cui l’impressione arcaica che il poeta possa avvicinare, più degli altri uomini, l’essere delle cose; che la sua parola possa afferrare la realtà in profondità in forza della sua “ispirazione”. L’invocazione alle Muse dell’antica poesia greca palesa la recettività del poeta: l’ – osserva Otto - non si apre con la superbia (tipicamente moderna) di una coscienza creatrice, ma con la modestia di chi ascolta. È la divinità a cantare, il poeta è solo suo mediatore: in questo senso la poesia è un’ombra dell’essenza del mito. Eppure il poeta (tipicamente per noi il poeta omerico), sebbene non sia riconosciuto autore di ciò che canta, rimane in ogni caso il recettore dello spirito delle Muse: egli si distingue dalla massa degli altri uomini ed è più vicino agli dèi in quanto sua è la voce 4 Citato in W.F. Otto, Il mito e la parola (1952-3), in Id., Il mito, a cura di G. Moretti, Il Melangolo, Genova 1993, pp. 43-44. 5 W.F. Otto, Il mito (1955), ivi, p. 60. 232 attraverso cui le Muse si esprimono. Egli è un «maestro di verità» (Detienne), le cui parole proclamano piuttosto che suggerire: per questo poeti come Senofane e Parmenide (che compongono entro la tradizione omerica) rivendicano una condizione privilegiata rispetto a quella dei “mortali”. Donde il carattere spesso esoterico della filosofia antica 6. Parmenide e la poesia Nella scelta poetica di Parmenide questi elementi, come si avrà opportunità di rilevare, si ricompongono in modo originale, soprattutto nel plasmare l’atteggiamento del destinatario della comunicazione divina: è un fatto, tuttavia, che essi siano presenti nel Περὶ φύσεως, che il mito assuma la forma del manifestarsi di ciò che è originario, di quanto viene altrimenti designato come il divino (τό θεῖον). Significativamente, la θεά introdurrà (B2) l’assiomatica della sua istruzione intorno alla Verità ricorrendo proprio alla formula «e tu abbi cura della parola, una volta ascoltata» (κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας): il «giovane» (κοῦρος) è esplicitamente sollecitato a «prendersi cura» (κόμισαι) del μῦθος divino, che dischiude la comprensione della realtà. Dei termini greci arcaici per «parola» ritroviamo dunque nel poema: (i) μῦθος (B2.1; B8.1), la forma primitiva per esprimere ciò che è realmente, effettivamente accaduto: la parola che dà notizia del reale, che stabilisce qualcosa, e, in questo senso, è autorevole; (ii) λόγος (B7.5), che ha il valore di di ciò che è stato ponderato, che serve a convincere (donde il valore di «ragione») 7, della parola ragionevole. In questo senso, in B7.5, la Dea innominata inviterà il κοῦρος a valutare razionalmente (κρῖναι λόγωι, «giudica con il ragionamento») l’argomento proposto. 6 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 29. 7 W.F. Otto, Il mito e la parola, in Id., Il mito, cit., pp. 30-32. 233 Già nel registro verbale è possibile intravedere l’intervento creativo di Parmenide sulla tradizione. Nel rilevare la contrapposizione apparente del poema di Parmenide con la razionalità ionica sul terreno dei contenuti e dello stile, Ruggiu8 ha colto nella ripresa della forma e del metro epico una modalità espressiva appropriata alla parola come μῦθος: il contenuto dell’epica è costituito, insieme, da «le cose che sono, quelle che sono state e quelle che saranno» (τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, Calcante in Iliade I, 70) e τά ἀληθέα (le Muse in Teogonia 28), da intendere come sinonimi. Dal momento che, anche per Parmenide, valore primario è la Verità (Realtà), attribuire a una divinità la rivelazione del contenuto dell’opera sarebbe dunque escamotage espressivo coerente con la tradizione sapienziale arcaica: il disvelarsi del reale si palesa come manifestazione del divino stesso9. È questo, allora, il motivo che induce all'adozione della forma e del metro epico? Parmenide è ancora persuaso che il discorso cantato come pratica comunicativa garantisca la possibilità di una “comunicazione vera”, di un «autentico contatto» (Vernant) con il divino10? Proprio il proemio, in effetti, sembra giustificare le scelte di Parmenide alla luce dei suoi possibili modelli di riferimento: (i) l’inno alla divinità in funzione di proemio rapsodico (nel campo della poesia epica), ovvero l’invocazione alle Muse in funzione di protasi; (ii) i proemi delle opere di Esiodo, Epimenide e Aristea (nel campo della poesia cosmogonica), che celebrano l’investitura poetica e la rivelazione da parte della divinità11. Non vi è dubbio che, optato per il medium della rivelazione, l’adozione della forma poetica fosse scontata e il metro dell’epica tradizionalmente 8 Parmenide, Poema sulla Natura. I frammenti e le testimonianze indirette, presentazione, traduzione e note a cura di G. Reale, saggio introduttivo e commentario filosofico a cura di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1991, pp. 155- 156. 9 Ivi, p. 160. 10 Wilkinson, op. cit., p. 67. 11 Parmenide di Elea, Poema sulla Natura, introduzione, testo, traduzione e note di commento di G. Cerri, BUR, Milano 1999, pp. 109-110. 234 funzionale all’istruzione 12; ma è anche vero che la scelta dell’epica avrebbe a suo modo naturalmente comportato quel medium (almeno nella forma dell'ispirazione) tradizionale. Si tratta di due prospettive distinte e complementari, che potremmo così schematicamente caratterizzare: la prima opzione sottolinea l’orizzonte della verità in cui si iscrivono i contenuti del poema, che la divinità garantisce con la propria autorità e autorevolezza; la seconda richiama soprattutto la sua efficacia comunicativa, un aspetto spesso trascurato, ma che di recente ha assunto grande rilievo nella letteratura critica13. Poesia, educazione e vita Proprio considerando i plausibili modelli che si celano dietro le scelte e i moduli espressivi di Parmenide, non pare azzardato sostenere che il proemio annunci un processo di trasformazione della persona (il κοῦρος istruito dalla Dea), in cui il momento cognitivo tradizionalmente privilegiato dagli interpreti è in realtà funzionale a una modificazione radicale dell’esistenza di colui che è destinato a ricevere la comunicazione divina. Non a caso esso è stato spesso accostato in passato ai miti escatologici di Platone: in particolare il mito conclusivo della Repubblica (mito di Er) e quello centrale del Fedro (mito dell’auriga). Almeno alcuni elementi fanno in questo senso indiscutibilmente riflettere: (i) la ripresa di un motivo, quello del viaggio, centrale non solo nella letteratura omerica ma anche in quella religiosa; (ii) la meta del viaggio: l’incontro con la divinità; (iii) la scenografia cosmica dell’incontro; (iv) le modalità della rivelazione divina. Gli interpreti sostanzialmente concordano nel riconoscere nella scelta parmenidea del metro (esametro) dell’epica 12 Parmenides. A Text with Translation, Commentary and Critical Essays, by L. Tarán, Princeton University Press, Princeton 1965, p. 31. 13 Mi riferisco, in particolare, ai contributi di Chiara Robbiano (2006) e Martina Stemich (2008). 235 un’intenzione didascalica, l’interesse al recupero di uno strumento culturale ed educativo essenziale della tradizione. Possiamo allora considerare tale opzione come un facilitatore per la comunicazione del sapiente: come i poemi epici di Omero ed Esiodo, il poema di Parmenide tratta della verità e offre educazione. Chiara Robbiano ha giustamente rilevato come scrivere in versi fosse la soluzione espressiva più naturale per chi intendesse affrontare una materia del massimo rilievo: evocando alcune categorie epiche familiari al pubblico, era poi possibile rimodellarle in una nuova prospettiva filosofica14. Nel caso di Parmenide si trattava di suscitare aspettative, soprattutto se - ammettendo la circolazione di idee nel complesso del mondo greco, orientale e occidentale - interpretiamo la scelta poetica come alternativa ai modelli in prosa provenienti dalla Ionia. Da un poema in esametri il pubblico poteva aspettarsi: (i) una comunicazione di verità; (ii) la proposta di un modello di comportamento15. A conferma, è significativo il fatto che, nella cultura tra VI e IV secolo a.C., a più riprese, Senofane, Eraclito e Platone abbiano attaccato Omero ed Esiodo, così denunciando l’incidenza (e l’efficacia) dell’epica arcaica su mentalità e costumi. Non va trascurata la possibilità che Parmenide abbia valutato l’impatto “didattico” della performance poetica, la forza comunicativa della recitazione pubblica, caratteristica di un contesto culturale ancora decisamente segnato dalla tradizione orale. Anche in questo senso Parmenide avrebbe potuto sfruttare i vantaggi che garantiva il richiamo alla sapienza del canto poetico omerico ed esiodeo (facilitare diffusione e memorizzazione della propria scrittura, attingere a un repertorio di immagini e analogie di sicuro effetto), con la possibilità, poi, di dar forma – in piena autonomia – a nuovi concetti e formule astratte16. 14 C. Robbiano, Becoming Being. On Parmenides’ Transformative Philosophy, International Pre-Platonic Studies, Academia Verlag, Sankt Augustin 2006, p. 42. 15 Ibidem. 16 M. Stemich, Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, Ontos Verlag, Frankfurt 2008, pp. 30-31. 236 Della poesia greca arcaica17, il Περὶ φύσεως, nel suo proemio, conserva senz’altro il riferimento paradigmatico al mito come memoria per recuperare creativamente temi e motivi della tradizione in funzione didascalica, insieme al rilievo dell’ispirazione divina (donde l’istituto stesso del proemio, cioè l’abitudine di far cominciare il canto - epico o lirico - con l’invocazione alle Muse o ad altre divinità) e alla (probabile) destinazione performativa pubblica, collegata alla scelta della forma metrica (esametro), secondo le indicazioni interne alla stessa tradizione omerica (l’aedo Demodoco nell’ottavo libro dell’Odissea). Gentili segnala18 come alla fine del VI sec. (504-501) il rapsodo Cineto di Chio fosse il primo a «recitare» Omero a Siracusa (in un’area geografica non remota dalla Magna Grecia di Elea: pare che Parmenide soggiornasse presso la corte di Ierone, che aveva richiamato artisti e intellettuali da tutta la Grecia19), inserendo nell’ordito dei poemi omerici originali versi epici. Non va dimenticato come, in un sistema culturale – quale quello greco arcaico - fondato quasi esclusivamente sull’oralità della comunicazione del messaggio poetico, il cantore epico fosse destinato a trasmettere, attraverso la narrazione, l’enciclopedia del sapere (tecnico, giuridico, scientifico) in cui, per secoli (nel caso dell’epos omerico), si era riconosciuta (e intorno a cui si era venuta organizzando) la società ellenica20. Per la comprensione del testo di Parmenide, che noi oggi leggiamo, è quindi essenziale la contestualizzazione, non solo per le trame teoriche, ma anche per quelle formali: ciò consente - rispetto a quelle arcaiche forme enciclopediche, in cui tutta la saggezza era incorporata nella concretezza della narrazione - di apprezzarne la specifica natura, l'originalità dell’impianto e l’audacia dei suoi assunti (astratti e sistematici). 17 Ricavo questi elementi dal primo capitolo (Oralità e cultura arcaica) di B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V secolo, Feltrinelli, Milano 2006. 18 Ivi, p. 22. 19 Su questo A. Capizzi, "Quattro ipotesi eleatiche", in «La Parola del Passato», XLIII, 1988, pp. 42-60; riferimento alle pp. 52-53. 20 Gentili, op. cit., p. 69. 237 Non va comunque trascurato il fatto che la scelta espressiva – probabilmente condizionata da esigenze di diffusione e trasmissione (non ultima la stessa memorizzazione) – implicava, in quello sfondo culturale, la dimensione “spettacolare” (recitazione e canto) della sua ricezione21, che Parmenide non poteva ignorare. Questa considerazione, da un mero punto di vista formale, aiuta a comprendere la solennità dell’esordio poetico del Περὶ φύσεως e l’insieme drammatico del proemio (viaggio, difficoltà, incontro con la divinità), così come la sua intenzione di coinvolgere il pubblico destinatario, non solo a livello intellettuale, ma anche emozionale, incoraggiandolo a seguire l’esperienza «trasformativa» del poeta, convertito dal contatto con la verità22. In questo senso, rispetto alla tradizione, è opportuno osservare come il poema suggerisca: (i) una diversa modalità di approccio alla Verità: nella poesia omerica, la presenza del divino era evocata e invocata attraverso la Musa e i versi originavano dalla «memoria divina» 23; nel poema in generale, e nel proemio soprattutto, l'invocazione è sostituita da un incontro divinamente garantito e da una diretta comunicazione divina, che fanno del poeta qualcosa di più di un semplice tramite ispirato; (ii) una probabile integrazione della dimensione performativa: l'invito alla valutazione razionale (κρῖναι δὲ λόγῳ) fa pensare a una relazione educativa del tipo delineato dal Sofista platonico (237a): come ha di recente sottolineato Passa24, la rievocazione, per bocca dello Straniero di Elea, di una lezione tenuta da Parmenide ai discepoli potrebbe essere indicativa – oltre che dello stesso modello pedagogico dell'Accademia – di un'originale impronta dell'Eleate: Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ 21 Ivi, p. 49. 22 Robbiano, op. cit., p. 49. 23 Wilkinson, op. cit., p. 32. 24 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 25. 238 μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ διὰ τέλους τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ μέτρων Οὐ γὰρ μή ποτε τοῦτο δαμῇ, φησίν, εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ’ ἀφ’ ὁδοῦ διζήμενος εἶργε νόημα [B7.1-2] Questo discorso ha osato supporre che ciò che non è sia; il falso, infatti, non potrebbe prodursi in altro modo. Il grande Parmenide, tuttavia, figlio mio, a noi che eravamo ancora bambini, cominciando e fino alla fine testimoniava contro questo discorso, ribadendo ogni volta con le sue parole e i suoi versi che: «Questo infatti mai sarà forzato: che siano cose che non sono; Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero». Si tratta di un «fotogramma di interno scolastico»25: la memorizzazione dei contenuti fondamentali (cui la scelta dei versi sarebbe stata funzionale) era affiancata dal commento e dall'argomentazione dettagliata del maestro, che approfondiva e chiariva i temi (comunicando probabilmente informazioni supplementari, non divulgabili all'esterno). Il poema potrebbe essere, almeno in parte, un reperto di tale situazione didattica: donde le sue asperità e l'impressione che fosse probabilmente rivolto a una cerchia ristretta26. Parmenide poeta È significativo che, in quella che potrebbe essere la più antica allusione a Parmenide, egli sia annoverato tra i «poeti»: 25 Cerri, op. cit., p. 94. 26 Questo rilievo in M.L. Gemelli Marciano, "Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et destinataires", in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’estce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, pp. 89-90, che accosta in questo senso Parmenide a Eraclito. 239 ἆρα ἔχει ἀλήθειάν τινα ὄψις τε καὶ ἀκοὴ τοῖς ἀνθρώποις, ἢ τά γε τοιαῦτα καὶ οἱ ποιηταὶ ἡμῖν ἀεὶ θρυλοῦσιν, ὅτι οὔτ’ ἀκούομεν ἀκριβὲς οὐδὲν οὔτε ὁρῶμεν; Mi chiedo se vista e udito abbiano una qualche verità per gli uomini, oppure se queste cose stiano proprio come sempre ci ripetono i poeti: che non udiamo né vediamo alcunché di preciso. (Fedone 65b), a dispetto di una tradizione che avrebbe poi, a più riprese, manifestato un certo disappunto di fronte ai versi dell’Eleate: τὰ δ’ Ἐμπεδοκλέους ἔπη καὶ Παρμενίδου καὶ θηριακὰ Νικάνδρου καὶ γνωμολογίαι Θεόγνιδος λόγοι εἰσὶ κιχράμενοι παρὰ ποιητικῆς ὥσπερ ὄχημα τὸ μέτρον καὶ τὸν ὄγκον, ἵνα τὸ πεζὸν διαφύγωσιν. I poemi di Empedocle e Parmenide, le Teriache di Nicandro e le Sentenze di Teognide sono discorsi che, servendosi della poesia come di un veicolo, ne prendono il metro e la dignità, per evitare la prosa [il prosaico]. (Plutarco; DK 28 A15) μέμψαιτο δ’ ἄν τις Ἀρχιλόχου μὲν τὴν ὑπόθεσιν, Παρμενίδου δὲ τὴν στιχοποιίαν [...] Ad Archiloco si potrebbe rimproverare il soggetto, a Parmenide il modo di fare versi […] (Plutarco; DK 28 A16) ὁ δέ γε Π. καίτοι διὰ ποίησιν ἀσαφὴς ὢν ὅμως καὶ αὐτὸς ταῦτα ἐνδεικνύμενός φησιν Parmenide, pur risultando oscuro a causa della poesia, espone e afferma a sua volta le stesse cose. (Proclo; DK 28 A17). La forza del pensiero sarebbe stata, insomma, artificiosamente costretta in una forma espositiva inadeguata, producendo un duplice effetto negativo: l’oscurità dell’espressione e la scadente qualità dei versi. Scontato, per la tradizione platonica, che Parmenide avesse elaborato il proprio contributo indipendentemente dal 240 medium espressivo, cui si sarebbe applicato in un secondo momento, valutandone l’impatto comunicativo: donde i compromessi e le incongruenze cui accenna Proclo: αὐτὸς ὁ Π. ἐν τῆι ποιήσει· καίτοι δι’ αὐτὸ δήπου τὸ ποιητικὸν εἶδος χρῆσθαι μεταφοραῖς ὀνομάτων καὶ σχήμασι καὶ τροπαῖς ὀφείλων ὅμως τὸ ἀκαλλώπιστον καὶ ἰσχνὸν καὶ καθαρὸν εἶδος τῆς ἀπαγγελίας ἠσπάσατο. δηλοῖ δὲ τοῦτο ἐν τοῖς τοιούτοις [B 8, 25. 5. 44. 45] καὶ πᾶν ὅ τι ἄλλο τοιοῦτον· ὥστε μᾶλλον πεζὸν εἶναι δοκεῖν ἢ ποιητικὸν < τὸν > λόγον. Lo stesso Parmenide, nel poema, pur essendo costretto, certamente a causa della forma poetica, a far ricorso a metafore, figure e tropi, privilegiò tuttavia una forma d’esposizione disadorna, controllata e semplice. Mostra ciò in questi versi [B8.25, 5, 44, 45] e in tutti gli altri di questo tenore, così che il suo discorso sembra piuttosto prosa che poesia. (Proclo; DK 28 A18). Sembra rivendicare invece l’originaria e originale intenzione poetica dell’opera parmenidea Genetlio: φυσικοὶ [sc. ὕμνοι] δὲ ὁποίους οἱ περὶ Παρμενίδην καὶ Ἐμπεδοκλέα ἐποίησαν [vgl. 31 A 23]. […] εἰσὶν δὲ τοιοῦτοι, ὅταν Ἀπόλλωνος ὕμνον λέγοντες ἥλιον αὐτὸν εἶναι φάσκωμεν καὶ περὶ τοῦ ἡλίου τῆς φύσεως διαλεγώμεθα καὶ περὶ Ἥρας ὅτι ἀήρ, καὶ Ζεὺς τὸ θερμόν· οἱ γὰρ τοιοῦτοι ὕμνοι φυσιολογικοί. καὶ χρῶνται δὲ τῶι τοιούτωι τρόπωι Π. τε καὶ Ἐμπεδοκλῆς ἀκριβῶς... Π. μὲν γὰρ καὶ Ἐμπεδοκλῆς ἐξηγοῦνται, Πλάτων δὲ ἐν βραχυτάτοις ἀναμιμνήισκει. Inni fisici, come quelli composti da Parmenide, Empedocle e dai loro seguaci […] Essi sono tali quando, levando un inno ad Apollo, diciamo che è il sole e discutiamo della natura del sole, e di Era diciamo che è l’aria, di Zeus che è il calore: inni di questo tipo infatti riguardano l’indagine sulla natura. Si servono di questa forma d’espressione Parmenide ed Empedocle in modo rigoroso […] Parmenide ed Empedocle infatti fanno da 241 guida e Platone lo ricorda brevemente. (Genetlio; DK 28 A20). Parmenide ed Empedocle sarebbero stati campioni in un genere, quello dei «poemi fisici» (φυσικοὶ ὕμνοι), vere e proprie «indagini sulla natura» (φυσιολογικοί), riconosciuto nell’antichità (Platone). Simplicio suggerisce, dal canto suo, un ulteriore interessante accostamento: εἰ δ’‘εὐ κύκλουσφαίρης ἐν αλίγκιον ὄγκωι ’τὸ ἓν ὄν φησι [Β 8, 43], μὴ θαυμάσηις· διὰ γὰρ τὴν ποίησιν καὶ μυθικοῦ τινος παράπτεται πλάσματος. τί οὖν διέφερε τοῦτο εἰπεῖν ἢ ὡς Ὀρφεὺς [fr. 70, 2 Kern] εἶπεν ‘ὠεὸν ἀργύφεον’; Se [Parmenide] afferma che l’essere uno è «simile a massa di ben rotonda palla» [B8.43], non ci si deve meravigliare: a causa della poesia, infatti, egli ricorre anche a qualche finzione mitica. Che differenza c’è dunque tra questo modo di esprimersi e quello di Orfeo: «uovo d’argento»? (Simplicio; DK 28 A20). La ricerca contemporanea ha documentato la matrice omerica praticamente dell’intero lessico del poema (Coxon27), e rilevato la raffinatezza della sua composizione ritmica e musicale (Henn), a dispetto della complessità della sua materia (rispetto ai precedenti di riferimento, Omero ed Esiodo), rivendicando quindi la dimensione poetica dell’opera di Parmenide e soprattutto la sua formazione di rapsodo (Schwabl28), riconoscendo, in altre parole, che «Parmenide era un bardo omerico, erede dei tesori di secoli di recitazione orale» (Henn29), impegnato a comporre all’interno della tradizione epica e non contro di essa. Parmenide, insomma, era (come Empedocle, probabilmente) in primo luogo un poeta, interessato a sperimentare le potenzialità 27 A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum, Assen/Maastricht 1986, pp. 9-13. 28 H. Schwabl, “Hesiod und Parmenides, Zur Formung des parmenideischen Prooimions (28 B1)”, «Reinisches Museum», 106 (1963), pp. 134-142. 29 M.J. Henn, Parmenides of Elea…, cit., p.5. 242 del verso nel campo d’indagine della natura: i modelli epici potrebbero tuttavia non ridursi ai poemi omerici ed esiodei, e comprendere anche (soprattutto per la seconda parte del poema) la produzione orfica, soprattutto teogonica e cosmogonica30, attribuita a Museo, Epimenide e Onomacrito31. La rivelazione di Parmenide La scelta di una portavoce divina esprimerebbe per alcuni il desiderio di Parmenide di marcare l'oggettività del suo metodo32: se l’esito della ricerca fosse stato avanzato semplicemente come la sua verità, avrebbe finito per riproporsi come un punto di vista, l’opinione di un mortale in concorrenza con le opinioni degli altri (mortali)33. Secondo il modulo epico, invece, il poeta-pensatore non è che portavoce della Dea e della Verità: come il contemporaneo Eraclito rimarcava che: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι non me, ma il logos ascoltando, è saggio convenire che tutto è uno (DK 22 B50), così Parmenide non intende riferire la verità immediatamente a un soggetto, ma alla divinità, per garantirne l’assolutezza34. 30 Sull’orfismo in generale si vedano ora i numerosi e preziosi saggi contenuti in A. Bernabé y F. Casadesús (coords.), Orfeo y la tradicíon órfica. Un reencuentro, 2 voll., Akal, Madrid 2008. In particolare, nel primo volume A. Bernabé, Caraterísticas de los textos órficos, pp. 241-246; M. Herrero, Tradición órfica y tradición homérica, cit., pp. 247-278. 31 Per questi aspetti R.B. Martínez Nieto, Otros poetas griegos próximos a Orfeo, ivi, pp. 549-576. 32 Tarán, op. cit., p. 31. 33 Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec, traduction, présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1999 (edizione originale 1996), p. 66. 34 Ivi, p. 65. 243 Questa plausibile spiegazione della cornice religiosa non può tuttavia non tenere conto proprio della natura argomentativa della prima sezione del poema - indicata dalla Dea come «discorso affidabile e pensiero intorno alla Verità» (πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης B8.50-1) - che la stessa Dea evoca come ἔλεγχος (disamina, prova), invitando il κοῦρος a giudicare razionalmente (κρῖναι δὲ λόγῳ): consapevolezza che sembrerebbe contraddire l’urgenza di un pegno divino per il logos proferito. Rivelazione e verità In realtà Parmenide, come Senofane, sembra per lo più aderire alla concezione pessimistica della condizione umana espressa tradizionalmente nella poesia arcaica. Leszl, in proposito, cita il contemporaneo Teognide (vv. 139-41): οὐδέ τωι ἀνθρώπων παραγίνεται, ὅσσα θέληισιν· ἴσχει γὰρ χαλεπῆς πείρατ’ ἀμηχανίης. ἄνθρωποι δὲ μάταια νομίζομεν εἰδότες οὐδέν· θεοὶ δὲ κατὰ σφέτερον πάντα τελοῦσι νόον Nessuno degli uomini ottiene quanto è nei suoi desideri; si scontra infatti con i limiti postigli dalla dura inettitudine. Uomini come siamo, coltiviamo illusioni, senza sapere nulla, mentre gli dei pervengono alla realizzazione di tutto quanto hanno in mente35. È significativo che proprio dalla poesia Parmenide ricavi i tratti con cui, in B6 e B7, caratterizzerà l’impotenza dei «mortali» (βροτοί): essi sono apostrofati come εἰδότες οὐδέν («che nulla sanno», come in Omero, Teognide, Mimnermo, Semonide); la loro incapacità di realizzare ciò che è nei loro intenti è stigmatizzata 35 W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994, p. 162. 244 come ἀμηχανίη («impotenza», «inettitudine», come in Teognide e nell’Inno Omerico ad Apollo, vv. 189-193); la loro attitudine cognitiva liquidata come πλακτὸν νόον («mente errante», con paralleli in Archiloco fr. 58)36. A dispetto di questo quadro, del fatto che l’uomo, con le sole sue forze, non possa pervenire alla conoscenza piena della realtà, il proemio narra come l’intervento e la benevolenza delle divinità consentano – almeno al poeta – di ricevere e partecipare di quel sapere che è appannaggio divino37. Non sorprende che tale rivelazione investa in primo luogo le premesse (B2) della successiva disamina razionale (B6-8), che il kouros è invece sollecitato a valutare, come se ormai, grazie alla comunicazione dei principi, potesse concludere autonomamente; né che, alla luce delle tradizioni evocate nello stesso proemio, essa si sostanzi essenzialmente in termini contemplativi (B3-4), facendo quasi coincidere la percezione intelligente (νοεῖν) con il proprio oggetto (εἶναι) 38. La specifica cornice letteraria e l’implicito motivo della comunicazione divina sarebbero allora sfruttati, consapevolmente e strumentalmente, allo scopo di certificare verità e disponibilità dei principi dell’argomentazione: Parmenide, insomma, avrebbe attribuito i fondamenti della propria enciclopedia a un’anonima docenza divina, per assicurarne incontestabilità e universalità. Ovvero, come intende Conche, il sapiente-poeta avrebbe conservato, nella finzione della Dea, l’idea tradizionale dell’onniscienza divina, idea di un sapere che tocca la realtà nel suo insieme: avremmo in questo senso, come già nel caso di Senofane, non più una divinità religiosa ma filosofica39. 36 Ivi, pp. 163-4. 37 Ivi, p. 166. 38 Su questo ancora Leszl, op. cit., p. 168. 39 Conche, op. cit., p. 66. 245 Il problema della verità Nella pratica poetica sembrava dunque risolversi un cruciale problema cognitivo40: dal momento che gli esseri umani, nella loro impotenza, sono soggetti a illusoni, come può il sapiente riconoscere la verità, sottrarsi a quella condizione di diffusa deficienza (cognitiva) e pretendere di sapere? Nella cultura greca arcaica, solo un dio poteva essere fonte di verità, e il linguaggio della comunicazione divina era quello dei versi: Omero ed Esiodo validavano la loro poesia marcando il fatto che essa annunciava la verità, la cui conoscenza (sovrumana) era garantita dalla Musa epica41. In questo senso, il motivo poetico della comunicazione divina è in Parmenide pervasivo, abbracciando entrambe le sezioni del poema42: l’intero campo del sapere è esplicitamente ricondotto alla lezione della Dea, tanto le tesi intorno all’essere, quanto l’enciclopedia del «sistema cosmico» (διάκοσμος), senza alcuno spazio per una piena rivendicazione autoriale da parte del poeta. Se consideriamo la struttura dell'opera delineata in conclusione del proemio, e i passi superstiti della prima sezione, risulta evidente, nella narrazione, come il rilievo della lezione divina sia funzionale alla focalizzazione del problema dell'accesso alla veri- 40 Su questo punto è fondamentale il contributo di G.W. Most, "The poetics of early Greek philosophy", in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, edited by A.A. Long, C.U.P., Cambridge 1999, pp. 332-362. Nello specifico rinvio a p. 353. 41 Ivi, p. 343. 42 Sulla scorta delle indicazioni del testo (DK 28 B8.50-52): ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε […] A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara […] le due sezioni sono tradizionalmente designate come Verità e Opinione. 246 tà43. Veridicità ed essenzialità44, in effetti, erano fondamentali obiettivi poetici che le opere di Omero ed Esiodo si proponevano e rivendicavano (implicitamente o esplicitamente): gli inni teogonici, per esempio, articolavano il pantheon riconducendolo all’origine del cosmo, così assicurando, in forza della rivelazione della Musa, una conoscenza superumana di cose distanti nel tempo e nello spazio45. Quando le Muse di Esiodo dichiarano: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare – (Teogonia 27-28), l’intenzione non è di mettere in guardia dal contenuto della buona poesia, piuttosto dalla comprensione della maggioranza degli uomini, così scadente da non poter discernere il vero dal falso46. Senofane, probabilmente nello stesso ambiente culturale di Parmenide47, aveva già chiaramente manifestato segni di scetticismo nei confronti del mito e di quella tradizione poetica: πάντα θεοῖσ’ ἀνέθηκαν Ὅμηρός θ’ Ἡσίοδός τε, ὅσσα παρ’ ἀνθρώποισιν ὀνείδεα καὶ ψόγος ἐστίν, κλέπτειν μοιχεύειν τε καὶ ἀλλήλους ἀπατεύειν ogni cosa agli dei attribuirono Omero ed Esiodo, 43 Su questo punto G. Germani, "ΑΛΗΘΕΙΗ in Parmenide", in «La Parola del Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 177-206. 44 Most, op. cit., p. 343. 45 K. Algra, "The beginnings of cosmology", in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit., pp. 45-65. Il passo cui ci riferiamo è a p. 49. 46 Most, op. cit., p. 343. 47 La tradizione dossografica antica costantemente associa Parmenide a Senofane: tale relazione è stata conservata nella tradizione fino al XX secolo, nel corso del quale essa è risultata profondamente scossa. Con buoni argomenti ha di recente rilanciato la dipendenza di Parmenide dal pensatore di Colofone John Palmer (Plato's Reception of Parmenides, Clarendon Press, Oxford 1999, pp. 186 ss.; Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 324 ss.). 247 quanto presso gli uomini è cosa riprovevole e censurabile: rubare, commettere adulterio e vicendevolmente imbrogliarsi (DK 21 B11) Ὅμηρος δὲ καὶ Ἡσίοδος κατὰ τὸν Κολοφώνιον Ξενοφάνη ὡς πλεῖστ(α) ἐφθέγξαντο θεῶν ἀθεμίστια ἔργα, κλέπτειν μοιχεύειν τε καὶ ἀλλήλους ἀπατεύειν Omero ed Esiodo, secondo Senofane di Colofone: Numerosissime azioni illegittime hanno narrato degli dei: rubare, commettere adulterio e vicendevolmente imbrogliarsi (DK 21 B12). Egli (come Eraclito) prende apertamente posizione contro la falsità dei contenuti di quella poesia, contro la distorsione della corretta concezione del divino: è significativo, in questo senso, che proprio a cavallo tra VI e V secolo a.C. si sviluppi la più importante «misura di recupero»48 a protezione dei poeti: l'interpretazione allegorica. A Teagene di Reggio dovremmo, in effetti, il tentativo di sanare la frattura tra le fonti tradizionali dell'autorità poetica e i più recenti criteri di argomentazione concettuale49. Certamente la critica di Senofane rischiava di accentuare il divario tra piano umano e piano divino, come emerge da alcuni dei frammenti conservati, rendendo conseguentemente problematico l'accesso alla verità: οὔτοι ἀπ’ ἀρχῆς πάντα θεοὶ θνητοῖσ’ ὑπέδειξαν, ἀλλὰ χρόνωι ζητοῦντες ἐφευρίσκουσιν ἄμεινον non è vero che dal principio tutte le cose gli dei ai mortali svelarono, ma nel tempo, ricercando, essi trovano ciò che è meglio (DK 21 B18) 48 L'espressione è di Most, op. cit., p. 339. 49 Ibidem. Sulla relazione tra Senofane, Paremnide e Teagene si veda A. Capizzi, "Quattro ipotesi eleatiche", in «La Parola del Passato, cit.. 248 καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔτις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται davvero l'evidente verità nessun uomo conobbe, né mai ci sarà sapiente intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti, ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui stesso non lo saprebbe: opinione è data su tutte le cose (DK 21 B34). Benché testo e significato dell'ultimo frammento rimangano ancora controversi50, esso sembra anticipare la conclusione scettica per cui non esiste criterio per stabilire una verità evidente e del tutto affidabile. Analogamente si esprimeva, tra i contemporanei di Parmenide, Alcmeone: Ἀλκμαίων Κροτωνιήτης τάδε ἔλεξε Πειρίθου υἱὸς Βροτίνωι καὶ Λέοντι καὶ Βαθύλλωι· περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν σαφήνειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι καὶ τὰ ἑξῆς Alcmeone di Crotone, figlio di Piritoo, ha detto queste cose a Brotino, Leonte e Batillo: sulle cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo trovare degli indizi51 (DK 24 B1). La scelta di Parmenide - di far ruotare intorno a una figura divina la comunicazione del poema - potrebbe allora simboleggiare 50 J.H. Lesher, "Early interest in knowledge", in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit., pp. 225-249. Il riferimento a p. 229. 51 Dal passo iniziale del frammento vero e proprio (περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν) la Gemelli Marciano propone di espungere la virgola, offrendo quindi la seguente traduzione: «sulle cose invisibili che riguardano i mortali» ("Lire du début. Quelques observations sur les incipit des présocratiques", «Philosophie Antique», 7, 2007 [Présocratiques], p. 19). 249 «la ripresa e la soluzione parmenidea del problema della verità»52. Non va quindi trascurata la possibilità di cogliere, negli echi della poesia religiosa e della stessa poesia esiodea (con la ripresa di elementi cosmologici della Teogonia), la specificità dell'esperienza narrata nel proemio come prefigurazione del complesso dei contenuti dell’opera. Motivi poetici e suggestioni In uno studio molto innovativo per l’attenzione alla forma poetica del Περὶ φύσεως, Mourelatos 53 individuò alcuni motivi 54 dell’epica chiaramente presenti nel poema. Tra questi appaiono di particolare interesse (i) quello del viaggio, certamente il più importante, anche per le possibili implicazioni (in precedenza segnalate) con la poesia religiosa; (ii) quello dell’istruzione, marcata dall’uso della seconda persona nella comunicazione divina, e dal ricorso a formule programmatiche (χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι; μαθήσεαι; κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας; πεύσῃ; εἰδήσεις), memori di Esiodo (Le opere e i giorni) e Omero. Viaggio ed erramento Dei cinque aspetti rilevati55 nella struttura di questo «motivo» (motif) omerico - (i) progresso nel viaggio di ritorno, (ii) regresso ed erramento; (iii) navigazione esperta; (iv) azione folle; (v) ricerca di informazioni sul ritorno da parte dei parenti a casa – i 52 Germani, op. cit., p. 187. 53 A.P.D. Mourelatos, The Route of Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the Fragments, Yale University Press, New Haven – London 1970, pp. 12-14. 54 Non mi addentro nella distinzione, proposta dallo studioso, tra «tema» o «concetto», per cui le pure forme poetiche fungono da veicolo (oggetto della «iconografia»), e «motivo» o «significato complessivo», «valore simbolico» (oggetto della «iconologia»). Ibidem, pp. 11-12. 55 Ivi, p. 18. 250 primi quattro appaiono marcatamente sfruttati nel poema. La compiuta circolarità del viaggio nell'Odissea pone in primo piano il ritorno a casa (νόστος), per cui esiste una specifica impresa di ricerca (νόστον διζήμενος): nel proemio si alluderebbe esplicitamente o implicitamente – a seconda delle interpretazioni – alla stessa situazione (viaggio alla dea e ritorno tra gli uomini). In ogni caso centrali risulterebbero, nell’economia del poema, la conduzione (πομπή) delle guide (divine) di scorta al viaggiatore e – per contrasto – l’erramento (πλάνη) dei «mortali»: analogamente, l’eroe omerico - accorto e istruito dalle divinità - sa di dover osservare un certo comportamento, mentre i suoi compagni, privi di lungimiranza, si rendono colpevoli di azioni irresponsabili, d’ostacolo al viaggio di ritorno56. Così, al kouros la Dea non manca di riferire le coordinate (i «segni», σήματα) della via corretta (B8.1-2: μῦθος ὁδοῖο ὡς ἔστιν), mettendolo in guardia dalle insidie della «abitudine nata dalle molte esperienze» (B7.3: ἔθος πολύπειρον); alla cui deriva, invece, come i compagni di Odisseo, si abbandonano i «mortali che nulla sanno» (B6.4: βροτοὶ εἰδότες οὐδέν), connotati come «uomini a due teste» (δίκρανοι). Ma il motivo del viaggio non riconduce solo al paradigma omerico: è probabile ne esistesse una variante letteraria nella poesia apocalittica 57, diffusa nei circoli pitagorici, a partire dai Καθαρμοί del leggendario Epimenide sopra ricordato. Non è solo Diels a crederlo; tra gli specialisti del XX secolo, Guthrie58, per esempio, coglie, almeno a livello verbale, echi orfici, che tuttavia non dimostrerebbero altro che il radicamento nella tradizione della poesia più antica e in quella contemporanea (Pindaro, Bacchilide, Simonide), mentre ritiene più consistente la possibilità di una influenza dello sciamanesimo, proprio sulla scorta dei precedenti di Epimenide e altri (Aristea, Abari, Ermotimo). 56 Ivi, pp. 18-21. 57 Uso l’aggettivo – come Diels – nel suo significato etimologico da ἀποκαλύπτω (scoprire, rivelare appunto). 58 W.K.C. Guthrie, A History of Greek Philosophy. II. The Presocratic Tradition from Parmenides to Democritus, C.U.P., Cambridge 1965, pp. 10 ss.. 251 Esperienze dell'altro mondo Come segnalato in nota ai versi del proemio, alcune scelte espressive di Parmenide – per esempio il vocativo κοῦρε (con cui la δαίμων apostrofa il viaggiatore giunto al suo cospetto) e soprattutto la formula εἰδὼς φώς (con cui è indirettamente designato il poeta) – hanno fatto pensare a un esplicito richiamo a modelli misterici, destinati a fortunate riprese in particolare da parte di Platone59. Rivestono in questo senso un notevole interesse le laminette funerarie classificate come "orfiche" (le più antiche risalenti al VIV secolo a.C.) e altri frammenti riconducibili a quell'ambiente religioso, sia per il motivo del viaggio (per giungere all'Ade: non agile, non lineare; dunque bisognoso di guida) e della connessa esperienza che propongono (il giudizio della anime a opera di Dike), sia per specifici elementi che presuppongono (l'iniziazione) e impongono (la necessità di operare una scelta di fronte a un bivio). Di recente Ferrari è tornato a segnalare come l'itinerario del poeta nel proemio, con la sua destinazione infera, abbia «molto in comune con quegli itinerari iniziatici che i defunti percorrevano nell'oltretomba», seguendo più o meno puntuali istruzioni60. Non si tratterebbe solo di dettagli di contorno (come segnaliamo in nota) che Parmenide avrebbe recuperato per garantire solennità alla propria composizione, ma di suggestioni che l'avrebbero informata, fornendo il nesso profondo tra il racconto del proemio e il resto del poema, saldando «il tema dell'iniziazione alla fondazione logica del sistema»61. Così sarebbe possibile ricostruire la topografia del viaggio parmenideo: percorso privilegiato (sotto la conduzione delle EliaEliadi: κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον, v. 5) di un "iniziato" (εἰδὼς φώς) lungo la via che conduce alla porta dell'oltretomba (ὁδός 59 Per questi aspetti è ancora molto utile M.M. Sassi, "Parmenide al bivio. Per un'interpretazione del proemio", «La Parola del Passato», cit., pp. 383-396. 60 F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza dall'Odissea alle lamine misteriche, Pomba, Torino 2007, p. 115. 61 Sassi, op. cit., p. 386. 252 πολύφημος δαίμονος, vv. 2-3)62 sorvegliata da Dike, la quale non solo consentirà al poeta l'accesso al mondo dei morti (per testimoniarne), ma soprattutto l'incontro con la δαίμων e, conseguentemente, la sua istruzione. Un tragitto che, a suo tempo, in uno studio pionieristico, Morrison aveva connotato come quello del «poeta-sciamano in cerca di conoscenza»63, accostandolo all'esperienza del platonico Er. In modo sorprendentemente simile, le istruzioni (incise su laminetta aurea) per l'anima del defunto nel sepolcro di Ipponio (circa 400 a.C.) prevedono: ἐπεὶ ἂμ μέλληισι θανεῖσθαι εἰς Ἀΐδαο δόμους εὐήρεας Quando ti toccherà di morire andrai alle case ben costrutte di Ade64, dove, presso la palude di Mnemosine (Μναμοσύνη λίμνη), l'anima sarebbe stata affrontata e interpellata dai «custodi» (φύλακες): [ h ] οι δέ σε εἰρήσονται ἐν φραςὶ πευκαλίμαισι ὄττι δὴ ἐξερέεις Ἄιδος σκότους ὀλοέεντος che ti chiederanno nel loro denso cuore Cosa vai cercando nelle tenebre di Ade rovinoso65. Ma le laminette propongono soprattutto un'altra suggestione, che potrebbe emergere in Parmenide (per giungere poi ai miti dell'aldilà platonico) come riflesso di un fondo escatologico comune 66: la possibilità che una tappa nell'itinerario tracciato da 62 La Sassi (pp. 387-8) ricorda come nel mito oltremondano del Fedone (107d ss.) le anime dei defunti, per coprire il cammino verso l'Ade, abbiano bisogno di δαίμονες che le conducano come ἡγεμόνες. 63 J.D. Morrison, "Parmenides and Er", «Journal of Hellenic Studies», 75, 1955, pp. 59-68. La citazione è a p. 59. 64 G. Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, Milano 1977, pp. 172-3. 65 Colli, op. cit., pp. 172-3. 66 Sassi, op. cit., pp. 390-1. 253 Parmenide sia costituita dal bivio dell'oltretomba ben attestato nelle laminette (e nei testi platonici): ἔστ’ ἐπὶ δ < ε > ξιὰ κρήνα, πὰρ δ’αὐτὰν ἐστακῦα λευκὰ κυπάρισσος [...] ταύτας τᾶς κρᾶνας μηδὲ σχεδὸν ἐνγύθεν ἔλθηις· πρόσθεν δὲ [ h ] ευρήσεις τᾶς Μναμοσύνας ἀπὸ λίμνας ψυχρὸν ὔδωρ προρέον c'è alla destra una fonte, e accanto a essa un bianco cipresso diritto [...] A questa fonte non andare neppure troppo vicino; ma di fronte troverai fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine (laminetta di Ipponio) εὑρήσσεις δ’ Ἀίδαο δόμων ἐπ’ ἀριστερὰ κρήνην πὰρ δ’ αὐτῆι λευκὴν ἑστηκυῖαν κυπάρισσον ταύτης τῆς κρήνης μηδὲ σχεδὸν ἐμπελάσειας. εὑρήσεις δ’ ἑτέραν, τῆς Μνημοσύνης ἀπὸ λίμνης ψυχρὸν ὕδωρ προρέον E troverai alla sinistra delle case di Ade una fonte, e accanto a essa un bianco cipresso diritto: a questa fonte non accostarti neppure, da presso. E ne troverai un'altra, fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine (laminetta di Petelia, circa 350 a.C.) εὑρήσεις Ἀίδαο δόμοις ἐνδέξια κρήνην, πὰρ δ’ αὐτῆι λευκὴν ἑστηκυῖαν κυπάρισσον ταύτης τῆς κρήνης μηδὲ σχεδόθεν πελάσηιςθα. πρόσσω εὑρήσεις τὸ Μνημοσύνης ἀπὸ λίμνης ὕδωρ προ < ρέον > Troverai alla destra delle case di Ade una fonte, e accanto a essa un bianco cipresso diritto: a quella fonte non accostarti neppure, da presso. E più avanti troverai la fredda acqua che scorre 254 dalla palude di Mnemosine (laminetta di Farsalo, circa 330 a.C.)67. Così come l'iniziato è preventivamente istruito di fronte all'alternativa delle fonti cui attingere per placare la propria sete, la Dea di Parmenide, conclusa la propria allocuzione introduttiva e richiamata l'attenzione del κοῦρος: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας Orsù, io dirò - e tu abbi cura della parola, una volta ascoltata (B2.1), evoca (B2.2) l'immagine delle «vie di ricerca», evidentemente biforcate: (i) ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι (B2.3); (ii) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5); per trattenerlo dal tentativo di percorrere la seconda, come invece accade (analogamente alle anime che si gettano verso l'acqua della prima fonte) ai «mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν, B6.4)68. Sono stati compiuti, negli ultimi anni, tentativi per individuare un modello unitario per tutto il materiale funerario di questo tipo (che si riferisce a reperti risalenti ai secoli V-II a.C.), giungendo addirittura a fissare la serie di stazioni che farebbero da sfondo alle istruzioni per le anime dei defunti69. Più prudentemente, riferendosi alle laminette di Ipponio, Petelia, Farsalo e Entella (fine V- fine IV secolo a.C.), Ferrari ha sottolineato come ci si trovi di fronte «a una traccia poetica sostanzialmente unica e unitaria, ma altresì che le rimodulazioni dei vari testimoni risultano a tratti 67 Colli, op. cit., pp. 172-7. 68 Sassi, op. cit., pp. 392-3. 69 Il tentativo più sistematico è quello di A. Bernabé, Poetae epici Graeci. Testimonia et fragmenta, II: Orphicorum et Orphicis similium testimonia et fragmenta, II, K.G. Saur, Münche-Leipzig 2005, p. 13. di ciò dà conto Ferrari in La fonte del cipresso bianco, cit., pp. 115-6. 255 importanti e complesse»70. In ogni caso, un elemento risulta nel nostro contesto significativo: il fatto che nelle laminette (pur recuperate in località diverse e in qualche caso distanti: si va dalla Magna Grecia per le prime due laminette, alla Tessaglia per la terza, alla Sicilia per l'ultima) si faccia «ripetuta menzione di Mnemosine come divinità che dispensa il dono di ricordare»71, e che rivelerebbe l'appartenenza dei defunti a circoli pitagorici, a quella cultura, in altre parole, «che appunto alla memoria assegnava un ruolo cruciale nel processo di ascesi e di perfezionamento della persona»72. Non è un caso che Pugliese Carratelli, editore delle laminette, proponga, in relazione all'ambiente e allo specifico richiamo del proemio di Parmenide a quella temperie, Mnemosine come la δαίμων innominata di Parmenide. Esperienze sciamaniche Abbiamo citato Morrison a proposito del suo accostamento del viaggio di Parmenide al tragitto di un «poeta-sciamano»: la figura dello sciamano - il cui rilievo nell’ambito della cultura arcaica era stato notato, qualche anno prima del contributo di Morrison, da Dodds, in una delle opere più originali sulla civiltà greca73 - è quella di un mediatore tra uomini e dei, che ha la capacità di lasciare in trance il proprio corpo e di viaggiare in cielo o nell’oltretomba, per accompagnare altre anime o ricevere istruzioni mediche o cultuali da una divinità. Egli è spesso poeta o cantore e tipicamente narra in prima persona dei suoi viaggi celesti e delle sue esperienze: il suo viaggio (il mezzo di trasporto è talvolta un carro volante) è difficoltoso e può presentare momenti di erramento prima del desiderato confronto con la divinità. 70 Ivi, p. 119. 71 Ivi, p. 124. 72 Ibidem. 73 E.R. Dodds, I Greci e l’Irrazionale, La Nuova Italia, Firenze 1959 (edizione originale 1951), capitolo V (Gli sciamani e le origini del puritanesimo). 256 Anche Mourelatos 74 riconosce le somiglianze tra l’itinerario del kouros e il complesso di elementi focalizzati da Dodds e ripresi, in relazione a Parmenide, da Guthrie. Se concediamo la presenza di certi tratti sciamanici nella Grecia arcaica, il riferimento, nel proemio, al viaggio del protagonista e alla sua scorta divina (Guthrie parla di «odissea spirituale dello sciamano») avrebbe allora potuto immediatamente evocare, nell’immaginazione di un ascoltatore "iniziato" a tali pratiche, i segni dell’esperienza sciamanica. In questo senso appare ancor più significativo l’accostamento a Odisseo. In particolare, Mourelatos è convinto che, dietro o sotto la poesia di Parmenide, si possa rintracciare, oltre a Omero (e a Esiodo), un consistente corpo di poesia cultuale e profetica del VII-VI secolo a.C.. Il problema in proposito è la mancanza di esemplari per valutarne la reale incidenza, forse più importante di quella omerico-esiodea. È probabile, tuttavia, che l’importanza di questo retroterra dipenda in larga misura da motivi e temi condivisi dall’epica precedente, sebbene impiegati in una nuova prospettiva e con una nuova contestualizzazione. Parmenide avrebbe così usato il complesso del viaggio sciamanico come modello per il suo viaggio speculativo. Nonostante l’assenza di evidenze testuali che autorizzino a parlare di un “motivo” letterario, allusioni al paradigma dell'esperienza sciamanica sarebbero rintracciabili, secondo Kingsley 75, proprio nel proemio, quasi a inquadrare la successiva dottrina in una cornice sapienziale indiscutibile. Anche per l'autore inglese, infatti, il modo di presentarsi del poeta (come «uomo che sa», εἰδὼς φώς) costituirebbe uno standard nel mondo greco arcaico per indicare l’«iniziato»76, colui che, in virtù delle proprie conoscenze, poteva giungere dove ad altri era proibito. Analogamente l’espressione κοῦρος con cui la Dea si rivolge al poeta denoterebbe una figura al limite (e tramite) tra mondo umano e divino77: l’esperienza descritta, infatti, sarebbe quella di un’eccezionale 74 Op. cit., pp. 44-5. 75 P. Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, Duckworth, London 1999. 76 Ivi, p. 62. 77 Ivi, p. 72. 257 κατάβασις, autorizzata da Dike (divinità associata al mondo infero78). Qui è plausibile che Parmenide si rifacesse a modelli letterari, che coniugavano il tema della discesa nell’Ade in quanto luogo della rivelazione (Odissea XI), a un determinato contesto cosmologico (Teogonia 736-774) e a particolari figure di predestinati, come l’eroe Eracle79 o il leggendario poeta Orfeo (in questo senso da leggere, analogamente a Dodds80, come sciamano). A conferma della propria lettura (che in realtà si regge su tradizioni posteriori), Kingsley porta testimonianze ricavate dall’arte vascolare dell’epoca e della regione di Elea, che ritraggono l’incontro di Eracle con Persefone secondo lo schema ripreso da Parmenide, ovvero quello di Orfeo con la stessa dea infera, e la presenza sullo sfondo di Dike81. In questo modo sarebbe attestato, se non un motivo poetico-letterario, almeno un retroterra culturale, tradizionale e locale, in cui il poeta poteva inserire i propri riferimenti, permettendosi l'anonimità della dea82. In effetti, che il ruolo di divina interlocutrice sia ricoperto da Persefone, è suggerito dalla stessa accoglienza del kouros da parte della θεά: non una sorte infausta (la morte?) lo ha allontanato dal mondo degli uomini, ma un destino di conoscenza sotto l’egida della giustizia divina. Come se, appunto, ella fosse preoccupata di rassicurare il poeta circa la sua presenza nel mondo dei morti. D’altra parte, è assai probabile che il poeta si attenesse a norme compositive, ricorrendo a scelte espressive non improvvisate e per lo più funzionali a un determinato obiettivo. Kingsley richiama esemplarmente il ricorso alla ripetizione costante del verbo φέρω nei primi versi, la cui frequenza sarebbe difficilmente tollerabile, da un punto di vista poetico, se non per l’effetto “performativo” (immaginando la recitazione), di incantamento e trasporto. L’attenzione per alcuni dettagli fa inoltre pensare che Parmenide evocasse precisi riferimenti cultuali (se non poetici), così inquadrando la propria rivelazione in uno sfondo comprensibile ai 78 Ivi, pp. 62-3. 79 Ivi, p. 61. 80 Op. cit., pp. 186-7. 81 Op. cit., p. 94. 82 Ivi, p. 97. 258 propri ascoltatori (iniziati): potrebbe dunque non essere casuale il particolare rilievo iniziale del suono («sibilo acuto», σῦριγξ) emesso dall’«asse del carro nei mozzi […] incandescente», dal momento che esso ritorna nella posteriore tradizione dei papiri magici greci, associato proprio al silenzio della «incubazione» e al viaggio cosmico83. Maria Laura Gemelli Marciano84 ha inoltre richiamato l'attenzione sullo spazio (21 versi) dedicato nel proemio (che consideriamo conservato integralmente) alla descrizione del viaggio e sull’acribia con cui ne viene resa l'esperienza sensoriale (acustica e ottica), nonché la topografia: ricchezza di dettagli che sembra escludere il mero impiego simbolico, tanto più considerando85 la stretta relazione tra suoni («sibilo», σῦριγξ), movimenti rotatori (i «cerchi rotanti» δινωτοῖσιν κύκλοις dei vv. 7-8) – segnali di alterazione dello stato di coscienza - e il manifestarsi delle figure divine86. Indizi che possono autorizzare la lettura del poema come resoconto di un viaggio estatico. Alcuni elementi esteriori concorrono in effetti a collegare Parmenide a questo retroterra apocalittico. Nel 1962 fu ritrovata a Velia (l’antica Elea) un'iscrizione su blocco marmoreo che recita87: Πα[ρ]μενείδης Πύρητος Οὐλιάδης φυσικός. Parmenide, figlio di Pireto, è riconosciuto come Ouliades, seguace di Apollo Oulios (venerato nell’area anatolica, da cui provenivano i profughi focesi che fondarono nel VI secolo a.C. Elea), e physikos, a un tempo ricercatore della natura e medico: dal momento che ad Apollo Oulios era riconducibile la tecnica dei guaritori, è possibile che la figura del filosofo fosse ufficialmente associata alla iatromantica (di cui l’archeologia conferma la pratica in Velia), nel solco dello sciamanesimo (Epimenide) attestato dalla tradizione testuale. Nella stessa direzione punta un’altra evidenza dossografica: 83 Ivi, pp. 129-130. 84 Die Vorsokratiker, II, p. 54. 85 Sulla scia dello stesso Kingsley. 86 Gemelli Marciano, Die Vorsokratiker, cit., II, p. 55. 87 Kingsley, op. cit., pp. 139 ss.. 259 ἐκοινώνησε δὲ καὶ Ἀμεινίαι Διοχαίτα τῶι Πυθαγορικῶι, ὡς ἔφη Σωτίων, ἀνδρὶ πένητι μέν, καλῶι δὲ καὶ ἀγαθῶι. ὧι καὶ μᾶλλον ἠκολούθησε καὶ ἀποθανόντος ἡρῶιον ἱδρύσατο γένους τε ὑπάρχων λαμπροῦ καὶ πλούτου, καὶ ὑπ’ Ἀμεινίου, ἀλλ’ οὐχ ὑπὸ Ξενοφάνους εἰς ἡσυχίαν προετράπη. Parmenide, come affermò Sozione, ebbe familiarità anche con Aminia, figlio di Diochete, pitagorico, uomo povero, ma nobile e retto, ciò che tanto più ne favorì l’influenza. Quando questi morì, Parmenide, che era di famiglia illustre e ricca, eresse per lui un monumento funebre. Fu proprio Aminia, non Senofane, a volgerlo alla tranquillità di una vita di studio (Diogene Laerzio; DK 28 A1). Il termine ἡσυχία - qui tradotto come «tranquillità di una vita di studio» - avrebbe in realtà un valore molto diverso, soprattutto riferito allo stile di vita esemplare del pitagorico Aminia: qualcuno parla di vita contemplativa, ovvero di vita filosofica, ma letteralmente il significato è quello di «quiete, riposo», «silenzio, immobilità». L’ascetico Aminia sarebbe stato maestro di «incubazione», avrebbe cioè avviato Parmenide alle tecniche di concentrazione già in uso presso i gruppi pitagorici88. Come ha rilevato la Gemelli Marciano89, l'«incubazione» può fornire la chiave per collegare la iatromantica, riferita all'Eleate dalle evidenze archeologiche, all'attività di legislatore attribuitagli sempre da Diogene Laerzio (sulla scorta di Speusippo): almeno secondo lo schema che Platone ricorda nelle Leggi (624b) in relazione al mitico Minosse, ma che abbiamo ritrovato in Epimenide e che potrebbe emergere anche nel caso di Zaleukos, legislatore di Locri, di cui si sosteneva avesse ricevuto le leggi direttamente dagli dei. Sebbene non sia dato cogliere in quale modo questo insieme di elementi potesse costituire un “motivo” letterario, è possibile ipotizzare una sua codifica in una qualche forma recitativa (come nel 88 Kingsley, op. cit., pp. 179-181. 89 Op. cit., II, p. 45-6. 260 caso delle Purificazioni di Epimenide), cui Parmenide potrebbe essersi ispirato (viaggio, incontro con Giustizia e Verità ecc.), evocando situazioni e particolari significativi in una società ancora legata a quelle pratiche (importate, come crede Kingsley, dalla patria di origine, Focea, sulle coste dell’Asia Minore). La cornice cosmologica: Esiodo Il motivo del viaggio e della sua destinazione divina – con le diverse, possibili suggestioni - risulta comunque proiettato, nel proemio, all’interno di uno sfondo cosmico (parzialmente delineato nelle allusioni del testo) modulato su un terzo grande modello poetico, probabilmente decisivo nell’elaborazione letteraria di Parmenide: la Teogonia di Esiodo. Sulla sua incidenza pochi hanno dubbi, anche quando, come Mourelatos 90, privilegino il confronto con Omero. Sommariamente, infatti, possiamo rilevare: (i) le analogie tra il proemio del poema e l’inno alle Muse91 della Teogonia; (ii) in particolare la possibile criticità del già citato rilievo delle Muse in Teogonia 27-28: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare -, rispetto al programma didattico proposto in conclusione di B1, con l'opposizione tra verità e incerto opinare umano; (iii) la presenza strutturale di dettagli dello scenario cosmologico dell'opera esiodea nel proemio, oltre alla chiara intenzione cosmogonica (e teogonica) della seconda sezione del poema. 90 Op. cit., p. 33. 91 Su questo, tra gli altri, concordano Leszl, Couloubaritsis, e soprattutto M. Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A New View on Their Cosmologies and on Parmenides’ Proem, Hakkert, Amsterdam 1974. 261 Quasi Parmenide volesse sovrapporre o contrapporre la propria verità a quella del poeta di Ascra. A livello formale, lo sforzo da parte di Parmenide di utilizzare creativamente il precedente esiodeo appare evidente. Egli si muove in effetti all’interno delle novità da questi introdotte nella tradizione aedica: il riferimento dell’autore a se stesso nell’esordio dell’opera e la funzionalità del proemio rispetto al poema. In relazione all'originalità esiodea del primo aspetto, Arrighetti ha colto, nel modo di proporsi del poeta rispetto alla memoria letteraria, il doppio risvolto della «contrapposizione polemica» e, soprattutto, del «distacco critico», garantito dalla rivelazione delle Muse 92: l’investitura poetica e il dono divino della verità, come proposti in apertura della Teogonia, giustificano la pretesa di una poesia diversa dalla tradizionale, in cui l’autore fondatamente rivendica una visione unitaria del cosmo. D’altra parte, anche la risorsa proemiale è da Esiodo sfruttata in modo peculiare, nella misura in cui essa non si riduce ad artificio estrinseco rispetto al canto poetico vero e proprio, a inno propiziatorio da recuperare nel repertorio di evocazioni dedicate, sul tipo degli inni tramandati come omerici: il nesso tra proemio e poema è, nel caso della Teogonia, molto stretto, sia per il coinvolgimento diretto del poeta e della sua esperienza personale, sia, in particolare, perché tale esperienza illumina la sostanza complessiva dell’opera: «il proemio, con il racconto della epifania delle Muse, costituisce la garanzia del carattere di veridicità del contenuto del poema»93. A richiamare l’attenzione dell'interprete sul precedente esiodeo sono tuttavia soprattutto alcuni elementi di contenuto, in primo luogo lo scenario complessivo del proemio parmenideo, con un viaggio che conduce, lungo la direttrice del sentiero di Notte e Giorno (il percorso lungo cui essi si alternano), a un imponente portale (a protezione della dimora divina), il quale, aprendosi, rivela un «vuoto enorme» (χάσμ΄ ἀχανὲς), eco delle «porte» (πύλαι) che chiudono (e dischiudono) l’oscuro Tartaro esiodeo: 92 Esiodo, Teogonia, a cura di G. Arrighetti, BUR, Milano 1984, pp. 7-8. 93 Ivi, pp. 129-130. 262 ἔνθα δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί περ· χάσμα μέγ’, οὐδέ κε πάντα τελεσφόρον εἰς ἐνιαυτὸν οὖδας ἵκοιτ’, εἰ πρῶτα πυλέων ἔντοσθε γένοιτο, ἀλλά κεν ἔνθα καὶ ἔνθα φέροι πρὸ θύελλα θυέλλης ἀργαλέη· δεινὸν δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσι. τοῦτο τέρας· καὶ Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι. τῶν πρόσθ’ Ἰαπετοῖο πάις ἔχει οὐρανὸν εὐρὺν ἑστηὼς κεφαλῇ τε καὶ ἀκαμάτῃσι χέρεσσιν ἀστεμφέως, ὅθι Νύξ τε καὶ Ἡμέρη ἆσσον ἰοῦσαι ἀλλήλας προσέειπον ἀμειβόμεναι μέγαν οὐδὸν χάλκεον· ἡ μὲν ἔσω καταβήσεται, ἡ δὲ θύραζε ἔρχεται, οὐδέ ποτ’ ἀμφοτέρας δόμος ἐντὸς ἐέργει, ἀλλ’ αἰεὶ ἑτέρη γε δόμων ἔκτοσθεν ἐοῦσα γαῖαν ἐπιστρέφεται, ἡ δ’ αὖ δόμου ἐντὸς ἐοῦσα μίμνει τὴν αὐτῆς ὥρην ὁδοῦ, ἔστ’ ἂν ἵκηται· ἡ μὲν ἐπιχθονίοισι φάος πολυδερκὲς ἔχουσα, ἡ δ’ Ὕπνον μετὰ χερσί, κασίγνητον Θανάτοιο, Νὺξ ὀλοή, νεφέλῃ κεκαλυμμένη ἠεροειδεῖ. ἔνθα δὲ Νυκτὸς παῖδες ἐρεμνῆς οἰκί’ ἔχουσιν, Ὕπνος καὶ Θάνατος, δεινοὶ θεοί· οὐδέ ποτ’ αὐτοὺς Ἠέλιος φαέθων ἐπιδέρκεται ἀκτίνεσσιν οὐρανὸν εἰσανιὼν οὐδ’ οὐρανόθεν καταβαίνων. τῶν ἕτερος μὲν γῆν τε καὶ εὐρέα νῶτα θαλάσσης ἥσυχος ἀνστρέφεται καὶ μείλιχος ἀνθρώποισι, τοῦ δὲ σιδηρέη μὲν κραδίη, χάλκεον δέ οἱ ἦτορ νηλεὲς ἐν στήθεσσιν· ἔχει δ’ ὃν πρῶτα λάβῃσιν ἀνθρώπων· ἐχθρὸς δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσιν Là della terra nera e del Tartaro oscuro, del mare infecondo e del cielo stellato, di seguito, di tutti vi sono le scaturigini e i confini, luoghi penosi e oscuri che anche gli dèi hanno in odio, voragine enorme; né tutto un anno abbastanza sarebbe per giungere al fondo a chi passasse dentro le porte, 263 ma qua e là lo porterebbe tempesta sopra tempesta crudele; tremendo anche per dèi immortali è tale prodigio. E di Notte oscura la casa terribile s'inalza, da nuvole livide avvolta. Di fronte a essa il figlio di Iapeto tiene il cielo ampio reggendolo con la testa e con infaticabili braccia, saldo, là dove Notte e Giorno venendo vicini si salutano passando alterni il gran limitare di bronzo, l'uno per scendere dentro, l'altro attraverso la porta esce, né mai entrambi ad un tempo la casa dentro trattiene, ma sempre l'uno fuori della casa la terra percorre e l'altro dentro la casa aspetta l'ora del suo viaggio fin che essa venga; l'uno tenendo per i terrestri la luce che molto vede, l'altra ha Sonno fra le sue mani, fratello di Morte, la Notte funesta, coperta di nube caliginosa. Là hanno dimora i figli di Notte oscura, Sonno e Morte, terribili dèi; né mai loro Sole splendente guarda coi raggi, sia che il cielo ascenda o il cielo discenda. Di essi l'uno la terra e l'ampio dorso del mare Tranquillo percorre e dolce per gli uomini, dell'altra ferreo è il cuore e di bronzo l'animo, spietata nel petto; e tiene per sempre colui che lei prende degli uomini, nemica anche agli dèi immortali.94 (vv. 736-766). Come ci ricorda Privitera95, abbiamo nella cultura greca arcaica due prospettive sull'alternanza di luce e oscurità: una fisica, rintracciabile nell'Odissea, l'altra mitica, presente invece in Esiodo, ma con riscontri anche nell'Iliade. La prima sarebbe "orizzontale", dal momento che i fenomeni coinvolti (il movimento del Sole, nel suo trascorrere celeste da oriente a occidente, e il suo 94 Esiodo, Teogonia, cit., pp. 111-3. 95 G.A. Privitera "La porta della Luce in Parmenide e il viaggio del Sole in Mimnermo", «Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei», s. 9, v. 20, 2009, pp. 447-464. 264 tragitto di ritorno a oriente navigando su Oceano intorno alla Terra) hanno luogo sulla Terra e nel cielo sovrastante. La seconda, al contrario, "verticale", in quanto i fenomeni terrestri e celesti sono radicati nel mondo "infero"96. Non si tratta di prospettive incompatibili, come puntigliosamente dimostra lo studioso: nel caso di Parmenide (come nel precedente di Stesicoro97) registreremmo un originale tentativo di inquadrare il rapporto tra Luce-Sole-Notte entro una cornice cosmica in cui si completano le due prospettive tradizionali98. Nella lettura di Privitera, ciò avrebbe comportato concentrare strutturalmente il baricentro del proemio sul percorso solare, trasferendo la Porta del Giorno e della Notte dall'Ade sulla Terra: sarebbe in questo senso esclusa qualsiasi forma di katabasis verso il regno dei morti. Eppure i versi esiodei, a dispetto delle divergenze che pur ne caratterizzano le interpretazioni cosmologiche 99, si prestano a suggestioni diverse, proiettando decisamente verso il mondo infero la ripresa proemiale di Parmenide. Dopo la narrazione della Titanomachia (665 ss.), della sconfitta dei Titani (713 ss.) e della loro segregazione in un remoto luogo infero (720 ss.), Esiodo ci informa che sopra quella prigione, nelle profondità sotterranee, si sviluppano le radici del mare e della terra (729): come intendesse garantire sulla sicurezza della detenzione, il poeta fornisce particolari sulle modalità di reclusione dei Titani (immobilizzati da «lacci tremendi» 718), e sulla località di carcerazione («un'oscura regione, all'estremo della terra prodigiosa», cintata tutta intorno e assicurata da portali di bronzo, e guardiani infernali, 731-5). La descrizione del mondo sotterraneo è dunque organicamente inserita nel contesto teogonico, sottolineando la rassicurante distanza infera delle ostili forze titaniche: ἔνθα δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος 96 Ivi, p. 449. 97 Ivi, p. 453. 98 Ibidem. 99 Si vedano, per esempio la discussione specifica in Pellikaan-Engel (op. cit., capp. II-III), ma anche le annotazioni di Arrighetti (op. cit., pp. 151-2). 265 ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί περ. ἔνθα δὲ μαρμάρεαί τε πύλαι καὶ χάλκεος οὐδός, ἀστεμφὲς ῥίζῃσι διηνεκέεσσιν ἀρηρώς, αὐτοφυής· πρόσθεν δὲ θεῶν ἔκτοσθεν ἁπάντων Τιτῆνες ναίουσι, πέρην χάεος ζοφεροῖο. Là della terra oscura e del Tartaro tenebroso, del mare infecondo e del cielo stellato, di seguito, di tutti, sono le scaturigini e i confini, luoghi squallidi e oscuri, che anche gli dèi hanno in odio. Là sono le porte splendenti e la bronzea soglia, inconcussa, su radici infinite commessa, nata spontaneamente; davanti, lontano da tutti gli dèi, i Titani hanno la loro dimora, di là dal caos tenebroso100 (vv. 807-814). In questa sua intenzione, è possibile che Esiodo effettivamente giustapponesse (come vogliono Privitera e Arrighetti) prospettiva orizzontale e verticale, oscillando tra una dislocazione occidentale e una sotterranea dell'«al di là», ma, come ha puntualmente indicato nella sua analisi la Pellikaan-Engel101, va presa seriamente in considerazione l'ipotesi che il poeta alludesse a un quadro cosmologico diverso da quello (sostanzialmente emisferico) della tradizione omerica. La Terra vi comparirebbe come un disco piatto (ancorché ondulato sulle due superfici), immobile, circondato dalla solida, rotante sfera celeste, il cui emisfero sovrastante sarebbe stato designato propriamente come «cielo»; quello sottostante avrebbe invece costituito quella regione infera in cui proiettare la minaccia titanica e localizzare il sistema di tutele contro la sua risorgenza. In questo senso, allora, è possibile che, alla luce del ruolo e del corso cosmico e mitico del Sole, Esiodo incrociasse, rispetto all'esperienza terrestre, il tradizionale orientamento orizzontale (estovest, secondo la direzione quotidiana dell'astro), con la prospet- 100 Teogonia, cit., p. 115. 101 Op. cit.. Si veda in particolare il capitolo II. 266 tiva verticale rappresentata dalle opposte estremità, a ridosso della sfera celeste avvolgente, dell'Olimpo e del Tartaro. Una certa confusione (stridente in qualche dettaglio) si avrebbe semmai, secondo quanto rileva la Pellikaan-Engel102, tra fenomeni (diurni e notturni) e loro personificazione (Giorno e Notte). Così, nel quadro che possiamo ricostruire dai versi citati, all'estremo limite occidentale della Terra, dove Atlante («il figlio di Iapeto») sorregge la sfera celeste (per impedirle di gravare direttamente sulla superficie terrestre e impedire il passaggio del Sole), si incontrano e danno il cambio Giorno e Notte, i quali, alternativamente, discendono verso il mondo infero per soggiornare nella «casa della Notte», e ascendere poi, quando giunge il loro turno, verso il mondo terrestre (che quindi passa regolarmente dal regime diurno a quello notturno). A tale ciclo e struttura cosmici si riferirebbero i versi del proemio: «i battenti dei sentieri di Notte e Giorno» avrebbero la funzione di discriminare i due mondi, attraverso cui si succedono i passaggi delle due divinità, consentendo l'accesso al mondo infero, in cui sarebbe locata «la dimora della Notte» (δώματα Nυκτός). Ad accentuare tale prospettiva "verticale" la possibile associazione tra tale sito e l'accesso all'Ade, proprio come nella poesia esiodea: ἔνθα θεοῦ χθονίου πρόσθεν δόμοι ἠχήεντες ἰφθίμου τ’ Ἀίδεω καὶ ἐπαινῆς Περσεφονείης ἑστᾶσιν Lì davanti del dio degli inferi la casa sonora, del possente Ade e della terribile Persefoneia, s'inalza [...]103 (vv. 767-769a) Sebbene possano essere sollevati dubbi circa l'esatta struttura cosmologica che fa da sfondo al racconto parmenideo, le analogie con il modello esiodeo potrebbero dunque autorizzare l'ipotesi che il superamento della soglia sorvegliata da Dike apra al poeta non genericamente uno spazio oltremondano, ma propriamente la 102 Ivi, p. 38. 103 Teogonia, cit., p. 113. 267 direzione dell’oltretomba, in altre parole del luogo tradizionalmente privilegiato per le rivelazioni. Parmenide e la poesia: conclusioni provvisorie È probabilmente questa la cornice entro cui Parmenide decide di concentrare gli altri elementi della propria creazione, elaborando, consapevolmente e in modo originale, materiali tradizionali, significativi nella comprensione dei contemporanei. Questo non implica che egli abbia semplicemente puntato all’effetto comunicativo, curandosi essenzialmente dell’impatto persuasivo dell’immaginario così plasmato. Accogliendo le suggestioni di Kingsley (e ancora della Gemelli Marciano) circa il radicamento del pensatore all’interno di un sistema di credenze e pratiche ereditate dai costumi e culti del suo popolo, potremmo ipotizzare che l’intenzione di Parmenide fosse quella di veicolare, nelle forme ispirate della tradizionale poesia epica, arricchite dell’eco suggestiva (suoni, movimenti ecc.) di una straordinaria esperienza sciamanica, un nuovo punto di vista, maturato nella ricerca personale e nel confronto con la cultura ionica e pitagorica, e la conseguente condotta di vita. Una prospettiva interpretativa che, a partire dalla centralità dell’elaborazione poetica, impone il problema di determinare il nesso tra gli elementi di immediatezza ed emotività di quello sfondo culturale e l'indiscutibile impianto logico del Περὶ φύσεως. Anticipando le conclusioni delle successive analisi, è da rilevare come la difficoltà dell’interprete, nel caso di Parmenide, risieda proprio nella determinazione della continuità tra esperienze religiose, il cui retroterra emerge nell’espressione poetica, e razionalità scientifica, che prende corpo nelle due sezioni del poema. Le strade per lo più battute nella storia delle interpretazioni sono, in realtà, quelle (maggioritarie) che scorporano i frammenti successivi dal proemio, quasi si trattasse di corpo estraneo all’originale comunicazione parmenidea, ovvero quelle (minorita- 268 rie) che unilateralmente insistono sull’evento rivelativo (e sui suoi contorni), trascurando poi il fatto che il tutto cosmico era l’oggetto di analisi (anche dettagliata) nell’opera, come attestato dalla titolazione tradizionale e, soprattutto, dalla sua consistente seconda sezione. È plausibile, al contrario, che il complesso del proemio prefiguri le tesi del filosofo e che queste non siano estranee a un intento trasformativo (Robbiano), indistricabilmente connesso alle esperienze evocate. In questo senso, si può condividere il suggerimento (Robbiano e Stemich) di cogliere nella sapienza comunicata nel poema essenzialmente uno “stile di vita”, prefigurante l’accezione di filosofia poi affermatasi (secondo la lezione di Hadot104) nel socratismo e soprattutto nella cultura ellenistica. In dissenso da Mourelatos, per il quale, invece, gli imperativi della dea sono tutti rivolti a un’attività di tipo cognitivo, non al bios o al prattein105. D'altra parte, contestualizzando la lettura del proemio, è prudente rigettare un approccio meramente allegorico, rintracciandovi piuttosto l’espressione di un’esperienza vissuta. Appare fondata l’osservazione di Leszl106, secondo cui un'interpretazione allegorica - come quella fornita da Sesto Empirico - si scontra con il fatto che la pratica dell’allegoresi era, al tempo (fine VI secolo a.C.), solo agli inizi, con Teagene di Reggio (forse, come Parmenide, legato all’ambiente pitagorica107. Possiamo supporre108, allora, che, nella narrazione del viaggio del poeta Parmenide, siano confluiti elementi eterogenei - il resoconto di una genuina esperienza visionaria, allusioni cosmologiche, intenzioni didascaliche: il poeta avrebbe plasmato, nel modulo espressivo più vicino alla sua formazione rapsodica, immagini e contenuti a un tempo adeguati a manifestare le sue conquiste spirituali, ed efficaci per co- 104 P. Hadot, Exercices spirituels et philosophie antique, Albin Michel, Paris 20022. 105 Op. cit., p. 45. 106 Op. cit., p. 144. 107 Allegoristi dell’età classica, Opere e frammenti, a cura di I. Ramelli, Bompiani, Milano 2007, p. XII. 108 Come fanno lo stesso Leszl, op. cit., p. 145, e Coxon, op. cit., p. 156. 269 involgere (emotivamente e intellettualmente) il pubblico destinatario (plausibilmente un gruppo ristretto di discepoli109). Ciò comportava, naturalmente, anche consapevoli opzioni simboliche, per le quali egli poteva attingere all’immaginario dell’epica e, probabilmente, della stessa poesia apocalittica: il poema appare in effetti concentrato sull’effetto (il mutamento della prospettiva cognitiva e la correlata trasformazione dell’attitudine personale) dell’impatto con la verità, della scoperta del reale assetto del tutto cosmico. Il viaggio e la sua esperienza L’esplicita indicazione di Sesto Empirico ci attesta – come abbiamo riscontrato introduttivamente - la tradizione integrale dell’incipit del poema in quello che è classificato, nella edizione Diels-Kranz, come frammento B1: il privilegio di disporre dell’esordio nella sua originale interezza offre l’opportunità di valutarne costruzione, impronta e ufficio all’interno dell’impresa complessiva di Parmenide. Comunque se ne interpreti il messaggio, è chiaro come il poeta intenda marcare l’eccezionalità dell'esperienza cantata, che – abbiamo sottolineato - non appare mera, scontata formula di indirizzo, sebbene, prendendo in considerazione i contenuti dell’opera conservati nei frammenti successivi, l’aura del mito possa superficialmente risultare stridente con gli incoraggiamenti alla ponderazione razionale (B7 e B8) e con le fatiche argomentative di B8. Come abbiamo già rilevato, è plausibile, infatti, che il preambolo proponesse quella veste proprio in funzione di quei contenuti e degli obiettivi educativi che il filosofo-poeta si prefiggeva. 109 Questa è l'impressione della Gemelli Marciano (M.L. Gemelli Marciano, "Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et destinataires", in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, pp. 83-114. Il riferimento alle pp. 89-90. 270 Nel segno dell’eccezione Nonostante i particolari sfumati della rappresentazione d’insieme - dettagliata in alcuni passaggi (descrizione del carro e della apertura della porta) e molto indeterminata in altri (tragitto oltre la porta)110 - abbiano dato adito a vari tentativi di contestualizzazione del viaggio, il suo carattere straordinario è segnalato da due momenti ben evidenziati nei versi parmenidei: (i) l’intervento delle Eliadi (Ἡλιάδες κοῦραι) presso Dike, austera (πολύποινος, «che molto punisce») guardiana del portale, per persuaderla a consentire il passaggio del carro che conduce il poeta: le fanciulle devono placarla «con parole compiacenti» (μαλακοῖσι λόγοισιν) e «sapientemente» (ἐπιφράδεως) convincerla a concedere una possibilità evidentemente non garantita ad altri mortali; (ii) la formula di accoglienza della Dea, la quale rileva che: (a) non è stata «Moira infausta» (Μοῖρα κακὴ, destino infausto) a spingere il giovane (κοῦρος) al suo cospetto; (b) la via (ὁδός) per cui è stato guidato è «lontana dal percorso degli uomini» (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου). Incrociando i rilievi, si evince che l’esperienza di cui è protagonista il poeta eccede i limiti dell’umano e che ciò accade secondo un disegno cui concorrono le aspirazioni (θυμός) del filosofo (v. 1): ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι Le cavalle che mi portano fin dove il [mio] desiderio potrebbe giungere, e il decisivo ausilio divino (vv. 8b-9a): ὅτε σπερχοίατο πέμπειν Ἡλιάδες κοῦραι mentre si affrettavano a scortar[mi] le fanciulle Eliadi. 110 Leszl, op. cit., p. 141. 271 L’eccezione coinvolge in particolare due aspetti. Il poeta ha chiaramente l’opportunità: (i) di spingersi oltre i confini stabiliti per le ambizioni mortali, e, in tal modo, (ii) di accedere non semplicemente alla rivelazione della verità, ma più esattamente a una lezione articolata, che lo informerà circa (a) la natura della realtà (vv. 28b-29): χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ Ora è necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, (b) la natura del comune fraintendimento (v. 30): ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità, (c) fornendo soprattutto (pensando alla struttura del poema), alla luce di quegli errori, gli strumenti corretti di comprensione del mondo della nostra esperienza (vv. 31-2): ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Eppure anche questo imparerai: come le cose accolte nelle opinioni era necessario fossero realmente, tutte insieme davvero esistenti. A sancire tale eccezione registriamo, insomma, un triplice avallo divino: (i) la scorta delle Eliadi, che si muovono a sostenere e realizzare lo sforzo del poeta\filosofo; (ii) la condiscendenza di Dike, che veglia sulle infrazioni ed è garante dei limiti; 272 (iii) la comunicazione della θεά senza nome - che può offrire la chiave per giungere alla Verità - meta del viaggio cui viene finalizzata l’aspirazione del poeta\filosofo. Il quadro è, nell’insieme, una modulazione di quello arcaico tradizionale: sotto protezione divina al poeta è permesso accostarsi a una condizione sovrumana111, che descriveremmo in termini di ispirazione, illuminazione e rivelazione. In altre parole, il privilegio della conoscenza superiore costituisce una sorta di trascendimento dello status mortale: nel rispetto, tuttavia, dell’indiscutibile primato del divino. Come anticipato nelle pagine precedenti e nelle annotazioni al testo del frammento, le indicazioni del proemio sembrano dislocare tale trascendimento nel mondo infero. In tal senso si può interpretare il riferimento della dea a «Moira infausta» (ovvero «destino infausto») e, soprattutto, alludendo a δώματα Nυκτός, all’abisso del Tartaro descritto meticolosamente da Esiodo (Teogonia 736- 745)112, con la prossimità della «dimora della Notte» (scortata nel suo corso da Sonno e Morte) alla «porta del possente Ade e della terribile Persefoneia» (vv. 758-778). In analoga direzione concorrono vari elementi esteriori (rilievi archeologici113, dati storici114), cui abbiamo sopra accennato, che confermano, nel caso di Parmenide e di Elea, la probabile relazione con il culto di Persefone, che potrebbe dunque essere la θεά, innominata in quanto scontato referente. D’altra parte il viaggio nel regno dei morti, anche senza voler fare eccessivo affidamento sulle credenze sciamaniche, già in Omero (Odissea XI) risultava cruciale per la conoscenza della verità. La stessa figura di Δίκη πολύποινος - l’aggettivo πολύποινος ricorre solo in un altro testo, un poema attribuito a Orfeo (fr. 158 Kern), in cui Dike affianca 111 Leszl, op. cit., p. 167. 112 Cerri, op. cit., p. 173. 113 Kingsley conferma che figurazioni vascolari rappresentano Persefone che accoglie nell’Ade Eracle e Orfeo, stringendo loro la mano destra, proprio come la dea innominata fa con il kouros del proemio. Op. cit., pp. 93-100. 114 Elea era centro di un culto dedicato a Demetra e Persefone (Cerri, op. cit., p. 108). 273 Zeus nell’atto di relegare i Titani nel Tartaro115 - troverebbe in tale scenario la propria naturale collocazione: nell’Ade i morti subiscono il giudizio divino e ricevono, conseguentemente, la punizione delle colpe commesse in vita. La plausibile destinazione individuata per il viaggio del poeta avrebbe, tuttavia, anche un secondo e non meno rilevante risvolto nella prospettiva del poema. Il percorso indicato, infatti, richiama la visione mitica del cosmo espressa in Esiodo e Omero, in cui i confini del mondo coincidono con quelli della terra (la cui superficie è piatta), sui cui limiti estremi poggia il cielo-cupola116: in questo senso, nel caso dell’Odissea, la katabasis non è intesa tanto come discesa sotto la superficie della terra, piuttosto come raggiungimento di un luogo oltre i limiti della superficie terrestre117. La nozione del limite (e del suo superamento) è poi significativamente evocata dal vettore e dalla scorta, che richiamano l’immagine del carro del Sole e il mito di Fetonte118. In effetti, la conduzione delle Eliadi (figlie di Helios, il Sole appunto) e il tragitto verso «i battenti dei sentieri di Notte e Giorno» (πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων, v. 11), che complessivamente tracciano i contorni celesti, se da un lato sembrano insistere sul punto di vista privilegiato garantito al poeta, dall’altro, indirettamente, attraverso l’implicita rievocazione di Fetonte (fratello delle Eliadi, la cui imperizia nel condurre il carro, sottratto di nascosto al padre Sole, richiese l’intervento riparatore di Zeus), suggeriscono anche l’idea della regolarità e della misura cosmica, rafforzata dalla presenza severa di Dike. Come in Esiodo e in altri pensatori arcaici (Anassimandro e il contemporaneo Eraclito), la processualità della natura – l’alternanza di notte e giorno ai confini del cosmo - si svolge in conformità con le prescrizioni della giustizia119. Al poeta è dunque attribuito – garante Dike – il favore 115 Cerri, op. cit., pp. 104-5. 116 Leszl, op. cit., p. 149. 117 Ivi, p. 144. 118 Benché in genere l’accostamento non sia sfuggito ai commentatori, mi pare particolarmente felice la lettura che ne propone Leszl (p. 147). 119 Ibidem. 274 di seguire il corso del Sole, abbracciando così nel tragitto mitico l’intera realtà cosmica e accedendo ai misteri dell’oltremondo. Al di là dell'esperienza quotidiana L’eccezionalità dell'esperienza del poeta, sottolineata nel suo indirizzo dalla θεά, non sarebbe allora riducibile semplicemente a una discesa (κατάβασις) agli inferi, ovvero a una ascesa (ἀνάβασις) celeste: quanto risulta marcato nei versi del proemio è la distanza della via seguita nel corso del viaggio «dal percorso degli uomini» (ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν, v. 27). La porta del Sole, identificata con la Porta dell’Ade (Iliade VIII, 13- 16; Odissea XXIV, 11-14; Esiodo, Teogonia 740 ss; 744-757; 811-814), è, in effetti, miticamente situata nell’occidente estremo, lontanissima quindi dalle regioni abitate: poggia sulla superficie terrestre, al di sotto della quale si radica nel profondo, mentre i suoi pilastri si elevano tanto da toccare il cielo. Oltre essa l’abisso, il mondo dei morti, il regno di Ade e Persefone120. Come ricorda Cerri, si tratta di una «porta cosmica», sia in quanto discrimina il percorso del sole e quindi giorno e notte, sia in quanto separa il mondo dei vivi e quello dei morti121. Ciò che, in realtà, viene sottolineato nel resoconto parmenideo non è l’allontanamento dalla terra per pervenire alla porta del cielo, superare i confini del mondo e incontrare, nell’etere celeste, la dea rivelatrice (Mansfeld), né propriamente il viaggio nell’oltretomba (Burkert) ovvero verso il centro del cosmo (Pellikaan-Engel). Il poeta, scortato dalle Eliadi sul carro solare, perviene presso e oltrepassa la «porta cosmica», raggiungendo, dunque, il punto privilegiato che è accesso, a un tempo, all’Ade e al cielo (con la duplice valenza, quindi, di rivelazione e illuminazione). In ogni caso, la tradizionale oscurità dell’Ade appare, per la meta del viaggio, più giustificata nel contesto rispetto alla luce 120 Cerri, op. cit., p. 98. 121 Ivi, p. 99. 275 celeste122: sono le Eliadi a doversi portare «verso la luce», muovendo dalla «dimora della Notte» (dove hanno soggiornato durante la pausa notturna: il loro viaggio comincia, dunque, presumibilmente all’alba), a cui ritornano, con la compagnia del poeta, percorrendo, plausibilmente, il consueto tragitto solare (cioè al tramonto, quando Notte ha nuovamente abbandonato la propria dimora per dar cambio a Giorno). In questo senso, pur ribadendo la convinzione che a Parmenide prema soprattutto evidenziare l’oltrepassammento dell'esperienza quotidiana e la distanza dell’accesso alla Verità rispetto all’ordinario spazio delle relazioni umane, la katabasis certamente offre al poeta un paradigma influente. Al nodo della “direzione” del viaggio è poi legato quello dei suoi tempi. Il poema si apre con il presente: ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι Le cavalle che mi portano fin dove il [mio] desiderio potrebbe giungere (v. 1), quasi a marcare un’abitudine123 ovvero, all’interno della narrazione, un elemento di sfondo, indipendente dallo sviluppo del racconto, come i successivi rilievi (sempre riferiti al presente) sulla «strada […] della divinità»: ἣ κατὰ †... † φέρει εἰδότα φῶτα che porta †... † l’uomo sapiente (v. 3), sulla struttura della “porta cosmica” e sul ruolo di Dike: ἔνθα πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός εἰσι κελεύθων, καί σφας ὑπέρθυρον ἀμφὶς ἔχει καὶ λάινος οὐδός· αὐταὶ δ΄ αἰθέριαι πλῆνται μεγάλοισι θυρέτροις· τῶν δὲ Díkh πολύποινος ἔχει κληῖδας ἀμοιϐούς. Là sono i battenti dei sentieri di Notte e Giorno: architrave e soglia di pietra li incornicia; 122 Ciò a dispetto delle osservazioni di G.A. Privitera, op. cit.. 123 Guthrie, op. cit., p. 7. 276 essi, alti nell’aria, sono agganciati a grande telaio. Dike, che molto castiga, ne detiene le chiavi dall’uso alterno (vv. 11-14). Nel primo caso sarebbe accentuato il tratto sciamanico della figura del poeta, avvezzo a straordinarie escursioni; nel secondo valorizzata, invece, la sua disposizione al sapere, la sua aspirazione (θυμός, desiderio) alla verità124, condizione dell'esperienza di conoscenza annunciata nel poema quanto la successiva rivelazione della Dea. In ogni caso, l’uso del presente comporta che le «cavalle», soggetto della relativa, abbiano una relazione non episodica con il poeta-narratore e dunque siano irriducibili a mero vettore in una esperienza eccezionale, che continuino, cioè, a operare nella contemporaneità, siano parte di un’esperienza di verità che possa ripetersi (a cui altri, al limite, possano essere avviati125). Nel senso allegorico proposto da Coxon126, il poeta è ancora sul carro, con un viaggio ancora davanti a sé, con le cavalle che continuano a essere le sue forze motrici: il viaggio diverrebbe allora figura del conseguimento metodico della filosofia, secondo la lezione ricevuta; le cavalle figura della forza (θυμός) che lo spinge a filosofare. Nel passaggio al secondo verso, al contrario, appare chiara l’intenzione di Parmenide di raccontare, nelle sue sequenze, la vicenda che lo ha visto privilegiato discepolo della Dea: πέμπον, ἐπεί μ΄ ἐς ὁδὸν βῆσαν πολύφημον ἄγουσαι δαίμονος, ἣ κατὰ †... † φέρει εἰδότα φῶτα· 124 Martina Stemich, nella sua ricerca su Eraclito (Heraklit. Der Werdegang des Weisen, Grüner, Amsterdam 1996, pp. 41 ss.), rintraccia una precondizione filosofica analoga nel frammento DK 22 B18: «Se uno non spera, non potrà trovare l’insperabile, perché esso è difficile da trovare e impervio». In questo senso ingressivo la Stemich (Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, cit., pp. 39-40) interpreta l’intera esperienza del proemio: sebbene il percorso verso la Dea sia già stato compiuto, esso – in quanto motivo connesso a una trasformazione comprensibile solo come sviluppo sistematico – diventerebbe emblematico della graduale approssimazione alla conoscenza ricercata dal filosofo. 126 Coxon, op. cit., p. 14. 277 τῇ φερόμην· τῇ γάρ με πολύφραστοι φέρον ἵπποι ἅρμα τιταίνουσαι, κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον [Le cavalle] mi guidavano, dopo che, conducendomi, mi ebbero avviato sulla via ricca di canti della divinità che porta †... † l’uomo sapiente. Su questa via ero portato, perché su questa via mi portavano molto avvedute cavalle, trainando il carro: fanciulle mostravano la via (vv. 2- 5). L’uso dei tempi verbali impone sia la prospettiva dello sviluppo e della continuità dell’azione nel passato (imperfetto, che, comunque, qualcuno127 interpreta come “imperfetto storico” traducendolo con il presente), sia quella delle sue successive e puntuali sequenze compiute (aoristo), rafforzata, nel verso 2, anche dal ricorso alla congiunzione ἐπεί («dopo che»). L’intero proemio è costruito intorno a questo ordito temporale che, se valorizziamo l’opposizione presente-passato, potrebbe alludere – come intendono Mansfeld128 e Ferrari129 - al presente della condizione sapienziale del poeta, conseguita grazie alla rivelazione della Dea e dunque giustificata dalla narrazione, dal passato. Nel presente della performance recitativa il poeta evoca l’avventura della conoscenza che lo ha visto fortunato protagonista al cospetto della divinità, del cui dono si propone di far partecipi gli altri mortali: il sapiente, l’uomo che sa (εἰδὼς φώς), è tale per essere stato guidato, condotto lungo la «via della divinità» (il genitivo δαίμονος ha valore soggettivo e oggettivo a un tempo: «della divinità» perché a essa appartiene ovvero a essa conduce); il canto poetico documenta quel privilegio. Questa prospettiva temporale, che collegherebbe al presente dei versi 1 e 3 una condizione di conoscenza giustificata dall'e- 127 Conche, op. cit., p. 44.. 128 J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964, pp. 228-229. 129 F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco…, cit., cap. VIII "Il ritorno del «kouros»"; id., Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei Presocratici, Aracne, Roma 2010, capitolo V "Il ritorno". 278 sperienza (εἰδώς implica etimologicamente l’esperienza visiva) narrata in quelli successivi 130, può essere messa in discussione partendo dall’uso che, dell'espressione εἰδὼς φώς, si sarebbe fatto, nella ritualità misterica, per indicare l’«iniziato» (analogamente, come sappiamo, potrebbe intendersi anche il ricorso a κοῦρος al v. 24), e che potrebbe dunque designare una minoranza predisposta, per intelligenza e tirocinio, alla scoperta della verità131. Il termine εἰδώς si potrebbe allora riferire alla conoscenza pregressa di Parmenide: in relazione all’obiettivo da raggiungere, ciò garantirebbe un senso anche a θυμός (v. 1), allo slancio dell’animo del poeta verso il contatto con la verità. Nulla vieta, tuttavia, di mantenere distinte le qualità necessarie per accedere alla verità – che il poeta\sapiente avrebbe evocato con il paradigma iniziatico dell’εἰδὼς φώς – dalla piena cognizione di essa, disponibile – all’interno del tradizionale modello oppositivo tra conoscenza umana e conoscenza divina – in virtù dell’eccezionale prerogativa di una rivelazione divina. In tal caso la condizione che consente al poeta di annunciare la verità (presente) è conseguita grazie alla comunicazione divina (passato), in cui si realizza comunque la sua originaria aspirazione. Accentuando (arbitrariamente) la significazione e composizione simbolica nel racconto, si potrebbero identificare due movimenti – quello del poeta sul carro tirato dalle cavalle e quello delle Eliadi che intervengono a scortarlo presso le divinità – come rievocazione della tensione religiosa del κοῦρος verso l’esperienza della rivelazione ovvero figurazione della ricerca di un accesso alla piena conoscenza della realtà. Ancora sul nodo delle divinità Abbiamo già avuto modo di portare l’attenzione – nell’economia complessiva del frammento B1 e nello specifico 130 Si tratta appunto della proposta di Mansfeld, op. cit., pp. 226-7. 131 Cerri, op. cit., pp. 169-170. 279 rilievo dell'eccezionalità dell'esperienza celebratavi – sul ruolo delle figure divine proposte nel proemio: (i) l’incarico di direzione, guida e tutela delle Eliadi; (ii) la funzione di garanzia e sanzione di Dike; (iii) l’ufficio rivelativo della θεά anonima, rispetto a cui, globalmente, nella vicenda cantata, gli altri due risultano subordinati. In un contesto già popolato da molte altre potenziali132 entità divine (Notte, Giorno, Temi, Moira, Verità), il loro rilievo non può essere meramente narrativo, ma, nell'insieme dell'esperienza che il poeta intendeva comunicare, doveva probabilmente celare anche una valenza simbolica. Riprendiamo brevemente la questione. Dike deve essere persuasa dalle Eliadi ad accondiscendere all’eccezione, proprio per consentire la rivelazione: la dea è evocata in una mansione che il pensiero arcaico le riconosce, come «ipostasi mitica della legge della physis» 133, che vincola elementi e fenomeni nell’equilibrio del tutto. È significativo che anche in Eraclito essa si esplichi in relazione al movimento solare e in genere alla regolare alternanza di giorno e notte (che tanto rilievo cosmologico hanno nel proemio): Ἥλιος γὰρ οὐχ ὑπερβήσεται μέτρα· εἰ δὲ μή, Ἐρινύες μιν Δίκης ἐπίκουροι ἐξευρήσουσιν le Erinni che troveranno Helios, qualora egli oltrepassi le sue misure, sono ministre di Dike (DK 22 B94). Incrociando nell’universo mitico la sua figura con quella delle Eliadi (divinità solari dell'illuminazione)134, Parmenide si rifaceva al mito di Fetonte, che esse, in una variante della storia (ripresa in una perduta tragedia eschilea – le Eliadi appunto -, alla cui rappresentazione a Siracusa Parmenide potrebbe aver presenziato135) aiutarono nell’impresa di guidare il carro del Sole. Alla luce di 132 Se se ne accetta la personificazione, giustificata dall’insieme dell’indirizzo e del tono religioso del poema. 133 Cerri, op. cit., pp. 104-5. 134 Come ricorda Cerri, op. cit., p. 173. 135 Capizzi, op. cit, p. 52. 280 questa circostanza, che i versi dell’esordio poetico possono richiamare, Parmenide si proporrebbe come una sorta di nuovo Fetonte, sebbene, nel suo caso, come ricorda la Dea, il viaggio proceda (vv. 26-8) sotto buoni auspici136: di questo le Eliadi devono convincere Dike, perché autorizzi il passaggio lungo la traiettoria solare. Se accettiamo questo accostamento, la divinità allusa nei vv. 2-3 potrebbe essere proprio il Sole: il carro su cui viaggia il poeta potrebbe essere allora il suo, così come la via quella che il Sole percorre, e che conduce ai confini del mondo. Ma l’associazione tra Eliadi e Dike è evocatrice anche in un’altra direzione: abbiamo ricordato come, nella cosmologia mitica esiodea ricostruita puntualmente dalla Pellikaan-Engel, la «dimora della Notte» sia collocata nelle profondità del Tartaro (il mondo infero), in prossimità dell'accesso all'Ade (il mondo dei morti), in una regione in cui hanno le loro radici la terra, il mare, il cielo, abisso senza fine (caos), luogo terrificante anche per gli dei137. In tale dimora soggiornano alternativamente Notte e Giorno: da essa muovono e a essa conducono le Eliadi. Esse, uscite dalla porta cosmica del Giorno e della Notte (su questo punto in Esiodo c'è un'incongruenza: dovrebbero essere due, collocate alle estremità orientali e occidentali), prelevano Parmenide (all’alba: si tolgono i veli notturni) e lo guidano alla stessa porta, alta tra la terra e il cielo, seguendo verso occidente il percorso del Sole. Al di là c’è il mondo infero: il suo vestibolo è a livello della superficie terrestre (descrizione omerica), ma immediatamente dopo si spalanca il baratro immenso. Parmenide ha il privilegio (come iniziato, εἰδὼς φώς) di varcarne, ancora vivo, la soglia, per attingere la conoscenza: Dike è al suo posto, nella misura in cui deve giudicare i requisiti; le Eliadi tutelano il poeta viaggiatore in qualità di patrocinatrici (impiegano parole suasive per ammansire la inflessibile sorvegliante dei confini)138. Gli elementi che abbiamo riassunto suggeriscono che l’eccezionalità dell’impresa cantata coincida con il massimo pri- 136 Leszl, op. cit., p. 146. 137 Ivi, p. 147. 138 Cerri, op. cit., pp. 106-7. 281 vilegio previsto per un mortale nell’universo mitico: come Odisseo e Orfeo, al poeta è concesso di accedere (anche se non forse propriamente “discendere”) all’Ade, per incontrare la divinità che vi è regina, Persefone. In questo senso, probabilmente, Parmenide insiste inizialmente sull’uso del presente contrastato da quello del passato: per marcare lo straordinario esito della sua esperienza, la cui specifica difficoltà consiste proprio nel ritorno alla luce, tra i vivi, al presente della condizione umana. Prima di concludere su questo punto, è ancora necessario chiarire un aspetto. Abbiamo continuato a interpretare il proemio in un senso prossimo alla sua lettera, come si trattasse del resoconto di un viaggio dal poeta effettivamente compiuto, rigettando, quindi, le letture allegoriche secondo il prototipo proposto dallo stesso Sesto Empirico. Questo non comporta trascurare il valore simbolico delle scelte espressive di Parmenide, evitare di attendere alle implicazioni che certe immagini o situazioni concrete dovevano già avere assunto nella attività poetica all’epoca di Parmenide: la pratica allegorica stava compiendo solo i primi passi, ma è possibile che il simbolismo avesse un peso nella cultura pitagorica cui si dovrebbe, secondo alcuni139, ricondurre la formazione di Parmenide. Il contemporaneo Pindaro, per esempio, nella Olimpica VI, faceva ricorso al motivo del viaggio con intento manifestamente metaforico, sebbene l’accostamento a Parmenide risulti difficile (il viaggio di costui appare ben più complesso). In ogni caso, è forse la natura stessa dell’eccezione evocata a rendere plausibile un’intenzione simbolica del proemio: l'esperienza liminare (un viaggio oltre i confini del mondo) compiuta dall'anima del poeta (spiritualmente), prefigurava, nell'insegnamento della Dea, una vicenda conoscitiva di cui altri avrebbero potuto fruire. Così, sfruttando al massimo l’incidenza dei dettagli concreti della scena cosmica, Parmenide avrebbe, con la propria "odissea", delineato un modello per le avventure dell’anima nel grande mito del Fedro platonico140. 139 Coxon, op. cit., p. 14. 140 Su questo punto ampia è la convergenza degli interpreti. 282 La sequenza del racconto e il progressivo (non casuale) coinvolgimento di quelle divinità fanno comunque apparire poco convincenti le letture che marcano nel proemio la mera figurazione allegorica di opzioni gnoseologiche o la semplice legittimazione, in chiave di illuminazione superiore, di una proposta filosofica. L’autore, invece, proprio attraverso la narrazione in prima persona del viaggio, ha la possibilità di coinvolgere il suo pubblico in un'esperienza di trasformazione radicale della persona, che richiede l’identificazione con il protagonista (donde l’adozione della prospettiva del viaggiatore)141. È la futura condotta di vita il vero obiettivo delle istruzioni della dea: il viaggio, in tal senso, sarebbe rappresentazione di una forma di κάθαρσις142. Lo sciamanesimo di Parmenide potrebbe leggersi in questa prospettiva: non traduzione poetica di una trance onirica (incubazione), ma assunzione della pervasività emotivo-esistenziale (forse direttamente esperita) di quella prova al servizio di uno sforzo di profondo riorientamento – teorico e pratico – nella realtà quotidiana. Alla concretezza di un fenomeno culturale (la pratica sciamanica), forse radicato nell’ambiente eleatico143, Parmenide associa un percorso di conoscenza, proposto esemplarmente ai propri uditori, in cui la dimensione di estraneazione dalle distorsioni della quotidianità è funzionale a un processo di trasformazione spirituale e a una prassi di vita. Il corso delle Eliadi ai limiti del mondo, la sanzione di Dike e la verità di Persefone scandiscono evidentemente una ricerca destinata a modificare l’intera personalità: in un contesto in cui il sapere salvifico era appannaggio di iniziazioni e incubazioni, il filosofo avrebbe così fatto ricorso, in termini simbolici, all'efficacia coinvolgente (da cui l’attenzione per alcuni 141 La Robbiano (pp. 65 ss.) dedica ampio spazio a questo punto, individuando due elementi che, da un lato, favoriscono l’identificazione tra pubblico e viaggiatore, dall’altro contribuiscono alla costruzione di una nuova attitudine mentale: (i) la focalizzazione e l’invenzione della autobiografia: le strategie dell’Io; (ii) il ritratto e le strategie del tu. 142 Coxon (op. cit., pp. 15-6) parla di katharsis pitagorica. 143 Come confermerebbero i rilievi di Kingsley e le osservazioni della Gemelli Marciano. 283 dettagli riconducibili, secondo Kingsley, all'esperienza dello sciamano) di una forma di ascesi estatico-religiosa. La rivelazione e il suo programma Con il concorso delle Eliadi e la condiscendenza di Dike (guadagnata proprio grazie all’intervento persuasivo delle figlie del Sole), il poeta – superata la porta cosmica in cui si incontrano i sentieri di Giorno e Notte – giunge infine presso la Dea: che ella rappresenti la meta degli sforzi sottolineati nei primi 23 versi, è chiaro nelle parole con cui la stessa θεά accoglie e rincuora («rallegrati!») l’attonito visitatore. Esse rivelano come viaggio e accompagnamento non siano né casuali, né naturali, ma risultato di un disegno: ἐπεὶ οὔτι σε Μοῖρα κακὴ προὔπεμπε νέεσθαι τήνδ΄ ὁδόν - ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν -, ἀλλὰ Qémij τε Díkh τε Non Moira infausta, infatti, ti spingeva a percorrere questa via (la quale è in effetti lontana dalla pista degli uomini), ma Temi e Dike (vv. 26-28). Non è stata la morte, un disgraziato destino, a condurre il poeta al cospetto della dea infera, per una via ben lungi dai sentieri comunemente battuti: la rassicurazione divina sottintende che quella distanza dai mortali sia da considerare un privilegio e non un accidente, e che lo straordinario incontro non sia da ascrivere tanto all'iniziativa del protagonista (che è stato piuttosto spinto da Moira) quanto all’eccezionalità della scorta. La «via» (ὁδός) che gli consente di raggiungere la residenza divina (ἡμέτερον δῶ «la nostra casa») – probabilmente la stessa ὁδὸς πολύφημος δαίμονος («via ricca di canti della divinità» vv. 2- 3), lungo la quale le cavalle conducevano il poeta all’esordio: in 284 ogni caso una strada principale, come chiarisce l'indicazione κατ΄ ἀμαξιτὸν («lungo la via maestra») – è percorsa sotto l’egida della giustizia, in compagnia di «immortali guide » (ἀθανάτοισι ἡνιόχοισιν). Le scelte espressive di Parmenide – il vocativo κοῦρε («giovane») e il nominativo in funzione vocativa συνάορος («compagno») – apparentemente descrittive della condizione giovanile del poeta e della sua scorta, potrebbero alludere, in realtà, alla sua dedizione religiosa, sottolinearne l’iniziazione, e dunque legittimarne il privilegio. Imparare tutto L’eccezionalità della situazione si riflette anche nella completa disponibilità della Dea, nella sua accoglienza e nell’informazione successiva: rilevando didascalicamente - secondo il tradizionale paradigma144 oppositivo tra conoscenza umana e conoscenza divina - l’opportunità per il «giovane» di «tutto apprendere» (πάντα πυθέσθαι), ella propone un programma articolato in due momenti, chiaramente scanditi in greco (vv. 29-30) dalle congiunzioni ἠμέν …. ἠδὲ («sia … sia»), in conclusione ulteriormente precisati (v. 31) – ricorrendo alla formula ἀλλ΄ ἔμπης (congiunzione avversativa + avverbio), da rendere come «nondimeno», «eppure» «anche così». L’interpretazione di questo passaggio è molto controversa, ma anche decisiva, dal momento che all'articolazione programmatica presumibilmente corrisponde poi la struttura del poema (cioè la successiva esplicitazione dei contenuti della rivelazione), e dunque dall'interpretazione di quella dipende la comprensione di questo. Il kouros «apprenderà», «imparerà», sarà informato su tutto: ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ 144 Secondo Cerri (p. 182) la fraseologia dell’incontro tra il poeta e la dea riprende tipicamente quella delle scene di incontro tra dei e mortali in Omero. 285 ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità (vv. 29-30). Si tratta dell’opposizione fondamentale, che genera tutti i contenuti del poema: il nucleo essenziale (ἦτορ, «cuore») di Verità (Ἀληθείη), di ogni verità (εὐκυκλέος, «ben rotonda»), la sua necessità immanente (ἀτρεμὲς ἦτορ, letteralmente «cuore che non trema»); le incerte «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξαι), che non sono veramente credibili: esse risultano, letteralmente, inaffidabili, in esse non risiede πίστις ἀληθής («reale fiducia»). La qualificazione umana delle doxai giustifica la loro debolezza, assumendo per scontato che la proposta della Verità sia divina. Il modello è ancora quello di Teogonia vv. 27-28: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare, sebbene in Parmenide l'opposizione tra proferire menzogne (ψεύδεα λέγειν), cioè contraffazioni del genuino stato delle cose, ed esprimere le cose reali (ἀληθέα γηρύσασθαι) sia rimodulata nella tensione tra la salda stabilità nella relazione con la realtà («di Verità il cuore fermo») illustrata dalla Dea, da un lato, e l'incredibilità dei punti di vista mortali, dall'altro. Nel poema non vi è propriamente traccia dell'esplicita e secca contrapposizione verofalso: così l’oscillazione esiodea tra «cose false» (ψεύδεα) e «cose vere» (ἀληθέα) diventa nel contesto parmenideo opposizione determinata oggettivamente da una norma (esplicitata in B2). La divinità di Parmenide è meno volubile delle Muse esiodee: la sua rivelazione è vincolata alla manifestazione della realtà (Verità) e, conseguentemente, alla denuncia dell'origine degli sviamenti umani nelle molteplici opinioni. In questo senso, allora, possiamo leggere la conclusione del programma: 286 ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Eppure anche queste cose imparerai: come le cose accolte nelle opinioni era necessario fossero effettivamente, tutte insieme davvero esistenti (vv. 31-32). Nell’impegno a tutto insegnare, la Dea non si limita – attraverso l'illustrazione della norma di verità – a denunciare l’inattendibilità delle convinzioni umane (come vedremo, rintracciandone la distorsione genetica), ma intende proporre una ricostruzione affidabile (δοκίμως) della totalità degli enti che quelle opinioni travisavano. Il ricorso a δοκίμως suggerisce, nel contesto, l'intenzione della Dea di riconsiderare comunque il materiale delle inverosimili δόξαι βροτῶν, così da fornirne un quadro attendibile (credibile alla luce della verità). Possiamo dunque articolare il programma della Dea in tre momenti145: (i) l’esplicitazione della norma immanente (le «vie di ricerca per pensare»), dell'intima necessità della verità (B2, B6), con la conseguente manifestazione della struttura essenziale della realtà (B8); (ii) la denuncia dell’errore di base delle opinioni dei mortali (B6, B7); (iii) la riformulazione dei contenuti di quelle opinioni (quindi del mondo della esperienza umana) conformemente a quella norma (B9 ss.). Tale scansione ha dunque risconto nella struttura del poema: (a) una prima sezione (primo logos), indicata convenzionalmente come “Verità” (Ἀλήθεια) dalla formula: πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς ἀληθείης («discorso affidabile e pensiero intorno alla verità» B8.50-51), in cui, in successione e strettamente connessi, sono affrontati i momenti (i) e (ii): i principi del corretto ricercare e le origini dell'errore dei «mortali»; 145 Ruggiu, op. cit., p. 196. 287 (b) una seconda sezione (secondo logos, considerevolmente più consistente), convenzionalmente nota come “Opinione” (Δόξα) e nel poema denotata per i suoi contenuti: δόξας βροτείας («opinioni mortali»): in essa si concentrava il punto (iii) del programma, naturalmente più composito (riferendosi al complesso dell'esperienza). Variante di questa prospettiva di lettura è quella di Coxon146, secondo cui, invece, Parmenide, in conclusione di B1, rievocherebbe le posizione espresse da Senofane e Alcmeone nei passi sopra citati: καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔτις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται davvero l'evidente verità nessun uomo conobbe, né mai ci sarà sapiente intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti, ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui stesso non lo saprebbe: opinione è data su tutte le cose (DK 21 B 34). Ἀλκμαίων Κροτωνιήτης τάδε ἔλεξε Πειρίθου υἱὸς Βροτίνωι καὶ Λέοντι καὶ Βαθύλλωι· περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν σαφήνειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι καὶ τὰ ἑξῆς Alcmeone di Crotone, figlio di Piritoo, ha detto queste cose a Brotino, Leonte e Batillo: sulle cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo trovare degli indizi147 (DK 24 B1). 146 Op. cit., p. 169. 147 Dal passo iniziale del frammento vero e proprio (περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν) la Gemelli Marciano propone di espungere la virgola, offrendo quindi la seguente traduzione: «sulle cose invisibili che riguardano i mortali» ("Lire du début…", cit., p. 19). 288 Sarebbe dunque ribadita la contrapposizione omerica tra incerte convinzioni umane (elaborate inferenzialmente nel caso di Alcmeone) e conoscenza divina: Parmenide si limiterebbe semplicemente a riformularla nel senso di un contrasto tra forme cognitive: una affidabile perché in grado di manifestare il reale, l’altra opinabile e convenzionale, espressione di meri punti di vista. Solo riconoscendo l’insufficienza dell'esperienza ordinaria, gli uomini hanno la possibilità della certezza: ciò che Parmenide avrebbe tentato nella seconda parte del poema è appunto una ridefinizione del campo delle doxai in termini non contraddittori. Questa interpretazione si scontra, tuttavia, con una lunga tradizione che attribuisce valore diverso alle parole della Dea, per lo più assimilando i punti (ii) e (iii): alla saldezza (razionale) della verità (i), Parmenide contrapporrebbe l’incertezza (empirica) dell’opinare umano (ii), di cui offrirebbe comunque, a scopo esemplificativo e\o critico, esposizione (o ricostruzione) coerente (iii). Leszl 148 ritiene, in effetti, che la distinzione verità-opinioni, che chiude la comunicazione della dea nel proemio, corrisponda alla distinzione, enunciata dalle Muse esiodee, tra verità e falsità: in entrambi i casi le divinità si rivelano in dominio completo dell’ambito del vero e di quello dell’ingannevole (da Esiodo considerato tale perché simile al vero), sebbene, a differenza delle Muse che si limitano a esporre il vero, la dea di Parmenide espone anche ciò che non è vero, nell’intento di coprire «tutto», di offrire un sapere globale che non ritroviamo in Esiodo. Lo stesso parallelismo con l’inno alle Muse della Teogonia è sfruttato da Mansfeld149, il quale riscontra, nel doppio resoconto prospettato dalla Dea, l’analoga pretesa delle Muse di dire verità e menzogne: in questo modo, evidentemente, tutto quanto si riferisce all’ambito della doxa è stigmatizzato come ingannevole, con il risultato paradossale di ridurre proprio la sezione cosmogonica e teogonica, più vicina al modello divinamente ispirato del poema 148 Op. cit., pp. 153-4. 149 Op. cit., p. 33. 289 esiodeo, a occasione per repertare gli errori dei mortali (sottolineando come τὰ δοκοῦντα dovrebbero essere ma non sono150). Non è da escludere, invece, che proprio il secondo logos rappresentasse il nucleo centrale e originario del progetto di Parmenide, quello in continuità con la riflessione arcaica περὶ φύσεως (donde la titolazione tradizionale), di cui la sezione sulla Doxa riprodurrebbe anche la logica di riduzione di τὰ δοκοῦντα, delle «cose accettate nelle opinioni», a principi, «forme» (μορφαί) nel lessico parmenideo (B8.53); ma che l’elemento di originalità (da cui l’attenzione tra gli antichi e la conservazione nelle testimonianze) fosse costituito dalle premesse ontologiche contenute nel primo logos, che forniscono la cornice e le condizioni di una coerente enciclopedia del mondo naturale, denunciando a un tempo le debolezze delle ricostruzioni alternative151. 150 Ivi, p. 210. 151 Il dibattito sulla natura della doxa parmenidea è sterminato: a parte il vecchio aggiornamento di G. Reale a E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume III: Eleati, cit., la questione è stata sistematicamente ripresa nello specifico da P.A. Meijer, Parmenides Beyond the Gates. The Divine Revelation on Being, Thinking and the Doxa, Brill Academic Publishers, Amsterdam 1997. Molto utili J. Frere, "Parménide et l'ordre du monde: fr. VIII, 50-61", in Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, t. II Problèmes d'interprétation, Vrin, Paris 1987, pp. 192-212; R. Brague, "La vraisemblance du faux (Parménide, fr. 1, 31-32)", ivi, pp. 44-68; A. Nehamas, «Parmenidean Being/Heraclitean Fire» in Presocratic Philosophy, edited by V. Caston & D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, pp. 45-64; H. Granger, "The Cosmology of Mortals", ivi, pp. 101-116; P. Curd, The Legacy of Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton University Press, Princeton 1998, cap. III: "Doxa and Deception"; le pagine di D.W. Graham, Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton U.P., Princeton 2006 dedicate all'argomento (pp. 169-184). 290 Opinioni: credibili e non Secondo uno dei più accreditati studiosi ed editori contemporanei di Parmenide - Cordero152 - la Dea prospetterebbe, introduttivamente, il contenuto del suo «corso di filosofia» nell’ambizioso riferimento alla totalità delle cose, precisato in due oggetti complementari: (i) il «cuore della verità» e (ii) le «opinioni dei mortali». A completamento del suo programma, ella avrebbe poi illustrato anche un possibile modello per le «opinioni»: la verità è assente dalle opinioni, ma «riconoscere che le opinioni non sono vere è vero»153. Ciò che rende, a nostro avviso, implausibile questa proposta di lettura è soprattutto l’estensione e l’articolazione che supponiamo il secondo logos dovesse avere, configurandosi come poema didascalico, manuale o trattato scientifico, a carattere enciclopedico154. È necessario dunque intendersi preliminarmente sul valore delle opinioni155. Una prima indicazione ci giunge dalle testimonianze dei lettori antichi: Aristotele, per esempio, osserva: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...] ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν 152 N.-L. Cordero, By Being, It Is. The Thesis of Parmenides, Parmenides Publishing, Las Vegas 2004, p. 30. 153 Ivi, p. 32. 154 G. Cerri, «Testimonianze e frammenti di scienza parmenidea», in Parmenide scienziato?, a cura di L. Rossetti e F. Marcacci, Academia Verlag, Sankt Augustin 2008, p. 80. 155 Torneremo sull'argomento commentando l'ultima parte di B8 e i frammenti del "secondo logos". 291 Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: ritenendo, infatti, che non esista affatto, oltre all’essere, il non-essere, egli crede che, di necessità, l’essere sia uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a tener conto dei fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (Aristotele, Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1; DK 28 A24). A sua volta, Teofrasto (secondo quanto attestato da Alessandro di Afrodisia) rileva: Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης ἐπ’ ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν. Parmenide figlio di Pyres, da Elea […] percorse entrambe le strade. Mostra, infatti, che il tutto è eterno, e cerca anche di spiegare la generazione delle cose che sono, non avendo sulle due vie le stesse convinzioni: piuttosto, secondo verità egli sostiene che il tutto è uno e ingenerato e di aspetto sferico; secondo l’opinione dei molti, invece, al fine di spiegare la generazione delle cose che appaiono, pone due principi, fuoco e terra, l'uno come materia, l'altro invece come causa e agente (DK 28 A7). Il problema dei due logoi era già delineato come incrocio tra due forme diverse di esplorazione della realtà, che potremmo sbrigativamente indicare come razionale ed empirica: la seconda parte del poema avrebbe così riproposto un approccio alla physis, dai fenomeni ai loro principi, analogo a quello ionico; la prima 292 parte, originale, avrebbe invece introduttivamente messo a fuoco le implicazioni ontologiche a priori dell’indagine156. Certamente il programma della Dea prevede un momento critico, che investe indiscutibilmente le «opinioni dei mortali», in cui non risiede «reale credibilità»: individuare la norma di verità comporta necessariamente denunciare l’origine di erronee convinzioni circa il mondo dell’esperienza, senza escludere tuttavia la possibilità che la stessa materia sia passibile di una trattazione diversa, rigorosa e plausibile. Questo il senso della precisazione introdotta dal restrittivo ἀλλ΄ ἔμπης: tra la saldezza della Verità (illustrazione della realtà) annunciata dalla Dea e la (contraddittoria, come vedremo) inconsistenza delle diffuse, illusorie convinzioni umane, si annuncia la possibilità di una credibile (in quanto coerente con i presupposti che fondano la ricerca) ricostruzione dei fenomeni. Benché l’intervento divino sia teso a legittimare la norma di verità (che non può giustificarsi empiricamente), l’impianto educativo del poema, la scelta del kouros e la sollecitazione critica nei suoi confronti sembrerebbero autorizzare un'interpretazione positiva dei versi conclusivi del proemio. Ciò che colpisce, nell’articolazione della lezione divina, è, in ogni caso, soprattutto il punto (iii) del programma, che risulta nel contesto meno scontato: comunque si intenda, infatti, la direzione del viaggio cantato nei versi parmenidei, indiscutibilmente la sua meta è rappresentata dalla rivelazione divina, che presuppone, con l’esito veritativo, l’opposizione tra il sapere che la Dea può manifestare e quello che gli esseri umani possono attingere. Così la compiuta (εὐκυκλέος, «ben rotonda» 157 ), salda consistenza (ἀτρεμὲς ἦτορ, «cuore fermo») di Verità è (naturalmente e tradizionalmente) contrapposta alla debole (οὐκ ἀληθής, «non reale 156 Si tratta di una relazione che potrebbe ancora trovare riscontro nell’organizzazione del poema Sulla natura di Empedocle, nei cui frammenti (DK 31 B8, 9, 11) troviamo l’eco della ontologia di Parmenide chiaramente saldata alla prospettiva di una positiva indagine della physis. 157 Per la lettura che proponiamo, sarebbe più naturale accogliere la variante εὐπειθέος («ben convincente») della versione di Plutarco, Clemente, Sesto Empirico e Diogene Laerzio, prevalentemente accolta dagli editori moderni, di cui diamo notizia in nota al testo greco. 293 [genuina]») «credibilità» (πίστις) riconosciuta alle βροτῶν δόξαι: «nondimeno», a proposito di queste opinioni, il poeta apprenderà, dall’istruzione della Dea, anche come «le cose accolte nelle opinioni» (τὰ δοκοῦντα: il contenuto empirico di tali opinioni) siano da intendere «effettivamente» (δοκίμως: realmente, genuinamente), considerandole «tutte insieme davvero esistenti» (διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα), in altre parole riconducendole rigorosamente alla «via di ricerca» lungo la quale è effettivamente possibile procedere (B2.3). Senza questa precisazione il percorso formativo destinato al kouros sarebbe incompleto: la formula (χρεὼ) che lo introduce sottolinea come esso sia opportuno, adeguato a conseguire una nuova consapevolezza della realtà158. A tale scopo non è sufficiente (almeno non per la formazione del kouros) conoscerne l’essenza e dunque prendere coscienza della genesi delle opinioni erronee: per il poeta, destinato a tornare tra gli uomini e a rivaleggiare con altri presunti sapienti, è necessario saper affrontare i contenuti dell’esperienza umana. Non pare – come invece molti sostengono159 - che la vera novità parmenidea sia rappresentata dal fatto che la Dea offra agli uomini la possibilità di imparare e la verità e le opinioni, se per doxai si intendono quelle illusorie dei mortali: esse saranno sbrigativamente liquidate (B6-7) in conseguenza della enunciazione (B2) dei criteri di verità. Ciò che, invece, risulta originale nella rivelazione della Dea del poema, a dispetto della tradizionale frattura tra sapere umano e sapere divino, è l’ardita combinazione di rigorosa affermazione (B2, B8) di una realtà non immediatamente manifesta all’esperienza umana, e articolata esposizione di un accettabile «ordinamento» (διάκοσμος, B8.60) dei fenomeni naturali. La comunicazione dell’anonima divinità avrebbe insomma abbracciato sia quanto tradizionalmente considerato appannaggio esclusivo del dio (la verità), sia l’oggetto della contemporanea ricerca (περὶ φύσεως ἱστορίη): in questo modo, il poema avrebbe ridefinito, nel suo insieme, il quadro cosmologico (e cosmogonico) della Teogonia esiodea. 158 Robbiano, op. cit., p. 77. 159 Tra gli altri Robbiano, op. cit., pp. 51-2. 294 Verità e opinione Sul programma introdotto dalla dea innominata in conclusione del proemio (vv. 28-32), possiamo ancora osservare come, a livello espressivo, l’articolazione su cui abbiamo insistito emerga chiaramente nelle scelte verbali: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα. Intanto risultano essenziali due verbi - πυθέσθαι e μαθήσεαι – il cui valore è quello di «apprendere per esperienza», «imparare per indagine», ma anche «discernere»: essi possono veicolare, dunque, sia l’idea di ricettività, sia quella di ricerca, perfettamente in contesto laddove la docenza (divina: θεά) guida il processo di apprendimento, marcando a un tempo i temi su cui verterà la lezione impartita (Ἀληθείης ἦτορ; βροτῶν δόξαι; τὰ δοκοῦντα) e l’urgenza di comprensione da parte dell’allievo (κοῦρος). La prima formula didattica sottolinea l’opportunità che «tutto tu apprenda»: come in precedenza rilevato, è netta la costruzione oppositiva dei vv. 29-30, in cui la saldezza della Verità è contrastata esplicitamente dalla incertezza delle «opinioni», e la garanzia di verità del nesso θεά-κοῦρος implicitamente alla inaffidabilità dei «mortali»: la rivelazione del «cuore fermo di Verità ben rotonda» comporterà la contestazione della consistenza delle loro convinzioni. La seconda formula introduce gli ultimi due versi, testualmente molto tormentati: il fatto di ribadire «imparerai» sembra implicare che questa sezione della lezione divina sia ulteriore e autonoma rispetto alla prima opposizione (verità e credenza non vera), sebbene il complemento oggetto - «anche queste cose» - plausibilmente rinvii al contenuto delle «opinioni dei morta- 295 li»160 e soprattutto sia evidente il vincolo lessicale rappresentato dalla comune radice (δοκ) di δόξας, δοκοῦντα e δοκίμως. Come Mourelatos 161 ha chiarito nella sua ricerca, il verbo δοκέω può significare sia (a) «aspettarsi», «pensare», «supporre», sia (b) «sembrare», nel senso (i) di «pensare», ma anche (ii) di «apparire»: presenta dunque a subject-oriented sense e an objectoriented sense. Mentre δόξα e δοκίμως sarebbero riconducibili al primo valore e alla sua «funzione criteriologica», il ricorso al termine δοκοῦντα rivela piuttosto le implicazioni oggettive di (b), nonostante la derivazione da δοκέω lo renda irriducibile a una «funzione fenomenologica» (quella dei derivati di φαίνομαι). In δόξα (opinione-convinzione) e δοκίμως (rendendo l’avverbio come «plausibilmente») troveremmo allora coinvolta l’idea di valutazione e accettazione, di approvazione; di conseguenza in τὰ δοκοῦντα (o τὸ δοκοῦν ὄν, come in Simplicio) «le cose ritenute accettabili» ovvero «le cose come sono accettate». Ma l’avverbio δοκίμως è impiegato dal contemporaneo Eschilo con il valore di «realmente» (Liddell-Scott) e quindi potrebbe a sua volta rinviare all’accezione oggettiva, a una situazione di fatto, a come stanno effettivamente le cose (così lo abbiamo inteso nella nostra traduzione). In ogni caso, le βροτῶν δόξαι - che vengono denunciate come non fededegne - non rappresentano mere impressioni ma punti di vista assunti, condivisi e diffusi, con cui ha evidentemente senso ingaggiare polemica: è alla soggettività di tali punti di vista che viene contrapposta la verità comunicata dalla dea. Gli ultimi due versi del proemio ritornano sulla materia di quelle confuse assunzioni, per riproporla in modo adeguato: in questo caso Parmenide impiega non il termine δόξαι ma τὰ δοκοῦντα: non i punti di vista ma le cose che in essi sono accolte. A τὰ δοκοῦντα collega la complessa (e testualmente controversa) espressione participiale διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα, che abbiamo reso come «tutte insieme davvero esistenti». La scelta appare non 160 In funzione prolettica, Parmenide avrebbe – di norma - dovuto impiegare τάδε, non ταῦτα, che sembra invece riferito a quanto precede. 161 Op. cit., pp. 195 ss.. 296 quella di ricostruire la genesi dell’errore dei mortali, ovvero quella di proporne una versione più coerente, piuttosto quella di mostrare come «le cose accolte nelle opinioni» avrebbero dovuto («era necessario\opportuno», con possibile valore di irrealtà) essere intese nella loro totalità come ὄντα (esistenti), in altre parole considerate alla luce della Verità, ovvero come genuina realtà. La precisazione di Parmenide, con le sue scelte lessicali (δοκοῦντα, ὄντα), e la struttura del poema, con un secondo logos di natura enciclopedica, suggeriscono di considerare positivamente il terzo punto del programma della dea, ben distinto dal secondo (che riceve indiscutibilmente una connotazione negativa), di cui tuttavia sembra condividere due elementi essenziali: (i) il contenuto materiale, costituito dalla pluralità delle cose che accogliamo sulla base della esperienza; (ii) la prospettiva (espressa dall’insistenza sulle forme in δοκ), il punto di vista mortale, che è appunto quello che passa attraverso l’esperienza, ma che, non per questo, deve essere giudicato inaffidabile. La Dea procederà quindi: (i) in primo luogo, a introdurre quella verità di cui è esplicitamente (e tradizionalmente) garante (B2): si tratta delle premesse (B2.3, B2.5) da cui è possibile procedere per manifestare la struttura della realtà (B8); (ii) poi, a stigmatizzare (sbrigativamente), sulla scorta della forma (logica) di quelle premesse (necessità dell’essere e impossibilità del non-essere), l'infondatezza dei comuni assunti circa le cose e il loro divenire; (iii) infine, a illustrare, attraverso una ricostruzione coerente con i parametri veritativi della Dea, l'«ordine del mondo» (διάκοσμος), vero obiettivo dell'opera. In questo modo, il poema contiene, complessivamente, la rivelazione di tutta la Verità: della sua natura intrinseca («cuore fermo»), fraintesa nel comune, superficiale pregiudizio, e della sua adeguata applicazione al campo dell’esperienza umana. Parmenide si riferisce a due ambiti distinti, divino e umano, che nella rivelazione si sovrappongono: la meditazione della «parola» (μῦθος) della Dea, che segnala la traccia che conduce ad Ἀληθείη, 297 assicurerà al κοῦρος la consapevolezza degli errori comuni tra gli uomini e dunque un'avveduta prospettiva sul mondo della sua esperienza. In questo senso, le due sezioni (Verità e Opinione) hanno lo stesso oggetto (non potrebbe essere diversamente per la logica del poema): la realtà, manifestata nella sua unitotalità essenziale dall'intelligenza, e nella pluralità dei processi naturali dall’esperienza. La scansione di tale programma nei moduli della tradizionale istruzione poetica è significativa: lo scarto tra sapere umano e sapere divino, proposto nella cornice dell'eccezionale tragitto ai limiti del cosmo, dove cielo e terra, notte e giorno, mondo dei vivi e mondo dei morti si incontrano, è ribadito non solo nella relazione didascalica tra θεά e κοῦρος, ma anche nella complementarità dei loro due diversi sguardi sulla realtà. Quello della Dea si rivolge impassibile (logicamente coerente e inattaccabile) all’essere, alla totalità razionalmente afferrata nella sua omogeneità e identità ontologica; quello dei mortali è invece condizionato (e per lo più sviato) dal filtro dell’esperienza. Compito del poema condannare le distorsioni e produrre – con la lezione divina – una consapevole mediazione. Per via Prima di concludere l’esame del proemio e dopo averne considerato gli ultimi versi e il programma contenutovi, è opportuno ritornare riassumere i nostri risultati. Parmenide compone nei moduli della tradizione epica, evocandone il rilievo veritativo e educativo e sviluppandone in particolare il tema del viaggio, centrale non solo per l’epica omerica ma anche, in generale, per l’esperienza culturale e religiosa arcaica (sciamanesimo). Modulando tali paradigmi, il poeta insiste sull’eccezionalità della propria esperienza, sia per gli auspici che ne assicurano lo svolgimento, sia per la meta oltremondana, sia, infine, per l’incontro con la dea rivelatrice: ciò comporta, da parte sua, valorizzare, con la lezione divina, anche il percorso del viag- 298 gio, la «via» (ὁδός πολύφημος δαίμονος) che la dea innominata ci informa essere «lontana dalla pista degli uomini. A sancire tale percorso e la legittimità della percorrenza, Parmenide colloca Dike e Temi, giustizia e norma divina: l’accesso alla verità, dunque, non è casuale, accidentale, ma risultato di uno slancio educato (il poeta in apertura evoca la spinta del proprio desiderio, θυμός), forse di una iniziazione (come rivelerebbe, in particolare, l’uso della espressione εἰδὼς φώς). La lezione della Dea non si limita a manifestare la Verità (di cui rileva la saldezza, il nucleo inattaccabile), mediandola a un mortale, ancorché favorito, ma è attenta anche a dar conto del mondo dell’esperienza, delle «convinzioni» umane, sia per denunciarne gli stravolgimenti, sia per offrirne un’illustrazione adeguata, coerente, nei suoi principi esplicativi, con la realtà annunciata (l'essere). I modelli e i temi interessati suggeriscono che la comunicazione di verità, certamente centrale nei frammenti disponibili, non fosse fine a se stessa, ma costituisse l’elemento intorno a cui realizzare un profondo ri-orientamento della esperienza umana e una radicale ri-determinazione del rapporto tra soggetto umano e realtà (come cercheremo di dimostrare in B3 e B8)162. La formazione alla verità porterà il kouros a vedere il mondo in una prospettiva lontana dalla quotidianità, ma soprattutto a scegliere diversamente dalla società163. 162 Analizzando il valore di ἀλήθεια nella cultura arcaica, la Stemich (op. cit., pp. 84-6), convinta che in Parmenide non si possa delimitarne nettamente la prospettiva oggettiva (che insiste sul referente, sull’entità data al di fuori dell’individuo) da quella soggettiva (come nelle espressioni dire vero, fare vero, in cui è sottolineata la relazione dell’uomo alla verità), osserva comunque che Parmenide (come già Eraclito) insista piuttosto sulla seconda, ovvero sulla condizione che consente all’uomo di superare il senso comune quotidiano. 163 È significativo che, di recente, oltre a Martina Stemich anche Chiara Robbiano (op. cit., p. 56) abbia richiamato l’attenzione su questo punto: la ἀλήθεια rivelata, prioritaria nel programma educativo della Dea, sarebbe il risultato di un punto di vista (che il kouros deve maturare), e dunque soggettiva, ma, dal momento che esso svela l’essenza della realtà, allo stesso tempo oggettiva. In questo senso il poema riguarderebbe una trasformazione 299 Che si tratti di percorso astrale – quello solare – che conduce alla porta cosmica, chiave di volta non solo dell’alternanza giorno-notte ma anche dell’accessibilità al mondo infero, ovvero di itinerario celeste, verso una trascendenza extra-cosmica (come vuole Mansfeld), o ancora di discesa verso il mondo infero, il viaggio verso la divinità è comunque destinato a un impatto che sarebbe riduttivo considerare esclusivamente sotto il profilo conoscitivo, come per lo più si è fatto nella tradizione. L’evento è decisivo non solo per quello che consentirà di conoscere ma per come consentirà di condursi nell’esistenza: questa è forse la ragione della scelta comunicativa di Parmenide, con le sue potenzialità performative (la recitazione) e le allusioni a esperienze (rivelazioni, illuminazioni ecc.) note soprattutto per la loro incidenza esistenziale. Non a caso, dunque, il poema si apre con riferimenti allo θυμός, all’εἰδὼς φώς, alla accortezza delle cavalle di scorta, e all’egida divina di Temi e Dike, per procedere all’incontro con una dea (che potrebbe essere Persefone) la quale introdurrà la propria rivelazione (B2) con l’evocazione dell’immagine di un bivio, di fronte al quale il kouros è chiamato a scegliere. del punto di vista tale da investire non solo l’oggetto della comprensione, ma anche - alla fine del viaggio - il soggetto (p. 37). Nonostante i vari problemi di traduzione e interpretazione suscitati dai versi di B2, con certezza possiamo asserirne, come nel caso del precedente B1, la collocazione: all’inizio della prima sezione del poema1, a ridosso del proemio (se non addirittura in continuità e contiguità con esso). Possiamo inoltre ragionevolmente ritenere che B2 costituisca, con i successivi B3, B6, B72, un blocco argomentativo continuo: l’introduzione dei presupposti per manifestare (B8) i segni (σήματα), le proprietà della Realtà concepita come un tutto, ovvero di quanto anticipato (B1.29) come Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ («di Verità ben rotonda il cuore fermo»). All’interno di uno schema espositivo che esplicitamente richiama l’attenzione sul rilievo fondativo dei versi B2.2-8 (la Dea, infatti, marca la significatività del proprio μῦθος, sollecitando l’interlocutore a prenderne nota e averne cura), alcuni hanno voluto valorizzare la condizionante presenza dei principi della logica occidentale3, altri invece vi hanno colto le premesse dell'ontologia4. Dire, ascoltare La continuità con B1 è segnata proprio dalla modalità direttiva della comunicazione, in cui esortazione e insegnamento marcano lo scarto tra il ruolo della Dea (ἐγὼν ἐρέω, «io dirò») e la ricezione (l’ascolto attento) del poeta (κόμισαι δὲ σύ μῦθον, «e tu abbi cura 1 Ricordiamo che, nella cesura di B8.50-1, la Dea si riferisce a quel che precede come πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης; B2.4 sembra riferirsi alla stessa materia con l'espressione Πειθοῦς κέλευθος. 2 Coxon, op. cit., p. 173: la sequenza proposta è, nella numerazione DK (diversa da quella ricostruita dall’autore), B2, B3, B6, B4, B7. 3 Per esempio Heitsch in Parmenides, Die Fragmente, griechisch-deutsch, herausgegeben, übersetzt und erlaütert von Ernst Heitsch, Sammlung Tusculum, Artemis & Winkler, Zürich 19953. 4 Per esempio Leszl, op. cit., p. 85. 301 della parola»), destinata, a sua volta, a trasformarsi, attraverso il canto, nella mediazione della verità a un discepolo: il σύ («tu») impiegato dalla divinità è rivolto tanto da questa al poeta, quanto da questi al proprio ascoltatore. La Dea sottolinea: ti dirò e tu ascolta e riferisci. Al poeta, giunto alla meta del viaggio (infero), non sono riservate privilegiate visioni o rivelazioni immediate; lo attendono, invece, parole, di cui si raccomanda l'ascolto5. La sua ricerca della Verità dovrà dunque muovere da esse: parole con cui la Dea non nomina se stessa, non descrive se stessa o la casa in cui risiede, non designa neppure puntualmente un soggetto6. Un solo impegno è stato assunto e quindi fa da sfondo alla sua parola: «è necessario che tutto tu apprenda» (χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι). Come sarà sottolineato in altro luogo (B7.5), l’espressione κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας («e tu abbi cura della parola una volta ascoltata») certamente sollecita attenzione per la verità del messaggio (μῦθος), ma implica anche – nella ricezione\cura - la sua valutazione e trasmissione. Sintomatica nel contesto la scelta del termine μῦθος, la «parola» divinamente ispirata del poeta, la parola che veicola, attraverso il poeta, il canto delle Muse, e dunque sancisce, a un tempo, il vincolo di dipendenza del mortale dall’immortale, ma anche l’eccezionale rilievo del poeta, la sua peculiare posizione sociale, la sua σοφίη 7. 5 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon… cit., pp. 89-90. 6 Ivi, p. 79. 7 Su questo punto in particolare la Wilkinson (pp. 40 ss.), che richiama Senofane, DK 21 B2.11-14: ῥώμης γὰρ ἀμείνων ἀνδρῶν ἠδ’ ἵππων ἡμετέρη σοφίη. ἀλλ’ εἰκῆι μάλα τοῦτο νομίζεται, οὐδὲ δίκαιον προκρίνειν ῥώμην τῆς ἀγαθῆς σοφίης Migliore è infatti della forza di uomini e cavalli la nostra sapienza. Ma si valuta questo in modo veramente dissennato: e invece non è giusto preferire la forza alla buona sapienza. Lo stesso Senofane aveva così introdotto la propria sapienza: 302 Io, tu La polarità comunicativa ἐγώ-σύ introduce anche la dialettica del testo parmenideo: essa, in effetti, sottolinea l’urgenza di illustrare la forza persuasiva del messaggio al destinatario (B2.4: Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ: «di Persuasione è il percorso - a Verità infatti si accompagna») e dunque la dimensione argomentativa (che si impone soprattutto in B8). A dispetto del tono e della situazione solenni, è progressivamente sul piano della (co)stringente discussione (ἔλεγχος) che si sviluppa la rivelazione della Dea, quasi assumendo il «tu» come muto interlocutore, di cui B8 sembrerebbe confutare il punto di vista ordinario. In questa prospettiva, la dialettica comunicativa esprime l’intenzione educativa anche nella forma di una lezione sull’uso degli strumenti razionali. B2 proporrebbe allora, in modo originale, le premesse di base della successiva trattazione: Mansfeld, in particolare, ha sostenuto che il ruolo condizionante della divinità e della sua rivelazione si manifesterebbe nei due passaggi introdotti dalle forme verbali in prima persona8, negli asserti imposti dall’autorità di ἐγώ («io»): εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω […] Orsù, io dirò (B2.1a) χρὴ δὲ πρῶτον μὲν θεὸν ὑμνεῖν εὔφρονας ἄνδρας εὐφήμοις μύθοις καὶ καθαροῖσι λόγοις bisogna che in primo luogo celebrino il dio uomini assennati, con racconti adeguati e puri discorsi (B1.13-14); e: ἀνδρῶν δ’ αἰνεῖν τοῦτον ὃς ἐσθλὰ πιὼν ἀναφαίνει, ὥς οἱ μνημοσύνη καὶ τόνος ἀμφ’ ἀρετῆς da lodare, poi, tra gli uomini, colui che, bevendo, pronuncia belle parole, conformemente a memoria e aspirazione alla virtù (B1.20-1). 8 Op. cit., pp. 61-2. 303 τὴν δή τοι φράζω Proprio questa ti dichiaro (B2.6a). Il primo momento coinciderebbe con l’enunciazione (B2.2) delle «uniche vie di ricerca per pensare» (solo A e B sono «per pensare», A e B sono immediatamente incompatibili), in questi termini (letterali): ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) […] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere (B2.5). Il secondo con l’asserzione dell'impercorribilità della seconda via: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni (B2.6). Che (i) «è» e «non è» rappresentino alternative incompatibili e che (ii) τό μὴ ἐὸν non sia effettivamente disponibile per un'autentica ricerca, costituirebbero le matrici (garantite dall'iniziativa divina) della successiva discussione, come evidenziato dall'invito all’ascolto9: il poeta paleserebbe in questo modo sia il proprio proposito argomentativo sia la consapevolezza del suo articolarsi. Anche non condividendo la tesi di Mansfeld, appare comunque indiscutibile l’intenzione di Parmenide di sfruttare la presenza della Dea per muovere da una verità fondamentale. Altri, invece, riconoscendo l’uso didascalico del mito, vi hanno colto la rivendicazione di una verità indiscutibile (che non è mera opinione umana) 10, ovvero l’espressione della matura consapevolezza dell’oggetto e dei mezzi propri della filosofia11: non sarebbe stato 9 Ivi, p. 86. 10 Conche, op. cit., pp. 79-80. 11 La tesi secondo cui Parmenide sarebbe il primo filosofo ad argomentare, a dare ragioni a supporto della propria posizione, a elaborare consapevolmente 304 più sufficiente enunciare la verità; era necessario assicurarla con la costrizione del logos. Forse, più semplicemente, per il sapiente-poeta, che componeva all'interno di una cultura in cui, in un modo o nell'altro, ogni sapere era radicato nella sfera della comunicazione divina12, era scontato rispettare la convenzione e fondare le premesse dei propri argomenti sulla parola della Dea. Uniche vie di ricerca per pensare All'esortazione di apertura che l’«io» della Dea rivolge al «tu» del poeta (v. 1), invitandolo ad «aver cura di» (κόμισαι) – ovvero «prender nota, meditare e trasmettere» – quanto ella sta per rivelare, fa immediatamente seguito (v. 2), sintatticamente retto dall’impegnativa espressione omerica ἐρέω («dirò, proclamerò»), la prima indicazione concreta sul contenuto della rivelazione: αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι che abbiamo reso come: quali sono le uniche vie di ricerca per pensare. Il verso presenta alcune difficoltà, non indifferenti per l'interpretazione relativa e complessiva. Quale valore riconoscere a ὁδοὶ διζήσιός? Quale a μοῦναι? Come rendere εἰσι? Come νοῆσαι? La Dea, riferendosi a ὁδοὶ διζήσιός, ritorna (dopo averlo già fatto in B1.2, B1.5 e soprattutto B1.26-7) sul tema della via, impiegando un'espressione di nuovo conio, che rientra tuttavia a pieno titolo nel motivo omerico del viaggio13. Il termine parmeni- il proprio ragionamento con metodo, è di Cordero (By Being, It Is, cit., p. 38). 12 Su questo aspetto della cultura greca, è interessante la messa a fuoco di L. Brisson, "Mito e sapere", in Il sapere greco. Dizionario critico, a cura di J. Brunschwig e G.E.R. Lloyd, vol. I, Einaudi, Torino 2005, pp. 49-62. 13 Mourelatos, op. cit., p. 67. 305 deo δίζησις è infatti di derivazione epica, essendo δίζημαι utilizzato in Omero per «ricercare persone o animali perduti» ovvero nel senso lato di «concepire»: esso implica desiderio del e interesse nell’oggetto ricercato (la cui esistenza quindi non sarebbe in discussione). La formula ὁδοὶ διζήσιός alluderebbe allora a un investigare impegnato a raccogliere informazioni che conducano all’oggetto desiderato. È significativo che il contemporaneo Eraclito usi δίζημαι nel senso di ricercare in profondità: χρυσὸν γὰρ οἱ διζήμενοι γῆν πολλὴν ὀρύσσουσι καὶ εὑρίσκουσιν ὀλίγον Quelli che cercano oro rivoltano molta terra, ma trovano poco [oro] (DK 22 B22), marcando la propria direzione d’indagine verso quanto nascosto e inaccessibile ai più: la ricerca della φύσις, in contrapposizione alla πολυμαθία di poeti e sapienti tradizionali. Eraclito, tuttavia, sottopone il verbo a un’ulteriore, originale, torsione: ἐδιζησάμην ἐμεωυτό ho indagato me stesso (DK 22 B101), che Mourelatos14 legge in relazione a: ψυχῆς πείρατα ἰὼν οὐκ ἂν ἐξεύροιο, πᾶσαν ἐπιπορευόμενος ὁδόν· οὕτω βαθὺν λόγον ἔχει i limiti dell’anima non potrai mai trovarli, sebbene tu ti spinga per tutte le strade: tanto profondo è il suo logos (DK 22 B45). L’uso arcaico di δίζημαι sottolinea, insomma, il fatto che si ricerca intorno a qualcosa che non è manifesto o accessibile fin dall’inizio. In questo senso il nesso stabilito nei versi 3-4 tra la prima ὁδός e Ἀληθείη: 14 Mourelatos, op. cit., p. 68. 306 Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ di Persuasione è il percorso - a Verità infatti si accompagna. È necessario un percorso di ricerca per appalesare quanto è immediatamente nascosto: la via conduce alla scoperta della realtà, e in questo senso alla «verità». La verità richiede dunque una specifica ricerca: solo seguendo una «pista» (termini come πάτος, κέλευθος, ἀταρπός sono ricorrenti nei primi due frammenti) non casuale è possibile cogliere ciò che è genuinamente reale. Parmenide sceglie di ricorrere all'espressione «vie di ricerca» proprio per dare risalto al fatto che esse hanno come obiettivo essenziale la realtà (verità)15. La Dea proclama dunque solennemente: αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι (letteralmente: quali vie uniche di ricerca sono per pensare). La costruzione greca ha autorizzato sia (i) la lettura che insiste sulla concepibilità delle vie (εἰσι νοῆσαι in senso potenziale, da rendere come: «sono possibili da pensare», «possono essere pensate», «sono pensabili/concepibili»), sia (ii) quella che, come pare corretto nel contesto, facendo leva (a) sul valore finaleconsecutivo dell’infinito, (b) sul suo nesso con μοῦναι, e (c) sulla successiva determinazione delle ὁδοί con formule introdotte da ὅπως e ὡς, esprime il lato attivo del pensare (dunque: «quali sono le uniche vie per pensare»), introducendo due modi di pensare («pensare che...»). Qualcuno16 ha ipotizzato che Parmenide intendesse evocare entrambi i valori, intenzionalmente giocando sull’ambiguità (in analogia con le modalità di comunicazione del contemporaneo Eraclito): una chiave interpretativa che potrebbe applicarsi ad altri passaggi del testo. 15 Leszl, op. cit., p. 124. 16 Robbiano, op. cit., pp. 81-2. 307 Ma il testo pone anche il problema della resa di νοῆσαι: generico «pensare», o, secondo l’uso arcaico, «apprendere, conoscere»17? La traduzione in questo caso impone un'opzione interpretativa: «pensare» rischia di risultare troppo indefinito rispetto all'unicità conclamata delle vie, consentendo, per esempio, di ammettere, oltre alle razionalmente legittime, anche «le vie dell’irrazionale» (illuminazioni, rivelazioni, ispirazioni ecc.), illegittime agli occhi della ragione18, come in effetti alcuni frammenti del poema (soprattutto B6 e B7) sembrano suggerire. D’altra parte, si potrebbe obiettare che, rendendo in senso forte νοεῖν con «apprendere\conoscere», come pur giustificato dalla conclusione del proemio19, risulterebbe poi problematica la comprensione della via introdotta in B2.5 (letteralmente): ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι che non è e che è necessario non essere. Di essa, in effetti, la Dea si affretta subito a osservare: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· Proprio questa di dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo (B2.6-8); sottolineatura ripresa e accentuata ancora in B8.17-8: ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός 17 Mourelatos, op. cit., p. 70. Tra gli editori contemporanei, anche Heitsch opta per erkennen. Per una discussione aggiornata si veda ora Palmer, op. cit., pp. 69 ss.. 18 Come nel caso di Conche, op. cit., p. 77. 19 Ch.H. Kahn, “The Thesis of Parmenides”, in Id., Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009, pp. 146-147. 308 impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina). Eppure è proprio questa difficoltà a risultare illuminante rispetto alla natura e alla funzione delle «uniche vie di ricerca per pensare» (ὁδοί μοῦναι διζήσιός νοῆσαι): solo la nozione di νοεῖν come pensare del tutto intellettuale, capace di prescindere dalle sembianze sensibili e afferrare ciò che è realmente dato, appare in grado di giustificare l'alternativa (ἡ μὲν... ἡ δὲ...) prospettata nei versi B2.3 e B2.5. Intendendo νοεῖν come un «pensare» generico, si può ridurre il paradosso di una «via di ricerca per pensare» connotata come «sentiero del tutto privo di informazioni» (παναπευθέα ἀταρπόν) e, addirittura, come «impensabile e inesprimibile (ἀνόητον ἀνώνυμον), ricorrendo alla distinzione tra la sua prospettazione a priori e l'effettiva (a posteriori) sua praticabilità. Crediamo, tuttavia, che sia solo la comprensione di νοεῖν secondo la prospettiva omerica (improntata all'analogia con il vedere) di una relazione percettiva immediata con l'oggetto20, a dare senso alla disgiunzione «è»-«non è»: essa allora esprimerà, per quella funzione ricettiva, l'alternativa radicale tra necessità di rivolgersi a una realtà che è, e impossibilità di afferrare ciò che non è. La Dea annuncia nel contesto quali siano le «uniche vie di ricerca per pensare»: tre sono gli elementi da considerare: (i) la ricerca (δίζησις), (ii) i percorsi lungo per cui essa si sviluppa, (iii) la finalità che essa intende realizzare, designata dall'infinito aoristo νοῆσαι: «pensare», svelare la realtà (verità), ovvero, come suggerisce Palmer21, «comprendere», «giungere a comprensione». Il contesto di B2 suggerisce palesemente anche l'obiettivo conclusivo delle ricerca, che traduce in risultato la finalità dell'unico effettivo percorso di ricerca: come abbiamo già osservato, della prima via di ricerca (ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι) la Dea sottolinea che (a) è «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος), 20 Germani, op. cit., p. 189. 21 Op. cit., pp. 72-3. 309 in quanto (b) «attende alla Verità» (Ἀληθείῃ ὀπηδεῖ). L'apertura di B6 preciserà (letteralmente): χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι è necessario il dire e il pensare che ciò che è è, fissando quindi in quanto espresso da ἐόν l'oggetto specifico di comprensione. D'altra parte, le «vie» annunciate sono «uniche» (μοῦναι) in forza di ciò che esse si propongono di pensare: in B8.16 sinteticamente proposto come ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν («è o non è»), esso è in B2 rinforzato da due formule modali: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) […] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere (B2.5). Lungo la prima via (per pensare), la ricerca si sviluppa riflettendo a partire dall'immediata evidenza: «è» (ἔστιν), rimanendo saldamente sul terreno dell'«essere» (escludendo cioè la possibilità del «non-essere»). La seconda modalità, invece, prospetta una ricerca che si svolga a partire dalla negazione di quella evidenza: «non è» (οὐκ ἔστιν), pretendendo di svilupparsi conseguentemente sul terreno del «non essere». Delineata come alternativa alla precedente, essa si rivela di fatto impercorribile, dal momento che il pensiero non avrebbe alcunché da afferrarvi e manifestarvi: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo. 310 Per pensare Prima di procedere alla determinazione delle «vie», è opportuno, tuttavia, in relazione al verso 2, soffermarsi ancora sulle implicazioni dell’annuncio della Dea: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω [...] αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι. Comunque si valutino queste parole, è evidente come in esse Parmenide anticipi il senso di un messaggio (divino) che investe indiscutibilmente la dimensione cognitiva del νοεῖν: si tratterà di riassumere, nella schematica astrazione di due forme («vie»), le modalità di fondo del «ricercare», del portare a conoscenza22, discriminandole rispetto all'ampia fenomenologia di tentativi e sviamenti «mortali» (le δόξαι βροτῶν). Se si può riconoscere alla narrazione del proemio anche un'intenzione simbolica, ricordiamo come la θεά, accogliendo il κοῦρος, rilevasse (B1.27): τήνδ΄ ὁδόν [...] γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν. Il filo che lega l’esordio della comunicazione della θεά (B1.24 ss.) alla rivelazione di B2 è costituito dal tema della ὁδός: la Dea dapprima (B1.27) – con riferimento alla via che, grazie all’intervento di eccezionali coadiutrici, ha condotto al suo cospetto - segnala come essa sia «lontana dalla pista degli uomini» (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου); in B2 ella ne rievoca il tema nelle ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός, precisando in modo rigoroso i criteri per valutare la fondatezza di ogni punto di vista. In gioco è esplicitamente (B1.29) la Verità: (i) nella sua “essenza” (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ); (ii) nella sua manifestazione 22 Come ricordato in nota al testo, Kahn (Ch.H. Kahn, “The Thesis of Parmenides”, cit., p. 147) ha sostenuto che δίζησις costituirebbe «equivalente poetico» del termine ionico ἱστορίη («ricerca scientifica»). 311 all’esperienza umana (τὰ δοκοῦντα); (iii) nella sua diffusa distorsione (βροτῶν δόξαι). La realtà da scoprire (Verità) rimane, in effetti, al centro anche di B2, come abbiamo in precedenza sottolineato a proposito della espressione δίζησις e della sua derivazione dall’omerico δίζημαι, alimentando un possibile ulteriore paradosso. Secondo una corrente interpretazione dei primi versi del proemio, la Dea è stata raggiunta a conclusione di un viaggio lungo la «strada ricca di canti» (ἐς ὁδὸν πολύφημον) che conduce «l’uomo che sa»: ella rivela di non essere la fonte diretta da cui attingere la Verità; suo compito è solo quello di indicare il (nuovo) percorso per conseguirla23. È questo decentramento della verità dalla Dea che giustifica, per esempio, la lezione di Untersteiner, il quale fa coincidere la verità con la via stessa. In ogni caso, nell’economia complessiva del testo, il riferimento al νοεῖν – del poeta e del lettore\ascoltatore – è essenziale per coglierne l’intenzione pedagogica. Il discorso si snoderà a partire dalla comprensione delle implicazioni di due enunciati divini, insistendo sulla centralità della relazione tra νοεῖν e εἶναι: tale comprensione risulterà ugualmente vincolante per la Dea e per i «mortali» (manifestando un decisivo, comune denominatore razionale): (i) legittimando, da un lato, il taglio argomentativo di alcuni dei frammenti della prima sezione (segnatamente B8, parzialmente B6) e l’ἔλεγχος adottato dalla divina interlocutrice per istruire il κοῦρος; (ii) contribuendo dall’altro a determinare l’oggetto intorno a cui verte il discorso, indicato dallo stesso Parmenide (nella formula più astratta) come τὸ ἐόν. Le «vie» e i loro problemi: natura e articolazione della ricerca Le «uniche vie di ricerca per pensare», come abbiamo visto, sono proposte letteralmente come: 23 Ruggiu, op. cit., p. 211. 312 ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere (B2.5) ovvero, volendo risolvere le infinitive in una soggettive esplicite (come appare più naturale): l’una che è e che non è possibile che non sia l’altra che non è e che è necessario che non sia. La nostra preferenza per la resa infinitiva è legata alla possibilità di rimanere più aderenti alla costruzione greca e soprattutto di sfruttarne gioco espressivo e ambiguità. In apparenza, l’alternativa (ἡ μὲν... ἡ δὲ...) reitera – pur senza sovrapposizione, come vedremo - lo schema oppositivo già impiegato dalla Dea nella propria allocuzione di saluto, quando aveva sottolineato al κοῦρος l’esigenza di «tutto» apprendere: ἠμέν ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è vera credibilità (B1.29-30). L'una - l’altra Ammettendo la sostanziale continuità tra B1 e B2, le due opposizioni, cariche di significato in forza delle reciproche introduzioni (nel primo caso - B1.28 – l’urgenza di χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι; nel secondo l’interrogativo implicito in αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι), appaiono evidentemente collegate, 313 anche se non (come vorrebbe qualcuno24) nel senso di una puntuale correlazione. Nel caso di B2, l’opposizione emerge non solo, sul piano espressivo, nella scelta della costruzione (ἡ μὲν ὅπως... ἡ δ΄ ὡς), ma soprattutto, sul piano logico, nella peculiare costruzione degli enunciati, che possiamo rispettivamente articolare nei due emistichi dei versi 3 e 5, quindi: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν […] (B2.3a) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν […] (B2.5a) καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι (B2.3b) καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5b). Letteralmente dovremmo tradurre, attribuendo (come prevalentemente si fa) a ὅπως e ὡς il valore di congiunzioni (subordinanti) dichiarative (sottintendendo, dunque «che dice» ovvero «che pensa»): l’una [che pensa] che «è»25 […] (B2.3a) l’altra [che pensa] che «non è» […] (B2.5a), e che «non è [possibile] non essere» (B2.3b) e che «è necessario non essere» (B2.5b). L'alternativa più credibile a questa costruzione dichiarativa non pare tanto quella avverbiale discussa da Mourelatos26: l’una come è e come non sia non essere l’altra come non è e come sia necessario non essere, 24 In modo coerente per esempio Cordero. 25 Il virgolettato vuol sottolineare il contenuto dichiarato. 26 Op. cit., pp. 49.51. Untersteiner rende in modo apparentemente analogo, ma in realtà con valore interrogativo: «come una esista e che non è possibile che non esista» (p. LXXXVI). 314 quanto quella proposta da Ferrari27, almeno per quel che concerne la resa di ὅπως e ὡς con «secondo cui», che ben suggerisce l'idea delle diverse prospettive di ricerca. Il rilievo oppositivo delle «vie» può essere rafforzato se – come è possibile e per certi versi naturale nel contesto – B2.3b (καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι) è reso con espressione modale; avremmo così: e che: «non è possibile non essere» [ovvero: che non sia] (B2.3b) e che: «è necessario non essere» [ovvero: che non sia] (B2.5b). In questo caso, sarebbe evidente come Parmenide abbia deliberatamente costruito le «vie di ricerca» facendo leva sulle opposizioni «è» – «non è» e «non è [possibile] non essere» - «è necessario non essere»: la Dea – per acclarare αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι - ricorre a due formule coordinate 28: (i) «[pensare] che A e che B» per la prima via; (ii) «[pensare] che non-A e che non-B» per la seconda. In greco abbiamo: A = ἔστιν; non-A = οὐκ ἔστιν; B = οὐκ ἔστι μὴ εἶναι; non-B = χρεών ἐστι μὴ εἶναι. Nello schema che così si delinea, da un punto di vista logico «non-B» dovrebbe corrispondere alla negazione di «non è possibile non essere» e dunque a «è possibile non essere», non a «è necessario non essere». In questo senso, è stato giustamente osservato (Kahn, Mourelatos, Lloyd, Leszl) che, alla luce della posteriore logica aristotelica, gli enunciati 2.3a e 2.5a sarebbero effettivamente contraddittori29, mentre gli enunciati 2.3b e 2.5b (costruiti sulla opposizione «non è possibile...»-«è necessario...») solo contrari30, e che dunque la formulazione alternativa non sarebbe esaustiva. Eppure nell'insieme appare chiara (Aubenque, 27 Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 135 ss.. 28 Proposta da Cordero, By Being, It Is…, cit., p. 43. 29 Ammettendo, ovviamente, l'identità di soggetto: uno necessariamente vero, l’altro necessariamente falso. 30 Non potrebbero essere, quindi, veri entrambi, ma potrebbero essere entrambi falsi. 315 Heitsch) l’intenzione di Parmenide di esprimersi attraverso alternative esclusive (quindi in termini di espressioni incompatibili)31. In questo senso la nostra scelta di rendere il testo greco con subordinate implicite: l’una: è e non è possibile non essere l’altra: non è ed è necessario non essere, quasi la Dea puntasse ad associare all’immediato rilievo dello stato d’essere (ἔστιν) la forma infinitiva32 («essere»), in altre parole ad anticipare, nel gioco verbale, i due oggetti al centro della disamina (B3, B4, B6, B7, B8): ἐόν, τό ἐὸν, τό μὴ ἐὸν. Una volta delineata la formulazione oppositiva delle vie d’indagine, due questioni delicate (da un punto di vista interpretativo complessivo) si impongono: a chi o che cosa si riferiscono affermazione e negazione (quale il loro soggetto)? Quale valore (esistenziale, copulativo, veritativo) attribuire al verbo «essere»? È - non è Il primo interrogativo è ovviamente suscitato dall'assenza, in greco, di un soggetto per ἔστιν-οὐκ ἔστιν: dal momento che le principali lingue moderne richiedono che esso sia in qualche modo esplicitato, la traduzione del testo ha sopportato svariati tentativi di completamento: dalla scelta dell'assoluta indeterminatezza33, a quella della forma impersonale34, dal ricorso a pronomi35 31 Si veda la discussione in Cordero, op. cit., p. 71. 32 Heitsch rende ancora più esplicitamente questa situazione: Der eine, (der da laPomba) «es ist, und Sein ist notwendig» Der andere, (der da laPomba) «es ist nicht, und Nicht-Sein ist notwendig». 33 Tipicamente Calogero. 34 Fränkel. 35 Si tratta della soluzione più frequente. 316 (it, es, on), sostantivi (l’essere36, la via37, la Verità38, il mondo reale39, il corpo40), all'uso di intere formule sottintese - «whatever can be thought and talked about»41 (come viene da alcuni tradotto il primo emistichio di B6.1), «whatever we inquire into»42. Da un punto di vista filologico l’ipotesi di una lacuna relativa al soggetto - azzardata per esempio da Cornford43 e Loenen44, i quali propongono rispettivamente ἐόν (l'essere) e τι (qualcosa) – appare forzata: i codici conservati di Proclo e Simplicio, infatti, presentano lo stesso identico testo45 e l’operazione sul verso risponde quindi a un'esigenza essenzialmente interpretativa. Parmenide, evidentemente, ha scelto di esprimere i suoi enunciati in questo passaggio del poema senza un soggetto esplicito. Può essere in questo senso provocatorio il suggerimento della Wilkinson, la quale, in considerazione della naturale destinazione recitativa del poema, considera l’assenza di un soggetto definito per ἔστιν come una modalità intenzionale per esaltarne, nella ripetizione, la formula: la sua rarità nella poesia arcaica fa supporre che per l’audience di Parmenide il termine (soprattutto senza soggetto o come soggetto esso stesso) fosse una novità46. D’altra parte, l’esame del frammento consente di individuare un soggetto implicito: la stessa logica di costruzione delle «vie» comporta, infatti, che, nel momento stesso in cui la Dea sottolinea: 36 Tipicamente Cornford. 37 Untesteiner. 38 Verdenius. 39 Casertano. 40 Burnet. 41 Russell, Owen. 42 Barnes. 43 F.M. Cornford, Plato and Parmenides, Routledge & Kegan Paul, London 1939. 44 J.H.M.M. Loenen, Parmenides, Melissus, Gorgias: A Reinterpretation of Eleatic Philosophy, Van Gorcum, Assen 1959. 45 Come osserva Cordero (By Being, It is…, cit., p. 37), è curioso che le citazioni di questi versi (in Proclo e Simplicio) siano posteriori al poema di un millennio. 46 Wilkinson, op. cit., pp. 93 ss.. 317 οὔτε … ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo (B2.7-8), conoscibilità ed esprimibilità – negate a τό μὴ ἐὸν - debbano essere riferite a un ancora implicito [τὸ] ἐόν 47, come chiarito in B6.1-2a (letteralmente): χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν è necessario il dire e il pensare che ciò che è è; è infatti [possibile] essere, [il] nulla, invece, non è. Se è vero, come segnala Coxon48, che l’omissione del pronome indefinito (denotante «la cosa in questione») come soggetto è ampiamente diffusa nell’epica e nel greco posteriore, nel contesto dell’attuale B2, in altre parole all’esordio della comunicazione divina, è tuttavia assai probabile che Parmenide rinunciasse intenzionalmente al soggetto (per altro non immediatamente desumibile e quindi difficile da sottintendere per l’ascoltatore), insistendo piuttosto sull’impatto espressivo dell’intreccio oppositivo ἔστινοὐκ ἔστιν (con relative formule modali), per (i) catturare progressivamente l’attenzione dell’ascoltatore e (ii) coinvolgerne l’impegno intellettuale, lungo le due vie delineate, nell’enucleazione della verità. Saremmo, in questo senso, in presenza di un’ambiguità ricercata a scopo pedagogico. Se, come per lo più si conviene, l’ordinamento DK dei frammenti della prima parte del poema è relativamente plausibile, allora, da B2 a B8, assisteremmo a una graduale manifestazione del 47 Questo rilievo in R. Mondolfo, “Discussioni su un testo parmenideo (fr. 8.5- 6)”, «Rivista critica di storia della filosofia», 19 (1964), p. 311. Si veda anche Coxon, op. cit., p. 177. 48 Op. cit., p. 175. 318 soggetto sottinteso49 in B2.3: dalla pura affermazione «ἔστιν» si passerebbe, in B6.1, a un soggetto (ἐόν) sotto forma di participio ricavato dallo stesso verbo εἶναι, determinato poi, in B.8, come vera e propria nozione (τὸ ἐόν), con relative proprietà50. La scelta espressiva di Parmenide (rinunciare a un esplicito soggetto per ἔστιν-οὐκ ἔστιν) – che imbarazza il traduttore moderno, spesso costretto a ricorrere al pronome neutro come mero soggetto grammaticale51 - ha l’effetto di porre in risalto nei versi (per il lettore), ovvero nella recitazione (per l’ascoltatore) l’assolutezza di ἔστιν (οὐκ ἔστιν) 52, una ricorrenza insistente nel poema53. L'«impertinenza linguistica» di Parmenide54 si sarebbe concentrata deliberatamente su una forma verbale esposta all’ambiguità, per la rottura dello schema sintattico soggettopredicato verbale, e l’uso (di conseguenza incondizionato) della terza persona singolare indicativa (ἔστιν). Con l’effetto di richiamare l’attenzione sull’esperienza del reale55 implicita nel linguaggio ordinario: l'evidenza del puro fatto d’essere56. Come verbo assoluto, senza vincoli grammaticali e logici (soggetto, predicato), ἔστιν esprimerebbe immediatamente lo «stato puro»57 della realtà, 49 Su questa proposta convengono alcuni recenti interpreti: Couloubaritsis, Cassin, Aubenque, Ruggiu. 50 O’Brien, op. cit., p. 164. 51 Che preannuncia il vero (reale) soggetto: Conche, op. cit., p. 79. 52 Grazie al supporto delle formule modali οὐκ ἔστι μὴ εἶναι e χρεών ἐστι μὴ εἶναι. 53 Su questo aspetto, in particolare, Wilkinson, op. cit., p. 94. 54 P. Thanassas, Parmenides, Cosmos, and Being. A Philosophical Interpretation, Marquette University Press, Milwaukee (Wisconsin USA) 2007, p. 35: l’enfasi sull’«è» sorgerebbe da una certa awareness of language, e sarebbe in realtà funzionale al rilievo delle implicazioni dell’uso pre-filosofico del verbo «essere». 55 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit., p. 89. 56 Convincente per questo aspetto la lettura di Cordero, By Being, It Is, cit., pp. 61 ss.. Va per altro osservato come Parmenide coniughi il rilievo «ἔστιν» con la formula «οὐκ ἔστι μὴ εἶναι», che certamente lo rafforza: è a partire dalla sua assolutezza che si potrà procedere all'estrazione (B6-B8) di un soggetto (con l’introduzione di τὸ ἐόν o εἶναι). 57 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit., p. 93. 319 presupposto in ogni affermazione58. Per questo l’aggiunta di un pronome indefinito (qualcosa, τι in greco) tradirebbe (attenuandola) la radicalità dell’indicazione della Dea, che potrebbe piuttosto essere intesa come veicolo dell’originario stupore per, della primitiva attenzione al «fatto d’essere». Nella lettura che proponiamo, infatti, all’immediata rilevanza dell’ἔστιν la Dea farebbe seguire, con una sequenza verbale ad effetto59, οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, cioè l’estrazione e l’affermazione (attraverso la doppia negazione) di εἶναι. Per quanto si valorizzino le implicazioni linguistiche (come segnalato da Calogero, e da altri poi in vario modo ribadito60), il contesto della dichiarazione della Dea rimane comunque quello della determinazione di «vie di ricerca per pensare», nel senso di percorsi prospettati per giungere a comprensione della realtà: Parmenide intende dunque riferirsi in ultima analisi alla realtà sottesa a quelle espressioni, delineata nella sua assolutezza («non è possibile non essere»). Così, quando afferma (letteralmente): χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· è necessario il dire e il pensare che ciò che è è (B6.1a), ἐόν emerge come espressione concettuale, consapevole sviluppo astratto, dell’immediato contenuto di ἔστιν, denotando, a un tempo, la totalità degli enti (di ognuno dei quali si dice che è «ciò 58 In questa prospettiva, è forse ancora utile l'indicazione di Calogero, rilanciata da Giannantoni (G. Giannantoni, "Le due 'vie' di Parmenide", «La Parola del Passato», cit., pp. 207-221), circa la scelta dell'«è» «in quanto puro elemento logico e verbale dell'affermazione» (G. Calogero, Studi sull’eleatismo, La Nuova Italia, Firenze 19772, pp. 20-2). 59 L’effetto musicale in greco della sequenza verbale in ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι non è facilmente riproducibile in traduzione, mantenendo il valore potenziale di οὐκ ἔστι. 60 Riflessione intorno all’uso della copula (Thanassas, op. cit., p.32; Cerri, op. cit., p. 60), alla sua funzione «speculativa» nel rivelare il predicato essenziale di un soggetto (la copula funzionerebbe da conveyer verso la realtà della cosa: Mourelatos, op. cit., p. 59); riflessione sul fatto che, in greco, il linguaggio quotidiano indica le cose come ὄντα (Cordero, op. cit., p. 60.). 320 che è», ἐόν/ὄν), ma richiama anche la attenzione sull’essere (ἐόν, εἶναι) di quegli enti61. [Pensare] «che è», [pensare] «che non è» La seconda questione suscitata dalla formulazione delle «vie di ricerca […] per pensare» è relativa al valore da attribuire al verbo «essere» negli enunciati: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere (B2.5). L'insistenza sull’incrocio oppositivo di ἔστι e εἶναι risalta sia in lettura sia all’ascolto: «è»\«non-è», «non è [possibile] nonessere»-«è necessario non-essere». A partire da questo dato testuale è aperta la discussione tra gli interpreti su come intendere le espressioni verbali. Nella conclusione dell’esame precedente abbiamo posto in relazione l’affermazione di B2.3 con il primo emistichio di B6.1: χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι. All'interno del verso, «essere» (qui nella forma epica ἔμμεναι) è riferito a un esplicito soggetto, il participio ἐόν, con un valore che appare, naturalmente, esistenziale (predicato verbale: «esiste»). Ora, volgendoci 62, senza forzature, a B8, possiamo ulteriormente rilevare due passi chiaramente significativi: 61 Thanassas, op. cit., p. 45. Interessante il rilievo secondo cui l’ἐόν di Parmenide sarebbe in questo senso direttamente comparabile alla espressione aristotelica τὸ ὂν ᾗ ὂν. 62 Seguendo l’esempio di O’Brien, op. cit., pp. 170 ss.. 321 […] ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν che senza nascita è ciò che è e senza morte (B8.3), οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι per questo non incompiuto l’essere è lecito che sia (B8.32). In questi casi si individua ancora esplicitamente il soggetto nel participio ἐόν (B8.3) e nel participio sostantivato63 τὸ ἐόν (B8.32), mentre ἐστιν e εἶναι sono impiegati con valore copulativo64. Più complessa la situazione di B8.5-6: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές· né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo (B8.5-6), dove soggetto sottinteso è ἐόν di cui sopra (B8.3), e ἔστιν ha un duplice ruolo: a un tempo valore esistenziale (con l’avverbio: «è ora») e funzione copulativa65. Se poi guardiamo alla ricostruzione delle premesse dell’argomento della Dea (B8-15-18), dove Parmenide rievoca la κρίσις (decisione) intorno a «è o non è», il senso dell’ἔστιν in B2 si approfondisce: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. […] Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, 63 Che certamente comporta valore esistenziale. 64 In realtà per B8.3 la situazione è più complicata, in quanto il testo greco potrebbe rendersi diversamente: «essendo, è ingenerato e indistruttibile»; «essendo ingenerato, l’essere è anche indistruttibile». 65 O’Brien, op. cit., p. 177. 322 di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale (B8.15-18). La via (ὁδός) che pensa che «non-è [e che è necessario non essere]» è abbandonata, in quanto «impensabile [e] inesprimibile», perché «non genuina» (οὐ ἀληθής). In B2.6-7 si parla di «sentiero del tutto privo di informazioni»: «conoscere ciò che non è» ovvero «indicarlo» «non è in effetti cosa fattibile». L’altra si è invece «deciso» (κέκριται) «sia\esista» (πέλειν) e «sia reale\genuina\vera» (ἐτήτυμον εἶναι). Se in B2, nell’economia della lezione divina, è essenziale soprattutto focalizzare l’attenzione sul valore decisivo della espressione verbale ἔστιν, preparando il terreno alla comprensione delle implicazioni nella formulazione delle «vie», in B8, al contrario, riscontriamo gli effetti della sistematica applicazione alla prima «via», con altrettanto sistematica esclusione della seconda. La prima via per pensare (comprendere) afferma ἔστιν; la seconda lo nega (οὐκ ἔστιν). La prima via completa e assolutizza l’affermazione con la negazione del non-essere (οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), ovvero della possibilità del non-essere. La seconda via assolutizza la negazione affermando la necessità del non-essere (ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι). Con la prima via, attraverso l’esplicito (e incondizionato) rilievo di ἔστιν e dell’impossibilità di μὴ εἶναι, viene implicitamente imposto l’oggetto pienamente positivo della ricerca (ἐόν, εἶναι); con la seconda, che nega quanto la prima afferma, viene, di conseguenza, delineato l’oggetto alternativo, radicalmente negativo, indicato come τό μὴ ἐὸν, dichiarato al v. 7 come oggetto indisponibile alla conoscenza o alla manifestazione. In B6.1-2a: χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν 323 è necessario il dire e il pensare che ciò che è è: poiché è possibile essere, il nulla, invece, non è. con la piena esplicitazione del contenuto delle due vie, avrà poi inizio la disamina critica. Se questa prospettiva è corretta, allora in B2 le formule della pura affermazione (ἔστιν) e della pura negazione (οὐκ ἔστιν) - sostenute dalle relative formule modali, possono generare, in quanto «vie di ricerca» (le sole «per pensare»), due soggetti diversi e due espressioni tautologiche, su cui appunto Parmenide fa leva in B6. La necessità di «dire e pensare» che «ciò che è» (il participio ἐόν) «è, esiste» fonda la propria legittimità sulla duplice premessa: (i) che «essere» (εἶναι) «è possibile» (ἔστι); (ii) che il «nulla» (μηδέν) «non è» (οὐκ ἔστιν). Il comune errore dell’opinare umano si accompagna proprio al fraintendimento della portata di queste tautologie, nella contraddizione generata dall’affermazione incrociata (ancorché solo implicita) di essere e non-essere. Alla luce di questa considerazione – ribadendo quanto sopra a proposito della deliberata opzione parmenidea per forme verbali (ἔστιν - οὐκ ἔστιν), nel contesto immediatamente impersonali (senza soggetto e predicato) e dal valore (esistenziale, copultativo, veritativo) ambiguo – appare insostenibile il tentativo di attribuire τὸ ἐόν come soggetto comune sottinteso (in B2.3 e B2.5). Dalle due formule saranno ricavati due soggetti distinti: uno reale (τὸ ἐόν, appunto, «l’essere»), l’altro fittizio, pura espressione verbale e funzione logica (τό μὴ ἐὸν, «il non-essere», μηδέν il «nulla»), segnavia di una pista che la ragione riconosce subito impraticabile. In questo senso possiamo parlare di due «vie»: (i) una manifesta la «realtà» (Ἀληθείη) di «ciò che è (necessariamente); (ii) l'altra spinge a riconoscere (come evidenzia l'intervento della Dea) l'indisponibilità effettiva di «ciò che non è (necessariamente)», che pertanto andrà sistematicamente escluso dall'orizzonte dell'umano indagare. 324 Non pare che alla seconda delle vie di ricerca si debba attribuire la contraddizione che, invece, viene denunciata nelle «opinioni dei mortali»: condivisibile su questo punto quanto sottolineato da Mansfeld66. L’identificazione della seconda via con quella del mondo dell’esperienza è errata: ricordiamo come la seconda via è ancora connotata in B8.17-18: τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. [Si è deciso] di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è via genuina). Della via «non è» non si può concepire un contenuto reale: essa è allora ἀνόητον, ma anche ἀνώνυμον (letteralmente «senza nome»: non si può indicare ciò che non è in senso assoluto). Ma sono proprio i «nomi» a caratterizzare il mondo fenomenico, come sottolinea la stessa divinità (B8.38b.41): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. A rimanere «senza nome» è definitivamente ciò che (necessariamente) è nulla, quanto appunto espresso nella formulazione della seconda via, e designato come τό μὴ ἐὸν. Le due enunciazioni divine (affermativa e negativa) – in quanto «vie di ricerca, le uniche per pensare» - devono essere reciprocamente alternative ma in sé incontraddittorie, e tracciare i percorsi (κέλευθος, ἀταρπός) per i quali: (i) generare le nozioni di «essere» e «non-essere»; (ii) valutare, in relazione al coerente ri- 66 Op. cit., p. 55. 325 spetto dell’alternativa concettuale prodottasi, la consistenza dei punti di vista umani. D’altra parte, il motivo dell’intransitabilità della seconda via è non il suo carattere contraddittorio - come accade appunto nel caso della “presunta” via (B6.5-9) che i «mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν, «uomini a due teste» - δίκρανοι), si fingono -, ma il fatto che (B2.6-8) «non potresti conoscere ciò che non è, né potresti indicarlo», in quanto «cosa non fattibile». Prospettata (con la negazione οὐκ ἔστιν) come alternativa a ἔστιν, la via che pensa «che non è e che è necessario non essere» è «percorso» (ἀταρπός) assolutamente privo di contenuti, e quindi indicato come τό μὴ ἐὸν. L’unica via, per la piena consistenza dei suoi contenuti, effettivamente accessibile e percorribile «per pensare» (cioè per afferrare la realtà) è, di conseguenza, la prima, il cui soggetto sarà esplicitato come ἐόν (B6.1) ovvero τὸ ἐὸν (B8.32), ma già implicitamente individuabile, nella forma oppositiva di B2, come formula contraddittoria rispetto a τό μὴ ἐὸν. Si è detto67 che l’unico modo per rispettare il valore oppositivo delle vie che la Dea propone è di mantenere lo stesso soggetto per entrambe: abbiamo, però, ipotizzato che la linea di pensiero di Parmenide sia stata in realtà un’altra, che in B2 si lascia intravedere. Attraverso l'asseverazione della tesi «è» (ὅπως ἔστιν), pura espressione dell’immediata esperienza della realtà, coniugata con la contestuale negazione modale dell’antitesi («non è possibile non essere», ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), la divinità pone le premesse per l'estrazione della nozione positiva di τὸ ἐὸν, che indicherà ovviamente ciò che è in senso pieno e necessario, il soggetto ontologico di cui si manifesteranno le proprietà in B8: la prima via è in questa prospettiva «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος). Nei versi 5-8, invece, dall’altrettanto pura negazione (ὡς οὐκ ἔστιν) di quell’originaria esperienza, coniugata con la relativa formula modale («è necessario non essere», ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι), ella ricava la nozione di τό μὴ ἐὸν, marcandone subito l'in- 67 Cordero (pp. 44-5), Ruggiu (p. 221). 326 disponibilità facendo leva su un’ulteriore, immediata evidenza: non è «cosa fattibile» (ἀνυστόν) conoscere e indicare «il nonessere» (τό μὴ ἐὸν). Il percorso di Persuasione La rivelazione divina delle «vie di ricerca» è accompagnata da due rilievi. Relativamente alla via «che è e che non è possibile non essere», la Dea osserva che: Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ - di Persuasione è il percorso (a Verità infatti si accompagna) (B2.4), marcando, dunque, con un genitivo a un tempo oggettivo e soggettivo, come il viaggio per tale via conduca a scoprire la realtà (Ἀληθείη): essa appare, allora, come un'istruzione (affermazione d'essere e sistematica esclusione del non-essere) da seguire nell'indagine. Nella stessa prospettiva, le formule modali di B2.3 e B2.5 possono essere intese come ammonimenti divini, affinché siano evitati gli sviamenti tipici dei «mortali che nulla sanno»: il «percorso» (κέλευθος) lungo la ὁδός anticipa effettivamente l’idea della μέθοδος che Platone introduce68, prospettando poi la filosofia (dialettica) come viaggio69. 68 In Fedone 79e: Πᾶς ἄν μοι δοκεῖ, ἦ δ’ ὅς, συγχωρῆσαι, ὦ Σώκρατες, ἐκ ταύτης τῆς μεθόδου, καὶ ὁ δυσμαθέστατος, ὅτι ὅλῳ καὶ παντὶ ὁμοιότερόν ἐστι ψυχὴ τῷ ἀεὶ ὡσαύτως ἔχοντι μᾶλλον ἢ τῷ μή Mi sembra – disse - che chiunque, Socrate, anche il più tardo, muovendo da questa via [ἐκ ταύτης τῆς μεθόδου], debba convenire che l'anima è, in tutto e per tutto, più simile a ciò che è sempre che a ciò che non lo è. 69 Coxon, op. cit., p. 174. Il passo di Repubblica (532b) è il seguente: 327 L’insistenza sul processo (la via, il percorso) è importante perché sottolinea come la Dea prospetti, nell’immediato, essenzialmente la direzione di una ricerca, aperta al coinvolgimento razionale del κοῦρος. In questo senso, la dimensione della (progressiva) scoperta della realtà autentica (Verità), che culminerà in B8, se da un lato conferma l’associazione (heideggeriana) tra ἀληθείη e disvelamento (non-nascondimento), dall’altro accentua gli aspetti di attivo condizionamento del ricercare, donde il rilievo della “cognizione critica” (B7.5: «giudica con il ragionamento», κρῖναι δὲ λόγῳ) e il ruolo riconosciuto (B3, B4) a νόος e νοεῖν. La realtà (Verità) è obiettivo del percorso di Persuasione (che a Verità, osserva la Dea, «si accompagna», ovvero «tien dietro», ὀπηδεῖ), proposto come oggetto di apprendimento, conoscenza e discorso70: il percorso sarà genuino, vero, nella misura in cui svela la realtà. Che essa (Verità) si manifesti (a colui che ricerca con intelligenza) lungo la via (che pensa o afferma) «che è e che non è [possibile] non essere» è ulteriormente marcato – come abbiamo più volte rilevato – dall'indicazione con cui la Dea stigmatizza l'alternativa, seconda via (B2.6-8): Τί οὖν; οὐ διαλεκτικὴν ταύτην τὴν πορείαν καλεῖς; Ebbene, non è proprio questo itinerario che chiami dialettica? Poche righe sotto (532 d-e), Glaucone invita Socrate a determinare la natura della dialettica: λέγε οὖν τίς ὁ τρόπος τῆς τοῦ διαλέγεσθαι δυνάμεως, καὶ κατὰ ποῖα δὴ εἴδη διέστηκεν, καὶ τίνες αὖ ὁδοί· αὗται γὰρ ἂν ἤδη, ὡς ἔοικεν, αἱ πρὸς αὐτὸ ἄγουσαι εἶεν, οἷ ἀφικομένῳ ὥσπερ ὁδοῦ ἀνάπαυλα ἂν εἴη καὶ τέλος τῆς πορείας Devi dirci allora quale sia il modo della facoltà della dialettica, quali siano le specie in cui è divisa, e quali le vie; queste infatti, come pare, sono le vie che potranno condurre là dove, pervenuti, potrà esservi riposo dal cammino e fine del viaggio. 70 Mourelatos, op. cit., p. 66. 328 τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo. Si tratta di un rilievo decisivo: la divinità mette in gioco l'autorevolezza del proprio “io” (τοι φράζω, «ti dichiaro») per rivelare, della via «che non è e che è necessario non essere», che essa è un «sentiero» (ἀταρπός, tracciato secondario) per cui non si accede alla realtà, lungo il quale non si può fare esperienza o imparare raccogliendo informazioni. Ciò-che-non-è È in questo contesto che la Dea introduce la formula τό μὴ ἐὸν (participio sostantivato). Nella cornice di un processo di indagine che evoca il tradizionale motivo omerico del viaggio71, la precisazione è netta: il ricercatore che pretendesse lasciarsi guidare dall'assunto «non è ed è necessario non essere», non potrebbe propriamente incontrare, né «indicare» (φράζειν) qualcosa. Pensare «che non è e che è necessario non essere» non porta da nessuna parte: nemmeno la guida divina può tracciare concretamente tale via, portando a casa un risultato conoscitivo: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν poiché non potresti conoscere ciò che non è - non è infatti cosa fattibile (B2.7). Possiamo allora, per contrasto, confermare che, lungo la via imboccata seguendo l'assunto «è e non è [possibile] non essere», 71 Mourelatos, op. cit., p. 76. 329 ci si muove verso «ciò-che-è» (verso la realtà-Verità), e che tale percorso può essere compiuto (cioè è «fattibile» - ἀνυστόν – a differenza dell'altro): la guida divina, in effetti, potrà fornire i segni o i criteri della via72. Dal momento che – come rivela la dea senza nome - non è in assoluto possibile («cosa fattibile») conoscere, ovvero determinare «ciò che (necessariamente) non è», solo la prima via, che pensa e afferma «che è e che non è possibile non essere», che muove dalla evidenza «è», è in grado di manifestare la verità, di estrarre dall’«è» indicazioni positive e ultimative riguardo alla realtà (donde il successivo impiego delle nozioni equivalenti di ἐόν e τὸ ἐὸν). I dati fondamentali su cui il κοῦρος è invitato a riflettere sono dunque: (i) l'esclusività delle vie di ricerca «per pensare [comprendere]» (in questo senso esse sono appunto designate come ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός νοῆσαι: l'infinito «per pensare» ne specifica la natura); (ii) la loro reciproca incompatibilità (sottolineata dal ricorso combinato alla negazione e alle formule modali - su cui ancora tra breve); (iii) l’impercorribilità della seconda via: non è possibile conoscere o indicare «ciò che non è»; (iv) la loro (conseguente) natura ontologica, ovvero, propriamente, il loro annunciare opposti modi d'essere: la modalità dell'essere necessario e quella del necessario non-essere73. B2 attesta un ricorso precoce al surrogato τό μὴ ἐὸν per «nonessere», probabilmente dandone per scontata l’immediata evidenza per il lettore\ascoltatore. Nella contrapposizione delle vie, ciò induce ad anticipare le formule opposte (ἐόν e τὸ ἐὸν). In questo senso, l’argomentazione di Parmenide appare sollecitata dalla preoccupazione di istituire e fondare la contrapposizione tra τὸ ἐὸν («essere») e τό μὴ ἐὸν («non-essere»)74, marcando (a) la loro reciproca incompatibilità, (b) l’intransitabilità del non-essere, così da 72 Ivi., p. 78. 73 Su questo punto è oggi da valutare quanto scrive Palmer, op. cit., pp. 83 ss.. 74 Leszl, op. cit., p. 105. 330 concludere (letteralmente) nella onto-logia. Ciò comporta riconoscere, con Cordero75, che l'assolutizzazione del concetto di «essere» è ottenuta da Parmenide attraverso la negazione della contraddittoria nozione di «non-essere». Il focus ontologico del poema (sinteticamente ribadito con formula ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν: «è [possibile] infatti essere, il nulla invece non è») è così proposto contestualmente all’unico, fondamentale rilievo sul non-essere: «non è [possibile] non essere». Due formule: «non è possibile non essere», «è necessario non essere» Torniamo allora ancora una volta alla formulazione delle due vie per concentrarci sulla loro struttura formale: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una: è e non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra: non è ed è necessario non essere»(B2.5). La presentazione di ognuna consiste (nella nostra traduzione) in un verbo semplice (enunciato non modale), in forma impersonale, coniugato con un enunciato modale: «è», «non è possibile non essere»; «non è», «è necessario non essere»76. Ogni verso è articolato in due coppie di emistichi corrispondenti, (a) e (b); la prima coppia (a): ἡ μὲν ὅπως ἔστιν l’una [che pensa] che è, ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν l’altra [che pensa] che non è; 75 Op. cit., pp. 64-5. 76 O’Brien, op. cit., p. 182. 331 la seconda coppia (b): τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι e che non è [possibile] non essere [ovvero: che non è possibile non sia], τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι e che è necessario non essere [ovvero: che è necessario che non sia]. La formula della prima coppia (primo emistichio) propone l'opposizione tra affermazione e negazione: la traduzione, supponendo la dipendenza di ὅπως e ὡς da νοῆσαι («le uniche per pensare: l’una che pensa che …, l’altra che pensa che…») ovvero (come spesso si è fatto) da verba dicendi («l’una che dice che…, l’altra che dice che…»), non presenta particolari problemi di resa – a parte quelli (essenziali) già ricordati, relativi al soggetto inespresso e al valore da attribuire al verbo «essere». Nel caso della seconda coppia (secondo emistichio) si impongono invece difficoltà nella resa dal greco. Il greco οὐκ ἔστι può essere predicato verbale («non esiste», «non c’è»), ovvero, come può apparire naturale alla luce del corrispondente uso dell'espressione χρεών ἐστι («è necessario») in B2.5b, e della (comune) relazione con lo stesso infinito (μὴ εἶναι), può tradursi con epressione modale («non è possibile»). Se, in questo caso, seguendo Aubenque77, interpretiamo la formula modale οὐκ ἔστι come sinonima di ἀδύνατον (impossibile), traspare allora l’intenzione parmenidea di proporre l’alternativa in termini netti: nell’enunciare la tesi della prima via (l’affermazione «è»), Parmenide marca, indirettamente, la sua necessità sottolineando l’impossibilità della antitesi (la negazione «non è»). Quanto affermato nella tesi non può essere negato, non può rovesciarsi nella antitesi: nella argomentazione della Dea, l’affermazione è collegata strettamente alla posizione della necessità logica e della impossibilità logica78. Resa italiana in 77 P. Aubenque, "Syntaxe et Sémantique de l’Être dans le Poème de Parménide", in Études sur Parménide, cit., vol. II, p. 109. 78 Ruggiu, op. cit., p. 218. 332 questo senso più efficace potrebbe essere: «è e non è possibile che non sia». A sua volta la formula della seconda via, οὐκ ἔστιν («non è»), vede accentuata la propria forza di negazione da un’espressione - χρεών ἐστι μὴ εἶναι – che ribadisce l’intensità della antitesi («è necessario che non sia»). L'enunciazione delle vie evidenzia, quindi, per un verso, la loro assolutezza, per altro la loro reciproca incompatibilità. Non si deve tuttavia perdere di vista il fatto che la Dea, nel mettere in guardia il κοῦρος rispetto alla seconda via, si riferisca a essa con l'espressione τό μὴ ἐὸν, stigmatizzando l’impossibilità di afferrarne e determinarne la negatività (οὐ γὰρ ἀνυστόν, «non è infatti cosa fattibile», in cui spicca – come nel termine epico ἀμηχανίη - la strutturale impotenza)79. Le vie non hanno, quindi, una mera consistenza logica, ma finiscono per enucleare due distinte nozioni ontologiche. 79 Ivi., p. 220. 333 PENSARE ED ESSERE [B3] Il frammento (è proprio il caso di usare il termine) ha assunto nel corso dei secoli il valore di sintetica espressione dell’essenza della filosofia di Parmenide1: esito paradossale dell’elaborazione della tradizione, dal momento che, oggettivamente, esistono difficoltà per la sua contestualizzazione all’interno del poema, e dunque anche per la sua intellezione. A ciò si aggiunga che, da parte degli interpreti, sono talvolta considerati con sospetto contesto e cotesto delle testimonianze di Clemente2 e Plotino3, che citano il verso parmenideo: anzi, soprattutto a causa della citazione delle Enneadi, quella che appare la traduzione più naturale è stata spes- 1 Tarán, op. cit., p. 41. 2 Il contesto di Clemente riporta: Ἀριστοφάνης ἔφη· δύναται γὰρ ἴσον τῷ δρᾶν τὸ νοεῖν, καὶ πρὸ τούτου ὁ Ἐλεάτης Παρμενίδης· τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστί < ν > τε καὶ εἶναι Aristofane ha detto: «il pensare ha lo stesso potere dell'agire», e prima di lui Parmenide: [B3]. 3 Il contesto di Plotino (Enneadi V, I, 8) è il seguente: οὖν καὶ Παρμενίδης πρότερον τῆς τοιαύτης δόξης καθόσον εἰς ταὐτὸ συνῆγεν ὂν καὶ νοῦν, καὶ τὸ ὂν οὐκ ἐν τοῖς αἰσθητοῖς ἐτίθετο “τὸ γὰρ αὐτὸνο εῖν ἐστί τε καὶεἶναι ” λέγων. Καὶ ἀκίνη τον δὲ λέγει τοῦτο - καίτοι προστιθεὶς τὸ νοεῖν - σωματικὴν πᾶσαν κίνησιν ἐξαίρων ἀπ’ αὐτοῦ, ἵνα μένῃ ὡσαύτως, καὶ ὄ γ κ ῳ σ φ α ί ρ α ς ἀπεικάζων, ὅτι πάντα ἔχει περιειλημμένα καὶ ὅτι τὸ νοεῖν οὐκ ἔξω, ἀλλ’ ἐν ἑαυτῷ Già Parmenide aveva in precedenza aderito a una opinione simile a questa, quando riconduceva a unità essere e pensiero, e non poneva l'essere nell'ambito delle cose sensibili, affermando: [B3]. E dice anche che è immobile, dal momento che – avendo aggiunto il pensare – gli toglie ogni movimento corporeo, affinché rimanga nell'identico stato, definendolo simile alla massa di una palla, in quanto raccoglie tutto in sé e il pensare non gli è esterno ma interno. 334 so rifiutata, a favore di altre meno immediate e più tormentate dal punto di vista grammaticale, in quanto si è intravisto il rischio di fare di Parmenide un neoplatonico ante litteram4. La collocazione Nel tentativo di offrire contesto e senso al frammento si è per lo più operato in due direzioni, che appaiono legittime: (i) ricondurlo a complemento di B2.7-8 5 e quindi proporlo a sostegno (γάρ) dell'indicazione secondo cui il non-essere non può essere né indicato né conosciuto6; (ii) proiettarlo verso B6.1-2 e B8.34-37, come in particolare oggi propone Cordero7, con argomenti convincenti. B3 e B2 Nel primo caso si insiste soprattutto sulla compatibilità metrica e logica8 con l’ultimo verso di B2: i termini coinvolti – νοεῖν e εἶναι – sono chiaramente correlati nella prospettazione delle due vie («le uniche per pensare»), mentre in B2.7 Parmenide utilizza l’espressione τό γε μὴ ἐὸν per indicare l’oggetto su cui andrebbe a vertere la seconda via: oggetto che non può essere conosciuto e indicato. B3, dunque, non farebbe che esplicitare il nesso identita- 4 O’Brien, op. cit., p. 19. D’altra parte il senso della citazione di Proclo (Theol. plat. I, 66) appare indiscutibile: ταὐτόν ἐστι τὸ νοεῖν καὶ τὸ εἶναι, φησὶν ὁ Παρμενίδης 5 Come fanno – più o meno decisamente – Giannantoni, Ruggiu, Coxon, Sellmer, Heitsch, Gallop, e, in passato, Calogero. Scettici Tarán, Conche, O’Brien. 6 Ruggiu, op. cit., p. 233. Secondo Calogero (p. 19), B3 andrebbe congiunto a B2.8, con l’aggiunta dι ὅσσα νοεῖς φάσθαι: si avrebbe così: «perché pensare è lo stesso che dire che quello che tu pensi esiste». 7 E a suo tempo propose Giorgio Colli. 8 Coxon (p. 180); Sellmer (p. 33); Gallop (p. 8). 335 rio tra εἶναι e νοεῖν: le relative nozioni si implicherebbero inscidibilmente9. Questa conclusione non è in discussione: essa appare effettivamente il perno della tesi di Parmenide anche in B6.1 e B8.34- 37, sebbene le traduzioni possano diversamente modulare la relazione tra i due termini. In discussione è, invece, il fatto che l’impossibilità di afferrare il nulla (B2.7-8) abbia bisogno della dimostrazione introdotta da γάρ (B3): non è immediatamente chiaro che nel nulla non c’è nulla da conoscere, concepire, pensare10? D’altra parte, l’implicazione tra essere e pensare non sembra, a sua volta, aver bisogno della mediazione di un argomento: è stato giustamente osservato come, nell’uso greco arcaico, il verbo νοεῖν non veicolasse la possibilità di immaginare qualcosa di non esistente, denotando fondamentalmente un atto di riconoscimento immediato11. Concepito in analogia con la percezione sensibile, νοεῖν comportava nell’uso che si pensasse appunto qualcosa di dato indipendentemente dall'attività stessa del pensare, e che il rapporto con l’oggetto fosse del tutto immediato, una sorta di contatto con esso12. È possibile che la Dea, in B2.7, si limiti a rilevare come τό μὴ ἐὸν non possa essere conosciuto, osservando semplicemente: οὐ γὰρ ἀνυστόν, «non è infatti cosa fattibile», quasi a richiamare un'evidenza, per cui non è necessario ulteriore argomento. A questo corrisponderebbe il rilievo di B3, secondo cui εἶναι si identifica con νοεῖν: leggendo in continuità i due frammenti, non dovremmo riconoscere alla congiunzione γάρ un valore esplicativo, piuttosto intenderne nel contesto la presenza a conferma della tesi di fondo. Dovremmo inoltre, in traduzione, attribuire a νοεῖν non il generico significato di «pensare», ma, come suggerito da vari interpreti, quello specifico di «conoscere» o «comprendere» («capire»13, «Erkennen» 14, «Erfassen» 15 o ancora, più debolmente, 9 Heitsch, op. cit., p. 144. 10 Conche, op. cit., p. 87. 11 Guthrie, op. cit., pp. 17-8. 12 Leszl, op. cit., p. 67. 13 Cerri. 336 «conceiving»16). L’uso arcaico di νοεῖν evoca effettivamente funzioni analoghe a quelle del verbo γιγνώσκω (normalmente tradotto con «conoscere»), sebbene suggerisca in primo luogo il riconoscimento, la capacità di penetrazione intellettuale17. B3, B6.1 e B8.34-7 Anche Cordero ammette che in B2 si stabilisca una relazione tra un oggetto (l’essere), il pensare quell’oggetto e l’esprimerlo in un discorso: i versi B2.7-8 mirerebbero a marcare il carattere assoluto e necessario di tale oggetto, essendo la sua negazione impossibile. Come conseguenza, pensare e parlare non possono fare a meno di questo oggetto18. Ma per lo studioso è rilevante la connessione con B6.1, inteso a dimostrare la necessità di quella relazione: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι·(B6.1a) è necessario dire e pensare che – essendo - è 19; e soprattutto B8.34-7, in cui Parmenide attribuirebbe al pensiero una sola causa20: il fatto d'essere: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. oὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐφ’ [invece di ἐν] ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν·(B8.34-36a) pensare e ciò a causa del quale c’è il pensiero sono la stessa cosa dal momento che senza l'essere, grazie a 21 cui è espresso, 14 Heitsch. 15 Sellmer. 16 Coxon. 17 Leszl, op. cit., p. 68. 18 Cordero, By Being, It Is, cit., p. 83. 19 Usiamo, traducendo in italiano, la versione dello stesso Cordero. 20 Come si vedrà, noi interpretiamo il passo in modo diverso. 21 Cordero utilizza la versione ἐφ’ (invece di ἐν), unanimente attestata nei manoscritti di Proclo. 337 non troverai il pensare22. Cordero osserva come nei due versi successivi si precisi che «senza l'essere (τὸ ἐόν) […] non troverai il pensare», ciò comportando che τὸ ἐόν designi sinteticamente quanto introdotto come οὕνεκεν ἔστι νόημα («ciò a causa del quale c’è il pensiero»). Senza τὸ ἐόν, νοεῖν risulta privo di fondamento, poiché (γάρ), come osserva Parmenide, c’è solo «l'essere» (B8.36-7)23: οὐδ΄ ἦν γὰρ < ἢ > ἔστιν ἢ ἔσται ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος Né, infatti, esiste, né esisterà altro oltre all’essere. È chiaro come ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν (B8.34) equivalga a τὸ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν (B3) e quindi è plausibile che τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα (B8.34) articoli la formula più secca τε καὶ εἶναι (B3). In forza di questo accostamento, difficile sostenere l’interpretazione idealistica che vorrebbe l’essere dipendente dal pensiero: «senza l'essere» (ἄνευ τοῦ ἐόντος), il pensiero non esiste; ovvero, positivamente, esso esiste solo quando esprime qualcosa su ciò che è24. Da B2 a B3 Mantenendo aperte le due prospettive e dunque collocando B3 concettualmente tra B2, B6 e B8, il frammento andrebbe tematicamente inquadrato tra l’esclusione della concreta possibilità di riferirsi al nulla nel pensiero e nel discorso (quindi della via «che non è»), la conseguente affermazione della via alternativa alla precedente («che è»), e l’esplicitazione delle sue implicazioni per il pensiero e il linguaggio. L’estrapolazione non consente di stabilire se B3 fosse effettivamente parte di un argomento ovvero, come sopra abbiamo prospettato, semplice precisazione a sostegno della tesi di B2. Certamente in B8 l’implicazione tra pensiero 22 Come per B6.1, traduciamo il testo di Cordero. 23 Cordero, By Being, It Is, cit., p. 85. 24 Ivi, pp. 88-9. 338 (νοεῖν, con il suo specifico valore conoscitivo) e essere è inserita in una cornice argomentativa. Un elemento testuale deve far riflettere l’interprete: Clemente, Plotino e Proclo citano B3 senza collegarlo in alcun modo a B225. In altre parole, le tre fonti del frammento vi leggono l’asserzione dell’identità di pensare (o conoscere) ed essere, indipendentemente dalla discussione sulle «vie di ricerca»26. Plotino, in particolare, mostra di intendere B3 chiaramente nell’orizzonte di B8, insistendo sulla riduzione a unità di pensiero ed essere e sulla posizione dell’essere al di fuori del campo sensibile («non poneva l’essere nell’ambito delle cose sensibili»), e parafrasando in tal senso proprio B8. Le ricostruzioni peripatetiche (Teofrasto e Eudemo) del logos di Parmenide (secondo Simplicio che riferisce in proposito la testimonianza di Alessandro di Afrodisia) fanno tuttavia intravedere il nesso tra B2 e B3: τὸ παρὰ τὸ ὂν οὐκ ὄν· τὸ οὐκ ὂν οὐδέν· ἓν ἄρα τὸ ὄν ciò che è oltre l’essere, non è; ciò che non è, è nulla; dunque, l’essere è uno (Teofrasto; DK 28 A28) τὸ παρὰ τὸ ὂν οὐκ ὄν, ἀλλὰ καὶ μοναχῶς λέγεται τὸ ὄν· ἓν ἄρα τὸ ὄν ciò che è oltre l’essere, non è; ma l’essere si dice in un solo senso, dunque l’essere è uno (Eudemo; DK 28 A28). Nel citare i versi 3-8 di B2, Simplicio precisa che essi contengono le «premesse» (προτάσεις) del discorso di Parmenide: εἰ δέ τις ἐπιθυμεῖ καὶ αὐτοῦ τοῦ Παρμενίδου ταύτας λέγοντος ἀκοῦσαι τὰς προτάσεις, τὴν μὲν τὸ παρὰ τὸ ὂν οὐκ ὂν καὶ οὐδὲν λέγουσαν, ἥτις ἡ αὐτή ἐστι τῆι τὸ ὂν μοναχῶς λέγεσθαι, εὑρήσει ἐν ἐκείνοις τοῖς ἔπεσιν 25 Un punto richiamato da Mansfeld, op. cit., p. 73. 26 Coxon, op. cit., p. 179. 339 Se invece qualcuno desidera ascoltare da Parmenide stesso queste premesse, quella che dice che ciò che è oltre l’essere non è ed è nulla, che è la stessa di quella che dice che l’essere si dice in un modo solo, le troverà in questi versi [B2.3-8]. Significativamente Diels annota che B3 si connette a questo: in effetti, l’espressione peripatetica τὸ ὂν μοναχῶς λέγεσθαι, che chiaramente Eudemo propone come premessa del sillogismo27, comporta la determinazione dell’essere come κατὰ τὸν λόγον ἕν («uno secondo il concetto»), versione aristotelica di B3. Come rilevato da Mansfeld28, l’unità concettuale dell’essere funge logicamente da assioma nella ricostruzione peripatetica di B2: un assioma indipendente, implicito, che Aristotele non introduce formalmente nella sua ricostruzione: Παρμενίδης μὲν γὰρ ἔοικε τοῦ κατὰ τὸν λόγον ἑνὸς ἅπτεσθαι […] παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν Parmenide sembra aver inteso l’uno secondo la forma (il concetto) […] Poiché egli ritiene che oltre l’essere non ci sia affatto il non essere, necessariamente deve credere che l’essere sia uno e null’altro (Aristotele, Metafisica I, 5 986 b18, 986 b27; DK 28 A24). La congettura adottata da Mansfeld, per giustificare a un tempo l’uso implicito di B3 come assioma nella tradizione peripatetica, e la sua autonomia da B2 attestata dalla tradizione neoplatonica, è quella di proporlo come modificazione della conclusione dell’argomento di B2, per noi solo implicita29: solo l’essere (ciò che è) vi è allora per pensare e dire. 27 Mansfeld, op. cit., pp. 78-9. 28 Ivi, p. 73. 29 Ivi, pp. 82-4. 340 Solo l’essere può essere oggetto per pensare: con τὸ ἐόν Parmenide avrebbe introdotto qualcosa che manca nella enunciazione della prima premessa (la prima via) del sillogismo di B2 (la cui conclusione, quindi, avrebbe dovuto essere: «solo la prima via – che è e che non è possibile non essere – è per pensare»). L’introduzione del soggetto τὸ ἐόν sarebbe giustificata proprio da B3: nel testo tradito di B2 ci si limita a rilevare l’impossibilità («non è infatti cosa fattibile») di procedere lungo la seconda via, designata dalla espressione τό γε μὴ ἐὸν; B3 potrebbe rinviare immediatamente – come precisazione - alla conclusione formale, in cui essere e pensiero sarebbero stati esplicitamente correlati. La Dea allora sottolineerebbe in B3 quella che dal suo punto di vista è una evidenza: l’identità di essere e pensiero (vi ritornerà in B8.34 ss. con una più articolata riflessione). Essere e pensare Nella nostra traduzione abbiamo scelto di mantenere la struttura sintattica più naturale del verso greco, cercando, allo stesso tempo, di preservarne l’ambiguità: la Dea di Parmenide didascalicamente reitererebbe, in positivo, l’implicito (nei nostri frammenti) risultato dell’argomento delineato in B2: (i) da un lato per marcare il nesso tra νοεῖν e εἶναι e la sua natura intellettuale - così preparando la nota discriminante rispetto all’ἔθος πολύπειρον, all'«abitudine alle molte esperienze» (B7.3); (ii) dall’altro per richiamare l’attenzione del κοῦρος sul contenuto della prima via (altrimenti espresso con ἐόν ovvero τὸ ἐόν). Il pensare è introdotto in B2 come esercizio avulso da riscontri empirici; un’attività in cui si è semplicemente chiamati a riconoscere un'evidenza: che – pur considerando la possibile alternativa – per pensare e conoscere la verità c’è una sola via da percorrere. Nello stesso tempo, l’identità affermata in B3 sottolinea lo stretto rapporto tra il percorso (la sola «via di ricerca» che effettivamente è possibile seguire) e il suo esito: la via è in qualche modo impo- 341 sta dalla realtà stessa (cui si allude forse con l'infinito εἶναι). La via (o il metodo) è concepita come la via del discorso (λόγος) che ha l’essere (ovvero la realtà) come contenuto30. Quale identità? Nel suo commento Cerri 31 ha segnalato, nell'identificazione dei due verbi, «stranezza apparente» e «sinteticità paradossale»: νοεῖν, infatti, evidenzia un atto della mente (che viene reso come «capire»), εἶναι uno stato delle cose. L’atto intellettivo sarebbe dunque solo l’aspetto soggettivo dell’identità tra due cose (esse sembrano diverse, essendo in realtà la stessa cosa); quell’ identità, invece, l’aspetto oggettivo dell’atto intellettivo. Ruggiu32 sottolinea, da un lato, l’aspetto linguistico dell’identità, la connessione immediata tra termini nel linguaggio ordinario non considerati identici; dall’altro l’aspetto che potremmo definire “dialettico” della relazione: l’identità è anche distinzione e si costituisce come rapporto di reciproca implicazione. Thanassas, infine, rileva come l’identità tra essere e pensiero non sia da intendere in senso matematico: il testo greco con τε καὶ suggerisce un’interazione, una «mutua connessione e reciproca referenza». Nessun pensare senza essere, nessun essere senza pensare33. Dall’incrocio con B2, B6 e B8 abbiamo ricavato segnali abbastanza definiti circa la relazione cui allude la sintetica formula del frammento: (i) rilevata l’impossibilità di percorrere un corno della disgiunzione tra le vie («è e non è possibile non essere - non è ed è necessario non essere»), in quanto non si può conoscere (γιγνώσκειν) né indicare (φράζειν) «ciò che non è», e (ii) probabilmente integrato il rilievo con la necessaria conclusione positiva circa la effettiva praticabilità della via alternativa (conoscere e indicare ἐόν, «ciò che è»), la Dea (iii) estrae quella che nella sua ot- 30 Leszl, op. cit., p. 64. 31 Op. cit., p.193. 32 Op. cit., pp. 233 ss.. 33 Thanassas, op. cit., p. 39. 342 tica è un’evidenza basilare, implicita nella impostazione di B2, espressa in termini astratti, generali, con due infiniti. Il verbo νοεῖν non è più assunto a designare genericamente un'operazione intellettuale, ma connotato specificamente per veicolare un atto di riconoscimento (che riassuma sostanzialmente lo spettro degli altri due verbi, γιγνώσκειν e φράζειν); εἶναι, impiegato per denotare quanto si ritrova, come suo oggetto necessario, al fondo di un pensare che sia riconoscere-esprimere-indicare: il fatto d’essere. Ma nell’identità accennata da τὸ αὐτό, la Dea non si riferisce semplicemente alla connessione tra pensare e essere, ma soprattutto alla reciproca implicazione: non solo il pensiero deve avere come oggetto ciò che è, ma l’essere deve essere espresso, manifestato nel pensiero. In apertura di una comunicazione di verità, questa osservazione è capitale: pur prospettato (più avanti, in B8.34) come «causa del pensiero» (Cordero), l’essere deve svolgersi completamente davanti al pensiero34, deve essere pensabile (il che non comporta che dipenda dal pensiero). Dal punto di vista della Dea, almeno, nulla, di diritto, sfugge al pensiero: il sapere che la Dea comunica al filosofo (e di cui questi è tramite rispetto ai propri discepoli e al pubblico di ascoltatori\lettori) è un sapere assoluto35. Ancora su pensare e essere Abbiamo insistito, nel commentare il frammento, sul rilievo della sua collocazione per una corretta attribuzione di significato; in particolare, proponendolo come sentenza con cui la Dea, ellitticamente, svela un principio fondamentale della sua rivelazione, dell’esposizione della Verità. B3 è l’occasione per interrogarsi sul valore di νοεῖν e εἶναι. Abbiamo già colto indicazioni in tal senso: ipotizzando la prossimità testuale e logica di B2 e B3, abbiamo determinato il campo semantico di νοεῖν in relazione a γιγνώσκειν e φράζειν, in- 34 Conche, op. cit., p. 90. 35 Ibidem 343 tendendolo come atto di riconoscimento immediato; in εἶναι abbiamo individuato la forma verbale con cui Parmenide esprime l’evidenza presupposta per ogni attività di pensiero: quanto possiamo indicare come «essere» ovvero il fatto di esistere. Una certa tensione sussiste tra B2 e B3 riguardo al valore di νοεῖν. Mentre in apertura della propria comunicazione la Dea salda l’alternativa delle «vie di ricerca» a νοεῖν (esse, ribadiamolo, sono «le uniche per pensare»), dunque collegando al verbo non solo la via positiva, ma anche quella negativa - non solo quella che avrà il proprio soggetto in τὸ ἐόν (B8.32), ma anche quella che (non) lo trova (B2.7) in τό γε μὴ ἐὸν -, nella formula sintetica del nostro frammento il pensare sembra vincolato all’essere, addirittura si afferma che pensare ed essere sono la stessa cosa. In che senso, allora, è possibile sostenere la relazione tra νοεῖν e la via: «che non è»? Abbiamo già osservato in sede di traduzione come i curatori delle edizioni dei frammenti abbiano spesso optato per determinare νοεῖν in modo da evitare di renderlo genericamente come «pensare»; ma non è facile aggirare la difficoltà, a meno di non decidere di mantenere il valore generico in B2.2 e introdurne uno specifico (comprendere, capire) in B3. Operazione legittima ma un po’ forzata. Secondo Leszl 36, invece, B2.2 presenterebbe νοεῖν come atto puramente intellettuale (implicitamente da contrapporre all’immediatezza del riscontro sensibile), che coglie l’alternativa delle vie in quanto possibilità del tutto astratte. Tale atto, tuttavia, sarebbe in ultima analisi riconducibile a un caso di intellezione immediata dell’oggetto, consistendo di fatto nel riconoscimento (intuitivo) della validità del principio del terzo escluso. In attesa di trovar sottolineato in B4 un ulteriore, essenziale carattere della facoltà indicata come νοεῖν - la capacità di rendere presente qualcosa che può essere lontano nello spazio e nel tempo -, possiamo provvisoriamente concludere che: 36 Op. cit., p. 69. Leszl intende B2.2 (αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι) come «quali sono le vie di ricerca, le uniche che sono da pensare», quindi attribuendo a noēsai valore passivo. 344 (i) νοεῖν è inizialmente introdotto in relazione alle «due vie di ricerca», come loro finalizzazione («le uniche per pensare») - evidentemente designando un atto di comprensione che dà senso all’indagine -, ovvero, intendendo diversamente il testo greco, come loro condizione di possibilità («le uniche da pensare\pensabili»), quindi accentuandone il significato logico; (ii) νοεῖν – pur non ancora esplicitamente contrapposto ai sensi – riceve una connotazione metaempirica: le vie sono «per pensare», non sono fatte per essere esperite percettivamente; νοεῖν è in grado di evidenziare quanto celato o sfocato nella percezione; (iii) νοεῖν è dunque attività che si spinge oltre l’immediato sensibile, nel nostro contesto probabilmente oltre la complessità dei dati empirici, per ridurli al loro essenziale, al loro comune denominatore (fondamento) ontologico: nello specifico, il fatto d’essere (condizione del pensare stesso) e la nozione (opposta) di τό μὴ ἐὸν. In questo senso è giusto designarne la facoltà come «penetrazione intellettuale»37. D’altra parte νοεῖν è costantemente riscontrato su εἶναι o termini connessi: le vie sono determinate come «l’una che è (e che non è possibile non essere)», «l’altra che non è (e che è necessario non essere)»; l’oggetto della seconda è ulteriormente ripreso come «ciò che non è»; attraverso la formula τὸ αὐτὸ ἐστίν, νοεῖν è sovrapposto a εἶναι. All’acume e intelligenza di sguardo del νοεῖν corrispondono dunque la profondità e comprensione della nozione di εἶναι, che appare designare, nel contesto, analogamente al termine Ἀληθείη, ciò che genericamente indicheremmo come «la realtà», ciò che accomuna le cose che sono. Nell’uso quotidiano «essere» è sempre oscurato da questa o quella cosa, sempre presupposto in ogni possibile predicazione («è»): il νοεῖν riconosce come proprio oggetto specifico e condizione appunto questo presupposto, questa realtà. 37 Ivi, p. 68. Conservatoci nella sua interezza dalla sola citazione di Clemente di Alessandria, il frammento ha sempre costituito una croce per gli interpreti, divisi sul problema della sua collocazione assoluta e relativa: incerti riguardo alla sua appartenenza alla prima o alla seconda sezione del poema e (ulteriormente) alla sua posizione e funzione all’interno di esse. In proposito abbiamo due proposte estreme: (a) Diels, nella sua edizione del 1897, presentava il nostro testo come primo frammento della prima sezione, collocandolo subito dopo il Proemio (che in quella edizione, tuttavia, includeva anche B7.2-6); (b) Bicknell1 e Hölscher2, al contrario, lo hanno considerato conclusione dell’opera (collocandolo, quindi, dopo B19)3, quindi nella seconda sezione. Possiamo considerare intermedie tutte le altre proposte, variamente schierate, che fanno registrare convergenze su un punto da valorizzare, anche perché potrebbe spiegare la oggettiva difficoltà degli interpreti: il ruolo di cerniera di B4. Secondo Ruggiu, per esempio, esso collegherebbe i contenuti propri dell’Opinione (τὰ δοκοῦντα), al tema primario della Verità (τὸ ἐόν), marcando il radicamento del molteplice nell’Essere4. Che cosa rende di così difficile contestualizzazione, all’interno del poema, i versi del frammento? Che cosa contribuisce al disorientamento degli interpreti – arrivati con Fränkel a negare piena intelligibilità a B4? Si possono agevolmente individuare tre questioni: 1 P.J. Bicknell, “Parmenides' Refutation of Motion and an Implication”, «Phronesis», 1, 1967, pp. 1-6. 2 U. Hölscher, Parmenides von Wesen des Seienden. Die Fragmente, Frankfurt a.M. 1969. 3 In questo sono stati seguiti anche da L. Couloubaritsis (Mythe et Philosophie chez Parménide, Ousia, Bruxelles 1986), il quale, tuttavia, nell'ultima edizione della sua opera (La Pensée de Parménide, Ousia, Bruxelles 2008), ha optato per un inserimento all'interno di B8 (tra i vv. 41 e 42). 4 Op. cit., p. 245. 346 (i) il ruolo del νόος e la probabile valenza gnoseologica del frammento; (ii) il nesso tra ἀπεόντα - παρεόντα e τὸ ἐόν (vv. 1-2) e l’ulteriore implicazione tra gnoseologia e ontologia; (iii) i possibili riferimenti cosmogonici e relativi obiettivi polemici (vv. 3-4). Il noos e il suo operare Per decidere del significato del frammento è importante il contesto della citazione di Clemente Alessandrino (V, 15): ἀλλὰ καὶ Π. ἐν τῶι αὑτοῦ ποιήματι περὶ τῆς ἐλπίδος αἰνισσόμενος τὰ τοιαῦτα λέγει· [B4], ἐπεὶ καὶ ὁ ἐλπίζων καθάπερ ὁ πιστεύων τῶι νῶι ὁρᾶι τὰ νοητὰ καὶ τὰ μέλλοντα. εἰ τοίνυν φαμέν τι εἶναι δίκαιον, φαμὲν δὲ καὶ καλόν, ἀλλὰ καὶ ἀλήθειάν τι λέγομεν· οὐδὲν δὲ πώποτε τῶν τοιούτων τοῖς ὀφθαλμοῖς εἴδομεν, ἀλλ’ ἢ μόνωι τῶι νῶι. Ma anche Parmenide, nel suo poema, alludendo alla speranza, sostiene cose di questo genere: [citazione], in quanto anche colui che spera, come colui che ha fede, con il pensiero vede le cose intelligibili e quelle a venire. Se ora affermiamo che c'è qualcosa di giusto, diciamo anche che c'è qualcosa di bello, ma anche che c'è qualcosa di vero: nessuna di queste cose, tuttavia, mai vediamo con gli occhi, ma solo con il pensiero. L’autore alessandrino sottolinea come quel che Parmenide afferma in B4 alluda enigmaticamente (questo il senso del verbo αἰνίσσομαι: adombrare, alludere per enigmi) alla ἔλπις (e alla πίστις) cristiana: il saper rappresentare (rendere presente) il futuro da parte dell’intelligenza (νόος). In questo senso, Parmenide riconoscerebbe al νόος la capacità di rendere presenti enti assenti e 347 lontani 5. La prospettiva appare certamente gnoseologica, investendo una facoltà cognitiva che Clemente decisamente caratterizza rispetto all’organo di senso: un «vedere» (εἴδομεν) «con il pensiero» (τῶι νῶι) contrapposto (con l’avversativa) al vedere «con gli occhi» (τοῖς ὀφθαλμοῖς). Ad accentuare l’opposizione troviamo anche l’indicazione di oggetti specifici (τὰ νοητὰ) per l’intelligenza, diversi (significativo l’accostamento a τὰ μέλλοντα, «le cose a venire») da quelli immediatamente colti sensibilmente: si osserva, infatti: οὐδὲν δὲ πώποτε τῶν τοιούτων τοῖς ὀφθαλμοῖς εἴδομεν, ἀλλ’ ἢ μόνωι τῶι νῶι nessuna di queste cose mai vediamo con gli occhi, ma solo con il pensiero. Cose assenti presenti Ora, se passiamo alla citazione, possiamo effettivamente intravedere la ragione del suo recupero da parte di Clemente: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti (B4.1). La Dea, che ha la parola, invita il κοῦρος a osservare e prendere in considerazione come «cose assenti (o lontane)» (ἀπεόντα) possano risultare «al pensiero» (νόῳ) a un tempo «presenti (o prossime)» (παρεόντα). Precisando ulteriormente: οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι non impedirai, infatti che l'essere sia connesso all'essere (B4.2). 5 Per l’analisi della testimonianza di Clemente è essenziale e convincente il contributo di C. Viola, “Aux origines de la gnoséologie: Réflexions sur le sens du fr. IV du Poéme de Parménide », in Études sur Parménide, cit., t. II, pp. 69-101. 348 È chiaro come la possibilità di pensare (rappresentare) cose assenti o lontane come presenti o prossime passi attraverso la consapevolezza dell’omogeneità di τὸ ἐόν: il νόος raccoglie e supera, nella omogeneità di τὸ ἐόν, le differenze che si impongono sul piano empirico. Il νόος, in questo modo, si impone come uno sguardo altro rispetto a quello dei sensi, in grado di superarne le discriminazioni alla luce di una realtà che solo l’intelligenza stessa dischiude. È indicativo il fatto che Parmenide scelga un verbo – λεῦσσω – etimologicamente legato a λευκός (nel linguaggio omerico «chiaro», «limpido»), che porta con sé dunque l’idea di chiarezza, luminosità, trasparenza6. Un verbo che può essere direttamente messo in relazione con νόος (νόῳ), per assumere il valore di «chiarire con il pensiero [l'intelligenza]». I primi due versi di B4, quindi, si prestano alla curvatura gnoseologica che il contesto della citazione di Clemente implica, senza tuttavia comportarne necessariamente le opposizioni; senza imporre, in particolare, l’opposizione tra due inconciliabili visioni, sensibile e spirituale, come ha correttamente rilevato la Stemich, sottolineando come in λεῦσσε νόῳ siano a un tempo coinvolti entrambi gli elementi 7. Possiamo inoltre marcare come il frammento non autorizzi a retroiettare in Parmenide una teoria dei due mondi (sensibile e intelligibile, ovvero presente e futuro), ma semplicemente registri due distinte modalità di guardare alla realtà: l’immediato sguardo sensibile e la più accorta considerazione dell’intelligenza, che ne supera le contraddizioni. Con il risultato (che traspare in B4.1-2) di offrire, della stessa realtà, due prospettive, una soggetta a distorsioni, l’altra corretta (che nell’economia del poema sono accentuate come «opinioni dei mortali» e «Verità»). È nostra convinzione (che presuppone una complessiva interpretazione del pensiero di Parmenide) che proprio da questo frammento possano ricavarsi preziose indicazioni riguardo alla capacità dell’intelligenza di superare la frammentazione del dato 6 Viola, op. cit., p. 80. 7 Stemich, op. cit., p. 178. 349 empirico, raccogliendone pluralità e differenze nella unità e compattezza dell’Essere. L’uso del plurale ἀπεόντα-παρεόντα, quindi del singolare τὸ ἐόν, segnalerebbe appunto come ἀπεόνταπαρεόντα siano (-εόντα), in quanto τὸ ἐόν mantiene l’unità e la compattezza (nell’Essere) di tutti i suoi momenti8. Elementi che puntano in direzione della seconda sezione del poema. I due versi iniziali autorizzano, dunque, ad associare a νόος (e νοεῖν) due distinte ma coordinate operazioni: (i) superare i vincoli spazio-temporali “presentificando” la pluralità dispersa (spazio-temporalmente), rappresentando presenti «cose assenti»; (ii) cogliere la loro connessione (veicolata dal verbo ἔχεσθαι) in τὸ ἐόν (ovvero il fatto che τὸ ἐόν è connesso a τὸ ἐόν). La seconda operazione è propriamente “ontologica”, nel senso che riconosce e traduce in termini di τὸ ἐόν la molteplicità espressa nei due plurali del primo verso (ἀπεόντα-παρεόντα): la si è voluta leggere anche come un portare le cose lontane-assenti alla presenza dell’essere9. Lo spessore gnoseologico (ed epistemologico) del passaggio consiste nel fatto che l’oggetto (τὸ ἐόν) cui il νόος è riferito, direttamente10 o indirettamente11, è diverso dagli oggetti molteplici ai sensi (senza tuttavia trasformarsi in una entità che neghi la molteplicità del mondo12): li abbraccia e li raccoglie interamente, senza dislocarsi su un piano di realtà altro. Come nota puntualmente Leszl, ciò fa di νοεῖν un’attività che si spinge oltre l’immediato sensibile, rendendo presente l’assente, senza la sua preliminare evidenza percettiva: un pensare del tutto intellettuale, che ha per oggetto qualcosa che si impone 8 Ruggiu, op. cit., p. 241. 9 Couloubaritsis, Mythe et Philosophie, cit., p. 336. 10 Se accettiamo che ἀποτμήξει sia terza persona singolare dell’indicativo futuro, con νόος appunto soggetto sottinteso del verbo. 11 Nel caso si legga (come facciamo noi, ma di recente anche Palmer e Tonelli) lo stesso verbo in seconda persona singolare futuro indicativo medio, e la Dea quindi si limiti a esortare il κοῦρος a non ostacolare la connessione di τὸ ἐόν. 12 Thanassas, op. cit., p. 43. 350 all’intelligenza13. Non deve però essere trascurato un aspetto del passaggio: il movimento dalla assenza alla presenza rivela che l’uomo è comunque radicato nel mondo, legato allo spazio\tempo14. Così, nel contesto di un discorso che verte sulle «vie di ricerca», che focalizza il «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος), non può sfuggire il fatto che il νόος sia connotato dinamicamente, attraverso quel movimento, che porta con sé anche la potenzialità del suo errare15: la sua conoscenza è esposta alla distorsione. È possibile che l’operare del νόος riceva ulteriore significazione dall’accostamento a λεῦσσω, che Omero utilizzava per indicare la capacità di considerare simultaneamente passato e avvenire per comprendere il presente 16. Una capacità associata alla maturità dell’anziano, al suo discernimento rispetto alla precipitazione dei giovani, e che nel poema potrebbe avere un riscontro nella relazione didascalica tra θεά e κοῦρος. «…saldamente presenti» Ritornando sull’apertura di B4, è chiaro che l’uso dell’avverbio βεϐαίως (saldamente) nel primo verso, e l’intero contenuto del secondo contribuiscono a determinare νόος come un pensiero che conduce alla continuità e stabilità dell’essere: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l'essere [ciò che è] sia connesso all'essere (B4.1-2). 13 Op. cit., p. 68. 14 Couloubaritsis, op. cit., p. 340. 15 Viola, op. cit., pp. 94-5. 16 Couloubaritsis, op. cit., pp. 336-7. 351 Effetto dell’operare del νόος è la solidità della connessione degli enti (-εόντα), al di là delle loro coordinate spazio-temporali, e il riconoscimento del loro comune denominatore nell’Essere (τὸ ἐόν). Più precisamente: il νόος è quello sguardo che, da una parte, illumina e unifica ἀπεόντα e παρεόντα (nell’ἐόν), dall’altra si vieta di introdurre discriminazioni (spazio-temporali) in τὸ ἐόν 17. Alla luce di B3, esso aderisce completamente all’ἐόν: l’avverbio βεϐαίως veicolerebbe allora l’idea di stabilità, costanza, caratteristica dell’oggetto (τὸ ἐόν, appunto), ma suggerirebbe pure qualcosa circa l’atteggiamento di chi è sulla strada della verità: la certezza e affidabilità (ricordiamo ἀτρεμὲς ἦτορ di B1.29) di un modo di vedere, corrispondente a un modo d’essere; a un νόος saldo e pieno di fiducia18. Dal momento che manca una specifica argomentazione a sostegno della affermazione di B4.2, alcuni interpreti (Kirk-Raven, West, Gallop) hanno messo in relazione B4 con B8.22-5: οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος. Τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει Né è divisibile, poiché è tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. È perciò tutto continuo: ciò che è si stringe infatti a ciò che è. Questa indicazione, concettualmente apprezzabile, non comporta inevitabilmente una presa di posizione sulla collocazione del frammento nel complesso del poema. Non implica, in altre parole, necessariamente la dipendenza di B4 da B8 e dunque a una sua dislocazione nella sezione sulla Doxa (o addirittura all’interno dello stesso B8, dopo i versi 22-5). Forse, accettandone le impli- 17 Viola, op. cit., p. 100. 18 Robbiano, op. cit., p. 130. 352 cazioni cosmologiche, la funzione di B4 potrebbe essere stata prolettica, nella introduzione del discorso della Dea, che poi B8 avrebbe articolato e precisato. È significativo che nella sua prima edizione del poema (1897), come abbiamo sopra ricordato, Diels proponesse l’attuale B4 come B2, dunque all’inizio sostanzialmente della prolusione divina. Rimane comunque l'impressione che il frammento possa aver svolto, nell'economia dell'esposizione divina, un ufficio di raccordo, tra le due sezioni, analogamente a B9. In alternativa, valutando soprattutto il contesto della citazione di Clemente e la sua intenzione di marcare la differenza tra visione percettiva e visione spirituale, e convenendo con Coxon19 che Parmenide non sia in questo frammento interessato alla natura dell’Essere (la cui indivisibilità sarà argomentata proprio in B8.22-5), ma alla natura del νόος come capacità intellettuale, potremmo ipotizzare il posizionamento di B4 in relazione ai rilievi di B6 e B7 sui rischi della «abitudine alle molte esperienze» (ἔθος πολύπειρον). L’espressione kata kosmon e le implicazioni cosmologiche Sono comunque gli ultimi due versi (3-4) del frammento a rappresentare il maggior cruccio per gli interpreti, soprattutto per la determinazione del valore del greco κατὰ κόσμον e del senso della dinamica imperniata intorno ai due participi σκιδνάμενον e συνιστάμενον, che indicano dispersione e raccoglimento. Essi sono riferiti immediatamente a τὸ ἐόν, della cui connessione interna (rilevata dal νόος) costituiscono una alternativa: οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον 19 Op. cit., p. 187. 353 non impedirai, infatti, che l'essere sia connesso all'essere, né disperdendosi completamente in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi (B4.2-4). Parmenide si limita a stigmatizzare la prospettiva di un moto – ordinato (conforme a un ordine) - di disseminazione e concentrazione degli enti, quale potrebbe essere rappresentato dalle cosmogonie ioniche, ovvero, più specificamente si riferisce a un modello, intenzionalmente impiegando il termine κόσμος per designare l’assetto complessivo della realtà? Il noos e il cosmo Che egli possa aver imboccato – tra i primi - questa seconda direzione, è suggerito dai passi paralleli - segnalati dagli editori - in Empedocle (B17.18-21; riferimento già in Clemente) e Anassagora (B8), in cui la dimensione cosmologica è indiscutibilmente centrale, implicando un’ontologia influenzata da Parmenide: πῦρ καὶ ὕδωρ καὶ γαῖα καὶ ἠέρος ἄπλετον ὕψος, Νεῖκός τ’ οὐλόμενον δίχα τῶν, ἀτάλαντον ἁπάντηι, καὶ Φιλότης ἐν τοῖσιν, ἴση μῆκός τε πλάτος τε· τὴν σὺ νόωι δέρκευ, μηδ’ ὄμμασιν ἧσο τεθηπώς Fuoco e Acqua e Terra e l’altezza immensa dell’Aria, e Contesa, disgiunta da essi ma di pari peso, ovunque, e Amore, in essi, uguale in lunghezza e larghezza. Osservala con l’intelligenza, non restare con sguardo stupito (Empedocle; DK 31 B17.18-21). οὐ κεχώρισται ἀλλήλων τὰ ἐν τῶι ἑνὶ κόσμωι οὐδὲ ἀποκέκοπται πελέκει οὔτε τὸ θερμὸν ἀπὸ τοῦ ψυχροῦ οὔτε τὸ ψυχρὸν ἀπὸ τοῦ θερμοῦ Nell’unico universo non si trovano separate le cose, le une dalle altre, e non risultano tagliati a scure né il caldo dal freddo né il freddo dal caldo (Anassagora; DK 59 B8). 354 Nel suo commento a B4, Cerri ha invece richiamato l’attenzione sulla pagina iniziale del trattato Sul cosmo per Alessandro attribuito ad Aristotele (ma più probabilmente di autore genericamente peripatetico20), che contiene passaggi che sembrano effettivamente riecheggiare i versi parmenidei: Πολλάκις μὲν ἔμοιγε θεῖόν τι καὶ δαιμόνιον ὄντως χρῆμα, ὦ Ἀλέξανδρε, ἡ φιλοσοφία ἔδοξεν εἶναι, μάλιστα δὲ ἐν οἷς μόνη διαραμένη πρὸς τὴν τῶν ὄντων θέαν ἐσπούδασε γνῶναι τὴν ἐν αὐτοῖς ἀλήθειαν, καὶ τῶν ἄλλων ταύτης ἀποστάντων διὰ τὸ ὕψος καὶ τὸ μέγεθος, αὕτη τὸ πρᾶγμα οὐκ ἔδεισεν οὐδ’ αὑτὴν τῶν καλλίστων ἀπηξίωσεν, ἀλλὰ καὶ συγγενεστάτην ἑαυτῇ καὶ μάλιστα πρέπουσαν ἐνόμισεν εἶναι τὴν ἐκείνων μάθησιν. Ἐπειδὴ γὰρ οὐχ οἷόν τε ἦν τῷ σώματι εἰς τὸν οὐράνιον ἀφικέσθαι τόπον καὶ τὴν γῆν ἐκλιπόντα τὸν ἱερὸν ἐκεῖνον χῶρον κατοπτεῦσαι, καθάπερ οἱ ἀνόητοί ποτε ἐπενόουν Ἀλῳάδαι, ἡ γοῦν ψυχὴ διὰ φιλοσοφίας, λαβοῦσα ἡγεμόνα τὸν νοῦν, ἐπεραιώθη καὶ ἐξεδήμησεν, ἀκοπίατόν τινα ὁδὸν εὑροῦσα, καὶ τὰ πλεῖστον ἀλλήλων ἀφεστῶτα τοῖς τόποις τῇ διανοίᾳ συνεφόρησε, ῥᾳδίως, οἶμαι, τὰ συγγενῆ γνωρίσασα, καὶ θείῳ ψυχῆς ὄμματι τὰ θεῖα καταλαβομένη, τοῖς τε ἀνθρώποις προφητεύουσα. Τοῦτο δὲ ἔπαθε, καθ’ ὅσον οἷόν τε ἦν, πᾶσιν ἀφθόνως μεταδοῦναι βουληθεῖσα τῶν παρ’ αὑτῇ τιμίων Ho più volte pensato che la filosofia sia cosa veramente divina e sovrumana, o Alessandro, e soprattutto in quell'aspetto per cui essa, da sola, innalzandosi alla contemplazione dei componenti della realtà nella loro totalità, si è impegnata a conoscere la verità che è in essi. E, mentre tutte le altre scienze si tennero lontane da questa verità a motivo della sua altezza e grandezza, la filosofia non temette l'impresa e non si reputò indegna delle cose 20 Rivendica la paternità aristotelica dell’opera G. Reale, A.P. Bos, Il trattato Sul cosmo per Alessandro attribuito ad Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1996. 355 più belle, e, anzi, ritenne che la conoscenza di quelle cose fosse in sommo grado congenere alla propria natura e massimamente conveniente. Infatti, poiché non era possibile col corpo raggiungere i luoghi celesti, lasciare la terra e contemplare quelle sacre regioni, come follemente tentarono gli Aloadi, l'anima, mediante la filosofia, preso l'intelletto come conduttore, varcò il confine e abbandonò l'ambiente che le è familiare, avendo trovato una via che non stanca. E le cose più lontane fra loro nello spazio essa riunì insieme nel pensiero, con facilità, credo, perché riconobbe le cose che le sono congeneri e con il divino occhio dell'anima colse le cose divine, rivelandole poi agli uomini. E questo le accadde perché desiderava, nella misura in cui era possibile, far partecipi senza restrizione tutti gli uomini dei suoi tesori21. Quello che risulta interessante - in chiave eleatica – è, nei versi empedoclei e nelle righe peripatetiche, il nesso tra lo sguardo del pensiero (νόος, διάνοια) e la dimensione del tutto - le quattro radici in Empedocle, il riferimento agli elementi della totalità nello pseudo-Aristotele; nel frammento anassagoreo, invece, l’uso di κόσμος nel senso evidentemente di universo, complesso del mondo (e non genericamente di ordine), come rivelato dal riferimento ai tradizionali contrari cosmogonici «caldo-freddo», unitamente alla negazione della separazione delle cose nella unità del κόσμος. Lo stesso Empedocle (DK 31 B26.5) impiega κόσμος nella formula εἰς ἕνα κόσμον («in un unico mondo») nell’ambito della descrizione degli effetti cosmogonici dell’alternanza ciclica di Amore e Contesa; mentre in Eraclito (B30: κόσμον τόνδε), il termine è presente in senso già prossimo al valore cosmico, per indicare cioè l’ordine delle cose. L’espressione del pensatore agrigentino «osservala con l'intelligenza» (τὴν σὺ νόωι δέρκευ) sembra effettivamente ricalcare il parmenideo λεῦσσε νόῳ, così come la pseudo-aristotelica «le cose più lontane fra loro nello spazio essa riunì insieme nel pensiero» (τὰ πλεῖστον ἀλλήλων ἀφεστῶτα τοῖς τόποις τῇ διανοίᾳ 21 Ivi, p. 175. 356 συνεφόρησε) richiama complessivamente B4.1 (λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως). L’impressione è che i versi del Περὶ φύσεως, i loro cenni al κόσμος, alle cose lontane e vicine, assenti e presenti, allo sguardo del νόος, fossero chiaramente significativi in prospettiva cosmologica già nel V secolo (Empedocle, Anassagora), a ridosso della sua composizione: forse perché estrapolati dalla sezione cosmologica del poema, forse perché in quel senso andava inteso l’insieme dell’impegno parmenideo (come si evincerebbe in particolare dalla ripresa peripatetica, che risente tuttavia della lezione aristotelica). La possibile (probabile) implicazione cosmica, l’accenno alla dinamica di concentrazione-dispersione (eco plausibile della cosmogonia di Anassimene), e, in relazione a τὸ ἐόν, il rilievo della funzione omogeneizzante del νόος potrebbero suggerire ancora una posizione introduttiva del frammento rispetto alla revisione cosmologica proposta dall’Eleate (sulla scorta della lezione di B8): premessa, dunque, alla vera e propria esposizione fisicocosmologica della seconda sezione. Disperdendosi, concentrandosi I versi 3-4 alludono a qualche specifico precedente cosmologico-cosmogonico, ovvero dobbiamo pensare a un riferimento generico? Gli interpreti sono divisi anche su questo punto: qualcuno, come Coxon22, vi coglie una polemica nei confronti della teoria di una sostanza prima soggetta a condensazione e rarefazione (Anassimene23, pur non escludendo il coinvolgimento polemico di Eraclito DK 22 B9124); altri, come Guthrie25, ritengono Parmenide 22 Op. cit., p. 189. 23 Su questo concordano Reinhardt, Gigon, Albertelli. 24 Il frammento recita: ποταμῶι γὰρ οὐκ ἔστιν ἐμβῆναι δὶς τῶι αὐτῶι καθ’ Ἡράκλειτον οὐδὲ θνητῆς οὐσίας δὶς ἅψασθαι κατὰ ἕξιν < τῆς αὐτῆς >· ἀλλ’ ὀξύτητι καὶ τάχει μεταβολῆς σκίδνησι καὶ 357 alluda a Eraclito (B91)26; altri ancora, come Conche27, valorizzando l’intenzione ontologica del frammento, dubitano che possa riferirsi a fenomeni di condensazione-rarefazione, giudicando tale lettura “obiettivista”, superficiale e banale. In realtà, se si prende sul serio l’interesse cosmologico del poema di Parmenide, pare corretto individuarne un obiettivo polemico, da cui il filosofo avrebbe preso le distanze: nella logica dell’opera si potrebbe ipotizzare che la riflessione più strettamente ontologica offra gli strumenti concettuali per contestare alternativi modelli esplicativi della natura e fondare una più consapevole e coerente teoria fisica. Schematicamente convincente la lezione di Graham28, il quale, ammiccando a Thomas Kuhn, individua tre “paradigmi” scientifici, successivamente attivi tra VI e V secolo a.C.: (i) quello con cui originariamente si ricercò la scaturigine (φύσις) degli enti, il loro principio (ἀρχή), e si tentò di inquadrare i fenomeni naturali, indicato come Generating Substance Theory (GST); (ii) quello che avrebbe, secondo l’autore, radici nella seconda parte del poema parmenideo e sarebbe poi stato sviluppato, più o meno coerentemente, dai pensatori tradizionalmente designati come “pluralisti” (Empedocle, Anassagora, atomisti), definito come Elemental Substance Theory (EST); πάλιν συνάγει (μᾶλλον δὲ οὐδὲ πάλιν οὐδ’ ὕστερον, ἀλλ’ ἅμα συνίσταται καὶ ἀπολείπει) καὶ πρόσεισι καὶ ἄπεισι Non è possibile scendere due volte nello stesso fiume, secondo Eraclito, né si può toccare due volte una sostanza mortale nell'identico stato; ma, per lo slancio e la velocità del mutamento, si disperde e di nuovo si raccoglie (piuttosto, non di nuovo né dopo, ma a un tempo si riunisce e si separa), viene e va. 25 Op. cit., p. 32. 26 Su questo concordano Diels, Nestle, Cornford, Vlastos, Calogero, Mondolfo. 27 Op. cit., p. 94. 28 D.W. Graham, Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton University Press, Princeton and Oxford 2006. 358 (iii) quello espresso pienamente nei frammenti di Diogene di Apollonia, riconosciuto come Material Monism (MM). Il primo corrisponde al programma scientifico ionico, così riassunto per punti29: a) esiste una sostanza originaria da cui tutto il resto è sorto; b) esiste un processo per cui gli elementi costitutivi del cosmo scaturiscono dalla sostanza originaria; c) tali elementi si dispongono negli strati materiali del cosmo; d) le strutture e i materiali del cosmo si stabilizzano nell’ordine che conosciamo; e) emergono gli esseri viventi; f) un’ampia varietà di fenomeni è spiegabile secondo il modello. Rispetto a questo paradigma (modulato da Anassimene nel senso di una vera e propria teoria del mutamento30), Eraclito (cui è dedicata da Graham un’analisi convincente31) avrebbe abbandonato l’idea di primato della «sostanza generatrice» a vantaggio di quella di processo universale, regolato da una legge di scambio di masse elementari (fuoco, terra, acqua). È alla luce di questi precedenti, in particolare dell’impatto della lezione di Eraclito32, che Graham interpreta l’ontologia di Parmenide. La prima parte del Περὶ φύσεως metterebbe in campo tutti gli strumenti concettuali per negare il divenire come generazione dal non-essere e affermare una concezione di «ciò che è» che l’autore ritiene compatibile con il pluralismo di sostanze ingenerate, incorruttibili, omogenee, immutabili e complete (Graham parla di Eleatic Substantialism): la seconda sezione (Doxa) avrebbe quindi proposto una cosmologia basata sulle proprietà focalizzate nella Aletheia, coerente con i principi della metafisica di Parmenide33. Lasciando per il momento in sospeso altre valutazioni, la collocazione della riflessione dell’Eleate proposta da Graham appare 29 Ivi, pp. 8-9. 30 Ivi, pp. 45-84. La rivalutazione del contributo del “terzo” milesio è uno degli aspetti più interessanti dell’opera. 31 Ivi, pp. 113-147. 32 Ivi, pp. 148-162. 33 Ivi, pp. 182-5. 359 sensata e potrebbe aiutare a leggere correttamente anche il nostro frammento. Da un lato, infatti, i versi attestano un ruolo del νόος chiaramente inteso a ricondurre gli ἀπεόντα alla presenza di τὸ ἐόν, negando quindi lo spazio del non-essere potenzialmente implicito nel movimento assenza-presenza; dall’altro anticipano (ovvero sottintendono) i rilievi di B8 sull’omogeneità dell’essere, per rifiutare quelle proposte esplicative che sembravano comportare, di fatto, accanto all’essere del principio\natura, l’implicita ammissione del non-essere. Anassimene (DK 13 B1), in effetti, sulla base di quanto espone Plutarco, avrebbe sostenuto: τὸ γὰρ συστελλόμενον αὐτῆς καὶ πυκνούμενον ψυχρὸν εἶναί φησι, τὸ δ’ ἀραιὸν καὶ τὸ χ α λ α ρ ὸ ν (οὕτω πως ὀνομάσας καὶ τῶι ῥήματι) θερμόν [Anassimene] dice infatti che la parte dell’aria che si contrae e si condensa è fredda, mentre la parte che è dilatata e “allentata” (è proprio questa l'espressione che usa) è calda […] (DK 13 B1). Eraclito, a sua volta: σκίδνησι καὶ πάλιν συνάγει [...] καὶ πρόσεισι καὶ ἄπεισι […] si disperde e di nuovo si raccoglie […] viene e va (DK 22 B91). Il frammento di Parmenide – un breve passaggio nelle centinaia di versi complessivi del poema – potrebbe dunque essere risultanza di una più o meno esplicita evocazione dei precedenti ionici, per marcare l'originalità del contributo eleatico soprattutto in termini di coerenza – come attesterebbe l’insistenza sul νόος e sul suo operare - con i presupposti taciti nella stessa concezione della realtà della φύσις- ἀρχή ionica. Proprio questa possibile funzione critica farebbe di B4 una sorta di passe-partout per il poema: 360 (i) come controparte gnoseologica dell’argomentazione di B8 e dunque degli effetti paradossali di una coerente riflessione ontologica rispetto ai dati del senso comune; (ii) come trait d'union tra la sezione ontologica e quella cosmologica, a sottolinearne la continuità, cioè nell’ambito di una positiva interpretazione della φύσις sulla scorta della Verità, come vuole Ruggiu34. 34 Op. cit., p. 251. 361 UN’ESPOSIZIONE CIRCOLARE [B5] Il breve frammento ci è conservato in una citazione di Proclo, che lo connette a B8.25 (ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει, «ciò che è si stringe infatti a ciò che è») e B8.44 (μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ, «a partire dal centro ovunque di ugual consistenza»), riferendolo dunque all’Essere. In realtà, come spesso è stato riconosciuto, è difficile sfuggire all’impressione di una decontestualizzazione disorientante. Se l’indicazione di Proclo può suggerire un suo significato ontologico, in linea, per altro, con la relazione tra νοεῖν e εἶναι che emerge da B3 e la dinamica ἀπεόντα-παρεόντα-τὸ ἐόν di B4, è forte tuttavia tra gli interpreti l’opzione metodologica, che appare in qualche lettura particolarmente convincente1. Anche nel caso di B5, la questione del suo significato è decisiva per la sua collocazione. Laddove prevalga il rilievo del suo senso ontologico, l’attuale sequenza può essere mantenuta2. Laddove, al contrario, sia privilegiato il senso metodologico del frammento, il suo posizionamento nell’attuale ordinamento del materiale andrebbe rivisto (come fanno, tra gli altri, Pasquinelli e Coxon), a ridosso di B1 e prima di B2, come preliminare della esposizione divina. Registrata la ricorrenza dell’immagine del cerchio all’interno delle citazioni del poema - la verità «ben rotonda» (B1.29); l'analogia tra τὸ ἐόν e εὐκύκλου σφαίρης ὄγκος («massa di ben rotonda palla», B8.43); il discorso sulla verità indicato come ἀμφὶς Ἀληθείης (B8.51); il concetto di «limite estremo» (πεῖρας πύματον, B8.42) – appare comunque forzata la conclusione di Ruggiu3, secondo cui B5 esporrebbe la forma nella quale l’Essere esprime la propria natura. Soprattutto se teniamo conto della possibilità che il materiale conservato rappresenti solo una quota minoritaria dei versi del poema integrale. Nell’ambito della comunicazione della Dea, invece, il passo potrebbe essere inteso e marcare lo scarto tra 1 È il caso dell’analisi di Coxon e di quella di Conche. 2 Ovvero, ipotizzando una (improbabile) lacuna in B8 (Cornford), potrebbe essere accettato il suo inserimento tra i due riferimenti di Proclo. 3 Op. cit., p. 253. 362 sapere divino e sapere umano: la necessità di un ordine espositivo rivolto al κοῦρος e la sua indifferenza rispetto alla conoscenza di chi lo propone. Conche4 ha giustamente messo in relazione il frammento con il programma di insegnamento annunciato dalla Dea: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι È necessario che tutto tu apprenda (B1.28). La verità che il κοῦρος apprenderà è la verità del Tutto, un sapere compiuto: i limiti dell’uomo non consentono tuttavia che tale sapere sia acquisito tutto in una volta. È necessario un ordine, corrispondente alle tappe di una ricerca, modalità tipicamente umana di accedere alla conoscenza. Il percorso, la via da seguire (affermazione di una via ed esclusione di un’altra, ecc.) rappresentano un escamotage didattico che ha senso solo per il discepolo, non per la Dea: per lei il punto di partenza e l’ordine di esposizione sono indifferenti. In relazione a una verità definita nel poema εὐκυκλής («ben rotonda»), Cerri valorizza, a sua volta, la prospettiva didascalica del frammento5, rafforzata dal possibile accostamento a Eraclito (DK 22 B1036 ) e dall’eco nel Sofista platonico (237a7 ): Parmenide implicherebbe una sorta di circolarità della ricerca scientifica e del discorso che la espone8. 4 Op. cit., p. 98. 5 Pur non escludendo, a priori, la possibilità di un suo coinvolgimento all’interno di una (in vero implausibile) specifica argomentazione geometrica. 6 Il frammento recita: ξυνὸν γὰρ ἀρχὴ καὶ πέρας ἐπὶ κύκλου περιφερείας Comune è, in effetti, nella circonferenza del cerchio il principio e la fine. 7 Il passo è il seguente: Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ διὰ τέλους 363 In ogni caso, alla luce della successiva trattazione dell’Essere e del mondo della natura, sembra difficile poter insistere su tale circolarità, come ha opportunamente segnalato Coxon9: nel primo caso, infatti, lo sviluppo argomentativo procede in una direzione lineare; nel secondo l’esposizione delle «opinioni dei mortali» doveva diffondersi sul piano storico-descrittivo. Né è plausibile che la circolarità indifferente possa riferirsi al complesso delle due esposizioni, dipendendo la comprensione della seconda dalle analisi della prima10. Indifferente e circolare, invece, potrebbe essere considerata la discussione delle possibili vie di ricerca, non necessariamente legata a un ordine di sequenza e in questo senso indifferente rispetto all’argomento da articolare. Come segnala Coxon11, la circolarità di quella preliminare discussione sarebbe contrapposta alla linearità degli argomenti sviluppati lungo la via imboccata verso la Verità (B8). Una variante interessante è quella avanzata da Bicknell12, che abbiamo registrato nelle annotazioni alla traduzione: intendendo ξυνὸν come a basic point, B5 potrebbe essere immediatamente anteposto alla κρίσις di B2, per marcare come a essa l’argomentazione della Dea avrebbe dovuto ripetutamente richiamarsi. τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ μέτρων [DK 28 B7.1-2] Questo discorso ha osato supporre che sia ciò che non è: il falso, in effetti, non potrebbe generarsi in altro modo. Il grande Parmenide, invece, ragazzo mio, a noi che eravamo ragazzini proprio contro questo discorso testimoniava dall'inizio alla fine, in prosa e in versi, che [citazione B7.1-2]. 8 Cerri, op. cit., p. 202. 9 Op. cit., pp. 171-2. 10 In questo senso non convince il rilievo di Pasquinelli (I presocratici, p. 396) sulla presunta comunanza di tutti i punti del discorso della Dea. 11 Op. cit., pp. 171-2. 12 P.J. Bicknell, “Parmenides, DK 28 B5”, cit., pp. 9-11. 364 ESSERE E NULLA [B6] Il frammento, ricostruito a partire dalle sole sparse citazioni di Simplicio (quindi, come osserva Cordero1, ricomparso a un millennio dalla stesura del poema), è dallo stesso commentatore per un verso direttamente connesso a B22, per altro proiettato su B7 e B8: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα· εἰπὼν γὰρ [B6.1b-2] < ἐπάγει > [B6.3-9] μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] Sostiene che le proposizioni contraddittorie non siano a un tempo vere [letteralmente: la contraddizione non sia vera] in quei versi in cui biasima coloro che mettono insieme gli opposti: dice infatti [citazione B6.1b-2a] e aggiunge [citazione B6.3-9]. (In Aristotelis Physicam 117, 2) Dopo aver biasimato infatti coloro che congiungono l'essere e il non-essere nell'intelligibile [citazione B6.8-9] e aver allontanato dalla via che ricerca il non-essere [citazione B7.2], soggiunge [citazione B8.1 ss.] (In Aristotelis Physicam 78, 2). È dunque introduttivamente importante, per una valutazione del senso e della posizione del testo, ricordare che la citazione di Simplicio è intesa a confermare l’uso condizionante del principio di contraddizione3 (donde l’accostamento a B2) come premessa 1 By Being, It Is, cit., p. 90. 2 Simplicio cita B6.1b-9 subito dopo aver citato B2.3-8. 3 In questo senso Simplicio ne confermava l’implicita attribuzione a Parmenide da parte di Aristotele (Metafisica IV, 3 1005 a28-35): 365 che lo stesso Simplicio salda esplicitamente all’argomento ontologico successivo (B8). In effetti, il primo verso e il primo emistichio del secondo sono richiamati dal commentatore, in altro contesto, proprio per marcare il nesso tra pensiero ed essere: ἀλλὰ καὶ τὸ πάντων ἕνα καὶ τὸν αὐτὸν εἶναι λόγον τὸν τοῦ ὄντος ὁ Παρμενίδης φησὶν ἐν τούτοις [B6.1-2a]. εἰ οὖν ὅπερ ἄν τις ἢ εἴπῃ ἢ νοήσῃ τὸ ὄν ἐστι, πάντων εἷς ἔσται λόγος ὁ τοῦ ὄντος Ma che la nozione di tutte le cose sia una e la stessa, quella dell'essere, Parmenide sostiene in questi versi: [B6.1-2a] Se proprio l'essere è ciò di cui è possibile dire e pensare, di tutte le cose vi sarà una sola nozione, quella dell'essere (In Aristotelis Physicam 86, 25-30). Per la sua discussa interpretazione è corretto e inevitabile rinviare al complesso B2-B3, a maggior ragione ipotizzando che gli attuali B4 e B5 siano fuori posto (in particolare che B5 possa precedere immediatamente B2 e B4 trovarsi a cavaliere tra prima e seconda sezione). È possibile, infatti, intravedere nei versi e nel contesto della citazione la centralità del riferimento critico a τό μὴ ὥστ’ ἐπεὶ δῆλον ὅτι ᾗ ὄντα ὑπάρχει πᾶσι (τοῦτο γὰρ αὐτοῖς τὸ κοινόν), τοῦ περὶ τὸ ὂν ᾗ ὂν γνωρίζοντος καὶ περὶ τούτων ἐστὶν ἡ θεωρία. διόπερ οὐθεὶς τῶν κατὰ μέρος ἐπισκοπούντων ἐγχειρεῖ λέγειν τι περὶ αὐτῶν, εἰ ἀληθῆ ἢ μή, οὔτε γεωμέτρης οὔτ’ ἀριθμητικός, ἀλλὰ τῶν φυσικῶν ἔνιοι, εἰκότως τοῦτο δρῶντες· μόνοι γὰρ ᾤοντο περί τε τῆς ὅλης φύσεως σκοπεῖν καὶ περὶ τοῦ ὄντος Così, in quanto è chiaro che [gli assiomi] appartengono a tutte le cose in quanto sono (l'essere è infatti ciò che è comune a tutti), è proprio di colui che indaga l'essere in quanto essere anche lo studio di questi [assiomi]. Perciò, nessuno di coloro che si limitano all'indagine di una parte si cura di dire qualcosa di essi, se siano veri o no: non il geometra, né il matematico. Ne parlarono, tuttavia, alcuni dei fisici, e a ragione: credevano in effetti di essere gli unici a ricercare sul complesso della natura e sull'essere. 366 ἐὸν (Simplicio: τὸ μὴ ὂν), formula estratta dalla seconda «via di ricerca» di B2, che evidentemente aveva costituito il preliminare oggetto di discussione nella parte mancante del primo logos della Dea. Come rivela l’ampio dibattito intorno alla traduzione del testo greco e alla sua intellezione, il frammento è decisivo per determinare: (i) la natura delle «vie di ricerca per pensare»; (ii) il numero di tali vie; (iii) l’obiettivo della polemica parmenidea. In particolare, relativamente all’ultimo punto, è dall’Ottocento oggetto di contesa l’attribuzione esatta dei riferimenti a βροτοὶ εἰδότες οὐδέν («mortali che nulla sanno»), δίκρανοι («uomini a due teste»), e ἄκριτα φῦλα («schiere scriteriate»), che molti hanno inteso come allusioni a Eraclito e seguaci, trovando nelle espressioni degli ultimi versi un possibile riscontro verbale (come abbiamo segnalato in nota): οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso torna all'indietro (B6.8-9). La natura delle vie Il primo verso e il primo emistichio del secondo, che sembrano fornire nell’insieme un asserto e le condizioni che lo giustificano (come evidenziato dal ricorso all’indicatore di premessa γάρ), introducono il primo problema interpretativo: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν che può rendersi letteralmente come: 367 È necessario il dire e il pensare che ciò che è è; poiché è possibile essere [ovvero, come preferiamo: è possibile infatti essere], il nulla, invece, non è». La nostra traduzione4 ricava due formule modali («è necessario», «è possibile») dal testo greco, che appare invece immediatamente costruito su tre formule tautologiche: ἐὸν ἔμμεναι (letteralmente: «ciò che è [l'essere] è»), ἔστι εἶναι (che si potrebbe rendere letteralmente: «è essere» ovvero «[l']essere è»), μηδὲν οὐκ ἔστιν (letteralmente: «ni-ente non è»). L’essere dell’ente Il primo emistichio è costituito da tre blocchi testuali: (i) l’espressione verbale χρή, che abbiamo reso come «è necessario»: si tratta di una formula con cui la Dea rileva un passaggio significativo della propria comunicazione, proposto come conclusione di un argomento (le premesse introdotte dall'indicatore γάρ); (ii) le due forme verbali all’infinito – λέγειν e νοεῖν – precedute da τό, con valore di articolo sostantivante («il [fatto di] dire», «il [fatto di] pensare»), ovvero, come crede qualcuno, di dimostrativo in funzione prolettica («dire questo e pensare questo: ….»); in ogni caso è evidente che la Dea (Parmenide) coinvolge due verbi particolarmente pregnanti nel contesto della sua rivelazione: νοεῖν richiama immediatamente B3 e B2.2 (νοῆσαι), mentre λέγειν può collegarsi a φράζω (B2.6-8); (iii) l’insieme verbale ἐὸν ἔμμεναι, formato dal participio presente del verbo «essere» (ἐόν, forma ionica di ὂν: «essente», ovvero «ente» o ancora «ciò che è» e quindi anche «essere») e dall’infinito dello stesso verbo (ἔμμεναι nella forma epica), che 4 Per le costruzioni e traduzioni alternative rinviamo alle note testuali al frammento. 368 abbiamo reso, come appare naturale, come proposizione infinitiva (dichiarativa) retta da λέγειν e νοεῖν: si tratta della prima formulazione ambigua (per la multivocità del verbo essere) della tautologia centrale (μηδὲν οὐκ ἔστιν non fa che esprimerla in negativo: da una lato l’«ente» di cui si afferma l’essere, dall’altro il «ni-ente» di cui si nega lo stesso essere). Nel contesto la traduzione proposta appare plausibile, ed evidenzia la difficoltà di interpretazione dell’ultimo blocco: la scelta di Parmenide è chiaramente quella di sfruttare la densità semantica della coppia participio-infinito dello stesso «essere», per marcare l’identità di soggetto e verbo. L’effetto ricercato potrebbe essere quello – su cui giustamente insiste la lettura heideggeriana di Beaufret 5 e Conche 6 - di richiamare l’attenzione sull’εἶναι (ἔμμεναι) dell’ἐόν, sull’essere di ciò che è; ovvero, più semplicemente, sul fatto d’essere, sull'evidenza dell'esistenza. È da tener presente che, in B2.7-8, la Dea aveva denunciato come: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo. B6 si apre appunto sostituendo all’espressione negativa τό μὴ ἐὸν di B2.7 il positivo ἐόν; al rilievo dell’impossibilità di conoscere e indicare (esprimere) «ciò che non è», quello della necessità di dire e pensare l’«essere» dell’ἐόν. Nel passaggio interviene l’importante novità dell’introduzione del soggetto di εἶναι (ἔμμεναι), ἐόν appunto: l’affermazione «è e non è possibile non essere» (B2.3: ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι) che caratterizzava il Πειθοῦς κέλευθος, «percorso di Persuasione», trova in B6.1a ἐόν come proprio naturale soggetto di referimento. Nella sequenza B2-B6, possiamo intendere ἐόν come formula concettuale scaturita dalla riflessione sull'espressione della prima via di 5 Parménide, Le poème, présenté par J. Beaufret, cit., p. 81. 6 Op. cit., p. 102. 369 ricerca per pensare7: formula che manifesta l’essere di ciò di cui si afferma ἐστίν, ovvero come formula sintetica riassumente la totalità delle cose che si manifestano nella esperienza (come ricorda Thanassas8, è frequente l’uso del plurale ἐόντα nella sezione sulla Alētheia) di cui ἐστίν focalizza il fatto d’essere: ciò che è, l’ente, la “cosa”, «è», esiste. Siamo portati decisamente a credere che, nel contesto, il valore di ἔμμεναι sia esistenziale, pur avendolo reso ambiguamente con «essere». L’uso dell’iniziale χρή – anche senza volergli attribuire il significato forte di necessità logica – è funzionale alla ripresa della conclusione negativa di B2 riguardo a τό μὴ ἐὸν, integrata dal rilievo di B3: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere. Delle «due vie di ricerca» di B2 – le uniche «per pensare» - quella che pensava che «non è» è di fatto indisponibile, perché, come abbiamo ricordato, «ciò che non è» non è conoscibile né esprimibile; questo porta la Dea in B3 a rilevare il nesso tra νοεῖν e εἶναι, tra il pensiero che svela (νοεῖν) e l’unico suo reale oggetto possibile (εἶναι) alla luce dell’iniziale alternativa tra le vie. Nell’apertura di B6, ai due infiniti (λέγειν e νοεῖν) viene esplicitamente attribuito un oggetto: la dichiarativa ἐὸν ἔμμεναι («ciò che è è»). La Dea non si limita in questo modo a riprendere ed esplicitare la propria tesi: sottolinea anche come pensiero e discorso debbano correttamente ammetterla9. A tale scopo, in B6.1b-2a, ella reitera nella sostanza le risultanze di B2: ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν essere, infatti, è possibile, 7 Thanassas, op. cit. p. 45. 8 Ivi, p. 44. B4.1-2, B8.25, B8.47-8. 9 Cordero, op. cit., p. 92. Preferiamo attenuare il carattere di necessità logica che Cordero attribuisce a χρή. 370 il nulla, invece, non è. La formula ἔστι εἶναι può estrarsi positivamente dall'insieme di affermazione e proibizione nella prima «via di ricerca per pensare»: ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι. L'espressione μηδὲν οὐκ ἔστιν, a sua volta, ribadisce l'assolutezza della seconda via: ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι, attribuendo coerentemente a οὐκ ἔστιν un adeguato soggetto logico. La traduzione dei due emistichi e la loro interpretazione sono comunque particolarmente controverse. Essere, non-essere Traducendo letteralmente: ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν abbiamo almeno tre possibili costruzioni e relative plausibili soluzioni: (i) intendere il precedente ἐὸν come soggetto del primo emistichio e μηδὲν del secondo: poiché [ovvero: infatti] è essere, il nulla, invece, non è; (ii) intendere ἐὸν come soggetto di entrambi, con μηδὲν predicato (come εἶναι): poiché [ovvero: infatti] è essere, e non è nulla; 371 (iii) intendere εἶναι come soggetto del primo emistichio e μηδὲν del secondo: poiché [ovvero: infatti] l'essere è, il nulla, invece, non è. Nell'ultimo caso, esplicitamente ritroveremmo la disgiunzione ἐστί\οὐκ ἔστι, accompagnata dai due soggetti logici (il primo εἶναι, il secondo μηδέν) che la trasformano in una duplice asserzione tautologica (quindi vera). Per molti versi si tratta della versione più naturale10, ma ha lo svantaggio di non dare del tutto ragione dell’uso di γάρ. Seguendo una affermazione (χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι), esso dovrebbe introdurre le proposizioni in grado di giustificarla: ora la doppia tautologia (si tratta dell’aspetto che rende più perplessi) sembra semplicemente riformulare la dichiarativa (εἶναι funge da soggetto in sostituzione di ἐόν), negando l’essere al soggetto contrario («[il] ni-ente»). La Dea, dunque, sosterrebbe la propria tesi direttamente, marcando la non esistenza del non-essere: oggetto del dire e del pensare non può allora che essere «ciò che è», perché solo «ciò che è [l’essere] è [esiste]». Il vantaggio di questa soluzione è quello di mettere in valore la possibile struttura delle due vie di B2: come abbiamo osservato, la disgiunzione ἐστί\οὐκ ἔστι è riformulata in termini tautologici, dunque investirebbe in realtà due verità, in questo senso proposte come le uniche vie di ricerca per pensare11, una delle quali (sviluppare coerentemente la premessa «che è») feconda, l’altra (sviluppare coerentemente la premessa «che non è») assolutamente improduttiva. Questo spiegherebbe il tono del discorso della Dea, che cambia e si fa sprezzante solo quando denuncia la confusione dei βροτοί che incrociano le due vie: come fa osservare Giorgio 10 Tra l'altro potrebbe essere suffragata dal fatto che due codici (BC) di Simplicio riportano τò εἶναι. 11 In questo senso la lettura della Germani, op. cit., p. 191. 372 Colli12, la via enunciata in B2.5 non era stata rifiutata con disprezzo, perché volgare, come accade invece con quella formulata a partire da B6.4. Le altre due soluzioni, in fondo, non si allontanano concettualmente dalla precedente, trovando comunque nel contesto dei frammenti una loro sensata giustificazione. Nel primo caso («poiché è essere, il nulla, invece, non è») sarebbe messo in valore l'essere di «ciò che è» (ἐόν), dell'ente, ribadendo la non esistenza del nulla, del "ni-ente"; nel secondo (la costruzione appare meno naturale) la Dea otterrebbe lo stesso risultato sottolineando che «ciò che è» è «essere» e non è «nulla». È necessario, è possibile, non è possibile Un’interessante soluzione alternativa alla traduzione letterale è quella proposta da O’Brien: essa, rendendo ἔστι\οὐκ ἔστι con valore potenziale, ricava da B6.1-2a tre espressioni modali: necessità (χρή), possibilità (ἔστι), impossibilità (οὐκ ἔστιν): Il faut dire ceci et penser ceci: l’être est; car il est possible d’être, il n’est pas possible que ce qui n’est rien. Poiché è possibile essere ed è impossibile che il ni-ente sia, dire e pensare (presupposti nel ragionamento) dovranno riconoscere come loro oggetto necessario l’ente. Come ricorda l’autore13, infatti, i candidati a essere oggetto di tali attività sono ἐόν e μηδέν: il primo può esistere, il secondo no. La difficoltà di questa interpretazione è principalmente legata alla lingua greca, in cui ἔστι assume valore potenziale in relazione con un infinito: è dunque legittima la traduzione del secondo emistichio del v.1, problematica la traduzione di B6.2a, nella quale, 12 Gorgia e Parmenide. Lezioni 1965-1967, a cura di E. Colli, su appunti di E. Berti, Adelphi, Milano 2003, p. 175. 13 O’Brien, Études sur Parménide, cit., vol. I, p. 214. 373 non a caso, O’Brien sottintende un infinito (μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν < εἶναι >). Anche Mansfeld14 opta per una (diversa15) resa potenziale in entrambi i casi, proprio per garantire la corrispondenza, pur riconoscendo ininfluente la traduzione con valore esistenziale di B6.2a (come abbiamo scelto di fare). Parmenide potrebbe dunque aver derivato, dall’affermazione della possibilità dell’essere e dalla negazione del nulla, la necessità che l'essere sia16. Resta comunque valida l’obiezione, avanzata da Leszl 17, per cui, attribuendo alle due ricorrenze di ἔστι valori diversi, verrebbe meno la simmetria e soprattutto l'uniformità nell’impiego del verbo. Le due vie di B2 in B6 In apertura di B6, insomma, la Dea ritorna sull’alternativa delineata in B2, precisandola: sottolinea la necessità (correttezza) del riconoscimento dell’ἐόν come oggetto di λέγειν e νοεῖν, escludendo che μηδέν (τό μὴ ἐὸν di B2.7), teorico contenuto della via di ricerca «non è ed è necessario non essere», esista. In pratica ci troviamo di fronte a una riproposizione in positivo della conclusione di B2. La puntualizzazione riguarda «le uniche vie di ricerca per pensare»: alla pura formulazione oppositiva ὅπως ἔστιν\ὡς οὐκ ἔστιν si sostituiscono le espressioni tautologiche – ἐὸν ἔμμεναι, ἔστι εἶναι, e μηδὲν οὐκ ἔστιν, con l’esplicitazione, dunque, di adeguati soggetti logici. 14 Op. cit., p. 90. 15 Traduce: «denn dieses (das Seiende) kann sein, ein Nichts hingegen kann nicht sein». 16 Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 174) ha osservato come l'affermazione iniziale di B6.1 (ἐὸν ἔμμεναι) sia l'enunciazione della prima via di B2, mentre B6.2 enuncerebbe la seconda. Ciò confermerebbe, secondo Colli, i soggetti delle due vie: «ciò che è», «ciò che non è». Questa lettura fa cogliere un nuovo aspetto: nel frammento 6 ci sarebbe una congiunzione delle due vie. Tra la possibilità che l’essere sia e la necessità che il nulla non sia, dovremmo scegliere la possibilità, che così diventerebbe a sua volta necessità. 17 Op. cit., p. 133. 374 In B2 la Dea aveva prospettato due potenziali percorsi di indagine – gli unici «per pensare»: (i) l'uno, ricercava pensando ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, in pratica sviluppando le implicazioni dell'affermazione di esistenza - «è» - e negando possibilità al non-essere: valorizzando il significato arcaico di νοεῖν (come un vedere che coglie immediatamente il proprio oggetto), si potrebbe sostenere che lungo questa pista di indagine il focus era destinato a concentrarsi assolutamente sull'essere; (ii) l’altro, al contrario, tentava la ricerca imboccando la direzione opposta, pensando cioè ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι, nello sforzo di ricavare le implicazioni della negazione «non è» rinforzata dal vincolo di necessità: in tal modo la seconda «via di ricerca per pensare» tracciava un percorso verso il nulla, subito inibito in quanto in tale direzione non vi era «ni-ente» (μηδὲν) da vedere e riferire. La seconda via poteva essere delineata solo come radicale alternativa alla prima e sostanzialmente per confermarne la necessità: non è possibile νοεῖν, nel senso originario di percezione mentale, se non di ciò che è. La Dea, infatti, aveva immediatamente connotato la prima via come Πειθοῦς κέλευθος, in quanto capace di condurre alla vera realtà (Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ): un convincente chiarimento in merito era giunto però solo nei versi successivi, quando, a proposito della via alternativa, ella aveva ammonito che τό μὴ ἐὸν è indisponibile all’effettiva conoscenza ed espressione. In B2.7 la Dea aveva dunque estratto l'oggetto della seconda via, implicitamente ponendo quello della prima. In B6.1-2a, abbiamo l'indicazione in positivo dell'oggetto della ricerca: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι e l'esplicitazione dei soggetti logici adeguati delle formule delle vie: «ciò che è è» (ovvero «l'essere è») e «il nulla [ovvero, letteralmente: ni-ente] non è». A questa lettura – che ha conseguenze, come vedremo, sull'interpretazione dell’intero frammento - si contrappone in particolare 375 quella di Cordero (ma condivisa da altri), secondo cui nel complesso 6.1b-6.2a si registrerebbe la presentazione della prima via18: «il nulla non esiste» di B6.2a sarebbe una semplice riformulazione di 2.3b: «non è possibile non essere», riferendosi quindi alla prima via19. In questo senso si è orientato di recente anche Palmer20. Alla seconda via, a detta di Cordero, la Dea alluderebbe invece subito dopo, connotando l'indiscriminata combinazione di essere e non-essere: le cose dovrebbero essere e non essere allo stesso tempo, come segnalato da B7.1 (εἶναι μὴ ἐόντα «che esistano cose che non sono»). La struttura argomentativa, tuttavia, suggerisce che quanto «è necessario» riconoscere (dire e pensare) - ἐὸν ἔμμεναι – è la compiuta, esplicita espressione della formula per la prima via; a sua giustificazione sono addotte la possibilità dell'essere e l'inesistenza del nulla. È decisivo soprattutto questo rilievo. In B2.6-8 la Dea aveva infatti sottolineato il nesso tra la seconda via e τό γε μὴ ἐὸν: essa era «sentiero del tutto privo di informazioni» (παναπευθής ἀταρπός) in quanto «ciò che non è» è inconoscibile e indiscernibile. La sua negatività è ora tradotta nella tautologia μηδὲν οὐκ ἔστιν, come elemento dimostrativo per richiamare l’attenzione sulla necessità dell'opposto ἐὸν ἔμμεναι. Il guadagno teorico su B2 riguarda sia la riconsiderazione critica (argomentativa) del Πειθοῦς κέλευθος («percorso di Verità»), inizialmente introdotto in forma direttiva, sia la definizione ufficiale del suo oggetto: ἐόν. Il numero delle vie È indicativa la formula utilizzata per valorizzare l’argomento proposto in apertura di B6: la Dea, infatti, con espressione caratteristica dell’epica omerica ed esiodea, insiste: 18 By Being, It Is, cit., p. 99. 19 Ivi, p. 105. 20 Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 112-3. Palmer offre comunque un'interpretazione diversa delle vie. 376 τά σ΄ ἐγὼ φράζεσθαι ἄνωγα Queste cose io ti esorto a considerare, che sembra richiamare l’invito iniziale di B2: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας Orsù, io dirò - e tu abbi cura della parola, una volta ascoltata. Come in quel caso, la Dea sottolinea il rilievo dell’alternativa tra le due vie per la corretta comprensione della realtà: il fraintendimento della loro natura, in effetti, è all’origine della confusione dei «mortali che nulla sanno», come appureremo tra breve. Analogamente, dopo aver presentato la via « è ed è necessario non essere», la Dea si premura di osservare (B2.6): τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν Questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni; in B6.3, allora, ella ribadisce (immediatamente dopo aver affermato che «il nulla invece non è»): πρώτης γάρ σ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < εἴργω > Da questa prima via di ricerca, infatti, ti < tengo lontano >. Questa versione del testo greco, con l’integrazione della lacuna dei codici assunta da Diels (sulla base di una tradizione che risale alla edizione aldina del 1526), è stata vigorosamente avversata da Cordero e abbandonata anche da Nehamas21 (e dalla Curd22), i quali propongono, rispettivamente, di integrare con il verbo ἄρχω-ἄρχομαι (forma media), «cominciare»: 21 A. Nehamas, “On Parmenides’ Three Ways of Inquiry”, «Deucalion», 33-34, 1981, pp. 197-211. 22 Di ciò diamo conto in nota al testo greco. 377 πρώτης γάρ τ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < ἄρξει > since you < will begin > with this first way of investigation, πρώτης γάρ σ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος << ἄρξω > For, first, < I will begin > for you from this way of inquiry. L’esigenza di mettere in discussione la lezione tradizionale, sebbene giustificata da un punto di vista filologico dalla oggettiva corruzione del testo dei manoscritti (con l’ulteriore possibilità che la lacuna si estenda a più versi), è dettata soprattutto dalla incoerenza cui si va incontro interpretando i primi due versi del frammento come ripresa della sola via «che è e che non è possibile non essere», da cui, ovviamente la Dea non potrebbe «trattenere» ovvero «tenere lontano»23, bensì solo «cominciare» o invitare a cominciare. Pur segnalando la lacuna e riconoscendo la coerenza degli argomenti filologici di Cordero, non crediamo necessario integrare secondo la sua lezione 24, ma offrirla solo come possibilità. L’interpretazione che proponiamo è coerente con la lettura tradizionale, dal momento che consente di riferire il complemento iniziale e il dimostrativo ταύτης alla formula μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν. Essa evocava l'unica indicazione desumibile dalla via di indagine «che non è e che è necessario non essere»: l'oggetto che se ne può estrarre in verità non esiste. È probabile che dopo l'enunciazione delle due vie la Dea avesse condotto la discussione a partire dalla seconda, mettendo in guardia dal suo coinvolgimento: B6 e B7 rappresenterebbero la conclusione di tale disamina, mirata ad affermare la necessità del riconoscimento che ἐὸν ἔμμεναι. In questo 23 Noto, per inciso che, nel caso del verso B6.3, Cordero preferisce la lezione τ’ dei codici BC a quella σ’ (pronome personale) di D (con E e F), di cui si era sottolineata, per la lezione del verso precedente, la bontà. Traducendo con il personale «ti», l’integrazione proposta risulterebbe impraticabile nel caso di Cordero, meno naturale nel caso di Nehamas («comincerò per te»). 24 Che appare comunque plausibile, dal momento che la costruzione ἄρχεσθαι + ἀπό è caratteristica nella letteratura greca arcaica. 378 senso, la seconda via prospetta diventa «prima» nell’ordine espositivo. Da questa prima via di ricerca, poi da quella…. Per chi (come Cordero, come noi e come altri) fa leva su B2 per sostenere un modello duale per le vie parmenidee, B6.4-5 propone una difficoltà, che la soluzione di Cordero e Nehamas effettivamente sembra risolvere, indicando una sequenza nell’esposizione della Dea. Adottando la congettura di Cordero avremmo: πρώτης γάρ τ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < ἄρξει > αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται > con questa prima via di ricerca comincerai, poi con quella che mortali che nulla sanno s’inventano. Una sequenza che potrebbe alludere alle due sezioni del poema, e richiamare B8.50-52, considerato passaggio conclusivo della Alētheia e introduzione alla Doxa: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno alla Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando, che può ingannare. 379 Nella tradizione interpretativa, è stata decisiva (come per altri aspetti) la presa di posizione di Karl Reinhardt25, il quale, dal confronto tra B2 e B6, ricavò l’indicazione di tre vie: (i) quella che affermerebbe «l'essere è» (ricavata da B2); (ii) quella che affermerebbe (a) «l'essere non è» (ricavata da B2) ovvero (b) «il nonessere è» (ricavata da B7.1); (iii) infine quella che affermerebbe «l'essere sia è sia non è» ovvero «sia l'essere sia il non-essere sono». La prima via da evitare (nella lettura tradizionale di Diels di B6.3) sarebbe la seconda via di B2; l’altra via da evitare (B6.4) sarebbe allora una terza via rispetto alle due menzionate in B2: dal momento che essa esplicitamente coinvolge la condizione dei mortali, Reinhardt concludeva che dovesse concernere l’ambito dell'opinione26. È proprio per precisare questo passaggio classico delle interpretazioni parmenidee che il nodo delle vie richiede di essere affrontato e risolto (per quanto è possibile) in questa sede. A noi appaiono indiscutibili alcuni punti: (i) B2 delinea in modo netto una alternativa (ἡ μὲν ὅπως... ἡ δ΄ ὡς), marcando l’esaustività («le uniche per pensare ») delle «vie di ricerca» prospettate; (ii) B2 offre con «le uniche vie di ricerca per pensare» due direzioni d'indagine lungo le quali dirigersi: (a) la prima muove dall’immediata evidenza: «è» (ἔστιν), estraendone «essere» (εἶναι) e respingendo la possibilità della sua antitesi (οὐκ ἔστι μὴ εἶναι); (b) la seconda dalla connessa negazione: «non è» (οὐκ ἔστιν), marcando la necessità del non-essere (χρεών ἐστι μὴ εἶναι); (iii) lo stesso B2 registra immediatamente l'asimmetria delle due vie indicate: l'indagine, infatti, non potrà in realtà procedere lungo la seconda, in quanto non potrebbe discernervi alcunché: non è possibile conoscere né indicare «ciò che non è»; (iv) le «vie di ricerca per pensare» sono introdotte come vere e proprie premesse della complessiva esposizione della Dea: le sue 25 Nel suo epocale K. Reinhardt, Parmenides und die Geschichte der griechischen Philosophie, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 1916. 26 Sulla questione molto chiara la ricostruzione di Leszl, op. cit., pp. 120-1. 380 parole («io dirò - e tu abbi cura della parola, una volta ascoltata») suggeriscono il rilievo cruciale dell'alternativa per il kouros (e dunque anche per il discepolo, l’ascoltatore e il lettore); (v) difficile quindi ipotizzare che Parmenide attribuisca alla Dea la responsabilità di sostenere come possibile via di indagine («per pensare»!) la tesi contradditoria: οὐκ ἔστιν ἐόν - «via dell'errore», come vorrebbe Cordero27: è vero, piuttosto, che alla seconda via si alluderà (B8.17-8) come οὐ ἀληθής ὁδός («via non genuina»), percorso di indagine che non può concretizzarsi in conoscenza; (vi) dalle due vie, invece, potranno essere estratte due verità basilari per le successive argomentazioni: l'essere è necessariamente, il non-essere non esiste. Mentre si potrà procedere ulteriormente a determinare la prima via (seguendo i σήματα di B8), nulla potrà dirsi di più della seconda, evocata solo per marcare la necessità della direzione d'indagine alternativa. Come segnala la Germani 28 (e, in una prospettiva diversa, Cordero29 ), potrebbe in questo senso non essere casuale l'eco parmenidea della formulazione aristotelica del principio del terzo escluso: τὸ μὲν γὰρ λέγειν τὸ ὂν μὴ εἶναι ἢ τὸ μὴ ὂν εἶναι ψεῦδος, τὸ δὲ τὸ ὂν εἶναι καὶ τὸ μὴ ὂν μὴ εἶναι ἀληθές dire che l'essere non è o che il non essere è è infatti falso; [dire] che l'essere è e il non essere non è è invece vero (Metafisica IV, 7 1011 b26-27). B6.1-2 costituirebbe, quindi, lo sviluppo della conclusione di B2: la Dea, rievocando (implicitamente) l'alternativa tra le vie, afferma la necessità di riconoscere che «ciò che è è» (ἐὸν ἔμμεναι), attraverso il rilievo della possibilità di «essere» (ἔστι 27 By Being, It Is…, cit., p. 73. 28 Op. cit., p. 193. 29 By Being, It Is…, cit., p. 105 nota. 381 εἶναι), e dell’inesistenza del nulla (μηδὲν οὐκ ἔστιν) 30. In B8.15-18 il passaggio sarà richiamato: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale. Il testo è significativo, secondo noi, perché scandisce efficacemente le sequenze del procedimento parmenideo: (a) introduzione (logica: le vie sono per pensare) della disgiunzione «è\non è»; (b) esclusione della via «che non è» in quanto ἀνόητον e ἀνώνυμον (che richiamano le connotazioni di B2.7-8); (c) riconoscimento dell’unica via praticabile per la ricerca: essa esiste è vera\reale (ἐτήτυμον), mentre l’altra non lo è (non è «genuina», ἀληθής), non può costituirsi, per sua natura, come effettivo percorso di ricerca. Liquidata la via ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι in quanto percorso di ricerca impraticabile («il nulla non è»), prima ancora di dedicarsi al sondaggio dell’unica via genuina (ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), la Dea si sofferma sull’erronea «invenzione» dei «mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν), effetto del colpevole misconoscimento delle implicazioni nell’alternativa ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. Ancorché prospettata come ὁδὸς διζήσιος, la strada imboccata dai βροτοὶ εἰδότες οὐδέν è chiara- 30 L’argomento sarebbe quindi: (i) ἔστι εἶναι, (ii) μηδὲν οὐκ ἔστιν ® ἐὸν ἔμμεναι. 382 mente caratterizzata, nelle scelte espressive dell’autore, come illusione31. L’impotenza dei mortali Il registro linguistico all’interno dei frammenti del poema muta sensibilmente, per assumere i toni della risentita disapprovazione: αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται >, δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον e poi da quella che appunto mortali che nulla sanno, uomini a due teste: impotenza davvero nei loro petti guida la mente errante (B6.4-6). Questi versi assumono una grande importanza soprattutto per lo sfondo culturale che sembrano evocare: Gigon, Verdenius, Pasquinelli, Fränkel sottolineano come la terminologia parmenidea, ricavata da formule consolidate dell’epica e della lirica greca arcaica, veicoli un senso tragico dell’esistenza. Non a caso Jaeger32 richiama i versi del Prometeo eschileo (probabilmente di pochi decenni posteriore al poema Sulla natura): λέξω δὲ μέμψιν οὔτιν’ ἀνθρώποις ἔχων, ἀλλ’ ὧν δέδωκ’ εὔνοιαν ἐξηγούμενος· οἳ πρῶτα μὲν βλέποντες ἔβλεπον μάτην, κλύοντες οὐκ ἤκουον, ἀλλ’ ὀνειράτων ἀλίγκιοι μορφαῖσι τὸν μακρὸν βίον ἔφυρον εἰκῆι πάντα 31 Soprattutto se intendiamo il verbo retto da βροτοί come forma di πλάσσομαι, «mi invento» e non di πλάζω «vado errando», come interpreta Diels, seguito da molti altri. 32 W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, cit., p. 155. L’autore osserva: «par di sentire l’eco di un’esortazione religiosa». 383 Parlerò senza disprezzo per gli uomini, narrando solo del favore dei miei doni. Dapprima essi, pur avendo occhi, in vano osservavano; avendo orecchi non ascoltavano; solo di sogni simili alle forme, la lunga vita impastavano tutta senza disegno (Eschilo, Prometeo incatenato 445-50). Non vi è dubbio che Parmenide, nei versi di B6, sia impegnato a stigmatizzare una condizione mortale, facendo riecheggiare spunti della tradizione letteraria che si possono ancora riscontare nella produzione filosofica del V secolo in Eraclito ed Empedocle. La ἀμηχανίη segna la costituzione dei βροτοί (ricordiamo che è una divinità a parlare, ribadendo un consolidato stereotipo già impiegato dal poeta nel proemio): l’«impotenza» si traduce in una sorta di paralisi della comprensione, in una confusa percezione della realtà e in un vano orientamento. Proprio come denunciato da Prometeo. Ma, rispetto al luogo comune fissato nel mito, Parmenide pone l’accento sull'incapacità di discriminare tra le due vie, e dunque su un intreccio perverso di essere e non-essere: l’obiettivo polemico appare dunque una falsa interpretazione del mondo reale, dell’esperienza, di cui si sottolineerà l’inconsapevole consolidamento nel linguaggio del sentire comune, in una vera e propria “seconda natura” (ἔθος di B7.3)33. La Dea riferisce ai «mortali»una prima serie di caratteristiche negative. Li qualifica come εἰδότες οὐδέν, «che nulla sanno», una formula frequentemente impiegata nell’epica e nella lirica per indicare la limitatezza dell’orizzonte umano34 (concentrato sul presente, immemore del passato e ignorante del futuro)35. Li connota come δίκρανοι, «uomini a due teste», coniando un termine ad hoc per alludere allo specifico deficit di comprensione: la mancata discriminazione tra le due vie comporta che quei mortali guardino contemporaneamente in due direzioni. Attribuisce loro la “finzio- 33 Su questo Ruggiu, op. cit., p. 257. 34 Ivi, p. 259. 35 A questa situazione mortale era stata contrapposta la conoscenza rivendicata in B1.3 (εἰδώς φώς). 384 ne” (πλάσσονται, «si inventano») di una via: invenzione evidentemente frutto della confusione delle «uniche vie di ricerca per pensare». Denuncia la loro ἀμηχανίη, la debolezza per cui la loro mente (νόος) cede all’attrazione del non-essere - alla vertigine del nulla, come si esprime Conche36. In tal modo ella collega a un impulso irrazionale la chiave dell’erranza dei mortali: ἐν αὐτῶν στήθεσιν, «nei loro petti», potrebbe riferirsi a una localizzazione dello θυμός che consenta di differenziarne la funzione rispetto al νόος. Queste determinazioni negative sono ulteriormente accentuate con espressioni che sottolineano la fenomenologia del disorientamento: οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi, sgomenti, schiere scriteriate (B6.6-7). I «mortali», dunque, non sono in controllo di sé; il loro atteggiamento ne svela la radicale incomprensione, che si manifesta a tre livelli: (i) nella perdita di contatto con la realtà: gli organi di senso deputati (la vista e l’udito) producono – nel loro caso dei «mortali» – isolamento, distorsione; (ii) nella conseguente tonalità emotiva della sorpresa37, da intendere nel contesto non come positiva apertura alla comprensione, bensì come sintomo della condizione contraria: profonda confusione; (c) nella mancanza di giudizio38, di discernimento (κρίσις, κρινεῖν), con cui spregiativamente la Dea connota le «schiere» (φῦλα) dei βροτοί, cioè la loro massa, il loro insieme indistinto, come confusa è la loro percezione della realtà. 36 Op. cit., p. 108. 37 Con formula omerica (τεθηπότες): in Omero (Odissea XXIII, 105) lo sgomento era attribuito allo θυμός e localizzato «nel petto» (ἐνι στήθεσσι). 38 Si tratta, a nostro avviso, dell’indicazione più importante nell’insieme del frammento. 385 Le due sequenze su cui ci siamo concentrati sono interessanti perché mostrano lo sforzo di Parmenide, per bocca della divinità, di ridefinire lo stereotipo tradizionale della fragilità mortale: così nel poeta-sapiente non troviamo alcuna condanna dell’uomo in quanto tale, semmai, sin dal proemio, il tentativo di individuare la norma razionale che vincoli umano e divino (Untersteiner). In questo senso la posizione di Parmenide appare vicina a quella del contemporaneo Eraclito: τοῦ δὲ λόγου τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται ἄνθρωποι καὶ πρόσθεν ἢ ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες τὸ πρῶτον· γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε ἀπείροισιν ἐοίκασι, πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιούτων, ὁκοίων ἐγὼ διηγεῦμαι κατὰ φύσιν διαιρέων ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει. τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους λανθάνει ὁκόσα ἐγερθέντες ποιοῦσιν, ὅκωσπερ ὁκόσα εὕδοντες ἐπιλανθάνονται Di questo logos che è sempre gli uomini si rivelano senza comprensione, sia prima di udirlo, sia subito dopo averlo udito; sebbene tutto infatti accada secondo questo logos, si mostrano privi di esperienza, mentre si misurano con parole e azioni quali quelle che io presento, analizzando ogni cosa secondo natura e mostrando come è. Ma agli altri uomini rimane celato [sfugge] quello che fanno da svegli [dopo essersi destati], così come sono dimentichi di quello che fanno dormendo (Sesto Empirico; DK 22 B1) ὧι μάλιστα διηνεκῶς ὁμιλοῦσι λόγωι τῶι τὰ ὅλα διοικοῦντι, τούτωι διαφέρονται, καὶ οἷς καθ’ ἡμέραν ἐγκυροῦσι, ταῦτα αὐτοῖς ξένα φαίνεται proprio dal logos con cui hanno sempre costantemente rapporto, essi discordano, e quelle cose in cui si imbattono quotidianamente appaiono loro estranee (Marco Aurelio; DK 22 B72) ἀξύνετοι ἀκούσαντες κωφοῖσιν ἐοίκασι·φάτις αὐτοῖσιν μαρτυρεῖ παρεόντας ἀπεῖναι 386 ascoltando senza comprensione assomigliano a sordi; di loro è testimone il detto: pur presenti sono assenti (Clemente Alessandrino; DK 22 B34) ὁ Ἡ. φησι τοῖς ἐγρη γορόσιν ἕνα καὶ κοινὸν κόσμον εἶναι, τῶν δὲ κοιμωμένων ἕκαστον εἰς ἴδιον ἀποστρέφεσθαι E. dice che per coloro che sono desti il mondo è unico e comune, invece ciascuno di coloro che dormono ritorna a un proprio mondo privato (Plutarco; DK 22 B89) ξὺν νόωι λέγοντας ἰσχυρίζεσθαι χρὴ τῶι ξυνῶι πάντων, ὅκωσπερ νόμωι πόλις, καὶ πολὺ ἰσχυροτέρως. τρέφονται γὰρ πάντες οἱ ἀνθρώπειοι νόμοι ὑπὸ ἑνὸς τοῦ θείου· κρατεῖ γὰρ τοσοῦτον ὁκόσον ἐθέλει καὶ ἐξαρκεῖ πᾶσι καὶ περιγίνεται Coloro che vogliono parlare con intendimento devono fondarsi su ciò che a tutti è comune, come la città sulla legge, e ancora più fermamente. Tutte le leggi umane, infatti, si alimentano dell’unica legge divina: poiché quella domina quanto vuole, basta per tutte le cose e avanza (Stobeo; DK 22 B114). Senza voler entrare nel dettaglio dell’interpretazione del pensiero di Eraclito, è sufficiente osservare come nelle citazioni sia marcato l’isolamento del sapiente rispetto alle opinioni condivise dai più: il suo discorso consapevole (λόγος) che annuncia come «tutto» accada secondo il logos (che manifesta dunque la struttura stabile del mutamento) è contrapposto all’incomprensione (mancanza di intelligenza della realtà) degli «altri» (uomini). Le espressioni impiegate denunciano chiaramente una condizione di inversione: pur essendo il logos alla base della realtà (in Eraclito abbiamo una delle prime attestazioni di κόσμος come ordine del mondo) che li circonda, gli «uomini» (ἄνθρωποι) ne ignorano la normatività; essi vivono così non da «desti» (ἐγρήγοροι) in una condizione di torpore, stordimento: una sorta di sonnambulismo. L’adesione al logos è adesione a «ciò che è comune» (τὸ ξυνόν) e quindi sensato, oggettivo, diversamente dall’ottusità della incon- 387 sapevole esperienza quotidiana, che convince falsamente di un mondo frammentario, discontinuo, caotico (il tema dell’estraneità). L’«io» della Dea di Parmenide e l’«io» personale di Eraclito sono – come correttamente segnalato da Conche39 - dalla stessa parte, in quanto «cooperatori del vero»; dall’altra ci sono coloro che non giudicano con la ragione: il segreto dell’erranza dei «mortali» è nel loro stesso pensiero40. A noi pare che lo studioso francese abbia colto nel segno sottolineando come l’espressione ἄκριτα φῦλα evochi l’«uomo collettivo», incapace di assumere la decisione (κρίσις) riguardo alle due vie: in questo senso, analogamente a quanto registriamo nei frammenti dell’Efesio, giudicare con intelligenza è possibile solo all’individuo che si distacchi intellettualmente dalle credenze collettive41. Una via “inventata” Per riassumere e concludere sulle vie di B6, ribadiamo la convinzione che Parmenide reiteri, in apertura del frammento, l’alternativa di B2, introducendo poi, in relazione a essa, il tema specifico dell’errore di fondo dei «mortali». Il passaggio alla confusa combinazione delle vie è accompagnato nel testo dal recupero del motivo tradizionale dell’impotenza umana (tanto più significativamente in quanto affidato alle parole di una divinità), che viene tuttavia “curvato” per corrispondere alle peculiari esigenze polemiche dell’autore. Il linguaggio parmenideo sembra insistere soprattutto sulla natura illusoria di una ὁδὸς διζήσιος («via di ricerca»), scaturita in realtà dalla presunzione e debolezza cognitiva dei «mortali». In questo senso esso non avalla alcuna “terza via”, non le riconosce alcuna consistenza, nemmeno sul piano strettamente logico: mentre la via che pensa «che non è e che è necessario non essere» si presentava come uno dei corni della alternativa 39 Non a caso editore sia dei frammenti parmenidei, sia di quelli eraclitei! 40 Conche, op. cit., p. 107. 41 Ivi, p. 108. 388 fondamentale e, pur impercorribile, poteva almeno essere prospettata correttamente, questa presunta “terza via” è stigmatizzata come “invenzione” di «coloro che nulla sanno», dunque come logicamente insostenibile. Le due vie di B2 possono essere ritradotte in forma tautologica in apertura di B6: ἐὸν ἔμμεναι e μηδὲν οὐκ ἔστιν; anche per la seconda via, dunque, a dispetto della sua negatività, è possibile, dunque, estrarre un soggetto, ancorché puramente formale (μηδέν, ovvero τό γε μὴ ἐὸν). Dei βροτοὶ εἰδότες οὐδέν - che nel loro scorretto argomentare e confuso parlare “si fingono” un commercio delle due vie alternative - si rileva invece: οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa (B6.8-9). È opportuno ricordare che Simplicio cita B6.1b-3 (dopo B2), tralasciando l’esordio del nostro frammento e concentrandosi sulla disgiunzione essere-non essere: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα Sostiene che le proposizioni contraddittorie non siano a un tempo vere [letteralmente: la contraddizione non sia vera] in quei versi in cui biasima coloro che mettono insieme gli opposti (In Aristotelis Physicam 117, 2). Precisa inoltre: μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι Dopo aver biasimato coloro che congiungono l’essere e il non-essere nell’intelligibile (Simplicio, Phys. 78, 2; DK 28 B6). 389 Pur non concordando con l’analisi specifica di Leszl (vicina a quella di Cordero), mi sembra inoppugnabile la sua osservazione: Simplicio intende rilevare la contraddizione in cui cadono i mortali combinando termini incompatibili (essere e non-essere). Dei «mortali che nulla sanno» la Dea parmenidea denuncia essenzialmente l’incapacità di discriminare πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι («essere e non essere»), ταὐτὸν κοὐ ταὐτόν («la stessa cosa e non la stessa cosa»), che finiscono per essere contraddittoriamente riferiti a ἐόν. Nella loro finzione, secondo la Dea, essi indifferentemente assumono e combinano termini in realtà contraddittori, senza rendersi evidentemente conto della loro incompatibilità: proprio nella contestazione di tale ingiustificata, infondata assunzione, in questo come nei due successivi frammenti, si appalesa l’accanimento verbale di Parmenide. L’obiettivo della polemica Ma chi sono i «mortali» cui si rivolge l’attacco parmenideo? È possibile individuare un obiettivo specifico, ovvero dobbiamo pensare a una generica presa di posizione? Parmenide si limita a marcare la strutturale, originaria impotenza umana (come vuole Reinhardt), magari per legittimare la funzione rivelatrice della divinità (come vuole Mansfeld), oppure dobbiamo intravedere nei versi di B6 (come nei successivi di B7) la condanna di un errore determinato? Più precisamente: le assonanze espressive giustificano il coinvolgimento di Eraclito (e di suoi non meglio precisati seguaci) come oggetto delle critiche (come credono in molti), o dobbiamo piuttosto supporre che Parmenide prenda posizione in generale rispetto allo sfondo complessivo (e grandioso) della sapienza milesia (come sostengono, tra gli altri e in modo diverso, Untersteiner e Gadamer)? In un certo senso, citando a conferma della nostra lettura i frammenti eraclitei, abbiamo indirettamente già preso posizione, almeno rispetto ad alcune posizione consolidate del dibattito interpretativo. 390 Quella che mortali che nulla sanno s’inventano Se da un lato è corretta l’osservazione di Coxon, per cui in B6.4 il complemento pronominale (ἀπὸ τῆς) si riferisce alla ὁδὸς διζήσιος del verso precedente, e dunque a “ricercatori”, è dall’altro possibile che Parmenide abbia colto l’occasione per polemizzare nei confronti di coloro (il greco indica genericamente βροτοί, «mortali») che propongono un punto di vista ordinario, teoreticamente ingenuo, in una veste ispirata o sapienziale. Nel linguaggio della Dea sarebbero allora apostrofati («nulla sanno», εἰδότες οὐδέν) presunti sapienti che esprimono, in verità, solo opinioni volgari. L’errore ascritto – la mancata discriminazione delle due vie di B2 - potrebbe genericamente riferirsi all’incapacità di offrire una coerente (con le «uniche vie di ricerca per pensare») spiegazione dei processi naturali, preoccupazione esplicitata in B8.38-41 e soprattutto nella seconda sezione del poema. Ricordiamo che anche Eraclito ha modo di sviluppare, nei frammenti pervenutici, una polemica analoga: la sua nuova nozione di saggezza da un lato lo spinge a rifiutare i modelli della tradizione, discutendone lo spessore (il caso di Omero) o la competenza (Esiodo), dall’altro a contestare l’enciclopedismo dei contemporanei: τόν τε Ὅμηρον ἔφασκεν ἄξιον ἐκ τῶν ἀγώνων ἐκβάλλεσθαι καὶ ῥαπίζεσθαι καὶ Ἀρχίλοχον ὁμοίως Sosteneva che Omero fosse degno di essere cacciato dagli agoni e frustato e analogamente Archiloco (Diogene Laerzio; DK 22 B42) διδάσκαλος δὲ πλείστων Ἡσίοδος· τοῦτον ἐπίστανται πλεῖστα εἰδέναι, ὅστις ἡμέρην καὶ εὐφρόνην οὐκ ἐγίνωσκεν· ἔστι γὰρ ἕν Maestro dei più è Esiodo – costui credono sapesse una gran quantità di cose, lui che non aveva conoscenza di giorno e notte: sono infatti la stessa cosa (Ippolito; DK 22 B57) 391 πολυμαθίη νόον ἔχειν οὐ διδάσκει· Ἡσίοδον γὰρ ἂν ἐδίδαξε καὶ Πυθαγόρην αὖτίς τε Ξενοφάνεά τε καὶ Ἑκαταῖον l'apprendimento di molte cose non insegna la sapienza, altrimenti l'avrebbe insegnata a Esiodo e Pitagora e ancora a Senofane e Ecateo (Diogene Laerzio; DK 22 B40) Πυθαγόρης Μνησάρχου ἱστορίην ἤσκησεν ἀνθρώπων μάλιστα πάντων καὶ ἐκλεξάμενος ταύτας τὰς συγγραφὰς ἐποιήσατο ἑαυτοῦ σοφίην, πολυμαθίην, κακοτεχνίην. Pitagora, figlio di Mnesarco, esercitò la ricerca più di tutti gli uomini e raccogliendo questi scritti ne produsse la propria sapienza, il saper molte cose, cattiva arte (Diogene Laerzio; DK 22 B129). L’obiettivo, nel caso di Parmenide, potrebbe dunque essere generale, e coinvolgere le alternative al modello di sapienza filosofica che proprio la Dea interveniva a delineare, sollecitando il kouros a meditare le sue parole e a giudicare con intelligenza. Sul terreno filosofico è difficile pensare che le posizioni della tradizione milesia potessero meritare un'attenzione così critica e sprezzante. Il quadro offerto da Parmenide appare per molti versi analogo a quello delineato a Mileto, con la fondamentale differenza che, nel suo caso, non si punta a riscattare l’instabilità del divenire nella permanenza della φύσις-ἀρχή: nel complesso dei frammenti si può cogliere, semmai, la denuncia della debolezza degli schemi interpretativi ionici, come abbiamo già registrato nel commento a B4. Una polemica, aspra nei toni, come quella di B6 e B7 apparirebbe comunque eccessiva se rivolta effettivamente verso la cultura scientifica di Mileto (sempre ammettendo la praticabilità, all’epoca, di confronti del genere). L’impressione è che essa si rivolga piuttosto a una volgare contraffazione del sapere: Conche ha probabilmente ragione a cogliervi un riferimento alla massa di non filosofi, sordi e ciechi quando si tratta di intendere la parola della Dea, la parola della Verità. Anche in questo caso, potrebbe valere l’analogia con Eraclito. 392 Uomini a due teste All’inizio del secolo scorso Döring42 propose di leggere i versi B6.4-9 come polemica antipitagorica: una prospettiva rilanciata dall’adesione di una quota minoritaria degli specialisti (tra i più autorevoli certamente Raven43). Tra gli assunti di Döring44, soprattutto la convinzione che i primi pitagorici asserissero l’esistenza del vuoto, considerato identico al non-essere: posizione che Parmenide avrebbe riaffermato nella sua «terza via», combinando essere e non-essere. Si tratta, evidentemente, di tesi discutibili, che speculano su una materia molto controversa, non solo per le carenze documentarie, ma anche per la complessità di quel movimento culturale, con la sua tendenza a retroiettare verso l’origine conquiste teoriche maturate nel tempo. È vero, d’altra parte, che proprio queste difficoltà non consentono di escludere che Parmenide, sulle cui relazioni con ambienti pitagorici si è molto insistito, potesse attaccarne posizioni specifiche, immediatamente comprensibili nel contesto storico-culturale in cui erano avanzate, a un pubblico essenzialmente di uditori o discepoli. Raven, in particolare, ha ravvisato in B6.4-9 un riferimento al modello dualistico pitagorico45, in cui lo studioso riconosce un'impronta antica, pre-parmenidea. Esso troverebbe espressione nella tavola degli opposti attestata da Aristotele, riconducibile alla originaria opposizione di limite (πέρας) e illimite (ἄπειρον), cooperanti nella generazione di tutti gli enti46. 42 A. Döring, Geschichte der griechischen Philosophie, vol. I, Leipzig 1903. Dello stesso autore “Das Weltsystem des Parmenides”, «Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik», Raven, Pythagoreans and Eleatics. An Account of the Interaction between the Two Opposed Schools during the Fifth and Early Fourth Centuries B.C., Cambridge University Press, Cambridge 1948. 44 Si veda Tarán, p. 68. 45 Sebbene nella successiva opera con Kirk tale riferimento cada, a favore della possibilità del tradizionale coinvolgimento di Eraclito. 46 Aristotele, Metafisica, I, 5 986 a17-21: τοῦ δὲ ἀριθμοῦ στοιχεῖα τό τε ἄρτιον καὶ τὸ περιττόν, τούτων δὲ τὸ μὲν πεπερασμένον τὸ δὲ ἄπειρον, τὸ δ’ ἓν ἐξ 393 In questo senso, gli uomini «a due teste» (δίκρανοι) cui allude Parmenide potrebbero essere genericamente pitagorici oppure i pitagorici responsabili dell’elaborazione di quel modello dualistico: la testimonianza aristotelica, infatti, a dispetto dell’accenno a un contributo specifico dedicato all’argomento, rivela, (come nel ricorso all’espressione «i cosiddetti pitagorici», οἱ καλούμενοι Πυθαγόρειοι), incertezze di documentazione e difficoltà di determinazione, ricostruendo un percorso di ricerca (dallo studio matematico all'applicazione dei suoi principi a tutta la realtà) che potrebbe implicare un'evoluzione delle posizioni interne alla scuola. In ogni caso è per noi significativo il riferimento ad Alcmeone (contempoaneo di Parmenide) in relazione alla tavola delle due serie di contrari: ὅνπερ τρόπον ἔοικε καὶ Ἀλκμαίων ὁ Κροτωνιάτης ὑπολαβεῖν, καὶ ἤτοι οὗτος παρ’ ἐκείνων ἢ ἐκεῖνοι παρὰ τούτου παρέλαβον τὸν λόγον τοῦτον· καὶ γὰρ [ἐγένετο τὴν ἡλικίαν] Ἀλκμαίων [ἐπὶ γέροντι Πυθαγόρᾳ,] ἀπεφήνατο δὲ παραπλησίως τούτοις· φησὶ γὰρ εἶναι δύο τὰ πολλὰ τῶν ἀνθρωπίνων, λέγων τὰς ἐναντιότητας οὐχ ὥσπερ οὗτοι διωρισμένας ἀλλὰ τὰς τυχούσας [...] In tal modo pare pensasse anche Alcmeone Crotoniate, sia che questi prendesse tale dottrina da quelli, sia quelli da questo; poiché, quanto a età, Alcmeone fiorì quando Pitagora era vecchio, e si espresse in modo molto simile a costoro. Sosteneva, infatti, che la maggior parte delle cose umane sono dualità, pur non determinando, come fanno questi, le opposizioni, ma proponendole a caso [...] (Metafisica I, 5 986a 27-34). ἀμφοτέρων εἶναι τούτων (καὶ γὰρ ἄρτιον εἶναι καὶ περιττόν), τὸν δ’ ἀριθμὸν ἐκ τοῦ ἑνός, ἀριθμοὺς δέ, καθάπερ εἴρηται, τὸν ὅλον οὐρανόν [Essi pongono] come elementi del numero il pari e il dispari; di questi, il primo è illimitato, l'altro limitato. L’Uno deriva da entrambi questi elementi (è, infatti, insieme, e pari e dispari). Dall’Uno, poi, deriva il numero; e i numeri, come s’è detto, costituirebbero l’intero universo. 394 Secondo la Timpanaro Cardini47, dalla testimonianza aristotelica si può concludere che, come alla fisica ionica andava probabilmente ricondotta l'originaria dualità pitagorica (ἄπειρον-πέρας), così alla cultura scientifica milesia dovevano risalire quelle opposizioni (riscontrate poi nella pratica medica) che Alcmeone contribuì a introdurre nell'ambiente pitagorico, dove avrebbero ricevuto una elaborazione sistematica. Insomma, non è da escludere, a livello teorico, che le allusioni critiche dei versi parmenidei possano investire temi e figure di una tradizione che doveva risultare riconoscibile nello humus locale: in un’epoca per la quale è difficile valutare l’incidenza della distanza degli ambienti culturali, non vi è dubbio che appaia plausibile una referenza pitagorica. Sul rapporto con la tradizione pitagorica avremo comunque modo di tornare nel commento a B8. Il percorso torna all'indietro Sin dall’Ottocento (Bernays) è maturata tra un numero consistente di accreditati interpreti (Diels, Kranz, Mondolfo, Guthrie, Tarán, Couloubaritsis, Giannantoni, Cerri, Graham, tra gli altri) la convinzione che il vero obiettivo della polemica di B6.4-9 sia Eraclito (o, in alternativa, suoi presunti seguaci). Si va dalla supposizione motivata da considerazioni di contenuto (Guthrie48), alla lettura sostenuta dall'attenzione per la forma logica dei frammenti (Tarán e Couloubaritsis), alle conclusioni giustificate da assonanze espressive (per esempio Cerri). Sono spesso impiegati, come possibili evidenze testuali, le seguenti citazioni eraclitee: οὐ ξυνιᾶσιν ὅκως διαφερόμενον ἑωυτῶι ὁμολογέει· παλίντροπος ἁρμονίη ὅκωσπερ τόξου καὶ λύρης 47 Pitagorici antichi, Testimonianze e frammenti, a cura di M. Timpanaro Cardini, Bompiani, Milano 2010 (edizione originale 1958-1964), pp. 134- 135. 48 Op. cit., p. 23. 395 non capiscono che ciò che è differente concorda con se medesimo: armonia di contrari, come l’armonia dell’arco e della lira (Ippolito; DK 22 B51) συνάψιες ὅλα καὶ οὐχ ὅλα, συμφερόμενον διαφερόμενον, συνᾶιδον διᾶιδον, καὶ ἐκ πάντων ἓν καὶ ἐξ ἑνὸς πάντα congiungimenti: intero e non intero, concorde discorde, armonico disarmonico, da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose (Pseudo-Aristotele [de mundo 5 396 b7]; DK 22 B10) ποταμοῖς τοῖς αὐτοῖς ἐμβαίνομέν τε καὶ οὐκ ἐμβαίνομεν, εἶμέν τε καὶ οὐκ εἶμεν Negli stessi fiumi entriamo e non entriamo, siamo e non siamo (Eraclito; DK 22 B49a) ποταμῶι γὰρ οὐκ ἔστιν ἐμβῆναι δὶς τῶι αὐτῶι non si può discendere due volte nel medesimo fiume (Plutarco; DK 22 B91a). Nel testo di Parmenide si valorizzano per il confronto gli ultimi due versi (per lo più tradotti diversamente49): οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso torna all'indietro. 49 La resa italiana più frequente è la seguente: per i quali l’essere e il non essere sono considerati la stessa cosa e non la stessa cosa: di tutte le cose c’è un percorso che torna indietro. 396 Secondo Tarán, la sottolineatura parmenidea riferirebbe a Eraclito (DK 22 B10) l’identità dei contrari come identità-nelladifferenza, secondo un modello del “sì e no”50, che l’Eleate ricondurrebbe all'opposizione fondamentale essere-non essere (per cui appunto «l’essere e il non essere sono considerati la stessa cosa e non la stessa cosa»). In questo senso, secondo Couloubaritsis, l’attacco di Parmenide sarebbe rivolto a una impostazione (quella eraclitea) ancora prossima alla logica ambivalente del mito, in cui la complementarità degli opposti suppone un legame indissociabile. Eppure lo studioso belga, nella modalità eraclitea di pensare gli opposti, riconosce già una presa di distanze da quella ambivalenza, soprattutto per l’introduzione di un’opposizione più inglobante, comune a tutti, quella appunto di essere e non-essere (DK 22 B49a, B91)51. Proprio la rottura radicale di quella logica caratterizzerebbe la κρίσις della Dea parmenidea, discriminante dunque allo stesso tempo anche rispetto alla posizione di Eraclito52. Ancora di recente, Graham53 ha proposto di leggere l’ontologia parmenidea come reazione prodotta dall’impatto dell’opera di Eraclito, la cui provocazione sarebbe consistita nella esasperazione della polarità presente nel modello ionico, con l’abbandono dell’idea di primato di una «sostanza generatrice» a vantaggio di quella di processo universale, regolato da una legge di scambio di masse elementari (fuoco, terra, acqua). A questi elementi di contenuto o struttura, si aggiunge poi il riscontro di un’eco espressiva eraclitea, quasi Parmenide intendesse colpire un avversario evocandone le parole. Sebbene Tarán, a proposito del conclusivo πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος, metta in guardia dalla tentazione di leggervi un puntuale riferimento alle parole di Eraclito (DK 22 B51)54, altri hanno molto insistito su questo punto: tra i contemporanei, per esempio, Cerri 50 Tarán, op. cit., p. 71. 51 Couloubaritsis, op. cit., p. 199. 52 Ivi, p. 200. 53 Per esempio, sia in Explaining the Cosmos, sia in The Texts of Early Greek Philosophy. 54 Semmai vi si dovrebbe ravvisare la caratterizzazione delle vedute degli assertori dell’identità dei contrari (p. 72). 397 trova conferma in B6.9 di una vera e propria «tecnica della citazione», già emersa nel proemio con la evocazione del mito di Fetonte e delle Eliadi55. Come Tarán e Couloubaritsis, anche lo studioso italiano marca vicinanza e distanza specifica della posizione di Parmenide rispetto a Eraclito, il quale, pur avendo anticipato la teoria dell'identità nella (apparente) differenza, manifestò nei suoi enunciati paradossali viva consapevolezza della problematicità di tale verità, delle oggettive contraddizioni insite nella realtà naturale e umana 56. Così non vi è dubbio, secondo Cerri, che siano proprio le formule scelte da Eraclito, del tipo «è e non è», a essere imputate da Parmenide: il filosofo di Efeso avrebbe infatti praticato quella (presunta) “terza via” denunciata dall’Eleate57. Lo studioso italiano, inoltre, sottolinea come le scelte lessicali di Simplicio, nel citare B6, mostrino come egli avesse inteso che la (presunta) “terza via” del frammento non si riferisse a un ingenuo atteggiamento ordinario della mente umana, ma alla tesi specifica di un indirizzo filosofico: il linguaggio impiegato dal commentatore, infatti, sarebbe quello con cui la tradizione peripatetica connotava inequivocabilmente la dottrina eraclitea58. Questa osservazione, tuttavia, non comporta alcunché riguardo all'identificazione del referente dell’attacco di Parmenide: tra gli specialisti è noto, infatti, come le ricostruzioni platonica e aristotelica propongano un’anomalia di fondo, che si ritiene effetto dei peculiari canali nella ricezione delle opinioni dei pensatori arcaici. Le prime collezioni delle loro tesi, infatti, sarebbero da attribuirsi, nella seconda metà del V secolo a.C., ai sofisti Ippia59, che avrebbe approntato una selezione per temi, e Gorgia, che invece avrebbe disposto il materiale per contrapposizioni teoriche: è dunque molto probabile che la versione offerta da chi (Platone e 55 Cerri, op. cit., p. 208. 56 Ivi, p. 206. 57 Ibidem. 58 Ivi, p. 208. 59 J. Mansfeld, “Aristotle, Plato and the Preplatonic doxography and chronography”, in G. Cambiano (ed.), Storiografia e dossografia nella filosofia antica, Torino 1986, pp. 1-59. A. Patzer, Der Sophist Hippias als Philosophiehistoriker, Münich 1986. 398 Aristotele appunto) diede inizio alle prime forme di storiografia filosofica risentisse profondamente di quegli schemi riduttivi60. Mansfeld61 ha marcato come ciò risulti particolarmente evidente proprio nel caso di Eraclito e di Parmenide: del primo sarebbero stati esasperati la dottrina del flusso universale e della diversità (a scapito delle affermazioni su unità e stabilità); del secondo il motivo dell’Uno e dell’immobilità62. In realtà, come abbiamo già avuto modo di rilevare in precedenza, è possibile leggere i frammenti di Eraclito in una prospettiva alternativa, tale da rendere problematici le facili schematizzazioni. L’Efesio, in effetti, proprio nelle citazioni sopra riportate, potrebbe essere impegnato in un'operazione analoga a quella parmenidea: considerare i modelli cosmologici e cosmogonici della prima riflessione ionica e delle teogonie poetico-religiose per estrapolarne gli schemi ricorrenti, sviluppando così la prima indagine sistematica sulle forme della razionalità applicata alla ricerca. Concretamente questo si sarebbe tradotto nel rilievo di tre aspetti essenziali: i) l'universale pervasività del divenire; ii) la forma inerente al divenire; iii) la stabilità persistente nel divenire. Significativa anche l’altra convergenza già segnalata: Eraclito esplicitamente polemizza con alcune figure della tradizione - Omero, Esiodo, Archiloco - e intellettuali contemporanei - Pitagora, Senofane, Ecateo - dalla cui sapienza egli si proponeva, evidentemente, di prendere le distanze, per delinearne, consapevolmente, quasi marcandone la novità, una propria. Eraclito manifesta una verità – relativa alla costituzione del mondo fisico e umano - a cui, pur avendone potenzialmente accesso attraverso esperienza e riflessione, la maggioranza degli uomini - indicata spregiativamente con l’espressione «i molti» (οἱ πολλοὶ) - rimane estranea. In questo senso, analogamente al kouros privilegiato dalla rivelazione della Dea, egli avverte e marca il proprio isolamento, sottolineando lo scarto tra una visione che va 60 Sebbene sia plausibile che Platone e Aristotele (e i suoi discepoli Teofrasto e Eudemo) avessero accesso a un manoscritto dell’intero poema. 61 F. Mansfeld, “Sources”, in A.A. Long (ed.), The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, C.U.P., Cambrdige 199, pp. 22-44. 62 Ivi, p. 27. 399 al fondo delle cose afferrandone la natura e la semplice, superficiale erudizione (πολυμαθίη) o la percezione parziale e distorta che impronta le credenze degli uomini (δοξάσματα). La pluralità delle cose è da lui colta come unitaria connessione cosmica, all’interno di due limiti essenziali: i) il «logos che è sempre» (τοῦ δὲ λόγου τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ); ii) la totalità degli enti che «sempre divengono secondo questo logos» (γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε). Eraclito sottolinea il valore di norma del λόγος rispetto a ogni accadere, con allusioni all’unità della legge civile (νόμος) - cui si riconduce la identità della polis - e alla unicità della legge divina (cui si riducono quelle umane), e ne afferma la funzione strutturante all’interno dei singoli enti. Così, con riferimento al λόγος, «tutto è uno» 63, sia nel senso che le cose sono tra loro unitariamente organizzate secondo il suo piano, sia nel senso che nella natura di ogni singola cosa si riflette il suo schema. Il λόγος è la legge che regola il prodursi e il divenire degli enti nel mondo, pur rimanendo natura nascosta allo sguardo superficiale. È in considerazione di questi elementi teorici (al di là dei problemi di cronologia relativa, di non facile risoluzione64) che la supposizione di una polemica specificamente antieraclitea appare esagerata, a meno di non insistere su un atteggiamento in realtà più complesso (come sembrano fare Graham, Cerri e Couloubaritsis). Cerri, per esempio, riconoscendo come a Eraclito sia da attribuire un ruolo decisivo (da «archegeta») nella ricostruzione della dottrina dell’«essere», giustifica l’attacco di Parmenide come effetto dell’irritazione di fronte a un’incongruenza (la combina- 63 DK 22 B50: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι non me ascoltando, ma il logos, è saggio convenire che tutto è uno. 64 Su questo tra gli altri Conche (p. 108) e Colli (p. 178).] [zione di «è» e «non è»), che rischiava di vanificarne l’intuizione scientifica65. In questo senso, però, le battute parmenidee sembrano destinate a stigmatizzare un errore ovvero un'incoerenza che il sapiente poteva cogliere non solo nelle espressioni della cultura tradizionale, ma anche nelle posizioni della stessa sapienza ionica. Ipotizzando per le opere degli autori presocratici – come ha fatto di recente Maria Laura Gemelli Marciano66 - un «contesto culturale e pragmatico» molto «concorrenziale», e concedendo quindi una circolazione sufficientemente ampia delle idee nel bacino del Mediterraneo, potremmo attribuire alla polemica parmenidea un riferimento generico e specifico a un tempo: (i) agli ignoranti colpevoli di fondamentali fraintendimenti dei propri dati sensoriali (da cui l’insistenza sull’ottundimento degli organi percettivi: cecità, sordità); (ii) ai poeti responsabili della divulgazione di quel volgare stravolgimento della realtà; (iii) ai pensatori ionici, che non avevano evitato un’ambiguità di fondo, riconoscendo la forza del principio a un elemento a scapito degli altri, concentrando l’essere in un’area della realtà, piuttosto che in un’altra; (iv) al limite allo stesso Eraclito, essenzialmente per le sue provocatorie enunciazioni di un logos che, per altri versi, Parmenide avrebbe dovuto apprezzare: formule in cui, pericolosamente dal punto di vista eleatico, essere e non-essere si trovavano accostati. Al centro dell’attacco dell’Eleate – come confermerà B7 – sono gli “uomini della contraddizione”, coloro che implicano – consapevolmente o meno67 – l’assurdo: «che siano cose che non sono»; in altre parole coloro («schiere senza giudizio») che, affidandosi acriticamente al dato empirico, condizionati dai meccanismi irriflessi dell’abitudine, avanzano una inaccettabile terza via. 65 Cerri, op. cit., p. 209. 66 M.L. Gemelli Marciano, "Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et destinataires", in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, pp. 83-114. 67 In questo senso la lettura di Gallop (pp. 11-12), che attribuisce alle convinzioni dei mortali riguardo a pluralità e divenire l’«assurda implicazione» che «essere e non-essere sono la stessa cosa e non la stessa cosa». 401 Come osserva Coxon68, la formulazione τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν è da leggere in opposizione alla tesi di B6.1a: χρὴ τὸ λέγειν τε νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι: il verbo νομίζω, con la sua soggettività, è contrastato dai positivi (e oggettivi) λέγειν e νοεῖν. Conche giustamente può marcare come l’espressione «mortali che nulla sanno» si riferisca alla massa di non filosofi, che Parmenide trova sordi e ciechi quando tenta di far intendere la parola della Dea, la parola della Verità69. Né va dimenticato un rilievo di Jaeger: νενόμισται evocherebbe non l’opinione di un uomo o di qualche individuo, ma la communis opinio, «la perversione del nomos dominante (cioè della tradizione)»70. A questa ignoranza, tuttavia, è possibile fossero associate nella condanna anche quelle espressioni scientifico-filosofiche in cui il discrimine tra «le uniche vie di ricerca per pensare» appariva debole o confuso: un fronte potenzialmente ampio, dai Milesi a Eraclito, passando per i pitagorici, la cui reale presenza polemica è comunque solo ipotetica. 68 Op. cit., p. 185. 69 Op. cit., p. 109. 70 W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, cit., p. 170, nota 36.  [B7] Il frammento, ricostruito nel corso delle successive edizioni Diels e Diels-Kranz, è un collage di diverse citazioni: (i) Platone (Sofista 237 a 8-9) e Simplicio (In Aristotelis Physicam 143, 31–144, 1) riportano il secondo emistichio del primo verso e l’intero secondo verso; (ii) Aristotele (Metafisica XIV, 2 1089 a) riproduce l’intero primo verso; (iii) Sesto Empirico (Adversus Mathematicos VII, 111) trascrive i versi 2-6, citandoli di seguito a B1.28-32 e completandoli con B8.1b-2a; (iv) Diogene Laerzio (IX, 22) ci conserva i versi 3-5. Le sovrapposizioni sembrano quindi assicurare la plausibilità dell’attuale ricostruzione e la ragionevole unitarietà del frammento1, nonché la sua probabile saldatura con B8, in considerazione del fatto che il secondo emistichio dell’ultimo verso di B7 citato da Sesto corrisponde al primo verso della citazione dell’attacco di B8 in Simplicio. Anche da un punto di vista argomentativo appare piuttosto stretto il nesso tra B6, B7 e B82 e la loro dipendenza logica da B2 e B3. Coxon3 ritiene possibile che B7 seguisse B4, a causa dell’uso iniziale del plurale μὴ ἐόντα che richiamerebbe ἀπεόντα-παρεόντα (B4.1). Mansfeld4 - che propone la sequenza di tre blocchi logici (B2-B3, B6-B7, B8) – riconosce la possibilità che B5 si collochi tra il primo e secondo blocco. Rispetto all'attuale ricomposizione del frammento, rimane aperto il problema della (parziale) citazione sestiana in continuità con il proemio (e per questo accolta originariamente da Diels nel primo frammento del poema5 ), cui possiamo aggiungere anche quello linguistico e metrico, ipotizzando l'ulteriore continuità di 1 Tarán, op. cit., p. 76. 2 Mansfeld, op. cit., pp. 91-2. 3 Op. cit., p 189. 4 Op. cit., p. 92. 5 Di recente Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 49 ss.), che è sostanzialmente tornato a riproporre l'originale versione dielsiana. 403 B7.6[a] con B8.1[b]6. Attribuire l'origine delle difficoltà a una libera citazione antologica da parte di Sesto, ovvero a una sua citazione da antologia poco affidabile7, non appare del tutto convincente, soprattutto alla luce del fatto che da Sesto abbiamo l'unica citazione dell'intero proemio, con tracce della redazione psilotica originaria (quindi di una tradizione alternativa a quella attica): è possibile, dunque, che «egli disponesse di una buona copia del proemio, derivata verosimilmente da un esemplare di tutto il poema»8. Nel caso della sua citazione sarebbe semmai da valutare l'intenzione teoretica di fondo: mentre Simplicio esplicitamente si impegnava a documentare passi di un'opera ormai irreperibile, Sesto potrebbe aver consapevolmente "montato" parti del poema originariamente distinte, in funzione di un assunto generale: respingere la validità della sensazione come vero strumento di conoscenza9. Nonostante perduranti perplessità, negli ultimi decenni la critica si è mostrata tuttavia propensa a riconoscere la fondatezza della ricostruzione di Diels-Kranz anche riguardo al presente frammento. Non è in discussione, in ogni caso, il suo ruolo critico, per noi condizionato dalla ricezione di B6 e dalla soluzione del problema delle “vie”. Una via che è impossibile addomesticare L’attacco del frammento, infatti, ci proietta ancora sulla krisis di B2, ribadita all’inizio di B6: 6 Nella citazione di Sesto, il verso iniziale di B8 costiuisce il secondo emistichio (b) di B7.6a (ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα). Ma la forma tràdita - μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο - è improbabile in epica, dove si troverebbe μοῦνος (in vece di μόνος); d'altra parte, rettificandola, l'intero verso non reggerebbe metricamente. 7 Per esempio Plamer, Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., p. 380. 8 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 31. 9 Ivi, p. 30. 404 οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα· Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero (B7.1-2). Il senso del primo verso coincide con la reiterazione della condanna della contraddizione, da cui la Dea mette in guardia il kouros, con scelte espressive (ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος, ma anche εἶργε νόημα, se accettiamo l’integrazione Diels per la lacuna di B6.2) che richiamano evidentemente il frammento precedente. Il nume sembra ancora impegnato a denunciare gli «uomini a due teste» (δίκρανοι), uomini della contraddizione appunto, formalizzandone in questo passaggio, nei termini delle «uniche vie di ricerca per pensare» (ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός […] νοῆσαι B2.2), l’assurdità. Un pensare “selvaggio” Due elementi spingono in questa direzione: (i) l’espressione introduttiva (oὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ) secondo cui è inammissibile che «cose che non sono» (μὴ ἐόντα) «sono [esitono]» (εἶναι); (ii) il sostantivo νόημα, che, come vedremo, può essere messo in relazione sia con la formula κρῖναι δὲ λόγῳ, («giudica invece con il ragionamento» ovvero valuta discorsivamente, attraverso l'argomentazione), sia, per contrasto, con ἔθος πολύπειρον, l’«abitudine» nata dalle «molte esperienze». Per quanto riguarda il primo aspetto, la traduzione che abbiamo adottato è sostanzialmente quella tradizionale, che Diels suggerì sulla scorta della lezione platonica e Tarán ha difeso per la sua sensatezza. Da O’Brien e Conche ne è stata proposta una versione più letterale (di cui si è data notizia in nota alla traduzione), che aiuta a comprendere il valore dell’affermazione εἶναι μὴ ἐόντα: «Jamais, en effet, cet énoncé ne sera dompté», «For never shall this [wild saying] be tamed» (O’Brien); «Car jamais ceci se- 405 ra mis sous le joug» (Conche). Ciò che la Dea vuol manifestare è l’insostenibilità, l’illegittimità della tesi che può ricavarsi dalla confusa posizione dei mortali «che nulla sanno». La contraddittoria commistione delle «due vie» (che si fondano sull’immediata evidenza «è» e sulla sua negazione), il mancato apprezzamento della loro disgiunzione, si traducono in una “selvaggia” (bestiale) contaminazione, che è impossibile “domare”, “aggiogare”, ricondurre a norma. Liddell-Scott-Jones propongono per damázw, in questo caso, proprio in relazione a questa attestazione parmenidea, lo specifico valore di «to be proved». La durezza della presa di posizione della Dea, che reitera le formule sprezzanti del frammento precedente, non si giustifica come semplice messa in guardia rispetto alla inconcludenza della “seconda via” (ὡς οὐκ ἔστιν), il cui statuto, ricordiamolo, era stato immediatamente definito in termini inequivocabili10: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo (B2.6-8). Ciò che viene stigmatizzato è piuttosto il fraintendimento corrente, consapevole o meno: il nume si riferisce a quelle posizioni che assumono esplicitamente o comunque implicano l’esistenza del non-essere. 10 Insiste su questo punto, in diversi passaggi del capitolo 5 (Parmenides’ Poem), la Wilkinson; in particolare pp. 77-8. 406 Cose che non sono Non è ovviamente sfuggito agli interpreti il fatto che in questi versi Parmenide utilizzi il plurale - εἶναι μὴ ἐόντα (una infinitiva, per altro, con soggetto senza articolo, così da lasciarlo indeterminato). Si è per lo più voluto cogliere in questa scelta un rilievo polemico nei confronti dell'esperienza sensibile11, di una “via” dei sensi che cerca di attribuire esistenza a cose che non esistono. Anzi, secondo Cordero12, la critica delle attestazioni sensibili salderebbe gli ultimi versi di B6 all’intero B7, in un complessivo attacco al πλακτὸς νόος dei mortali. Insomma, l’infinitiva iniziale (εἶναι μὴ ἐόντα), riassumendo B6.8-9, denuncerebbe l’esito di un modo di pensare – quello di «mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν) – condizionato, dalla fiducia nel dato sensibile e dalla guida di un intelletto instabile, a credere che esistano cose che non sono13. Parmenide avrebbe impiegato il plurale (μή ἐόντα) e non il singolare (μή ἐόν) perché il pensiero "selvaggio" di chi si allontana dalla strada dell’essere è esercitato a partire dalle cose che si presentano nell’esperienza14. In questo passaggio il filosofo non intenderebbe, tuttavia, riferirsi al «non-essere», non sarebbe impegnato a rigettare la seconda via15, ma a rilevare la contraddizione indotta dal fraintendimento dell’esperienza16. L’insistenza su questo punto nei due frammenti che precedono (secondo le ipotesi di ricostruzione cui abbiamo introduttivamente accennato) la lunga analisi della “prima via” in B8.1-49, rivela come esso sia cruciale nella economia del discorso di Parmenide, soprattutto in funzione della seconda sezione del poema. 11 Tarán, op. cit., p. 77. 12 By Being, It Is, cit., p. 129. 13 Ivi, p. 130. 14 Ruggiu, op. cit., p. 263. 15 Come ritengono Cordero e Tarán. 16 Conche, op. cit., p. 117. 407 Una posizione diversa e più specifica in proposito è quella espressa da Coxon17, secondo cui il contesto di B7 sarebbe quello di una critica non genericamente condotta nei confronti dell'esperienza sensibile o del suo fraintendimento, ma delle teorie fisiche precedenti e contemporanee. Ciò sarebbe confermato da Simplicio (In Aristotelis Physicam 650, 11-2), che cita il verso 2 proiettandolo nella discussione aristotelica degli argomenti del V secolo a favore o contro l’esistenza dello spazio vuoto: καὶ τὸ κενὸν οὐκ ἔχει χώραν ἐν τῷ παντελῶς ὄντι, ὥσπερ οὐδὲ τὸ μὴ ὄν non può esservi il vuoto in ciò che è in senso pieno, così come non può esservi il non-essere. Nella sottolineatura parmenidea dell'inesistenza di «cose che non sono», avremmo allora una contestazione delle teorie ioniche (i processi di condensazione-rarefazione cui alluderebbe anche B4, i cui ἀπεόντα-παρεόντα sarebbero evocati appunto da μὴ ἐόντα), e probabilmente delle posizioni di alcuni pitagorici sul vuoto: logicamente B7.1-2 dipenderebbe da B2 e B4, in quanto a essere coinvolta nell’attacco sarebbe appunto la supposizione che esista il vuoto (equiparato al non-essere), condizione per discriminare l’Essere in ἐόντα. In pratica la Dea richiamerebbe il kouros (in questa prospettiva essenziale l’enfasi sul «tu» personale) dalla tentazione di seguire coloro che asseriscono l’esistenza del non-essere (vuoto)18. In effetti, come ci ricorda anche la Wilkinson19, il concetto di «non-essere» sarebbe associato nella riflessione arcaica al termine e alla nozione pitagorica di ἄπειρον (illimitato): come risulta dalla testimonianza aristotelica, i Pitagorici sostenevano che, dall'esterno «illimitato soffio» (ἐκ τοῦ ἀπείρου πνεύματος), il vuoto (τὸ κενόν) fosse penetrato nell'universo (οὐρανός) come «respiro» (πνεῦμα), costituendo lo spazio discriminante e distanziante le cose: 17 Op. cit., p. 189. 18 Ivi, pp. 190-191. 19 Op. cit., p. 101. 408 εἶναι δ’ ἔφασαν καὶ οἱ Πυθαγόρειοι κενόν, καὶ ἐπεισιέναι αὐτὸ τῷ οὐρανῷ ἐκ τοῦ ἀπείρου πνεύματος ὡς ἀναπνέοντι καὶ τὸ κενόν, ὃ διορίζει τὰς φύσεις, ὡς ὄντος τοῦ κενοῦ χωρισμοῦ τινὸς τῶν ἐφεξῆς καὶ [τῆς] διορίσεως· καὶ τοῦτ’ εἶναι πρῶτον ἐν τοῖς ἀριθμοῖς· τὸ γὰρ κενὸν διορίζειν τὴν φύσιν αὐτῶν Anche i Pitagorici affermavano che esistesse il vuoto e che esso dall'illimitato soffio penetrasse nell'universo come se questo respirasse, e che è il vuoto a delimitare le nature, quasi il vuoto fosse una sorta di separatore e divisore delle cose che sono in successione. Questo accade in primo luogo tra i numeri: il vuoto, infatti, distingue la loro natura (Aristotele, Fisica IV, 6 213 b22-27). Come abbiamo osservato commentando B6, l’ipotesi di un confronto con le tesi pitagoriche è suggestiva, anche per l’ambiente culturale cui si rivolgono i versi di Parmenide: le indicazioni di Coxon, in effetti, sono supportate dall’uso di aggettivi come ἔμπλεόν (B8.24) – riferito a ἐόν - ovvero πλέον (B9.3) per «pieno»: Οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος Né è divisibile, poiché è tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. (B8.22-24). Αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, 409 e queste, secondo le rispettive proprietà, a queste cose e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla. (B9). Nei due diversi contesti – la sezione sulla Verità per B8, e, quasi certamente, quella sulla Opinione, per B9 -, Parmenide associa a ἐόν e πᾶν omogeneità e pienezza, evidenziando, nel secondo caso, l’assenza del nulla. Ciò farebbe supporre implicito il rifiuto del «vuoto» (τὸ κενόν) e la sua identificazione con il nonessere (μηδέν, «nulla» appunto), che solo Melisso avrebbe esplicitamente sostenuto: οὐδὲ κενεόν ἐστιν οὐδέν· τὸ γὰρ κενεὸν οὐδέν ἐστιν· οὐκ ἂν οὖν εἴη τό γε μηδέν Né esiste alcunché di vuoto: il vuoto, infatti, è nulla; e ciò che è nulla non può esistere (DK 30 B7.7). Coxon20 nota come Aristotele – nella discussione sul vuoto commentata da Simplicio (In Aristotelis Physicam 650, 11), cui si riferisce la citazione di B7.2 – coinvolga sul tema, oltre a Leucippo e Democrito, solo i Pitagorici: essi avrebbero appunto attribuito al vuoto una funzione discriminante, all’origine della pluralità (in primo luogo dei numeri). La proposta di Coxon non è, tuttavia, del tutto convincente nello specifico, in quanto non è sufficiente a spiegare il ricorso a μὴ ἐόντα per indicare il vuoto. Forse giustificato per designare i supposti enti molteplici, effetto dell’assunzione del vuoto-nulla, l’uso del plurale – come conferma anche il lessico di Melisso - sembra improprio in riferimento a qualcosa che è in sé indiscriminabile e inconsistente. Appare dunque più probabile che l’apertura dell’attuale B7 riprenda la polemica aperta in B6 contro gli «uomini a due teste», formalizzandola in relazione alla krisis di B2: il γὰρ del primo verso sottolinea una continuità argomentativa che potrebbe trova- 20 Coxon, op. cit., pp. 189-190. 410 re, nella formula contraddittoria εἶναι μὴ ἐόντα, la possibilità di stigmatizzare con rigore l’assurdità implicita nelle assunzioni di βροτοὶ εἰδότες οὐδέν. Forse la lettura di Mansfeld 21 è incauta nell’assumere la validità dell’integrazione εἴργω di Diels per B6.3, ma la proposta complessiva è di grande interesse: i primi due versi di B7 riformulerebbero B6; εἶργε (B7.2) richiamerebbe εἴργω (B6.3), completandone il senso con un chiaro esempio di composizione ad anello. L’attacco ai «mortali che nulla sanno» sarebbe dunque compreso tra il primo richiamo alla disgiunzione fondamentale (B6.1-2: ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν) e l’invito a «giudicare con il ragionamento» (κρῖναι δὲ λόγῳ): due modi per evocare la krisis di B2, prima e dopo la descrizione del mondo umano22. Che siano cose che non sono La Dea mette in guardia il kouros: a dispetto dell’alternativa rappresentata dalle «uniche vie di ricerca per pensare» e dunque contro una coerente considerazione razionale della realtà, si tenta di far accettare l’esistenza di cose che non sono. In gioco è la presunta pluralità di “non-enti” (μὴ ἐόντα) in qualche modo associata, nei versi successivi a ἔθος πολύπειρον, «abitudine alle molte esperienze», un costume mentale scaturito dal commercio quotidiano con il mondo. B4.1-2 può essere su questo di aiuto alla comprensione: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come cose assenti siano comunque per la mente saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere. 21 Op. cit., p. 91. 22 Ibidem. 411 Ciò che non è immediatamente percepito è comunque razionalmente raccolto nell’«essere» (τὸ ἐὸν), perché il νόος impedisce di considerare l’essere a “intermittenza”, quasi fosse alternato al non-essere. Sono i sensi ad attestare presenza e assenza immediate degli enti; è l’abitudine a tale oscillante attestazione empirica a tradire la corretta comprensione: una superficiale lettura dei dati empirici spinge a riscontravi la successione di essere (presenza) e non-essere (assenza). I sensi, in verità, non rilevano (né potrebbero) il non-essere, come giustamente ricorda Ruggiu23: essi attestano la presenza di qualcosa, quindi la sua assenza; mai, però, propriamente il nulla. Ciò che la Dea contesta è dunque una superficiale inferenza condotta dai mortali a partire dalla loro esperienza: in Parmenide, come in Eraclito, non è in discussione il valore dei sensi, ma quello dei giudizi dei mortali24. Ma tu … Leggiamo ancora una volta l’attacco di B7: Οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero (B7.1-2). La Dea esorta il kouros a trattenere il pensiero (εἶργε νόημα) dall'incosciente illusione che esistano cose che non sono (εἶναι μὴ ἐόντα). Ritorna il riferimento alla «via di ricerca» (τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος), che richiama B6.4-5: […] ἀπὸ τῆς [ὁδοῦ διζήσιος], ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν 23 Op. cit., p. 266. 24 Conche, op. cit., p. 122. 412 < πλάσσονται >, δίκρανοι […] da quella [via di ricerca] che mortali che nulla sanno < s’inventano >, uomini a due teste […] Nel frammento precedente si era iniziato a costruire lo stereotipo degli sprovveduti mortali, impaniati nella contraddizione: il loro, in fondo, era solo un “preteso” percorso d’indagine, in realtà forgiato indebitamente (πλάσσονται, «s’inventano»). In B7, invece, si punta su due elementi: (a) la dura presa di posizione (οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ) rispetto alla pretesa che «siano cose che non sono»; (b) l’appello personale (ἀλλὰ σὺ) a trattanersi - evidentemente contrapposto con enfasi agli ἄκριτα φῦλα, alle «schiere scriteriate» (B6.7), impotenti a discriminare essere e non-essere. Questo richiamo personale segue: (i) l’iniziale allocuzione di saluto della dea al kouros (B1.24- 28) con l’illustrazione del suo programma di istruzione (B1.28b: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι); (ii) l’invito ad aver cura della comunicazione introduttiva sulle due vie alternative di ricerca, da cui dipende la possibilità di accedere alla Verità (B2.1: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας); (iii) l’esortazione ad atteggiare coerentemente la propria intelligenza (B4.1 e B6.2: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως; τά σ΄ ἐγὼ φράζεσθαι ἄνωγα); (iv) la dissuasione dalla tentazione irriflessa di adeguarsi a uno stile di pensiero (e comportamento) diffuso ma logicamente contraddittorio (B6.3-4: πρώτης γάρ σ΄25 ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < εἴργω >, αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς...). In B7 registriamo dunque il compimento dello sforzo dissuasivo della dea nei confronti del kouros, esplicitamente sollecitato a marcare il proprio atteggiamento intellettuale rispetto all’«impotenza» dei «mortali», a condividere razionalmente la disamina critica della Dea. La presunta "terza via" è delineata es- 25 Il codice D di Simplicio riporta σ΄ (così come E e F); B e C, invece, τ΄. 413 senzialmente per distogliere da essa: B6 e B7 svolgono, in questo senso, l'ufficio critico di «liberare la mente dell'allievo (e dell'uditorio) da presupposti invalsi e premesse fallaci» per concentrarla sul compito arduo di «riconoscere i segni scaglionati lungo la Via dell'essere»26. Chiara Robbiano, interessata a valorizzare in chiave performativa l’efficacia comunicazionale del poema, ha sottolineato lo specifico effetto identificativo sull’audience. Essa è stata incoraggiata a immedesimarsi nel destinatario della comunicazione divina: un «uomo che sa» (B1.3), partner degli dei (B1.24) sotto l’egida di Themis e Dikē (B1.28). All’audience è stata prospettata quindi la scelta tra le alternative «per pensare» proposte dalla Dea: la via lungo la quale è lei stessa a condurre alla manifestazione dei «segni» della realtà genuina, e l’altra, da cui ella mette in guardia, dal momento che, come abbiamo sopra ricordato: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις. Ora, le vie dei mortali, nel loro sforzo di comprensione della realtà, implicano il nulla: così in B7.4-5 la Dea metterebbe sull’avviso la propria audience contro il modo comune di guardare alle cose e di esperirle27, insistendo a stigmatizzarne confusione e distorsione. In questo senso, rispetto alla marcata contrapposizione del «tu» ai «mortali» (e alle loro vie confuse), il riferimento della Robbiano allo schema dissuasivo dell’antimodello28: tra B6 e B7 la Dea connoterebbe uno stereotipo negativo (un antimodello, appunto), così da condizionare nella scelta la propria audience interna (il kouros) ed esterna. Imboccare la via sbagliata impliche- 26 Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 48-9. 27 Robbiano, op. cit., p. 97. 28 Secondo la lezione di Ch. Perelman & L. Olbrechts-Tyteca, Traité de l’argumentation. La nouvelle rhétorique, Paris 1958, §80: le modèle et l’antimodèle. 414 rebbe, infatti, essere assimilati a una tipologia umana con cui nessuno intende identificarsi29. Da questa via di ricerca… Come abbiamo segnalato in nota, nella testimonianza di Simplicio (forse direttamente dal testo del poema) la «via di ricerca» da cui la Dea inviterebbe a tenersi alla larga (B7.2) sarebbe la seconda di B2 (ὡς οὐκ ἔστιν), diversa da quella evocata in B6.4, inventata da «mortali che nulla sanno»: μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] Dopo aver biasimato infatti coloro che congiungono l'essere e il non-essere nell'intelligibile [citazione B6.8-9] e aver allontanato dalla via che ricerca il non-essere [citazione B7.2], soggiunge [citazione B8.1 ss.] (In Aristotelis Physicam 78, 2). Certamente la “seconda via” è coinvolta nel rilievo della Dea, ma non nel senso che a essa immediatamente ci si riferisca: essa, piuttosto, risulta implicata nella posizione espressa dai mortali che combinano indiscriminatamente essere e non-essere. Ed è per questo motivo che B7.1 denuncia l'insostenibile contraddizione: εἶναι μὴ ἐόντα, dove, come abbiamo già segnalato, il neutro plurale plausibilmente si salda alla prospettiva del fraintendimento empirico di cui si renderebbero colpevoli i «mortali». Condividiamo dunque la lettura di B7.2 che Conche30 (e altri) hanno avanzato: la via di ricerca incriminata sarebbe quella che βροτοὶ εἰδότες οὐδέν illusoriamente si forgiano, quella appunto che pretende che i non-enti siano. Si tratta impropriamente di una 29 Robbiano, op. cit., pp. 103-4. 30 Op. cit., p. 120. 415 terza via, illegittima dal punto di vista della Dea: in B2 sono definite le uniche vie legittime da un punto di vista razionale (quello della Dea). Il pensiero e l’abitudine I versi che seguono l’avviso della Dea contribuiscono probabilmente a chiarire l’origine dello sviamento dei «mortali che nulla sanno»: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua (B7.3-5). Appena invitato il kouros a trattenere il pensiero (νόημα) dalla fittizia via di indagine lungo la quale si trascinano i (o meglio certi) «mortali», il nume richiama l’attenzione sulle insidie dell’«abitudine» (ἔθος), che allignano nella irriflessa consuetudine quotidiana, con l’effetto di stravolgerne il quadro: i termini in gioco sono appunto (i) ἔθος, che guadagna la sua forza dal contrasto con (ii) νόημα. Il linguaggio dei versi 4-5 riprende chiaramente la fenomenologia degli ἄκριτα φῦλα (B6.7): l’«abitudine» è contrastata con la valutazione intellettuale implicita in νόημα, che può dissolvere le illusorie (perché in sé contraddittorie) certezze empiriche. Costume irriflesso Di quale abitudine si tratta? La Dea la qualifica come πολύπειρον, probabilmente per marcarne l’origine dalle frequenti 416 esperienze, e ne rileva l’azione a un tempo dispotica e insidiosa: evidentemente il quotidiano rapporto sensibile con le cose, quanquando non è guidato dall'intelligenza, può indurre assuefazione e spingere, inconsapevolmente, a ritenere che «siano cose che non sono». La nuova messa in guardia è giustificata dai meccanismi irriflessi che condizionano il nostro orientamento: proprio per questo i sensi non possono essere separati dalla ragione31. È sufficientemente chiaro che la condanna è rivolta al cattivo uso dei sensi per effetto dell’abitudine e non ai sensi stessi: è infatti marcato nel testo come sia l’ἔθος πολύπειρον a “forzare” (βιάσθω) la percezione. D’altra parte, se la Dea esorta a giudicare con la ragione è perché lungo la via sconsigliata la ragione non è impiegata, sotto l’effetto appunto dell’abitudine32. Costantemente sottoposti a input sensibili che richiederebbero di essere correttamente analizzati, i mortali sviluppano una acritica dimestichezza con le cose, progressivamente avviluppandosi in una spirale di incomprensioni. Eraclito aveva espresso forse lo stesso punto di vista: κακοὶ μάρτυρες ἀνθρώποισιν ὀφθαλμοὶ καὶ ὦτα βαρβάρους ψυχὰς ἐχόντων Cattivi testimoni per gli uomini sono occhi e orecchi, se essi hanno anime barbare [balbettanti] (Sesto Empirico; DK 22 B107). L’Efesio riconosce all’anima una funzione intellettuale – la presenza a sé stessi, la consapevolezza - testimoniata da prontezza di direzione, controllo sui gesti e in genere sul corpo (si vedano, per esempio, i frammenti B85 e B118) – integrata dalla capacità di discernimento, senza la quale, sostiene il filosofo, i sensi sono fuorvianti. I dati sensoriali in sé considerati sono insufficienti, richiedendo il vaglio critico della psychē, proposta come istanza indipendente rispetto alla sensibilità. Interessante, nella prospettiva parmenidea, l’uso dell’aggettivo «barbaro», in cui è stata ravvisata la probabile implicazione linguistica: il termine si riferisce, 31 Ruggiu, op. cit., p. 267. 32 Conche, op. cit., p. 121. 417 infatti, o al balbettare di chi non ha un buon controllo della lingua (gli stranieri) o alla incomprensione di chi non conosce il linguaggio. A sottolineare l’essenziale ruolo dell’anima come facoltà di raccolta, decifrazione e intellezione dei dati empirici. In Parmenide, come in Eraclito, non è in gioco il valore dei sensi, ma quello dei giudizi e del linguaggio dei mortali: i sensi, in effetti, non fanno che attestare presenza e assenza; il resto è frutto del giudizio e del linguaggio umani, che attribuiscono ai dati sensoriali una consistenza ontologica che essi non rivendicano33. L’erramento dei «mortali» è marcato dalla Dea (come in B6.4-9) come erramento del pensiero, intellettuale: se consideriamo il contesto del suo discorso, assicurato da B1, potremmo convenire con Conche che, se la via della Dea è discosta «dalla pista degli uomini» (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου B1.27), l’abitudine, al contrario, pare proprio trattenere e intrattenere su quel percorso34. In questa prospettiva l’esortazione rivolta al kouros in B7.2 (ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα) può essere letta di nuovo in parallelo con il frammento B1 di Eraclito (già utilizzato nel commento a B6): l’isolamento del sapiente rispetto alle opinioni condivise dagli «altri uomini» (τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους) si rivela nella tensione tra il suo discorso consapevole - che annuncia il dominio del logos su tutta la realtà - e l’incomprensione degli uomini (nei frammenti connotata come torpore, stordimento, una sorta di sonnambulismo) per le cose che li circondano, tanto più grave in quanto essi pure si muovono nell’ambito di quella legge universale e eterna, cui è improntato il divenire di tutti gli enti. Ramnoux35 preferisce allora al termine «abitudine» il termine «costume», per evidenziarne un effetto: esso ci spinge a giudicare come tutti gli altri, ad assumere un punto di visto ordinario, come se il nostro sguardo fosse privo di una propria identità. Per questo, dunque, l’appello personale della Dea al discepolo affinché valuti 33 Ivi, p. 122. 34 Ivi, p. 121. 35 C. Ramnoux, Parménide et ses successeurs immédiats, Monaco, Ed. du Rocher, 1979, p. 111. La referenza è di Conche, op. cit., p. 121. 418 ragionando. Conche 36 ne ricava un'indicazione suggestiva: l’abitudine esercita il suo potere in modo insidioso, facendo leva sulla pressione sociale, con il risultato di alienare il giudizio personale nel giudizio collettivo. La via ordinaria è la via “collettiva” dei mortali; la via della Dea, la via della Verità, è la via “singolare” del kouros37. Sempre in relazione a Eraclito, ma all’interno del più generale quadro di riferimento della cultura arcaica, Cerri 38 valorizza l’espressione ἔθος πολύπειρον, il «vezzo di molto sapere». I termini πολύπειρος e πολυπειρία (in greco sinonimo di πολυμαθία e ἱστορία) indicherebbero l’attitudine alle molte esperienze, a collezionare notizie, denotando in ultima analisi una forma di cultura nozionistica, nell’antichità attribuita per esempio a Solone39, impartita con la memorizzazione scolastica, che Platone (Leggi 7.811 a-b) esplicitamente condanna (come πολυπειρία e πολυμαθία), ma già duramente stigmatizzata, come in precedenza ricordato, da Eraclito (DK 22 B40; B129). Appoggiandosi a Gemelli Marciano40, anche Chiara Robbiano ha di recente ricordato come nel contesto presocratico (in particolare in Senofane, Eraclito ed Empedocle) sia costante la polemica nei confronti di altri filosofi ma soprattutto di altre autorità in campo culturale e sapienziale. In questo senso sarebbero da leggere le aspre critiche di Parmenide in B7: il riferimento sarebbe alla πολυμαθίη come sapienza tradizionale, che raccoglie e accumula conoscenza intorno a molte cose41. 36 Che, ricordiamolo, è anche editore di Eraclito. 37 Conche, op. cit., p. 122. 38 Op. cit., pp. 61-2. 39 Il quale (Plutarco, Sol. 2.1) avrebbe compiuto viaggi in giovinezza «a scopo di esperienza molteplice e di indagine conoscitiva». 40 M.L. Gemelli Marciano, “Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et destinataires”, cit., pp. 83-114. 41 Robbiano, op. cit., p. 102. 419 Occhio, orecchio e lingua La “forza” della consuetudine è dunque contrastata dalla “persuasività” (B2.4) che caratterizza il viaggio lungo la via autentica42: il logos deve rettificare l’eco confusa della comune ricezione empirica, la cui cifra è, ribadiamolo, essenzialmente la distorsione: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua (B7.3-5). Parmenide recupera un motivo tradizionale, che ha riscontri in Omero43 e nei lirici e ritornerà ancora in Empedocle (DK 31 B3), ma soprattutto, come abbiamo già ricordato a proposito di B6.7, in Eschilo: οἳ πρῶτα μὲν βλέποντες ἔβλεπον μάτην, κλύοντες οὐκ ἤκουον, ἀλλ’ ὀνειράτων ἀλίγκιοι μορφαῖσι τὸν μακρὸν βίον ἔφυρον εἰκῆι πάντα Dapprima essi [gli uomini], pur avendo occhi, in vano osservavano; avendo orecchi non ascoltavano; solo di sogni simili alle forme, la lunga vita impastavano tutta senza disegno (Eschilo, Prometeo incatenato 447-50). Couloubaritsis ritiene che i μὴ ἐόντα (analogamente a τὰ δοκοῦντα) sarebbero da identificare con le “cose”, cui Parmenide 42 Coxon, op. cit., p. 191. 43 Coxon (p. 192) sottolinea la risonanza omerica (non l’uso che se ne fa ) dell’intero verso 4. 420 negherebbe lo statuto di essere, attribuendo al commercio quotidiano con esse, all’esperienza multipla, quella violenza sul pensiero che si traduce nella identificazione del reale con il divenire44. In verità, la Dea insegnerebbe che il loro statuto è quello di «nome» (ὄνομα): svuotate di ogni consistenza ontologica, le “cose” sono così destinate a sparire. Secondo l’autore belga, dunque, questa prima forma di “nominalismo” condannerebbe ogni tentativo di attribuire realtà alle cose come «vuoto parlare», «parlare per non dire niente»45. Noi riteniamo che in B7 Parmenide rilanci la propria denuncia contro il modo comune di guardare alle cose e di esperirle: i mortali implicano il non-essere nel tentativo di comprendere la realtà attraverso il dato sensibile: dunque, per riprendere una osservazione della Robbiano46, la Dea ammonisce la propria audience che quando si coinvolge il non-essere, non si troverà la verità. Per riprendere una formulazione, che ci pare efficace, della Wilkinson47, la Dea «non critica i mortali perché percepiscono in modo scorretto, piuttosto critica i mortali perché nominano in modo scorretto quello che percepiscono»48. Logos e elenchos Il frammento si chiude con una esortazione notevole: κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα Giudica invece con il ragionamento la prova polemica da me enunciata (B7.5-6). L’interesse del passo è legato alla connessione tra vocaboli destinati a diventare tecnici nelle filosofie posteriori - λόγος e 44 Mythe et Philosophie…, cit., p. 201. 45 Ivi, pp. 201-2. 46 Op. cit., p. 97. 47 Op. cit., p. 105. 48 Enfasi dell’autrice. 421 ἔλεγχος: il kouros è invitato a valutare, a sottoporre a scrutinio, con il logos (con il discorso, con l'argomentazione) l’elenchos (qualificato come πολύδηριν, «polemico», ma anche «molto contestato») appena proposto (sulle implicazioni temporali del participio aoristo ῥηθέντα si veda la nota alla traduzione). La Dea, con trasparenza, sollecita il proprio interlocutore a prendere piena coscienza della forza (razionale) della contestazione condotta: (i) ogni distanza (tra umano e divino) è così annullata sul terreno dell’argomentazione: il potere del logos può accomunare docente e discente; (ii) giudicare e discriminare appaiono come operazioni implicanti il logos e riferentesi a una «prova» destinata a contestare: in senso aristotelico, un argomento che intende accertare una contraddizione. Il termine λόγος indicava originariamente l’attività e il risultato del «raccogliere» (λέγειν), donde una prima associazione semantica alla «numerazione» e le successive due linee di sviluppo: (i) «enumerazione» e «racconto» (inteso appunto come raccolta e ordinamento di fatti), quindi «discorso»; (ii) «conteggio, calcolo, stima, ragionamento». Nel nostro contesto, e nella associazione con κρίνω, λόγος è espressione di operatività razionale: argomentazione, riflessione. Nel contemporaneo Eraclito, λόγος risulta polivalente, designando a un tempo il «discorso», la sua espressione scritta, il suo significato; con una forte valenza ontologica, nella misura in cui viene utilizzato per designare la struttura della realtà, la sua misura interna. Secondo Ruggiu49, anche in Parmenide, come in Eraclito B1, λόγος indicherebbe quella peculiare forma di conoscenza razionale che (analogamente al νόος) consente di penetrare il senso profondo delle cose. A determinarne l’accezione è proprio l’associazione con ἔλεγχος: il valore etimologico originario del verbo ἐλέγχω (da cui discende il sostantivo ἔλεγχος) è «provocare vergogna», una vergogna che scaturisce dalla cattiva figura; collegato a esso è il significato di «smentire una menzogna», riuscire a provare che qualcuno è colpevole di una menzogna. È possibile che in questo 49 Op. cit., p. 267. 422 modo il verbo abbia assunto il senso di «mettere alla prova, verificare, accertare qualcosa». L’espressione πολύδηρις ἔλεγχος sembra dunque riferirsi proprio alla critica, sviluppata tra B6 e B7, nei confronti della presunta sapienza tradizionale, probabilmente delle tesi di pensatori ionici e forse pitagorici. Una vera e propria confutazione, se consideriamo che la polemica è consistita essenzialmente nel denunciare la contraddizione implicita in quelle posizioni. La Dea dapprima (B2.3a; B2.5a) propone l’espressione diretta della semplice e immediata esperienza della realtà, ἔστιν, contrapponendole la negazione (οὐκ ἔστιν): da questa alternativa fondamentale e radicale, può ulteriormente ricavare τό μὴ ἐὸν (B2.7) e τὸ ἐὸν (B42; ἐὸν B6.1) come soggetti (ancorché il primo solo logico, il secondo reale) delle due coerenti «vie per pensare». Quindi, dopo aver riformulato (B6.1-2) in termini tautologici (ἐὸν ἔμμεναι; μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν) il contenuto delle vie, ella si concentra (B6.4-9; B7) sul cortocircuito prodotto nel pensiero (νόος) dei «mortali» dalla loro contraddizione50, cioè dall’incauta contravvenzione delle norme: οὐκ ἔστι μὴ εἶναι (B2.3b); χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5b). In questo senso la «prova» intorno a cui la Dea invita il kouros a meditare è, nella posteriore accezione aristotelica, una «confutazione» (ἔλεγχος), deduzione di una contraddizione (ἀντίφασις), cioè procedimento dialettico per eccellenza 51. 50 Heitsch, op. cit., p. 161. 51 Su questo si vedano in particolare i contributi di Enrico Berti, ora raccolti in E. Berti, Nuovi studi aristotelici. I – Epistemologia, logica e dialettica, Morcelliana, Brescia 2004. Il frammento B8 ci è interamente conservato da Simplicio, in due passi del suo commento alla Fisica aristotelica, ma brevi citazioni (per lo più di singoli versi) sono riscontrabili nello stesso commentatore, in Platone, Aristotele, Pseudo Aristotele, Aetius, Plutarco, Clemente, Eusebio, Plotino, Teodoreto, Proclo, Ammonio, Filopono, Asclepio, Damascio. La collazione dei codici ha creato, almeno in alcuni casi, non pochi problemi per la ricostruzione del testo originale, con conseguenti, profonde divergenze interpretative, come abbiamo già documentato nelle note. L’acribia nella discussione critica si giustifica per il rilievo del lungo frammento, attestato dalla stessa messe di citazioni e comunque dalla sua eccezionale tradizione (B8 rimane uno dei più lunghi passi superstiti della sapienza greca arcaica): con tutta probabilità in questi versi Simplicio ci ha conservato (consapevole della rarità dell’opera) l’intera comunicazione di verità del poema - dopo le premesse (B2, B3) e un primo esame critico (B6 e B7) - insieme con l’introduzione della sezione convenzionalmente designata come Doxa (che, secondo i calcoli contemporanei, da sola doveva coprire i 2\3 dell’opera): καὶ εἴ τῳ μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη τοῦ Παρμενίδου μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου συγγράμματος. ἔχει δὲ οὑτωσὶ τὰ μετὰ τὴν τοῦ μὴ ὄντος ἀναίρεσιν anche a costo di sembrare insistente, vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto parmenideo. Dopo l'esclusione del non essere, le cose stanno così: [B8.1-52] (Simplicio, Commentario alla Fisica 144, 25-29). Nella nostra edizione e nel nostro commento abbiamo deciso di dividere i due segmenti, ma solo per ragioni di omogeneità: abbiamo in altre parole preferito concentrare l’attenzione prima 424 sulla presunta ontologia del poema, per passare poi in modo più sistematico a discuterne i principi interpretativi della natura. La via «che è» e la Verità Diogene Laerzio (IX.22), a proposito delle tesi di Parmenide, afferma: δισσήν τε ἔφη τὴν φιλοσοφίαν, τὴν μὲν κατὰ ἀλήθειαν, τὴν δὲ κατὰ δόξαν Disse che la filosofia si divide in due parti, l’una secondo verità, l’altra secondo opinione. Alla luce di quanto risulta dalla nostra analisi di B1, tale struttura emerge dal programma annunciato dalla Dea in B1.28b ss.: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Ora è necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità. Nondimeno anche questo imparerai: come le cose accolte nelle opinioni era necessario fossero effettivamente, tutte insieme davvero esistenti. Nella prima sezione (dopo il proemio) indicata - per antica consuetudine, sulla scorta di tale programma - come Verità1, ritroveremmo dunque - concentrato essenzialmente in B8 - l’insegnamento (πυθέσθαι, anche «imparare») del «cuore fermo di 1 E che – ricordiamolo - Parmenide in B2.4 designa come Πειθοῦς κέλευθος - «percorso di Persuasione». 425 Verità ben rotonda» (ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ), correlato alla denuncia (B6, B7 e ancora B8) dell’errore insito nelle «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξας). La sezione indicata come Opinione sarebbe (nella nostra interpretazione) da mettere invece in relazione all’ultimo punto del programma: conterrebbe cioè una lezione (μαθήσεαι, «apprenderai») adeguata su τὰ δοκοῦντα, sui contenuti dell’esperienza. È significativo dell'originalità della sezione sulla Verità – soprattutto di B8 - il fatto che le citazioni relative siano più numerose e consistenti. Dei tre blocchi testuali in cui supponiamo fosse articolato il poema – Proemio, Verità, Opinione - l’apertura proemiale, che si prestava all’allegoresi, dovette riscuotere particolare attenzione in età ellenistica: probabilmente da una tradizione stoica dipende, infatti, la sua interpretazione da parte di Sesto Empirico, che è anche l'unico a riprodurne integralmente il testo (forse da fonte non attica2 ). In genere, però, già la produzione del V secolo a.C. attesta l’incidenza del modello argomentativo e della concettualità della Verità, che doveva costituire novità rispetto all'arcaica elaborazione ionica, sebbene, come vedremo, sia molto probabile che i "naturalisti" posteriori, da Empedocle agli atomisti3, abbiano adottato uno schema interpretativo desunto dalla Opinione. Anche la consistente eco parmenidea in Platone e Aristotele è per lo più riferita alla Verità e solo subordinatamente (so- 2 Secondo Passa (op. cit., p. 31), infatti, Sesto avrebbe utilizzato fonti diverse per il testo del proemio e per la sua parafrasi: nel secondo caso, la fonte potrebbe effettivamente essere stoica; nel primo caso, invece, la tradizione sestana è l'unica a conservare traccia dell'antica redazione psilotica del poema. Passa ne conclude che è plausibile che Sesto disponesse di una buona copia del proemio, derivata verosimilmente da un esemplare dell'intero poema. 3 Alexander Nehamas ("Parmenidean Being/Heraclitean Fire", in Presocratic Philosophy. Essays in Honour of Alexander Mourelatos, edited by V. Caston and D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, pp. 51-2) sottolinea come, nonostante i presocratici posteriori avessero mutuato le caratteristiche ontologiche illustrate da Parmenide, nessuno si sentisse in dovere di sostenere l'introduzione di una pluralità di elementi giustificandola argomentativamente. Quasi non ce ne fosse bisogno: un segno, forse, di continuità con il poema. D'altra parte, Melisso, che non attribuisce esplicitamente a Parmenide le proprie posizioni, si impegnò a giustificare il proprio «numerical monism»: un segno, forse, di discontinuità con il poema. 426 prattutto in Aristotele) alla Opinione, cioè a quella che doveva presentarsi come una più tradizionale trattazione peri physeōs. È inoltre interessante osservare come, anche da un punto di vista “musicale”, dell’esperienza di ascolto dell’intero poema, B8 si distacchi dal resto, deviando spesso dalla cadenza del verso omerico: solo nei versi nella terza sezione il linguaggio ritorna alla semantica convenzionale e ordinaria e alle relazioni sintattiche caratteristiche del proemio4. La reiterazione di ἔστιν (senza soggetto) produce (i) un’interruzione di ritmo (suono) e (ii) una dissociazione di significato5, come se Parmenide intenzionalmente rompesse la sintassi, le regolari relazioni semantiche e le relazioni logiche o strutturali: sia che il poema si legga in silenzio, sia che si ascolti in lettura, in B2 e B8 “è” (senza soggetto) incombe, con eco amplificata dal ritorno al ritmo poetico consueto nei due terzi finali del discorso della dea6. La via che è L’attacco del frammento (vv. 1-3a) non sembra lasciare dubbi sul contenuto: μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο λείπεται ὡς ἔστιν· ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς… Unica parola ancora, della via che «è», rimane; su questa [via] sono segnali molto numerosi: che... Esplicito il richiamo a B2 (μῦθος; ὁδός) e ai suoi esiti: rimane un’unica parola da ascoltare, dopo che si è riconosciuto l’impraticabilità di alternative. È giunto dunque il momento di in- 4 L.A. Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 107. 5 Ivi, p. 96. 6 Ivi, p. 107. 427 camminarsi lungo la via che appartiene a Πειθώ e Ἀληθείη. Su questo Parmenide è ancora più netto nei vv. 15-18: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale. Nel sottolineare la bontà del proprio argomento, la Dea ricostruisce sinteticamente la ratio per cui μόνος δ΄ ἔτι μῦθος […] λείπεται («unica parola ancora […] rimane» B8.1-2), evocando l’alternativa dilemmatica - ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν (espressione sincopata delle ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός […] νοῆσαι di B2.2) – e la conseguente, necessaria esclusione della via «che non è» (B2.7-8): «non è fattibile» (οὐ ἀνυστόν) conoscere (γνῶναι) e indicare (φράζειν) «ciò che non è» (τό μὴ ἐὸν). In questo senso va intesa la coppia di aggettivi «impensabile» (ἀνόητον) e «indicibile» («senza nome», ἀνώνυμον): la via ὡς οὐκ ἔστιν (τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι) è effettivamente impalpabile (B2.6), «sentiero del tutto privo di informazioni» (παναπευθέα ἀταρπόν). La «decisione» (il «giudizio», κρίσις) è conseguente: come destino («necessità», ἀνάγκη), ricorda la Dea, si è riconosciuto che non si tratta di via «genuina» (οὐ ἀληθής ἔστιν ὁδός), lungo la quale sia realmente possibile inoltrarsi e incontrare qualcosa. All’inizio di B8, delle «uniche vie di ricerca […] per pensare», non rimane quindi che imboccare quella «reale» (ἐτήτυμον), quella, appunto, ὡς ἔστιν (τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι): muoversi sul terreno di «è e non è possibile non essere», rinunciando a dare 428 consistenza a «non-è ed è necessario non essere», garantisce intelligibilità e comprensione della realtà7. Una sola parola L’eco inziale del μῦθος che la Dea aveva invitato il kouros ad accogliere e conservare - e che dunque propone i tratti di un authoritative speech act (Morgan) – è funzionale alla successiva notifica della vanità del nominare mortale (B8.38b-39): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ Per esso tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, persuasi che fossero reali, ma anche al rilievo della svolta introdotta in conclusione del frammento (vv. 50 ss.), con una formula indicativa: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando, che può ingannare (B8.50-52). La «parola» (il «discorso») di Verità della Dea traccia i contorni della realtà attraverso l’esclusione sistematica di ciò che, nella propria inconsistenza (τό μὴ ἐὸν), si rivela ἀνόητον ἀνώνυμον. Si tratta della rigorosa applicazione argomentativa della formula della prima «via»: 7 Sul rapporto tra il tema della “via” e l’unicità del discorso in apertura di B8 si veda in particolare L. Couloubaritsis, Les multiples chemins de Parménide, in Études sur Parménide, cit., t. II, pp. 29-30. 429 ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una: è e non è possibile non essere. In questo senso, in B7.5 ella aveva chiaramente esortato a valutare discorsivamente (κρῖναι δὲ λόγῳ) la «prova polemica» (πολύδηριν ἔλεγχον) fornita: donde forse – ipotizzando una sostanziale continuità tra B7 e B8 (come attesterebbero le citazioni e il commento di Sesto Empirico, Adversus mathematicos VII, 111 e 114) – l’apertura con l’espressione μόνος δ΄ ἔτι μῦθος […] λείπεται. Tale μόνος μῦθος è relativo alla «via: è» (ὁδός ὡς ἔστιν), di cui la Dea informa (vv. 2b-3a): ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄… su questa [via] sono segnali molto numerosi. Il discorso è uno, perché una sola è in effetti la via riconosciuta percorribile; molti i «segni» (σήματα) che consentono di identificarla8, molti gli argomenti che possono essere addotti per metterla alla prova: di qui il nesso tra πολύδηρις ἔλεγχος, μόνος μῦθος e σήματα. Come rivela il precedente epico del riconoscimento di Odisseo da parte di Penelope, essi, infatti, possono essere usati per provare (sottoporre a elenchos) l’identità di una persona9. Sarà allora lo stesso intreccio dei «segni» a rivelare unità e omogeneità di τὸ ἐόν e dunque a mostrare l’alterità tra il μῦθος della Dea e i discorsi dei «mortali»: essi ipostatizzano quanto, in vero, è solo «nome»; assumono come evidenza ultimativa la molteplicità di enti, senza ricondurla all’identità dell’«essere». Il μόνος μῦθος che la θεά articola in B8.1-49 corrisponde a quanto annunciato (B2.4) come Πειθοῦς κέλευθος («percorso di Persuasione») in quanto Ἀληθείῃ ὀπηδεῖ («tien dietro a Verità»): lungo la 8 Secondo gli interessanti rilievi di Robbiano, op. cit., pp. 108-9. 9 Ibidem 430 «via: è e non è possibile non essere» si esprime – non solo per l’autorevolezza dell'indicazione divina, ma per l’intrinseca costruzione razionale – quella πίστις ἀληθής (B8.28) che era stata negata (B1.30) alle «opinioni dei mortali» (ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής, «in cui non è reale credibilità»). Con una differenza significativa: nel proemio il kouros doveva semplicemente registrare un annuncio; la πίστις ἀληθής rappresentava quella credibilità che la Dea disconosceva alle convinzioni correnti. In B8 è lo stesso «convincimento», maturato argomentativamente, a trattenere dalla distorsione tipica dei «mortali che nulla sanno»: considerare (νομίζειν) (B8.27-28): ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής poiché nascita e morte sono state respinte ben lontano: convinzione genuina [le] fece arretrare. Analogamente, in B6.4-9 e B7.1-5 la Dea aveva duramente stigmatizzato la confusione teorica corrente, mettendo in guardia il kouros: ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται > […] ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν […] [ti tengo lontano] da quella [via] che appunto mortali che nulla sanno, […] schiere scriteriate, per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa […] οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα· μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. 431 Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero; né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza. In B8.38 ss. è lo stesso μόνος μῦθος (articolato in relazione ai σήματα) a svelare in che cosa effettivamente consista quello stravolgimento: perdere di vista il fatto che, prescindendo dall’unico referente reale (l’essere), i vari nomi con cui designiamo i fenomeni della nostra esperienza sono, in realtà, solo simboli: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, persuasi che fossero reali: nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. L’«essere» (τὸ ἐόν), ovvero «ciò che è» (ἐόν), è la sola cosa che possa essere pensata ed espressa nel linguaggio: a qualsiasi cosa i mortali pensino o di qualsiasi cosa i mortali parlino e in qualsiasi modo ne pensino o parlino, essi in realtà pensano o parlano di ciò-che-è 10. Questa è la lezione che si ricava dalla «parola» della Dea: trasfigurazione del linguaggio dell’esperienza, della rappresentazione ingenua, ma anche della (contestata) cosmologia ionica. Una lezione che discende, dunque, dalla krisis (ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν), condotta escludendo τό μὴ ἐὸν: l’unica via praticabile troverà manifestazione rigorosa attraverso i «segnali» che possono identificarla per la ragione. In questa prospettiva i vv. 50-52 marcano effettivamente un passaggio, dal momento che spostano l’attenzione (e l’istruzione) del kouros da quella manifestazione – il «discorso affidabile» (πιστὸν λόγον) che esprime la Verità (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης) – all’ambito delle nostre convinzioni empiriche (τὰ δοκοῦντα 10 R. McKirahan, “Signs and Arguments in Parmenides B8”, cit., p. 205. 432 B1.31), da ridurre a uno schema interpretativo adeguato (χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα B1.32). È la stessa divinità a connotare la propria comunicazione (μῦθος): a rilevarne con formule (κέκριται ὥσπερ ἀνάγκη) la cogenza, la dipendenza dalla κρίσις (ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν),·e, attraverso figure (Δίκη, Ἀνάγκη, Μοῖρα), lo statuto trascendentale. La «parola», infatti, nel suo procedere argomentativo, appalesa, della realtà (τὸ ἐόν), ordine e superiore garanzia: «Giustizia [lo] tiene (ἔχει)», «Necessità potente [lo] tiene (ἔχει)», «Moira (Destino) lo ha costretto (ἐπέδησεν)». La nuova sezione, introdotta al v. 50, è, a sua volta, esplicitamente determinata: è sempre la divinità a sottolinearne la materia diversa – conseguenza dell’adozione di un punto di vista che potremmo definire “umano”: δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε («da questo momento in poi opinioni mortali impara» B8.51-2). Contestualmente, nell’abbandonare la parola garantita e il suo oggetto immutabile (τὸ ἐόν e i suoi σήματα), è la Dea stessa a mettere in guardia sul passaggio dal rigore del «discorso affidabile» (πιστὸν λόγον), del «pensiero intorno alla Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης), alla ricostruzione potenzialmente fuorviante (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων, «ascoltando l’ordine delle mie parole che può ingannare»). Il poeta segnala il cambio di registro anche a livello espressivo, tornando, come abbiamo in precedenza ricordato, alla semantica convenzionale e alle relazioni sintattiche caratteristiche del proemio: in questo senso, rispetto ai versi centrali della Verità, ἀπατηλὸν (passibile di inganno) appare effettivamente l’organizzazione stessa delle parole11. L’attuale frammento B19 confermerà la natura “umana” della prospettiva (κατὰ δόξαν) adottata, e la sua peculiare costruzione linguistica: οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ 11 L.A. Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 107. 433 Ecco, in questo modo, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, in seguito sviluppatesi, avranno fine. A queste cose, invece, un nome gli uomini imposero, distintivo per ciascuna. La via e i suoi «segnali» La Dea si affretta a osservare (B8.2-3), riguardo alla ὁδός (ὡς ἔστιν), come: ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄ su questa [via] sono segnali molto numerosi. Il rilievo è importante perché sottolinea la fondatezza della comunicazione divina, sottraendola all’arbitrio, e la sua intenzione razionale: essa allude a «segni», proprietà, evidentemente da riconoscere come genuini indicatori della realtà, e implicitamente è introdotta la loro discussione. La presenza di «segnavia» lungo un percorso (κέλευθος) è naturale, così come la loro funzione di orientamento: trattandosi di Πειθοῦς κέλευθος, il compito educativo della Dea diventa quello di illustrarli e, così facendo, di sviluppare la conoscenza della via, di guidare alla comprensione dell’essere. I σήματα si riferiscono immediatamente alla ὁδός, non a τὸ ἐόν, ma la loro discussione, il riconoscimento della loro funzione, contribuisce a determinare e far prendere consapevolezza della nozione di τὸ ἐόν: la «via», in effetti, è indicata come ὡς ἔστιν. In questo caso la natura descrittiva dei «segnali» rispetto al percorso di conoscenza si fa ancora più netta. Simplicio (Phys. 78, 11) parla di τὰ τοῦ κυρίως ὄντος σημεῖα, che potremmo tradurre come «connotazioni dell’essere che veramente è». 434 Segnali La Dea ne propone un catalogo, nel seguito utilizzato (anche se non integralmente) per l’analisi: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον· οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές che senza nascita è ciò che è e senza morte, tutto intero, uniforme, saldo e senza fine; né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo. Dei molti problemi testuali abbiamo dato notizia in nota. Qui interessa tentare di comprendere che cosa i σήματα rappresentino per l’autore. Una prima risposta possiamo ricavare dalla versione che abbiamo proposto (una delle possibili): la via ὡς ἔστιν è tradotta in termini proposizionali, con un soggetto (ἐόν, lo stesso emerso in B6.1) e, apparentemente12, due serie di predicati: (i) ἀγένητον, ἀνώλεθρόν, οὖλον, μουνογενές, ἀτρεμὲς, ἀτέλεστον; (ii) νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές. I «segnali molto numerosi» sulla via ὡς ἔστιν sarebbero dunque caratteristiche che si possono legittimamente riferire a «ciò che è», sulla scorta – come risulterà più chiaramente nel corso della esposizione divina (e come abbiamo anticipato) - della κρίσις: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. Formulando diversamente lo stesso concetto: predicati essenziali di τὸ ἐόν, implicati (e deducibili) dalla 12 Come segnalato in nota, Leszl, Heitsch e di recente Palmer (tra gli altri), fanno iniziare l’analisi dei segni dal v. 5, con ciò considerando gli attributi dei vv. 5-6 già parte della discussione e non propriamente σήματα. 435 stessa nozione di ἔστιν (τε καὶ [...] οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), con esclusione di οὐκ ἔστιν (τε καὶ [...] χρεών ἐστι μὴ εἶναι); attribuiti all’essere, essi ne manifestano la natura. È plausibile nel contesto che la Dea intenda σήματα e ἔλεγχος non disgiuntamente, in altre parole che l’orientamento conoscitivo richieda non semplicemente il catalogo, ma l’argomentazione che lo sostiene. Anzi, dal punto di vista della lezione divina, la valutazione razionale del giovane allievo appare preoccupazione primaria, come marcato in B7.5-6: κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα Giudica invece con il ragionamento la prova polemica da me enunciata. I «segnali» potrebbero dunque costituire il materiale concettuale su cui esercitare la razionalità del kouros, con un duplice scopo: (i) fargli prendere confidenza con τὸ ἐόν; (ii) fargli prendere coscienza delle inconsistenze di altre posizioni teoriche (ioniche, forse pitagoriche). Si tratta ovviamente di due risvolti della stessa strategia, nella misura in cui il riconoscimento della natura di «ciò che è» comporta, per un verso, la presa di distanza dalla superficiale lettura del dato sensibile, per altro la contestazione di lezioni concorrenti. Così ritroveremo riaffermato (B8.34-36a) il nesso tra pensiero (addirittura nella formulazione astratta τὸ νοεῖν) e essere: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. Οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν La stessa cosa invero è pensare e il pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è espresso, troverai il pensare. Un rilievo che ribadisce appunto l’equazione di B3: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere, 436 e soprattutto richiama la funzione “ontologica” del νόος di B4.1-2: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere. L’aspetto che appare tuttavia peculiare nella relazione tra σήματα e νοεῖν è il fatto che alcuni dei «segnali» fondamentali siano evidentemente costruiti - sul piano linguistico – con l’uso dell’alfa privativo, mentre su quello argomentativo (attraverso ἔλεγχος, confutazione) tutti siano sostenuti ribaltando il dato di senso comune (nascita e morte, accrescimento e diminuzione, mobilità ecc.). Un risultato che a loro modo anche la sapienza ionica aveva ottenuto, ma, come rivelerebbe la discussione parmenidea, in modo contraddittorio. In questo senso, i σήματα possono essere letti come elementi concettuali espressamente rivolti a contestare i metodi tradizionali di interpretazione dell’universo13. Il catalogo e la relativa discussione investirebbero direttamente alcuni contributi della elaborazione cosmologica arcaica14: (i) il paradigma di fondo della cosmogonia (B8.6-21); (ii) il modello esplicativo per successive differenziazioni – quale è possibile intravedere nelle testimonianze su Anassimandro e Anassimene (B8.22-25); (iii) la riflessione sul mutamento – cui possono ricondursi in parte i frammenti di e le testimonianze su Anassimene e Eraclito (B8.26-31); (iv) il modello biologico di sviluppo dell’universo, che possiamo ritrovare nelle testimonianze su Anassimandro (B8.32-49). È allora possibile che la natura dei σήματα non fosse quella di predicati astratti, concettualmente dedotti dalla nozione di «esse- 13 Robbiano, op. cit., p. 109. 14 Ibidem. 437 re», bensì quella di contrafforti dialettici scaturiti dal confronto con specifiche dottrine, e, in questo senso, storicamente, culturalmente determinati. La loro funzione “segnica” rispetto alla «via» consisterebbe nell’evitare che essa possa essere abbandonata, seguendo il richiamo di assunzioni acritiche ovvero di presunte, scorrette, teorie. Donde l’impronta discutiva e confutatoria dell’analisi di Parmenide. La via, i segnali e la guida D’altra parte è evidente nel testo come la Dea scelga di riferirsi ai «segnali» nel contesto della propria istruzione al kouros, del proprio esercizio di guida. Anzi: ella guida attraverso σήματα, che impegnano razionalmente. La tradizione li conosceva come «segni augurali» che gli indovini dovevano interpretare15, come mezzi di rivelazione di una potenza superiore16. In questo senso il contemporaneo Eraclito evocava lo stesso modello: ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεῖόν ἐστι τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ σημαίνει Il signore, di cui è l'oracolo in Delfi, non dice, non nasconde ma dà un segno (Plutarco; DK 22 B93). Anche la dea di Parmenide invia segnali ai mortali, per far conoscere cose normalmente oltre la loro portata: Robbiano e Cerri hanno probabilmente ragione nel sottolineare come il termine σήματα non si riferisca allora tanto ai predicati enumerati in B8.2- 6, quanto ai successivi argomenti, risultando essenziale nella relazione tra l’umano e il divino il momento dell'interpretazione dei segni per giungere alla verità. In questa prospettiva – come rilevato da Mourelatos17 - σήματα e ὁδός (ὡς ἔστιν) si salderebbero nel motivo della quest: per raggiungere il fine della ricerca è necessa- 15 Cerri, op. cit., p. 219. 16 Mansfeld, op. cit., p. 104. 17 Op. cit., p. 94. 438 rio percorrere la strada «che è»; per fare ciò è necessario tenere d’occhio i segnavia. L’accostamento al modello oracolare - giustificato non solo dalle implicazioni tra σήματα e σημαίνειν, ma pure dal nesso lessicale tra σήματα e σημεῖον, termine per «segno divinatorio» (di qualsiasi tipo), e «responso oracolare» (testo verbale) – è ricco di risvolti significativi nel contesto. Il segno divinatorio, infatti, proviene dalla sfera divina: nel segno la sapienza divina irrompe nell'ambito umano, per condensarsi poi nel responso,: la parola del responso è umana come suono, ma rivela una conoscenza che separa l'uomo dal dio18. Ora, non vi è dubbio che Parmenide rielabori, in forme originali, questi elementi: la rivelazione, lo scarto conoscitivo e il suo rilievo esistenziale, la comunicazione di verità come evento privilegiato. Come ricorda la Robbiano19, la dea di Parmenide evoca un dio che manda segnali ai mortali per far loro conoscere cose normalmente fuori della loro portata: non dobbiamo dimenticare che in Omero la divinazione comporta la conoscenza delle cose che sono, di quelle che saranno e di quelle che sono state in passato: […] τοῖσι δ’ ἀνέστη Κάλχας Θεστορίδης οἰωνοπόλων ὄχ’ ἄριστος, ὃς ᾔδη τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, καὶ νήεσσ’ ἡγήσατ’ Ἀχαιῶν Ἴλιον εἴσω ἣν διὰ μαντοσύνην, τήν οἱ πόρε Φοῖβος Ἀπόλλων Si alzò allora Calcante, figlio di Testore, di gran lunga il migliore degli indovini, il quale conosceva le cose che sono, le cose che saranno, le cose che furono, e aveva guidato le navi degli Achei fino a Ilio grazie all’arte profetica che gli donò Febo Apollo (Iliade I, 68-72). 18 Su questo punto si veda G. Manetti, Le teorie del segno nell'antichità classica, Bompiani, Milano 1987. 19 Op. cit., p. 126. 439 In Parmenide è la divinità stessa a indicare i «segnali» che tracciano la via al pieno dispiegamento della realtà (Verità) nella conoscenza, e a interpretarli per il kouros; è la divinità stessa a tradurre la propria sapienza in immagini e discorsi: essa riassorbe in sé, insieme alla funzione rivelativa, anche quella di μάντις e προφήτης, marcando l’eccezionalità del privilegio concesso. Il «colpo d’occhio [del dio] che conosce ogni cosa» (Pindaro), la visione simultanea di passato, presente e futuro, si presenta nei segni che l’indovino deve riversare in parole (enigmatiche) e l’interprete chiarire per i mortali. In questo senso la divinità di Parmenide ha un ruolo simile a quello delle Muse (le quali garantiscono al poeta la trasposizione della loro sinossi nello sviluppo del canto), ma “laicizzato”: analoga l’intenzione pedagogica, comunque diversamente declinata. La Dea, infatti, propriamente non ispira un canto, piuttosto insegna argomentando; pur marcando lo scarto tra umano e divino, ella comunica razionalmente, insistendo sulla «forza di convinzione» (πίστιος ἰσχύς), sulla «convinzione genuina» (ovvero «reale credibilità», πίστις ἀληθής), per illustrare i σήματα al proprio interlocutore (cui è richiesto di non accogliere supinamente, ma riflettere su quanto comunicato): interpretarli significa, nel nostro contesto, giustificarli razionalmente alla luce dei principi (le «vie») introdotti in B2. Alla ripresa del motivo tradizionale segue, dunque, una sostanziale revisione: è attraverso ἔλεγχος che la Dea sviluppa il tracciato della «via che "è"»; è contestando ed escludendo errate assunzioni di senso comune e contributi teorici concorrenti che ella viene determinandola dialetticamente. È indicativo del retroterra culturale il fatto che Parmenide scelga di proporre in prima istanza un catalogo (memorizzabile) di «segni», quindi un prolungato sforzo argomentativo – un unicum nel panorama della produzione arcaica –, sostenuto da una serie di immagini plastiche (catene, legami, sfera) e figure (divine). Ritroviamo sapientemente intessuti ἔλεγχος, metafora e mito, quasi costituissero ancora tre aspetti inscindibili di una stessa esperienza comunicativa. Segnavia 440 L’attacco di B8 sottolinea dunque una volta di più il ruolo della guida divina e la centralità del tema della via: è la Dea, infatti, a ricordare come rimanga ancora solo la possibilità di un μῦθος; è la Dea ad annunciare i «segnavia» (σήματα) e quindi che il percorso sarà discorsivo. È la Dea, insomma, che non solo anticipa al kouros l’identità della via che resta (ὡς ἔστιν), ma prospetta pure la prova (ἔλεγχος) che il giovane discepolo deve sostenere. Come opportunamente osservato da Coxon20, B8 è introdotto da un resoconto delle evidenze lungo la via, sulla quale, nella narrazione, il kouros deve ancora viaggiare: gli argomenti di B8 valgono quindi come guida (filosofica), grazie a cui è possibile mantenere la direzione e percorrere fino in fondo la «via genuina» (ὁδός ἀληθής), in B2.4 connotata come Πειθοῦς κέλευθος. Come anticipato, Parmenide sembra articolare un doppio registro di evidenze da sottoporre all’attenzione; in effetti il testo recita (vv. 3-6): ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον· οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές che senza nascita è ciò che è e senza morte, tutto intero, uniforme, saldo e senza fine; né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo. Ne abbiamo sopra estratto due liste di attributi di ἐὸν: (i) ἀγένητον, ἀνώλεθρόν, οὖλον, μουνογενές, ἀτρεμὲς, ἀτέλεστον; (ii) νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές. L’argomento di B8 – pur coinvolgendoli complessivamente – sembra costruito per privilegiare questi enunciati: 20 Op. cit., p. 193. 441 γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται καὶ ἄπυστος ὄλεθρος è estinta nascita e morte oscura (B8.21) πᾶν ἐστιν ὁμοῖον è tutto omogeneo (B8.22) ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e, così, stabilmente dove è persiste (B8.29-30) οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές non incompiuto l’essere [è] lecito che sia: non è, infatti, manchevole [di alcunché] (B8.32-33). In questo senso appare plausibile la ricostruzione di Mourelatos21 (ripresa di recente anche da Robbiano22), elaborata tenendo conto delle convergenze tra gli interpreti sui seguenti blocchi testuali e relativi sÔmata di riferimento: B8.6-21: ἀγένητον (ingenerato) e ἀνώλεθρόν (imperituro); B8.22-25: συνεχές (continuo) e\o ἀδιαίρετον (indiviso); B8.26-31: ἀκίνητον (immobile, immutabile); B8.32-33: οὐκ ἀτελεύτητον (non incompiuto); B8.42-49: τετελεσμένον (compiuto). Possiamo precisare leggermente questo schema e privilegiare la discussione (ἔλεγχος) di quattro σήματα di base, riferibili, in quanto «segnavia», direttamente a ὁδός (ma, nella nostra traduzione, predicati di τὸ ἐόν), cui è poi possibile ricollegare gli altri: (i) «senza nascita e morte» (ἀγένητον, ἀνώλεθρόν B8.5-21); (ii) «tutto omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον B8.22-25); (iii) «immobile» 21 Op. cit., p. 95. 22 Op. cit., p. 108. 442 (ἀκίνητον B8.26-31); (iv) «compiuto» (οὐκ ἀτελεύτητον, τετελεσμένον B8.32-49). Di recente McKirahan23 ha proposto un elenco più minuzioso, classificando con una più articolata suddivisione in gruppi tutti i predicati: A: ἀγένητον (ingenerato) ἀνώλεθρόν (imperituro) B: οὖλον (intero) τέλειον24 (completo) ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme) συνεχές (che si tiene insieme) C: οὐδέ ποτ΄ ἦν (né un tempo era) οὐδ΄ ἔσται (né sarà) νῦν ἔστιν (è ora) D: ἀκίνητον (immobile) ἔμπεδον (immutabile) E: ἀτρεμὲς (stabile) F: μουνογενές (unico25) ἕν (uno). Nella nostra esposizione seguiremo lo schema di Mourelatos che abbiamo precisato, integrandolo con le osservazioni desumibili dall’elenco di McKirahan. Ingenerato (e imperituro) Il vero e proprio attacco argomentativo del frammento è formulato come interrogazione (vv. 6-7)26: τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale nascita, infatti, ricercherai di esso? Come e donde cresciuto? 23 “Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008, p. 191. 24 McKirahan legge hdè téleion in vece di ἠδ΄ ἀτέλεστον. 25 Noi abbiamo preferito rendere come «uniforme». 26 Ma alcuni sostengono che l'argomentazione cominci al verso precedente con οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται... 443 L’implicita opzione discutiva impronterà lo sviluppo discorsivo: la Dea non si limiterà a ragionare con il proprio (muto) ascoltatore, ma mimerà un autentico confronto dialettico, attribuendogli le convinzioni teoriche (o di senso comune) che è necessario confutare per dimostrare la propria tesi. Un possibile modello argomentativo I versi 7-15 – nella versione (a dire il vero tormentata) che abbiamo accolto e tradotto27 - possono esemplificare efficacemente la struttura del procedimento razionale di Parmenide: οὔτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι. τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί. οὐδὲ ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό· τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει· Da ciò che non è non permetterò che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare che «non è». Quale bisogno, inoltre, lo avrebbe spinto, originando dal nulla, a nascere più tardi o prima? Così è necessario sia per intero o non sia per nulla. Né mai concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. Per questo né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene. 27 Come risulta dalle annotazioni al testo greco, abbiamo accettato l'emendazione proposta da Karsten della forma ἐκ μὴ ὄντος attestata dai codici, in ἐκ < τοῦ ἐ > όντος.L’argomento – insieme agli interrogativi che lo introducono - ha come soggetto sottinteso (nella nostra traduzione) ἐόν (v. 3): per escluderne generazione (τίνα γένναν αὐτοῦ; - «quale nascita di esso?») e derivazione (πῇ πόθεν αὐξηθέν; - «come e donde cresciuto?»), la Dea non concede: (i) che esso possa nascere (φῦν) «originando dal nulla» (τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον) - «da ciò che non è» (ἐκ μὴ ἐόντος); (ii) che esso origini (γίγνεσθαi) «dall’essere» (ἐκ < τοῦ ἐ > όντος). Non rimanendo alternative, ella conclude il proprio ragionamento (a dimostrazione della tesi: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν) appoggiandosi alla superiore garanzia di Dike (il nume tutelare dei limiti e delle prerogative a essi associate), la quale vincola ciò che è a essere ἀγένητον (e ἀνώλεθρόν). La struttura dell’argomento risulterebbe dilemmatica, come segnalato dall'uso di οὔτε (v. 7) e οὐδέ (v. 12): «non è vero questo, e neppure è vero quest’altro», dove «questo» e «quest’altro» rappresentano le uniche due possibilità concepibili in proposito28, appunto ἐκ μὴ ἐόντος (v. 7) e ἐκ < τοῦ ἐ > όντος (v. 12 emendato). Di questa struttura si trova conferma nello scritto Sul non-essere di Gorgia (versione Sesto Empirico, Adversus mathematicos VII, 71): καὶ μὴν οὐδὲ γενητὸν εἶναι δύναται τὸ ὄν. εἰ γὰρ γέγονεν, ἤτοι ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος γέγονεν. ἀλλ’ οὔτε ἐκ τοῦ ὄντος γέγονεν· [...] οὔτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος·[...] οὐκ ἄρα οὐδὲ γενητόν ἐστι τὸ ὄν E ancora, l'essere non può neppure essere generato: se è stato generato, infatti, certamente è stato generato o dall'essere o dal non-essere; ma non è stato generato né dall'essere [...] né dal non essere [...]. L'essere, di conseguenza, non è stato generato; 28 Leszl, op. cit., p. 177. 445 e in Aristotele (Fisica I, 8 191 a23 ss.), con chiara allusione anche agli Eleati29: Ὅτι δὲ μοναχῶς οὕτω λύεται καὶ ἡ τῶν ἀρχαίων ἀπορία, λέγωμεν μετὰ ταῦτα. ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. Che così solamente si risolva anche la difficoltà dei pensatori antichi, lo diremo in quel che segue. Coloro, infatti, che per primi hanno indagato in modo filosofico la realtà e la natura delle cose furono sviati come spinti lungo una via diversa dalla loro inesperienza. Essi sostengono in effetti che degli enti nessuno né si genera né si distrugge: poiché ciò che si genera, necessariamente, si genera o da ciò che è o da ciò che non è, ma è impossibile che ciò accada in entrambi i casi30. L'essere, infatti, non si genera (perché è già) e nulla può generarsi dal non essere, dal momento che qualcosa deve fungere da sostrato. E sviluppandone ulteriormente le conseguenze, affermavano allora che non esiste il molteplice, ma solo l'essere stesso. Lo stesso Simplicio, parafrasando due volte il testo (Phys. 77, 9; 162, 11), offre questo senso: 29 Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy cit., pp. 129-133) ha contestato, con buoni argomenti, che il testo si riferisca esclusivamente agli Eleati. 30 Enfasi nostra. 446 καὶ γὰρ καὶ Παρμενίδης ὅτι ἀγένητον τὸ ὄντως ὂν ἔδειξεν ἐκ τοῦ μήτε ἐξ ὄντος αὐτὸ γίνεσθαι (οὐ γὰρ ἦν τι πρὸ αὐτοῦ ὄν) μήτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος Anche Parmenide infatti sosteneva che l'essere in senso pieno è ingenerato: mostrava che esso non si genera né dall'essere (poiché non c'è qualche essere oltre a esso), né dal non essere (162.11). Accettando questa lezione, ritroveremmo Parmenide impegnato a elaborare una dimostrazione dialettica rigorosa31: (i) gli interrogativi (retorici: τίνα [...] γένναν διζήσεαι αὐτοῦ;) introducono l’ipotesi contraddittoria alla tesi che l’autore intende dimostrare (nella forma gorgiana: εἰ γὰρ γέγονεν), in questo modo delineando la struttura dilemmatica di base: «ciò che è è ingenerato» (ἀγένητον ἐὸν) - «ciò che è è generato» (Gorgia: γενητόν ἐστι τὸ ὄν); (ii) tale ipotesi viene articolata in un nuovo dilemma: nascita e crescita implicano necessariamente un’origine o (a) ἐκ μὴ ἐόντος o (b) ἐκ < τοῦ ἐ > όντος (secondo lo schema citato da Simplicio); (iii) dal momento che entrambe le possibilità sono razionalmente insostenibili, l’ipotesi (nascita e crescita di ciò che è) si rivela infondata, e la sua contraddittoria, la tesi difesa da Parmenide, è dimostrata: «che ciò che è è ingenerato» (ὡς ἀγένητον ἐὸν … ἐστιν). Come abbiamo già segnalato, anche il contesto appare implicitamente dialettico: viene (monologicamente) mimato il dibattito tra un sostenitore (che pone gli interrogativi) e un oppositore (di cui si anticipano le risposte possibili) della tesi di Parmenide. Compito (retorico-persuasivo) della Dea rispetto al kouros (e al pubblico di ascoltatori e lettori di Parmenide) è di illustrare i passaggi della (virtuale) discussione, marcando il nesso tra «forza di 31 Contro questa ricostruzione, che presume l’introduzione (consapevole) di un modello argomentativo dilemmatico da parte dell’autore, può valere l’osservazione di Leszl (p. 178) secondo cui la sequenza di tre argomenti (vv. 7b-9a; vv. 9b-11; vv. 12-13a) rende improbabile una struttura dilemmatica. 447 convinzione» (πίστιος ἰσχύς), «giudizio» (κρίσις), necessità (ὥσπερ ἀνάγκη). Appare trasparente nella confutazione della prima possibilità: οὔτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò che non è non permetterò che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare che non è il riferimento a B2.7-8 e B6.1: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né indicarlo χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι È necessario il dire e il pensare che ciò che è è. Questo comporta che quanto leggiamo a livello frammentario fosse in realtà organizzato in una costruzione argomentativa complessa, che il discorso della Dea in B8 presuppone (e talvolta richiama esplicitamente): in particolare il μῦθος di B2. Il modello delle «uniche vie di ricerca per pensare» ricavate dall’alternativa «è»-«non-è», il rifiuto del secondo corno sulla scorta della sua inconsistenza (assenza di contenuto da pensare, dire e indicare) e dunque la piena accettazione della prima via di indagine («che è»), insieme alla conseguente esclusione di una effettiva “terza via” (B6.4-5, 8-9; B7.1), consentono a Parmenide di operare di fatto con i principi di non-contraddizione e del «terzo escluso»32: donde l’impossibilità di sostenere che «ciò che è» non sia, ovvero 32 Conche, op. cit., p. 142. 448 ammettere qualcosa che possa comportare che «ciò che è» non sia33. D’altra parte la pervasiva presenza della Dea - che pone domande e risponde (vv. 6b-7a: τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν;), che sottolinea i passaggi (v. 7b: οὔτ΄... ἐάσω;) e richiama le condizioni (v. 15b: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν...), che complessivamente ribadisce il rigore del procedimento seguito (v. 16b: κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη...) e ne conferma i risultati con il proprio commento (l’inciso ai vv. 17b-18a: οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός) – ci ricorda che il contesto narrativo entro cui si inserisce il ragionamento è comunque quello di una rivelazione. Il fatto che alcune premesse rimangano implicite si giustifica forse proprio con la forma apodittica della comunicazione divina: come osserva Mansfeld34, i «segni» sono ricavati - immediatamente o mediatamente - dalla disgiunzione di B2, le cui premesse sono garantite dal μῦθος della Dea. Questo potrebbe anche spiegare la scelta dell’espressione σήματα, il mezzo di comunicazione di una potenza superiore: Parmenide sceglie di lasciare la «parola» della Dea a fondamento di tutti i processi (e progressi) del pensiero in B835. Ella sollecita l’autonomia del discepolo, ma lo invita a registrare e ad aver cura di un μῦθος contrapposto a quanto comunemente assunto dai «mortali»: il suo ruolo pedagogicamente “eccede” lo stesso esercizio razionale, assicurandone i principi, così come le altre divinità evocate nel frammento (Dike, Ananke, Moira) “trascendono” (garantendolo) τὸ ἐὸν, ciò che, secondo l’istruzione razionale, pretende di dominare – di fronte al pensiero – senza eccezione36. 33 McKirahan, op. cit., p. 192. 34 Op. cit., pp. 103-4. 35 Mansfeld, op. cit., p. 106. 36 Su questo in particolare la terza edizione dell’opera di Couloubaritsis, più volte citata, Mythe et Philosophie chez Parménide, ora con nuova titolazione: La pensée de Parménide (en appendice traduction du Poème), Éditions Ousia, Bruxelles 2008, per esempio p. 247. 449 Nascita e crescita Abbiamo sottolineato come la prima sezione argomentativa si apra con tre interrogativi, che offrono alla Dea l’opportunità di dimostrare ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν; essi sono così formulati (vv. 6b-7a): τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale nascita, infatti, ricercherai di esso? Come e donde cresciuto? È possibile intenderli come introduzione ai tre successivi argomenti: (i) vv. 7b-9a: ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò che non è non permetterò che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare che non è; (ii) vv. 9b-10: τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; Quale necessità lo avrebbe mai spinto, originando dal nulla, a nascere più tardi o prima? (iii) vv. 12-13a: οὐδὲ ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό Né mai concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. 450 Le relative risposte negative sarebbero formulate espressamente ai vv. 13b-15a: τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per questo né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene. Piuttosto che sollevare problemi diversi (ancorché collegati) e rinviare a distinti argomenti, la progressione delle domande, il ricorso a interrogativi retorici (vv. 9-10) e la possibile articolazione dilemmatica sembrano evocare l’incalzare dialettico di un confronto, i cui termini di riferimento – il sostantivo γέννα («nascita», «generazione») e il participio αὐξηθέν («cresciuto», da αὐξάνω, «crescere, incrementare») – puntano direttamente al problema dell’origine, come esplicitamente rivelato dall’uso di due espressioni verbali indicative: ἀρξάμενον (da ἄρχω, «iniziare, cominciare, dare origine», da cui ἀρχή, «principio») e φῦν (da φύω, «generare, produrre», ma anche «sorgere, nascere», da cui φύσις, «natura»). In questo senso le tre formule inquisitive (τίνα γένναν, πῇ αὐξηθέν, πόθεν αὐξηθέν) potrebbero essere assunte come equivalenti: la seconda e la terza, in particolare, come riferentesi alle condizioni necessarie alla nascita: essa è un processo (questo spiega il «come?») che richiede un’origine («donde?»)37. Analogamente gli argomenti possono essere letti come momenti della stessa progressione negativa contro l’ipotesi di γένεσις di τὸ ἐόν: le domande ne articolerebbero le implicazioni per consentire di confutarne più efficacemente le condizioni di possibilità. 37 McKirahan, op. cit., p. 193; Robbiano, p. 112. 451 Nascita e morte oscura Proprio la connessione tra γέννα e φύσις (di cui «nascita» esprimerebbe uno dei significati originari) ha fatto supporre38 che Parmenide nel nostro passo discuta il senso stesso della nozione di φύσις, scomponendola nei suoi originari termini costitutivi, di fatto attaccando la riduzione dell’Essere a φύσις. Obiettivi della confutazione sarebbero, in particolare, Esiodo (il quale aveva posto il problema: chi venne per primo?) e i pensatori ionici (per la ricerca della ἀρχή) 39. Esemplari in questa prospettiva i frammenti di Anassimandro: ἀρχὴn... τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον... ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς ἐστι τοῖς οὖσι͵ καὶ τὴν φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεών· διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν. principio delle cose che sono è l’infinito... è secondo necessità che verso le stesse cose, da cui le cose che sono hanno origine, avvenga anche la loro distruzione [ovvero letteralmente: le cose dalle quali invero le cose che sono hanno la loro origine, verso quelle stesse cose avviene la loro distruzione secondo necessità]; esse, infatti, pagano le une alle altre pena e riscatto della colpa, secondo l’ordinamento del tempo (Simplicio; DK 12 B1) ταύτην (sc. φύσιν τινὰ τοῦ ἀπείρου ) ἀίδιον εἶναι καὶ ἀ γ ή ρ ω che essa [una certa natura dell’infinito] è eterna e non invecchia (Hippolitus; DK 12 B2) ἀθάνατον.. καὶ ἀνώλεθρον (τὸ ἄπειρον = τὸ θεῖον) immortale.... e indistruttibile (Aristotele; DK 12 B3). 38 Per esempio a Ruggiu, op. cit., p. 289. 39 Ivi, p. 290. 452 Il frammento B1 ci è conservato nella testimonianza di Simplicio, il quale nel suo commento alla Fisica aristotelica si serve del prezioso contributo di Teofrasto (uno degli ultimi a disporre probabilmente dell’opera del Milesio) nelle sue Opinioni dei fisici: la citazione, che appare sostanzialmente accurata40, è inserita in una presentazione delle opinioni di Anassimandro che è necessario non perdere di vista per intenderne correttamente le parole: [A.] [...] ἀρχήν τε καὶ στοιχεῖον εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον, πρῶτος τοῦτο τοὔνομα κομίσας τῆς ἀρχῆς. λέγει δ’ αὐτὴν μήτε ὕδωρ μήτε ἄλλο τι τῶν καλουμένων εἶναι στοιχείων, ἀλλ’ ἑτέραν τινὰ φύσιν ἄπειρον, ἐξ ἧς ἅπαντας γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τοὺς ἐν αὐτοῖς κόσμους· ἐξ ὧν δὲ... τάξιν [B 1], ποιητικωτέροις οὕτως ὀνόμασιν αὐτὰ λέγων. δῆλον δὲ ὅτι τὴν εἰς ἄλληλα μεταβολὴν τῶν τεττάρων στοιχείων οὗτος θεασάμενος οὐκ ἠξίωσεν ἕν τι τούτων ὑποκείμενον ποιῆσαι, ἀλλά τι ἄλλο παρὰ ταῦτα· οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ στοιχείου τὴν γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως. [...] dichiarò l’apeiron principio e elemento delle cose che sono, adottando per primo questo nome di “principio”. Egli sostiene, infatti, che esso non sia né acqua né alcun altro di quelli che sono detti elementi, ma che sia una certa altra natura infinita, da cui originano tutti i cieli e i mondi in essi: [B1], parlando di queste cose così in termini piuttosto poetici. È evidente allora che, avendo considerato la reciproca trasformazione dei quattro elementi, non ritenne adeguato porre alcuno di essi come sostrato, ma qualcosa di diverso, al di là di essi. Egli poi non fa discendere la generazione dall'alterazione dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del movimento eterno. [...] (Simplicio; DK 12 A9). 40 Per l’analisi relativa si rinvia al fondamentale contributo di Ch. Kahn, Anaximander and the Origins of Greek Cosmology, Hackett, Indianapolis 19943, in particolare alla prima parte, dedicata alla documentazione dossografica. 453 Dal complesso di testimonianza e citazione possiamo in effetti intravedere nel testo di Anassimandro sei aspetti su cui si sarebbe concentrata la sua indagine: (i) l’ἄπειρον come «principio delle cose che sono» (ἀρχή τῶν ὄντων); (ii) «le cose che sono» (τὰ ὄντα), la totalità degli enti della nostra esperienza41, sottoposti ai processi di generazione (γένεσις) e corruzione (φθορά); (iii) «le cose dalle quali» (ἐξ ὧν) le altre («le cose che sono») hanno origine: nel contesto molto probabile il riferimento agli «elementi» (στοιχεία) – nel linguaggio peripatetico della testimonianza; più plausibile intendere i «contrari» (τὰ ἐναντία) da cui esse si fomerebbero direttamente, come documentato da PseudoPlutarco: φησὶ δὲ τὸ ἐκ τοῦ ἀιδίου γόνιμον θερμοῦ τε καὶ ψυχροῦ κατὰ τὴν γένεσιν τοῦδε τοῦ κόσμου ἀποκριθῆναι καί τινα ἐκ τούτου φλογὸς σφαῖραν περιφυῆναι τῶι περὶ τὴν γῆν ἀέρι ὡς τῶι δένδρωι φλοιόν [Anassimandro] sostiene anche che ciò che, derivato dall’eterno, è produttivo di caldo e freddo fu separato alla generazione di questo mondo, e da esso una sfera di fiamma si sviluppò intorno all'aria che circonda la terra, come la scorza intorno all'albero (DK 12 A10); (iv) «le cose verso cui» (εἰς ταῦτα) si produce (γίνεσθαι) la corruzione delle altre cose: gli elementi (ovvero i contrari) cui esse si riducono; (v) il come tale processo si sviluppa: «secondo necessità» (κατὰ τὸ χρεών), secondo l’ordine del tempo» (κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν) 42; 41 Su questo punto la nostra interpretazione diverge da quella di Kahn (pp. 180 ss.), che costituisce ancora un riferimento imprescindibile. 454 (vi) il perché, la causa del processo: il costante e compensativo confronto conflittuale tra i contrari (διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας). Da un punto di vista filologico, Kahn43 ha convincentemente insistito sulla probabile genuinità della citazione, rilevando, con riscontri nella letteratura del periodo, le ascendenze ioniche e arcaiche del lessico del frammento: è per noi di particolare interesse la conferma – addirittura nella costruzione sintattica – dell’uso omerico di γένεσις nel senso di «generazione» ma anche di «origine causale» e - accanto alla plausibile autenticità di φθορά (termine non attestato prima di Erodoto e Eschilo), come in Parmenide impiegato nella letteratura ippocratica in contrapposizione a αὔξη («crescita») - la possibilità di τελευτή («morte»), presente, con forme verbali derivate (τελευτᾶν), in Senofane (τελευτᾶι B27) e appunto in Parmenide (τελευτήσουσι B19). Secondo quanto attesta Ippolito: οὗτος ἀρχὴν ἔφη τῶν ὄντων φύσιν τινὰ τοῦ ἀπείρου, ἐξ ἧς γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τὸν ἐν αὐτοῖς κόσμον. ταύτην δ’ ἀίδιον εἶναι καὶ ἀγήρω [B 2], ἣν καὶ πάντας περιέχειν τοὺς κόσμους. λέγει δὲ χρόνον ὡς ὡρισμένης τῆς γενέσεως καὶ τῆς οὐσίας καὶ τῆς φθορᾶς [Anassimandro] disse che principio delle cose che sono è una certa natura dell'apeiron, da cui si generano i cieli e l'ordine [il mondo] che è in essi. Essa è eterna e non invecchia, e inoltre circonda tutti i mondi. parla poi del tempo in quanto la generazione, l'esistenza e la dissoluzione risultato ben delimitate (DK 12 A11), 42 Secondo S.A. White ("Thales and the Stars", in Presocratic Philosphy cit., p. 4) l'espressione rifletterebbe le conquiste astronomiche di Talete. Sullo stesso tema l'autore è tornato più diffusamente in "Milesian Measures: Time, Space and Matter", in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy cit., pp. 89-133). 43 Op. cit., pp. 168 ss.. 455 di quella «certa natura dell’infinito» (φύσιν τινὰ τοῦ ἀπείρου) Anassimandro avrebbe inoltre sostenuto che (i) è «eterna» (ἀίδιον) e (ii) «non invecchia» (ἀγήρω). Predicati analoghi a quelli - «senza morte» (ἀθάνατον, immortale) e «senza distruzione» (ἀνώλεθρον) - che Aristotele, riferendosi esplicitamente anche ad Anassimandro, aveva a sua volta citato, nel discutere dell’ἄπειρον come principio: non a caso marcandone il nesso con «il divino» (τὸ θεῖον). Ora, è possibile che Parmenide, nel complesso della sezione B8.6-21, tenesse presenti proprio il modello se non addirittura lo scritto di Anassimandro: le assonanze verbali (ovviamente per quanto la filologia ha potuto ricostruire del testo del Milesio) appaiono esplicite, così come l'esigenza di escludere che (i) «da ciò che non è» (ἐκ μὴ ἐόντος) qualcosa possa «essere cresciuto» (αὐξηθέν) – ovvero che qualcosa possa «nascere» (φῦν) «originando dal nulla» (τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον); appare chiaro soprattutto il disegno di sistematica contestazione di nozioni come γένεσις e γέννα (cui si deve aggiungere ὄλεθρος) e dell’idea stessa che (ii) «da ciò che è» (ἐκ < τοῦ ἐ > όντος) possa generarsi «qualcosa accanto [o oltre] a esso» (τι παρ΄ αὐτό). È una evidenza che la Dea, nella propria confutazione, insista sulla γένεσις, senza produrre, in effetti, una specifica argomentazione a supporto dell’incorruttibilità (ἀνώλεθρόν): sebbene poi sottolinei (vv. 14 e 21) di averlo fatto. Dobbiamo concludere44 che Parmenide giudicasse gli argomenti a sostegno di ἀγένητον sufficienti anche per ἀνώλεθρόν (considerando l’affermazione dell’indistruttibilità dell’essere implicita nell’esclusione della sua generabilità45); ovvero che non ritenesse necessario confutare la corruzione in quanto processo analogo, ancorché opposto, al precedente; o ancora che la rubricasse tra le espressioni della via negativa. Significativamente, egli connota ὄλεθρος («morte», distruzione) come ἄπυστος («oscura», oggetto di oblio) come aveva fat- 44 Con McKirahan, op. cit., p. 193. 45 Tarán, op. cit., p. 106. 456 to per la via negativa con παναπευθής («del tutto privo di informazioni» B2.6)46. D’altra parte, l’idea di forze elementari a un tempo «immortali» e tuttavia generate era parte della tradizionale concezione del mondo omerica ed esiodea (donde il genere teogonico) 47. Lo schema della testimonianza teofrastea ribadita da Simplicio potrebbe confermarne il residuo nella distinzione anassimandrea tra: (i) «principio» - τὸ ἄπειρον, pensato eterno e stabile, in contrapposizione all’instabilità degli elementi (στοιχεία); (ii) «contrari» (τὰ ἐναντία: di base «caldo» e «freddo») che scaturiscono per «separazione» (ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων), «a causa del movimento eterno» (διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως), e che producono con il proprio conflitto il processo cosmogonico (ovvero, più correttamente, la «cosmo-gono-phthoria»48); (iii) «cose» (τὰ ὄντα) sottoposte alla vicissitudine di generazione e corruzione. Il resoconto della Dea avrebbe dimostrato come, secondo ragione, «ciò-che-è», oltre a implicare la stessa incorruttibilità abitualmente attribuita al divino e a quanto a esso immediatamente connesso (i cieli), escludesse in ogni modo la possibilità stessa di «generazione», nel duplice senso di derivazione da qualcosa di «altro» dall'essere o di produzione di altro essere. Aristotele, i Milesi e Parmenide Possiamo trovare un'eco della discussione arcaica sulla «generazione» nella ricostruzione aristotelica delle origini della filosofia (Metafisica I, 3): a proposito della posizione della «maggioranza di coloro che per primi filosofarono» (τῶν δὴ πρώτων φιλοσοφησάντων οἱ πλεῖστοι), secondo cui «principi di tutte le co- 46 Mourelatos, op. cit., p. 97. 47 Ibidem. 48 A. Laks, Introduction à la «philosophie présocratique», PUF, Paris 2006, p. 10. 457 se» (ἀρχὰς πάντων) sarebbero «solo quelli nella forma di materia» (τὰς ἐν ὕλης εἴδει μόνας), Aristotele osserva: ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ σωζομένης ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da cui dapprima si generano e verso cui infine si corrompono, permanendo per un verso la sostanza, per altro invece mutando nelle affezioni, questo sostengono essere elemento e questo principio delle cose, e per questo credono che né si generi né si distrugga alcunché, dal momento che una tale natura si conserva sempre (983 b8- 13). Nello schema interpretativo di Aristotele, dunque, alle origini della tradizione filosofica ritroveremmo, per dar conto del divenire degli enti, l’applicazione di un principio: nulla si genera (dal nulla) e nulla si distrugge (nel nulla). Ciò avrebbe di fatto imposto una forma di «monismo materialistico»49, di riduzione del molteplice empirico all'unità soggiacente del principio materiale. Il movimento dal principio e verso il principio, cioè verso «quella natura che si conserva sempre» (τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ σωζομένης), richiama quasi letteralmente (il complemento di origine è espresso al singolare e non al plurale) il frammento anassimandreo. Più avanti, precisando tale posizione che riconosce «unico il sostrato» (ἓν τὸ ὑποκείμενον), Aristotele si riferisce implicitamente agli Eleati in questi termini: ἀλλ’ ἔνιοί γε τῶν ἓν λεγόντων, ὥσπερ ἡττηθέντες ὑπὸ ταύτης τῆς ζητήσεως, τὸ ἓν ἀκίνητόν φασιν εἶναι καὶ τὴν φύσιν ὅλην οὐ μόνον κατὰ γένεσιν καὶ φθοράν (τοῦτο μὲν γὰρ ἀρχαῖόν τε καὶ πάντες ὡμολόγησαν) 49 Secondo l'acuta lettura di Graham, Explaining the Cosmos…, cit., pp. 48 ss.. 458 ἀλλὰ καὶ κατὰ τὴν ἄλλην μεταβολὴν πᾶσαν· καὶ τοῦτο αὐτῶν ἴδιόν ἐστιν ma alcuni di quelli che sostengono l’unità, come sopraffatti da una tale ricerca, affermano che l’uno è immobile e così anche l'intera natura, non solo rispetto alla generazione e alla corruzione (questa è infatti convinzione antica, su cui tutti concordavano), ma anche rispetto a ogni altro mutamento: e questo era loro peculiare (984 a29-984 b1). L’inciso nel passo rende ancora più evidente l’assunto aristotelico secondo cui già i primi filosofi accettarono la doxa che è impossibile che qualcosa sia generato da ciò che non è, sviluppando sistemi in coerenza con essa: la peculiarità della posizione eleatica (a Parmenide si accenna esplicitamente due righe sotto) è risultato della “estremizzazione” della stessa doxa adottata dagli Ionici50. In pratica, Aristotele da un lato avalla una sorta di continuità tra la posizione ionica e quella eleatica - nella condivisione del principio esplicativo di fondo, dall’altro rileva lo scarto alla base della deviazione eleatica dall'indagine peri physeōs nella radicalizzazione dell’applicazione di quel principio, che avrebbe condotto alla negazione di ogni forma di divenire e dunque fuori dell’ambito della filosofia della natura. Torneremo più sotto sul modello cosmogonico e cosmologico milesio e sullo schema interpretativo aristotelico. È tuttavia opportuno anticipare come il complesso delle testimonianze (di matrice essenzialmente peripatetica) faccia in realtà intravedere la possibilità di una lettura diversa: dalla natura individuata come origine (ἀρχή) si sarebbero generate, per effetto in ultima analisi del moto intrinseco, alcune realtà elementari indipendenti (connesse ai «contrari»: Pseudo-Plutarco accenna a fuoco, aria e terra), da cui deriverebbe tutto il resto. Un modello pluralistico, che 50 Sulla ricostruzione aristotelica delle origini della filosofia sono molto interessanti le osservazioni di Leszl in W. Leszl, “Aristoteles on the Unity of Presocratic Philosophy. A Contribution to the Reconstruction of the Early Retrospective View of Presocratic Philosophy”, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, pp. 355-380, in particolare pp. 362 ss.. 459 ancora risentirebbe del politeismo teogonico esiodeo51, e che avrebbe suscitato dunque almeno due ordini di problemi di "second'ordine" (metacosmologici) per la riflessione posteriore: (i) perché una realtà dovrebbe avere una precedenza, un primato (ontologico) sulle altre? (ii) come è possibile che una natura ne produca altre? Da ciò che non è... Tornando ora al testo, per mostrare l’insensatezza degli interrogativi sull’origine di «ciò che è» espressi all’inizio della sezione: τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale nascita, infatti, ricercherai di esso? Come e donde cresciuto?, la Dea, come abbiamo già osservato, procede a considerare una prima eventualità: che ἐόν sia scaturito (nato e cresciuto) ἐκ μὴ ἐόντος. Tale possibilità è scartata sulla base di due successive argomentazioni: la prima si richiama alla linea di pensiero sviluppata nei frammenti precedenti: ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò che non è non permetterò 51 Su questo schema interpretativo si veda in particolare Graham, Explaining the Cosmos…, cit., capp. 3 e 4. Il tema era già stato affrontato dall'autore in saggi precedenti: per esempio in "Heraclitus' criticism of Ionian philosophy", «Oxford Studies in Ancient Philosophy», 1997, 15, pp. 1-50. A. Nehamas ("Parmenides Being/Heraclitean Fire", in Presocratic Philosophy, cit., pp. 45-64), con qualche distinguo, accetta lo schema proposto da Graham. Elabora un modello analogo S.A. White, “Milesian Measures: Time, Space, and Matter”, in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, cit., pp. 112 ss.. 460 che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare che «non è». (vv. 7b-9a). Abbiamo sopra rilevato in questo caso la ripresa delle tesi di B2.7-8 e B6.1, e dunque di quanto immediatamente rivelato dalla Dea: (i) esistono solo «due vie di ricerca per pensare» (B2.2); (ii) «una: è» (B2.3), «l’altra: non è» (B2.5); (iii) la seconda è di fatto impercorribile, in quanto παναπευθής ἀταρπός («sentiero del tutto privo di informazioni» B2.6); (iv) è allora necessario che ciò che è sia (cρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι B6.1). Il primo argomento dipende direttamente dall’autorevolezza (e dall’autorità) del μῦθος divino, per escludere, con le sue logiche implicazioni (la formula χρή, con le sue sfumature di cogenza, correttezza e opportunità), un percorso di ricerca che coinvolga la via negativa, cioè comporti concettualmente – a qualunque titolo – il ricorso a «ciò che non è». A questa contestazione fa seguito un secondo, più discusso, argomento (vv. 9b-10): τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; Quale bisogno lo avrebbe mai spinto, originando dal nulla, a nascere più tardi o prima? Come abbiamo segnalato nel commento, il testo greco lascia adito a due possibili interpretazioni. (i) Perché mai, in un momento qualsiasi, «ciò che è» dovrebbe generarsi? Nel «nulla», in effetti, manca una ragione per cui esso debba sorgere. (ii) Per quale circostanza – ammettendo che sia generato - «ciò che è» dovrebbe generarsi in un momento dato piuttosto che in un altro («più tardi piuttosto che prima»)? In realtà - «originando dal nulla» - non c’è ragione per cui un momento debba essere privilegiato rispetto a un altro: non vi è affatto ragione, dunque, per la sua generazione. In entrambi i casi ci troviamo in presenza dell’applicazione del principio di ragione, per cui un evento determinato è necessario 461 che abbia la propria «ragione», cioè la propria causa, in una situazione che possa produrlo (e quindi anche spiegarlo). La più antica, esplicita formulazione del principio è in Leucippo (dalle fonti ellenistiche supposto discepolo di Zenone e dunque considerato vicino alla concettualità eleatica): οὐδὲν χρῆμα μάτην γίνεται, ἀλλὰ πάντα ἐκ λόγου τε καὶ ὑπ’ ἀνάγκης nulla accade invano, ma tutto da ragione e necessità (DK 67 B2). In questo senso, la risposta di Parmenide agli interrogativi sull’origine di «ciò che è» è netta: nel «nulla» non è possibile rintracciare tale causa; non c’è ragione per cui «ciò che è» debba nascere (φῦν) dal nulla. Ma nella seconda interpretazione, al comune terreno rappresentato dal principio di ragione si aggiungerebbe un’ulteriore implicazione: il ricorso consapevole all'indifferenza rispetto al tempo52, per cui nulla si verifica senza che vi sia una ragione sufficiente a spiegare perché è così e non altrimenti. La nascita in un momento piuttosto che in un altro non è casuale, ma conseguenza necessaria di una causa determinata53: (i) affinché «ciò che è» si possa generare, è necessario si generi in un certo momento; (ii) ma, derivando dal nulla, non c’è ragione per cui si generi in un momento piuttosto che in un altro; (iii) non essendoci ragione per cui esso si generi in un qualche momento, esso non potrà mai generarsi. Insomma: deve esserci qualcosa che faccia la differenza: il non-essere non può fare differenza. È qui possibile ancora un’eco di Anassimandro, nel cui scritto sarebbe stata presente una particolare applicazione cosmologica del principio, per giustificare l’immobilità e la centralità della Terra all’interno della sfera celeste: 52 Leszl, op. cit., p. 183. 53 Conche, op, cit., p. 140. 462 τὴν δὲ γῆν εἶναι μετέωρον ὑπὸ μηδενὸς κρατουμένην, μένουσαν δὲ διὰ τὴν ὁμοίαν πάντων ἀπόστασιν La Terra è sospesa, da nulla dominata: rimane nel suo luogo a causa della equidistanza da tutto [da tutti i punti della circonferenza celeste?] (Ippolito; DK 12 A11) μέσην τε τὴν γῆν κεῖσθαι κέντρου τάξιν ἐπέχουσαν la terra giace in mezzo, occupando la posizione centrale (Diogene Laerzio; DK 12 A1) εἰσὶ δέ τινες οἳ διὰ τὴν ὁμοιότητά φασιν αὐτὴν μένειν, ὥσπερ τῶν ἀρχαίων Ἀναξίμανδρος· μᾶλλον μὲν γὰρ οὐθὲν ἄνω ἢ κάτω ἢ εἰς τὰ πλάγια φέρεσθαι προσήκει τὸ ἐπὶ τοῦ μέσου ἱδρυμένον καὶ ὁμοίως πρὸς τὰ ἔσχατα ἔχον· ἅμα δ’ ἀδύνατον εἰς τὸ ἐναντίον ποιεῖσθαι τὴν κίνησιν· ὥστ’ ἐξ ἀνάγκης μένειν vi sono alcuni, come Anassimandro tra gli antichi, che sostengono che essa [la terra] rimanga in posizione a causa della equidistanza: una cosa stabilita al centro, infatti, e equidistante rispetto agli estremi, non conviene si porti verso l’alto piuttosto che verso il basso o orizzontalmente; ma poiché è impossibile muoversi contemporaneamente in direzioni opposte, necessariamente rimane in posizione (Aristotele, De Caelo 295 b11-16; DK 12 A26). Nel caso del Milesio l’indifferenza (e quindi l’assenza di “ragione” per il movimento in una direzione o nell’altra) è espressa in relazione ai limiti celesti; Parmenide l’avrebbe applicata al tempo, nel senso di negare la possibilità che nel nulla si dia ragione per fare differenza, ai fini di un’ipotetica generazione dell’essere, tra un momento e l’altro. Appare tuttavia più plausibile che il filosofo intendesse semplicemente marcare la mancanza di una ragione per cui, «originando dal nulla», «ciò che è» si possa formare in un qualsiasi momento: nella completa negatività del non-essere non può tro- 463 varsi alcuna necessità che possa generarlo, nulla che possa fungere da ragione (causa) per la sua generazione54. Al termine del secondo argomento, al v.11, abbiamo un rilievo: οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί Così è necessario sia per intero o non sia per nulla. Insistendo sul valore avverbiale di οὕτως, qui non ritroveremmo la conclusione del ragionamento ma solo una sottolineatura importante: «ciò che è» deve essere integralmente ingenerato ovvero assolutamente non essere. In pratica la Dea ribadirebbe l’alternativa fondamentale della propria rivelazione, escludendo che tra le due vie possa darsi una via intermedia e dunque un commercio tra essere e non-essere. Come indicato in nota al testo, McKirahan55 ha riconosciuto al verso una funzione prolettica: segnalerebbe che quanto stabilito è rilevante per la successiva discussione. In effetti, πάμπαν πελέναι appare plausibile parafrasi di «tutto omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον), «tutto pieno d’essere» (πᾶν ἔμπλεόν ἐόντος) - discussi a partire dal v. 22 – piuttosto che di «ingenerato» o «ingenerato e incorruttibile». Se invece, come per lo più si riscontra tra gli interpreti, si attribuisce a οὕτως valore conclusivo («perciò»), il verso risulterebbe comunque anticipare la krisis dei vv. 15-16 («Il giudizio in proposito dipende da ciò: "è" o "non è"»), ribadendo l’assoluta incompatibilità di essere e non-essere e dunque negando un passaggio dal non-essere all’essere (e viceversa): nel contesto questo significa bandire definitivamente la possibilità di generazione «dal nulla», ovvero che ci possa essere una diversità dell’essere nel tempo56. Leszl, in particolare, convinto che l’uso degli avverbi sottolinei nei vv. 9-10 la preoccupazione parmenidea rispetto alla generazione nel tempo, interpreta: «in ogni momento l’essere c’è tutto o non c’è per nulla»57. In questo senso la conclusione – e- 54 Leszl, op. cit., p. 185. 55 Op. cit., p. 194. 56 Leszl, op. cit., pp. 185-186. 57 Ivi, p. 185. 464 scludendo il variare nel tempo di «ciò che è» – effettivamente diventa anche funzionale alla successiva discussione della sua omogeneità. Né mai dall’essere... Accettando l’emendazione di Karsten, i vv. 12-13a risultano: οὐδὲ ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό Né mai concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. In pratica, dopo aver eliminato la possibilità di una derivazione di «ciò che è» dal non-essere, la Dea si sbarazza rapidamente anche della possibilità alternativa: che «ciò che è» si generi da altro essere. In che senso, infatti, «qualcosa» (τι) potrebbe «generarsi» (γίγνεσθαί) «dall’essere» (ἐκ < τοῦ ἐ > όντος)? Parmenide assume che la nozione di γένεσις ἐκ < τοῦ ἐ > όντος introduca implicitamente la prospettiva di qualcosa di diverso dall’essere, cioè che «accanto [o oltre] a esso» (παρ΄ αὐτό) possa prodursi altro. È plausibile che anche qui egli si confronti direttamente con la riflessione sull’ἀρχή: nella misura in cui si riconosca l’ἀρχή come «ciò che è» e si tenga fermo il principio di esclusione del nonessere, che cosa potrebbe generarsi «accanto [oltre] a esso»? In pratica ammettere la generazione dall’essere comporterebbe riconoscere che: εἶναι μὴ ἐόντα siano cose che non sono (B7.1). La Dea in proposito può ricorrere a una formula di divieto diversa da quella “personale” utilizzata in B8.7 (ἐάσω... οὐδὲ «non permetterò che...»): in questo caso la proibizione risulta più astratta, vincolata a una considerazione razionale (οὐδὲ ποτ΄... 465 ἐφήσει πίστιος ἰσχύς «Né mai concederà forza di convinzione [certezza]», B8.12), alla linea di pensiero espressa nel testo precedente. Una versione alternativa dell’ultimo argomento è quella tradizionalmente accolta sulla scorta dell’autorevolezza del codice di Simplicio: οὐδὲ ποτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό Né mai dal non essere concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. (B8.12-3) Si tratterebbe di un ulteriore sostegno (il terzo) alla negazione della possibilità di generazione dal nulla, che presenta tuttavia una difficoltà: il riferimento, nel contesto, dell’espressione παρ΄ αὐτό. Coxon58, per esempio, traduce: Nor will the strength of conviction ever impel anything to come to be alongside it from Not-being, riconoscendo a παρ΄ αὐτό valore locativo e riferendolo all’essere. In modo analogo intendono il passo, tra gli altri, Mansfeld59, per sottolineare come ogni origine dal nulla sia impossibile (il nulla è l’assoluto nihil), e Cerri60, che vi intravede addirittura la dimostrazione che l’Essere è οὖλον μουνογενές e ἕν, συνεχές. Altri, come Leszl61 esplicitamente, riferiscono αὐτό a μὴ ἐόντος, e colgono una (nuova) giustificazione del principio di ragione (ex nihilo nihil fit): il non-essere, per la sua negatività, non può essere la causa di qualcosa. Conche62 segnala, in questo caso, come risulti incomprensibile attribuire valore comparativo ad αὐτό («autre chose que lui-mêmê»), dal momento che così la Dea implicherebbe l’esistenza del Non-essere. 58 Op. cit., p. 197. 59 Op. cit., p. 95. 60 Op. cit., p. 224. 61 Op. cit., p. 187. 62 Op. cit., p. 143. 466 Alcuni 63 di coloro che mantengono la lezione dei codici di Simplicio - e quindi non riconoscono struttura dilemmatica all’argomentazione parmenidea, rilevandovi piuttosto tre successive, insistite contestazioni contro la possibilità della genesi e dell’accrescimento dal non-essere - colgono nel passo un riferimento al concetto pitagorico di «vuoto» (= non-essere), così attestato in Aristotele: εἶναι δ’ ἔφασαν καὶ οἱ Πυθαγόρειοι κενόν, καὶ ἐπεισιέναι αὐτὸ τῷ οὐρανῷ ἐκ τοῦ ἀπείρου πνεύματος ὡς ἀναπνέοντι καὶ τὸ κενόν, ὃ διορίζει τὰς φύσεις, ὡς ὄντος τοῦ κενοῦ χωρισμοῦ τινὸς τῶν ἐφεξῆς καὶ [τῆς] διορίσεως· καὶ τοῦτ’ εἶναι πρῶτον ἐν τοῖς ἀριθμοῖς· τὸ γὰρ κενὸν διορίζειν τὴν φύσιν αὐτῶν Anche i Pitagorici affermarono ci fosse il vuoto, e che esso penetrasse, dall’infinito soffio, nel cielo [universo] come se [questo] respirasse, e che fosse il vuoto che delimita le realtà, quasi essendo il vuoto qualcosa di separato delle cose successive e di distinzione; affermarono anche che questo avvenga dapprima nei numeri: il vuoto, infatti, distingue la loro natura (Aristotele, Fisica IV, 6 213 b) οἱ μὲν οὖν Πυθαγόρειοι πότερον οὐ ποιοῦσιν ἢ ποιοῦσι γένεσιν οὐδὲν δεῖ διστάζειν· φανερῶς γὰρ λέγουσιν ὡς τοῦ ἑνὸς συσταθέντος, εἴτ’ ἐξ ἐπιπέδων εἴτ’ ἐκ χροιᾶς εἴτ’ ἐκ σπέρματος εἴτ’ ἐξ ὧν ἀποροῦσιν εἰπεῖν, εὐθὺς τὸ ἔγγιστα τοῦ ἀπείρου ὅτι εἵλκετο καὶ ἐπεραίνετο ὑπὸ τοῦ πέρατος Non si deve allora essere per nulla esitanti circa la questione se i Pitagorici non assumano o assumano la generazione: essi, infatti, affermano chiaramente che, una volta costituito l’uno – sia da superfici, sia da un piano, sia da un seme, sia da cose che sono in difficoltà a indicare – subito la parte prossima dell’infinito fu attirata e delimitata dal limite (Aristotele, Metafisica XIV, 3 1091 a13-18). 63 Cornford, Raven, Untersteiner, Mondolfo, per esempio. 467 Mondolfo64, in particolare, nel complesso della sezione B8.5- 21 non coglie semplicemente la negazione del divenire come processo di generazione e corruzione, in antitesi ai modelli cosmogonico e teogonico, ma l’attacco a una concezione determinata, di cui lo studioso ritiene si possano tracciare i contorni definiti: una dottrina che affermava la molteplicità in connessione con la discontinuità; che introduceva la generazione dell’essere, senza precisarne processo e necessità, e, soprattutto, suscitava il problema dell’inizio, suscettibile di accrescimento in relazione al nonessere. Come risulta appunto dall'attestazione aristotelica, si sarebbe trattato della cosmologia pitagorica, l’evocazione della quale spiegherebbe convincentemente anche la sequenza di interrogativi ai vv. 6-7 e in genere la scelta dei σήματα dell’essere da parte di Parmenide. Pur non escludendo le due possibilità - (i) che la versione dei codici di Simplicio sia quella corretta e (ii) che l’allusione sia effettivamente alla “respirazione cosmica”, che avrebbe lasciato anche altre tracce antiche (in Senofane e Pindaro, secondo Mondolfo65) – l’impressione è che in realtà l’insistenza del poeta sia essenzialmente su γενέσθαι e ὄλλυσθαι e che l’eventuale riferimento dottrinale sia da individuare all’interno di una discussione più ampia, in cui per Parmenide era fondamentale attaccare le posizioni che in qualche misura ancora implicavano γένεσις e ὄλεθρος. In questa prospettiva, l’emendazione che abbiamo accolto e la connessa ricostruzione argomentativa (in cui οὐδέ al v. 12 richiama οὔτε al v. 7) appaiono più convincenti. Sarebbe forse praticabile un’altra strada66 per l’interpretazione di ἐκ μὴ ἐόντος, tuttavia più complessa e meno plausibile: ammettere che l’espressione abbia un senso, nella lettura parmenidea, proprio in relazione alle nozioni di περιέχον, ἄπειρον e ἀρχή, quasi 64 E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte Prima, vol. II: Ionici e Pitagorici, a cura di R. Mondolfo, La Nuova Italia, Firenze 1967, pp. 652-3. 65 Ivi, p. 653. 66 Su questo Conche, op. cit., pp. 143-4. 468 che alle concezioni dei pensatori milesi e pitagorici fosse connaturato il «non-essere». Aristotele è ancora prezioso: διό, καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν per questo diciamo che di esso [riferimento all’ἄπειρον] non c’è principio, ma che esso stesso sembra essere principio di tutte le cose e tutte comprendere [abbracciare] e tutte governare (Fisica IV, 4 203 b10-12; DK 12 A15). Marcando l’origine degli enti nel loro complesso da un ἄπειρον-ἀρχή che è anche περιέχον (avvolge «tutte le cose»), Anassimandro – così come i pensatori che ne ereditarono a vario titolo lo schema cosmogonico - ne avrebbe fatto un “non-ente”, qualcosa di diverso dagli enti di cui sarebbe stato principio. È chiaro, comunque, che in questa accezione l’ἄπειρον-ἀρχή difficilmente avrebbe potuto essere inteso propriamente come nulla e appare dubbia la possibilità che in questo senso Parmenide vi si possa rivolgere polemicamente. Giustizia e le sue catene A questo punto del suo ragionamento - una volta esclusa la possibilità di γένεσις sia dal non-essere sia dall’essere e ribadito che «ciò che non è» non è dicibile e pensabile - la Dea può concludere provvisoriamente (vv. 13-15a): τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per questo né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene. 469 L’interesse del rilievo è legato al fatto che Parmenide sceglie, nel contesto della narrazione avviata con il proemio, all’interno del discorso che la Dea rivolge al proprio interlocutore, e in particolare di un passaggio argomentativo, di riconoscere a Dike – e poi a Ananke e Moira - un ruolo di garanzia: esso si presta a una lettura simbolica, quasi che la citazione della figura (e della funzione) mitica fosse semplice «metafora»67. Così intendono molti interpreti, per i quali i tre numi tradizionali, proprio per il loro intrinseco riferimento al rispetto dei limiti, sottolineerebbero la «ineluttabile legge dell’Essere» 68: in altre parole, come l’Essere debba sempre essere identico a se stesso. La questione è, in realtà, più complessa, sia dal punto di vista della costruzione del poema, sia da quello delle specifiche implicazioni: (i) Δίκη πολύποινος è elemento strutturale della narrazione: le sono espressamente attribuite una collocazione liminare e, in relazione a essa, una (tradizionale) mansione di sorveglianza; (ii) essa, tuttavia, sin dal proemio, è anche parte dell’azione: persuasa dall’intervento delle Eliadi, Giustizia vien meno al proprio compito di tutela del mondo infero e dei confini, consentendo l’accesso a un mortale; (iii) Θέμις e Δίκη sono espressamente evocate dall'anonima divinità all’esordio del suo discorso: il viaggio del poeta si compie non sotto l’impulso di Μοῖρα κακὴ, ma sotto l’egida della Giustizia. Le figure del mito (Dike, Ananke, Moira), insieme allo schema del «cammino» (ὁδός) - ovvero «pista» (πάτος) o «via» (κέλευθος), costituiscono la struttura portante nell'architettura dell’opera69, elementi di continuità nella sua articolazione, le sue condizioni “trascendentali”: il contesto entro cui le specifiche trattazioni su «ciò che è» e sulla Doxa assumono il proprio senso e statuto. Certamente le tre figure svolgono la propria mansione di 67 Ivi, p. 146. 68 Tarán, op. cit., p. 117. 69 Un aspetto, questo, registrato da Couloubaritsis nelle prime edizioni della sua opera e accentuato nell’ultima edizione, La pensée de Parménide, cit.. 470 garanzia “trascendendo” «ciò che è» (ἐόν), ovvero danno l’impressione, nelle parole della Dea, di sovrintendere (problematicamente) all’Essere dall’esterno70, a dispetto della sua assolutezza. In questa prospettiva, Dike, in particolare, assume nel poema una posizione peculiare: essa protegge τὸ ἐόν da γένεσις e ὄλεθρος avvolgendolo e trattenendolo in catene, in altri termini preservandone il perfetto equilibrio attraverso l’esclusione della coppia oppositiva nascita-morte71. Se nel proemio il suo ruolo era stato, secondo costume, quello di consegna al portale discriminante del mondo infero, di salvaguardia dei confini tra mondo della vita e mondo della morte, nel nostro passo tale connotazione si modifica nel senso che la garanzia passa per la discriminazione tra essere e non-essere, con conseguente immobilizzazione e omogeneizzazione dell’essere stesso: oltre l’essere non si dà un mondo altro. Possiamo solo registrare alcune espressioni indicative: οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (B8.13-15a) κρατερὴ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει Necessità potente nelle catene del laccio [lo] tiene (B8.30-31) Μοῖρ΄ ἐπέδησεν Moira [lo] ha costretto... (B8.37). La Robbiano ha accostato, su questo punto, la posizione di Parmenide a quella di Anassimandro, per cui, come sappiamo, l’ἄπειρον «circonda e governa» ogni cosa: Parmenide, reagendo 70 Robbiano, op. cit., pp. 166-7. 71 Ivi, pp. 174-5. 471 forse a questa soluzione e all’idea pitagorica di confine cosmico, avrebbe introdotto il riferimento a un limite estremo della realtà, sorvegliato da figure di garanzia. A dispetto delle differenze, entrambi gli autori avrebbero inteso marcare immutabilità ed equilibrio dell’universo, che nulla può giungere a turbare dall’esterno. Mentre l’ἄπειρον, tuttavia, appare come ipostatizzazione della causa dell’equilibrio, Dike, Ananke e Moira, pur sovrintendendo all’Essere dall’esterno (come l’ἄπειρον), non hanno consistenza ontologica, ma solo l’ufficio di orientare, guidare la comprensione dell’audience cui il poema si rivolgeva72. In realtà, il recupero del mito nel contesto, con la sua “eccedenza” rispetto al dato argomentativo, e la conseguente (apparente) «messa in questione» dell’assolutezza dell’essere, potrebbe segnalare, come vuole Couloubaritsis73, la difficoltà di Parmenide a giustificare argomentativamente uno stato limite o ultimo: nell’argomentazione sviluppata, infatti, nulla autorizzerebbe a ricavare non-miticamente la limitazione dell’essere. Il mito, attraverso l’uso che ne fa la dea, supplirebbe a questa mancanza, rivelando che il logos non ha autonomia assoluta: utilizzate per significare l’essere come se lo trascendessero, le figure delle tre divinità tradizionali acquisirebbero così uno statuto trascendentale e sarebbero il segno di un'integrazione, all’interno del poema, tra discorso significante e discorso mitico74. Giudizio ed essere D’altra parte, che la tutela di Giustizia sia essenzialmente logica si mostra nei vv. 15b-18: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής 72 Ivi, pp. 166-8. 73 Mythe et philosophie…, cit., p. 217. 74 Ivi, p. 250. 472 ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale. Il linguaggio e le immagini insistite - «sciogliendo le catene» (χαλάσασα πέδῃσιν v. 14), «nei vincoli di grandi catene» (μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν v. 26), «nelle catene del vincolo [lo] tiene» (πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει v. 31) – puntano, da un lato, direttamente alla pratica razionale della decisione giudiziaria, dall’altro alla conseguente restrizione di libertà: il vincolo che Giustizia impone non è arbitrario; la condizione che essa prescrive è logicamente incontrovertibile, donde la formula «secondo necessità» (ὥσπερ ἀνάγκη). Come abbiamo sopra ricordato, il passaggio evoca sinteticamente le ragioni della scelta dell’ἔστιν: (i) ripresa dell’alternativa tra le formule contraddittorie ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν; (ii) esclusione della via οὐκ ἔστιν: in quanto «non genuina» (οὐ ἀληθής), essa è anche ἀνόητον ἀνώνυμον; (iii) conseguente concentrazione su ἔστιν: «che l’altra esista e sia reale» (τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι). Sulla scorta di premesse individuabili negli esordi della sua comunicazione (B2), e di cui era stato opportunamente segnalato il rilievo, la Dea può ribadire l’impraticabilità del non-essere e delle nozioni che in qualche misura lo implichino, come appunto γενέσθαι e ὄλλυσθαι. Con una precisazione interessante: delineata come alternativa tra formule contraddittorie, ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν, in verità la krisis di B2 è tale solo apparentemente, dal momento che - la Dea deve riconoscere - la via οὐκ ἔστιν non è «genuina», è via solo in teoria, in quanto costruita sulla contraddizione con l’unica realtà: ἔστιν. È da escludere, dunque, che la stessa divinità possa in qualche misura servirsene, per esempio nella seconda sezione del poema, come qualche interprete vorrebbe. 473 Essere e tempo I versi che seguono (vv. 19-21) e concludono la prima sezione argomentativa del frammento sono ancora di controversa interpretazione: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο; εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι. τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται καὶ ἄπυστος ὄλεθρος E come potrebbe esistere in futuro l’essere? E come potrebbe essere nato? Se nacque, infatti, non è, e neppure [è] se dovrà essere in futuro. Così è estinta nascita e morte oscura. Che la dimensione temporale sia centrale è chiaro nell’uso dei tempi verbali e degli avverbi, così come è esplicita la connessione tra temporalità e γένεσις-ὄλεθρος. Il testo e la sua resa presentano difficoltà, di cui abbiamo dato notizia in nota. A un primo livello di lettura, appare evidente come Parmenide giochi sulla contrapposizione tra forme del verbo «essere» (εἶναι: ἔστι, ἔσεσθαι, τὸ ἐόν, ma anche πέλοι) e forme di «venire a essere» (γίγνεσθαι: γένοιτο, ἔγεντo, γένεσις). La convinzione da veicolare con tale costruzione verbale è che se l’essere (τὸ ἐόν) è coinvolto in processi («nacque» ovvero «dovrà essere [in seguito]»), e dunque diviene, esso propriamente «non è» (ovvero non è sempre allo stesso modo75), così contraddicendo l’immediata evidenza della «via: è» - che comportava l’altrettanto immediata ammissione: «non è possibile non essere» (ἔστι καὶ οὐκ ἔστι μὴ εἶναι). Ciò che è propriamente (τὸ ἐόν) è sempre uguale a se stesso, come suggerisce l’uso (durativo) di ἔστι; ciò che diviene (γένεσις può valere genericamente come «venire a essere»), come tale, è instabile, è e non-è (non è più o non è ancora). Già a livello verbale, dunque, Parmenide intende rilevare la reciproca incompatibilità delle condizioni designate dai due verbi. 75 Leszl, op. cit., p. 190. 474 Se τὸ ἐόν è venuto a essere, è ora diverso da come fu; se verrà a essere in seguito, ora è diverso da ciò che sarà76: il mutamento che implichiamo nelle espressioni temporali è inconciliabile con la natura dell’Essere (ingenerato e immortale). Interpretando, potremmo affermare, con Conche77, che quel che vale per la temporalità degli enti della nostra esperienza irriflessa non vale per l’essere di cui la Dea traccia i contorni: l’essere è «ora», nel senso che è sempre uguale a se stesso. In alternativa, in vece della polarità passato-presente ovvero «venire a essere»-«essere» (εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι), è possibile valorizzare l'implicazione tra «venire a essere» e «non-essere»: ogni venire all'esistenza, in effetti, presuppone sempre - indipendentemente dalla prospettiva temporale (passato remoto o futuro prossimo: εἰ ἔγεντo - εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι) - una non-esistenza (οὐκ ἔστι). In ogni caso, appare a questo punto evidente il nesso dell’argomento nel suo complesso con i vv. 5-6: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo. Negare il passaggio da non-essere a essere e viceversa – come nei vv. 6-18 – ovvero l’eventualità di un mutamento dell’essere nel tempo, significa riconoscere che «in ogni momento l’essere c’è tutto o non c’è per nulla»78 (ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί v. 11), e dunque collegare il ragionamento che porta a escludere γένεσις e ὄλεθρος al rilievo dell’identità di ciò che è con se stesso e alla problematica caratterizzazione di ἐόν rispetto alla temporalità che ritroviamo nei vv. 5-6. Interessante la ripresa del nesso in Melisso: 76 Tarán, op. cit., p. 105. 77 Op. cit., p. 148 78 Leszl, op. cit., p. 186. 475 ἀεὶ ἦν ὅ τι ἦν καὶ ἀεὶ ἔσται. εἰ γὰρ ἐγένετο, ἀναγκαῖόν ἐστι πρὶν γενέσθαι εἶναι μηδέν· εἰ τοίνυν μηδὲν ἦν, οὐδαμὰ ἂν γένοιτο οὐδὲν ἐκ μηδενός Sempre era ciò che era [qualsiasi cosa era] e sempre sarà. Se, infatti, fosse nato, è necessario che, prima di nascere, non fosse nulla; ora, se non era nulla, in nessun modo nulla potrebbe nascere dal nulla (DK 30 B1) […] εἰ γὰρ ἑτεροιοῦται, ἀνάγκη τὸ ἐὸν μὴ ὁμοῖον εἶναι, ἀλλὰ ἀπόλλυσθαι τὸ πρόσθεν ἐόν, τὸ δὲ οὐκ ἐὸν γίνεσθαι. εἰ τοίνυν τριχὶ μιῆι μυρίοις ἔτεσιν ἑτεροῖον γίνοιτο, ὀλεῖται πᾶν ἐν τῶι παντὶ χρόνωι [...] se diventa altro, infatti, è necessario che l’essere non sia uguale, ma che si distrugga ciò che era prima e si generi ciò che non è. Se allora si alterasse di un solo capello in diecimila anni, si distruggerebbe tutto quanto per tutto il tempo (DK 30 B7, §2) La stessa preoccupazione, di marcare l’indifferenza dell’essere rispetto al tempo, negare, in altre parole, la possibilità che il tempo possa comportare una differenza per l’essere, è espressa chiaramente in termini più lineari e immediati, sottolineando soprattutto la durevole identità temporale dell’essere. In questo senso, la sintetica connotazione melissiana di τὸ ἐὸν - «è eterno, infinito, uno, tutto uguale» (ἀίδιόν ἐστι καὶ ἄπειρον καὶ ἓν καὶ ὅμοιον πᾶν, DK 30 B7, §1) - interpreterebbe la formula parmenidea «è ora tutto insieme, uno, continuo» (νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές), in cui è necessario considerare l’avverbio unitamente agli attributi, per intendere correttamente il primo emistichio del v. 5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται. Ciò che la Dea sembra negare è la possibilità di pensare coerentemente: τὸ ἐόν «[in] un tempo [passato] era» ovvero «[in] un tempo [a venire] sarà». Accettando la nostra traduzione, espressioni verbali come «era» e «sarà» sono rifiutate in quanto modificate dall’avverbio ποτε («un tempo, una volta»). Il verso manifesterebbe allora il proprio senso nella contrapposizione tra tempi 476 verbali e forme avverbiali temporali: da un lato «né un tempo era» (οὐδέ ποτ΄ ἦν) e «né [un tempo] sarà» (οὐδ΄ ἔσται), dall’altro «è ora» (νῦν ἔστιν). Le due proposizioni coordinate sono a loro volta subordinate da un nesso causale - «poiché» (ἐπεὶ) – alla terza («è ora tutto insieme, uno, continuo»): in altre parole è il rilievo della completezza, omogeneità e integrità (ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές) di «ciò che è» a escludere qualsiasi forma di discontinuità e dunque di autentica discriminazione temporale. Questa costruzione si rifletterebbe anche nell’argomento complessivo dei vv. 6-21: la Dea dapprima si concentra sull’eventualità che «ciò che è» sia divenuto (nato e cresciuto), quindi (v. 19) considera interrogativamente che τὸ ἐόν possa esistere in futuro: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο; εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι E come potrebbe esistere in futuro l’essere? E come potrebbe essere nato? Se è nato, infatti, non è, e neppure [è] se dovrà essere in futuro. Se riscontriamo i vv. 5 e 20: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι possiamo notare come la Dea insista a marcare l'incompatibilità tra esistenza passata e\o esistenza futura (che implicano οὐκ ἔστι) e quella condizione presente (νῦν) che si esprime nell’«è»79 e ne riflette il valore «stativo»80. 79 Ma come insegna Palmer, ἔστιν è forma riassuntiva di ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι; o, come preferiamo, ἔστιν esprime immediatamente l’evidenza, di cui οὐκ ἔστι μὴ εἶναι è contestuale inferenza. 80 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit., p. 94. Sulla questione lo studioso italiano richiama i numerosi lavori di Kahn, ora riuniti in Ch.H. Kahn, Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009. 477 Isolando (e assolutizzando) le espressioni verbali (ἦν, ἔσται, ἔστιν, ἔγεντο, μέλλει ἔσεσθαι), si è avvertito in queste battute il delinearsi di un punto di vista ardito: l’idea dell’eternità come atemporalità, totale estraneità dell’essere al tempo. Valorizzando, invece, le funzioni avverbiali (ποτε, νῦν), è forse più prudente limitarsi a segnalare come – pur sempre all’interno di una prospettiva temporale (che privilegia il presente) – la Dea rifiuti di riconoscere, in relazione a τὸ ἐόν, la validità (sensatezza) del riferimento alle dimensioni temporali del passato e del futuro. L’impressione che Parmenide insista sul presente per sottolineare l'identità dell’essere è rafforzata dalla reiterazione di formule di persistenza (e stabilità) già ricordate: τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει· né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (vv. 13-15a) κρατερὴ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει Necessità potente nelle catene del laccio [lo] tiene (vv. 30-31), cui possiamo aggiungere quella che è forse la formulazione più pregnante: ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e, così, stabilmente dove è persiste (vv. 29-30), dove la costruzione verbale (μένον, κεῖται, μένει) e avverbiale (ἔμπεδον ma anche le espressioni ἐν ταὐτῷ, καθ΄ ἑαυτό) segnala nuovamente la preoccupazione di fondo dell’autore circa identità 478 e immutabilità di «ciò che è», e sua estraneità a processi che possano contraddirle. Al v. 21 si conclude il lungo argomento, con l’esplicita esclusione dei due indicatori fondamentali del divenire (e, per quel che abbiamo potuto notare, della temporalità): τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται καὶ ἄπυστος ὄλεθρος Così è estinta nascita e morte oscura. In entrambi i casi, l’accettazione di un «venire a essere» ovvero di una «distruzione» dell’essere comporterebbe l’implicita ammissione di ciò che non è, il riferimento a un impraticabile passaggio dal o verso il nulla. Comunque sia tradotto il verso (si vedano le annotazioni al testo), sulla scorta delle argomentazioni precedenti, Parmenide chiude la propria esposizione relativamente a un punto essenziale nel quadro della cultura contemporanea: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν che senza nascita è ciò che è e senza morte (v. 3). L’estinzione dei processi veicolati dai termini γένεσις e ὄλεθρος passa attraverso (i) la decisione tra «è» e «non-è», (ii) l’inaccettabilità della loro commistione, (iii) il riconoscimento che il nulla è inindagabile: donde forse la caratterizzazione della morte (distruzione) come ἄπυστος, «inaudita», «inconcepibile». Omogeneo e continuo I vv. 22-25 costituiscono un nuovo blocco a giustificazione dei σήματα: οὖλον (intero), μουνογενές (uniforme), ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme), συνεχές (continuo): οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος. τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει. 479 Né è divisibile, poiché è tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. È perciò tutto continuo: ciò che è si stringe infatti a ciò che è. Impermeabile al non-essere, «ciò che è» non può che essere «omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον letteralmente «tutto uguale»), «pieno» (ἔμπλεόν), «continuo» (ξυνεχὲς): in altre parole, è «tutto» (πᾶν, termine ripetuto tre volte in quattro versi) identico a se stesso (uniforme). In questo senso, esiste indubbiamente, tra questo gruppo di σήματα, il precedente e i successivi, la forte connessione garantita dai versi sopra citati: ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e, così, stabilmente dove è persiste (vv. 29-30). L’indivisibilità, l’irriducibilità dell’essere seguono alla sua omogeneità, alla sua densità, in ultima analisi al bando della via «non è»: nulla può inframezzarsi a «ciò che è». In poche battute la Dea sottolinea coerentemente tale omogeneità con una serie di espressioni: (i) «non c’è alunché che possa impedirgli di essere continuo»; (ii) «è tutto pieno di ciò che è»; (iii) «è tutto continuo»; (iv) «ciò che è si stringe a ciò che è». Ora, è chiaro che centrale risulta la (ii): πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος; una affermazione che sembra ricavata direttamente dalla enunciazione della tesi di fondo di B2 (ἔστιν τε καὶ [...] οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), esplicitata in B6.1-2a: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν. Dal riconoscimento dell’identità dell’essere con se stesso (ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι), e dal contestuale bando del nulla (μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν), seguono sia che «tutto pieno è di ciò che è», sia che nulla «possa impedirgli di essere continuo», e, ulteriormente, le due caratterizzazioni equivalenti del verso finale del passo: «è tutto continuo» e «ciò che è si stringe a ciò che è». Tutto intero, uniforme Parmenide suggerisce compattezza, coesione e identità, in forza di scelte espressive che escludono la possibilità di distinzione, riduzione, separazione: πᾶν ὁμοῖον, συνέχεσθαι, ἔμπλεόν, ξυνεχὲς πᾶν, πελάζει. Le implicazioni materiali e psicologiche della pienezza e dei vincoli evocati sono state messe in valore nell’analisi di Mourelatos81, il quale ha marcato la presenza sullo sfondo di due elementi: (i) la semplicità inqualificata di ciò-che-è; (ii) la negazione di dualismi. Questo consente di collegare il passo in questione con l’iniziale rilievo (v. 4) dell’espressione «tutto intero, uniforme» (οὖλον μουνογενές), che, sempre secondo Mourelatos82, anticiperebbe l’argomento a sostegno dell'indivisibilità, anche grazie all’amplificazione di B8.5b-6a: ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές. Come abbiamo segnalato in nota al testo, per il significato della formula μουνογενές lo studioso richiama un importante precedente esiodeo, che Parmenide avrebbe avuto ben presente e in opposizione al quale avrebbe coniato la propria espressione: Οὐκ ἄρα μοῦνον ἔην Ἐρίδων γένος, ἀλλ’ ἐπὶ γαῖαν εἰσὶ δύω· τὴν μέν κεν ἐπαινήσειε νοήσας, ἣ δ’ ἐπιμωμητή· διὰ δ’ ἄνδιχα θυμὸν ἔχουσιν Non vi era dunque un solo genere di Eris [Contesa], ma sulla terra ce ne sono due: l’una potrebbe onorare chi la comprenda; 81 Op. cit., pp. 111-2. 82 Ivi, p. 95. 481 l’altra è da riprovare; hanno animo diverso e opposto (Le opere e i giorni 11-13). Il segnavia μουνογενές indicherebbe dunque un'identità di genere, di natura, un’uniformità tale da escludere qualsiasi forma di potenziale discriminazione all’interno dell’essere: in questo senso sarebbe impiegato – nel nostro frammento – in antitesi alla dicotomia che il filosofo pone al fondo delle «opinioni mortali» (δόξας βροτείας v. 51), costruite intorno a una coppia di «forme» (μορφὰς δύο v. 53) distinte oppositivamente (τἀντία δ΄ ἐκρίναντο v. 55), e reciprocamente separate (σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων vv. 55b-56a). Accettando la lettura di Mourelatos, risulta ancora più evidente il ruolo decisivo della κρίσις richiamata al v. 16: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. È sulla scorta di essa, infatti, che la Dea può marcare l’inesorabile “uni-genericità” (o meglio uniformità) di «ciò che è», escluderne differenziazioni, proporlo come un blocco compatto nell’essere. Concentrandosi su ἔστιν ed escludendo οὐκ ἔστιν, è possibile affermare (di τὸ ἐόν): πᾶν ἐστιν ὁμοῖον. Una piena applicazione della formula della prima via di B2.3: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι. È possibile che l’insistenza su coesione e omogeneità dell’essere riveli ancora un'intenzione polemica nei confronti del modello cosmogonico ionico: come abbiamo già avuto modo di ricordare, le testimonianze su Anassimandro e Anassimene supportano uno schema di base, per cui l’origine del processo di formazione del mondo coinciderebbe con un atto di separazione da uno stato primitivo di indifferenziazione: φησὶ δὲ τὸ ἐκ τοῦ ἀιδίου γόνιμον θερμοῦ τε καὶ ψυχροῦ κατὰ τὴν γένεσιν τοῦδε τοῦ κόσμου ἀποκριθῆναι [Anassimandro] sostiene che ciò che, derivato dall’eterno, è produttivo di caldo e freddo fu separato alla 482 generazione di questo mondo (Pseudo-Plutarco; DK 12 A10) Ἀ. δὲ Εὐρυστράτου Μιλήσιος, ἑταῖρος γεγονὼς Ἀναξιμάνδρου, μίαν μὲν καὶ αὐτὸς τὴν ὑποκειμένην φύσιν καὶ ἄπειρόν φησιν ὥσπερ ἐκεῖνος, οὐκ ἀόριστον δὲ ὥσπερ ἐκεῖνος, ἀλλὰ ὡρισμένην, ἀέρα λέγων αὐτήν· διαφέρειν δὲ μανότητι καὶ πυκνότητι κατὰ τὰς οὐσίας. καὶ ἀραιούμενον μὲν πῦρ γίνεσθαι, πυκνούμενον δὲ ἄνεμον, εἶτα νέφος, ἔτι δὲ μᾶλλον ὕδωρ, εἶτα γῆν, εἶτα λίθους, τὰ δὲ ἄλλα ἐκ τούτων. κίνησιν δὲ καὶ οὗτος ἀίδιον ποιεῖ, δι’ ἣν καὶ τὴν μεταβολὴν γίνεσθαι Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, discepolo di Anassimandro, afferma, come quello, che unica e infinita è la natura soggiacente, non indefinita, tuttavia - come sosteneva quello - ma determinata, chiamandola aria. Afferma inoltre che essa si differenzia nelle sostanze per rarefazione e condensazione. Rarefacendosi, infatti, diventa fuoco, condensandosi invece vento, poi nuvola, e quando più condensato acqua, poi terra, poi pietre. Tutto il resto deriva da queste cose. Anch’egli pone eterno il movimento per cui si produce il mutamento. (Simplicio; DK 13 A5). Ἀ. δὲ καὶ αὐτὸς ὢν Μιλήσιος, υἱὸς δ’ Εὐρυστράτου, ἀέρα ἄπειρον ἔφη τὴν ἀρχὴν εἶναι, ἐξ οὗ τὰ γινόμενα καὶ τὰ γεγονότα καὶ τὰ ἐσόμενα καὶ θεοὺς καὶ θεῖα γίνεσθαι, τὰ δὲ λοιπὰ ἐκ τῶν τούτου ἀπογόνων. (2) τὸ δὲ εἶδος τοῦ ἀέρος τοιοῦτον· ὅταν μὲν ὁμαλώτατος ἦι, ὄψει ἄδηλον, δηλοῦσθαι δὲ τῶι ψυχρῶι καὶ τῶι θερμῶι καὶ τῶι νοτερῶι καὶ τῶι κινουμένωι. κινεῖσθαι δὲ ἀεί· οὐ γὰρ μεταβάλλειν ὅσα μεταβάλλει, εἰ μὴ κινοῖτο. (3) πυκνούμενον γὰρ καὶ ἀραιούμενον διάφορον φαίνεσθαι· ὅταν γὰρ εἰς τὸ ἀραιότερον διαχυθῆι, πῦρ γίνεσθαι, ἀνέμους δὲ πάλιν εἶναι ἀέρα πυκνούμενον, ἐξ ἀέρος < δὲ > νέφος ἀποτελεῖσθαι κατὰ τὴν πίλησιν, ἔτι δὲ μᾶλλον ὕδωρ, ἐπὶ πλεῖον πυκνωθέντα γῆν καὶ εἰς τὸ 483 μάλιστα πυκνότατον λίθους. ὥστε τὰ κυριώτατα τῆς γενέσεως ἐναντία εἶναι, θερμόν τε καὶ ψυχρόν [...] Anassimene, anche lui milesio, figlio di Euristrato, disse che il principio è aria infinita, da cui si generano le cose che nascono e le cose che sono nate e quelle che nasceranno e gli dei e le cose divine, mentre le altre cose derivano da quanto è da essa prodotto. (2) L’aspetto dell’aria è questo: quando è del tutto uniforme, essa risulta invisibile; si mostra invece con il freddo e il caldo e l’umidità e il movimento. Si muove sempre: le cose che mutano, infatti, non muterebbero, se essa non si muovesse. (3) Quando è condensata e rarefatta, infatti, appare in modo diverso: quando si dirada fino a essere molto rarefatta, diventa fuoco; mentre i venti, a loro volta, sono aria condensata; dall’aria poi, per compressione, si formano le nuvole, e, crescendo ancora la condensazione, l’acqua, e, crescendo di più, la terra, e, crescendo al massimo, le pietre. Così gli elementi fondamentali della generazione sono contrari, il caldo e il freddo (Ippolito; DK 13 A7). La fonte comune di Pseudo-Plutarco, Simplicio e Ippolito è Teofrasto, un teste affidabile: ricorrente - a dispetto della convinzione che di tutto unica sia la scaturigine in una φύσις ἄπειρος - è l’idea che: (i) fondamentale per la cosmogonia sia l’azione dei contrari (Ippolito lo afferma chiaramente: τὰ κυριώτατα τῆς γενέσεως ἐναντία): essa si dispiega, in Anassimandro, a partire da «ciò che è produttivo di», ovvero «ciò che può generare» (γόνιμον) caldo e freddo, ovvero, in Anassimene, dai processi di rarefazione e condensazione; (ii) la separazione del principio generativo degli opposti (γόνιμον), nel primo caso, ovvero la doppia azione esercitata sull’aria, nel secondo, sarebbero a loro volta effetto di un «movimento eterno» (κίνησις ἀίδιος) nella φύσις ἄπειρος, da Simplicio riconosciuto (per entrambi) come causa diretta del «mutamento» (μεταβολή). Il lessico peripatetico delle testimonianze fa intravedere la possibile sovrapposizione di due schemi esplicativi, che potrebbero ambiguamente essere stati compresenti nelle cosmologie (e cosmogonie) ioniche. Il primo – delineato dalle affermazioni di Simplicio su Anassimene secondo cui la «natura soggiacente» (ὑποκειμένη φύσις) «si differenzia nelle sostanze per rarefazione e condensazione» (διαφέρειν δὲ μανότητι καὶ πυκνότητι κατὰ τὰς οὐσίας), e confermato da qualche passaggio di Ippolito («condensata e rarefatta, infatti, appare in modo diverso» πυκνούμενον γὰρ καὶ ἀραιούμενον διάφορον φαίνεσθαι; ovvero «i venti, a loro volta, sono aria condensata» ἀνέμους δὲ πάλιν εἶναι ἀέρα πυκνούμενον) – è quello che prevale in Aristotele (e che è possibile ritrovare esplicitato in Diogene di Apollonia): la materia originaria ed eterna subisce alterazioni a causa del suo interno moto incessante, presentandosi così in varie forme fenomeniche. In questo schema le «sostanze» della lista proposta83 (fuoco, venti, nuvole, acqua, terra, pietre) non sarebbero realtà indipendenti, ma semplici stadi di passaggio nel ciclo di trasformazione dell’unico principio materiale. Conseguentemente, in questa prospettiva “monistica”, tutte le cose si ridurrebbero ad aria84. Il secondo è espressamente sottolineato da Simplicio in Anassimandro (citato in precedenza): [...] οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ στοιχείου τὴν γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως [...] Egli poi non fa discendere la generazione dall'alterazione dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del movimento eterno (DK 12 A9), 83 Che ha l’aria di essere citazione dall’originale teofrasteo: in questo caso non ritroveremmo una semplice parafrasi, con la proiezione della dottrina peripatetica dei 4 elementi, ma forse il riferimento a un elenco effettivamente anassimeneo. Su questo punto Kahn, Anaximander and the Origins of Greek Science cit., pp. 149-150. 84 Secondo un paradigma riduttivo già presente nel mito greco di Proteo, come segnala Kahn, op. cit., p. 151. 485 ma rilevabile anche nelle testimonianze su Anassimene, dove si marca la generazione di tutte le altre cose da un nucleo di «sostanze» (fuoco, vento, nuvola, acqua, terra, pietre). Secondo questo schema (pluralistico, con probabile eco del politeismo teogonico esiodeo), dal principio materiale (ἀέρα ἄπειρον ἔφη τὴν ἀρχὴν εἶναι) si sarebbero generate, come effetto di compressione e rarefazione, alcune realtà elementari indipendenti (le «sostanze» elencate), da cui risulterebbero tutte le altre cose. Una possibile, analoga oscillazione tra i due schemi si lascia cogliere anche nel contemporaneo Eraclito: κόσμον τόνδε, τὸν αὐτὸν ἁπάντων, οὔτε τις θεῶν οὔτε ἀνθρώπων ἐποίησεν, ἀλλ’ ἦν ἀεὶ καὶ ἔστιν καὶ ἔσται πῦρ ἀείζωον, ἁπτόμενον μέτρα καὶ ἀποσβεννύμενον μέτρα Questo mondo ordinato, lo stesso per tutti, nessuno degli dei o degli uomini produsse, ma fu sempre, è e sarà fuoco sempre vivo, che si accende secondo misura e si estingue secondo misura (Clemente Alessandrino; DK 22 B30) πυρός τε ἀνταμοιβὴ τὰ πάντα καὶ πῦρ ἁπάντων ὅκωσπερ χρυσοῦ χρήματα καὶ χρημάτων χρυσός Tutte le cose sono scambio con fuoco e il fuoco scambio con tutte le cose, come i beni sono scambio con oro e l’oro scambio con beni (Plutarco; DK 22 B90) ψυχῆισιν θάνατος ὕδωρ γενέσθαι, ὕδατι δὲ θάνατος γῆν γενέσθαι, ἐκ γῆς δὲ ὕδωρ γίνεται, ἐξ ὕδατος δὲ ψυχή per le anime è morte diventare acqua, per l’acqua, invece, è morte diventare terra, ma dalla terra si genera l’acqua, dall’acqua a sua volta [si genera] l’anima (Clemente Alessandrino; DK 22 B36) ζῆι πῦρ τὸν γῆς θάνατον καὶ ἀὴρ ζῆι τὸν πυρὸς θάνατον, ὕδωρ ζῆι τὸν ἀέρος θάνατον, γῆ τὸν ὕδατος 486 Il fuoco vive la morte della terra e l’aria vive la morte del fuoco, l’acqua vive la morte dell’aria, la terra la morte dell’acqua (Massimo di Tiro; DK 22 B76). Da un lato, soprattutto i primi due frammenti suscitano l’impressione che Eraclito riduca ogni cosa a fuoco, la natura originaria che si cela dietro ogni trasformazione; dall’altro il lessico (γενέσθαι, γίνεται, ζῆι, θάνατος) di B36 e B76 suggerisce l’idea di un ciclo di produzione di elementi, che scaturiscono gli uni dagli altri, senza una reale identità di base85. I limiti di documentazione (anche nel caso dei frammenti eraclitei) e il lessico e l’impostazione peripatetici delle testimonianze non consentono di stabilire con certezza quale schema fosse effettivamente operante negli autori ionici: in ogni modo è chiaro che, rispetto all’impegno argomentativo di Parmenide, essi potrebbero far sentire la loro presenza da due punti di vista. Intanto, come in precedenza segnalato, nell’insistenza parmenidea sul nesso γένεσις- ὄλεθρος e nell’eco biologica di molti termini ed espressioni ricorrenti nel poema (γενέσθαι, ὄλλυσθαι, γένναν, αὐξηθέν, ἀρξάμενον, φῦν), che potrebbero evocare la centralità della dimensione generativa decisiva nel secondo modello. Un lessico “biologico” è attribuito chiaramente, nelle testimonianze, in particolare ad Anassimandro, come rivelano l’uso del termine γόνιμον per indicare il nucleo originario dei processi reattivi che conducono alla formazione di un mondo (una sorta di base seminale del mondo stesso), e la scelta di un verbo - ἀποκριθῆναι (da ἀποκρίνεσθαι) – che evoca attività di secrezione. L’ἄπειρον stesso sarebbe stato proposto, allora, come fertile, feconda matrice, una sorta di “genitore” (in senso letterale), cui imputare in ultima analisi l’origine. In secondo luogo è evidente, nel poema, la riflessione sulle implicazioni “ontologiche” dei due possibili paradigmi esplicativi che possiamo cogliere nello schema attribuito dalle testimonianze ad Anassimene: (i) esiste una «natura soggiacente» (ὑποκειμένη 85 Graham, Explaining the Cosmos…, cit., pp. 124 ss.. 487 φύσις), «unica e infinita» (μία ἄπειρος), dalla quale, (ii) a causa di «movimento eterno» (κίνησις ἀίδιος), (iii) si produce «il mutamento» (τὴν μεταβολὴν γίνεσθαι), consistente nel (iv) suo differenziarsi «in sostanze» (διαφέρειν κατὰ τὰς οὐσίας), (v) «da cui» discenderebbero «tutte le altre cose» (τὰ δὲ ἄλλα ἐκ τούτων). A Parmenide non sarebbero sfuggiti: (a) la difficoltà di coniugare la consistenza d’essere della ὑποκειμένη φύσις, la sua eterna irrequietezza, e la realtà sostanziale delle «altre cose»; (b) il fatto che l’attività discriminante («differenziare», διαφέρειν) riferita alla realtà originaria ne minasse la compattezza (portando con sé la nozione di non-essere); (c) il problema della giustificazione dello stesso processo di generazione dal principio e\o della sua trasformazione. In effetti si tratta delle questioni di fondo che abbiamo ritrovato commentando i primi 25 versi di B8. Immobile e identico È probabile che allo stesso contesto rinviino i versi successivi (26-31), che sottolineano immobilità e immutabilità di ciò che è: αὐτὰρ ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν ἔστιν ἄναρχον ἄπαυστον, ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής. ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει· κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει, Inoltre, immobile nei vincoli di grandi catene, è senza inizio e senza fine, poiché nascita e morte sono state respinte ben lontano: convinzione genuina [le] fece arretrare. Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e, così, stabilmente dove è persiste: dal momento che Necessità potente 488 nelle catene del vincolo [lo] tiene, che tutto intorno lo rinserra. L’uso del termine ἀκίνητον non deve ingannare: ciò che è in gioco in questo passaggio non è tanto, nello specifico, il movimento, quanto il mutamento in generale, come suggerito da: (i) accostamento tra ἀκίνητον e altri due aggettivi – «senza inizio» (ἄναρχον) e «senza fine» (ἄπαυστον) – esplicitamente giustificati dalla precedente esclusione di γένεσις e ὄλεθρος; (ii) insistenza su identità durevole, fissità di stato e persistenza di τὸ ἐόν; (iii) variazione nel registro espressivo, con la reiterazione di immagini che suggeriscono certamente anche inabilità al moto, ma, nel contesto, soprattutto impossibilità di sviluppo, di cambiamento della propria situazione. Nell’identica condizione Insomma, Parmenide appare interessato a escludere dall’essere la possibilità di intrinseca motilità (connaturata invece, secondo le testimonianze, alla φύσις milesia) - donde forse l’aggettivo ἀτρεμὲς del v. 4 - e dunque, rispetto allo schema esplicativo che abbiamo riscontrato, di trasformazione (μεταβολή): da un punto di vista linguistico sono dominanti le espressioni che accentuano saldezza («stabilmente dove è persiste» ἔμπεδον αὖθι μένει) e staticità («in se stesso riposa» καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται), figurativamente accompagnate dalla suggestione dei «vincoli di grande catene» (μεγάλων δεσμῶν πείρατα), e del rinserramento dell’essere (τό μιν ἀμφὶς ἐέργει) a opera di «Necessità potente» (κρατερὴ Ἀνάγκη). Come abbiamo segnalato in nota al testo, il passo è ricco di echi letterari e riflette su un nodo (mutamento) ben documentato anche nella cultura filosofica arcaica: - ἀλλ’ ἀεί τοι θεοὶ παρῆσαν χὐπέλιπον οὐ πώποκα, τάδε δ’ ἀεὶ πάρεσθ’ ὁμοῖα διά τε τῶν αὐτῶν ἀεί. 489 - ἀλλὰ λέγεται μὰν Χάος πρᾶτον γενέσθαι τῶν θεῶν. - πῶς δέ κα; μὴ ἔχον γ’ ἀπό τινος μηδ’ ἐς ὅ τι πρᾶτον μόλοι. - οὐκ ἄρ’ ἔμολε πρᾶτον οὐθέν; —οὐδὲ μὰ Δία δεύτερον τῶνδέ γ’ ὧν ἁμὲς νῦν ὧδε λέγομες, ἀλλ’ ἀεὶ τάδ’ ἦς A. Ma sempre gli dei furono presenti e mai vennero meno: queste cose sono sempre uguali e sempre per sé stesse. B. Eppure si dice che Caos primo venne all’essere degli dei. A. Come possibile? Come primo non aveva da cosa derivare né verso cosa procedere. B. Nulla allora procedette per primo? A. Nemmeno per secondo, per Zeus,, almeno delle cose di cui ora stiamo discorrrendo in questo modo, ma esse furono sempre [...]. (Epicarmo; DK 23 B1) [...] — ὧδε νῦν ὅρη καὶ τὸς ἀνθρώπως· ὁ μὲν γὰρ αὔξεθ’, ὁ δέ γα μὰν φθίνει, ἐν μεταλλαγᾶι δὲ πάντες ἐντὶ πάντα τὸν χρόνον. ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι μένει, ἕτερον εἴη κα τόδ’ ἤδη τοῦ παρεξεστακότος [...] [...] Così ora considera anche gli uomini: l’uno cresce, l’altro, invece, deperisce: tutti sono in mutamento durante tutto il tempo. Ora, ciò che muta per natura e non mai nella stessa condizione permane, sarebbe già diverso da quel che era [...] (Epicarmo; DK 23 B2) αἰεὶ δ’ ἐν ταὐτῶι μίμνει κινούμενος οὐδέν οὐδὲ μετέρχεσθαί μιν ἐπιπρέπει ἄλλοτε ἄλληι 490 sempre nella stessa condizione permane, e per nulla si muove, né gli si addice spostarsi ora in un luogo ora in un altro (Senofane; DK 21 B26). Le citazioni di Senofane ed Epicarmo attestano, nella elaborazione contemporanea, la preoccupazione per il mutamento in associazione al tempo: tradizionalmente riferite al rapporto tra l’umano e il divino (Epicarmo), esse complessivamente contrastano i processi di crescita e deperimento, l’instabilità sostanziale degli esseri umani, con l’immota identità delle realtà divine («uguali e sempre per sé stesse» ὁμοῖα διά τε τῶν αὐτῶν ἀεί), connotata sia rispetto al tempo («sempre gli dei furono presenti e mai vennero meno», ἀεί τοι θεοὶ παρῆσαν χὐπέλιπον οὐ πώποκα), sia rispetto allo stato («ciò che muta per natura, e mai nella stessa condizione permane», ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι μένει) 86. Significativamente, nel suo breve frammento Senofane sembra giustificare l’immobilità divina con una considerazione di opportunità: «né gli si addice [ἐπιπρέπει] spostarsi ora in un luogo ora in un altro». La Dea di Parmenide, da parte sua, coniuga immobilità, immutabilità e identità sulla base di tre considerazioni: (i) generazione e corruzione sono state allontanate dallo scenario dell’essere con argomento conclusivo («convinzione genuina [le] fece arretrare» ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής): τὸ ἐόν è dunque indiscutibilmente sottratto alla linearità della relazione inizio-fine a causa della contraddizione che essa comporta; è ἄναρχον ἄπαυστον nel senso che non diviene; (ii) ingenerabilità, incorruttibilità, pienezza, omogeneità e continuità (sottolineate nei versi precedenti) pongono l’accento sull’identità di τὸ ἐόν con se stesso: essa appare il nuovo baricentro del discorso divino. La Dea, tuttavia, non propone un argomento a sostegno, né esplicitamente si appoggia al precedente, 86 È da osservare, in particolare, l’uso in entrambi gli autori dell’espressione ἐν ταὐτῶι μένει (in Senofane l’equivalente poetico ἐν ταὐτῶι μίμνει), nella duplice valenza (locativa e di stato) che ritroviamo in Parmenide. 491 limitandosi invece a citare la garanzia della vigilanza di Ἀνάγκη (Necessità-Costrizione) e, per due volte, dei suoi vincoli e catene; (iii) l’immobilità è collegata, attraverso la sottrazione dei processi di generazione e corruzione e il rilievo dell’identità di stato, all’argomento complessivo: il movimento viene assimilato a un mutamento di condizione dell’essere e quindi escluso87. Non incompiuto... Anche l’argomento a sostegno dell’immutabilità di «ciò che è» dipende dunque, in ultima analisi, dalla κρίσις dei vv. 15-16: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. Su quel giudizio, in effetti, poggia saldamente la πίστις ἀληθής che esclude, dall’orizzonte della riflessione sull’essere, γένεσις e ὄλεθρος. Tale immutabilità è, a sua volta, utilizzata (vv. 32-33) come prova a favore della perfezione di τὸ ἐὸν 88: οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο. E per questo non incompiuto l’essere [è] lecito che sia: non è, infatti, manchevole [di alcunché]; il non essere, invece, mancherebbe di tutto. Interessante nel passaggio il fatto che Parmenide ricorra a una congiunzione (οὕνεκεν, «per questo») che riferisce l’affermazione successiva a quel che immediatamente precede: l’argomento si sostiene quindi sia sulla κρίσις e le sue conseguenze, sia sulle immagini di vincoli e catene, immobilizzanti ma anche identitarie. La suggestione divina di Ἀνάγκη opera a garanzia della compiutezza dell’essere, sorvegliandone e salvaguardandone la pienezza (πᾶν ἐστιν ὁμοῖον; πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος). 87 Leszl, op. cit., p. 209. 88 Su questo passaggio P. Curd, Eleatic Arguments, in Methods in Ancient Philosophy, edited by J. Gentzler, Clarendon Press, Oxford 1998, p. 18. 492 La Dea, insomma, annoda immobilità, immutabilità, identità e perfezione: οὐκ ἀτελεύτητον – come οὖλον μουνογενές (intero, uniforme), ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme), συνεχές (continuo, coeso) – discende dal rigetto della via ὡς οὐκ ἔστιν, e rivela dunque un carattere essenziale dell’essere. L’alternativa radicale ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν, con l’invito a valutare discorsivamente la robustezza degli argomenti (B7.5) e a concentrarsi su ἔστι e sui suoi «segnali» (B8.1- 2), comporta, infatti, la progressiva sottrazione di ogni negatività che potrebbe attentare all’integrità dell’essere, come manifesto nel v. 33, comunque lo si intenda: (i) l’essere non può essere in difetto in alcun modo (poiché «deve essere per intero o non essere per nulla»); il non-essere, invece, sarebbe totale assenza di realtà; (ii) traducendo diversamente, invece, avremmo: ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο non è, infatti, manchevole [di alcunché]; se non fosse [non-manchevole], invece, mancherebbe di tutto (v. 33); se l’essere fosse in qualche misura o per qualche aspetto carente, porterebbe con sé non-essere e ne sarebbe distrutto, come già marcato (o anticipato) al v. 11: ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί deve essere per intero o non essere per nulla. Se ora consideriamo, nel suo complesso, il nodo di questi versi centrali del frammento, possiamo forse cogliervi una presa di posizione nei confronti delle tesi che avevano delineato a un tempo il primato di un principio e i suoi sviluppi o le sue trasformazioni: che lo avevano considerato divino, attribuendogli eterna durata e vitalità, per garantire gli enti nella loro totalità; proteiforme (l’aria di Anassimene?) per giustificarne le traduzioni fenomeniche; infinitamente fecondo per sostenere gli incessanti processi di generazione e corruzione. 493 Essere e pensiero È appunto nella discussione di questo nodo che Parmenide inserisce (vv. 34-38a) quanto appare come un excursus, oggetto di un articolato dibattito, filologico e interpretativo, cui abbiamo accennato in nota al testo: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν· o;udèn γὰρ < ἢ > ἔστιν ἢ ἔσται ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος, ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι La stessa cosa invero è pensare e il pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è espresso, troverai il pensare. Né, infatti, esiste né esisterà altro oltre all’essere, poiché Moira lo ha costretto a essere intero e immobile. Accettando la nostra traduzione del v. 34, in effetti qui la Dea recupererebbe affermazioni avanzate in precedenza: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere (B3) χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι Dire e pensare: «ciò che è è», è necessario (B6.1a). Ribadendo la connessione, che fa da sfondo a tutta l’esposizione divina, tra νοεῖν e εἶναι - e dunque anche l’impossibilità che «ciò che non è» (μὴ ἐὸν) possa realmente essere oggetto del pensiero89, secondo le indicazioni di B2.7-8: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις 89 Questo è quanto i versi in questione mostrerebbero secondo Curd, Eleatic Arguments, cit., p. 19. 494 poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né indicarlo - l’obiettivo sarebbe quello di escludere che possa darsi per l’intelligenza della realtà oggetto diverso dall’«essere» (ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος), che possa in altre parole essere assunto come realtà quanto si manifesta a livello di senso comune. Questa lettura sembra confermata da quel che segue immediatamente (vv. 38b-41): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso [ciò che è] tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. Gli eventi che i «mortali» (βροτοί) registrano quotidianamente e che in modo irriflesso interpretano come fenomeni di mutamento («nascere e morire», «cambiare luogo e mutare luminoso colore») – designandoli, illusi (πεποιθότες) della loro genuina consistenza (ἀληθῆ) - si rivelano, all'intelligenza critica sollecitata dalla Dea, per quello che in verità sono: «nome». Gli uomini, in altre parole, utilizzano una pluralità di espressioni - dalla Dea già esplicitamente proibite: «nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo» - per articolare e cadenzare una realtà che, correttamente valutata, risulta essenzialmente estranea a ogni accadere e mutare. L’unico genuino (vero) oggetto di intelligenza e linguaggio è «ciò-che-è»: indipendentemente da quel che i mortali pretendono di riferire nei loro pensieri e discorsi, ciò cui essi realmente pensano e possono pensare è τὸ ἐὸν 90. 90 McKirahan, op. cit., p. 202. 495 Prima di tornare a discutere i «segnali» lungo la via ὅπως ἔστιν – in particolare prima di riprendere e ulteriormente determinare il nodo cruciale dell’immobilità, immutabilità e compiutezza dell’essere – la Dea di Parmenide richiama l’attenzione su quanto implicito nelle sue affermazioni iniziali (B2-B3): per un pensare intelligente, capace cioè di afferrare consapevolmente il proprio oggetto, non può darsi altro orizzonte che ἐόν, dal momento che «ciò che non è» (μὴ ἐὸν) è intrinsecamente inconsistente. Molto discussa la formula impiegata (vv. 34-36a): ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν La stessa cosa è pensare e e il pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è espresso, troverai il pensare. Rispetto ai due enunciati (B3 e B6.1a) sopra ricordati, qui non si tratta semplicemente di un’affermazione di identità (generica) tra pensare ed essere (B3) ovvero di una presa d’atto della necessità per il pensiero di ammettere che «ciò che è è» (B6.1a). Qui la Dea si spinge a delineare a un tempo due relazioni - di identità (ταὐτὸν ἐστὶ) e di dipendenza (espressa da οὕνεκεν, che traduciamo come equivalente a ὅτι «che»91) - i cui membri risultato da un lato νοεῖν, dall’altro appunto «il pensiero» (νόημα) «che "è"». Non c’è altro oltre all’essere, quindi l’essere non può che essere l’oggetto del pensiero: la Dea sottolinea, infatti, come l’essere sia propriamente ciò «in cui» il pensiero è espresso, il campo entro cui necessariamente il pensiero si manifesta. Dal momento che τὸ ἐὸν è in verità il solo contenuto realmente pensato ed espresso nel linguaggio, qualsiasi cosa i mortali pensino o dicano e in qualsiasi modo la pensino o dicano, essi stanno parlando di ciò-che-è 92. C’è tensione, dunque, tra quanto essi sono «convinti» di nominare e 91 Ma che altri scelgono di rendere come «a causa di». 92 McKirahan, op. cit., p. 205. 496 quanto in realtà essi nominano: sebbene non ne siano consapevoli, ogni nome afferma l’essere. All’orizzonte (trascendentale) dell’essere non può sottrarsi il nominare dei mortali93. Nel contesto, insomma, a dispetto di una lunga tradizione interpretativa, intenzione della Dea sarebbe non tanto aprire una parentesi per discutere dell'inattendibilità dell’esperienza umana, quanto rilevare l’illusione che altro (dall’essere e dai suoi «segnali») possa essere l’ambito del pensare. In questione sarebbe allora la consistenza del mondo attestato empiricamente, ma non in quanto di per sé illusorio, risultato di un inganno dei sensi, piuttosto perché non inquadrato coerentemente, da un punto di vista logico, nell'unitaria cornice d’essere, e dunque frainteso. In quest'ottica, al linguaggio inadeguato dei mortali è contrapposto il linguaggio della verità dell’essere94. A chi si riferisce il termine βροτοί? Agli esseri umani in genere, evocando il tradizionale rilievo della loro debolezza cognitiva (rispetto alla conoscenza divina) e dunque accentuando la natura eccezionale dell'esperienza del poeta? Ovvero a un gruppo o a gruppi di sapienti rivali? Osservando le scelte espressive di Parmenide (γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν), potremmo riconoscere sia una generica allusione alle modalità ordinarie di lettura della realtà (cambiamento di luogo, mutamento qualitativo), sia l’accenno a un linguaggio più specifico (nascere e morire, essere e non essere): quello che sopra abbiamo individuato nelle testimonianze relative agli schemi cosmologici (e cosmogonici) milesi e nei frammenti eraclitei. A noi sembra, tuttavia, che questo passo - apparentemente una pausa nella sequenza argomentativa del frammento – faccia emergere un aspetto peculiare dell’approccio di Parmenide, una nuova dimensione speculativa. Ipotizzando che l’Eleate abbia preso le mosse dall’analisi delle implicazioni (ontologiche) di affermazioni relative alla φύσις o all'ἀρχή, denunciando le incongruenze delle lezioni cosmologiche (e cosmogoniche) circolanti, è 93 Ruggiu, op. cit., pp. 307-8. 94 Ibidem. 497 possibile si sia a un certo punto concentrato sulle condizioni di comprensione della realtà (dunque sulla stessa attività di νοεῖν): questione di «secondo livello» 95 (meta-cognitiva), intesa a far prendere consapevolezza, oltre che dei «segni» dell’essere, anche dei presupposti del pensare. L’ontologia che viene delineata traccia così a un tempo i requisiti necessari (stabilità, identità) alla conoscenza: la comprensione (νοεῖν) esige determinate condizioni formali (proprietà) per l’intelligibilità del proprio oggetto; condizioni che Parmenide potrebbe aver fatto emergere nel confronto serrato (meta-critico) con le teorie della natura della tradizione ionica96. Moira lo ha costretto... Per la terza volta nel frammento, la Dea assicura il proprio ragionamento ricorrendo a un’immagine mitica (e a una formula epica): Moira «ha costretto» (ἐπέδησεν) ἐόν «a essere intero e immobile» (οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι). È in forza di tale “destino” che nulla «esiste o esisterà» (ἔστιν ἢ ἔσται) «oltre all’essere» (πάρεξ τοῦ ἐόντος): ciò, in primo luogo, comporta ancora (come nel caso di Giustizia e Necessità) che la garanzia di Moira risulti formalmente essenziale per affermare integrità, unicità e immutabilità dell’essere (e dunque per sostenere come i «nomi» dei «mortali» si riferiscano in vero sempre e solo all’essere). Ma la superiore tutela di Moira impone, in secondo luogo, anche l’identità di essere e pensiero, nel momento in cui marca, appunto, come non possa esistere ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος («altro oltre all’essere»). In questo senso, rispetto a νοεῖν e ἐόν, essa riveste una funzione “trascendentale”: richiamando implicitamente le immagini dei legami (πείρατα) e delle catene (δεσμοί) ed esplicitamente la fissi- 95 G.E.R. Lloyd usa l’espressione «second’ordine», per esempio nel suo Le pluralisme de la vie intellectuelle avant Platon, in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique?..., cit., p. 44. 96 Graham, Explaining the Cosmos…, cit., p. 166. 498 tà (ἐπέδησεν - ἔμπεδον) dei ceppi (πέδαι), con la figura di Moira la Dea, da un lato, ribadisce la stabilità dell’essere, dall’altro indica in quella invariabilità un carattere fondamentale della conoscenza. Questa connessione tra saldezza di «ciò che è» e costanza del νόημα che la coglie è la stessa allusa in B4.1-2: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere. La Dea le contrappone la precarietà tutta umana e artificiale («saranno nome» ὄνομ΄ ἔσται) di quanto (πάντ΄ [...] ὅσσα) «i mortali stabilirono» (βροτοὶ κατέθεντο), lasciandosi poi traviare (πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ). Compiuto e omogeneo I versi (42-49) che concludono la sezione sulla Verità ne riassumono l’ontologia, insistendo particolarmente su compiutezza e omogeneità di «ciò che è», attraverso un ampio ricorso a metafore “spaziali”: αὐτὰρ ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν, εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ. οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν, οὔτ΄ ἐὸν ἔστιν ὅπως εἴη κεν ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ἄσυλον· οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει. Inoltre, dal momento che [vi è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto da tutte le parti, simile a massa di ben rotonda palla, 499 a partire dal centro ovunque di ugual consistenza: giacché è necessario che esso non sia in qualche misura di più, o in qualche misura di meno, da una parte o dall’altra. Non vi è, infatti, non essere, che possa impedirgli di giungere a omogeneità, né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è - qui più, lì meno, poiché è tutto inviolabile. A se stesso, infatti, da ogni parte uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti rimane. I versi propongono contestualmente due diverse prospettive: l’accostamento alla «massa di ben rotonda palla» (εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ) presuppone infatti un punto di vista “esterno”, per comunicare un’impressione ottica (“da fuori”) della compatta estensione dell’essere, della sua compiuta integrità; d’altra parte, la sottolineatura dell’equa distribuzione (ἰσοπαλὲς πάντῃ) «a partire dal centro» (μεσσόθεν), manifesta piuttosto un punto di vista “interno” (dal centro alla superficie perimetrale). Complessivamente il testo vuol riproporre ἐόν come totalità piena, densa, uniforme, e a tale scopo fa leva sulla nozione di «limite estremo» (πεῖρας πύματον), di un confine che rende plasticamente l’assoluto discrimine tra ἐόν e μὴ ἐὸν, logicamente essenziale a tutto il ragionamento della Dea. C’è un limite estremo Anche in questo caso – come in altri passaggi del poema – appare evidente il debito nei confronti dell’immaginario epico: ἔνθα δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί περ· χάσμα μέγ’, οὐδέ κε πάντα τελεσφόρον εἰς ἐνιαυτὸν 500 οὖδας ἵκοιτ’, εἰ πρῶτα πυλέων ἔντοσθε γένοιτο, ἀλλά κεν ἔνθα καὶ ἔνθα φέροι πρὸ θύελλα θυέλλης ἀργαλέη· δεινὸν δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσι.] [τοῦτο τέρας· καὶ Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι Là della terra nera e del Tartaro oscuro, del mare infecondo e del cielo stellato, di seguito, di tutti vi sono le scaturigini e i confini, luoghi penosi e oscuri che anche gli dei hanno in odio, voragine enorme; né tutto un anno abbastanza sarebbe per giungere al fondo a chi passasse dentro le porte, ma qua e là lo porterebbe tempesta sopra tempesta crudele; tremendo anche per gli dei immortali è tale prodigio. E di Notte oscura la casa terribile s’inalza, da nuvole livide avvolta (Teogonia 736-745. Traduzione di G. Arrighetti). Il passo esiodeo è di un certo rilievo nel nostro contesto, in quanto lega il tema delle «scaturigini» e dei «confini» di tutte le cose (πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν) a uno scenario infero in cui è inserito il riferimento alla «casa terribile di Notte oscura» (Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ), probabile prototipo della «dimora della Notte» (δώματα Nυκτός) evocata nel proemio di Parmenide. Né va dimenticato che la Dea promette nel poema «di tutto informare» (B1.28): almeno didascalicamente, l’ottica della sua comunicazione è situata effettivamente al «limite» del dicibile (dell’essere). Agli interpreti non è sfuggito il peso peculiare che nello sviluppo argomentativo di B8 progressivamente assumono le immagini che afferiscono al limite (πεῖρας) vincolante per l’essere: τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per questo né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (vv. 13b-15a) 501 ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν immobile nei vincoli di grandi catene (v. 26) ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι poiché Moira lo ha costretto a essere intero e immobile (vv. 37b-38a) κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει dal momento che Necessità potente nelle catene del vincolo [lo] tiene (vv. 30a-31b) ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί dal momento che [vi è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto (v. 42). Sono i legami variamente evocati a impedire all’essere di essere esposto a generazione e corruzione (ἀγένητον καὶ ἀνώλεθρoν), ovvero al mutamento (ἀκίνητον), e a garantirne integrità (o%ulon μουνογενές) e perfezione (οὐκ ἀτελεύτητον, τετελεσμένον). Come abbiamo in precedenza osservato, significativamente alle immagini di catene e vincoli sono associate figure di garanzia: Giustizia, Necessità, Moira. L’idea è quella di costrizione come destino ovvero legge dell’essere97, ma nel contesto, in relazione al pronunciamento circa l'esistenza di un «confine estremo» (πεῖρας πύματον), all'accostamento al «corpo di una palla ben rotonda» (εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ) e alle altre formule spaziali (πάντοθεν, μεσσόθεν) utilizzate, potremmo trovarci in presenza di una suggestione cosmologica. Secondo Schreckenberg98, l'idea di un estremo vincolo cosmico sarebbe antica e avrebbe avuto origine in ambiente pitagorico, come documenterebbe Aëtius: 97 H. Schreckenberg, "Ananke. Untersuchungen zur Geschichte des Wotgebrauchs", Zetemata 36, München 1964, pp. 75-6. Citato in Robbiano, op. cit., p. 141. 98 Op. cit., pp. 103 ss.. Citato in Robbiano, op. cit., p. 140. 502 Π υ θ α γ ό ρ α ς ἀνάγκην ἔφη περικεῖσθαι τῷ κόσμῳ Pitagora affermò che la necessità circonda il cosmo99, e confermerebbe la nozione pitagorica di ἄντυξ κόσμου («limite del cosmo»). In effetti, Aëtius attribuisce proprio a Pitagora l'introduzione del termine «cosmo» per indicare il tutto: Π. πρῶτος ὠνόμασε τὴν τῶν ὅλων περιοχὴν κ ό σ μ ο ν ἐκ τῆς ἐν αὐτῶι τάξεως Pitagora per primo chiamò l'insieme di tutte le cose cosmo, per l'ordine che vi regna (DK 14 A21) Ricordiamo, inoltre, come il tema dell’equilibrio del cosmo garantito dal confine cosmico si colleghi ad Anassimandro, del cui principio (l’apeiron) Aristotele afferma: [...] διὸ καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν [...] per questo motivo diciamo che di esso [principio] non vi sia principio, ma che sembra essere esso stesso principio di tutte le altre cose, e comprenderle [abbracciarle] tutte e tutte governarle (DK 12 A15). A suo modo Parmenide avrebbe potuto dunque fare proprio dall'ambiente culturale del tardo VI secolo il motivo dell'immutabilità e della stabilità dell’universo, espresso soprattutto nell'ultimo verso (v. 49) di questa sezione: οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει A se stesso, infatti, da ogni parte uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti rimane. Rispetto alla tradizione, tuttavia, muta profondamente l'ottica adottata: all'interno della sezione sulla Verità, l'Eleate rivolge il proprio sguardo alla realtà cosmica rilevando la dimensione d'es- 99 H. Diels, Doxographi Graeci, De Gruyter, Berlin 1965, 321 b4. 503 sere (ἐόν), rispetto alla quale svaniscono tutti gli elementi di discriminazione spaziale (così come erano stati neutralizzati tutti i riferimenti temporali)100. Nell'essere si riassumono omogeneamente tutte le cose: «ciò che è si stringe infatti a ciò che è» (v. 25: ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει). In considerazione dell'alternativa radicale «è-non è», «ciò che è» risulta compatto (v. 19: πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος), coeso (v. 25: ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν), compiuto (v. 27: οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι): οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν Non vi è, infatti, non essere, che possa impedirgli di giungere a omogeneità (vv. 46-47a). La proibizione di percorrere la via che pensa «che non è» fa sentire ancora la propria forza coinvolgente, nel determinare i contorni della realtà. In effetti, la recisa affermazione della Dea: «vi è un confine estremo» (πεῖρας πύματον) – sebbene ancora formalmente giustificata, a questo punto, dall'insistenza (mitica e\o metaforica) su vincoli e catene, e dalla sorveglianza dei relativi numi (Dike, Ananke, Moira) - interviene a completare il quadro ontologico, marcando in particolare l'integrità di «ciò che è» come totalità (v. 4: οὖλον μουνογενές; v. 5: ὁμοῦ πᾶν), di cui non a caso si enuncia: «è tutto inviolabile» (πᾶν ἐστιν ἄσυλον). La reiterazione di un avverbio connette inizio e fine del passo: τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν [ciò che è] è compiuto da tutte le parti (vv. 42b-43a) 100 Su questo punto il saggio di M. Kraus, Sein, Raum und Zeit im Lehrgedicht des Parmenides, in Frühgriechisches Denken, a cura di G. Rechenhauer, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2005, pp. 252-269, in particolare pp. 260-1 e 267-8. 504 οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει a se stesso, infatti, da ogni parte uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti rimane (v. 49). La compiutezza (in ogni direzione) di «ciò che che è» è sostenuta sulla base della sua "densità" ontologica: οὔτ΄ ἐὸν ἔστιν ὅπως εἴη κεν ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è - qui più, lì meno (vv. 47b-48a). Nulla può alterarne l'equilibrio, ovvero impedirne l'omogeneità (τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν): affermare l'essere comporta escluderne (con il non-essere) ogni possibile deficienza e dunque equivale ad affermarne eguaglianza, uniformità, totale identità con se stesso, in altre parole la inviolabilità (πᾶν ἐστιν ἄσυλον). Simile a massa... Estremamente controversa a livello interpretativo è la similitudine introdotta dalla Dea all'inizio del nostro passo (ma in conclusione della sua comunicazione di Verità!): εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ simile a massa di ben rotonda palla, a partire dal centro ovunque di ugual consistenza (vv. 43b-44a). Come abbiamo rilevato in nota al testo, tre punti sono criticamente determinanti: (i) il soggetto (sottinteso) della similitudine è ἐόν (con cui concorda ἐναλίγκιον); (ii) ἐναλίγκιον («simile») si riferisce non a «palla» (σφαῖρα) ma a «massa» (ὄγκος); 505 (iii) ἰσοπαλὲς («di ugual consistenza») è attributo del soggetto sottinteso («ciò che è») della affermazione iniziale, non di «massa di ben rotonda palla». Se è da escludere l'equazione tra «ciò che è» e corpo sferico, è difficile tuttavia – proprio in forza dell'eco spaziale di questi versi e dei successivi – sottrarsi all'impressione che Parmenide stia parlando di qualcosa comunque esteso: il tutto indifferenziato e omogeneo di cui si parla potrebbe dunque coincidere con la realtà universale (τὸ πᾶν, come suggerisce Furley101), colta "in quanto essere", in altre parole intuita appunto come ἐόν («ciò che è»), ovvero – più astrattamente – come τὸ ἐόν («l'essere»), con le relative conseguenze logiche. La novità della sezione sulla Verità (che culmina nei versi in esame) sarebbe, allora, non quella di volgersi a una realtà diversa da quella cosmica, ma quella di concentrarsi sul «tutto» (πᾶν, πάντοθεν, πάντῃ) - come già documentato negli autori ionici – in una prospettiva diversa dalla cosmologia milesia: le scelte espressive di Parmenide ci suggeriscono di definirla "ontologica". Essa consiste nel trasfigurare la realtà – la stessa realtà attestata dall’esperienza – alla luce di rigorose esigenze razionali, che la Dea introduce assiomaticamente in B2 e ribadisce in B8.15 (ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν). Parmenide indica questa attitudine con formule che evocano sia l'esame e la fatica argomentativa (B7.5: «valuta con il ragionamento la prova polemica», κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον), sia lo sguardo logicamente educato a evitare la contraddizione (B4.1: la possibile connessione tra λεῦσσε e νόῳ). Il risultato di questa considerazione originale della realtà cosmica è l'abbandono degli schemi esplicativi – cosmologici e cosmogonici – milesi e la riduzione del «tutto» alla compatta uniformità di τὸ ἐόν: nella sua identità logicamente garantita dall’effettiva indisponibilità di μὴ ἐὸν, ogni divenire e ogni discriminazione temporale sono sospesi, nell’eterna, continua gia- 101 D. Furley, The Greek Cosmologists. Volume 1: The formation of the atomic theory and its earliest critics, CUP, Cambridge 1987, p. 54. 506 cenza di «ciò che è» in se stesso (dunque nel presente); analogamente sono superate tutte le distinzioni di luogo, nella sua compiuta, omogenea, coesa estensione. Insomma, del cosmo milesio (e probabilmente pitagorico) sono evaporati i fattori cosmogonici - i contrari, la natura-principio, le masse elementari - ed è rimasto τὸ ἐόν, espressione che solo in questo senso designa qualcosa di astratto, non immediatamente riconducibile ai sensi: un intero indiscriminato102, in cui si riassume la realtà dell'universo, la totalità delle cose considerate appunto come essere103. Solo in coerenza con l'esigenza di permanenza, stabilità e identità incarnata da questa realtà-verità sarà possibile ripensare il mondo della esperienza. Se è vero che Parmenide non propone nella Via della Verità una propria cosmologia, ne fissa certamente le condizioni di possibilità, come la riflessione posteriore, da Empedocle agli atomisti, avrebbe mostrato. La similitudine con la «massa di ben rotonda palla» è introdotta per illustrare plasticamente un nodo decisivo della esposizione della Dea: ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν dal momento che [vi è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto da tutte le parti (vv. 42-43a). L'impressione è che Parmenide cerchi di utilizzare l'immagine della massa sferica per confermare l'intuizione della compiuta integrità dell'essere senza ricorrere a una tutela esterna, come avvenuto nei versi precedenti grazie alle figure divine (Dike, Ananke, 102 Kraus (p. 261) evoca in proposito una forma di esperienza immediata descritta da Ernst Mach, in cui l'universo nella sua interezza si sarebbe rivelato come massa indiscriminata e coesa. 103 Thanassas (Parmenides, Cosmos, and Being…, cit., p. 45) sottolinea in proposito come l'ἐόν di Parmenide sia direttamente comparabile alla espressione aristotelica tò $on *h? $on, in quanto denoterebbe la totalità degli enti (tò $on), richiamando tuttavia l'attenzione (nel secondo $on) sull’Essere di quegli enti. 507 Moira) e ai loro vincoli immobilizzanti, piuttosto attraverso il riferimento al carattere ultimo dell’estremità entro cui l’essere «uniformemente nei limiti rimane» (ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει) 104. Il limite è estremo: come in Esiodo si dà, rispetto all'abisso spalancato (χάος, χάσμ’ ἀχανές), una barriera insormontabile in cui tutte le cose hanno radice (πάντων πηγαὶ καὶ πείρατα), in Parmenide oltre il confine non c’è nulla, al di qua tutto l’essere, di conseguenza perfetto, compiuto (τετελεσμένον) da ogni parte (πάντοθεν) 105. La similitudine insiste sull’estensione compatta e sulla tensione uniforme: sull’uguale consistenza, dal centro al perimetro della sfera. Mourelatos ha osservato106 come la sfera si prestasse, tra le varie figure, all'estrazione di criteri di completezza, dal momento che è quella che ha estensione sempre «identica con se stessa». Che questi versi (i più citati del poema nell'antichità) fossero destinati a un forte impatto cosmologico, è rivelato soprattutto dalle riprese platoniche: come hanno puntualmente confermato le ricerche di Palmer107, la rappresentazione della grandiosa creazione del cosmo fisico da parte del demiurgo, sulla scorta del modello del vivente intelligibile, nel Timeo platonico propone un’impressionante concentrazione di allusioni (e parole) parmenidee: σχῆμα δὲ ἔδωκεν αὐτῷ τὸ πρέπον καὶ τὸ συγγενές. τῷ δὲ τὰ πάντα ἐν αὑτῷ ζῷα περιέχειν μέλλοντι ζῴῳ πρέπον ἂν εἴη σχῆμα τὸ περιειληφὸς ἐν αὑτῷ πάντα ὁπόσα σχήματα· διὸ καὶ σφαιροειδές, ἐκ μέσου πάντῃ πρὸς τὰς τελευτὰς ἴσον ἀπέχον, κυκλοτερὲς αὐτὸ ἐτορνεύσατο, πάντων τελεώτατον ὁμοιότατόν τε αὐτὸ ἑαυτῷ σχημάτων, νομίσας μυρίῳ κάλλιον ὅμοιον ἀνομοίου. λεῖον δὲ δὴ κύκλῳ πᾶν ἔξωθεν αὐτὸ ἀπηκριβοῦτο πολλῶν χάριν. ὀμμάτων τε γὰρ ἐπεδεῖτο οὐδέν, ὁρατὸν γὰρ οὐδὲν ὑπελείπετο ἔξωθεν, οὐδ’ 104 Couloubaritsis, Mythe et philosophie cit., p. 249. 105 Ruggiu, op. cit., p. 309. 106 Op. cit., pp. 127-8. 107 J. Palmer, Plato's Reception of Parmenides, O.U.P., Oxford 1999, pp. 193 ss.. 508 ἀκοῆς, οὐδὲ γὰρ ἀκουστόν· πνεῦμά τε οὐκ ἦν περιεστὸς δεόμενον ἀναπνοῆς, οὐδ’ αὖ τινος ἐπιδεὲς ἦν ὀργάνου σχεῖν ᾧ τὴν μὲν εἰς ἑαυτὸ τροφὴν δέξοιτο, τὴν δὲ πρότερον ἐξικμασμένην ἀποπέμψοι πάλιν. ἀπῄει τε γὰρ οὐδὲν οὐδὲ προσῄειν αὐτῷ ποθεν—οὐδὲ γὰρ ἦν [...] E gli diede una figura a sé congeniale e congenere. Ma la figura congeniale al vivente che doveva contenere in sé tutti i viventi non poteva essere che quella che comprendesse in sé tutte le figure possibili; per cui, lo tornì come una sfera, in una forma circolare in ogni parte ugualmente distante dal centro alle estremità, che è la più perfetta di tutte le figure e la più simile a se stessa, giudicando il simile assai più bello del dissimile. E ne rese perfettamente liscio l'intero contorno esterno per molte ragioni. Infatti, non aveva affatto bisogno di occhi, perché nulla era rimasto da vedere all'esterno, né di orecchie, perché nulla era rimasto da sentire; né vi era bisogno di un organo per ricevere in sé il nutrimento o per eliminarlo in seguito, dopo averlo assimilato. Nulla, del resto, poteva da esso separarsi e nulla a esso aggiungersi da nessuna parte, perché nulla vi era al di fuori [...] (Timeo 33b-c7)108. 108 Traduzione da Platone, Timeo, a cura di F. Fronterotta, BUR, Milano 2003.  [B8 VV. 50-61] Sin dalla antichità si è presentato il poema di Parmenide come suddiviso in un proemio e due sezioni, di diversa ampiezza: Verità (o via della Verità) e Opinione (o via della Opinione), secondo lo schema attestato da Diogene Laerzio: δισσήν τε ἔφη τὴν φιλοσοφίαν, τὴν μὲν κατὰ ἀλήθειαν, τὴν δὲ κατὰ δόξαν Disse che la filosofia si divide in due parti, l’una secondo verità, l’altra secondo opinione. (DK 28 A1). È plausibile che Proemio e prima parte complessivamente risultassero marcatamente più brevi rispetto alla seconda, di cui però abbiamo conservati soltanto quaranta versi (dei 150 circa complessivamente superstiti: 32 del solo B1 e 61 di B8!): 1/10, secondo le stime tradizionali, dell’intera sezione, che doveva coprire i 2/3 del poema1. Su questo elemento strutturale avremo modo di riflettere ancora più avanti. Discorso affidabile e opinioni mortali Gli ultimi 12 versi del frammento 8 DK, conservatici da Simplicio, segnano evidentemente il passaggio tra le due sezioni (Verità e Opinione), come rivela il contesto delle citazioni: συμπληρώσας γὰρ τὸν περὶ τοῦ νοητοῦ λόγον ὁ Π. ἐπάγει ταυτί [vv. 50-61] μετελθὼν δὲ ἀπὸ τῶν νοητῶν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ Π. ἤτοι ἀπὸ ἀληθείας, ὡς αὐτός φησιν, ἐπὶ δόξαν ἐν οἷς λέγει [vv. 50-52], τῶν γενητῶν ἀρχὰς καὶ αὐτὸς στοιχειώδεις μὲν τὴν πρώτην ἀντίθεσιν ἔθετο, ἣν φῶς καλεῖ καὶ σκότος < ἢ > πῦρ καὶ γῆν ἢ πυκνὸν καὶ 1 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 104. 510 ἀραιὸν ἢ ταὐτὸν καὶ ἕτερον, λέγων ἐφεξῆς τοῖς πρότερον παρακειμένοις ἔπεσιν [vv. 50-59] Concluso infatti il discorso intorno all'intelligibile, Parmenide aggiunge [citazione vv. 50-61] (Simplicio, Phys. 38, 28) Passando dagli intelligibili ai sensibili, o dalla verità, come lui si esprime, all'opinione, Parmenide, in quei versi in cui afferma [citazione vv. 50-52], pone a sua volta i principi elementari delle cose generate, secondo la prima antitesi che egli chiama luce e tenebra o fuoco e terra o denso e raro o identico e diverso, affermando, subito dopo i versi in precedenza citati, [citazione vv. 50-59] (Simplicio, Phys. 30, 13). Pur ipotizzando la posteriorità della suddivisione e sottotitolazione (Verità e Opinione) delle sezioni, non rimangono dubbi circa la funzione di cerniera di questo passo. Il linguaggio peripatetico del commentatore riflette in effetti un'altra celebre testimonianza sulla Doxa parmenidea, proposta nel primo libro della Metafisica aristotelica: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...], ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. Costretto, tuttavia, a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi 511 dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (Metafisica I, 5 986 b 31- 987 a 2). Verità e opinioni Il testo del frammento è, d'altra parte, a sua volta esplicito nel rilevare la svolta nell'esposizione divina: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando, che può ingannare (vv. 50-52). Da un lato la Dea sottolinea al proprio interlocutore la conclusione della «comunicazione attendibile» (πιστὸν λόγον) e della «riflessione sulla verità» (νόημα ἀμφὶς ἀληθείης) e, insieme, l'introduzione di «punti di vista mortali» (δόξας βροτείας), mettendolo sull'avviso: la costruzione verbale (κόσμον ἐμῶν ἐπέων) potrà risultare fuorviante (ἀπατηλὸν). Dall'altro, è comunque la Dea a tenere lezione (donde l'esortazione al kouros: μάνθανε), e le stesse scelte espressive richiamano puntualmente il programma educativo del prologo del poema. La rivelazione della dea innominata comprevedeva tre momenti distinti (ma concettualmente correlati): (i) l'indiscutibile Verità, (ii) le inaffidabili opinioni dei mortali, (iii) un adeguato resoconto dei contenuti di quelle opinioni, τὰ δοκοῦντα - «le cose accettate nelle opinioni», ovvero «le cose che appaiono». Nostra convinzione è che le premesse di B2 consentano di individuare espressamente in B8.1-49 la trattazione del primo punto, e complessivamente in B6, B7, B8 allusioni al secondo, non fatto oggetto di riscontro puntuale, ma solo genericamente di rilievi di fondo 512 (che poi gli interpreti proiettano in una direzione o nell'altra). Quella che tradizionalmente è chiamata Doxa doveva invece svolgere l'ufficio positivo di rileggere il quadro dell'esperienza in termini compatibili con le indicazioni della Verità: in pratica – secondo il costume dei precedenti ionici – offriva cosmogonia, cosmologia e zoogonia, probabilmente con dovizia di contributi, come risulta limpidamente dalla preziosa testimonianza di Plutarco (Contro Colote 1114b; DK 28 B10): ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro. È significativo il fatto che di questo διάκοσμος così poco sia stato conservato: come documenta anche l'urgenza della citazione di B8 da parte di Simplicio, è plausibile che fossero gli elementi più originali del poema – soprattutto premesse ed esposizione della Verità - ad attrarre l'attenzione dei compilatori: καὶ εἴ τωι μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη τοῦ Παρμενίδου μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου συγγράμματος anche a costo di sembrare insistente, vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide 513 sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto parmenideo (DK 28 A21). La seconda parte, in fondo, rientrava nei canoni della produzione cosmogonico-cosmologica milesia: non è un caso che di essa siano state tramandate, probabilmente, apertura e conclusione. «...l'ordine delle mie parole...» Come abbiamo sottolineato in precedenza, la Dea mette sull'avviso il proprio giovane interlocutore circa il mutamento di registro: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando, che può ingannare (vv. 50-52). Due dati risultano fuori discussione: (i) l'abbandono dell'esposizione della «Verità»; (ii) il passaggio alla considerazione di «punti di vista mortali» (δόξας βροτείας), in altri termini di una prospettiva diversa rispetto a quella divina. Nel contesto della narrazione ciò comporta da parte della Dea – che si rivolge a un essere umano – adeguare il proprio registro espressivo: pur continuando la propria lezione, ella avverte circa il potenziale disturbo (alla corretta intelligenza della realtà) conseguenza dell'adozione di un lessico adeguato a quei punti di vista. Come im precedenza denunciato (B8.38b-42), il linguaggio della pluralità e del divenire è virtualmente foriero di contraddizione e il relativo correlato oggettivo, il mondo delle cose in mutamento, è, dal punto di vista dell’essere, apparenza. Dal momento che – nonostante le denunce di B6, B7 e dello stesso B8 – la 514 Dea insiste perché il kouros apprenda (μάνθανε) quei contenuti, possiamo inferire che la sua esposizione: (a) non si concentrasse su opinioni che il giovane allievo potesse da sé ricavare dall'esperienza; (b) né, diffondendosi (secondo quanto ci attesta Plutarco) sugli aspetti fondamentali della realtà naturale, avallasse opinioni erronee (per circa i 2\3 del poema!); (c) piuttosto riconducesse l'esperienza umana all'interno della cornice della verità. A sostegno di questa lettura possiamo addurre i versi conclusivi del frammento (vv. 60-61): τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti. Si tratta in pratica dell'osservazione finale di un inciso lungo 12 versi, a cavallo tra Verità e Opinione, in cui la Dea (e il poeta attraverso la Dea) offre indicazioni sul passaggio tra le due sezioni. Le scelte lessicali sottolineano che l'esposizione successiva riguarderà l'organizzazione di una pluralità: così al κόσμον ἐμῶν ἐπέων del v. 52 corrisponde, al v. 60 l'espressione διάκοσμον ἐοικότα πάντα. Che si tratti dell'ordine verbale ovvero dell'ordinamento cosmico, è comunque implicito il rinvio a una molteplicità di elementi da sistemare: è possibile che Parmenide giocasse proprio sulla doppia valenza semantica di κόσμος, costrutto, disposizione, ma anche «mondo», accentuando i rischi della costruzione verbale (che può risultare «ingannevole», ἀπατηλόν). L'enunciazione divina è comunque connotata positivamente: il rilievo dei pronomi personali (σοι, ἐγὼ, σε) marca l'impegno e la responsabilità della Dea, nei confronti del kouros, di fornire in ogni modo una ricostruzione almeno relativamente plausibile del quadro complesso dei fenomeni naturali. L'adozione di un'ottica «mortale» implica la dimensione qualitativa dell'esperienza (in questo senso sembrerebbe scontato il ri- 515 chiamo a τὰ δοκοῦντα), come rivelano in particolare le connotazioni delle «due forme» (μορφαί δύο), e dunque l'adeguamento della prospettiva della comunicazione divina: donde l'urgenza di ridefinire i tradizionali strumenti (il modello oppositivo) di illustrazione dei fenomeni naturali, così da evitare le contraddizioni stigmatizzate nei frammenti precedenti. Complessivamente la preoccupazione è quella di fornire una spiegazione del mondo naturale (διάκοσμος) comunque superiore a quella della concorrenza. Rispetto alla sezione sulla Verità, in cui era essenziale determinare, con lo sguardo dell'intelligenza, la compatta fisionomia dell'essere (attraverso i «segni» di B8), l'urgenza avvertita nelle parole della Dea è quella di non abbandonare all'insignificanza il mondo dell'esperienza. Un ordinamento verosimile Può essere utile, per comprendere le movenze intellettuali di Parmenide, richiamare il testo di B4: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον. Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere, né disperdendosi completamente in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi. Se B4, la cui collocazione nel poema rimane molto discussa, mostrava come per il νόος la molteplicità dispersa degli enti (ἀπεόντα) «nel cosmo» (κατὰ κόσμον) si riconducesse alla identità di τὸ ἐὸν, alla sua inscindibile connessione (τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος 516 ἔχεσθαι), a partire dalla conclusione dell'attuale B8, dopo aver illustrato quell’identità in cui tutte le cose si riassumono e averne analizzato le proprietà, la Dea percorre in un certo senso la direzione opposta. Ella indica, infatti, come quella molteplicità che si manifesta all'esperienza, in cui l'intelligenza riconosce l'identità dell'essere, possa essere correttamente intesa nelle sue dinamiche, senza pregiudizio per la realtà annunciata dall'intelligenza. Parmenide non annuncia una distinzione di piani di realtà (anticipando Platone), ma rileva come all'unica realtà si possa guardare nell'ottica immediata dell'esperienza, ovvero attraverso il sondaggio dell'intelligenza, ricavandone due immagini sostanzialmente diverse: nel primo caso il quadro multiforme e plurale di dati mutevoli, nel secondo la sua estrema rarefazione negli attributi di B8.1-49, in cui molteplicità, differenza, movimento ecc. sono evaporati nella compattezza dell'essere. A partire dalle consuetudini empiriche (richiamate in B7.3 nell'espressione ἔθος πολύπειρον, «abitudine alle molte esperienze») si è spinti a considerare reale una molteplicità di enti in divenire, che si rivelano in contraddizione con gli esiti dell'esame cui l'intelligenza sottopone «ciò che è» (ἐὸν). Si tratterebbe, in fondo, di una diversa, più coerente e radicale modulazione del progetto di indagine ionico, almeno dando credito alla interpretazione peripatetica delle origini, con la riduzione di «tutti gli enti» (ἅπαντα τὰ ὄντα) all'unità di una «sostanza soggiacente» (οὐσία ὑπομενούσα), a un tempo «principio» (ἀρχή), «elemento» (στοιχεῖον) e «natura» (φύσις) delle cose (τῶν ὄντων): ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ σωζομένης ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da cui dapprima si generano e verso cui infine si corrompono, permanendo per un verso la sostanza, per altro invece mutando nelle affezioni, questo sostengono 517 essere elemento e questo principio delle cose, e per questo credono che nulla né si generi né si distrugga, dal momento che una tale natura si conserva sempre (Aristotele, Metafisica I, 3 983 b8-13). Da un lato Parmenide riconosce nel fatto d'essere la dimensione omogeneizzante che raccoglie a identità gli enti, ricavandone – attraverso l'esclusione del non-essere – le proprietà. Dall'altro, dopo aver denunciato le contraddizioni di fondo che minavano le cosmologie contemporanee, offre nella Doxa una ricostruzione che colloca quanto si manifesta nell'esperienza (τὰ δοκοῦντα) in un sistema esplicativo (διάκοσμος) adeguato (ἐοικότα) – in esplicita coerenza con le indicazioni dei «segni» (σήματα) della via «che è» (ὡς ἔστιν), come evidenzia ancora B9: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno egualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla, impiegando un lessico che è indiscutibilmente quello della conoscenza e non dell'errore, come conferma B10: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων 518 Conoscerai la natura etereα e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma dello splendente sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche della luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo vincolò a tenere i confini degli astri. Diagnosi di un errore Dopo aver annunciato il passaggio dalla «riflessione intorno a Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης) alle «opinioni mortali» (δόξας βροτείας) e il mutamento di registro - dalla necessaria enunciazione di «ciò che è è» (χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι, B6.1) all'ascolto dell’«ordine delle mie parole che può ingannare» (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων, B8.52) – la Dea concentra la propria attenzione, con una formula non priva di ambiguità, su uno schema linguistico di cui riscontra e stigmatizza, in un verso dal significato molto discusso, il limite concettuale: μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν· τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν - · Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme, delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada (B8.53-4). Di che cosa si tratta e a chi è riferita la decisione? Abbiamo indicato in nota al testo le principali opzioni interpretative contemporanee: in estrema sintesi, gli studiosi hanno individuato i destinatari della contestazione o genericamente nei «mortali», intendendo l'universale approccio umano al mondo naturale, o specificamente in una determinata posizione teorica (per lo più nel pitagorismo antico). Ma non appare plausibile che il modello 519 (dualistico) cui la Dea allude possa essere fatto valere in generale per gli esseri umani, né che esso, in particolare, possa univocamente riferirsi alla riflessione cosmologica milesia (sebbene lo schema polare vi svolga un ruolo rilevante). D'altra parte, la scelta di lasciare implicito il riferimento potrebbe spiegarsi – all'interno della cultura aurale in cui matura l'opera di Parmenide – con la possibilità da parte dell'audience di individuare facilmente il soggetto: in questo senso potrebbe considerarsi credibile, a dispetto delle nostre incertezze circa la sua fisionomia antica, la candidatura pitagorica. Riteniamo, in ogni caso, che il poeta intenda contestare non ogni possibile approccio "mortale", ma quello di un certo gruppo di pensatori, da cui evidentemente egli ha interesse a prendere le distanze, per introdurre poi un resoconto «appropriato», in relazione al quale impiega (in B9-10, come abbiamo sopra segnalato) espressioni indiscutibilmente positive, difficilmente riferibili a posizioni giudicate erronee. Due forme e la loro unità L'errore fuorviante (ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν: «in ciò sono andati fuori strada» v. 54b) che viene imputato dalla Dea è delineato dapprima in termini formali, distinguendone due momenti per focalizzare esattamente la sua genesi: (a) μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme... (v. 53) (b) τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare] (v. 54a). I due versi, come risulta anche dalla nostra rapida sintesi in nota al testo, sono stati oggetto di tormentate analisi linguistiche, per decidere della costruzione del primo e del significato del se- 520 condo. La nostra traduzione tiene conto delle diverse proposte interpretative (e filologiche), senza pretendere di fare chiarezza: è probabile, come suggerito da Mourelatos2, che il costrutto verbale fosse intenzionalmente ambiguo, se non addirittura ironico, forse concepito per un efficace attacco ad hominem. La diagnosi ruota intorno al punto (b): la Dea, in altre parole, stando alla nostra ricostruzione del significato dei versi parmenidei, censura (senza addebito esplicito) il mancato riconoscimento dell'unità nelle due «forme» introdotte per dar conto dei fenomeni. Una lettura nell'antichità già proposta da Simplicio: καὶ πεπλανῆσθαι δέ φησι τοὺς τὴν ἀντίθεσιν τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας si sono ingannati coloro che non colgono l'unità nella opposizione degli elementi che producono la generazione (Fisica 31.8-9). Per quanto ci è dato ricostruire dallo scarso materiale conservato, nelle battute che segnano il passaggio alla Doxa la Dea si intrattiene dapprima su un errore che evidentemente Parmenide considerava strutturale almeno in certi resoconti cosmologici: ciò per assumerne un modello (pitagorico?), evitandone a un tempo le implicazioni contraddittorie con l'insegnamento della Alētheia. La preoccupazione di rilevare con precisione (ἐν ᾧ, «in ciò...») la natura dell'erranza è probabilmente indice dell'esigenza di procedere comunque con lo schema dualistico, tenendo lontano lo spettro del non-essere. Si spiegherebbe così la cautela della Dea, la sua segnalazione delle potenzialità fuorvianti del proprio discorso sulle «opinioni mortali»: non a caso, dello schema adottato, subito si denuncia un impiego improprio, per poi (B9) marcare la corretta impostazione ontologica: [...] πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν [...] tutto è pieno egualmente di luce e notte invisibile, 2 Op. cit., pp. 228-9. 521 di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9.3-4). Il riscontro tra il passo conclusivo di B8 e B9 – che doveva seguire dappresso, secondo le indicazioni di Simplicio (contesto di B9: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν..., «poco dopo aggiunge...») – può autorizzare la lettura di Thanassas, secondo il quale l'aggettivo ἀπατηλὸν andrebbe riferito alle «opinioni dei mortali» criticate in B8.54-9, in stretta relazione con la formula «in questo si sono ingannati» (ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν): essa esprimerebbe l’errore delle ingannevoli δόξαι βροτείαι, preparando la correzione della «appropriata» (ἐοικότα) Doxa divina3. In effetti la Dea così passa a determinare il modello dualistico introdotto al v. 53: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων, τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma etereo fuoco, che è mite, molto leggero, a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (vv. 55-59). Rispetto alle precedenti allusioni agli errori dei «mortali», qui indubbiamente la situazione si presenta molto diversa. Confrontiamo, per esempio, questa analisi con la requisitoria contro la ὁδός διζήσιός richiamata ai versi B6.4-9: 3 Op. cit., p. 65. 522 αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν πλάττονται, δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον· οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος poi da quella [via] che mortali che nulla sanno s’inventano, uomini a due teste: impotenza davvero nei loro petti guida la mente errante. Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi, sgomenti, schiere scriteriate, per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso torna all'indietro. Nel contesto delle citazioni (DK 28 B6), Simplicio indica l'errore contestato: i «mortali che nulla sanno» hanno trascurato la κρίσις (decisione, scelta) tra τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν, imponendo così di fatto l'identità (εἰς ταὐτὸ συνάγουσι) tra essere e non-essere. Diverso il discorso a proposito delle «opinioni mortali» criticate in B8, ancora secondo Simplicio: καὶ πεπλανῆσθαι δέ φησι τοὺς τὴν ἀντίθεσιν τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας si sono ingannati coloro che non colgono l'unità nella opposizione degli elementi che producono la generazione (Fisica 31, 8-9). In questo caso, ciò che viene censurato è sostanzialmente l'errore opposto: il mancato rilievo dell'unità delle «forme» nell'essere. Si può notare, allora, accostando l'attenzione descrittiva di B8.55-59 alla dura requisitoria contro la confusione dei δίκρανοι di B6, come nella conclusione di B8 la Dea manifesti una diversa indulgenza per quelle convinzioni, di cui sembra rilevare pregi e difetti. Ella in pratica parrebbe, a un tempo, insistere sullo schema oppositivo e prendere le distanze, per i criteri ontologici della Alētheia, da una sua specifica applicazione. In questo senso, in parti- 523 colare, l'insistenza su una opposizione i cui membri risultano interamente separati e indipendenti: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων [...] [...] ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία [...] Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente gli uni dagli altri [...] [...] a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche opposte [...]. Diventa allora difficile credere che in B8.60-61, laddove afferma che: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto adeguato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti, la dea si riferisca alle erronee concezioni dei mortali appena determinate 4, mentre si rafforza l'impressione che il materiale frammentario della Doxa costituisca il residuo di uno sforzo positivo di comprensione del mondo naturale, definitosi proprio in relazione alla revisione di quello schema oppositivo (come confermerebbe B9). 4 Su questo punto in particolare J.H. Lesher, Early interest in knowledge, cit., p. 239. 524 Un modello elementare Abbiamo inizialmente utilizzato il contesto della citazione dei versi conclusivi di B8 da parte di Simplicio per osservare come il commentatore segnalasse il passaggio tra le due sezioni del poema. Ora dobbiamo riprendere quel contesto per determinare il modello proposto nella Doxa: συμπληρώσας γὰρ τὸν περὶ τοῦ νοητοῦ λόγον ὁ Π. ἐπάγει ταυτί [vv. 50-61] μετελθὼν δὲ ἀπὸ τῶν νοητῶν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ Π. ἤτοι ἀπὸ ἀληθείας, ὡς αὐτός φησιν, ἐπὶ δόξαν ἐν οἷς λέγει [vv. 50-52], τῶν γενητῶν ἀρχὰς καὶ αὐτὸς στοιχειώδεις μὲν τὴν πρώτην ἀντίθεσιν ἔθετο, ἣν φῶς καλεῖ καὶ σκότος < ἢ > πῦρ καὶ γῆν ἢ πυκνὸν καὶ ἀραιὸν ἢ ταὐτὸν καὶ ἕτερον, λέγων ἐφεξῆς τοῖς πρότερον παρακειμένοις ἔπεσιν [vv. 50-59] Concluso infatti il discorso intorno all'intelligibile, Parmenide aggiunge [citazione vv. 50-61] (Simplicio, Phys. 38, 28) Passando dagli intelligibili ai sensibili, o dalla verità, come lui si esprime, all'opinione, Parmenide, in quei versi in cui afferma [citazione vv. 50-52], pone a sua volta i principi elementari delle cose generate, secondo la prima antitesi che egli chiama luce e tenebra o fuoco e terra o denso e raro o identico e diverso, affermando, subito dopo i versi in precedenza citati, [citazione vv. 50-59] (Simplicio, Phys. 30, 13). La Dea prende dunque le mosse da uno schema in cui due μορφαί sono selezionate come «opposti nel corpo» (ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας) e connotate con proprietà reciprocamente ben distinte (σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων): i «segni» fisici erano essenziali e funzionali evidentemente alla concreta esplicazione dei fenomeni: τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, 525 ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἀτὰρ τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε da una parte, della fiamma etereo fuoco, che è mite, molto leggero dall’altra parte le caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (vv. 56b-59). Dalla testimonianza aristotelica sappiamo che, tra i primi seguaci di Pitagora, qualcuno produsse un sistema seriale di opposizioni entro cui è possibile riscontrare anche quella sfruttata da Parmenide: ἕτεροι δὲ τῶν αὐτῶν τούτων τὰς ἀρχὰς δέκα λέγουσιν εἶναι τὰς κατὰ συστοιχίαν λεγομένας, πέρας [καὶ] ἄπειρον, περιττὸν [καὶ] ἄρτιον, ἓν [καὶ] πλῆθος, δεξιὸν [καὶ] ἀριστερόν, ἄρρεν [καὶ] θῆλυ, ἠρεμοῦν [καὶ] κινούμενον, εὐθὺ [καὶ] καμπύλον, φῶς [καὶ] σκότος, ἀγαθὸν [καὶ] κακόν, τετράγωνον [καὶ] ἑτερόμηκες· ὅνπερ τρόπον ἔοικε καὶ Ἀλκμαίων ὁ Κροτωνιάτης ὑπολαβεῖν, καὶ ἤτοι οὗτος παρ’ ἐκείνων ἢ ἐκεῖνοι παρὰ τούτου παρέλαβον τὸν λόγον τοῦτον· καὶ γὰρ [ἐγένετο τὴν ἡλικίαν] Ἀλκμαίων [ἐπὶ γέροντι Πυθαγόρᾳ,] ἀπεφήνατο [δὲ] παραπλησίως τούτοις· Altri di questi stessi [Pitagorici] sostengono che i principi sono dieci, disposti in serie di opposti: limite e illimite, dispari e pari, uno e molti, destro e sinistro, maschio e femmina, fermo e mosso, diritto e curvo, luce e tenebra, buono e cattivo, quadrato e rettangolo. Analogamente sembra pensasse Alcmeone, sia che egli recuperasse da loro questa dottrina, sia che quelli la prendessero da lui: Alcmeone, infatti, fiorì quando Pitagora era vecchio e professò una teoria simile alla loro» (Metafisica I, 5 986 a22-31). Non è chiaro da dove Aristotele - che, secondo la tradizione dossografica, avrebbe sviluppato specifiche ricerche sui Pitagorici (Diogene gli attribuisce nel suo elenco delle opere sia un Πρὸς 526 τοὺς Πυθαγορείους sia un Περὶ τῶν Πυθαγορείων) – abbia ricavato quella tavola degli opposti, la cui antichità sarebbe attestata solo dal vago accostamento alle idee del contemporaneo di Parmenide Alcmeone. Gli specialisti sono divisi: Schofield5 ritiene che non ci siano in realtà elementi per stabilirne l'originalità pitagorica, ipotizzando piuttosto una sua dipendenza dal modello parmenideo. Più plausibile allora l'associazione con l'ambiente di Filolao (seconda metà del V secolo a.C.)6. Ma di recente Kahn7, pur rilevando nella doppia lista la possibilità di un'eco accademica, osserva come la modalità con cui opposti astratti e concreti, matematici ed estetico-morali sono combinati potrebbe rinviare effettivamente a uno schema arcaico. Essendo implausibile (a causa dell’espliito riferimento a una «decisione»: κατέθεντο ὀνομάζειν) che la fisica dualistica proposta rispecchiasse una prospettiva genericamente umana, e che si riferisse direttamente solo alle cosmologie milesie (in cui il dualismo oppositivo indubbiamente agisce), ammettendo che essa dovesse risultare in ogni caso perspicua agli originari destinatari del poema, la considerazione del contesto geografico e culturale entro cui Parmenide operò, e le tenui indicazioni della tradizione dossografica: di; meno affidabile Giamblico DK 28 A4): Ξενοφάνους δὲ διήκουσε Παρμενίδης Πύρητος Ἐλεάτης (τοῦτον Θεόφραστος ἐν τῆι Ἐπιτομῆι Ἀναξιμάνδρου φησὶν ἀκοῦσαι). ὅμως δ’ οὖν ἀκούσας καὶ Ξενοφάνους οὐκ ἠκολούθησεν αὐτῶι. ἐκοινώνησε δὲ καὶ Ἀμεινίαι Διοχαίτα τῶι Πυθαγορικῶι, ὡς ἔφη Σωτίων, ἀνδρὶ πένητι μέν, καλῶι δὲ καὶ ἀγαθῶι. ὧι καὶ μᾶλλον ἠκολούθησε καὶ ἀποθανόντος ἡρῶιον ἱδρύσατο γένους τε ὑπάρχων λαμπροῦ καὶ πλούτου, καὶ ὑπ’ 5 Nel suo rifacimento dei capitoli pitagorici di Kirk-Raven (nel capitolo su Filolao): G.S. Kirk, J.E. Raven, M. Schofield, The Presocratic Philosophy, C.U.P., Cambridge 19832, p. 339. 6 Una indicazione analoga si può ricavare dal saggio di C.A. Huffman, The Pythagorean tradition, in Early Greek Philosophy cit., p. 78 ss.. 7 Ch.H. Kahn, Pythagoras and the Pythagoreans, Hackett, Indianapolis 2001, pp. 65-6. 527 Ἀμεινίου, ἀλλ’ οὐχ ὑπὸ Ξενοφάνους εἰς ἡσυχίαν προετράπη Parmenide Eleate, figlio di Pireto, fu discepolo di Senofane (Teofrasto nella Epitome dice che costui fu discepolo di Anassimandro). Tuttavia, pur essendo stato discepolo anche di Senofane, non lo seguì. Secondo quanto ha affermato Sozione, egli si associò al pitagorico Aminia, figlio di Diochete, un uomo povero ma di grande valore. Costui preferì seguire, e quando morì, dal momento che Parmenide era di una distinta casata e ricco, gli eresse un monumento funebre. E da Aminia, non da Senofane, egli fu avviato alla tranquillità [della vita contemplativa] (Diogene Laerzio; DK 28 A1) Ζήνωνα καὶ Παρμενίδην τοὺς Ἐλεάτας· καὶ οὗτοι δὲ τῆς Πυθαγορείου ἦσαν διατριβῆς Anche gli eleati Zenone e Parmenide appartenevano alla scuola pitagorica (Giamblico; DK 28 A4), può suggerire l'ipotesi che l'Eleate abbia ricavato da contemporanee correnti pitagoriche lo schema cui sommariamente riferirsi8. In alternativa, sfruttando il prezioso lavoro di Charles Kahn sull'origine degli "elementi" nel mondo greco arcaico, si potrebbe rintracciare in Parmenide l'eco di una tradizione che aveva fatto di Gaia (γαῖα) e Urano (οὐρανός) i progenitori di tutti gli esseri, come si può ancora cogliere in Esiodo: χαίρετε τέκνα Διός, δότε δ’ ἱμερόεσσαν ἀοιδήν· κλείετε δ’ ἀθανάτων ἱερὸν γένος αἰὲν ἐόντων, οἳ Γῆς ἐξεγένοντο καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος, Νυκτός τε δνοφερῆς, οὕς θ’ ἁλμυρὸς ἔτρεφε Πόντος Salve, figlie di Zeus, datemi l'amabile canto; celebrate la sacra stirpe degli immortali, sempre viventi, 8 Dobbiamo tuttavia ricordare, con Patricia Curd, che non si conosce alcuna cosmogonia presocratica che cominci con Luce e Notte (The Legacy of Parmenides…, cit., p. 117). 528 che da Gaia nacquero e da Urano stellato, da Notte oscura e quelli che nutrì il salso Mare (Teogonia 104-107, traduzione Arrighetti), e più tardi nelle laminette orfiche (V-IV secolo a.C.): ὐιὸς Βαρέας καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος sono figlio della Greve e di Cielo stellante (laminetta di Ipponio) Γῆς παῖς εἰμι καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος sono figlio di Terra e Cielo stellante» (laminetta di Petelia)9. Un’opposizione ricorrente nella cultura arcaica, intrecciata a quella tra regione celeste (οὐρανός), e regione della oscurità (Ade, Notte), in cui, come mostra ancora Kahn10, αἰθήρ avrebbe poi sostituito οὐρανός, e ἀήρ assorbito i caratteri della oscurità (come rivela, anche etimologicamente, la formula omerica ζόφος ἠερόεις, «oscurità nebbiosa»). In Parmenide, insomma, sarebbe possibile rintracciare un’estrema essenzializzazione e concentrazione del lessico delle teogonie e cosmogonie, nell'alveo della riflessione cosmologica dei Milesi, la quale, in estrema sintesi, aveva ricostruito gli opposti elementari disponendo da un lato caldo, secco, luminoso e raro, dall'altro freddo, umido, oscuro, denso. In questo senso egli avrebbe estratto le sue due serie di proprietà (δυνάμεις) fondamentali: (i) αἰθέριον («etereo»), [ἀραιόν] 11 («rarefatto»), ἤπιον («mite»), μέγ΄ ἐλαφρόν («molto leggero») sono riferiti a φλογὸς πῦρ («fuoco di fiamma»); (ii) ἀδαῆ («oscura») è attributo diretto di núx («notte»), mentre πυκινὸν («denso»), ἐμϐριθές («pesante») concordano con δέμας («corpo»), a sua volta in apposizione a νύξ. 9 Testo greco e traduzione di G. Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, Milano 1977, pp. 172-175. 10 Anaximander and the Origins of Greek Cosmology, Hackett, Indianapolis 1994, p. 152. 11 Secondo alcuni codici di Simplicio. 529 Se consideriamo nel complesso le due liste, e riscontriamo l'incidenza di quelle connotazioni nella tradizione delle opposizioni e degli elementi, non abbiamo in realtà bisogno di coinvolgere indefiniti gruppi pitagorici: di quella tradizione Parmenide avrebbe semplicemente riferito alla polarità πῦρ\νύξ i poteri (δυνάμεις) cosmogonici essenziali, che altri avevano concentrato in sole e terra e che Anassagora fisserà in αἰθήρ e ἀήρ. È significativo che ancora in Empedocle, colui cui generalmente si riconosce l'introduzione del modello elementare (le quattro radici), l'opposizione luce-oscurità giochi un ruolo rilevante: ἀλλ’ ἄγε, τόνδ’ ὀάρων προτέρων ἐπιμάρτυρα δέρκευ, εἴ τι καὶ ἐν προτέροισι λιπόξυλον ἔπλετο μορφῆι, ἠέλιον μὲν λευκὸν ὁρᾶν καὶ θερμὸν ἁπάντηι, ἄμβροτα δ’ ὅσσ’ εἴδει τε καὶ ἀργέτι δεύεται αὐγῆι, ὄμβρον δ’ ἐν πᾶσι δνοφόεντά τε ῥιγαλέον τε· ἐκ δ’ αἴης προρέουσι θελεμνά τε καὶ στερεωπά. Orsù, considera questa attestazione delle cose dette prima, se mai anche nelle cose dette prima è mancato qualcosa alla forma: il sole splendente a vedersi e caldo dappertutto, quante cose imperiture sono immerse nel calore e nella luce irradiante, la pioggia in tutte le cose oscura e gelida; e la terra da cui sorgono cose compatte e solide (DK 30 B21.1-6). In ogni modo, come sappiamo, Parmenide intervenne a correggere quello schema cosmogonico su un punto essenziale: l'assoluta posizione della separazione delle due forme: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων [...] [...] ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία [...] 530 Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente gli uni dagli altri [...] [...] a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche opposte [...] (vv. 55-59a), emendata con la sottolineatura del fatto che esse sono e sono nell'essere: τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν - · delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada (v. 54). Complessivamente il recupero e la correzione vanno nella direzione della determinazione di due elementi-principi, qualitativamente connotati in funzione della spiegazione dei fenomeni, di cui si rimarca che non sono frutto di una indebita confusione tra essere e non-essere: in questo senso, come ha rilevato Nehamas12, essi danno ragione di molteplicità e cambiamento nel mondo sensibile mescolandosi in proporzioni differenti, senza che nessuno dei due si trasformi nell'altro. Identico, non identico Comunque sia stato ricavato, dalla lezione di contemporanei pitagorici, come alcuni credono, ovvero distillando un modello dalla tradizione, come abbiamo ipotizzato, lo schema che Parmenide introduce ai vv. 53 ss. rivela, una volta sottoposto all'esame dei criteri ontologici di B8.1-49, la propria falla. Inquadrate all'interno della fondamentale alternativa «è-non è», le polarità oppositive, nella loro identità con sé stesse (ἑωυτῷ τωὐτόν) e reciproca 12 A. Nehamas, “Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, in Presocratic Philosophy, cit., pp. 61-62. 531 non-identità (τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν), ovvero nella mutua esclusione, appaiono foriere di potenziale contraddizione: donde l'esigenza di denunciare il rischio13. La situazione appare paradossale, perché da un lato Parmenide, di fronte al compito di spiegare τὰ δοκοῦντα, avrebbe recuperato il dualismo giudicandolo più coerente con i criteri ontologici, rispetto, per esempio, alla cosmologia ionica che cerca di dar ragione dei fenomeni facendo appello alle trasformazioni di un singolo principio di base14; dall'altro, però, avrebbe avvertito l'implicita debolezza del modello. Come abbiamo sopra sottolineato, il lessico dei frammenti superstiti – che è lessico di conoscenza (B10: εἴσῃ «conoscerai», πεύσῃ «apprenderai», εἰδήσεις «conoscerai») - segnala che in qualche modo tale debolezza era stata aggirata. La nostra lettura, tuttavia, non sembra aver superato il paradosso: perché introdurre «due forme» e poi insistere sulla loro unità? Aristotele, come abbiamo inizialmente avuto occasione di ricordare, interpreta a suo modo: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...], ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] 13 In questo senso la Curd riferisce correttamente la natura «enantiomorfa» del modello delineato nei versi conclusivi di B8, ma secondo noi sbaglia ad attribuirlo a Parmenide, il quale, invece, lo propone per sottolinearne il limite. 14 Nehamas, op. cit., pp. 61-62. 532 Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1). Solo per dar ragione dei fenomeni, Parmenide avrebbe recuperato due principi (secondo i precedenti cosmologici) e solo analogicamente avrebbe accostato la loro opposizione a quella di essere e non-essere15: Simplicio ne coglie il senso citando B9: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν [...] εἰ δὲ "μη δετέρωιμέτα μηδέν " καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται e poco dopo ancora [citazione B9]; e se "insieme a nessuna delle due è il nulla", egli dice chiaramente che entrambi sono principi e che sono opposti. Il commentatore rileva l'interesse del passo parmenideo nell’esplicitazione del duplice aspetto di φῶς e νύξ: per le loro proprietà costitutive - che condensano le tradizionali opposizioni elementari – e nella misura in cui escludano il nulla, esse possono fungere da ἀρχαὶ. Pur opposte nei loro «segni», entrambe «sono»: «luce è» e «notte è». Insomma, l'Eleate avrebbe conservato un consolidato schema esplicativo del mondo fenomenico, emendandone le implicazioni inaccettabili sul piano ontologico: la mutua esclusione degli opposti doveva evitare la trasformazione dell'uno nell'altro, senza spingersi tuttavia fino alla loro assolutizzazione. Presero la decisione di dar nome... Il passaggio dalla prima alla seconda sezione del poema è sottolineato dalla antitesi tra «pensiero intorno a Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης)·e «opinioni mortali» (δόξας βροτείας): come già 15 Così interpreta Mansfeld, op. cit., pp. 137-139. 533 indicato nei versi che precedono, una componente essenziale dell'opinare umano è riscontrata nel linguaggio, o, meglio, nell'arbitrio delle convenzioni linguistiche. In questo senso era stata netta la presa di posizione di B8.38b-41: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso [ciò che è] tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. Alla necessità («unica parola ancora rimane», μόνος δ΄ ἔτι μῦθος λείπεται) con cui, in apertura di B8, si erano imposti la prospettiva della «via che è» (ὁδοῖο ὡς ἔστιν) e il riconoscimento della relativa sequenza di «segni» («su questa [via] sono segnali molto numerosi: che...», ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς...), la Dea ha modo di contrapporre, introducendo le «opinioni mortali», la decisione di «nominare» (κατέθεντο ὀνομάζειν), ovvero la scelta di «opposti» (ἀντία ἐκρίναντο δέμας) e l'imposizione di «segni» (σήματ΄ ἔθεντο). Non sorprende, dunque, che ella metta sull'avviso il kouros circa le potenzialità fuorvianti dell'espressione di quelle convinzioni umane (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων). Il passaggio fa registrare dunque una significativa svolta nell'atteggiamento intellettuale proposto all'interno dell’esposizione divina. Da una considerazione puramente razionale della realtà, che abbraccia con l'intelligenza il tutto come tale, omogeneizzandolo nell'essere e guadagnandone argomentativamente le proprietà, nella seconda sezione l'attenzione si sposta sul complesso dei fenomeni e quindi non può prescindere dal dato sensibile: questo non comporta comunque una forma di "empirismo", come confermano appunto i rilievi circa la rielaborazione "umana" della Doxa attraverso lo schema degli opposti. La posizione introdotta non è assimilabile a quella stigmatizzata in B7.3- 5a: 534 μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua. L'operazione di riduzione dei fenomeni naturali alla coppia «luce-notte» è certamente altra cosa rispetto alla meccanica e irriflessa assuefazione al dato empirico (ἔθος πολύπειρον), pur avendo di mira la stessa realtà attestata e accettata sulla scorta dell'esperienza (τὰ δοκοῦντα). La rielaborazione è valorizzata da Parmenide soprattutto nella sua dimensione linguistica e\o categoriale: l'insistenza su formule verbali che implicano valutazione (κατέθεντο, ἐκρίναντο) e disposizione (ἔθεντο) è infatti associata al rilievo del «nominare» (ὀνομάζειν). Così la Dea attribuisce il compito di ordinare il campo dei fenomeni all'umana risorsa del classificare (attraverso i nomi), sebbene ella individui esplicitamente nei nomi l'origine di un potenziale fraintendimento della realtà (come denuncia B8.38b-41). Anche questo contribuisce a spiegare il cambiamento di registro all'interno del poema e il richiamo ai rischi impliciti nella comunicazione della Doxa. Questi rilievi non devono spingere a concludere che il mondo della Doxa sia appunto un mondo puramente "verbale", inconsistente, illusorio: non condividiamo l'opinione di Nehamas, secondo cui la Doxa proporrebbe una descrizione accurata di apparenze, la quale, per quanto accurata, rimarrebbe pur sempre descrizione di apparenze, dunque di un mondo falso16. È vero piuttosto che Parmenide aveva denunciato tale illusione nell'immagine della realtà - in sé contraddittoria – caratteristica di coloro che in B6.4-5 sono apostrofati come βροτοὶ εἰδότες οὐδέν e δίκρανοι. La seconda sezione del poema, al contrario, era probabilmente intesa 16 A. Nehamas, “Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, cit., p. 63. 535 come alternativa alle cosmologie ioniche17: una grande sintesi enciclopedica che avrebbe dovuto illustrare la superiorità della sua analisi ontologica. L'orgoglio dell'impresa potrebbe ancora riflettersi nelle battute conclusive del frammento: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto verosimile, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti (vv. 60-61). D'altra parte, se l'intelligenza applicata alla riflessione su «ciò che è», alla totalità dell'essere, manifestava proprietà rigorosamente riconducibili all'alternativa «è»-«non-è», risulta invece evidente, nei versi tràditi della seconda sezione, l'impegno a dare conto dell'impianto della realtà fenomenica, delle strutture portanti del cosmo dell'esperienza umana. L'eco, nelle parole della Dea, del tradizionale motivo dell'opposizione di sapere umano e divino, nonché l'uso di espressioni, come δοκίμως (B1.32, «realmente», ma anche «plausibilmente») e ἐοικότα (B8.60, «appropriato», «adeguato», ma anche «verosimile», «probabile») potrebbero segnalare, da parte di Parmenide, la consapevolezza dei limiti della περὶ φύσεως ἱστορία. Spesso nella letteratura si è, su questo punto, evocato il possibile esempio di Senofane: καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔ τις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται Davvero l'evidente verità nessun uomo la conosce, né mai ci sarà 17 Come ipotizza Graham (Explaining the Cosmos…, cit., p. 184), è forse possibile che la sfida fosse lanciata anche a Esiodo, considerato alla stregua di un cosmologo. 536 chi sappia intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti, ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui stesso non lo saprebbe; opinione è data su tutte le cose (DK 21 B34) ταῦτα δεδοξάσθω μὲν ἐοικότα τοῖς ἐτύμοισι Siano queste cose credute simili a cose vere (DK 21 B35) ὁππόσα δὴ θνητοῖσι πεφήνασιν εἰσοράασθαι Tutte le cose che essi [gli dei] hanno mostrato ai mortali perché le osservassero (DK 21 B36) οὔ τοι ἀπ’ ἀρχῆς πάντα θεοὶ θνητοῖσ’ ὑπέδειξαν, ἀλλὰ χρόνωι ζητοῦντες ἐφευρίσκουσιν ἄμεινον Gli dei dall'inizio non hanno rivelato tutte le cose ai mortali, ma nel tempo ricercando essi trovano ciò che è meglio (DK 21 B18). Graham18 ha di recente rilanciato l'accostamento, rilevando come i frammenti di Senofane avrebbero presentato, tra VI e V secolo, qualcosa di simile a uno status quaestionis, una prima meditazione sui limiti della conoscenza del mondo naturale, concludendo che essa non sarebbe sicura. Posizione analoga a quella del giovane contemporaneo Alcmeone: περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν σαφή- νειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι Sulle cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma gli uomini devono imparare per inferenza (DK 24 B1)19. 18 Explaining the Cosmos…, cit., p. 176. 19 Come abbiamo in precedenza ricordato, del testo greco esiste oggi una versione proposta da M.L. Gemelli Marciano (“Lire du début…, cit., pp. 7- 37), che ha espunto la virgola tra i due complementi iniziali, offrendo quindi un senso profondamente diverso: Il pensatore di Crotone (che Diogene Laerzio vuole discepolo di Pitagora e dunque proveniente dalla stessa area geografica e culturale di Parmenide) avrebbe ripreso la tradizionale opposizione (μὲν θεοὶ... δὲ ἀνθρώποις) per precisare come gli uomini abbiano solo la possibilità di procedere per evidenze sensibili e relative inferenze. Parmenide potrebbe aver reagito alle provocazioni di Senofane indicando come in realtà fosse possibile una conoscenza dimostrativa sicura di «ciò che è», sforzandosi poi, negli ultimi versi del nostro frammento, di rintracciare delle linee di stabilità che consentissero di riordinare il campo fenomenico alla luce delle indicazioni ontologiche, come rivelerebbero chiaramente i «segni» attribuiti alle due «forme». περὶ τῶν ἀφανέων περὶ τῶν θνητῶν σαφή- νειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo di trovare degli indizi.Simplicio offre, nel caso di B9, un'indicazione preziosa, ancorché approssimativa, circa la sua collocazione nel poema parmenideo. Afferma infatti il commentatore (contesto DK 28 B9): καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν [citazione B9] εἰ δὲ ‘μη δετέρωι μέτα μηδέν ’ καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται e dopo poco aggiunge ancora: [citazione B9]. E se "con nessuna delle due è il nulla", egli dice chiaramente che entrambi sono principi e che sono opposti. Dal momento che il rilievo è posto subito dopo la citazione di B8.53-59, è facile concludere che i quattro versi di B9 seguissero dappresso la conclusione di B8, anche se non necessariamente come prosecuzione (come ipotizza Cerri1 ). Appare di conseguenza discutibile la scelta di alcuni editori (Coxon, Collobert) di collocarli dopo B10 e B11 (ovvero di ipotizzare la successione B11- B10-B9, come fa O' Brien), o addirittura, dopo altri intervalli testuali, subito prima di B19 (Mansfeld), nonostante l'evidenza di una relazione tra B9, 10 e 11, come introduzione generale all'esposizione cosmologico-cosmogonica della Doxa. Tutte le cose sono state denominate In effetti, dopo l'esordio di B8.50-61, B9 condivide con B19 l'importante riferimento agli ὀνόματα e all'attività di ὀνομάζειν, che abbiamo visto essere centrale nella costruzione della cosmologia parmenidea. In particolare, nelle prime battute di B9 troviamo un accenno al ruolo d'ordine delle due μορφάι: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς 1 Op. cit., p. 255. 539 Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle (vv. 1-2). Nella dimensione plurale delle cose (πάντα) attestate dall’esperienza e che l'intelligenza ha riassunto nell’omogeneità dell'essere, il compito di φάος καὶ νὺξ è quello di classificare e discriminare: secondo il modello che abbiamo riscontrato nel commento al frammento precedente, lo schema oppositivo distribuisce sul complesso dei fenomeni le «proprietà» (δυνάμεις, «potenze»), i σήματα che accompagnano le due μορφάι, così riordinando, attraverso un'articolazione elementare, il mondo empirico. Dopo aver messo a fuoco la nozione di τò ἐόν, comune denominatore che contraddistingue la realtà, raccogliendo a unità la totalità degli enti, e averne approfondito le implicazioni (alla luce della κρίσις: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν), Parmenide delinea una strategia conseguente di recupero del cosmo dell’esperienza umana: Luce e Notte dovranno spiegare l'apparire senza che venga ammesso come principio il nulla2. Alcuni accostamenti verbali manifestano questa operazione. Al verso B8.24b la Dea aveva sottolineato (i): πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος ma tutto pieno è di ciò che è, dopo aver ricordato (ii): οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere continuo, né [lì] qualcosa di meno (B8.23-24a), e soprattutto (iii): 2 Ruggiu, op.cit., p. 326. 540 οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον Né è divisibile, poiché è tutto omogeneo (B8.22). A questa rappresentazione della omogeneità e compattezza dell'essere possiamo far corrispondere l'affermazione centrale del nostro frammento: πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile di entrambe alla pari (B9.3-4a), dove l'originario nesso ontologico di totalità e pienezza (πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος) è declinato al duale (πᾶν πλέον ἐστὶν φάεος καὶ νυκτὸς), salvaguardando comunque l'esigenza di uniforme densità e continuità – veicolata in B8 da espressioni come ὁμοῦ πᾶν (B8.5), πᾶν ἐστιν ὁμοῖον (B8.22), oltre che da συνεχές (B8.6) e συνέχεσθαι (B8.23) e ribadita in B9 dalla formula πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ e dalla precisazione incidentale ἴσων ἀμφοτέρων. Insieme a nessuna delle due è il nulla Ma, al di là di queste convergenze che paiono indiscutibili, il διάκοσμος proposto dalla Dea esplicitamente rileva il dato discriminante rispetto alle narrazioni cosmogoniche, la preoccupazione ontologica essenziale a tutela della fondatezza della ricostruzione: ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9.4). Per quanto orientata a ordinare ciò che è registrato a livello empirico e che τὸ νοεῖν (il pensare) ovvero il νόος (l'intelligenza) o ancora il λόγος (il discorso argomentativo) confermano nell'unità di τò ἐόν, la scelta del modello oppositivo e della relativa disposizione seriale (l'aristotelica συστοιχία) di δυνάμεις (proprietà) riba- 541 disce l'assoluta esclusione del «nulla» (μηδέν). Insomma, il linguaggio della doxa ripropone quello della alētheia, sottolineando, sul terreno dell'apparire, la propria continuità con il νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης, quasi che la doxa, nel suo insieme e a dispetto dell'insidia degli ὀνόματα, ne costituisse la diretta prosecuzione3. Perché, ci si potrebbe chiedere, Parmenide avrebbe dovuto affiancare alla Verità il resoconto plausibile di una realtà già ridotta, nei suoi tratti caratterizzanti, ai σήματα di B8? B9 può contribuire a una risposta, soprattutto considerandone la collocazione a ridosso della dichiarazione conclusiva di B8: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti. L'orizzonte dell'esperienza è ineludibile per un mortale; così l'insegnamento divino della verità è proceduto di pari passo con una puntuale disamina degli errori umani, in larga misura condizionati da scriteriate assunzioni empiriche: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua (B7.3-5a). Proprio per la sua ineludibilità, la Dea si impegna a fornire gli strumenti per una ricostruzione adeguata di quell'orizzonte, che ne conservi la fisionomia pluralista e qualitativa, senza contraddire nella sostanza le indicazioni della Verità. B9 si inserisce appunto in questo contesto, con le sue "istruzioni" circa l'ordinamento lin- 3 Ibidem. 542 guistico del mondo dell'esperienza e il suo "riempimento" a opera delle due «forme» nominate, con opportuno esorcismo del «nulla». Una soluzione per garantire in ogni senso la superiorità del discente dalla concorrenza di potenziali resoconti alternativi. In questa prospettiva, la probabile ampia articolazione della Doxa ancora attestata – come sappiamo - da Plutarco (Contro Colote 1114b; DK 28 B10): ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro, può far sorgere il sospetto che la relativamente più contenuta trattazione della Verità fosse funzionale al coerente consolidamento della trattazione cosmologica e cosmogonica. Tutto è pieno di luce e notte Se osserviamo la costruzione del frammento, possiamo notare un passaggio significativo per la complessiva interpretazione della Doxa: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται [...] πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου 543 Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, [...] tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile. La consistenza del mondo della nostra esperienza dipende dalla coerenza della sua costruzione linguistica: dopo (i) aver rifiutato le interpretazioni che pretendevano coniugare essere e nonessere (B6 e B7), (ii) aver individuato un modello (linguistico) di base, imperniato sullo schema polare delle nozioni luce-notte (B8.53-4), (iii) averne rilevato i limiti (B8.55-59), e (iv) bandito esplicitamente l'implicazione del «nulla» (B9.4), Parmenide se ne serve (v) distribuendone le rispettive proprietà su tutte le cose. In altre parole, egli procede a connotare, attraverso gli ὀνόματα delle due μορφάι – e i relativi σήματα -, i vari aspetti fenomenici: la luce è associata a caldo, leggero, raro; la notte a freddo, pesante, denso, come possiamo evincere da B8.56-9 e dallo scolio a B8 di Simplicio: καὶ δὴ καὶ καταλογάδην μεταξὺ τῶν ἐπῶν ἐμφέρεταί τι ῥησείδιον ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου ἔχον οὕτως· ἐπὶτῶι δέ ἐστι τὸ ἀραιὸν καὶ τὸ θερμὸν καὶ τὸ φάος καὶ τὸ μαλθακὸν καὶ τὸ κοῦφον, ἐπὶ δὲτῶιπυκνῶι ὠνόμασται τὸ ψυχρὸν καὶ τ ὸ ζ ό φ ο ς καὶ σκληρὸν καὶ βαρύ· tra i versi è riportato un passo in prosa come fosse dello stesso Parmenide; esso afferma: «per questo ciò che è raro è anche caldo, e luce e morbidezza e leggerezza; per la densità invece il freddo è indicato come oscurità, durezza e pesantezza». Quanto è stato denominato conformemente a tale strategia assume lo spessore di un mondo comune, condiviso: non a caso, dopo aver impiegato in premessa l'espressione πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται, al v. 3 la Dea conclude che πᾶν πλέον ἐστὶν φάεος καὶ νυκτὸς. 544 Le due «forme» concorrono alla composizione del mondo: la loro complicità nell'opposizione assicura la stabilità del mondo4. Il fatto che entrambe siano parte dell'Essere rende possibile una fisica della mescolanza (κρᾶσις) 5. La κρᾶσις funge così da principio di costituzione di tutte le cose: l'uguaglianza delle due forme e la presenza delle rispettive potenze spiega come ogni cosa sia costituita insieme (anche se non nella stessa misura) di Luce e Notte6. È tuttavia necessario ricordare – con Conche 7 - che le due μορφάι parmenidee non sono assimilabili agli elementi di Empedocle o degli atomisti: non si tratta di principi eterni e immutabili, ma di «forme» nominate dai mortali, di cui la Dea si serve ad hoc, per una adeguata spiegazione dell'universo delle «opinioni mortali». Ciò deve rendere cauti rispetto a una loro ontologizzazione: nulla ne giustifica l'assolutizzazione al di fuori di questo mondo. 4 Conche, op. cit., p. 201. 5 Ruggiu. I tre frammenti B10-11-12 sono conservati da due fonti diverse: Clemente Alessandrino (II-III secolo d.C  .) e Simplicio (tuttavia B11 in un passo del commento al De caelo, B12 in due passi del commento alla Fisica): solo il secondo ci fornisce, per B12, un’indicazione approssimativa circa la collocazione relativa: μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως [...] poco più avanti [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente, dicendo così [B12.1-3] [...] Ricordiamo che con analoga approssimazione («poco dopo») era stata introdotta la citazione di B9, il cui testo avrebbe seguito dappresso B8.59. Almeno i versi di B12, dunque, dovevano trovarsi a ridosso di B8 e B9: certamente dopo B8. Il contesto delle altre due citazioni e il loro contenuto concorrono a suggerire una stretta relazione di B12 con B10 e B11, e, ulteriormente, dei tre frammenti con B9, anche se sono state proposte diverse soluzioni circa la loro effettiva sequenza. B13, infine, conservato da varie fonti (Platone, Aristotele, Plutarco, Sesto Empirico, Stobeo, Simplicio), viene citato da Simplicio in stretta connessione con B12. Clemente (autore che rivela dimestichezza con il poema, risultando unica fonte di quasi tutto quello che cita) introduce e accompagna B10 con queste parole: ἀφικόμενος οὖν ἐπὶ τὴν ἀληθῆ μάθησιν ὁ βουλόμενος ἀκουέτω μὲν Παρμενίδου τοῦ Ἐλεάτου ὑπισχνουμένου ‘ε ἴ σ η ι... ἄ σ τ ρ ω ν ’ pervenuto alla vera conoscenza [di Cristo], chi vuole ascolti Parmenide di Elea che promette «tu conoscerai... degli astri». Il commentatore neoplatonico, a sua volta, ci informa che: 546 Π. δὲ περὶ τῶν αἰσθητῶν ἄρξασθαί φησι λέγειν·[citazione B11] καὶ τῶν γινομένων καὶ φθειρομένων μέχρι τῶν μορίων τῶν ζώιων τὴν γένεσιν παραδίδωσι. Parmenide intorno alle cose sensibili afferma di aver intenzione di dire [citazione B11] e descrive l'origine delle cose che si generano e si corrompono, fino alle parti degli animali. Evidentemente la funzione dei due testi citati era prolettica rispetto alla vera e propria descrizione cosmogonica e cosmologica: dal momento che Plutarco (Contro Colote 1114b, contesto di DK 28 B10) ci documenta l'articolazione della Doxa parmenidea, utilizzando ancora la sua testimonianza possiamo tracciare una loro plausibile posizione: ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla Terra, e sul Cielo e sul Sole e sulla Luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro. Plutarco offre diversi spunti per il nostro orientamento nella seconda parte del poema, suggerendo almeno tre cose fondamentali sulla sua struttura: (i) intanto che la costruzione del «sistema del mondo», annunciata in conclusione di B8, è, per quanto consta all'autore, chiaramente responsabilità di Parmenide: διάκοσμον πεποίηται sottoli- 547 nea l'originalità dell'impresa scientifica. Ciò è ribadito in conclusione: «ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro» (συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν); (ii) poi che la scelta degli elementi (στοιχεῖα) è funzionale al progetto scientifico: la ricognizione cosmologica (διάκοσμον) implica la ricostruzione comogonica; la struttura del cosmo la sua produzione. Con la proposta di due principi il filosofo assicura la spiegazione fenomenica (conclusione di B8 e B9): «mescolando come elementi la luce e la tenebra» (στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν), egli produce il suo διάκοσμος. Da e per mezzo di quegli elementi (ἐκ τούτων [...] καὶ διὰ τούτων) ricava (ἀποτελεῖ) «tutti i fenomeni» (τὰ φαινόμενα πάντα); (iii) infine che il progetto scientifico doveva essere ambizioso, dire «molto» («molte cose», πολλὰ) «sulla Terra, e sul Cielo e sul Sole e sulla Luna»: si tratta evidentemente del tema cui alludono programmaticamente B10-11 e che B12 sviluppa. Doveva poi procedere a delineare l'«origine degli uomini» (γένεσις ἀνθρώπων): ne abbiamo tracce in B13 (e successivi). Potremmo così avere conferma della bontà dell'attuale successione, ovvero supporre una sistemazione leggermente diversa. La natura programmatica di B10 e B11, attestata dalla ricorrenza di formule illocutorie (εἴσῃ, πεύσῃ, εἰδήσεις) che ricorda la protasiinvocazione alle Muse della Teogonia esiodea1, unitamente alla considerazione che B9 ne costituisce il fondamento (funzione dei principi), potrebbe suggerire una posposizione dello stesso B92. A ciò osta sostanzialmente l'indicazione (comunque approssimativa) di Simplicio, nel contesto di B9, circa la prossimità della citazione alla conclusione della precedente (B8.53-9). D'altra parte è chiaro come B10 costituisca una sorta di indirizzo della Dea a Parmenide, analogo a quello che chiude il proemio: ci troveremmo in questo senso in presenza di un "secondo" 1 Cerri, op. cit., p. 263. 2 Ruggiu, op. cit., p. 332. 548 proemio3. B10 e B11 annunciano – Clemente parla di Parmenide «che promette» (ὑπισχνούμενος) - e descrivono sommariamente il programma scientifico (spiegazione cosmogonica e cosmologica) che B12 contribuisce a realizzare. Con B10 e B11 siamo, insomma, ancora al prologo, al profilo preliminare; con B12 alla descrizione dei processi e della struttura del cosmo, che Aëtius e Cicerone (DK 28 A37) ci aiutano a ricostruire. B9, in questo contesto, sembra effettivamente, più che una tessera programmatica vera e propria, un rilievo delle conseguenze immediate, sul piano cosmologico e cosmogonico, dell'opzione per le due «forme» (B8.53-59), e quindi fungere solo in questo senso da cerniera introduttiva. O'Brien4, in alternativa, vi ha colto, dopo l'annuncio degli argomenti principali (B11) e il passaggio alle «opere» del Sole e della Luna (B10), una precisazione sulla natura delle due «forme», prima dell'introduzione della δαίμων che le «governa» (la sequenza sarebbe dunque: B11-B10-B9- B12). La disposizione proposta da Diels-Kranz appare comunque credibile e soprattutto compatibile con le indicazioni di Simplicio. Conoscere la natura La Dea dunque preannuncia (promette) al proprio discepolo un grandioso disegno scientifico: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων. 3 Per questo in passato Bicknell propose di integrare i versi di B10 nel prologo del poema (P.J. Bicknell, «Parmenides, fragment 10», Hermes 95, 1968, pp. 629.631). 4 Études sur Parménide, cit., I, p. 246-7 (in particolare nota 33). 549 Conoscerai la natura eterea e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma dello splendente Sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche della Luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo costrinse a tenere i confini degli astri. La promessa è quella di: (i) far «conoscere» (εἰδέναι) «la natura eterea» (αἰθερίαν φύσιν) e «tutti i segni» (πάντα σήματα) nell'etere; (ii) e le «opere invisibili (distruttive)» (ἔργ΄ ἀίδηλα) del Sole e «ciò da cui» (ὁππόθεν) esse si generarono (ἐξεγένοντο); (iii) far «apprendere» (πεύθεσθαι) «le opere» (ἔργα) della Luna e «la [sua] natura» (φύσιν); (iv) far «conoscere» (εἰδέναι) «il cielo» (οὐρανὸν) «che tiene tutto intorno» (ἀμφὶς ἔχοντα) e «da che cosa» (ἔνθεν) «scaturì» (ἔφυ); (v) far conoscere come Necessità (Ἀνάγκη) «incatenò» (ἐπέδησεν) il cielo a «mantenere nei loro limiti» (πείρατ΄ ἔχειν) gli astri. Il contesto della citazione di B11 (nel commento di Simplicio al De caelo) conferma questo disegno di Parmenide: Π. δὲ περὶ τῶν αἰσθητῶν ἄρξασθαί φησι λέγειν·[citazione B11] καὶ τῶν γινομένων καὶ φθειρομένων μέχρι τῶν μορίων τῶν ζώιων τὴν γένεσιν παραδίδωσι. Parmenide intorno alle cose sensibili afferma di aver intenzione di dire [B11] e descrive l'origine delle cose che si generano e si corrompono, fino alle parti degli animali. 550 Conche5 ha osservato, a proposito di questi rilievi, come Simplicio evidenzi l'ampiezza e la verticalità dell'indagine parmenidea, evocando nelle scelte verbali (generazione-corruzione, parti degli animali) i temi poi trattati da Aristotele, e la centralità dei processi naturali nell'esplicazione dei fenomeni: il mondo è opera della natura. D'altra parte non è sfuggita agli studiosi l'eco di questo indirizzo cosmogonico di B10 in Empedocle (DK 31 B38): εἰ δ’ ἄγε τοι λέξω πρῶθ’ † ἥλιον ἀρχήν †, ἐξ ὧν δῆλ’ ἐγένοντο τὰ νῦν ἐσορῶμεν ἅπαντα, γαῖά τε καὶ πόντος πολυκύμων ἠδ’ ὑγρὸς ἀήρ Τιτὰν ἠδ’ αἰθὴρ σφίγγων περὶ κύκλον ἅπαντα. Orsù, ti dirò delle cose prime e; da cui divenne manifesto tutto quanto ora vediamo, terra e mare dalle molte onde e aria umida e il Titano etere che cinge in cerchio tutte le cose. L'impressione è che Empedocle si sia direttamente ispirato al modello parmenideo introducendo la sezione astronomica del proprio poema 6. Le opere della natura Di questo programma scientifico (abbiamo già osservato, nel commento di B8.50-61, l'insistenza della Dea sulle formule di conoscenza di B10) sono da notare in particolare: (a) il nesso ribadito tra φύσις e ἔργα, e (b) l'uso di espressioni come ὁππόθεν ἐξεγένοντο (che abbiamo reso come «donde ebbero origine») e l'equivalente ἔνθεν ἔφυ. Al centro della comunicazione della Dea ritroviamo dunque un modello di sapere che si definisce per la capacità di ricostruire la «generazione» dei fenomeni, con l'esplicito accostamento di φύσις e γένεσις: nel contesto il primo termine 5 Op. cit., pp. 210-11. 6 Cerri, op. cit., p. 259. 551 – che abbiamo per lo più tradotto come «natura» - designa appunto ciò che dà origine (φύω, «dare origine»), la cui attività generatrice si traduce in ἔργα. Conoscere la natura significa allora riconoscere i processi di formazione, il manifestarsi dell'origine (φύσις, γένεσις) nei «segni» (σήματα), nei fenomeni celesti; Parmenide evidentemente non allude con φύσις a un’immota identità, a un'essenza che con la propria stabile determinatezza consenta di classificare i fenomeni 7: in questo senso la formula «donde ebbero origine» (ὁππόθεν ἐξεγένοντο) riprende e rilancia la ricerca milesia dell'ἀρχή8. Nell'indirizzo della Dea è allora possibile intravedere una doppia direzione di indagine: (i) quella che dai σήματα, dagli ἔργα, dai fenomeni astronomici risale alla natura che li esprime; (ii) quella che dalla φύσις discende ai relativi ἔργα 9. Nella stessa direzione, precisando il disegno, B11: πῶς γαῖα καὶ ἥλιος ἠδὲ σελήνη αἰθήρ τε ξυνὸς γάλα τ΄ οὐράνιον καὶ ὄλυμπος ἔσχατος ἠδ΄ ἄστρων θερμὸν μένος ὡρμήθησαν γίγνεσθαι. [...] come Terra e Sole e Luna, l'etere comune e la Via Lattea e l'Olimpo estremo e degli astri l'ardente forza ebbero impulso a generarsi. In questo caso, di alcuni elementi essenziali del quadro cosmologico si prospetta la genesi marcandone lo spunto immanente: a conferma del fatto che Parmenide non intende semplicemente descrivere un ordine cosmico, stabilire ruoli e posizioni relative, ma produrre una cosmogonia. La combinazione di ὁρμᾶν e γίγνεσθαι è indicativa della sua nozione di φύσις: essa in ogni fenomeno è la 7 In questa direzione anche la lettura di Conche, op. cit., pp. 204-5. A noi pare, tuttavia, che Parmenide intenda esporre anche la «costituzione» dell'etere o della luna, analizzarne la composizione. 8 Su questo punto si veda Ruggiu, op. cit., pp. 333-5. 9 Ibidem. 552 δύναμις che si esprime in «segni» e «opere». Ovvero, richiamando l'attacco di B9: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà [δυνάμεις], [sono state attribuite] a queste cose e a quelle (vv.1-2), potremmo concordare con Ruggiu10 che le due «forme» originarie – Luce e Notte – si manifestano come δυνάμεις nella φύσις di ogni cosa: esse, sotto questo profilo, costituirebbero l'unica natura delle cose. Opere invisibili, opere periodiche Quello che, nei versi del poema che ci sono conservati, ancora possiamo "catturare" della grandiosa sintesi cosmologica cui allude Plutarco è lo sforzo di elaborazione cosmogonica. Essa traspare, come abbiamo rilevato, nella insistenza sulla γένεσις, nella centralità del tema della φύσις, ma anche nelle scelte verbali che tendono a marcare - si veda, per esempio, il passaggio dal passato11 di πλῆντο al presente di ἵεται in B12.1-2 - gli effetti durevoli dei processi generativi nella struttura cosmica: αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο πυρὸς ἀκρήτοιο, αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα Quelle più strette [interne], infatti, si riempirono di fuoco non mescolato; le successive [si riempirono] di notte, ma insieme si immette una porzione di fuoco. 10 Ibidem. 11 Sia nella forma, da noi accolta, dell'aoristo, sia in quella del perfetto medio (πλῆνται), proposta in alternativa. 553 È infatti probabile che B12 alluda proprio alla formazione e articolazione dello spazio cosmico (come vedremo meglio più avanti), delineando costituzione del centro terrestre del sistema (sfera terrestre e suo interno infuocato), della periferia celeste (sfera solida esterna e sfera ignea interna), e dello spazio intermedio in cui si muovono i corpi celesti. Esplicita in B12.3 è anche l'introduzione della «Dea che tutto governa» (δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ) e della sua funzione "copulatrice": ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6). Ma che lo sguardo del poeta – nei versi superstiti - non sia rivolto tanto alla contemplazione di un ordine da cui ricavare o in cui riscontrare armonie ed equilibri strutturali, ovvero modelli geometrici, quanto al compiaciuto rilevamento della fecondità, dell'impeto (μένος) generativo che nell'universo manifesta la natura, emerge nei versi in cui la Dea – riferendosi a Sole e Luna – insiste non sulla loro posizione relativa nel sistema o sulla loro relazione reciproca (a Parmenide dobbiamo il riconoscimento della riflessione lunare della luce solare), ma sulle loro «opere», rispettivamente «invisibili» (ovvero «distruttive») e «periodiche», cioè sul loro contributo ai processi cosmici. Articolando il programma scientifico annunciato in B10, B11 si riferisce al «come» (πῶς) Terra, Sole, Luna e etere «ebbero impulso a generarsi» (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), dunque al processo di formazione del cosmo a partire dalle due potenze originarie. Il legame con B9, infatti, doveva essere molto stretto, perché, come abbiamo già ricordato, la citazione dei primi 3 versi di B12 è registrata nel seguente contesto: μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως [...] poco più avanti [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente, dicendo così [vv. 1-3]. Se è valida la ricostruzione per lo più accettata, i versi di B12 dovevano seguire di poco B9, e dunque l'introduzione degli elementi materiali (στοιχεία); d'altra parte essere dappresso anche a un primo riferimento alla struttura delle «corone» (στεφάναι) cosmiche, di cui ci dà notizia Aëtius (A37), dal momento che a esse rinviano implicitamente in apertura: αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο πυρὸς ἀκρήτοιο, αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα· ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· Quelle più strette [interne], infatti, si riempirono di fuoco non mescolato; le successive [si riempirono] di notte, ma insieme si immette una porzione di fuoco; in mezzo a queste la Dea che tutte le cose governa. Corone cosmiche Il processo cui alludono i versi doveva fornire le coordinate essenziali per la comprensione dell'universo parmenideo, relati- 555 vamente alla sua configurazione e composizione. La scarsità (nei numeri e nella consistenza) dei frammenti superstiti, purtroppo, non ci consentono di delinearle se non in modo estremamente approssimativo: così sappiamo (B10.5-7) del «cielo che tutto intorno cinge» (οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα) e di come esso sia stato vincolato da Necessità (ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη) «a tenere i confini degli astri» (πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων); B11 conferma la presenza di un «Olimpo estremo» (ὄλυμπος ἔσχατος) – il cielo di cui sopra, umschliessende Firmament come lo definisce Diels12 - e di uno spazio etereo (αἰθήρ τε ξυνὸς), con esso (ma la relazione è indefinita nel testo) nominando Terra (che secondo la tradizione delle testimonianze antiche consideriamo il centro del sistema) e pianeti; B12 poi, come abbiamo ricordato, sintatticamente sembra sottendere il riferimento a una struttura ad «anelli» o «corone» (στεφάναι) concentrici. Un senso complessivo a questi cenni cosmologici riusciamo a garantirlo grazie alla preziosa (quanto discussa) testimonianza di Aëtius, che fornisce, partendo da Teofrasto, il quadro d'insieme entro cui collocarli: Π. στεφάνας εἶναι περιπεπλεγμένας, ἐπαλλήλους, τὴν μὲν ἐκ τοῦ ἀραιοῦ, τὴν δὲ ἐκ τοῦ πυκνοῦ· μικτὰς δὲ ἄλλας ἐκ φωτὸς καὶ σκότους μεταξὺ τούτων. καὶ τὸ περιέχον δὲ πάσας τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν ὑπάρχειν, ὑφ’ ὧι πυρώδης στεφάνη, καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν στερεόν, περὶ ὃ πάλιν πυρώδης [sc. Στεφάνη]. τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην. καὶ τῆς μὲν γῆς ἀπόκρισιν εἶναι τὸν ἀέρα διὰ τὴν βιαιοτέραν αὐτῆς ἐξατμισθέντα πίλησιν, τοῦ δὲ πυρὸς ἀναπνοὴν τὸν ἥλιον καὶ τὸν γαλαξίαν κύκλον. συμμιγῆ δ’ ἐξ ἀμφοῖν εἶναι τὴν σελήνην, τοῦ τ’ ἀέρος καὶ τοῦ πυρός. περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων 12 Parmenides Lehrgedicht, cit., p. 104. 556 τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. Parmenide [afferma che] ci sono corone, l'una intorno all'altra in successione, una costituita dal raro, l'altra dal denso; tra queste ve ne sono altre miste di luce e oscurità. Ciò che tutte le avvolge è solido come un muro, sotto il quale è una corona ignea; solido è anche ciò che è al centro di tutto, intorno al quale è, ancora, una corona ignea13. Delle corone miste [di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa e Giustizia che tiene le chiavi14 e Necessità. L'aria è secrezione della Terra, evaporata a causa della sua [della Terra] compressione più intensa, e il Sole e la Via Lattea sono esalazioni del fuoco; la Luna mescolanza di entrambi, dell'aria e del fuoco. L'etere poi avvolge tutto dall'esterno [dalla posizione superiore], e al di sotto di esso è disposto quell'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo; sotto di questo le regioni intorno alla Terra (Aëtius; DK 28 A37). Parmenide avrebbe introdotto una cosmologia fondata sulla nozione di στεφάνη, da intendere probabilmente come «anello» cilindrico (Cicerone traduce coronae similem). Secondo Teofrasto, dunque, il cosmo celeste dell'Eleate era costituito da στεφάναι concentriche, anelli alternativamente di «rado» (ἐκ τοῦ ἀραιοῦ) e 13 Il testo greco καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν στερεόν, περὶ ὃ πάλιν πυρώδης sarebbe in realtà interpolato: come sottolinea Franco Ferrari (nel suo recente Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei presocratici, cit., pp. 88-9), στερεόν è infatti una integrazione, e περὶ ὃ un emendamento. Il testo alternativo restaurato sarebbe: καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν περι < ι > όν πάλιν πυρώδης, «e la circonferenza al centro di tutte [le corone] è di nuovo [una corona] ignea». 14 Il greco stabilito da Diels - κληιδοῦχον Δίκην – è emendazione del testo dei manoscritti: κληροῦχον Δίκην, «Giustizia che indirizza le sorti». Simplicio, dopo aver citato B13, osserva in effetti: καὶ τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν φησιν, «[Parmenide sostiene che la dea] invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso opposto». 557 di «denso» (ἐκ τοῦ πυκνοῦ), che presentavano quindi la purezza degli elementi-principi. Tra questi (μεταξὺ τούτων) erano poi dislocate altre corone «miste di luce e oscurità» (μικτὰς ἐκ φωτὸς καὶ σκότους), con una evidente corrispondenza nei «segni»: ἐκ τοῦ ἀραιοῦ/ἐκ φωτὸς, ἐκ τοῦ πυκνοῦ/ἐκ σκότους. Il cosmo finito era avvolto da una sfera solida (τὸ περιέχον δὲ πάσας τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν ὑπάρχειν), secondo quanto indicato in B10.5: οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, altrimenti evocato (B11.2-3) come ὄλυμπος ἔσχατος. L'espressione conclusiva τὰ περίγεια suggerisce che al centro del sistema cosmico si trovasse la Terra, come confermano, sempre sulla scorta di Teofrasto, Diogene Laerzio e Aëtius (DK 28 A1, A44): πρῶτος δὲ οὗτος τὴν γῆν ἀπέφαινε σφαιροειδῆ καὶ ἐν μέσωι κεῖσθαι questi [Parmenide] fu il primo a sostenere che la Terra ha forma di sfera e giace al centro [dell'universo] Π., Δημόκριτος διὰ τὸ πανταχόθεν ἴσον ἀφεστῶσαν [τὴν γῆν] μένειν ἐπὶ τῆς ἰσορροπίας οὐκ ἔχουσαν αἰτίαν δι’ ἣν δεῦρο μᾶλλον ἢ ἐκεῖσε ῥέψειεν ἄν· διὰ τοῦτο μόνον μὲν κραδαίνεσθαι, μὴ κινεῖσθαι δέ Parmenide e Democrito sostengono che la Terra, essendo a uguale distanza da tutte le parti, rimane in equilibrio, non avendo causa per cui debba inclinare da una parte piuttosto che dall'altra. Per questo trema soltanto e non si muove. La struttura del cosmo Seguendo le indicazioni di Teofrasto riferite da Aëtius, analogamente al centro sferico (τὴν γῆν [...] σφαιροειδῆ καὶ ἐν μέσωι κεῖσθαι) dobbiamo supporre sferica almeno la solida parete esterna (τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν) del cosmo - «ciò che tutto avvolge» (τὸ περιέχον δὲ πάσας). Qui incontriamo una prima difficoltà: la 558 consistenza attribuita al contenitore cosmico (appunto la parete solida esterna cui allude Aëtius) dovrebbe comportare – per rispettare i σήματα associati alle due μορφάι – la sua natura densa e oscura; d'altra parte Aëtius sottolinea come l'«etere» avvolga tutto «dall'esterno [ovvero dalla posizione superiore]» (περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος). Diels15 identificava tale «muro» (Mauer) con una sfera di pura Notte, esterna a una sfera di puro Fuoco, che complessivamente costituivano la coppia di στεφάναι concentriche periferiche, contrastate, al centro del sistema, da una coppia corrispondente: una sfera esterna di Notte densa (la superficie terrestre) e una interna di puro fuoco (fuoco vulcanico). Di recente Franco Ferrari 16 ha ribadito questo modello, tra l'altro proponendo una revisione del testo greco di Aëtius che rende coerente l'ipotesi di Diels con le indicazioni che giungevano da Teofrasto. Anche Tarán17 sottolinea la corrispondenza tra τὸ περιέχον στερεὸν (A37), οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα (B10) e ὄλυμπος ἔσχατος (B11), riducendolo a una solida sfera di Notte, sebbene poi la sua struttura cosmica diverga in parte da quella dielsiana, per una diversa interpretazione delle στεινότεραι στεφάναι (coincidenti, secondo lo studioso americano, con gli anelli che contengono le stelle). Altri, tuttavia, hanno contestato questa ricostruzione. Coxon18, per esempio, pur rilevando che la testimonianza di Aëtius appare parafrasi dei versi di B12, e concedendo che l'accostamento al muro di una città (τ ε ί χ ο υ ς δίκην) potrebbe essere stato dello stesso Parmenide (dal momento che ricorre in un contesto pitagorico alla fine di un saggio di Massimo di Tiro, II secolo), denuncia come l'asserzione su τὸ περιέχον στερεὸν risulti fraintendimento di ὄλυμπος ἔσχατος: l'οὐρανὸς di Parmenide non sarebbe dunque solido (cioè composto di Notte), ma etereo, come si ricaverebbe dall'incrocio delle attestazioni di Aëtius e Cicerone: 15 Nella sua edizione del 1897, cit., p. 104. 16 Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 88-90. 17 Op. cit., p. 241. 18 Op. cit., pp. 235-236. 559 περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. L'etere poi avvolge tutto dall'esterno [dalla posizione superiore], e al di sotto di esso è disposto quell'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo; sotto di questo le regioni intorno alla Terra (Aëtius; DK 28 A37) nam P. quidem commenticium quiddam: coronae simile efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et > lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum [...] Parmenide elabora qualcosa di fittizio: simile a una corona (egli la chiama στεφάνην), una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli denomina dio [...] (Cicerone; DK 28 A37). L'orbis lucis di Cicerone coinciderebbe con l'αἰθήρ di Aëtius: Parmenide distinguerebbe il fuoco dall'etere: l'etere – secondo Aëtius – costituirebbe in Parmenide la regione estrema dell'universo, governando il cielo delle stelle fisse (οὐρανὸς) 19. Ruggiu20 interpreta le indicazioni dei frammenti e delle testimonianze in modo analogo. Il termine στεφάνη nel pensiero arcaico designerebbe una formazione di tipo circolare sviluppata intorno a un punto centrale: dal momento che al centro delle στεφάναι in Parmenide sta la Terra, concepita come sferica, la struttura dei cieli sarebbe sferica: la periferia sarebbe occupata da una sfera di fuoco; l'elemento che tutto contiene, ancora igneo, sarebbe della consistenza di un solido muro. D'accordo sostanzialmente Cerri21: nel complesso delle στεφάναι – corone sferiche concentriche – la più esterna, il confine limite dell'universo visibile, sarebbe formata da uno strato di «etere rigido», avvolgente un'altra corona di etere rarefatto e igneo, denominata οὐρανός. 19 Ivi, p. 227. 20 Op. cit., p. 343. 21 Op. cit., p. 266. 560 Parmenide avrebbe previsto, nel suo cosmo, una doppia funzione per il cielo, che ancora può intravedersi nei frammenti: esso è, per un verso, (i) οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, quindi fisicamente limitante, circoscrivente; per altro (ii) vincolante: «Necessità guidando lo vincolò a tenere i confini degli astri» (ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων). Il cielo, dunque, è anche legame per tutti gli elementi celesti: gli astri, dislocati sulle στεφάναι, con i rispettivi moti, immersi al suo interno nell'etere (ἐν αἰθέρι) 22. In effetti risulta evidente, nelle testimonianze, il nesso tra cielo ed etere. Parmenide avrebbe indicato due aree nell'etere celeste: (i) l'etere che si estende tutto intorno al cosmo, libero da astri; (ii) l'etere popolato da astri, condensazioni di fuoco23. A questo alluderebbero le espressioni ἐν τῶι αἰθέρι·e ἐν τῶι πυρώδει di Aëtius A40a: Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ καὶ Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι· μεθ’ ὃν τὸν ἥλιον, ὑφ’ ὧι τοὺς ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ ο ὐ ρ α ν ὸ ν καλεῖ Parmenide dispone per primo nell'etere Eos, considerato da lui identico a Espero. Dopo quello dispone il Sole, sotto il quale sono gli astri nella zona ignea che chiama cielo. Alla luce delle indicazioni che si possono ricavare dai frammenti e soprattutto da Aëtius, l'etere si estenderebbe tra la fascia più interna del sistema cosmico - densa di «aria» secreta dalla Terra (τῆς μὲν γῆς ἀπόκρισιν εἶναι τὸν ἀέρα A37) - e la volta esterna (ὄλυμπος ἔσχατος), che tuttavia potrebbe essere stata concepita a sua volta come etere rigido. Il termine οὐρανὸς appare nelle testimonianze di Aëtius con i significati correnti nella tradizione peripatetica (Teofrasto): molto chiaramente la struttura celeste delineata e il lessico adottato riflettono la lezione di Aristotele: 22 Ruggiu, op. cit., p. 336. 23 Conche, op. cit., p. 213. 561 Εἴπωμεν δὲ πρῶτον τί λέγομεν εἶναι τὸν οὐρανὸν καὶ ποσαχῶς, ἵνα μᾶλλον ἡμῖν δῆλον γένηται τὸ ζητούμενον. Ἕνα μὲν οὖν τρόπον οὐρανὸν λέγομεν τὴν οὐσίαν τὴν τῆς ἐσχάτης τοῦ παντὸς περινὸν περιφορᾶς, ἢ σῶμα φυσικὸν τὸ ἐν τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός· εἰώθαμεν γὰρ τὸ ἔσχατον καὶ τὸ ἄνω μάλιστα καλεῖν οὐρανόν, ἐν ᾧ καὶ τὸ θεῖον πᾶν ἱδρῦσθαί φαμεν. Ἄλλον δ’ αὖ τρόπον τὸ συνεχὲς σῶμα τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός, ἐν ᾧ σελήνη καὶ ἥλιος καὶ ἔνια τῶν ἄστρων· καὶ γὰρ ταῦτα ἐν τῷ οὐρανῷ εἶναί φαμεν. Ἔτι δ’ ἄλλως λέγομεν οὐρανὸν τὸ περιεχόμενον σῶμα ὑπὸ τῆς ἐσχάτης περιφορᾶς· τὸ γὰρ ὅλον καὶ τὸ πᾶν εἰώθαμεν λέγειν οὐρανόν. Τριχῶς δὴ λεγομένου τοῦ οὐρανοῦ, τὸ ὅλον τὸ ὑπὸ τῆς ἐσχάτης περιεχόμενον περιφορᾶς ἐξ ἅπαντος ἀνάγκη συνεστάναι τοῦ φυσικοῦ καὶ τοῦ αἰσθητοῦ σώματος διὰ τὸ μήτ’εἶναι μηδὲν ἔξω σῶμα τοῦ οὐρανοῦ μήτ’ ἐνδέχεσθαι γενέσθαι. Prima dobbiamo dichiarare che cosa diciamo essere il cielo e in quanto modi lo diciamo, perché diventi più chiaro l'oggetto d'indagine. In un senso dunque diciamo cielo la sostanza dell'estrema volta del tutto, cioè il corpo naturale nell'estrema volta del tutto; è appunto la regione estrema e più elevata che siamo soliti chiamare cielo, in cui affermiamo aver sede tutto quanto è divino. In altro senso [diciamo cielo] il corpo contiguo all'estrema volta del tutto, in cui sono la Luna e il Sole e alcuni degli astri; anche questi, in effetti, affermiamo essere nel cielo. In un altro senso ancora, diciamo cielo il corpo abbracciato [compreso] dall'estrema volta; siamo soliti, infatti, definire cielo l'universo e il tutto [ovvero: l'intero universo]. Essendo inteso il cielo in questi tre modi, l'intero abbracciato dall'estrema volta consiste di necessità di tutto il corpo naturale e sensibile, poiché nessun corpo esiste, 562 né è possibile si generi fuori del cielo (Aristotele, De caelo I, 9 278 a9-25). È plausibile che nella propria sintesi Aristotele tenesse conto anche della cosmologia parmenidea ovvero di un modello analogo o condiviso (pitagorico?) dall'Eleate: in effetti «il corpo naturale nell'estrema volta del tutto» (σῶμα φυσικὸν τὸ ἐν τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός) richiama sia «il cielo che tutto intorno cinge» (B10.5 οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα) sia l'«Olimpo estremo» (B11.2- 3 ὄλυμπος ἔσχατος), anche per la sua associazione al «divino» (ἐν ᾧ καὶ τὸ θεῖον πᾶν ἱδρῦσθαί φαμεν). È per altro chiaro che quando Aëtius (A40a) parla di «astri nella zona ignea che [Parmenide] chiama cielo» (ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ οὐρανὸν καλεῖ) si riferisce a ciò che Aristotele indicava come «il corpo contiguo all'estrema volta del tutto, in cui sono la Luna e il Sole e alcuni degli astri» (τὸ συνεχὲς σῶμα τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός, ἐν ᾧ σελήνη καὶ ἥλιος καὶ ἔνια τῶν ἄστρων). Interessante il rilievo aristotelico circa l'accezione "cosmica" di οὐρανός: «l'intero abbracciato dall'estrema volta consiste di necessità di tutto il corpo naturale e sensibile, poiché nessun corpo esiste, né è possibile si generi fuori del cielo». La tentazione di una lettura "cosmica" di Parmenide B8 è molto forte: la compiutezza dell'essere manifestata dalla sfericità, traduceva in immagine ontologica la perfezione che la doxa poteva riscontrare nell'universo compiuto e intero (τὸ ὅλον καὶ τὸ πᾶν) di cui parla Aristotele. In conclusione non si può dunque non ribadire la difficoltà nella ricostruzione del quadro cosmologico del poema: troppo frammentarie le citazioni e troppo condizionate dal lessico e dalla concettualità della posteriore tradizione le testimonianze. Come abbiamo constatato, sono pochi i dati certi sulla struttura cosmica: (i) la forma complessivamente sferica del centro (Terra) e della periferia (τὸ περιέχον, ovvero ὄλυμπος ἔσχατος, «Olimpo estremo»), pensata come una parete solida (τὸ περιέχον δὲ πάσας τείχους δίκην στερεὸν); 563 (ii) l'esistenza di una prima fascia celeste superiore eterea, composta cioè di corone, anelli cilindrici, di puro Fuoco; di una seconda fascia intermedia di corone in cui Fuoco e Notte sono compresenti; di una terza fascia a ridosso della superficie della Terra, corrispondente a una atmosfera aerea prodotta dalle evaporazioni terrestri; (iii) la distribuzione dei corpi celesti tra le prime due fasce (sulla loro disposizione le indicazioni non sono concordi). La δαίμων e il cosmo Il contesto e la citazione di B12, insieme alla relativa testimonianza di Aëtius, pongono un ulteriore problema interpretativo: quello relativo alla posizione e al ruolo della δαίμων che lì viene evocata: μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως ‘αἱ γὰρ... κυβερνᾶι ’. [...] καὶ ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων σαφῶς παραδέδωκεν ὁ Π. λέγων· ‘αἱδ ’ ἐπὶ... θηλυτέρωι ’. [...] καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μέσωι πάντων ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δαίμονα τίθησιν. poco dopo [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente, dicendo così [vv. 1-3]. [...] La causa efficiente non solo dei corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che concorrono alla generazione, Parmenide ha esposto chiaramente, dicendo [vv. 2-6] [...] Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει 564 πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6) τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone miste [di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità (Aëtius; DK 28 A37). Il neoplatonico Anatolio di Laodicea (III secolo d.C.) offre un'ulteriore indicazione: πρὸς τούτοις ἔλεγον περὶ τὸ μέσον τῶν τεσσάρων στοιχείων κεῖσθαί τινα ἑναδικὸν διάπυρον κύβον, οὗ τὴν μεσότητα τῆς θέσεως καὶ Ὅμηρον εἰδέναι [...]. ἐοίκασι δὲ κατά γε τοῦτο κατηκολουθηκέναι τοῖς Πυθαγορικοῖς οἵ τε περὶ Ἐμπεδοκλέα καὶ Παρμενίδην καὶ σχεδὸν οἱ πλεῖστοι τῶν πάλαι σοφῶν, φάμενοι τὴν μοναδικὴν φύσιν ἑστίας τρόπον ἐν μέσωι ἱδρῦσθαι καὶ διὰ τὸ ἰσόρροπον φυλάσσειν τὴν αὐτὴν ἕδραν Oltre a queste cose [i Pitagorici] sostenevano che nel mezzo dei quattro elementi sta un cubo unitario di fuoco, la cui posizione centrale era nota anche a Omero [...]. Sembra che abbiano in questo seguito i Pitagorici i discepoli di Empedocle e Parmenide e per lo più i [lett.: «quasi la maggioranza dei»] sapienti antichi, dal momento che affermano che la natura monadica è posta al centro come focolare [Estia], e che conserva la stessa sede in 565 forza dell'equiposizione [dell'equilibrio rispetto alla perimetro del sistema] (DK 28 A44). Indubbiamente il cosmo parmenideo presenta affinità con quello filolaico, quale possiamo ricostruire da frammenti e testimonianze: ὁ κόσμος εἷς ἐστιν, ἤρξατο δὲ γίγνεσθαι ἀπὸ τοῦ μέσου καὶ ἀπὸ τοῦ μέσου εἰς τὸ ἄνω διὰ τῶν αὐτῶν τοῖς κάτω. ἔστι < γὰρ > τὰ ἄνω τοῦ μέσου ὑπεναντίως κείμενα τοῖς κάτω. τοῖς γὰρ κατωτάτω τὰ μέσα ἐστὶν ὥσπερ τὰ ἀνωτάτω καὶ τὰ ἄλλα ὡσαύτως. πρὸς γὰρ τὸ μέσον κατὰ ταὐτά ἐστιν ἑκάτερα, ὅσα μὴ μετενήνεκται Il cosmo è uno; iniziò a formarsi dal mezzo e dal mezzo verso l'alto, e attraverso gli stessi passaggi verso il basso. Le cose che sono al di sopra del mezzo giacciono in senso opposto a quelle che sono al di sotto. In effetti le cose che sono in mezzo si trovano rispetto a quelle sotto come rispetto a quelle sopra e le altre in modo simile: dal momento che rispetto al mezzo entrambe si trovano nella stessa relazione, solo capovolte (DK 44 B17) Φ. πῦρ ἐν μέσωι περὶ τὸ κέντρον ὅπερ ἑστίαν τοῦ παντὸς καλεῖ [B 7] καὶ Διὸς οἶκον καὶ μη τέραθεῶν βωμόν τε καὶ συνοχὴν καὶ μέτρον φύσεως. καὶ πάλιν πῦρ ἕτερον ἀνωτάτω τὸ περιέχον. πρῶτον δ’ εἶναι φύσει τὸ μέσον, περὶ δὲ τοῦτο δέκα σώματα θεῖα χορεύειν, [οὐρανόν] < μετὰ τὴν τῶν ἀπλανῶν σφαῖραν > τοὺς ε πλανήτας, μεθ’ οὓς ἥλιον, ὑφ’ ὧι σελήνην, ὑφ’ ἧι τὴν γῆν, ὑφ’ ἧι τὴν ἀντίχθονα, μεθ’ ἃ σύμπαντα τὸ πῦρ ἑστίας περὶ τὰ κέντρα τάξιν ἐπέχον. τὸ μὲν οὖν ἀνωτάτω μέρος τοῦ περιέχοντος, ἐν ὧι τὴν εἰλικρίνειαν εἶναι τῶν στοιχείων, ὄ λ υ μ π ο ν καλεῖ, τὰ δὲ ὑπὸ τὴν τοῦ ὀλύμπου φοράν, ἐν ὧι τοὺς πέντε πλανήτας μεθ’ ἡλίου καὶ σελήνης τετάχθαι, κόσμον, τὸ δ’ ὑπὸ τούτοις ὑποσέληνόν τε καὶ περίγειον μέρος, ἐν ὧι τὰ τῆς φιλομεταβόλου γενέσεως, 566 ο ὐ ρ α ν ό ν. καὶ περὶ μὲν τὰ τεταγμένα τῶν μετεώρων γίνεσθαι τὴν σ ο φ ί α ν, περὶ δὲ τῶν γινομένων τὴν ἀταξίαν τὴν ἀ ρ ε τ ή ν, τελείαν μὲν ἐκείνην ἀτελῆ δὲ ταύτην. Filolao definisce il fuoco in mezzo attorno al centro «focolare del tutto [dell'universo]» e «casa di Zeus» e «madre degli dei», «altare» e «vincolo» e «misura della natura»; l'altro fuoco in alto invece «l'involucro». Sostiene che primo per natura sia quello in mezzo, intorno a cui si muovono dieci corpi divini, primo il cielo delle stelle fisse, poi i cinque pianeti, poi il Sole, quindi la Luna, poi la Terra, poi l'Antiterra; dopo queste cose il fuoco del focolare, che risiede intorno al centro. Chiama la parte più alta dell'involucro, in cui ritiene risieda la purezza degli elementi, «Olimpo»; quella che porta sotto l'Olimpo, in cui sono collocati i 5 pianeti con il Sole e la Luna, «cosmo»; dopo queste, poi, la parte sublunare e circumterrestre, entro cui sono le cose della generazione mutevole, «cielo». E intorno alla disposizione delle cose celesti verte la sapienza, intorno al disordine delle cose in divenire verte la virtù: quella perfetta, questa imperfetta (Aëtius; DK 44 A16). È probabile che alcuni particolari delle concezioni pitagoriche siano stati utilizzati per ricostruire a posteriori il quadro del cosmo parmenideo, sempre che quegli elementi non fossero sullo sfondo della stessa elaborazione eleatica, almeno come tratti consolidati di una tradizione. Aëtius (che si appoggia alla lezione di Teofrasto) riferisce come anche Filolao definisse ὄλυμπος «la parte più alta dell'involucro, in cui ritiene risieda la purezza degli elementi», distribuendo poi gli astri in due regioni – κόσμος e οὐρανός – compatibilmente con la rappresentazione parmenidea. La citazione filolaica sottolinea la preoccupazione per la struttura sferica, che potrebbe riflettersi nell’insistenza delle testimonianze sul modello arcaico delle «corone», probabilmente di matrice anassimandrea, in Parmenide: al pensatore di Mileto punta anche l'argomento per la centralità della Terra, precoce applicazione del principio di ragion sufficien- 567 te, impiegato da Parmenide anche in sede ontologica, nella sezione sulla Verità (vv. B8.9 ss.): Π., Δημόκριτος διὰ τὸ πανταχόθεν ἴσον ἀφεστῶσαν [τὴν γῆν] μένειν ἐπὶ τῆς ἰσορροπίας οὐκ ἔχουσαν αἰτίαν δι’ ἣν δεῦρο μᾶλλον ἢ ἐκεῖσε ῥέψειεν ἄν· Parmenide e Democrito sostengono che la Terra, essendo a uguale distanza da tutte le parti, rimanga in equilibrio, non avendo causa per cui debba inclinare da una parte piuttosto che dall'altra (Aëtius; DK 28 A44). L'accostamento alla posteriore cosmologia (e cosmogonia) filolaica - in cui si depositava e sistemava plausibilmente la primitiva lezione pitagorica - è utile, tuttavia, soprattutto nella determinazione del ruolo cosmico della δαίμων parmenidea. Simplicio, nelle due citazioni che costituiscono B12, sembra interessato a rilevare come Parmenide postulasse nella sua fisica una potenza distinta dalla forma Fuoco come «causa efficiente» (ποιητικὸν αἴτιον): «la dea che governa tutte le cose». Secondo Coxon24, il rilievo del commentatore sarebbe stato diretto contro il modello interpretativo della doxa proposto da Alessandro sulla scorta di Teofrasto, secondo il quale al Fuoco spettava il ruolo di ποιητικὸν αἴτιον e alla terra (Notte) quello di ὕλη: καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μέσωι πάντων ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione. D'altra parte in B12 leggiamo che: ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ al centro di queste [corone] la Dea che tutte le cose governa, 24 Op. cit., p. 234. 568 e Aëtius sottolinea come: τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone miste [di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità, mentre Plutarco, citando B13, osserva: διὸ Π. μὲν ἀποφαίνει τὸν Ἔρωτα τῶν Ἀφροδίτη ς ἔργων πρεσβύτατον ἐν τῆι κοσμογονίαι γράφων ‘πρώτιστον... πάντων’ «perciò Parmenide mostra Eros come la prima delle opere di Afrodite scrivendo nella cosmogonia [B13]». Le testimonianze e i frammenti superstiti consentono di affermare che effettivamente Parmenide attribuiva alla δαίμων una funzione cosmogonica (πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει, «di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione» B12.4). Evidentemente aperta è invece la questione della sua collocazione cosmologica e della sua identificazione. La dislocazione cosmica della δαίμων L'indicazione di Plutarco è un punto di partenza: oggi si è infatti convinti che Plutarco non solo avesse accesso a una copia del poema di Parmenide, ma potesse attingere a una versione attendibile25. Il passo propone di fatto l'identificazione della δαίμων con Afrodite: Simplicio sottolinea come la dea sia «causa efficiente 25 Su questo punto è molto importante la messa a fuoco di Passa, op. cit, pp. 27- 28. 569 non solo dei corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che concorrono alla generazione» (ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων); Plutarco fa di Afrodite la generatrice di Eros e dunque nomina la δαίμων. Ovviamente non possiamo stabilire se l'identificazione fosse per lui scontata o solo una speculazione ovvero riscontrata invece nel testo, ma la precisazione: «nella cosmogonia» (ἐν τῆι κοσμογονίαι) - sembra avvalorare l'ultima possibilità. In ogni caso, nella misura in cui B12 assegna alla δαίμων il governo di tutto, B13 sembra suggerire che ciò avvenga attraverso la generazione di Eros e il controllo dell'accoppiamento26. D'altra parte, poiché la testimonianza di Aëtius colloca la dea al centro degli anelli misti di Notte e Fuoco, assimilandola di fatto a uno di essi, è possibile, incrociando le due testimonianze, ipotizzare che essa coincidesse con un'entità astrale concreta, fonte fisica dell'influenza cosmogonica, Afrodite appunto. Parmenide, il primo a identificare Eos (Ἕως ovvero Fosforo/Φωσφόρος, la stella del mattino) e Espero (Ἕσπερον, la stella della sera): Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ καὶ Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι Parmenide per primo pone nell'etere Eos, considerato da lui identico a Espero (DK 28 A40a), potrebbe aver dato per primo il nome di Afrodite all'astro27. Contro questa identificazione e collocazione si pongono le informazioni che giungono dal contesto delle citazioni di Simplicio, che chiaramente parla a favore della centralità cosmica della δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ: in effetti, l'espressione parmenidea - ἐν δὲ μέσῳ τούτων - con cui essa viene introdotta, è ambigua, potendosi riferire sia al centro delle corone miste (come appare più probabile nel contesto) sia al centro dell'universo. Difficile pensare, tuttavia, che il commentatore, che certamente disponeva di una 26 Cerri, op. cit., pp. 267-268. 27 Ibidem. 570 copia del poema, potesse fraintenderne il testo su questo punto; né la sua indicazione contraddice quella di Plutarco, il quale si limita a identificare la δαίμων come Ἀφροδίτης. La testimonianza di Anatolio di Laodicea è dello stesso tenore, marcando in particolare la continuità con le cosmologie e cosmogonie pitagoriche: la «natura monadica» (τὴν μοναδικὴν φύσιν) è posta da Parmenide (ed Empedocle) al centro (ἐν μέσωι) «al modo di un focolare» (ἑστίας τρόπον). I riscontri delle citazioni di Filolao e delle relative testimonianze confermano che nella tradizione pitagorica del V secolo «il fuoco in mezzo attorno al centro» (πῦρ ἐν μέσωι περὶ τὸ κέντρον) coincideva con il divino «focolare del tutto» (ἑστίαν τοῦ παντὸς), ovvero «dimora di Zeus» (Διὸς οἶκον) o «madre degli dei» (μητέραθεῶν), connotazione che ritorna anche negli Inni orfici: [Ἑστία] ἣ μέσον οἶκον ἔχεις πυρὸς ἀενάοιο Hestia [...] che hai dimora al centro del fuoco eterno (Orphica, Hymnii 84.1-2) ἐκ σέο [Ἑστία] δ’ ἀθανάτων τε γένος θνητῶν τ’ ἐλοχεύθη, da te [Hestia] ebbe nascita la stirpe degli immortali e dei mortali (Orphica, Hymnii 27.7)28, e che ritroviamo nel contesto simpliciano della citazione di B13: ταύτην [δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ] καὶ θεῶν αἰτίαν εἶναί φησι λέγων [B13] la [dea che tutto governa] considera causa anche degli dei, affermando [B13]. La collocazione della δαίμων al centro del sistema cosmico, le possibili convergenze con il pitagorismo del V secolo sul motivo della Hestia divina, potrebbero avvalorare il modello cosmologico 28 F. Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 104-5. 571 proposto da Diels, per cui il nucleo centrale dell'universo risulterebbe una sfera di puro Fuoco, circondata dalla superficie terrestre (sfera di pura Notte). Coxon29, rilevando le difficoltà implicite nelle testimonianze di Aëtius e Simplicio, ha sostenuto, sulla scorta di Cicerone (A37), una diversa soluzione circa natura e collocazione della divinità. Come abbiamo già riscontrato, in Cicerone, infatti, la dea appare come «una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo»: coronae simile efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et > lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum immagina una corona (egli la chiama στεφάνην), cioè una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli denomina dio; incrociando il dato cosmologico con quello fornito da Aëtius: περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. L'etere poi tutto avvolge dall'esterno [dalla posizione superiore] e al di sotto di esso è posto proprio l'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo (Aëtius; DK 28 A37), si potrebbe concludere – come abbiamo visto - che l'orbis lucis (secondo Cicerone, indicata da Parmenide come «dio»), la «corona» ignea e luminosa che abbraccia il cielo, coincida con l'αἰθήρ di Aëtius, che avvolge οὐρανόν. Questa identificazione sarebbe compatibile sia con la tradizione peripatetica (che attribuiva al fuoco il ruolo di principio efficiente), sia con i dati relativi alla tradizione ionica: ἅπαντα γὰρ ἢ ἀρχὴ ἢ ἐξ ἀρχῆς, τοῦ δὲ ἀπείρου οὐκ ἔστιν ἀρχή· εἴη γὰρ ἂν αὐτοῦ πέρας. ἔτι δὲ καὶ ἀγένητον καὶ ἄφθαρτον ὡς ἀρχή τις οὖσα· τό τε γὰρ 29 Op. cit., pp.239 ss.. 572 γενόμενον ἀνάγκη τέλος λαβεῖν, καὶ τελευτὴ πάσης ἐστὶ φθορᾶς. διὸ καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν, ὥς φασιν ὅσοι μὴ ποιοῦσι παρὰ τὸ ἄπειρον ἄλλας αἰτίας οἶον νοῦν ἢ φιλίαν. καὶ τοῦτ’εἶναι τὸ θεῖον· ἀθάνατον γὰρ καὶ ἀνώλεθρον, ὥς φησιν ὁ Ἀναξίμανδρος καὶ οἱ πλεῖστοι τῶν φυσιολόγων Ogni cosa, in effetti, è o principio o [deriva] da principio; dell'apeiron però non v'è principio, dal momento che vi sarebbe un limite di esso [apeiron]. E ancora, esso è ingenerato e incorruttibile, in quanto è un principio: è necessario, infatti, che ciò che è generato abbia una fine, e vi è un termine finale di ogni corruzione. Proprio per questo motivo diciamo che di esso [principio] non vi sia principio, ma che sembra essere esso stesso principio di tutte le altre cose, e comprenderle [abbracciarle] tutte e tutte governarle, come affermano quanti non pongono oltre all'infinito altre cause, per esempio Intelligenza o Amore. E questo è il divino: è infatti senza morte e senza distruzione, come sostengono Anassimandro e la maggioranza degli studiosi della natura. (Aristotele; DK 12 A15) Ἀ. Εὐρυστράτου Μιλήσιος ἀρχὴν τῶν ὄντων ἀέρα ἀπεφήνατο· ἐκ γὰρ τούτου πάντα γίγνεσθαι καὶ εἰς αὐτὸν πάλιν ἀναλύεσθαι. 'οἶον ἡ ψυχή, φησίν, ἡ ἡμετέρα ἀὴρ οὖσα συγκρατεῖ ἡμᾶς, καὶ ὅλον τὸν κόσμον πνεῦμα καὶ ἀὴρ περιέχει' (λέγεται δὲ συνωνύμως ἀὴρ καὶ πνεῦμα). Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, affermò che principio delle cose è l'aria: da essa tutto si genera e in essa di nuovo si risolve. Dice: «come la nostra anima, che è aria, ci governa, così soffio e aria abbracciano l'interno universo» (aria e soffio sono utilizzati come sinonimi) (Aëtius; DK 13 B2) εἶναι γὰρ ἓν τὸ σοφόν, ἐπίστασθαι γνώμην, ὁτέη ἐκυβέρνησε πάντα διὰ πάντων 573 esiste una sola sapienza: riconoscere la ragione, che governa tutto attraverso tutto (Diogene Laerzio; DK 22 B41) [λέγει δὲ καὶ τοῦ κόσμου κρίσιν καὶ πάντων τῶν ἐν αὐτῶι διὰ πυρὸς γίνεσθαι λέγων οὕτως] τὰ δὲ πάντα οἰακίζει Κεραυνός, τουτέστι κατευθύνει, κεραυνὸν τὸ πῦρ λέγων τὸ αἰώνιον. λέγει δὲ καὶ φρόνιμον τοῦτο εἶναι τὸ πῦρ καὶ τῆς διοικήσεως τῶν [ὅλων αἴτιον] [Eraclito sostiene anche che abbia luogo un giudizio sul mondo e su tutto ciò che si trova in esso, attraverso il fuoco, in tal modo:] il fulmine dirige il tutto, ossia [il dio] lo guida [con il fulmine], intendendo con fulmine il fuoco eterno. Dice anche che questo fuoco è dotato di intelligenza, e che esso è [causa] dell'ordinamento [dell'universo] (Ippolito; DK 22 B64). Le assonanze espressive potrebbero avvalorare la convergenza parmenidea sulle posizioni di coloro che, alle origini della speculazione cosmologica, avevano accennato alla divinità della naturaprincipio (καὶ τοῦτ’εἶναι τὸ θεῖον), assegnandole anche un compito direttivo sui processi cosmici: «abbracciare e pilotare tutte le cose» (Anassimandro: περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν), ovvero «abbracciare l'universo» (Anassimene: ὅλον τὸν κόσμον περιέχει), in analogia con il controllo dell'anima sulle nostre funzioni vitali (ἡ ψυχή συγκρατεῖ ἡμᾶς). In B12.4, in effetti, ritroviamo il verbo ἄρχει, che, come vuole Coxon30, potrebbe alludere direttamente ad Anassimandro (cui Teofrasto riconosce il merito di aver introdotto il termine tecnico di ἀρχὴ). È tuttavia possibile che la parmenidea δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ, da Plutarco identificata come Ἀφροδίτης, sia in realtà solo l'espressione mitica della potenza generatrice cui alluderanno Empedocle e Lucrezio, il quale - ci ricorda Ferrari31 - utilizzava espressioni analoghe a quelle del filosofo greco (quae... rerum naturam sola gubernas, I.21). A insistere per questa lettura è so- 30 Ivi, p. 242. 31 Ferrari, op. cit., p. 106 nota. 574 prattutto Ruggiu32, per il quale la δαίμων sembra essere la personificazione della stessa forza vivificatrice (mana) presente in tutte le cose: l'impulso immanente alla generazione (B11.3-4 ὡρμήθησαν γίγνεσθαι). Nel senso di una attribuzione ad Afrodite della forza demiurgica è orientato anche il commentatore (IV secolo) della teogonia (V secolo) del papiro Derveni, e conferme ulteriori si potrebbero cogliere nel riferimento alla nascita di Eros, che potrebbe coinvolgere il complesso sfondo delle presunte teogonie orfiche, documentate negli Uccelli (vv. 695-9) di Aristofane. La funzione cosmo-teogonica della δαίμων B12 allude quindi chiaramente a un processo cosmogonico e, in relazione a esso, al ruolo direttivo (κυϐερνᾷ, ἄρχει) della δαίμων, la quale «spinge all'unione» (πέμπουσα μιγῆν)·di «femminile» (θῆλυ) e «maschile» (ἄρσεν): ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6). Un ruolo, come sappiamo, ben documentato nel linguaggio peripatetico di Simplicio (contesto B12): 32 Op. cit., p. 344. 575 μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως ‘αἱ γὰρ... κυβερνᾶι ’. καὶ ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων σαφῶς παραδέδωκεν ὁ Π. λέγων· ‘αἱδ’ἐπὶ... θηλυτέρωι ’. [...] καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μέσωι πάντων ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν. poco dopo [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente, dicendo così [vv. 1-3]. [...] La causa efficiente non solo dei corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che concorrono alla generazione, Parmenide ha esposto chiaramente, dicendo [vv. 2-6] [...] Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione, e connesso a una (probabilmente correlata) analoga funzione teogonica: ταύτην καὶ θεῶν αἰτίαν εἶναί φησι λέγων ‘πρώτιστον... πάντων ’ κτλ. καὶ τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν φησιν. sostiene che questa stessa [la dea] sia causa anche degli dei, dicendo [B13], e sostiene che invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso opposto (Simplicio; contesto B13). L'indicazione di Simplicio suggerisce una prossimità almeno tematica tra B12 e B13: πρώτιστον μὲν Ἔρωτα θεῶν μητίσατο πάντων… Primo tra gli dei tutti ella concepì Amore, confermata dalla testimonianza di Plutarco (contesto B13): 576 διὸ Π. μὲν ἀποφαίνει τὸν τῶν Ἀφροδίτης ἔργων πρεσβύτατον ἐν τῆι κοσμογονίαι γράφων ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν... π ά ν τ ω ν ’ perciò Parmenide mostra Eros come la prima delle opere di Afrodite scrivendo nella cosmogonia [B13]. Un'ulteriore cerniera tra i due frammenti si può cogliere nel contesto della citazione aristotelica di B13 (Metafisica I, 4 984b23-7): ὑποπτεύσειε δ’ ἄν τις Ἡσίοδον πρῶτον ζητῆσαι τὸ τοιοῦτον, κἂν εἴ τις ἄλλος ἔρωτα ἢ ἐπιθυμίαν ἐν τοῖς οὖσιν ἔθηκεν ὡς ἀρχὴν οἷον καὶ Π.· οὗτος γὰρ κατασκευάζων τὴν τοῦ παντὸς γένεσιν ‘πρώτιστον μέν, φησίν Ἔρωτα … πάντων’ Si potrebbe sospettare che Esiodo per primo abbia ricercato una [causa] del genere, anche se qualcun altro pose negli enti, come principio, amore o desiderio, per esempio Parmenide. Questi, infatti, ricostruendo la genesi del tutto, affermò: [B13]. Ancora utile, sebbene condizionata dall'esplicita liquidazione (e incomprensione) della strategia parmenidea, è anche la testimonianza di Cicerone (DK 28 A37): nam P. quidem commenticium quiddam: coronae simile efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et > lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum; in quo neque figuram divinam neque sensum quisquam suspicari potest. multaque eiusdem < modi > monstra: quippe qui B e l l u m, qui Discordiam, qui Cupiditatem [B 13] ceteraque generis eiusdem ad deum revocat, quae vel morbo vel somno vel oblivione vel vetustate delentur; eademque de sideribus, quae reprehensa in alio iam in hoc omittantur Parmenide immagina qualcosa di fittizio: una corona (egli la chiama στεφάνην), una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli chiama dio; in cui non si 577 può supporre ci sia figura divina né sensibilità alcuna. Inoltre, indica moltre altre assurdità di tale specie: riferisce infatti dio a Guerra, Discordia, Passione [B13] e tutte le altre cose del genere, le quali sono distrutte o da malattia o dal sonno o dall'oblio o dalla vecchiaia. Le medesime cose sono dette anche degli astri: essendo già state criticate in altro luogo, possiamo ometterle in questo. Quelli che abbiamo elencato sono i testi che complessivamente autorizzano la speculazione sulla cosmo-teogonia parmenidea. Pochi gli elementi sufficientemente certi: (i) la testimonianza di Simplicio – che pone la funzione della δαίμων in relazione diretta con i «due elementi» (περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων) Fuoco e Notte – insiste decisamente sulla divinità come «causa efficiente» (ποιητικὸν αἴτιον) «una e comune» (ἓν κοινὸν), origine di ogni generazione (γένεσις); (ii) la sua causalità efficiente appare come impulso alla mescolanza (πέμπουσα μιγῆν) dei due contrari: la divinità è causa comune in quanto, attraverso la mescolanza delle δυνάμεις di Fuoco e Notte, rende possibile quanto i mortali definiscono generazione e corruzione33; (iii) a nascita e morte allude probabilmente Simplicio quando osserva che «[la dea] invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso opposto» (τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν); allo stesso fenomeno si riferisce Parmenide in B12.4 con l'espressione: πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει di tutte le cose sovrintende al doloroso parto e all'unione. Conche (tra gli altri) si è soffermato34 sull'uso di στυγερός (da στυγέω, «avere in orrore»), che a suo credere rivelerebbe il pessimismo di fondo di Parmenide, portato di una Stimmung riscontrata soprattutto nella poesia arcaica: un pessimismo proiettato nel 33 Ivi, p. 340. 34 Op. cit., pp. 225 ss.. 578 suo caso, rispetto alla poesia, dalla condizione umana al divenire nel suo complesso; (iv) la mescolanza (μῖξις) è ulteriormente connotata come (o almeno accostata a) una forma di unione sessuale: questo spiega probabilmente il ruolo di Eros. Simplicio, infatti, introducendo B13, precisa che la δαίμων è anche «causa degli dei» (θεῶν αἰτία), mentre Aristotele esplicitamente attribuisce al concepimento di Eros una funzione cosmogonica («ricostruendo la genesi del tutto», κατασκευάζων τὴν τοῦ παντὸς γένεσιν); (v) a dire di Cicerone, altre figure divine (Guerra, Discordia, Passione) dovevano cooperare all'attività direttiva della δαίμων: evidente l'analogia con le forze cosmogoniche di Empedocle (che, ribadiamo, potrebbe essersi ispirato direttamente al modello parmenideo). In quella che Plutarco chiama κοσμογονία, è possibile dunque che Parmenide impiegasse un doppio registro: l'esposizione propriamente cosmogonica era accompagnata e intrecciata a una versione immediatamente teogonica. Ciò è suggerito, da un lato, dall'uso, in B11.3-4, della formula «ebbero impulso a generarsi» (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), che sembra implicare una spinta immanente, dall'interno della natura stessa del cosmo, dall'altro, dalla attribuzione aristotelica a Eros di una funzione analoga. Secondo Ruggiu35 l'impulso (cosmogonico) a congiungersi e mescolarsi (e quindi il processo di costituzione delle cose) sarebbe guidato dalla potenza immanente, da quella forza vivificatrice denominata δαίμων (o forse Ἀφροδίτης), di cui Eros (insieme alle altre divinità cui allude Cicerone) sarebbe espressione teogonica e cosmogonica a un tempo, nella misura in cui l'unione sessuale rientra tipicamente nelle forme di congiunzione\mescolamento, essenziali, nello schema parmenideo che prevedeva due principi elementari di base, per produrre generazione e corruzione. Sarebbe, insomma, in vista dell'«odioso parto» e dell'«unione» che la dea avrebbe «concepito» (letteralmente «meditato, pensato») Eros36. Si può dunque osservare ulteriormente che: 35 Op. cit., p. 340. 36 Coxon, op. cit., p. 242. 579 (vi) la δαίμων, di cui si sottolineano, con linguaggio nautico (κυϐερνάω: pilotare, timonare), sia il ruolo di governo, sia l'azione di dare inizio ai processi, sembra dominarli in ultima analisi attraverso il pensiero (μητιάω: meditare, deliberare, ma anche concepire, inventare). A dispetto del contesto e della tradizione teogonica evocata, il poeta intenderebbe così rilevare «un rapporto di pura filiazione concettuale»37. 37 Cerri, op. cit., p. 273. I quattro frammenti sono propriamente delle schegge del testo del poema (B14a, per altro, normalmente non considerato frammento autentico ma imitazione aristotelica), di difficile contestualizzazione, e il cui valore è discusso. È significativo, in particolare, il fatto che B14 e B15 siano citati da Plutarco non per documentare il sistema astronomico di Parmenide, ma, strumentalmente, per illustrare altre relazioni (B14) ovvero (B15) per le implicazioni etiche (obbedienza volontaria a un superiore)1: οὐδὲ γὰρ ὁ πῦρ μὴ λέγων εἶναι τὸν πεπυρωμένον σίδηρον ἢ τὴν σελήνην ἥλιον, ἀλλὰ κατὰ Παρμενίδην [B14: νυκτιφαὲς περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς] ἀναιρεῖ σιδήρου χρῆσιν ἢ σελήνης φύσιν. nemmeno chi nega che il ferro incandescente sia fuoco o la Luna Sole, ma come Parmenide: «di notte splendente, vagando intorno alla Terra, luce d'altri» – elimina l'uso del ferro o la natura della Luna. τῶν ἐν οὐρανῶι τοσούτων τὸ πλῆθος ὄντων μόνη φωτὸς ἀλλοτρίου δεομένη περίεισι κατὰ Π. αἰεὶ παπταίνουσα πρὸς αὐγὰς ἠελίοιο. Nell'abbondanza di tali entità nel cielo la sola [Luna] va in giro bisognosa di luce altrui, secondo Parmenide....sempre rivolta verso i raggi del sole. Nella tradizione è stato a essi attribuito sostanzialmente un significato poetico e solo subordinatamente astronomico. Si è insistito sulla costruzione ritmica2 ovvero sull'immaginario sentimentale cui ricorre Parmenide: la Luna come donna innamorata rivolta a contemplare il proprio amante (il Sole), illuminata dai suoi sguardi (raggi). Situazione e immagine che Empedocle avrebbe poi puntualmente ripreso, come abbiamo segnalato in nota al testo. 1 Coxon, op. cit., pp. 244-5. 2 Cerri, op. cit., p. 274. 581 Dai pochi versi si possono tuttavia ricavare anche interessanti indicazioni cosmologiche: (i) la conferma della natura circolare del moto di rivoluzione della Luna («vagante intorno alla Terra», περὶ γαῖαν ἀλώμενον); (ii) donde l'inferenza circa la probabile sfericità della stessa, confermata dalle testimonianze teofrastee; (iii) l'attestazione della relazione di dipendenza della luce lunare dalla luce solare (ἀλλότριον φῶς). Su questo punto è necessario precisare che, attraverso Aëtius, siamo informati della origine e composizione di Luna e Sole: Π. τὸν ἥλιον καὶ τὴν σελήνην ἐκ τοῦ γαλαξίου κύκλου ἀποκριθῆναι, τὸν μὲν ἀπὸ τοῦ ἀραιοτέρου μίγματος ὃ δὴ θερμόν, τὴν δὲ ἀπὸ τοῦ πυκνοτέρου ὅπερ ψυχρόν. Parmenide sostiene che il Sole e la Luna si siano formati per distacco dal cerchio della Via Lattea: il primo è costituito dalla mescolanza più rarefatta, che è calda; l'altra dalla più densa, che è fredda (DK 28 A43) συμμιγῆ δ’ ἐξ ἀμφοῖν εἶναι τὴν σελήνην, τοῦ τ’ ἀέρος καὶ τοῦ πυρός La luna è mescolanza di entrambi, di aria e di fuoco (DK 28 A37) Π. πυρίνην [sc. εἶναι τὴν σελήνην]. Π. ἴσην τῶι ἡλίωι [sc. εἶναι τὴν σελήνην]· καὶ γὰρ ἀπ’ αὐτοῦ φωτίζεται. Θαλῆς πρῶτος ἔφη ὑπὸ τοῦ ἡλίου φωτίζεσθαι. Πυθαγόρας, Παρμ.... ὁμοίως Parmenide sostiene [che la Luna è] di fuoco. Parmenide sostiene [che la Luna è] simile [per grandezza] al Sole: è in effetti illuminata da esso. Talete per primo disse che [la Luna] è illuminata dal Sole; analogamente Pitagora, Parmenide...... È la diversa commisurazione degli elementi base, pur derivando Sole e Luna dalla stessa fascia celeste (la Via Lattea), a produrre, nel caso della seconda, effetti fisici (fenomenici) più deboli 582 rispetto a quelli del Sole (giustificandone così la dipendenza): il pallore della Luna è connesso al fatto che il fuoco non riesce a renderla calda e quindi neppure splendente3. 3 Conche, op. cit., pp. 235-6. Frammento di interpretazione estremamente controversa, B16 costituisce effettivamente una sfida per il traduttore: accanto ai problemi di determinazione del testo all'interno della tradizione manoscritta, troviamo nello specifico difficoltà per quanto concerne la sua comprensione. In assenza del contesto immediato, infatti, la costruzione sintattica non è del tutto perspicua e univoca, e le possibili, diverse soluzioni producono per lo più significati diversi. Incerta risulta anche la sua collocazione all'interno della struttura del poema. Prevalente è l'orientamento di Diels, che considerò i versi come appartenenti alla sezione sulla Doxa, ma non sono mancate - in passato e tra gli studiosi contemporanei (Mourelatos, Robinson, Stemich, Ferrari) – le proposte di assegnarlo alla sezione sulla Verità, analogamente a B4: per gli uni il frammento esprimerebbe una concezione soggettivistica del comune pensare umano, costantemente condizionato dalla situazione fisiologica dell'individuo pensante; per gli altri, invece, esso affermerebbe la stretta relazione tra pensiero e realtà. L'esame del contesto delle citazioni può aiutare a comprendere il senso dei versi parmenidei e a decidere del suo posizionamento nell'opera. Il contesto peripatetico Abbiamo di B16 due citazioni integrali peripatetiche - in Aristotele (Metafisica IV, 5 1009 b21) e Teofrasto (De sensu 3) – e due parafrasi – Alessandro di Afrodisia e Asclepio nei loro commenti al testo aristotelico. Aristotele Aristotele cita il frammento all'interno di una disamina critica delle dottrine relativistiche di stampo protagoreo (tutte le opinioni sarebbero egualmente vere ed egualmente false), che lo Stagirita 584 fa derivare dalla combinazione di un assunto teorico di fondo e di due assunti specifici. Per quanto riguarda il primo, lo scenario entro cui il filosofo posiziona gli autori citati, egli osserva (a più riprese): ἡ περὶ τὰ φαινόμενα ἀλήθεια ἐνίοις ἐκ τῶν αἰσθητῶν ἐλήλυθεν la verità circa le cose che appaiono ad alcuni è derivata dalle cose sensibili (Metafisica IV, 5 1009 b1) αἴτιον δὲ τῆς δόξης τούτοις ὅτι περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν, τὰ δ’ ὄντα ὑπέλαβον εἶναι τὰ αἰσθητὰ μόνον causa di questa convinzione per costoro è che essi ricercavano sì la verità intorno agli enti, ma supponendo che gli enti fossero solo quelli sensibili (1010 a1-3). Il discorso aristotelico che coinvolge anche Parmenide verte, dunque, in generale, su una ontologia "materialistica" e sulla conoscenza associata all'esperienza sensibile. Le assunzioni specifiche riguardano invece la sensazione (αἴσθησις): essa è intesa come (i) pensiero (φρόνησις), ovvero (ii) processo di alterazione fisica (ἀλλοίωσις). La citazione di B16 avviene appunto in questo contesto: ὅλως δὲ διὰ τὸ ὑπολαμβάνειν φρόνησιν μὲν τὴν αἴσθησιν, ταύτην δ’ εἶναι ἀλλοίωσιν, τὸ φαινόμενον κατὰ τὴν αἴσθησιν ἐξ ἀνάγκης ἀληθὲς εἶναί φασιν· ἐκ τούτων γὰρ καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Δημόκριτος καὶ τῶν ἄλλων ὡς ἔπος εἰπεῖν ἕκαστος τοιαύταις δόξαις γεγένηνται ἔνοχοι. καὶ γὰρ Ἐμπεδοκλῆς μεταβάλλοντας τὴν ἕξιν μεταβάλλειν φησὶ τὴν φρόνησιν· “πρὸς παρεὸν γὰρ μῆτις ἐναύξεται ἀνθρώποισιν.” καὶ ἐν ἑτέροις δὲ λέγει ὅτι “ὅσσον < δ’ > ἀλλοῖοι μετέφυν, τόσον ἄρ' σφισιν αἰεὶ | καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίστατο”. καὶ Παρμενίδης δὲ ἀποφαίνεται τὸν αὐτὸν τρόπον·[B16] 585 Generalmente, poiché pensano che la sensazione sia pensiero e che sia una alterazione, sostengono che ciò che appare secondo la sensazione di necessità sia vero. È partendo in vero da queste considerazioni che Empedocle, Democrito e, per così dire, ciascuno degli altri [naturalisti] si sono ritrovati soggetti a tali opinioni. Empedocle, infatti, afferma che, mutando la condizione, muti il pensiero: «in relazione alla situazione presente, in vero, agli uomini cresce la mente»; e altrove dice che: «per quanto mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare cose diverse». Anche Parmenide si esprime nello stesso modo: [B16]. È interessante notare come Aristotele interpreti Empedocle: Empedocle, infatti, afferma che, mutando la condizione (μεταβάλλοντας τὴν ἕξιν), muti il pensiero (μεταβάλλειν τὴν φρόνησιν), prima di citarlo (due volte), facendo corrispondere ἕξις e φρόνησις, come, a suo dire, Parmenide avrebbe fatto nei suoi versi: καὶ Παρμενίδης δὲ ἀποφαίνεται τὸν αὐτὸν τρόπον anche Parmenide si esprime nello stesso modo. In effetti i primi due versi del frammento parmenideo sono costruiti sulla connessione ὡς.... τὼς: ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχει 1 κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων, τὼς νόος ἀνθρώποισι παρίσταται2 come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra molto vaganti, 1 È questa la forma verbale prevalente nei codici: nello stabilire il testo abbiamo accolto tuttavia la lectio difficilior ἔχῃ (congiuntivo). 2 Nella versione greca del frammento abbiamo accolto la versione παρέστηκεν dei codici di Teofrasto. 586 così il pensiero si presenta agli uomini, così che la citazione, nel contesto del discorso aristotelico, suggerisce di riscontrare la correlazione precedente (ἕξιςφρόνησις): si è spinti, insomma a leggere l'espressione ἔχει κρᾶσιν μελέων come corrispettivo di ἕξις, e νόος come corrispettivo di φρόνησις. A ciò va aggiunto che la seconda citazione empedoclea: ὅσσον < δ’ > ἀλλοῖοι μετέφυν, τόσον ἄρ' σφισιν αἰεὶ καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίστατο per quanto mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare cose diverse, richiama, nella formulazione, a sua volta i primi due versi parmenidei, in particolare per l'espressione νόος ἀνθρώποισι παρίσταται, in cui il comune verbo παρίστημι è riferito in un caso a τὸ φρονεῖν nell'altro a νόος. Indubbiamente, anche evitando il commento diretto, Aristotele imponeva di fatto le coordinate di lettura di B16. Al medesimo nodo teorico, lo stesso Aristotele si richiama ancora in De Anima: Ἐπεὶ δὲ δύο διαφοραῖς ὁρίζονται μάλιστα τὴν ψυχήν, κινήσει τε τῇ κατὰ τόπον καὶ τῷ νοεῖν καὶ φρονεῖν καὶ αἰσθάνεσθαι, δοκεῖ δὲ καὶ τὸ νοεῖν καὶ τὸ φρονεῖν ὥσπερ αἰσθάνεσθαί τι εἶναι (ἐν ἀμφοτέροις γὰρ τούτοις κρίνει τι ἡ ψυχὴ καὶ γνωρίζει τῶν ὄντων), καὶ οἵ γε ἀρχαῖοι τὸ φρονεῖν καὶ τὸ αἰσθάνεσθαι ταὐτὸν εἶναί φασιν—ὥσπερ καὶ Ἐμπεδοκλῆς εἴρηκε ‘πρὸς παρεὸν γὰρ μῆτις ἀέξεται ἀνθρώποισιν’ καὶ ἐν ἄλλοις ‘ὅθεν σφίσιν αἰεὶ καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίσταται’, τὸ δ’ αὐτὸ τούτοις βούλεται καὶ τὸ Ὁμήρου ‘τοῖος γὰρ νόος ἐστίν’, πάντες γὰρ οὗτοι τὸ νοεῖν σωματικὸν ὥσπερ τὸ αἰσθάνεσθαι ὑπολαμβάνουσιν, καὶ αἰσθάνεσθαί τε καὶ φρονεῖν τῷ ὁμοίῳ τὸ ὅμοιον, ὥσπερ καὶ ἐν τοῖς κατ’ ἀρχὰς λόγοις διωρίσαμεν 587 L'anima è per lo più definita in base a due elementi: il movimento locale e il pensare, il riflettere e il sentire. Sembra che il pensare e il riflettere siano qualcosa come il sentire (in entrambi i casi, infatti, l'anima discrimina e conosce qualcosa degli enti), e del resto gli antichi sostengono che il pensare e il sentire siano la stessa cosa. Così Empedocle affermò: «in relazione alla situazione presente, in vero, agli uomini cresce la mente»; e altrove: «per quanto mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare cose diverse». La stessa cosa intende l'affermazione di Omero: «tale è infatti la mente». Tutti costoro, in effetti, sostengono che il pensare sia qualcosa di corporeo come il sentire, e che sentire e pensare siano del simile attraverso il simile, come abbiamo detto inizialmente nel nostro discorso (De Anima III, 3 427 a17-29). Benché non evocato direttamente, Parmenide rimane coinvolto doppiamente: perché l'equazione aristotelica tra «pensare» e «percepire/sentire» (τὸ φρονεῖν καὶ τὸ αἰσθάνεσθαι) è genericamente rivolta agli «antichi» (οἵ ἀρχαῖοι), analogamente alla connotazione conclusiva del pensare come «qualcosa di corporeo come il sentire» (τὸ νοεῖν σωματικὸν ὥσπερ τὸ αἰσθάνεσθαι), attribuita a «tutti costoro» (πάντες οὗτοι, cioè, ancora, «gli antichi»). Significativi il costante riferimento a Empedocle e la citazione omerica (in Metafisica IV, 5 1009 b28-30 si evocava Iliade XXIII, 698), di cui molti studiosi ritrovano eco in B16: τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε tale è il pensiero degli uomini che vivono sulla terra, quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei (Odissea XVIII, 136-7). Il testo di Omero, in effetti, intende marcare la costitutiva debolezza della comprensione umana e la sua totale dipendenza dall'operare divino. Esso riflette un punto di vista che circolava nella poesia arcaica: il νόος dell'uomo come ἀμήχανος (impotente) rispetto a quello divino. Possiamo rintracciare lo stesso motivo in 588 Archiloco (fr. 68.1-2 Diehl), Simonide (fr. 1.1-5) e Teognide (vv. 1171-4). Teofrasto Secondo Coxon3, Teofrasto avrebbe avuto chiaramente presenti l'argomento e la citazione del maestro, pur utilizzando il frammento per motivi diversi e ricavandolo da un testo indipendente: non si comprenderebbe altrimenti su quali basi B16 troverebbe collocazione all'interno di una riflessione περὶ αἰσθήσεως (De Sensu) e come potrebbe riferirsi al dibattito sull'origine della sensazione (dal simile o dai contrari), se non appunto per la precedente (incrociata) lettura aristotelica: περὶ δ’ αἰσθήσεως αἱ μὲν πολλαὶ καὶ καθόλου δόξαι δύ’ εἰσιν· οἱ μὲν γὰρ τῶι ὁμοίωι ποιοῦσιν, οἱ δὲ τῶι ἐναντίωι. Π. μὲν καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Πλάτων τῶι ὁμοίωι, οἱ δὲ περὶ Ἀναξαγόραν καὶ Ἡράκλειτον τῶι ἐναντίωι. (3) Π. μὲν γὰρ ὅλως οὐδὲν ἀφώρικεν ἀλλὰ μόνον, ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις. ἐὰν γὰρ ὑπεραίρηι τὸ θερμὸν ἢ τὸ ψυχρόν, ἄλλην γίνεσθαι τὴν διάνοιαν, βελτίω δὲ καὶ καθαρωτέραν τὴν διὰ τὸ θερμόν· οὐ μὴν ἀλλὰ καὶ ταύτην δεῖσθαί τινος συμμετρίας· ‘ὡς γὰρ ἑκάστοτε, φησίν, ἔ χ ε ι... ν ό η μ α ’ (B 16). τὸ γὰρ αἰσθάνεσθαι καὶ τὸ φρονεῖν ὡς ταὐτὸ λέγει· διὸ καὶ τὴν μνήμην καὶ τὴν λήθην ἀπὸ τούτων γίνεσθαι διὰ τῆς κράσεως· ἂν δ’ ἰσάζωσι τῆι μίξει, πότερον ἔσται φρονεῖν ἢ οὔ, καὶ τίς ἡ διάθεσις, οὐδὲν ἔτι διώρικεν. ὅτι δὲ καὶ τῶι ἐναντίωι καθ’ αὑτὸ ποιεῖ τὴν αἴσθησιν, φανερὸν ἐν οἷς φησι τὸν νεκρὸν φωτὸς μὲν καὶ θερμοῦ καὶ φωνῆς οὐκ αἰσθάνεσθαι διὰ τὴν ἔκλειψιν τοῦ πυρός, ψυχροῦ δὲ καὶ σιωπῆς καὶ τῶν ἐναντίων αἰσθάνεσθαι. καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν. οὕτω μὲν οὖν αὐτὸς ἔοικεν ἀποτέμνεσθαι τῆι φάσει τὰ συμβαίνοντα δυσχερῆ διὰ τὴν ὑπόληψιν. 3 Op. cit., p. 247. 589 Riguardo alla sensazione le opinioni più numerose e diffuse sono due: gli uni la fanno derivare dal simile, gli altri dal contrario. Parmenide, Empedocle e Platone dal simile, i seguaci di Anassagora e Eraclito dal contrario... Parmenide, in effetti, nell’insieme non ha precisato alcunché, ma solo che, essendo due gli elementi, la conoscenza si produce secondo l'elemento che prevale: qualora infatti prevalga il caldo o il freddo, il pensiero cambia [diventa altro], ma migliore e più puro è comunque quello secondo il caldo. Anche questo, tuttavia, richiede una certa proporzione. [citazione B16]. Parla del percepire e del pensare come della stessa cosa: perciò anche la memoria e l'oblio derivano da queste cose attraverso la mescolanza. Non precisa ulteriormente invece circa l'eventualità che gli elementi siano equivalenti nella mistione: se ci sarà pensiero o no, e quale la sua costituzione. Che egli faccia dipendere la percezione anche dal contrario in sé considerato [cioè dal freddo], è evidente laddove afferma che il morto non percepisce né luce, né caldo, né suono, per la perdita del fuoco, ma che percepisce freddo, silenzio e i contrari. Nel complesso sostiene che tutto l'essere abbia una qualche capacità conoscitiva. Così, dunque, egli sembra eliminare in apparenza le difficoltà che derivano dalla sua teoria. A differenza della discussione aristotelica dei presunti presupposti ontologici materialistici e del conseguente sensismo soggettivistico di marca protagorea, il contesto teofrasteo è quello di un'analisi decisamente gnoseologica. Dobbiamo tuttavia trattenerci dall'intendere il frammento in chiave di gnoseologia generale4: né Aristotele né Teofrasto utilizzano i termini parmenidei νόος e νόημα, limitandosi a correlare τὸ αἰσθάνεσθαι e τὸ φρονεῖν ovvero i derivati αἴσθησις e φρόνησις. È possibile, dunque, che nessuno dei due intendesse realmente attribuire a Parmenide la riduzione della conoscenza a percezione5, riferendosi entrambi piuttosto alla sua teoria della conoscenza del mondo sensibile. 4 Cerri, op. cit., pp. 277-8. 5 Coxon, op. cit., p. 251. 590 In ogni caso, Teofrasto introduce il riferimento a Parmenide all'interno dell'esame delle due opinioni prevalenti (secondo lo schema delle testimonianze aristoteliche che doveva già risultare condizionante6 ): la prima novità rispetto all'indicazione del maestro, infatti, interviene proprio su questo punto: περὶ δ’ αἰσθήσεως αἱ μὲν πολλαὶ καὶ καθόλου δόξαι δύ’ εἰσιν· οἱ μὲν γὰρ τῶι ὁμοίωι ποιοῦσιν, οἱ δὲ τῶι ἐναντίωι. Π. μὲν καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Πλάτων τῶι ὁμοίωι, οἱ δὲ περὶ Ἀναξαγόραν καὶ Ἡράκλειτον τῶι ἐναντίωι Riguardo alla sensazione le opinioni più numerose e diffuse sono due: gli uni la fanno derivare dal simile, gli altri dal contrario. Parmenide, Empedocle e Platone dal simile, i seguaci di Anassagora e Eraclito dal contrario. Parmenide viene classificato tra i sostenitori della derivazione della percezione dall'azione del simile sul simile, sebbene all'inizio della trattazione specifica Teofrasto segnali come: Π. μὲν γὰρ ὅλως οὐδὲν ἀφώρικεν Parmenide, in effetti, nell’insieme non ha precisato alcunché [...]. La seconda novità della testimonianza teofrastea è che, immediatamente di seguito, essa valorizza un particolare trascurato da Aristotele: ἀλλὰ μόνον, ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις [...] ma solo che, essendo due gli elementi, la conoscenza si produce secondo l'elemento che prevale. Si tratta probabilmente di un riferimento proprio alla conclusione di B16: 6 Su questo B. Cassin-M. Narcy, "Parménide sophiste. La citation aristotélicienne du fr. XVI", in Études sur Parménide, cit., vol. II, p. 281. 591 τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ νόημα ciò che prevale, infatti, è il pensiero. Dal punto di vista di Teofrasto è questa la peculiarità del contributo parmenideo in campo conoscitivo: il principio della dipendenza del pensiero dall'elemento che prevale nella mescolanza. Il terzo rilievo interessante della testimonianza è quello conclusivo: καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν Nel complesso [sostiene] anche che tutto l'essere abbia una qualche capacità conoscitiva. La convinzione espressa potrebbe discendere dai fondamenti della "fisica" parmenidea: i due costitutivi "materiali" (Fuoco e Notte) presenti in tutte le cose hanno «proprietà» (δυνάμεις) per cui funzionano anche come principi di movimento e conoscenza. Possiamo così riassumere le preziose informazioni teofrastee sulle concezioni gnoseologiche di Parmenide: (i) due sono gli elementi coinvolti nella conoscenza (γνῶσις): «il caldo» (τὸ θερμὸν) e «il freddo» (τὸ ψυχρόν); (ii) essa si produce con il prevalere di uno dei due (κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις): a seconda della preponderanza, «il pensiero cambia [diventa altro]» (ἄλλην γίνεσθαι τὴν διάνοιαν); (iii) il pensiero (διάνοια) qualitativamente migliore (βελτίω δὲ καὶ καθαρωτέραν) è «quello secondo il caldo» (τὴν διὰ τὸ θερμόν); (iv) «una certa proporzione [degli elementi]» è tuttavia sempre implicata (δεῖσθαί τινος συμμετρίας); (v) percepire e pensare sono considerati la stessa cosa (τὸ αἰσθάνεσθαι καὶ τὸ φρονεῖν ὡς ταὐτὸ); (vi) la percezione è del simile attraverso il simile (evidentemente Teofrasto ha presente una parte del poema per noi perduta): ὅτι δὲ καὶ τῶι ἐναντίωι καθ’ αὑτὸ ποιεῖ τὴν αἴσθησιν, φανερὸν ἐν οἷς φησι τὸν νεκρὸν φωτὸς μὲν καὶ θερμοῦ καὶ φωνῆς οὐκ αἰσθάνεσθαι διὰ τὴν 592 ἔκλειψιν τοῦ πυρός, ψυχροῦ δὲ καὶ σιωπῆς καὶ τῶν ἐναντίων αἰσθάνεσθαι Che egli faccia dipendere la percezione anche dal contrario in sé considerato [cioè dal freddo], è evidente laddove afferma che il morto non percepisce né luce, né caldo, né suono, per la perdita del fuoco, ma che percepisce freddo, silenzio e i contrari; (vii) tutta la realtà è dotata di capacità di conoscere (καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν): è chiaro nel contesto, dove ripetutamente si accenna ai due elementi, che Teofrasto riferisce questa asserzione agli enti sensibili, al mondo fisico. Al centro dell'esposizione della dottrina parmenidea sono comunque i punti (ii) e (iii), che giustificano la citazione di B16: Teofrasto ritrova evidentemente nel poema il rilievo esplicito dell'incidenza della κρᾶσις μελέων sulla qualità del pensiero, ma solo sotto il profilo della prevalenza di uno dei due «elementi» (στοιχεία), sottolineando invece l'assenza in Parmenide di una perspicua considerazione degli effetti dell'eventuale loro equilibrio. L'impressione è che il frammento parmenideo sia impiegato non tanto per sostenere una prospettiva rigorosamente conoscitiva (non per marcare la relazione tra il pensiero e il suo oggetto), quanto piuttosto per rimarcare la relazione psico-fisica che vi è tematizzata7. Ricostruzione dei vv. 1-2a I primi due versi del frammento sono di interpretazione relativamente più agevole rispetto agli ultimi due: nonostante le divergenze nella ricostruzione sintattica, il senso generale non cambia di molto: ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχῃ κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων, 7 M. Marcinkowska-Rosół, Die Konzeption des "Noein" bei Parmenides von Elea, De Gruyter, Berlin-New York 2010, p. 181. 593 τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν Come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra molto vaganti, così il pensiero si presenta agli uomini. Come abbiamo segnalato in nota al testo, esistono varie soluzioni per il soggetto del primo verbo (ἔχῃ) e per il suo valore (transitivo, intransitivo). Complessivamente, tuttavia, si conferma un'indicazione fondamentale: la condizione mentale degli uomini è correlata alla loro situazione fisiologica. Negli esseri umani in generale (ἀνθρώποισι), alle variazioni (ὡς ἑκάστοτ’ ἔχῃ) dell'amalgama corporea (κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων), corrisponde il manifestarsi (τὼς παρέστηκεν) del pensiero (ovvero della «mente», νόος). Come abbiamo registrato, è quanto Aristotele rendeva con la correlazione ἕξις-φρόνησις. Si tratta di una tesi di antropologia generale che trova indirettamente conferma nella tradizione dossografica: δύο τε εἶναι στοιχεῖα, πῦρ καὶ γῆν, καὶ τὸ μὲν δημιουργοῦ τάξιν ἔχειν, τὴν δὲ ὕλης. γένεσίν τε ἀνθρώπων ἐξ ἡλίου πρῶτον γενέσθαι· αὐτὸν [?] δὲ ὑπάρχειν τὸ θερμὸν καὶ τὸ ψυχρόν, ἐξ ὧν τὰ πάντα συνεστάναι. καὶ τὴν ψυχὴν καὶ τὸν νοῦν ταὐτὸν εἶναι, καθὰ μέμνηται καὶ Θεόφραστος ἐν τοῖς Φυσικοῖς, πάντων σχεδὸν ἐκτιθέμενος τὰ δόγματα. Disse che due sono gli elementi – fuoco e terra – e che l'uno ha funzione di artefice, l'altro di materia. Disse che la generazione degli uomini deriva in primo luogo dal Sole e che a quello [uomo] spettano come elementi il caldo e il freddo, da cui tutte le cose sono costituite. Disse anche che l'anima e l'intelligenza sono la stessa cosa, come ricorda anche Teofrasto nella sua Fisica, dove espone le dottrine di quasi tutti [i filosofi] (Diogene Laerzio; DK 28A1). Parmenides ex terra et igne [sc. animam esse]. Π. δὲ καὶ Ἵππασος πυρώδη. Π. ἐν ὅλωι τῶι θώρακι τὸ ἡγεμονικόν. Π. καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Δημόκριτος 594 ταὐτὸν νοῦν καὶ ψυχήν, καθ’ οὓς οὐδὲν ἂν εἴη ζῶιον ἄλογον κυρίως Parmenide dice che l'anima è costituita di terra e fuoco (Macrobio; DK 28 A45) Parmenide e Ippaso dicono che l'anima è ignea. – Parmenide dice che in tutto il petto ha sede l'egemonico. – Parmenide ed Empedocle e Democrito dicono che l'intelligenza e l'anima sono la stessa cosa; secondo loro nessun animale sarebbe completamente senza ragione (Aëtius; DK 28 A45). Parmenide avrebbe ricondotto rigorosamente ai suoi principi (Fuoco e Notte, ovvero Fuoco e Terra) la natura umana, attribuendo alla loro interazione la stessa attività percettiva e conoscitiva. In particolare, la scelta di κρᾶσις potrebbe rivelare la vicinanza di Parmenide alle scuole mediche (il termine ritorna in Alcmeone ed Empedocle, nonché in Democrito): l'idea trasmessa sarebbe quella del temperamento delle componenti in un'amalgama coesa. Nel testo, comunque, il genitivo μελέων (πολυπλάγκτων) non si riferirebbe (se non indirettamente) agli elementi, ma immediatamente alle «membra» corporee, secondo il costume omerico di designare il complesso fisico con il rinvio alle parti. L'Eleate pare dunque, in primo luogo, attento a rilevare, nella relazione psicofisica, l'interdipendenza tra disciplina delle «membra» e condizione della mente 8: in tal caso, il tradizionale motivo poetico dell'instabilità ed eteronomia9 della comprensione umana risulterebbe decisamente piegato all'esigenza di marcare non tanto una generica dipendenza del pensiero (νόος) umano dalle circostanze esterne - come nella formula omerica sopra ricordata (ed evocata anche da Aristotele in De Anima): τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε tale è il pensiero degli uomini che vivono sulla terra, 8 Su questo M. Stemich, op. cit., pp. 139-142. 9 Riprendo l'espressione da Marcinkowska-Rosół, op. cit., p. 162. 595 quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei, quanto il suo condizionamento da parte del mutevole equilibrio fisiologico corporeo10. L'attenzione di Parmenide sembrerebbe allora, in secondo luogo, tesa a marcare proprio la mutevolezza, l'instabilità della situazione psico-fisica, come rivelerebbe la scelta dell'avverbio ἑκάστοτε («ogni volta, di volta in volta») e dell'aggettivo composto πολυπλάγκτων («molto vaganti, dai molteplici movimenti, volubili»). Nel complesso, quindi, nella prospettiva antropologica adottata nei versi in esame, non v'è dubbio che sia proposta una concezione del pensare come attività (e del pensiero come prodotto: νόημα) che sopravviene (anche in questo caso la scelta espressiva è indicativa: παρέστηκεν, «si presenta») dall'esterno, dal temperamento cangiante di «membra che molto si agitano» (μελέων πολυπλάγκτων), di cui, insomma, il soggetto non sembra essere in controllo11. Ricostruzione dei vv. 2b-4 Il frammento prosegue: τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει μελέων φύσις ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί· τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ νόημα perché è precisamente la stessa cosa ciò che pensa negli uomini, la costituzione del [loro] corpo, in tutti e in ciascuno: ciò che prevale, in vero, è il pensiero. 10 Ivi, p. 176. 11 Ivi, pp. 162-3. 596 Si tratta di uno dei passaggi più controversi dell'intero poema sopravvissuto. Nella nostra ricostruzione sintattica del testo greco, la Dea, riferendosi alla propria asserzione secondo cui la qualità del pensiero dipende dal temperamento delle membra (vv. 1-2a), precisa dapprima come ciò accada in virtù del fatto che «ciò che pensa negli uomini» (ὅπερ φρονέει ἀνθρώποισιν) coincide (τὸ αὐτό ἔστιν) con «la costituzione del loro corpo» (μελέων φύσις). La soluzione interpretativa seguita nella traduzione è, nella sostanza, quella proposta originariamente da Diels (1897), che appare, rispetto all'insieme del frammento, la più equilibrata, a dispetto del limite denunciato nella tradizione critica (Fränkel, Hölscher): la costruzione richiesta, con μελέων φύσις come apposizione (con valore esplicativo12), risulta un po' artificiosa13. A questo chiarimento la Dea fa seguire una puntualizzazione: il pensiero (νόημα, qui da intendere come «contenuto di pensiero») coincide con «ciò che prevale» (τὸ πλέον). Il senso è chiarito nella testimonianza teofrastea, come abbiamo avuto modo di registrare: ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις [...] essendo due gli elementi, la conoscenza si produce secondo l'elemento che prevale. Il lessico di Teofrasto è lessico di "conoscenza" (γνῶσις); quello del frammento appare piuttosto lessico di "pensiero" (νόος, νόημα): in assenza del contesto, è la determinazione del pensiero attraverso gli equilibri fisiologici che sembra posta al centro dell'attenzione. La Dea, secondo costume (Omero, Archiloco), informa il κοῦρος, destinatario diretto della comunicazione, circa l'inevitabile condizionamento del pensiero umano: in altre parole, all'interno della complessiva illustrazione della realtà cosmica e 12 Come spiegano nel loro contributo B. Cassin e M. Narcy (p. 290). 13 Per una aggiornata disamina della discussione critica in merito alle possibili soluzioni nella traduzione si veda ora Marcinkowska-Rosół, op. cit., pp. 164 ss.. 597 dei suoi processi di formazione, ella inserisce un resoconto dei meccanismi fisiologici alla base delle attività spirituali. In realtà, la sua è una modalità didascalica per mettere in guardia la propria audience. Soprattutto se consideriamo che, a differenza di quel che accadeva nella rappresentazione omerica che teneva unite dimensione corporea e dimensione spirituale, il ricorrente impiego di νόος, νόημα, νοεῖν (B2, B3, B4, B6, B7, B8) suggerisce, nel caso di Parmenide, una consapevole distinzione delle nozioni di «corpo» (μέλεα) e «spirito/pensiero» (νόος) e la conseguente valutazione delle loro implicazioni reciproche. Il κοῦρος è stato invitato a: (i) sottrarsi al giogo della assuefazione empirica: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua (B7.3-5a), (ii) tenersi lontano dalla strada per lo più battuta dai «mortali»: una strada che disorienta, ottundendo i loro sensi e la loro comprensione della realtà: ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται >, δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον· οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα da quella [via di ricerca] che appunto mortali che nulla sanno, uomini a due teste: impotenza davvero nei loro petti guida la mente errante. Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi, sgomenti, schiere scriteriate (B6.4-5a), 598 (iii) imparare attivamente, giudicando criticamente la comunicazione della Dea: κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον Giudica invece con il ragionamento la prova polemica (B7.5b), (iv) riflettere sulla specifica capacità di attualizzazione del pensiero: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti (B4.1), (v) e sulla effettiva natura del suo oggetto: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere (B3). In B16, infine, la Dea esplicitamente ricorda come il prodursi del pensiero sia da inquadrare all'interno di un'ineludibile cornice psico-fisica: averne cognizione e coscienza comporta, in prospettiva, potersene avvantaggiare, garantendo al pensiero le condizioni ideali14. Potrebbe allora non essere casuale la relazione lessicale tra «mente errante» (πλακτὸν νόον, B6.5b-6a): ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον impotenza davvero nei loro petti guida la mente errante, e «membra molto vaganti» (μελέων πολυπλάγκτων, B16): ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχῃ κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων, τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra molto vaganti, 14 Così la Stemich, op. cit., pp. 164-5. 599 così il pensiero si presenta agli uomini. Forse proprio il disordine e l'agitazione del corpo, espressi da πολυπλάγκτα μέλεα, possono spiegare la confusione che domina il pensiero dei «mortali». Per converso, possiamo ipotizzare che ai «segni» di stabilità e compattezza del νόημα ἀμφὶς ἀληθείης (B8) dovesse corrispondere il miglior temperamento degli elementi corporei: nella testimonianza teofrastea «il pensiero secondo il caldo» (διάνοια διὰ τὸ θερμόν). Forse l'illustrazione dei meccanismi fisiologici condizionanti aveva (direttamente o indirettamente) la specifica funzione di guidare il kouros a una loro corretta gestione: difficile, infatti, immaginare che il νόημα ἀμφὶς ἀληθείης potesse essere affidato a un accidentale equilibrio psico-fisico, su cui il destinatario non avesse opportunità di controllo15. Queste supposizioni assumono maggiore consistenza se accettiamo i riscontri giunti dalla ricerca archeologica16, i quali, dopo i ritrovamenti dell'ultimo mezzo secolo, fanno intravedere la possibilità che la «scuola eleatica» fosse qualcosa di molto diverso da un «cenacolo di filosofi razionalisti»17: probabilmente un sodalizio consacrato ad Apollo Οὔλιος (guaritore, risanatore), dunque una scuola di medicina, istituita forse dallo stesso Parmenide, il quale è evocato in un’iscrizione recuperata a Velia (l'odierno sito dell'antica Elea) come Πα[ρ]μενείδης Πύρητος Οὐλιάδης φυσικός (Parmenide, figlio di Pyres, medico di Apollo Guaritore). Altre iscrizioni recuperate nello stesso luogo confermano l'esistenza di una tradizione locale di guaritori - apostrofati come Οὖλις ἰατρός φώλαρχος, letteralmente «risanatore medico signore della caverna» -, che onoravano un Οὐλιάδης ἰατρόμαντις, un medico- 15 A meno di non interpretare il discorso della Doxa, come si è fatto tradizionalmente, come una messa in guardia nei confronti di una elaborazione segnata strutturalmente dall'illusione e dall'inganno: abbiamo visto, però, che ci sono motivi per credere che non fosse questa l'intenzione del pensatore di Elea. 16 In precedenza richiamati nel commento al proemio. 17 Passa, op. cit., p. 17. 600 indovino sacerdote di Apollo, da identificare probabilmente con lo stesso Parmenide18. È possibile, dunque, che egli praticasse un'arte che si collocava tra medicina e mantica vera e propria, ricorrendo al φωλεύειν, cioè a una sorta di "incubazione", analoga alla letargia invernale dell'animale nella tana (φωλεός). Non dovrebbe allora sorprendere il rilievo circa la relazione psico-fisica all'interno della esposizione della Doxa. Il medico-indovino, in effetti, diagnosticava il male in uno stato di trance, decifrando segni e ricavandone indicazioni terapeutiche idonee19. Nel caso dell'«incubazione», l'esperienza avveniva, dopo una adeguata preparazione cultuale, rimanendo immobili in assoluto silenzio, in un luogo consacrato, inaccessibile ai profani: il sonno avrebbe portato con sé il manifestarsi del dio in sogni e visioni, che lo iatromantis poteva interpretare. Parmenide potrebbe aver suggerito al kouros una trasformazione della condizione psicofisica, così da garantire, attraverso il suo controllo, la perfetta amalgama dei dati percettivi, la loro omogenea fusione nel pensare corretto. 18 Per queste notizie Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, cit., pp. 55 ss.; Gemelli-Marciano, Die Vorsokratiker, cit., II, pp. 42 ss.; Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 141 ss.. 19 Kingsley, op. cit., pp. 120-7. 601 MASCHI E FEMMINE [B17 E B18] I due frammenti (B18 può essere solo impropriamente definito tale) trattano della differenziazione dei sessi (B17) e della trasmissione dei caratteri sessuali (somatici e psichici), delineando un abbozzo di spiegazione embriogenetica. Non a caso sono il risultato di citazioni scientifiche: a Galeno dobbiamo quella di B17, che doveva corroborare la sua opinione circa l'originaria formazione del feto maschile: τὸ μέντοι ἄρρεν ἐν τῶι δεξιῶι μέρει τῆς μήτρας κυΐσκεσθαι καὶ ἄλλοι τῶν παλαιοτάτων ἀνδρῶν εἰρήκασιν. ὁ μὲν γὰρ Π. οὕτως ἔφη Molti altri tra gli antichi affermarono che il maschio sia concepito nella parte destra dell'utero. Parmenide in effetti dice [B17]. Proprio l'intenzione di confermare le proprie convinzioni biologiche e l'assenza di indicazioni che attestino il rimando diretto al poema hanno fatto avanzare dubbi sull'attendibilità di quella che rimane comunque una "scheggia" testuale1. A Celio Aureliano (V secolo?), traduttore di opere della tradizione medica greca - in particolare, nel caso specifico, delle due parti del monumentale Περὶ ὀξέων καὶ χρονίων παθῶν (Sulle malattie acute e croniche) di Sorano di Efeso (I-II secolo) - dobbiamo invece la parafrasi in versi che Diels-Kranz hanno classificato come B18. La citazione è proposta nel seguente contesto: Parmenides libris quos d e n a t u r a scripsit, eventu inquit conceptionis molles aliquando seu subactos homines generari. cuius quia graecum est epigramma, et hoc versibus intimabo. latinos enim ut potui simili modo composui, ne linguarum ratio misceretur. ‘femina... sexum ’. Parmenide, nei libri Sulla natura, afferma che, secondo le modalità di concezione, si generano talvolta 1 Conche, op. cit., p. 258. 602 uomini molli e sottomessi. Dal momento che il suo testo greco è in versi, lo proporrò io pure in versi: ho composto, infatti, versi latini di tenore analogo, per quanto mi è stato possibile, per non confondere il carattere specifico delle due lingue. [B18] [...]. Celio Aureliano mette dunque sull'avviso: la sua non è citazione letterale, ma traduzione-rielaborazione2, sebbene, come ha osservato Coxon3, la facilità con cui si possono volgere in greco i suoi versi latini attesta la loro fedeltà al greco (come segnalato dalla precisazione: «ut potui simili modi»). Per mettere a fuoco il nodo cui i passaggi del poema evocati dalle citazioni si riferivano, sono essenziali le testimonianze di Aëtius e Censorino: Ἀναξαγόρας, Π. τὰ μὲν ἐκ τῶν δεξιῶν [sc. Σπέρματα] καταβάλλεσθαι εἰς τὰ δεξιὰ μέρη τῆς μήτρας, τὰ δ’ ἐκ τῶν ἀριστερῶν εἰς τὰ ἀριστερά. εἰ δ’ ἐναλλαγείη τὰ τῆς καταβολῆς, γίνεσθαι θήλεα igitur semen unde exeat inter sapientiae professores non constat. P. enim tum ex dextris tum e laevis partibus oriri putavit Anassagora e Parmenide sostengono che i semi della parte destra sono gettati nella parte destra dell'utero, quelli della sinistra nella parte sinistra. Se la fecondazione è invertita, si generano femmine. Tra i cultori della sapienza non vi è certezza circa la provenienza del seme [lett.: da dove esca il seme]. Parmenide, infatti, credeva che provenisse ora dalla parte destra, ora dalla parte sinistra (28 DK A53). Evidentemente Parmenide prendeva posizione nel confronto scientifico circa natura e meccanismi del concepimento, e loro effetti sul sesso dell'embrione. In particolare, la testimonianza di Aëtius interviene a integrare e correggere l'indicazione di Galeno. Questi richiama Parmenide come uno dei primi sostenitori della 2 Cerri, op. cit., p. 285. 3 Op. cit., p. 253 603 tesi secondo cui il maschio sarebbe concepito nel lato destro dell'utero: tesi attribuita da Aristotele (De generatione animalium IV, 1 763 b30 ss.) ad Anassagora e «altri fisiologi» (ἕτεροι τῶν φυσιολόγων): φασὶ γὰρ οἱ μὲν ἐν τοῖς σπέρμασιν εἶναι ταύτην τὴν ἐναντίωσιν εὐθύς, οἷον Ἀναξαγόρας καὶ ἕτεροι τῶν φυσιολόγων· γίγνεσθαί τε γὰρ ἐκ τοῦ ἄρρενος τὸ σπέρμα, τὸ δὲ θῆλυ παρέχειν τὸν τόπον, καὶ εἶναι τὸ μὲν ἄρρεν ἐκ τῶν δεξιῶν τὸ δὲ θῆλυ ἐκ τῶν ἀριστερῶν, καὶ τῆς ὑστέρας τὰ μὲν ἄρρενα ἐν τοῖς δεξιοῖς εἶναι τὰ δὲ θήλεα ἐν τοῖς ἀριστεροῖς Alcuni sostengono che tale opposizione si trovi già in origine nei semi, come Anassagora e altri fisiologi. Il seme, infatti, origina dal maschio, la femmina invece fornisce il luogo; e il maschio viene da destra, la femmina da sinistra, e i maschi si formano nelle parti destre dell'utero, le femmine nelle parti sinistre, e associata a quella secondo cui il carattere sessuale preesiste nel seme (fornito esclusivamente dal genitore maschio) al concepimento: il seme che trasmette carattere maschile proviene dalla parte destra, quello che trasmette carattere femminile dalla sinistra. Integrando Galeno, si può fondatamente avanzare l'ipotesi che Parmenide facesse derivare i maschi e le femmine rispettivamente dalla parte destra e dalla parte sinistra dei genitali maschili e femminili. La versione latina di Celio Aureliano aiuta in particolare a chiarire la posizione di Parmenide circa il contributo al concepimento: Femina virque simul Veneris cum germina miscent, Venis informans diverso ex sanguine virtus Temperiem servans bene condita corpora fingit. Quando femmina e maschio mescolano insieme i semi di Venere, la potenza formatrice nelle vene, che [deriva] da sangue opposto, 604 conservando la giusta misura plasma corpi ben fatti (B18.1-3). Il testo (di tenore parmenideo4 ) offre, in effetti, alcune informazioni importanti: (i) i semi originano dal sangue (maschile e femminile); (ii) esistono quindi due tipologie di semi, rispettivamente maschile e femminile: essi sono opposti come il sangue da cui provengono5 («da sangue opposto», diverso ex sanguine); (iii) i due semi, maschile e femminile, cooperano nella riproduzione. Incrociando queste informazioni con i riferimenti delle testimonianze e dei contesti delle citazioni, possiamo così ricostruire la probabile posizione parmenidea sulla relazione genetica dei figli ai genitori6: entrambi i semi delle parti (genitali) destre generano maschi simili ai padri; entrambi i semi delle parti sinistre generano femmine simili alle madri; negli altri due casi (semi delle parti sinistra e destra, maschile e femminile), maschi simili alle madri o femmine simili ai padri. Parmenide probabilmente riteneva che dalla corretta mescolanza di seme maschile e seme femminile dovesse scaturire un'equilibrata costituzione psico-fisica: le due tipologie di seme, infatti, conferivano specifiche proprietà (virtutes, δυνάμεις), che, mescolandosi i semi, erano destinate a combinarsi in un'unica potenza formatrice (informans virtus). È quanto si ricava dal rilievo in negativo che chiude B18: Nam si virtutes permixto semine pugnent Nec faciant unam permixto in corpore, dirae Nascentem gemino vexabunt semine sexum. Se, infatti, una volta mescolato il seme, le forze confliggono e non diventano un'unica potenza nel corpo prodotto dalla mescolanza, malefiche 4 Conche, op. cit., p. 262. 5 Ibidem. 6 Coxon, op. cit., p. 253. 605 affliggeranno il sesso nascente con il [loro] duplice seme (B18.4-6), e dal commento di Celio Aureliano alla sua citazione: vult enim seminum praeter materias esse virtutes, quae si se ita miscuerint, ut eiusdem corporis faciant unam, congruam sexui generent voluntatem; si autem permixto semine corporeo virtutes separatae permanserint, utriusque veneris natos adpetentia sequatur Pretende infatti che i semi abbiano, oltre a materia, anche virtù formatrici (virtutes), le quali se si mescolano così da produrre dello stesso corpo una sola virtù, generano carattere (voluntatem) conforme al sesso; nel caso in cui, invece, una volta mescolato il seme corporeo, le virtù siano rimaste separate, deriva ai nati desiderio di entrambi i tipi di amore. Se la misura nella opposizione dei semi fosse stata rispettata (temperiem servans) nella loro mescolanza (permixto semine), si sarebbe realizzata complementarità nelle loro proprietà, garantendo così un'unione equilibrata e armoniosa (unam permixto in corpore). In caso contrario la disarmonia si sarebbe instaurata nei corpi, producendo disagio sessuale e psichico7: lo sviluppo coerente della personalità sessuale (congruam sexui voluntatem) era funzione dell'armonia dei contrari nella costituzione dell'essere umano. Le presunte tesi biologiche di Parmenide presentano certamente affinità con quanto attestato del pensiero del contemporaneo Alcmeone, nella tradizione dossografica proposto come «discepolo di Pitagora» (Diogene Laerzio; 24 DK A1). Nel frammento B4 del suo Περὶ φύσεως leggiamo infatti: Ἀ. τῆς μὲν ὑγιείας εἶναι συνεκτικὴν τὴν ἰ σονομίαν τῶν δυνάμεων, ὑγροῦ, ξηροῦ, ψυχροῦ, θερμοῦ, πικροῦ, γλυκέος καὶ τῶν λοιπῶν, τὴν δ’ ἐν αὐτοῖς μοναρχίαν νόσου ποιητικήν· φθοροποιὸν γὰρ 7 Ivi, p. 254. 606 ἑκατέρου μοναρχίαν. [...]. τὴν δὲ ὑγείαν τὴν σύμμετρον τῶν ποιῶν κρᾶσιν Ciò che mantiene la salute, afferma Alcmeone, è l'equilibrio di forze: umido, secco, freddo caldo, amaro, dolce e così via; la supremazia di una di esse, invece, è foriera di malattia: micidiale è, in effetti, il predominio di ognuno degli opposti. [...] La salute, invece, è mescolanza misurata delle qualità. Sono evidenti le consonanze lessicali (δυνάμεις, κρᾶσις) ed è probabile l'accordo sulla tesi fondamentale di Alcmeone: che la salute del corpo sia funzione della isonomia degli elementi contrari, e la malattia espressione di uno squilibrio. Le testimonianze accentuano le convergenze anche nello specifico: ex quo parente seminis amplius fuit, eius sexum repraesentari dixit A. Alcmeone afferma che il feto ha il sesso di quello, tra i genitori, il cui seme è stato più abbondante» (Censorino; DK 24 A14). Alcmeone condivideva con Parmenide la convinzione che entrambi i genitori contribuissero con semina (σπέρματα) al concepimento, pur avendo sull'origine dello sperma un'opinione diversa: Ἀ. ἐγκεφάλου μέρος (sc. εἶναι τὸ σπέρμα) Alcmeone sosteneva che [il seme fosse] parte del cervello (Aëtius; DK 24 A13). Mentre Coxon8 nota in questo senso come Parmenide seguisse Alcmeone, Ruggiu9 tende a rovesciare la relazione, convinto che nello specifico l'influenza sia stata esercitata da Parmenide su Alcmeone. La questione è in effetti complessa. È probabile che Alcmeone ricavasse le proprie opposizioni (umido-secco, freddo-caldo, amaro-dolce ecc.) dalla più antica 8 Op. cit., p. 252. 9 Op. cit., p. 366. 607 tradizione ionica, la stessa che dovette ispirare le tavole pitagoriche, ma anche il modello parmenideo: l'orizzonte fisico appare ancora quello delle origini e non va dimenticato che le osservazioni biologiche di Parmenide sono inquadrate all'interno di una complessiva interpretazione del mondo naturale in chiave oppositiva (Fuoco-Notte). Il primo riferimento all'unione sessuale e alla riproduzione che abbiamo registrato nell'analisi dei frammenti (B12) le introduceva direttamente in chiave cosmica: ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ. in mezzo a queste la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6). È possibile, come abbiamo in precedenza argomentato, che Parmenide abbia effettivamente elaborato il proprio sistema (διάκοσμος) misurandosi con le proposte pitagoriche proprio sul terreno decisivo della cosmogonia e cosmologia; probabile che ciò sia avvenuto comunque tenendo ben presenti le soluzioni ioniche. Dal momento che le testimonianze, soprattutto i recenti rilievi archeologici, fanno supporre uno specifico interesse medico, non deve sorprendere la possibilità che un confronto sia intervenuto anche in ambito biologico. Il tema dell'opposizionericomposizione degli elementi risulta per altro ricorrente: come sottolineava Maria Timpanaro Cardini a proposito di Alcmeone: come alla fisica ionica si ricollegava probabilmente la primitiva dualità pitagorica ἄπειρον-πέρας [...], così da quella stessa fisica trasse verosimilmente Alcmeone 608 alcune opposizioni [...] le cui potenze egli constatava nella pratica della medicina10. Su questo sfondo piuttosto sfumato è possibile parlare di comuni obiettivi scientifici nella ricerca di Parmenide e Alcmeone, di convergenze nei risultati, sulla scorta di paradigmi esplicativi condivisi, forse anche pitagorici. A Crotone una fiorente scuola medica preesisteva all'arrivo di Pitagora, a testimoniare l'autonomia dell'indagine e della pratica medica, sebbene poi esse siano documentate anche nell'ambito della tradizione pitagorica antica, a conferma che la medicina fu avvertita come μάθημα essenziale11. 10 M. Timpanaro Cardini, Pitagorici antichi. Testimonianze e frammenti, Bompiani, Milano 2010 (edizione originale 1958-1964), pp. 134-5. 11 Ivi, p. 133. 609 B19 Il frammento B19 ci è conservato esclusivamente da Simplicio (In Aristotelis de caelo 558), in un contesto particolare (557-8), in cui si susseguono in poche righe tre citazioni del poema parmenideo (B1.28-32, B8.50-53 e appunto B19): οἱ δὲ ἄνδρες ἐκεῖνοι διττὴν ὑπόστασιν ὑπετίθεντο, τὴν μὲν τοῦ ὄντως ὄντος τοῦ νοητοῦ, τὴν δὲ τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ, ὅπερ οὐκ ἠξίουν καλεῖν ὂν ἁπλῶς, ἀλλὰ δοκοῦν ὄν· διὸ περὶ τὸ ὂν ἀλήθειαν εἶναί φησι, περὶ δὲ τὸ γινόμενον δόξαν. λέγει γοῦν ὁ Παρμενίδης [B1.28-32]. ἀλλὰ καὶ συμπληρώσας τὸν περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγον καὶ μέλλων περὶ τῶν αἰσθητῶν διδάσκειν ἐπήγαγεν [B8.50-53]. παραδοὺς δὲ τὴν τῶν αἰσθητῶν διακόσμησιν ἐπήγαγε πάλιν [B19]. πῶς οὖν τὰ αἰσθητὰ μόνον εἶναι Παρμενίδης ὑπελάμβανεν ὁ περὶ τοῦ νοητοῦ τοιαῦτα φιλοσοφήσας, ἅπερ νῦν περιττόν ἐστι παραγράφειν; πῶς δὲ τὰ τοῖς νοητοῖς ἐφαρμόζοντα μετήνεγκεν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ χωρὶς μὲν τὴν ἕνωσιν τοῦ νοητοῦ καὶ ὄντως ὄντος παραδούς, χωρὶς δὲ τὴν τῶν αἰσθητῶν διακόσμησιν ἐναργῶς καὶ μηδὲ ἀξιῶν τῷ τοῦ ὄντος ὀνόματι τὸ αἰσθητὸν καλεῖν; Quegli uomini [Parmenide, Melisso] posero una duplice ipostasi: quella dell'essere che è veramente, dell'intelligibile, e quella dell'essere che diviene, del sensibile, il quale essi non ritennero opportuno chiamare essere in senso assoluto, ma essere che appare. Per questo afferma[no] che la verità riguarda l'essere, l'opinione il divenire. Parmenide, infatti, dice: [B1.28-32]. Ma anche una volta completato il ragionamento intorno all'essere che è veramente, e sul punto di introdurre [la trattazione sul]l'ordinamento delle cose sensibili, aggiunse: [B8.50- 53]. Dopo aver fornito esposizione sistematica delle cose sensibili, aggiunse ancora: [B19]. Ma come ha potuto Parmenide supporre esistessero solo le cose sensibili, lui che intorno alle cose intelligibili era stato in grado di condurre riflessioni di tale consistenza e mole da non 610 poter ora essere riportate qui? Come ha potuto trasferire le caratteristiche proprie delle cose intelligibili alle cose sensibili, lui che con chiarezza distingue tra l'unità dell'intelligibile e del vero essere e l'ordinamento delle cose sensibili e non ritiene opportuno indicare il sensibile con il nome di essere? Riflettendo sulle indicazioni qui fornite da Simplicio, e incrociandole con le sue stesse citazioni, dovremmo concludere che: (i) il poema si articolava in due sezioni principali, per le quali il commentatore trova conferma in B1.28b-32; (ii) il passaggio tra le due sezioni avviene ai vv. B8.50-53; (iii) il nostro B19 era apposto a compimento di quella che il commentatore designa come διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν (sulla scorta del διάκοσμος di B8.60): ciò non autorizza tuttavia la deduzione che esso chiudesse il poema1. Ancora sulla doxa parmenidea Il contesto ci fornisce dunque una prospettiva d'insieme - ovviamente quella culturalmente e teoreticamente condizionata dell'intellettuale neoplatonico del VI secolo - sulla struttura del poema. Il proemio, in effetti, avrebbe, secondo Simplicio, delineato nel programma espositivo della Dea (B1.28-32) due ambiti: (i) il primo dedicato al «discorso/ragionamento sul vero essere» (περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγος), in altre parole alla «verità riguardo all'essere» (περὶ τὸ ὂν ἀλήθεια): nel lessico della tradizione platonico-aristotelica si tratta dell'ambito dell'«intelligibile» (τὸ νοητόν), che costituisce l'«essere in senso assoluto» (ὂν ἁπλῶς); (ii) l'altro, relativo all'illustrazione sistematica dell'«ordinamento sensibile» (διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν, ma anche περὶ τῶν αἰσθητῶν διδάσκειν), si riferisce all'«essere in divenire» (τὸ γινόμενον), il cui statuto ontologico è quello di «essere che 1 Non tutti concordano su questo punto: Conche (op. cit., p. 265), per esempio, non concede che il frammento – naturale conclusione della cosmologia del poema – ne costituisse anche la vera e propria chiusa. 611 appare» (δοκοῦν ὄν): Simplicio insiste sulla sua natura «sensibile» (τὸ αἰσθητόν), dunque sul suo manifestarsi nell'esperienza. La trattazione specifica è designata – in contrapposizione alla verità che concerne l'essere in senso pieno - come «opinione riguardo all'essere in divenire» (περὶ τὸ γινόμενον δόξα). È chiara, nel contesto del discorso, l'interpretazione di Simplicio dei versi conclusivi (28b-32) del proemio: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα. La struttura effettiva del poema doveva, dopo l'introduzione, prevedere: (i) la rivelazione circa «di Verità ben rotonda il cuore saldo » (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ): si tratta di ciò cui allude Simplicio con περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγος; (ii) la ricostruzione effettiva (δοκίμως) di τὰ δοκοῦντα, delle «cose che appaiono», ovvero delle «cose accettate nelle opinioni», che corrispondono a quanto il commentatore designa come δοκοῦν ὄν: la rivelazione della Dea avrebbe dunque investito anche l'ambito «sensibile», proponendo appunto una διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν. Il contesto delle citazioni fa intravedere come, per Simplicio, l'articolazione del Περὶ φύσεως fosse essenzialmente positiva, non prevedendo una specifica sezione riservata all'esame degli errori umani – alle «opinioni dei mortali, in cui non è reale credibilità» (βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής) -, che doveva invece essere distribuito nelle altre due. Negli interrogativi retorici che seguono la citazione di B19, troviamo conferma di una linea di lettura del poema che, all'interno della tradizione platonica, ha per noi un importante precedente in Plutarco: ὁ δ’ ἀναιρεῖ μὲν οὐδετέραν φύσιν, ἑκατέρᾳ δ’ ἀποδιδοὺς τὸ προσῆκον εἰς μὲν τὴν τοῦ ἑνὸς καὶ ὄντος 612 ἰδέαν τίθεται τὸ νοητόν, ὂν μὲν ὡς ἀίδιον καὶ ἄφθαρτον ἓν δ’ ὁμοιότητι πρὸς αὑτὸ καὶ τῷ μὴ δέχεσθαι διαφορὰν προσαγορεύσας, εἰς δὲ τὴν ἄτακτον καὶ φερομένην τὸ αἰσθητόν. ὧν καὶ κριτήριον ἰδεῖν ἔστιν, ‘ἠμὲν Ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεκ< ὲς ἦτορ >’, τοῦ νοητοῦ καὶ κατὰ ταὐτὰ ἔχοντος ὡσαύτως ἁπτόμενον, ‘ἠδὲ βροτῶν δόξας αἷς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής’ διὰ τὸ παντοδαπὰς μεταβολὰς καὶ πάθη καὶ ἀνομοιότητας δεχομένοις ὁμιλεῖν πράγμασι. καίτοι πῶς ἂν ἀπέλιπεν αἴσθησιν καὶ δόξαν, αἰσθητὸν μὴ ἀπολιπὼν μηδὲ δοξαστόν; οὐκ ἔστιν εἰπεῖν. [Parmenide] non elimina alcuna delle due nature, ma a ognuna conferendo ciò che le è proprio, pone l'intelligibile nella classe dell'uno e dell'essere, definendolo «essere» in quanto eterno e incorruttibile, e ancora uno per uguaglianza a se stesso e per non accogliere differenza; il sensibile invece in quella di ciò che è disordinato e in mutamento. Il criterio di ciò è possibile vedere: «il cuore preciso della Verità ben convincente», che raggiunge l'intelligibile e quanto è sempre nelle medesime condizioni, e «le opinioni dei mortali in cui non è vera certezza», perché esse sono congiunte con cose che accolgono ogni forma di mutamento, di affezioni e disuguaglianze. Come avrebbe potuto allora conservare sensazioni e opinione, non conservando il sensibile e l'opinabile? Non è possibile sostenerlo (Plutarco, Adversus Colotem 1114 d-e), e nella dossografia peripatetica (Teofrasto): Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης ἐπ’ ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν. 613 Parmenide figlio di Pyres, da Elea […] percorse entrambe le strade. Mostra, infatti, che il tutto è eterno, e cerca anche di spiegare la generazione delle cose che sono, non avendo sulle due vie le stesse convinzioni: piuttosto, secondo verità egli sostiene che il tutto è uno e ingenerato e di aspetto sferico; secondo l’opinione dei molti, invece, al fine di spiegare la generazione delle cose che appaiono, pone due principi, fuoco e terra, l'uno come materia, l'altro invece come causa e agente (DK 28 A7). Ma chiaramente all'origine di questa valutazione delle prospettive (in termini di contenuto e struttura) del poema parmenideo troviamo l'analisi aristotelica: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...] ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1). Possiamo leggere il passo aristotelico proprio come un tentativo di sottrarsi agli schemi della originaria ricezione sofistica (giorgiana in particolare) del pensiero eleatico: Aristotele intende marcare, nello specifico, l'opzione teorica di Parmenide da quella di Melisso, il monismo «rispetto alla definizione (ovvero ragio- 614 ne)» (κατὰ τὸν λόγον) dell'uno, da quello «rispetto alla materia» (κατὰ τὴν ὕλην) dell'altro. Anticipando l'argomento di fondo della polemica plutarchea contro l'epicureo Colote, lo Stagirita poteva sottolineare come «ciò che è» (τὸ ὄν) è «uno» (ἓν) «secondo ragione» (appunto κατὰ τὸν λόγον), «molteplice» (πλείω) «secondo la sensazione» (κατὰ τὴν αἴσθησιν). Si evitava in questo modo di fare di Parmenide il sostenitore di un mero «uno-tutto» ovvero «essere-uno» (ἓν τὸ πᾶν, ἓν τὸ ὄν) - formule cui era stata ridotta l'essenza della filosofia eleatica soprattutto in alcuni dialoghi della maturità di Platone (Teeteto, Parmenide, Sofista, Timeo) 2 – che avrebbero ridotto il mondo molteplice e cangiante dell'esperienza a pura illusione. Come rivela il caso di Colote (e la risposta di Plutarco), si trattava effettivamente di una ricezione diffusa, probabilmente proprio sulla scorta dello schema gorgiano del Περὶ τοῦ μὴὄντος ἢ Περὶ φύσεως. Ripercorrendo le testimonianze e valutando gli interrogativi retorici che Simplicio faceva seguire alla propria citazione di B19 e dunque al riferimento al complesso della doxa parmenidea, appare giustificata una lettura "costruttiva" della seconda sezione del poema. In Teofrasto e Simplicio – che certamente disponevano di copie diverse del poema, trasmesse da tradizioni testuali almeno parzialmente alternative 3 - si conferma, in particolare, la prospettiva aristotelica di un doppio resoconto della stessa realtà4: secondo ragione e secondo esperienza. Parmenide, in altre parole, pur avendo coerentemente messo a fuoco i caratteri dell'oggetto dell'intelligenza – e quindi correttamente distinto tra i due ambiti (τὴν μὲν τοῦ ὄντως ὄντος τοῦ νοητοῦ, τὴν δὲ τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ) -, avrebbe poi mancato di individuarne la specifica realtà intelligibile: come sottolinea Simplicio, egli di fatto «proiettò sugli enti sensibili quanto adeguato agli enti intelligibili» (τὰ τοῖς νοητοῖς ἐφαρμόζοντα μετήνεγκεν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ). 2 Su questo in particolare Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, cit., p. 23. 3 Ivi, pp. 25 ss.. 4 Per questa linea interpretativa si veda J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 32 ss., in particolare pp. 38-41. 615 B19 e la doxa I tre versi del nostro frammento, poco più di una scheggia testuale, ribadiscono sinteticamente i termini della discussione: come abbiamo indicato in nota, la formula οὕτω τοι introduce effettivamente la ricapitolazione del discorso sulle cose «fisiche» considerate nel loro insieme (e ne traggono, in questo senso, la lezione «metafisica»5 ): οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ Ecco, in questo modo, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, in seguito sviluppatesi, avranno fine. A queste cose, invece, un nome gli uomini imposero, distintivo per ciascuna. Il punto di vista adottato - κατὰ δόξαν – giustifica l'insistenza sulla dimensione temporale delle forme verbali impiegate: ἔφυ, νυν ἔασι, τελευτήσουσι τραφέντα. Non è difficile intravedere la corrispondente prospettiva del νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης, espressa in B8.5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν. Il rilievo del divenire passa, in vero, attraverso scelte espressive ben ponderate: a) il passato espresso con ἔφυ richiama etimologicamente (φύω) la centralità della φύσις (B10) nella ricerca condotta (διάκοσμος) nella seconda sezione del poema; b) il presente connotato avverbialmente (νυν) limpidamente evoca, per contrasto, il νῦν di B8.5, caricandosi, rispetto all'immutabile stabilità di quel contesto, di un senso di precarietà e sfuggente puntualità; c) lo sviluppo, il mutamento e la caducità sono resi come τελευτήσουσι τραφέντα, marcando, insomma, il nesso tra fine e compimento, con la ripresa di una forma verbale – τελευτάω - de- 5 Conche, op. cit., p. 265. 616 rivata da τέλος e τελέω, ma, nuovamente, con un valore diverso rispetto a quello di analoghi derivati in B8 (B8.4: ἀτέλεστον; B8.32: οὐκ ἀτελεύτητον; B8.42: τετελεσμένον): il senso è qui quello di «concludersi in quanto giunto al proprio fine e al proprio compimento»6. Per la terza volta, dopo B8.38b-41 e B8.53, i versi del poema insistono sullo spessore linguistico della doxa: e ancora, come nei due precedenti, essenzialmente per rilevarne gli effetti distorcenti. L'origine dell'erranza umana, dello sviamento che gli uomini perpetrano e perpetuano nel linguaggio, risiede nell'ordinamento dei contenuti fenomenici all'interno di una determinata cornice linguistica, in cui appare implicita la possibilità di qualcosa di diverso dall'essere stesso7. Non a caso l'interpretazione κατὰ δόξαν parmenidea si era aperta stabilendo principi (B9) di cui esplicitamente si escludeva la partecipazione al nulla. In questo senso, Ruggiu8 ha colto nel linguaggio di Parmenide - in particolare in questo passaggio - il tentativo di elaborare un lessico più vicino alla verità delle cose; come in B4, dove l'apparire era stato proposto non nei termini ontologici dell'«essere» e del «non-essere», ma in quelli della «presenza» e dell'«assenza». Un sforzo che ancora ci riporterebbe ad Aristotele, che ne avrebbe colto alcuni aspetti nella sua polemica antieleatica: ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. Ruggiu. Coloro che per primi hanno ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti, dall'inesperienza furono spinti su una via diversa: essi sostengono che delle cose che sono nessuna si generi o si distrugga, poiché ciò che si genera origina o da ciò che è o da ciò che non è; ma è impossibile da entrambi i punti di vista. Ciò che è, infatti, non si genera (dal momento che è già); né da ciò che non è è possibile si generi alcunché: è richiesto in effetti qualcosa che funga da sostrato [soggiacia]. Così si spinsero, aggravando le cose, ad affermare che non esistano i molti ma che esista solo l'essere (Fisica I, 8 191 a25 ss.).  Verb fīō (present infinitive fierī, perfect active factus sum); third conjugation, semi-deponent  (passive form of) faciō (copulative) I become, am made Vōs ōrāmus ut discipulī ācerrimī fīātis. We are begging you so that you may becomevery keen students I happen, take place, result, arise – quotations, synonyms. Synonyms: interveniō, ēveniō, expetō, obtingō, incurrō, accēdō, incidō, accidō, contingō ut fit ― as happens usually/as is customary fit ut ― it happens that Titus Livius, Ab Urbe Condita I, 13: silentium et repentina  fit quies A stillness and a sudden hush took place I appear quotations: Titus Livius, Ab Urbe Condita I, 10: fit obvius cum exercitu Romulus Romulus appeared with his army Conjugation Edit While it does have a fourth conjugation pattern when conjugated, this verb has an irregular infinitive (fierī), and is therefore third conjugation. Conjugation of fīō (third conjugation iō-variant, irregular long ī, suppletive in the supine stem, semi-deponent) indicative singular plural first second third first secondthird activepresent  fīō fīs fit fīmus fītis fīunt imperfect fīēbam fīēbās fīēbat fīēbāmus fīēbātis fīēbant future  fīam fīēs fīet fīēmus fīētis fīent perfect factus + present active indicative of sum pluperfect factus + imperfect active indicative of sum future perfect factus + future active indicative of sum subjunctive singular plural first second thirdfirstsecondthird active present fīam fīās fiat fīāmus fīātis fīant imperfect fierem fierēs fieret fierēmus fierētis fierent perfect factus + present active subjunctive of sum pluperfect factus + imperfect active subjunctive of sum imperative singular plural first second third first secondthird activepresent— fī — — fīte — future—fītō fītō—fītōte fīuntō non-finite formsactivepassive presentperfect future presentperfect future infinitives fierī factumessefactum īrī participles factus verbal nounsgerundsupine genitivedative accusativeablativeaccusativeablative fiendīfiendō fiendum fiendō factum factū Usage notes Edit This verb ousted Facior, Facī in the sense of "to be made".  Verb Edit fīō  first-person singular present passive indicative of faciō Related terms Edit faciō fīat lūx fīat jūstitia ruat cælum Descendants Edit Vulgar Latin: *fiō (see there for further descendants) → English: fiat References Edit fio in Charlton T. Lewis and Charles Short (1879) A Latin Dictionary, Oxford: Clarendon Press fio in Charlton T. Lewis An Elementary Latin Dictionary, New York: Harper & Brothers fio in Gaffiot, Félix (1934) Dictionnaire illustré Latin-Français, Hachette.  Eliadi, Meleagridi, Pandionidi. Osservazioni sulla metafora mitica in Parmenide Author(s): Antonio Capizzi Source: Quaderni Urbinati di Cultura Classica, New Series, Vol. 3 (1979), pp. 149-160 Published by: Fabrizio Serra Editore. JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR. Accademia Editoriale, Fabrizio Serra Editore are collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Quaderni Urbinati di Cultura Classica This content downloaded from 128.143.23.241 on Wed, 22 Jun 2016 10:52:17 UTC Eliadi, Meleagridi, Pandionidi. Osservazioni sulla metafora mitica in Parmenide.  Non posso fare a meno di ringraziare Fajen per la dura critica che ha rivolto alia mia interpretazione dei frammenti di Parmenide. Devo ringraziarlo perche, a differenza di altri critici non meno duri, prima di giudicare il mio saggio lo ha letto da cima a fondo e lo ha compreso assai bene, dato che i punti da lui attaccati sono in effetti gl’argomenti portanti della mia dimostrazione. Ma soprattutto devo essergli grato perche, attaccando quei punti, mi ha costretto ad approfondirli, e conseguentemente a scoprire nuovi e piu validi argomenti in loro favore. A questo punto, pero, i ringraziamenti finiscono. Gli argomenti di Fajen colpiscono i bersagli giusti, ma li colpiscono assai debolmente. Vediamoli in breve uno per uno. a) lo ritengo che la mia intera interpretazione del frammento 1, e cio? la lettura realistica e topografica del viaggio di Parmenide sulla "via del nume", poggi sui solido pilastro dei tempi verbali “Sulla natura”; sui fatto cio? che, nei due punti in cui il viaggio si localizza, in quanto vengono nominate prima la via e poi la porta, la narrazione passa dai tempi storici ai tempi principali. Fajen invece del parere che, in qualunque modo la narrazione venga considerata, sia come preparatoria ad una specie di rivelazione o simili, sia come esposizione di un viaggio storico, i tempi sono comunque privi di un qual siasi peso. Premetto che il “Sulla natura”, formalmente parlando, in ogni caso "preparatorio ad una specie di rivelazione". Il contenuto del “Sulla natura” viene presentato come il discorso di una dea, Dike, a Parmenide, cosi come il contenuto della Teogonia una rivelazione che altre dee, le muse, hanno fatto ad Esiodo. E la divergenza tra le varii interpretazioni verte sulla localizzazione dell’incontro tra la divinita e il poeta, localizzazione inesistente nelle letture mistiche e [Gymnasium, La porta di Parmenide, Roma] allegoriche, esistente nel mondo celeste nelle esegesi astronomiche, e infine esistente in una citta reale di questo mondo -- certamente Velia -- nella mia interpretazione. Ora, Fajen puo pensare cio che meglio crede sui significato dei tempi verbali nei vari tipi di narrazione; ma tanto il suo parere quanto il mio restano inverificabili se non si basano su esempi concreti. Concretamente parlando, i filosofi precedenti Parmenide, o a lui contemporanei, non ci forniscono esempi di narrazioni allegoriche in prima persona. E, per quanto concerne viaggi nel Pal di l? (celeste, infero o mistico che sia questo al di l?), non ci danno che la Nekyia omerica. Ma anche la sola Nekyia, analizzata strutturalmente, ? assai significativa per il nostro problema. Essa si compone di tre parti: il passaggio di Ulisse e dei suoi compagni per l’ultimo agglomerato umano, abitato da esseri viventi e definibile come un 8?po<; e come una toXic 3, e cio? per il paese dei Cimmerii {k 1-19); il loro inoltrarsi nei luoghi indicati da Circe4, e cio? nel bosco di Persefone, dove viene scavata una fossa alla quale le ombre dei morti giungono uscendo fuori dalPErebo 5 (k 20-565); infine la penetrazione di Odisseo (preannunciata da un intermezzo in cui Al cinoo assicura il suo ospite che ci? che dira verra creduto 6 anche se narrera "avvenimenti straordinari"7) nella casa stessa di Ade8, dove pu? vedere anche personaggi (Minosse, T?ntalo, Sisifo) impos sibilitati ad uscire dalPErebo (k 583 sgg.). La seconda parte, la pi? lunga, si svolge tutta presso la fossa, in mezzo ad una nebbia che a mala pena lascia vedere i contorni delle persone, ed ? quindi priva di localizzazioni; la prima e la terza, invece, contengono localizzazioni e descrizioni rispettivamente di cose del nostro mondo (appunto la citt? e la terra dei Cimmerii) e del mondo dei morti (il lago e Palbero di T?ntalo, il monte e il macigno di Sisifo). Ora, parlando dei Cim merii il poeta interrompe la serie degli aoristi e degli imperfetti, che punteggiano il viaggio della nave, con un presente (xccTaS?pxETai, v. 16) e con un perfetto equiparabile ad un presente (Texaxai, v. 19); mentre ci? non avviene per i luoghi delPErebo, e cio? per il lago (Xlexvtq-Tzpoff?Tzko?^z, v. 583; uSwp anokzcrxzio, v. 586), per la 3 Evfra 8? KiujXEptcov ?vSpcov 5?p?<; te tc?Xic te (0?. XI 14). 4 ocpp' e<; x&pov a^xou-eft' ov cppacTE K?pxiQ (ibidem, 22). 5 ai 5' ?y?povTo ipuxai ?rc?? 'Epa?eix; (ibidem, 36-37). 6 J??, 363-366. 7 dicrxzka spy a (ibidem, 374). 8 xoct' E?puTCuX?? "A?5w? 565 Eliadi, Meleagridi, Pandionidi 151 terra lasciata scoperta dal ritirarsi del lago {ycda piXaiva cp?vECXE, v. 587), per gli alberi (S?vSpea .. . x&, v. 588), per il macigno (tot' ?-Koo-zpityaaxz xpotTout;, v. 597), e soprattutto per la cintura di Era cle, la cui descrizione ? an?loga a quella parmenidea della porta (fr. 1, vv. 11-13), ma ne differisce appunto perch? alP dai iniziale si sosti tuisce un Tjv (v. 610). II processo, per cui i tempi storici di una nar razione si interrompono e lasciano il posto ai tempi principali ogni volta che il narratore vuole localizzare con precisione il racconto rea l?stico, non ? limitato all'inizio della Nekyia: molti dei numerosi rac conti contenuti nelPultima parte dtWOdissea vi fanno ricorso9; ed ? presente anche nei tragici, come nella narrazione della sconfitta di Salamina fatta in Eschilo dal messaggero persiano 10, allorch? questi vuole localizzare un'isola n e un fiume 12, o l? dove il "pedagogo" di Euripide, riferendo di av?re udito la gente parlare di un decreto di Creonte 13, allude a una fontana ben nota (come la porta e la via di Parmenide) ai suoi ascoltatori. b) Pi? centrata ? Posservazione di Fajen a proposito del termine aorxu: per me la oS?? TO^?cpirpoc Sai[jiovo<; r\ xax?c tc&vt' ?cron, cp?psi elS?toc cpwTa ? la via principale della citt?, che congiunge tutti i quar tieri cittadini; Fajen mi osserva che acnu non significa "quartiere cit tadino", ma la citt?, o una sua parte composta di pi? quartieri. Fin qui il critico ha probabilmente ragione: "quartiere" implica un cen tro compatto, magari diviso in quattro parti come nelle citt? nate da accampamenti; e xgct<x tuocvt' ?o*TT] significa "attraverso tutte le cit 9 Tra i molti racconti che punteggiano la storia di Odisseo approdato ad Itaca ve ne sono due, quello di Eumeo a Odisseo (XV 390-486) e l'altro di Odisseo a Penelope che ancora non lo ha riconosciuto (XIX 165-202), che sem brano ricalcati su uno stesso clich?: entrambi infatti contengono un'introdu zione, nella quale l'oratore acconsente a parlare e spiega le ragioni del suo as senso (XV 390-402; XIX 165-171); una localizzazione, in cui vengono descritte rispettivamente le isole di Siria e di Creta (XV 403-412; XI 172-178); e la narra zione vera e propria, legata alia localizzazione in entrambi i casi dal ricordo di un re che regnava nelle terre descritte (XV 413-486; XIX 178-202). La localiz zazione ? sempre caratterizzata da tempi principali, la narrazione da tempi sto rici; e ci? avviene anche in altri racconti deH'ultima parte d?iVOdissea (cfr. ad es. XXIV 331-344). 10 Pers. 272 sgg. 11 Ibidem, 447-449. 12 Ibidem, 487. 13 Med.  ta" (in quanto forse la Via del Nume non aveva solo un tratto citta dino, ma congiungeva Velia a Posidonia e alle altre citt? costiere) o "attraverso tutti i nuclei abitati" (nel senso che la strada univa i due porti, Pacropoli e magari la fortezza di Moio della Civitella, avam posto velino verso il retroterra 14. Ma, anche concedendo la corre zione, non ci ritroviamo sempre in una lettura topogr?fica, e cio? pro prio in quella lettura che Fajen ritiene inammissibile? Dato che Fajen non propone interpretazioni alternative, devo supporre che egli opti per le interpretazioni non topografiche ten?ate fino ad oggi. Ora, se si accetta la lettura che fa del proemio un'allegoria speculativa simbo leggiante il viaggio delPintelletto verso la conoscenza (Fr?nkel, Bowra, Deichgr?ber), gli occttt) sono le province del sapere; se si propende per Piniziazione religiosa o mist?rica (Diels, Mondolfo, Zafiropulo, Jaeger, Verdenius, Untersteiner, Mansfeld, ecc), dobbiamo intendere per ?o-rr] i gradi delPilluminazione; se infine si sceglie Pesplorazione c?smica, e cio? la corsa sui carro del sole lungo le orbite celes ti (Gil bert, Kranz, Capelle), i "centri abitati" simboleggiano i segni dello zodiaco o qualcosa di simile. Fajen, cosi scrupoloso nel consultare gli autori antichi in cerca delPesatto significato di acrru, ha trovato in qualche scrittore traslati di questo genere? Se si, sar? lieto di saperlo. c) Diels ritiene che il izk?-zTovai = -rcXoco-crovTai di Parm. 6,5 non sia una forma regolare di rcXacrcrG), ma una forma an?mala di izka?u, e puntella la sua ipotesi con esempi tratti dal tarantino; Fajen mi concede il diritto di rifiutare gli esempi, "non essendo plausibile un dorismo in quel contesto", ma non di invalidare Pipotesi, essendo Pipotesi stessa {Tzkavvovzai per TcXa?ovTcci) fondata su "un'intera se rie di verbi in -o"o*co invece del -?w che ci si aspetterebbe" citata nella grammatica greca di Schwyzer 15. Non credo che sia necessario rileg gere le grammatiche per sapere ehe in greco le reg?le sulla formazione del presente dal tema verbale sono alquanto precarie: ma icX?Cco ha un presente regolare attestato da numerosi scrittori, e Diels non lo ha certo negato. Diels ipotizza un hapax, e cio? una forma irrego lare che sarebbe attestata dal solo Parmenide, e solo in quel passo; e non devo essere io a ricordare al collega che un'ipotesi di hapax (cosi corne anche un emendamento) viene a cadere appena si dimostri che 14 Si veda in proposito E. Greco, 'Il (ppo?piov di Moio della Civite?V, Riv. studi salern. 1969, pp. 389-396. 15 E. Schwyzer, Griechische Grammatik I, M?nchen  il passo ha senso compiuto senza di essa. Anche se Fajen trovasse non una serie di presenti irregolari o di doppi present? (come quelli elen cati da Schwyzer), ma addirittura una serie di hapax analoghi a quello presunto da Diels, Poner? della prova resterebbe sempre a lui. Alla fine della sua breve ma densa recensione Fajen mi accusa "di non essere al servizio della scienza", e non posso dargli torto: se scienza ? quella che traspare dalle sue argomentazioni, essa consiste nelPaccettare il vecchio perch? vecchio e nel rifiutare il nuovo perch? nuovo; e scienziato ? chi (come Cesare Cremonini) rifiuta di guardare nel cannocchiale se il cannocchiale non mostra Puniverso descritto da Aristotele. II servizio di questo tipo di scienza lo lascio volentieri al mio c?rtese obiettore. 2. Ho tralasciato volutamente il primo argomento di Fajen, quello riguardante la mia interpretazione delle "fanciulle Eliadi", citate in Parm. 1,9, come pioppi fiancheggianti la strada, dato che in tutte le fonti, tranne che in Omero, le 'HXi?S?<; compaiono trasformate in pioppi o in altri alberi: Fajen obietta che in questi autori vi ? sempre (tramite il nome di Fetonte o Paccenno al pianto delle fanciulle) al lusione al mito metamorfico, allusione che in Parmenide viene a man care. Se accettiamo il criterio qui proposto, ci troviamo al di fuori di ogni possibilit? interpretativa: le Eliadi non possono essere a?YSi?poi come in Eschilo perch? Parmenide non si riferisce al mito di Fetonte, ma neanche possono essere v?^cpai come in Omero perch? Parmenide non accenna al mito di Odisseo. Se poi cerchiamo di completarlo con altri criteri, Pallusione al mito di Fetonte ? preferibile non solo per la quantit? delle fonti, e per la contemporaneit? tra Parmenide ed Eschilo che ? la pi? antica di esse, ma anche e soprattutto perch? Pespressione 'HXi?SEc (a volte accompagnata da xo?pai e a volte no) ci risulta esclusivamente nelle narrazioni del mito metamorfico. Ma anche ammettendo che la mia lettura incontri qualche difficolt?, Pin terrogativo ? lo stesso che ci siamo posti a proposito di rcavi' ?crn}: quai ? Palternativa, e che cosa ? stato proposto fino ad oggi? Ancora una volta: se optiamo per la lettura speculativa, le Eliadi sono forze intellettuali; se riprendiamo Pipotesi mistica, sono potenze divine; se ripieghiamo sull'interpretazione astron?mica, sono ?nergie cosmi che. In quale mito troviamo le Eliadi come equivalenti di cose del genere? E quali riferimenti di Parmenide ci riportano a miti consimili? Ci? che Fajen sembra trascurare ? il fatto che fino ad oggi nes suno ha letto il proemio di Parmenide come una narrazione mitica mai esistito un mito di cui fosse protagonista lo scrittore che lo nar rava) : i moderni fautori delle tre interpretazioni menzionate pi? sopra hanno visto tutti nelle Eliadi una met?fora; quanto agli antichi (il cui giudizio Fajen mi rimprovera di trascurare), Sesto Emp?rico, P?nico che abbia tentato un'interpretazione del proemio, riduce anch'egli a met?fora le figlie del sole (che simboleggerebbero le sensazioni)I6, mentre Proclo 17 attesta il continuo uso di metafore (xp^oflai [XETacpo pa??) da parte di Parmenide, e il retore Menandro 18 precisa che fece uso di quelle particolari metafore mitiche consistenti nel dire "Apol lo" per sole, "Era" per aria, "Zeus" per calore, ecc. Si tratta di metafore comunissime in tutta la letteratura antica, da Omero in poi, e costruite proprio nel modo che io propongo per le Eliadi parme nidee e che Fajen ritiene inammissibile: il personaggio m?tico viene nominato al posto delPoggetto cui ? associato, senza alcun riferimento al mito che giustifica Passociazione. Queste considerazioni sarebbero sufficienti per rispondere alie contestazioni di Fajen; ma, come ho detto, la mia inveterata abitudine di rimettere in questione le mi? tesi mi ha spinto a fare ulteriori ri cerche sulle strutture della met?fora mitica. Ho osservato, ad esempio, che questo tipo di met?fora, pur essendo forse il pi? fr?quente nel Pantichit?, compare assai di rado nel lungo elenco di metafore poe tiche e retoriche fornitoci da Aristotele 19, e il fatto non mi ? sembrato casuale: Panomalia dipende, a mio avviso, "dal carattere sincr?nico e non diacronico delPindagine aristot?lica, alia quale ? estraneo il pro blema della genesi e delPevoluzione della lingua e dei suoi modi"20. Aristotele scrive in un'epoca nella quale i poeti cominciavano gi? a comporre pensando ad altri poeti, i retori in pol?mica con altri re tori, cosicch? le metafore erano soprattutto preziosismi stilistici (?cTTEia): tutta Pindagine aristot?lica valuta le metafore a seconda del loro valore est?tico, e non c'? una volta che il filosofo di Stagira si ponga il problema del rapporto tra efficacia e comprensibilit?. Per Aristotele la met?fora ? letteraria, non popolare; ed ? per questo che lo interessano assai poco le metafore mitiche, che sono allusioni dei 16 Sext. Adv. Math. VII 112. 17 Parm. I 665,17. 18 Rhet. I 5,2. 19 Poet. 21-22; Rhet. Ill 2-4; 10-11. 20 G. Morpurgo Tagliabue, Ling?istica e stilistica di Aristotele, Roma poeti e degli oratori a modi di dire gi? esistenti e diffusi tra la gente del pop?lo che (in ?poca di viva tradizione orale) li ascolta diretta mente. Aristotele, insomma, non pensava mai che gli aedi omerici dovevano farsi capire dalla gente delle citt? che visitavano; e che i poeti e gli oratori del sesto e del quinto sec?lo avevano un ben pre ciso uditorio 21, nel quale le loro met afore dovevano suscitare reazioni immediate. Nessun cantore o parlatore avrebbe detto "Ares" per indicare la guerra se non av?sse saputo che i suoi ascoltatori usavano gi? la stessa met?fora; e le metafore mitiche erano popolari prima di essere letterarie. La popolarit? delle metafore cui pi? sopra ho accennato era senza dubbio estesa all'intero mondo di lingua greca, e la ragione ? f?cil mente intuibile: si tratta di metafore o gi? presenti nei poemi ome rici, o da essi der?vate. Ma esistevano metafore mitiche popolari di origine postomerica o extraomeriea: Empedocle, che subi fortemente la suggestione stilistica di Parmenide, e che gi? il retore Menandro accomunava a Parmenide proprio per Puso di metafore mitiche22, usa per i suoi elementi tre nomi di divinit? omeriche, Zeus, Era e Edoneo (= Ade), ma per il quarto elemento, Pacqua, si serve di Nesti23, una divinit? siciliana24; e abbiamo qui un chiaro esempio di met?fora po? tica che riproduce una met?fora mitica popolare locale, e cio? di poesia adattata ad un uditorio limitato, come era anche quella di Parmenide. Le Eliadi pero, pur non essendo un mito omerico, non sono neanche un mito locale campano, o pi? in gen?rale italiota: sono, nel momento in cui Parmenide compone il suo poema, un mito tr?gico. I miti metamorfiei e i miti dionisiaci sono i due pi? importanti gruppi di miti non omerici, ed hanno entrambi la stessa origine: i sa tiri e i sileni della mitografia dionisiaca, le donne-uccello e le donne albero della mitografia metamorfica, derivano tutti certamente dai riti di caccia, raccolta e agricoltura in cui i danzatori o le danzatrici si camuffano con pelli di animali o con fronde vegetali per mimare 21 Rinvio, per lo sviluppo di questa prospettiva storica, a B. Gentili, 'Aspetti del rapporto poeta committente uditorio nella lirica c?rale greca', Stud. urb. 39, 1965, pp. 70-88: per Parmenide si vedano le pp. 87-88. 22 Menand. loc. cit. 23 Emp. fr. 6, v. 3; fr. 96, v. 2. Un altro personaggio facente parte di un mito siceliota, Baub?, la nutrice di Persefone, viene nominato da Empedocle (fr. 153) metaf?ricamente per indicare il ventre. 24 Lo attestano Eustazio {ad II. p. 1180,14) e Fozio (s.v. N^ctttic). appunto le operazioni di sostentamento collettivo e propiziarne la buona riuscita. Tali miti hanno dunque, fin dalle origini, uno stretto l?game con la tragedia ^ ?(che ricorda nel suo stesso nome il travesti mento con pelli di capra): non c'? dunque da meravigliarsi se fu la tragedia a renderli popolari in tutta la Grecia, man mano che le com pagnie girovaghe li rappresentavano. Le metafore popolari nate da questi miti sono chiaramente di origine tr?gica. I miti metamorfici hanno scarse metafore, ed ? facile capire il perch?: nella maggioranza di essi (Aracne, Dafne, Cieno, Atlante, Aretusa, ecc.) il personaggio che si trasforma ha gi? il nome della cosa nella quale si trasformer?, essendo costruito solo in funzione della metamorfosi. Ma spesso si tratta in vece di personaggi gi? no ti fuori del mito metamorfico, o comunque dotati di nomi propri, e allora la met?fora ? possibile: ? questo appunto il caso delle Eliadi, gi? pre sent? in Omero in una narrazione non metamorfica, e che rientrano nella tipolog?a delle "sorelle trasformate mentre piangono la morte di un congiunto". Una variante del mito delle Eliadi ? la storia delle Meleagridi, anch'esse "sorelle piangenti", che differiscono dalle Elia di per il nome del fratello morto (Meleagro anziehe Fetonte) e per il tipo di metamorfosi (uccelli anziehe pioppi), ma ad esse strettamente si l?gano per il fatto che dopo la metamorfosi piangono lacrime d'am bra: in effetti Plinio il vecchio cita entrambe le favole nella sua lunga elencazione delle opinioni sulPorigine dell'ambra, e ne mette anche in evidenza la comune origine tr?gica, attestando come la storia delle Eliadi derivi dalPomonimo dramma di Eschilo 26 e quella delle Me leagridi dal Meleagro di Sofocle. Ma la leggenda delle Meleagridi presenta analogie anche con quella delle Pandionidi, figlie di un m? tico re di Atene, che probabilmente nella versione originaria erano 25 Questo l?game ? ancora rintracciabile, ad esempio, nel Prometeo inca tenato, dove lo, fanciulla trasformata in vacca cui continuamente si allude anche nelle Supplici, viene d?fini ta ?ouxepcoc irapdevoc (v. 588): ? chiaro che ancora in Eschilo il personaggio trasformato in animale compariva sulla scena con una maschera atta a ricordare l'animale stesso. ? probabile che anche negli Uccelli di Aristofane Procne entrasse in scena con qualche attributo legato alla sua me tamorfosi in uccello: alla maschera animalesca alludono chiaramente i due per sonaggi che commentano la sua comparsa (vv. 672-674). 26 ?piufumi po?tae dixere, primique, ut arbitror, Aeschylus, etc." {N.H. XXXVII 2, 11,31). 27 "Super omnis est Sophocles po?ta tragicus [...] Hic ultra Indiam fieri dixit e lacrimis meleagridum avium Meleagrum deflentium" [ibidem, 41). This content downloaded from 128.143.23.241 on Wed, 22 Jun 2016 10:52:17 UTC All use subject to http://about.jstor.org/terms   Eliadi, Meleagridi, Pandionidi 157 state trasformate in rondini mentre piangevano anch'esse un parente morto (e ce lo suggerisce il fatto che tanto Esiodo28 quanto Saffo29, due poeti vissuti assai lontani Puno dalPaltra nel tempo e nello spa zio, chiamino IIav8iovi<; la rondine): divenute uccelli corne le Melea gridi, esse esprimono il loro dolore non con lacrime, ma con strid?i. Nei tragici, prima in forma allusiva nel primo coro delle Supplici di Eschilo, poi per esteso nel Tereo di Sofocle, troviamo questo mito gi? contaminate (probabilmente per la somiglianza tra i patronimici Ilav Siovi? e navSapTQi?) con quello di Aedone, figlia di Pandareo, che uc cide per errore il proprio figlio Itilo e si trasforma in usignolo M, oltre che con la truce storia (variante tessala del mito di Medea) della vendetta di Procne su Tereo: ne vien fuori un complesso mito meta morfico, dove le Pandionidi si sono prec?sate nelle due sorelle Procne e Filomela, mutate Puna in usignolo e Pa?tra in rondine, mentre Tereo si trasforma in upupa; tuttavia anche in questo caso il mito diventa popolare (e ce lo attesta perfino Aristofane)31 quando si rappresenta pubblicamente la tragedia sofoclea che narra la metamorfosi. Tutti e tre questi miti diedero luogo a metafore popolari, e Ate ne, proverbialmente ricca di uccelli, appunto la sua attenzione sui due miti sofoclei, ritrovando le Pandionidi e le Meleagridi nelle colonie avicole locali: la rondine dovette essere chiamata abitualmente Filo mela, se tutti compresero a vol? quando Gorgia ne apostrofo una con questo nome (una met?fora famosissima, evidentemente, se perfino Aristotele32, che abbiamo visto cos? restio a citare metafore mitiche, la ritenne degna di menzione); e Meleagridi furono chiamati, pi? in gen?rale, gli uccelli che nidificavano numerosi nelPAcropoli e che ri chiamavano con immediatezza agli Ateniesi le immagini e i cori del Meleagro 33. A Velia, ricca di pioppi **, suscito invece maggiore im 28 Op. 568. Probabile reminiscenza esiodea in Mnesalc. Anth. Palat. IX 70. 29 Fr. 88 Bergk. 30 Od. XIX 518-523; Apollod. III 5,6. 31 Toia?Ta uivToi Eo<poxX??}? )apa?v?Tai ?v to?? TpaY^Siaiciv ?ui t?v Trjp?a (4i;. 100-101). 32 Rhet. III 3, 1406 b 16-19. 33 Hesych.: MeXeocyp?Se? opv?i?, ai ?v?u-ovco ?v t^ ?xpoitoXei. 5W.: M? X?aYP?8?c * opv?a, ?citep ?v?p,ovTO ?v xfi ?xporcoXei X?Youca 8? o? uiv tgc? ?SfiXcp?? toO M?X?aYPOu [xz-zct?aXzl^ ?i? tgc? u-?X?aYp?8a<; apvida? xtX. Phot. s.v. = Sud. 34 Cfr. L# porta di Parmenide cit. pp. 33-34. This content downloaded from 128.143.23.241 on Wed, 22 Jun 2016 10:52:17 UTC All use subject to http://about.jstor.org/terms   158 A. Capizzi pressione la metamorfosi delle Eliadi messa in scena da Eschilo: gli abitanti del centro campano cominciarono a chiamare "fanciulle Elia di" gli alberi che fiancheggiavano la Via del Nume, tanto che Par menide utilizz? Pimmagine mitizzata degli alberi per caratterizzare la "famosa via". Ma il fatto significativo ? che chiunque alludesse alle metafore popolari locali non mancava di riferirsi anche, pi? o meno apertamente, alle trag?die cui il suo uditorio riallacciava le metafore. Gorgia lo fece da oratore, dato che si rivolse alla rondine-Filomela "col pi? elevato tono dei tragici"35; Parmenide invece si comporto anche in questo da poeta, illuminando la met?fora popolare di origine eschilea con altre metafore tratte dai testi stessi di Eschilo, come Tuso di "xaX?-rcTpi?]" per "?ocpo?" e di "x??P" per "o?o?" e l'?vidente gioco sui doppio significato di "x?pa" ("testa" e "cima"36 che ritroviamo nella splendida immagine del verso 10: "xaX?-rcTpa" per "velo di t?n?bre" ? in effetti accertato come espressione eschilea37, mentre le immagini della trasformazione delle braccia in rami e della testa in cima frondosa sono anche nei versi dedicati aile Eliadi da Ovi dio 38, versi che nella parte finale (allorch? le sorelle si lamentano tutte insieme con un andamento che richiama i cori tragici)39 sembrano fortemente influenzati dalle Eliadi di Eschilo, dove le figlie del Sole costituivano appunto il coro. ? anche significativo come queste metafore popolari abbiano dato, in epoca pi? tarda, esiti assai simili: mentre i mitografi conti nuavano a narrare la metamorfosi senza discostarsi molto dalla versione tr?gica, gli scienziati attingevano ai nomi mitici per denominare ani mali o piante poco conosciuti. Il nome di Filomela, che i latini usa 35 aplata twv TpaYixwv (Arist. loe. cit.). Aristotele aveva coito bene l'al lusione perch? conosceva il testo del Tereo (cfr. Poet. 16, 1454 b 37). 36 Per x?pa significante "cima d'albero" cfr. Soph. fr. 23 Nauck. 37 Cfr. Choeph. &14. Ma va chiarito che i versi di Parmenide risentono con tinuamente di quelli di Eschilo: si cfr. per es. Eum. 516 con Parm. 1,25; Eum. 538-542 con Parm. 1,14; Prom. 210 con Parm. 8,53-54; Prom. 447 con Parm. 7,5; ecc. 38 Tertia cum crines manibus laniare pararet, avellit frondes. Haec stipite crura teneri, ilia dolet fieri longos sua brachia ramos (Met. II 350-352). 39 Parce, precor, mater, quaecumque est saucia clam?t, parce precor: nostrum laniatum in arbore corpus vano come sin?nimo di "uccello"40 o pi? specificamente di "ron dine"41, venne dato dai naturalisti greci prima ad una specie di cuculo (la "filomela maggiore")42, poi per estensione al pesce-cuculo (trigla cuculus)43, cosi detto perch? si diceva emettesse un suono simile al canto delPuccello omonimo; e Pequivalenza tra "rondine" e "Pan dionide" fece si che la celidonia (la comune "erba da porri"), detta dai Greci per la sua forma "x^S?viov pi?Ya" {= "rondinella mag giore") venisse detta a volte anche "tcocvSlo? pt?oc"44, certamente, come ben vide Wellmann, corruzione di un originario "IlavSiovic; pi?a". "Uccello meleagride" fu, a cominciare da Aristotele45, e so prattutto dal suo discepolo Clito da Mileto, che ne fece una minuziosa descrizione46, il nome dato dagli ornitologi47 alla gallina faraona, e cio? a quello, tra gli uccelli comuni nelPAcropoli, che si riteneva ori ginario dall'Etolia48, sede del mito di Meleagro. Non ce dunque da stupirsi se, con un processo del tutto id?ntico, i botanici chiamarono "pioppo eliade"49 una certa variet? di quella pianta. L'unica differenza tra i miti di questo gruppo sta dunque nel fatto che i glossari e i trattati di retorica ci hanno trasmesso le meta fore popolari zoologiche di Atene e non quelle botaniche di Velia; e la ragione ? quella che deduciamo da Diogene Laerzio ^: la maggior notoriet? e anche la maggior presunzione (\xzyaka\)yi*v<) della metr?poli attica rispetto alia piccola e poco nota polis italiota, "capace solo di allevare uomini di valore". Ci? non ci impedisce pero di ritrovare 40 Qualis populea moerens philomela sub umbra amissos queritur fetus, quos durus ara tor observans nido implumes detraxit (Verg. Georg. IV 511-513). 41 "Mortalium penatibus fiducialis nidos philomela suspendit, et inter commanentium turbas pullos nutrit intr?pida" (Cassiod. Var. VIII 31). 42 Mey<xXtq (piXou//)Xa (Ptochoprodr. Ms. c. Hegumen.). 43 Aristot. Hist. anim. IV 9; Lexicon Ms. Cyrill. s.v.; Gloss, ad Oppian. Hal. s.v. K?xxuyEc. 44 [Diosc] De mat. med. II 180. 45 Hist. anim. VI 2, 559 a 25. 46 Riportata testualmente da Athen. XIV 655 B-E. 47 Diod. Ill 39,2; Paus. X 9,16; Pollux, V 90; Plin. N.H. X 26,74. 48 Menodot. Sam. ap. Athen. XIV 655 A. 4* ttqv T?pa?5a ai'YEipov (Philostr. V. Apoll. T. V 5,87).  quelle metafore nei versi del pi? illustre figlio di Velia, n? di rico noscerle come tali anche se in quei versi essa compare disgiunta dalla nota narrazione cui fa evidente riferimento.  . Antonio Capizzi. Keywords: Velia, la scuola di Velia. Zenone, sono/fui, il latino no necesita il verbo divenire, perche usa la radice de fui-. +l’adolescenziale, conversazione, calogero, veliatichi, veliadi meleagridi, pandionidi veliatico, eliadico, meleagride, pandionide,  fieri, in esse, in fieri.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capizzi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Capocasale: l’implicatura conversazionale dei segni di dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza  (Montemurro). Filosofo italiano. Grice: “You gotta love Capocasale; my favourite is his ‘corso filosofico,’ which the monks rendered as ‘CVRSVS PHILOSOPHICVS,’ almost alla Witters! Capocasale multiplies the principles of reason – I thought there was just one – On top, he uses the trouser-word, ‘vero,’ – so he thinks he is philosophising about the ‘vero principio della ragione,’ or its plural! In fact, he is philosophising about conversational implicature!” Figlio di Lorenzo e Maria Lucca, sin da ragazzino aiuta il padre nel suo mestiere di fabbro ferraio. Nel tempo libero si dedica alla filosofia, mostrando grande attitudine nella filosofia romana antica in particolare. Con la morte del padre, avvenuta quando C. aveva 15 anni, visse tra Corleto Perticara, Stigliano e San Mauro Forte, procurandosi da vivere come insegnante privato, dedicandosi contemporaneamente allo studio della filosofia e del diritto.  Dopo esser stato governatore baronale di Sarconi, incarico ottenuto appena ventenne, lasciò la Basilicata per trasferirsi a Napoli, conseguendo la laurea in giurisprudenza. Dopo gli studi universitari, insegnò filosofia nella scuola dallo stesso fondata a Napoli. Vestì l'abito talare e fu nominato da Ferdinando IV precettore di logica e di metafisica all'Napoli.  Perse tale incarico con l'arrivo di Giuseppe Bonaparte: sotto il suo governo gli fu concessa solamente la docenza privata. Con la restaurazione, Ferdinando IV lo nominò vescovo di Cassano. C., tuttavia, preferendo l'insegnamento, rinunciò alla carica, così come fece più tardi con l'incarico di pari grado conferitogli per la diocesi di Sora-Aquino-Pontecorvo. Sempre nell'ateneo partenopeo ebbe la cattedra di diritto di natura e delle genti: i suoi teoremi, di stampo lockiano, ebbero una certa risonanza, tanto da essere citati da filosofi come Fiorentino, Gentile e Garin.  Alcuni suoi discepoli divennero importanti personalità culturali del tempo come Francesco Iavarone, Quadrari, Scorza, Arcieri e Mazzarella. Sempre fedele alla monarchia borbonica, si schierò contro le insurrezioni carbonare. Precettore del futuro re delle Due Sicilie: Ferdinando II. Fu inoltre membro di varie Accademie come la Parmense, la Fiorentina, la Cosentina, l'Augusta di Perugia, Aletina e Renia di Bologna, degli Intrepidi di Ferrara, de' Nascenti e degli Assorditi di Urbino, dei Filoponi di Faenza. Altre opere:“Divota novena del gloriosissimo taumaturgo S. Mauro” (Roma); “Esercizio di divozione verso il glorioso confessore S. Rocco” (Napoli); “Cursus philosophicus” (Napoli); “Saggio di politica privata per uso dei giovanetti ricavata dagli scritti dei più sensati pensatori” (Napoli); “Catechismo dell'uomo e del cittadino” (Napoli); “Codice eterno ridotto in sistema secondo i veri principi della ragione e del buon senso” (Napoli); “Saggio di fisica per giovanetti” (Napoli); “Istituzioni elementari di matematica” (Napoli); “Corso filosofico per uso dei giovanetti”.  Dizionario biografico degl’italiani -- un filosofo lucano alla corte dei Borboni. Quoniam PHILOSOPHIA est scientia quae viam ad felicitatem sternit. Ea vero rationis solius ductu cognoscitur, ac demostrationis ope vernm investigat. In vero autem inveniendo methodus utramque facit paginam. Patet primum FILOSOFI studium esse debere, intellectum, sive facultatem cogitandi, ad veritatem methodice investigandam, ac di iudicandam aptum reddere, eumque mediis opportunis acuere, vel, si morbo aliquo laboret, salutaribus eidem mederi remediis. Et quia veritas per demonstrationem invenitur et iudicatur. Demonstratio vero methodo perficitur. Liquet, ei necessarium esse, mentem quoque ad demonstrationem, ac methodum ad sue facere, ut in eo habitum adquirat, in quo FILOSOFI scientia consistit. Quamvis vero omnes homines naturali quodam verum cognoscendi, iudicandi, rationes denique conficiendi facultate praediti sint, eaque a multis usu, atque exercitatione ad summum usqne perfectionis gradum sit redacta: quum tamen plurimis erroribus sint obnoxii, nisi facultatem illam regulis quibusdam certis, at que indubiis dirigant, disciplina aliqua in veniatur, oportet, quae regulas ac praecepta tradat, quibus naturalis illa cogitandi vis augeatur, perficiatur, et ad veritatis investigationem in offenso pede dirigatur. Naturalis haec percipiendi, iudicandi, ratiocinandi que vis LOGICA NATURALIS appellatur, quae qunn in casuum similium observatione, adeoqne in sola praxi consistat, non solum erroribus est obnoxia sed rerum causas et rationes ignorans, confusam tantummodo cognitionem, non vero scientiam producere potest. Ex quo legitime fluit LOGICAE ARTIFICIALIS necessitas. Disciplina haec vulgo LOGICA ARTIFICIALIS appellatur, quam definimus per doctrinam, qua regulae traduntur, quibus, humana mens in cognoscenda, et di iudicanda veritate dirigatur. Vocatur haec a  non nullis PHILOSOPHIA RATIONALIS, ARS COGITANDI, et kat i Sony LOGICA. Logicae Prolegomena quae tantum abest, ut essentialiter a Naturali differat, ut sit potius distincta eiusdem explicatio, adeoque tanto illa praestantior quanto distincta cognitio praestat confusae. Ex quo patet, FILOSOFI sola Logica naturali esse non posse contentum, sed ei colendam esse artificialem. Quandoquidem autem Logica artificialis leges explicat naturalem iudicandi facultatem dirigentes: sequitur ut eas ex mentis humanae natura deducat, adeoque mentis operationes prius, carum que naturam distincte explicare; deinde vero eam in veritatis investigatione, atque examine veluti manuducere debeat: uno verbo, ut prima theoriam, deinde praxin ostendat. Vltro ergo mihi sese offert genuina Logicae divisio, in THEORETICAM ET PRACTICAM. Atque hinc est, cur opusculum hoc in duas partes distribuerimus. In quarum prima de mentis operationibus. In altera de legitimo carum usu, quantum satis erit, tractabimus. Quoniam autem humana mens triabus modis res cognoscit; vel enim eas tan tummodo percipit, vel de iis iudicium profert, vel denique rationes conficit. De tribus his mentis operationibus priore parte agemus. Quumque veritates vel per se pateant, vel per rationem et meditationern inveniantur, vel denique ex aliorum scri Prolegomena. ptis hauriantur: inventae vero cum aliis communicentur. De omnibus his parte secunda non nulla haud proletaria monebimus. Experientia namque constat, nos omnis cognitionis expertes in mundum prodire (quidquid pro ideis innatis Platonici, et Cartesiani clamitent), atque primo res simpliciter perei pere, earumque ideas adquirere, deinde binas inter se conferre, tandem eas cum aliqua tertia idea comparare, indeque novas veritates deducere. Mentis actio, qua res aliquas sensibus obvias percipit, aut ab iis abstrahendo novas imagines sibi format, PERCEPTIO, sive idea dicitur: quum hinas ideas invicena confett, IVDICIVM: dum vero eas cum aliis comparat, atque inde novas veritates elicit RATIOCINIVM nominatur. Nec aliae attente consideranti mentis operationes occurrere pote runt. Scholion. De Logicae utilitate non est, quod plura dicamus. Quamvis enim quam plurimi eam scriptis suis ad astra tulerint; quisque tainen in se huiusmodi periculum facere poterit: nam quidquid ex recta ratione capiet emolumenti, id omne huic disciplinae se debere, aperto cognoscet. Prima mentis hnmanae operatio est SIMPLEX PERCEPTI, sive NOTIO sive NOTA sive SIGNUM, quam definimus per simplicem rei alicuius re-praesentationem in mente factam praesentationem autem intelligunt ad curatio res assimilationem eorum, quae sunt extra ens, in eodem. Dici quoque solet idea, conceptus, vel sim. Per rea plex apprehensio, ut scholis placuit. Sunt, qui perceptionem ab idea distinguendam putant, atque illam esse aiunt, mentis actionem in obiecto percipiendo. Hanc vero ipsam abiecti imaginem menti percipienti obviam, Sunt, qui eas terminis tantum differre docent. Quidquid id est, nobis placuit perceptionem cum idea confundere. Ad eoque nusquain hic de huiusmodi distinctione sermo cadet. Ideam alii definiunl per imaginem menti obversantem. Buddeus Phil. instrum. cum observ. alii per exemplar rei in cigitante. Hollmannus Log. Sed hae, aliaeqne definitiones eodem redeunt. Repraesentationis vox absque definitione ad sumi poierat, quum sit cuique nota. Sed ut methodici rigoris amatoribus non nihil daremus eam ita explicavimus, sequuti Baumeisterum Quoniam itaque notio est rei re-praesentatio. In omni autem re-praesentatione duo considerarida veniunt, nem, pe modus re-praesentandi, et obiectum, sive res ipsa quae re-praesentatur: liquet, in qualibet idea itidem duo animadverti posse, scilicet percipiendi modum, et obiecta nempe res perceptas; quorum ille FORMA, haec MATERIA idearum recte dicuntur. Si ergo ideae ad formam referantur consideratio illa dicetur FORMALIS. Si vero ad materiam, OBIECTIVA, vel Realis appellabitur, Et quia utroque respectu ideae inter se differunt: de formali ac materiali earum differentia diversis sectionibus agemus. MATE B nos De formali idearum differentia Experi Xperientia abunde constat quaedam ita percipere, ut ca ab aliis inter noscere possimus, quaedam vero non ita. Re-praesentatio illa quae sufficit ad rem perceptam ab aliis dignoscendam, idea di citur CLARA; OBSCURA contra, quae ad eam discernendam est insufficiens. Vnde idea recte dividitur in claram et obscuram E. Rosae ideam claram habes, ei eam a lilio, hiacynto, aliisque floribus distinguere scias, et quoties cumque tibi occurrit, eam dem agnoscas; contra si arborem peregrinam videas, eamque a reliquis plantis discernere nequeas, arboris illius ideam habes obscuram. Huiusmodi sunt ideae infantum recens natorum, hominum bene potorum, eorumqne, qui lethargo oppressi reperiuntur. CLARITAS enim Physicis est ille lucis effectus, cuius operes externas circa nos positas alias ab aliis distingnere possumus; contra vero OBCVRITAS est claritatis absentia, scilicet tenebrarum eftectus: nam quun tenebrae in lucis privatione consistant, haec vero obiecta externa distinguere faciat. Deficiente luce, deficit distinctionis facilitas: adeoque obscuritas in distinguendi impotentia sita est. Quum res existentes innumeris determinationibus et circumstantiis involutae observentur. Hae vero, nisi attente consideranti, sensuumqne aciem ad obiecta convertenti, innotescere non possint, ut experientia patet: recte infertur eo clariorem fieri ideam, quo plura possunt in obiecta distingui; adeoque ad claram idean adquirendam requiri sensus cum attentione coniunctos, qua deficiente, ideas fieri deteriores Esenplo sit hono in maxima distantia constitutus, qnem qui vilet, primo dubius hae ret, utrum corp is quidlibet sit, an vivens; deinde in obiectum illud oculorun aciem attente convertens, a motu animal esse comperit, sed cuiusnam speciei, nescit; propius vero accedenten, ho nisen distinguit; tandem ex corporis habiti, facie, aliis que circumstantiis Titium agnoscit. Vides quan attente spectator consideraverit, ut Titium cognosceret! Quem admodun ideae meliores funt, si ex obscuris clarae evadant, ex confusis distin ctae, ex inadaequatis adaequatae: ita deterio res redduntur, si ex claris fiant obscurae ex distinctis confusae ex adaequatis inadaequatae. Quia vero ab attentione penlet claritas idearum, eaque gralus habet, nec semper, aut in omnibus eadem est: liquet res alias aliis clarius a no 7 38 Logic. Pars 1. bis percipi posse, ideoque obscuritatem dari non modo ABSOLVTAM sed RELATIVAM. Hinc obscuritatis caussam plerumquc in hominibus, raro in re percepta quaeren dam esse; ac proinde praecipitanter iu dicare illos, qui absolute obscura esse di cunt, quae eorum superant captum: quo ut quae ignorant (ut Aesopica vul pes ) exsecrentur. * Obscuritas vel absoluta est, vel relativa. Illa habetur quum res percepta ab aliis prorsus internosci' non potest; haec autem, quando rem qampiam aliqui subobscure, quidam clar re, clarius alii percipiunt. Quod quum acci dit, illorum claritas respectu maioris horum claritatis est obscuritas relativa. fit Quoniam autem ad idearum clarita tem utramque facit paginam attentio, qua deficiente deteriores fiunt: con Sequens est ut obscurae eyadant perce ptiones, si alicui meditationi defisi alia percipiamus, vel si unico actu plura aut animo subiiciamus, denique si ab una perceptione ad aliam celerrime transeamnus. Et quia adfectus attentionem turbant, ut cxperientia docet: infertur menten adfectibus agitatam ad ideas cla ras vel numquam, vel raro admodum per, venire. Adfectus enim sunt motus quidam vehementiores appetitus sensitivi ex idearum obscuritate, et confusione orti, de quibus abunde in Psy chologia disseremus, adeoque iis praedominan tibus nullae, nisi obscurae confusaeve ideae haberi possunt. Si namque in ideis claritas et distinctio adesset, nullis adfectibus animus ve xaretur. Hinc ergo est, ut a Philosophis ad fectus inter errorum caussas enumerentur. Exemplo sit homo ira aestuans, qui donec ea agitatur, nec res clare percipere, nec perce ptionum suarum conscius esse potest. Vid. Seneca de Ira, et apud Virg. Aen. Furor, iraque mentem prae cipitant.Vides hinc, obscuritatis caussas easdem esse, quae attentionem turbant vel minuunt: nem pe distractionem, obiectorum multipli citatem, praeproperam festinationem, denique adfectuum praedominium. Quae omnia mentem frustra fatigant, et ad proficiendum în studiis ineptam reddunt. Sed quia Philosophus non solis stare sensibus; rerum autem latebras et recessus idest caussas et rationes inve stigare debet: per se patet 10. eum claris notionibus adquiescere non pos adeoque il. in distinctarum et adae quatarum perceptionum statu versari debe re ut infra dicemus. se; Clarae namque ideae attento sensuum usu ad Logic. Pars I. quiruntur; sensus autem, ut mox adparebit, res tantummodo exsistentes confuse repraesentant', in quarum cognitione nullum ra tio habet exercitium: nihil ergo Philosophus age Tet; nec hihim quidem in scientia proficeret si claris dumtaxat ideis contentus rationem ne gligeret, nec in caussarum inve stigatioue adlaboraret. Eadem experientia docet, nos re rum quas clare percipimus, vel notas sive characteres quibus ab aliis discer nuntur, distincte nobis sistere posse, eo rum scilicet ideam claram nabere; vel characteres illos invicem non posse digno sive ipsos obscure percipere. Re praesentatio clara' notarum obiecti, quod percipimus, idea dicitur DISTINCTA: repraesentatio contra notarum obscura, vo catur idea CONFUSA. Idea clara proin de merito dividitur in distinctam, et con fusan. seere 8 Si quis invidiam novit esse taedium ob alterius felicitatem, illius characteres sibi clare sistit, adeoque invidiae ideam habet distin ctam. Si vero coloris nigri notas distinguere nequeat, licet eum ab aliis coloribus discer nat, ejusdem ideam habet confusam: uti sunt omnes ideae colorum, saporum, sonorum, odo rum, etc., quorum characteres prorsus igno ramus. Distinctio haec a Cartesio, et Leibniz E. Cap. I. De Ideis. 41 tio inventa fuit: alii namque grammatica vo cum significatione decepti, ideas claras'ét di stinctas obscuras et confusas 'unum idemque esse docebant. Quum idea distincta sit notio clara notarum; ad claritatem autem notionum permultum conferat attentio: consequens est ut clarae ideae di stinctae fiant potissimum attentione, qua deficiente, etiamsi distinctae sint, confu sae evadant. Et quia singulae notae peculiaribus gaudent nominibus, qui bus exprimuntur: infertur CRITERIVM ideae distinctae id esse, si cogitala nostra aliis.cxponere, atque con is com municare queainus; oppositum autem ess: indicium ideae confusae. Hinc idcas confusas aliis referre volentes, objecta, quae confuse percepimus, ipsis ostendere, vel cum alia re, de qua ideam habent claram, comparare debemus. * Res clarior fiet exemplis supra allatis. Qui notionem invidiae habet distinctam, is eam verbis explicare poterit: quod recte ex sequetur, si notas, quib:is a:lfectuš iste ab aliis distinguitur, eau neret. Contra ei, quo modo coloris albi aut rubri nolas proferet, ut cum aliis eius notionenı corninunicet? Pro cul dubio, ut ab illo intelligatur, colorem illum, aut rem quampiar confuse perceptam, ipsius oculis admovere, vel cum alia re iarna nota conferre oportebit, sicque in altero con fusa quoque idea orietur. Hinc est, ut colo rum ideas coeco nato nullo modo explicarc possimus, isque visu carens nullam, nequi dem obscuram, umquam huiusmodi notionem adquirere queat. Porro rei, cuius distinctam habe mus ideam, vel omnes novimus characte res ad eam in statu quolibet agnoscendam sufficientes, et tunc idea distincta erit COMPLETA; vel quosdam tantum eosque insufficientes, eaqne INCOMPLETA dicetur. * Idea ergo distincta dispescitur in completam, et incompletam. Sic invidiae idea iam tradita completa est: adsunt enim notae sufficientes ad eam in statu quolibet internoscendam. Si ve ro hominem cum Platone definires per ani mal bipes implume, notionem haberes incom pletam: * hae namque notae non sufficiunt ad hominem semper ab aliis rebus discernendum, ut ostendit Diogenes Cynicus, dum hanc Pla tonis sententian irridendo improbavit. Nec eam postea coinpletam reddere potuerunt Platonis discipuli, addito latorum unguium charactere: nusquam enim homines a simiis discernere illa nota valebat. Laert. Lib. VI. cap. 2. segm. 40. ** Licet duo clarissimiViri Leibnitius, et Wol. Cap. 1. de Ideis. 43 fius semper et ubique in eamdem sententiam ierint: in hoc tamen hic ab illo discessit. Quumque Leibnitius omnem ideam distinctam completam esse docuerit: Wolffins contra eam in completam, et incompletam dividi debere, docuit et demonstravit. a Denique eadem experientia edocti scimus, nos quaedam ita percipere, ut non solum eorumdem characteres singilla tim agnoscamus, sed et novas characte rum notas enumerare queamus;. quorum dam vero solis distinctis ideis adquiescere. Quum notarum characteristicarum notione gaudemus distincta; idea totalis erit ADAEQUATA; quum antem notas neb; confuse repraesentamus, idea oritur INA DAEQUATA. Quo fit, ut distinctam ideam rursus dividanius in adaequatam, et inadaequatam. E. g. Si quis invidiae notas rursus evolvat, sciatque taedium esse sensum imperfectionis, et felicitatem determinet per siatum durabilis gaudii: is invidiae idlea adaequata gandebit. Si vero in solis invidiae characteribus ail juie scat: nec ulterius in iis evolvendis progredia tur, tunc ideam habebit inadaequitam. Ob servandum tamen, quod quo novas notas, donec fieri possit, invenire liceat, eo adaequatior evadet notio. Hanc porro doctrinam Leibnitio debemus, qui eam in Actis Erud. Acad. Lips. semper 44 Logic. proposuit, eumque suo more sequutus est Wolffius Logic. ANALYSIS IDEARUM est formas tio idearum adaequatarum. Quumque idea fiat adequatioi, si novos semper cha racteres invenire liceat: patet eo adaequatiorem fieri notionem, quo longius eius analysis procedere. Quoniam vero ob sensuura limites non possumus plura distincte percipere: infertur 16. nos in notionum analysi" in infinitum progredi non posse: ideoque quum ad notas vel simplices, vel cuique claras perven. tum fuerit uiterius eam instituere prohi bemur. Notionum analysis Medicoruin anatomiae simi lis est. Quemadinodum enim Medici corpus humanum in partes dividunt, easque depuo in alias aliasque particulas resolvunt, donec ad exilissima tandem filamenta perveniant, om nes interim earum connexiones, structuram, et proprictates attente perscrutantes: ita et Phi Josophi idearum noías singillatim perquirunt, easque iterum atque tertio in novas notas mente resolventes, minima quacque adcurate contemplantur. Sicuti ergo Medicis, quum ad indivisihiles particulas pervenerint, eas in novas rursus se care non licet: Philosophis etiam ea facultas Cap. I. De Ideis. 45 ademta est in analysi notionum, si vel ad simplicia et indivisibilia, vel ad clara et evi dentia fuerit pervenlum, vel finis obtentus sit, ob quem fuerat analysis instituta. SECTIO II. De obiectiva, sive materiali idearum differentia. 28. Haecaec de divisione idearum formali. Ad, materialem, sive obiectivam quod at tinet, primo res, quas nobis repraesen {are possumus, vel sunt exsistentes, vel proprietates iis communes. Quidquid exsi stit dicitur INDIVIDVVM, sive RES SINGULARIS: individuum autem defiuiri po test id, quod est omnimode determina tum. Repraesentatio ergo individui vo catur idea SINGULARIS sive INDIVI DVALIS. E. g. “Socrates”, “Plato”, Aristoteles, Caius, Titius, haec dumus, haec mensa, hic liber quem legis, sunt individua, quia in unoqucque eorum adsunt tales circumstaniiae et detern ina tiores, ut Socrates sit Socrates, et non Plato, Caius sit praecise Caius, et non alius: ita ut si aliqua earum desit, desinant esse quae prius erant. Hinc individuum idem est cum uno mathemat.co, quod concipitur tanquam individuum in se, et ab aliis separatum. Iu re igitur individuum res singularis; ideoque eius perceptio singularis pariter adpellatur. Quamvis autem individua sint omni mode determinata hoc est innumeris circumstantiis involuta), quae efficiunt, ut ea longe inter se differant: bent tamen aliquas determinaliones, in quibus perpetuo conveniunt. Harum de terminationum complexus aliam ideam su periorem constituit, quae SPECIES dicitur. Non iniuria ergo species a recentio. ribus definitur per similitudinem indivi duorum. Determinationis vocabulum, licet barbariem redoleat, iure tamen hic a nobis adhibetur, et quia civitate donatum, et oh termini pu rioris deficientiam. Absque definitione por, ro sumitur utpote experientia seusuque com muni satis notum; eius vero completam no tionem dabimus in Ontologia, ubi methodici rigoris amatóribus abunde satisfiet. E. g. Socrates, Plato, Caius, Titius, licet aetate, ingenio, roribus, conditione, habitu, ceterisque inter se multum distent, habent tamen commuue corpus organicum, et animain ratione praeditam. Duae hae de terminationes speciem constituunt, qnae ho m, dicitur. Hinc vides, haec omnia individua in eo siunilia esse, quod sint homincs. Si plurium specierun pariter cir cumstantias consideremus videbimus eas in plurimis toto, ut aiunt, coelo differre; in aliquibus vero perpetuo similes esse. Atque hae determinaciones, in quibus spe. cies, licet diversissimae, perpetuo conve. niunt, novam ideam, eamque supremam, constituunt, quae GENVS vocatur. Genus ergo recte definitur per similitudinem specierum. E. g. “homo”, “equus”, leo, canis, quantumli bet in tot determinationibus invicem diffe rant, habent tamen in vita et sensione con venientiam. His circumstantiis conflatur genus, cui animalis nomen inditum. Observes ita que, omnes illas species in hoc esse per petuo similes, quod animalia nominentur, adcoque legitimam esse definitionem generis traditam, 31. Quum genus sit similitudo specie rum (S. 30. ), idque constituatur a com plexu circumstantiarum, in quibus species perpetuo conveniunt; in speciebns autem aliae determinationes exsistant, quibus il lae inter se differunt: sequitur 1, ut non abs se harum proprietatuin di versificantium summa a Philosophis voce tur DIFFERENTIA SPECIFICA * E. g. Invidia et commiseratio id habent commune, quod sint taedium. En genus. In eo ve ro differuut, quod invidia sit taedium ob alte rius felicitatem; commiseratio vero ob infelici tatem. Id ipsum constituit differentiam specificam. 32. Repraesentatio, quae exhibet pro prietates rebus exsistentibus communes, di citur idea VNIVERSALIS. Et quia notio nes generum et specierum determinationes continent pluribus speciebus vel individuis communes: infertur ideas generum et specierum esse universa Jes. Rursus quoniam hae ideau couficiun tur, si determinationes aliquas ab aliis se paratas consideremus; unum vero sine altero considerare dicitur AB STRAHERE; liquido patet 3. ideas uni versales esse quoque ABSTRACTAS. Hinc est, ut vulgo dicatur, ideas esse vel concretas, in quibus omnes simul adsunt de terminationes; vel abstractas, quae aliquas tantum exhibent mentis abtractione ab aliis seiunctas: quod idem est, ac si dicas, omnes ideas vel singulares esse, vel universales. Ex dictis porro consequitur 4. ideas universales non exsistere, nisi in singula ribus, nempe speciem ac genus nusquam inveniri, nisi in individuis; adeoque 5. plus esse in individuis, quam in specie; plus quoque in speciebus, quam in genere.  Ex quo patet 6. quam scite Logici pro puntiaverint: Notionis extensionem esse in retione inversa comprehensionis. * Regula haec aliter ab aliis enunciatur, sci licet: Ono maiorem habet idea comprehensio nein, eo minorem habet extensionem, ct con tra. Comprehensio dicitur complexus determi dationum, quae ideam aliquam constituunt. Ex tensio vero est consideratio subiectorum, qui bus delerminationes illae tribui possunt. Vid. la Logique, ou l'art de penser. Quum ergo individuum omnimodas determina tiones complectatur, ad unum tantum subiectum extenditur; genus vero paucissimas comprehendens circumstantias ad plu rima subiecta referri, nemo non videt. Posita igitur regulae illius veritate, nullo negotio intelligitur 7. nec ab individuo ad speciem, neque a spe cie ad genus umquam posse duci conclu sionem; ac proinde 8. non licere generi tribui, quod speciei convenit, aut ab illo removeri, quod huic repugnat; contra vero a genere ad speciem, atque ab hac ad individuum bene concludi, ideoque individuo dandum, quod speciei convenit, pariterque speciei tribuendum esse quidquid generi convenire observatur. Et recte ! nam nam in individuo comprehensio maior est, extensio minor, quam in specie, ut et in hac relate ad genus. Quidquid ergo de individuo enunciatur, eius proprietates differentiales; si ita loqui fas sit, respicit, quae in speciem non ingrediuntur: ac proin de de hac enunciari nequit. Eodem modo, quae de specie dicuntur, differentiam tantum specificam spectant: genus autem proprieta tes multis speciebus communes continet; adeo que speciei attributa nullo modo cum genere coniungi possunt. Res clarior fiet exemplo. Socrates est individuum, in quo omnimoda invenitur determinatio; id vero sub hominis specie comprehenditur. De So crate' recte enunciabis, quod fuerit philoso phus, quia attributum hoc ei convenit ob scientiam, qua praeditus erat, quaeque inter Socratis proprielátes individuales enumeratur. Possesne id de specie, idest de homine pronuntiare? Minime quidem: in determinationibus enim hominis specificis non scientia, sed scientiae capacitas, nempe ra tio ', invenitur. Contra hanc regulam peccare solent susurrones quidam, qui vitia vel de fectus in aliquo, vel aliquibus individuis for san occurrentia toti speciei, coelui, vel clas si imputare non erubescunt. Quum enim genus in specie, species pariter in individuo, contineatur): quidquid generi conyepit, cum specie coniungi; et quik uid speciei convenit, de individuo quo cap. de Ideis que enunciari debet aeque, ac ab his removeri quod ab illis discrepat.E. g. Animal sentit, ergo homo sentit: homo est intelligens, quia libet igitur homo intelligens est etc. Res exsistentes rursus vel inira nos sunt vel extra nos. Prioris classis sunt omnes animae actiones; posterioris vero obiecta quaecumque sensibus nostris obyer santia, vel mutationes in corpore humano ciusque organis supervenientes. SENSV INTERNO percipiuntur, sive REFLEXIONE, hae contra SENSIBVS EXTERNIS. Liquet ergo 10, ideas omnes singulares sola sensionc adquiri * Illae * Intra nos sunt affectus, et cogilationes vo strae, quae interno sensu, conscientia refle xione (haec opinia idem significant ) perci piuntur. E. g. si quis tristitiam, vel metum sentiat, ciusque idcam sibi formet, hanc sensu intern:), sive conscientia, nempe atlen tione ad proprias actiónes adplicatà, adqui sivisse dicitur. Extra nos porro sunt omnia alia obiecta etsistentia sensibus obvia. Sic in deas omnes singulares, quaecumque illae sint, sensibus percipi, nemo ignorat: superfluun enim ' esset id ' exemplis illustrare. Cuilibet autem de plebe noturn est, exter sensus quinque numerari, visum nein pe, auditum, olfactnm, gustum, et tactum, nos. iisque totidem organa esse destinata; visui scilicet cculum, auditui aurem, olfactui na res, gustui linguam, tactui denique specia tim manus, generaliter vero totam corporis humani superficiem. 36. Quum ergo res exsistentes sensibus percipiantur; ideoque ideae sin gulares sensione adquirantur; ex singula ribus vero universales sola mentis abstra ctione formentur: liquido infer tuir 11. omnes ideas vel SENSIÚNE, vel ABSTRACTIONE fieri dooque adeo esse ideas adquirendi mcdos. ** * nem * Et hoc est, quod a multis docelur, omnes ideas partim SENSIONE, partim ABSTRACTIONE, partim CONSCIENTIA, vel REFLEXIONE adquiri. Vid. Heinec. Logic.Nos enim sensio cum conscientia et reflexione confundi debere. Addunt alii tertium adhuc ideas formandi modum ARBITRARIAM scilicet COMBINATIONEM, veluti quum quis ideam hominis cum idea equi componit, novamque Centauri notionem conficit: cuius census sunt etiam notiones montis aurei, intellectus perfectissimi etc., quae nihil aliud revera sunt, nisi ice rum prius sensione adquisitarum combinatiores ab intellectu, vel phaniasia in unum redactae, pro quarum veritate generalem tradunt regulam: Si ideae arbitrio coniunctae sibi con tradixerint, impossibiles sunt, adeoque fal sae (quae alio nomine CHIMERICAE, a Scola sticis ENTIA RATIONIS vocantur ); si vero inter se non repugnent, pro possibilibus, adeoque pro veris sunt habendae. TITIAS esse. Ex quibus omnibus plane consequi tur 12. recte adfirmari a Philosophis, i deas omnes ex earum origine vel ADVEN. vel FACTITIAS. * INNA TAE namqne ab omnibus negantur, quid quid de iis praedicent Plato, Cartesius eorumque asseclae, quorum tamen au ctoritas tanta non est, ut eorum insomniis a sanioris Philosophiae cultoribus praebea tur adsensus, ut in Psychologia distinctius adparebit. Per adventitias enim intelligunt notiones sen sique adquisitas: per fictitias vero illas quae vel abstractione vel arbitraria combinatione fiunt. Plato namque animas humanas ab aeterno praeexsistentes posuit singulas singula astra inhabitantes, qnibus Deus monstruvii universi naturam, ac leges frtales edixit: sed quum a diis inferioribus Dei ministris mones 'vocat in corpora fatali necessitate inclusa fuissent eo rum omnium, aeternis ideis prius e rant intuitae, statim ob quos dae. quae in Jitas, non nisi longo sensuum usu, àc nedita tione pristipam cognitionem recuperare. Plat. in Timaeo. Hinc vulgatum eius effatum: Stu et discere idem esse, ac reminisci. CICERONE – TUSCUL. QUAEST. Illas ergo ideas, quas antea habebant, vocavit innatas. Sed quum id purum putumque sit Platonis som nium, nequaquam erimus de eo refutando solliciti. Cartesius hoc nomine donavit facul tatem homini competentem omnia intelligibilia videndi. Respons, ad art. 14: progranm. ann. Sed pèr hanc rectam rationem intelligi, quisque videt, quam proin de ideam adpellare est potentiam cum actu confundere. Cartesiani denique per ideas in natas intellexerunt axiomata quaedam eviden tia, quae ab ipsa cogitaudi facultate ortum ducunt, veluti: totum csse maius qualibet sui parte; non posse idem simul csse, et non esse ctc. At quis rerum omnium ignarus iguo rat, haec esse pura judicia, quae a termino runi illorum relatione, ac ab ideis totius et partis, exsisteniiue et non exsistentiae, sen su et abstractione prius adquisitis immediate pendent? Quae quum ita sini, ideas invatas nullo modo dari posse, merito concludimus. 38. Ideae praeterea sunt aliae SIMPLICES, a quibus nihil mente abstrahere pos sumus, aliae COMPOSITAE, bus per mentis abstractionem plura divi dere, atque invicem separare licet. in qui Ex quo necessaria consequutione conficitur 13. simplices ideas claras esse, at confu sas; compositas vero etiam distinctas. Tales sunt ideae omnes colorum, sonorum saporum, voluptatis, taedii, quas ideo aliis explicare non possumus, nec illarum chara cteres invicem discernere, ut ita üs'definien dis omnino incapaceś simus. ** Sic in idea mensae cuiusdam separatim con siderare possum matericm, formam, figuram, colorem, magnitudincm, et id genus alia. His addunt aliqui ideas ASSOCIATAS, si ve coniunctas, eas scilicet, quae ita simul a nobis adquisitae sunt, ut quum una nobis occurrit, altera quoque menti obversetur: veluti si rosain olim videns odoris simul no tionem accepi, quotiescumque odorem illum sentio, rosae etiam idea menti fit praesens.Denique quuin vel substantias, vel modos, vel relationes pobis repraesentare queamus, ideae sunt vel SVBSTANTIARVM, vel MODORVM, vel RELATIONVM. Per SVBSTANTIAM intelligimus ens, cui atiributa ei accidentia tan quam subiecto,: veluti inhaerere concipiuntur, MODI sunt adfectiones, et attributa substantiis inhaerentia, a quibus + D4 56 Log. Pars I. sola mentis abstractione separantur. RELATIONVM denique ideae sunt, quarum unius consideratio alterius considerationem includit ita, ut haec sine illa non possit intelligi. figura, Veluti diximus, ut nostram imbecillitatem adivemus: id enim in substantiis creatis lo cum habet, non autem in increata, in qua nulla inter essentiam et attributa, nec inter ipsa attributa realis distinctio dari potest, ut in Theologia naturali demonstratum ibimus. MODI vero sunt vel INTERNI, si in ipsa substantia. occurrant, ut dimensio, color etc. in corpore; vel EXTERNI, si in hominis mente sint, et tamen substantiae tribuantur, veluti quum dicimus- virtutem ma sni aeslimatam, quae tamen aestimalio est in hominum opinione. Relationes sunt ideae omnes quantitatum, item Patris, Domini, Regis, et cetera id ge pus. Videatur abunde ea in re Clericus in Logic, et in Arta Grit. Ex quibus plane colligitur 14. nas in substantiis nihil aliud cognoscere, nisi mo dos, ips4s vero substantias prorsus ignora re; idcoque  substantiarum ideas esse in relatione ad mentem nostram omnino sed tantummodo abstractas et confuses, ram intelligibiles;. quinisomo ló. rerun natu eo magis agaosci, quo plures modi nobis innotescunt; maximam adhiben dam esse cautionem in perpendendis re lationibus, ne vel earum fundamentum non recte considerantes, vel absolute de relativis ideis enunciantes, praecipitantiae errorisque arguamur, * Quantum haec doctrina roboris habeat in se dandis hominum adfectibus, dici profecto, non potest. Exemplo sit is, qui se paupe rem esse dolet, quia divitum opes non ha bet, et id absolute profert. Si vero relationis pondus expendat, observetque alterum omnia bus necessariis rebus egentem: declamare de sinet, quia sibi tantum superflua desunt. Be ne ergo Seneca in Troad. Est mi ser nemo, nisi comparatus, Schol. Explicatis iam notionum diffe rentiis, ad huius doctrinae usuin acMilanius, quem paucis, iisque perutilibus, include mus regulis. Quisquis ergo Philosophiae operam navas si solidae cognitionis es cupidus, sequentes animo infigito. CANONES. i. Curato, ut rerum, quas pertra ctare cupis ', claram semper et distin ctam cognitionem adquiras: attentionem proinde, quae ad idearum perfectionem utramque facit paginam, in omni re adhibeto. Quoniam vero Matheseos studium mirifice at tentionem acuit: hinc est, ut hodie studio rum initium a Mathesi capiatur, exemplo Platonis., qui neminem erudiendum suscipie bat, nisi Geometria instructum. 2. In studendo praeproperam vitato festinationem; praecipue in primis scien tiarum principiis diu haereto, nec, nisi iisiprobe intelleétis, ad cetera pergito. Quantum enim festinatio idearum claritati osobsit, diximus in. 21. adeoque in adole. soentibus naturalis illa festinatio, et praeci pitantia caute est obtundenda, ne superficia rie discant et errores saepe labantur. Vnde VERVLAMIVS opportune docuit: Ius venum ingeniis, non plumas vel alas, sed plumbum el punderą auditinus. Caveio, ne nimia rerun varietate mentem obruas, neve plura semel simul que addiscenda putes. - Panca discito, eaque bune digesta contemplator. * Quum eaim attentio ad plura dividitur, minor fit atque inepia: proindeque ideae deteriores fiant: ita ut de iis perbelle dicat Seneca Ep. 2.: Nusquam est, qui ubique est. Qua de re Plinius VII. ep.9. praeclaram il lud monitum studiosae iuventuti perutile prae buit: Non multa 7, sed multum. to 3 * AC 4. Priusquam ulterius progrediaris ad idearum tuarum relationem attendi si qua sitt:: ne relativa pro absolu tis accipiens in errores incidas, 5. Mentis solitudinem, animique tran quillitaiem amato; ne affectibus attentionem iurbes, iran, tristitiam, an liaque pathemata; adeoque sodalitates, compotationes., spectacula fugito. ** * Bene monuit Ovidius Tristium l. v. 30. Carmina proveniunt animo dédlicta serenos Comessationibus enim corporis inertia aus getur, mens obstupescit et habetatur, ani mus ad voluptates inclinatur s spectaculis ve vero attentio distrahitur, i sensimqué a studüs animus avertitur, quo fit, ut aut nullae ad quirantur ideae, vel saltem obscurae, a qui bus errores ortum ducere infra docebimus. aut mie 6. Quae legisti, audivisti > ditatus es, ita familiaria tibi reddito, ut eorum notas aliis indicare queas. Ea proinde vel in chartam coniicito, te ipsum saepe examinaudo, idcarum tuarum distinctionem experitor. vel * Stilum CICERONE vocat oplimum, et praest an tissimum dicendi effectorem, et magistrum. De Orat. Notum est vulgatum illud; docendo disci mus. Rationem huius canonis invenies supra.  nes, utpote rei immaterialis a stiones, nullo modo sensibus percipiuntur: ea non nisi signis, quae in sensus incur ruot;; abis potefieri possunt. SIGNUM enim est, res quaedam sensibilis quae praeter sui notionem excitat in mente ideam alterius rei, Sed quum ideae ng  ** strae ordinario vel voce, vel scripto patefiant: binc prioris gencris signa VOCES, posterioris TÈRMINI, ntraqne vero VERBA dicuntur. Hinc verba per idearum nostrarum signa recte definiuntur, ut et voces signa quaedam sono articulato prolata, mentis nostrae conceptus indicantia. Signa quidem generatim appellantur, quia praeter soni vel scripturae; nationum nostrarum ideam in audientibus vel legentibus excitant. E. g. Lacrimae sunt signum tristitiae: quia quum hominem videmus lacrimantem, illico eum tristitia adfectum esse cogitamus. Fumus quoque est SIGNVM ignis, quia eo viso non solum fumi, sed ignis etiam notionein ad quirimus. Quae de signorum diversitate Scha Jastici docent  utpote ad rem impertinentia, praetermittimus: astin Ontologia quaedam observatu digna obiter attingemus. Cave tamen credas, voces esse SIGNA conceptuum necessaria. Quum enim eaedem res non iisdem vocibus a diversis gentibus exprimatur: liquet, tas ab hominum ARBITRIO pena der, adeoque esse SIGNA conceptuum arbistraria. Cuique vero notum est, ad sona nar ticulatum sex requiri, nempe PVLMONES, qui follis vice funguntur, ORGANUM VOCIS scilicet trachea, eique apposita larynx cum suis apparatibus; LINGVA, cuius vis Braliones vocem prae ceteris articulatam red dunt; PALATVM, nempe fornicem, ubi lingua stras vid rationes exercet; quatuor DENTES incisores dicti, quibus sibilantes litterae efformantur, et in quos nedum lingua, sed et labia vibrant; ac denique LABIA, quae in se invicem et in dentes, inpingunt, ut fu sjus coram ostendemus. Ex qua definitione patet verba et voces inter se differre: quum verba et iam scripto, voces autem non nisi sono articulato proferri possint. Nos ideo voces adhibere, ut ab aliis intelligamur; proindeque. Iita loquendum, easque vo ces adhibendas esse, ut alii, quibuscum loquimur, mentem nostram intelligere pos sint; adeoque non licere terminis in anibus vet notionem deceptricem continentibus uti; sed tantum ii, qui ali quam notionem habent adlixam; quitinimo, singulis terminis eamdem semper ideam, eamque claram, respondere debere; ideo que cos, qui vel obscuram, vel non semper eamdem exprimunt notionem, om nino esse proscribendos. Alterius vero mentem intelligere dicimur quum, terminis easdem notiones adggimus, quas loquens cum iis coniunxit. mus TERMINUS INANIS dicitur, qui nulla, habet notionem sibi coniunctam: adeoque nis hil, praeter solam soni ideam, excitare potsest: quapropter vocari solet vor mente case' sâ, vel sonus sine menie, a Scholasticis terminius insignificativus. Talis est versus ille, quemia Nimiodo prolatum in infimo Tartari aditu fingit Dyinus Poeta Etruscus: Raphel mai umech zabi alini. ALIGHERI Inf. cant: Quoties autem vocem proferentes, aliquid cogitare videinur, quum tamen nihil cogita puldaunque sententiam cum ea donium ginius: tunc terninus ille NOTIONEM DECEPTRICIM continere dicitur. Huiusmodi sunt casus Epicuri, sensibilitas physica Hel yetii, historia e rationis penu depromta Boulangeri et Rousseau, quorum analysin cora, et in Metaphysica conficiemus. Si nam que vox aliqua vel non eamdem seniper, vel obscuram notionem habeat adfi xam. In primo casu auditor dubius haerebit, quamnam cum ea loquens, coniunxerit ideam, adeoque cui non intelligent. In secundo ves ro, quomodo mentem eius poterit intelligere, qui se non intelligit TERMINVS CLARVS est, qui claram coiitinet notionem, OBSCVRYS, qui eamdem habet obscuram. Terminusi qui eamdem semper exprimit ideam, FIXVS vel DETERMINATV; qui vero incon der stantem vagunite tabet significatum, VAGVS aut INDETERMINATVS dicitur, Plurės autem termini eandem rem significantes, SYNONYMA, sive termini synonymici. adpellantur, Scolasticis eum adpellare placuit univocum, sive unicam rem indicantem, ut ignis, aqua, A Scholis dicitur “aequivocus”, hoc est plura aeque significans. E. g. Cultus varios habet significatus: saepe enim pro adoratione Deo debita: quandoque pro honore: nonnumquam pro corporis, vel animi decore; non raro quo que pro telluris cultura accipitur, Tales sunt gladius, ensis, qui idem ar morum genus exprimunt. Eos e Scholis qui dam vocant “paronymos”, id quod ad intelligendas barbaras huiusmodi loquutiones breviter adnotavimus. Non heic inquirere licet: utrum in quolibet idiomate revera dentur synonyma? quaestio namque haec ad philologiam pertinent. Philosophia contra in exprimendis animae cogitationibus usum loquendi servat, et colit, quem penes arbitrium est, et ius, et norma loquendi (Horat. De Art. Poet.). Terminus CONCRETVS est qui qualitatem expriinit sabiecto inhaerentem, ABSTRACTUS vero qui qualitatem illam a subiecto separatam indicat, Terminus PROPRIVS dicitur, quando rem exprimit, cui significandae est destinatus; IMPROPRIVS vero, sive METAPHORICVS ad rem aliam indicandam transferatur ob quamdam similitudinem. si Sic “pius” est terminus concretus, “pietas” terminus abstractus, Concretus porro a Wolffio dicitur, qui notionem exprimit concretam (sive singularem); abstractus contra, qui ideam continet abstractam (sive universalem ).  Haec autem omnia idem significant. E. g. Vox oculis proprie sumitur, si organum visui destinatuin indicet. Ubi vero Cicero Corinthum Graeciae oculum adpellat, eius uippe ornamentum ac pracsidium: improprie sive metaphorice vocem illam usurpat, Hinc vide, voces improprias esse vagas et indeterminatas. USVS LOQVENDI est significatio vocum in communi sei mone propria. At quoniam in familiari sermone voces aliquae occurrunt quas intelligimus quidem, li, cit ad notiones ipsis adiixas animum non hae voces dicuntur termini FAMILIARES, et ad usum loquendi non advertamus pertinent, Si quis ergo oculi vocem ad significandum organum sensorium visui destinatum usurpet, is loquendi usum servabit. Tales sunt voces omnes, quas frequentissime proferimus, ac memoriae mandavimus: ees enim intelligimus, sed usu et consuetudine adeo familiares evaserunt, ut eas proferentes ad sensum notionesque ipsis adfixas nusquam attendamus. Patet igitur Philosophum servare debere usum loquendi, adeoque terminis claris, fixis, atque in sensu proprio usurpatis ei utendum esse. Quod idem est, ac si dicas a terminis vagis, obscuris, impropriis, et familiaribos esse abstinendum: aliter enim non intelligeretur. Hic porro. Ex pluribus vocibus inter se apte connexis oritur SERMO, sive ORATIO sive PROPOSITIO. Definitur autem sermo per nexium plurium terminorum mentis nostrae conceptıbus exprimendis idoneum. а Logicis dispesci solet in CIVILEM, et TECHNICVII, sive eruditim, quorum ille in vita civili ab omnibus; hic in coinmunicandis ideis ad disciplinas pertinentibus, vocabulorum technicorum pe, ab eruditis adhibetur. Nisi enim ideis nostris explicandis sit idoneus, non sermo, sed confusus inanium vocum cumulus dici poterit. Dicuntur autem verba, vel voces technicae, quae ideas scientificas quibusdam disciplinis peculiares, usu annuente, exprimunt: cuiusmo di non pauca occurrunt in qualibet disciplina. Schol. Quae hactenus de vocibus dicta sunt, inania faere evaderent, nisi doctrinae usum auditoribus nostris ostenderenus. Quae igitur de iis observanda putamus paucis, isque tam familiari quain erudito sermoni inservientibus, complectemur re gylis. Philosophus ergo noster scquentes observet CANONES. Antequam oum aliis congrediaris, tecum attente perpendeto, quid cogites: Cogitationes porro tuas totidem vocibus exprimilo, quot ideas hubes. Quantum adiumenti adfcrat hic canon adolescentibus, ia promtu est. Quun enim fis familiarissima sit inanis illa et garrnia loquacitas, fua fit, at persaepe in te veritatis notam incurant des alimchanab inconsiifera to loquendi puriniz násvatur; facile parei, cur qui cogitationibus suis atteindlit', nulla, nisi benedigestum, emitiere posse verbum. Caveto, ne ideam soni habens, rei quoque notionem habere te credas; aut voces coniunctas intelligere quas disiunctas intelligis. Falluntur enim persaepe homines, quum ter minos inanes, et notionem deceptricem con. tinentes effutiunt, in quibus solam ideam $ 9. ni habent, et nihil cogitantes aliquid se cogitare creduat. E. g. Idea materiae et idea cogitationis possibiles sunt, pariterque voces, quibus illae exprimuntur singulae intelliguntur. Coaiunclae vero impossibiles evadunt, atque adeo intelligi nequeunt. Ecquis enim materiam cogitantem exsistere posse imquam probavit? Vid. Inst. nostr. Meiaph.   eas 3. sum loquendi semper servato, nec novas temere cudito voces: quod si ad id quandoque necessitate cogaris, adcurate definito, ne obscurus fias. In hanc regulam peccatur, si quando vocabula technica, utut civitate donata, furene novitatis amore mutantur; iis novae voces substituuntur, quamvis rem, de qua a gitur, adcurate exprimant. Et si houe termini philosophici, reiecta barbarie, pristinae restituuntur puritati, ea non novatio dicen et proda est, sed renovatio, idest vocum ad pro prium avitumque decus restitutio Peregrina vocabula Latino, vel Italico sermoni ne iminisceto, nisi vel Tocendi, vel amici cuiusdam oblectandi caussa: alias eniin in paedantismum Empinges. Vid. Heineccium in Fundam. Stil. cultior. Id vero egisse Ciceronem ex eiusdem scriptis didacticis, et Epistolis ad Atticum abunde colligitur. Quum eniin paedantismus sit inanis glorio lae cupiditas in minotüs, ineptisque rebus sectandis quaesita; paedagogi vero, a quibus hoc nomen obvenit, id quoque habeant in vitio, qnod singulis verbis latinas interse runt phrases ac textos: ideo hanc notain incurruut quicumque, vel ad ostentandam e ruditionis niultiplicitatem, vel ob nimium tem poribus inserviendi studium, nullum, nisi pe regrino sale conditum, queunt formare ser monem. Si aliis displicere non vis, quoties cumque loqui oportuerit, modesto vultu atque amoeno fuam proferto sententiam: ne docere ex cathodrá potius, quam veruin dicere, videaris. 7Est et haec paedagogorum nota, qui pueris in docendo imponere adsueti, inagisiral e illud supercilium ubique servant, seque invisos au dientibus, maximo veritalis detrimento, red dunt. Vid. Buddei Oratio de bonarum littera rum decrcinento nostra aetate non tenere me tucndo. Dea rei distincia completa verbis expressa dicitur DEFINITIO. Res vero ipsá, sive definitionis obiectum, vocatur DEFINITVM. Ordo igitur po stálat, ut post'ideas earumque signa; bre vein de ddinitionibus tractationem hic sub iungamus, Quid sit idea distincta, et qua ratione ad quiratur, dixiinus supra. seq. De idea completa cousule, quae breviter do cuimus g. 25; diffusius enim hic, quae de illa dici merentur, enodabimus.Quemadmodum antem idea voce prolata di citur terminus, isque clarus si claram expri mat notionem; ad exprimendam, vero ideami distinctain, sive ' emuinerando; il dias characteres, non uno, sed pluribus claris opus est termiuis: ita complexus ille yocum, Cap. De definitionilus.hoc est idea distincta completa sermone expli cata, definitio dici consuevit; adeoque non abs re tractatus bic doctrinain sequitur ter minorum.  eas ** ne . Ex qua definitione consequitur 1. in definitione notas et characteres enume rari oportere, qui sulliciant ad definiturn in statu quolibet agnoscendum, et ab aliis rebus distinguenduin; notas tales esse debere, ut nulli, nisi so li definito in tota eius extensione, conve niant; quare 3. merito a Logicis ad firmari, definitionem neque latiorem que angustiorem sno definito, sed ipsi aco, qualem esse debere, ut sibi invicem sub stilui possint. Id autem, per quod res ab aliis rebus distin guitur, eius essentia a Metaphysicis adpellari consuevit: inde ergojest, ut definitionem Lo gici esse dicant orationem, qua rci essentia explicatur. Quia vero per extensionem intelligimus quod cuinque subiectum, cui determinationes ideam aliquam constituentes tribui possunt; perinde est, ac si dicas, definitionis notas tales esse debere, ut omnibus subiectis, spe ciebus nempe, et individuis sub definito con tentis conveniant. Porro inter characteres il los insunt proprietates genericae, et specifi Si cae, quae integram definili essentiam expo. nunt, et repraesentant. Non iniuria igitur adfirmari solet, definitionem ex genere et differentia specifica constare debere. Si namque definitio talis non sit, ut possit definito substitui, vel (ut aliis placet ) cam eo reciprocari, vel illo latior, vel angustior erit, adeoque deficiens. Substitutio autem in co consistit, ut definitio pro subiecto, defini tum pro attributo, et contra, adsumi possit. E. g. Spiritus est substantia intellectu et vo luntate praedita: contra vero substantia intel lectu et voluntate praedita dicitur spiritus. Ex eodem quoque fluit 4 in defini tionem ingredi non posse, nisi ea, quae Jei perpetuo et constanter insunt, idest ATTRIBUTA, vel ESSENTIALIA; proin deque locum in ea non habere ACCIDENTIA, seu MODOS. Quaenam sint essentialia, et attributa, pate bit in Ontologia. Id unum hic notasse sull ciet, tam essentialia, quam attributa rei cou stanter ac immutabiliter inesse: nam attributa sunt eiusmodi characteres, quorum ratio suf ficiens cur rei insint, in eiusdem essentia et natüra continctur: ut sunt tria latera et tres anguli in triangulo. Quoniam vero definitio est idea rei distincta; haec autem est no  nec tio clara notarum): sequitur ut ea vocibus claris sit exponenda, obscuri quidquam continentibus; ideoque 7. nec vagis, nec metaphoricis nec negativis terminis in illa sit locus. Imo vero 8. eam in vitio poni perspicuum est, si sit IDENTICA vel CIRCVLVS in definiendo committatur. Si tameu termini definitionem ingredientes ob scuri quid habere videantur, prius adcurate definiantur, ut claritatem adquirant. Sic in vidiae definitionein supra allatam nemini proferre licebit, nisi prius taedii si gnificatus alia definitione sit determinatus. Terminis negativis concipitur definitio > si explicet quid res non sit: ut si dicas, invi dia non est commiseratio. Hinc vides, eam esse vagam et indeterminatam, adeoque defi niti ideane inde oriri confusissim un, quod est contra definitionis indolem: Exceptio tantum datur in rebus contradicto riis nullun inedium adinittentibus, quarum una recte definita, altera negativis terminis explicari potest. Sic ens simplex non immeri to dicitur quod partibus caret, substantia, quae non exsistit in alio, tamquam in subie Definitio identica est, quae idlem per idem explicat, cuiusmodi suut nonnullae Scholarum cio etc. definitiones quas confusiones rectius dixeris. Exemplo sit quantitatis definitio ab iis allata per accidens, a quo res dicitur quanta. Quid, quaeso, haec verba significant, nisi quod quantitas sit quantitas? Cui vero usui definitiones istae esse possint, tironibus ipsis iudicandum relinquimus. Circulus enim Geometris est figura plana linea curva in se redeunte terminata: in defi niendo ergo circulus committitur, si in evol vendis definitionis characteribus, eorumque novis definitionibus formandis, in aliquam ipsarum definitum ingrediatur. Tunc enim per definitum explicaretur id, per quod defini lum ipsum explicari deberet; adeoque res re diret ad definitionem idemlicam, quae in vi to posita est. Illa notas et characteres e numerat sufficientes, quibus definitum ab aliis rebus in siatu quocumque discerni possit; haec autem rei definitae genesin et originem exponit, ** unde et GENETICA dicitur. * Per definitionem nominalem veteres intelligc bant grammaticam vocis explicationem, qua vel radix sive origo nominis investigabatur, et tunc Etymologia dicebatur: vel multiplex eiusdem significatio, eoque casu Homonymia; De definitionibus. 25 vel denique plures voces eumdem sensum ha bentes, et Synonymiae nomine veniebat. Quae enim nobis nominalis est, realis inter illos audiebat. ** Nominalis ergo est definitio spiritus, si eum definiveris per substantiam intellectu et volun tate praeditam: realis autem, si invidiam definias per taedium ob alterius felicitatem: in ea enim eiusdem caussa et origo explica tur. Vides hinc, nominales definitiones esse arbitrarias: reales contra necessarias. > 53. Si vero idea rei distincta quidem sit sed incompleta: tunc non definitio, sed DESCRIPTIO nominatur; adeoque in descriptione accidentia qnoque locum inve piunt, qnae quum in individuis tantum concreta observentur, hinc est, ut res sin gulares describantur, abstractae vero deti niantur; ** proinde illae Oratorun et Poe tarum hae Philosophorum propriae sint. Descriptio itaque, licet plures enumeret no tas; quam definitio, eas tamen ad rem in sta tu quolibet agnoscendam exhibet insufficien tes. Tales notae non exsistunt, nisi in rebus singularibus;, utpote omnimode determinatis: universales namque ab iis mentis abstractione erguntur, paucio resque adeo, ac sufficientes ipsis distinguendis continent characteres. Inde ergo fit, ut ha definiri possint, illae tantum describi. Intelligitnr hinc: cum generum et specierum definitiones apud Philosophos inveniamus, in dividuorum nihil nisi meras descriptiones Poetis ac Oratoribus familiares, et si ab his definitiones proferri videmus, eas vel incom pletas novimus, vel magno verborum ambitu expressas, ubi accidentia attributis, caussas effectibus permixta observamus, quas tamen Philosopho imitari nefas erit, quippe cui idearum analysis, essentiae rerum investiga. tio, verborum praeterea praecisio in deliciis esse debent. Schol. Superest, ut quae studiosae iu ventuti utilitatem adferre possunt, ea pau eis exponamus regulis huius doctrinae usum continentibus. Philosophiae igitur initiatus, si quid a studiis suis commodi percipere cupit, sequentes animo imbibat CANONES. Definitiones, utpote rei naturam et essentiam explicantés, ciim cura disci to, ' ạtque teneto. ' Iudicium porro cum m moria coniungito: ideoque aliorum definitionibus ne adquiescito; sed ope rum dato, ut eas intelligas, et ad tru tiram revoces. re Sunt enim, qui soli memoriae consulentes, quidquid in aliorum scriptis repererint, id omne discunt, ac turpe putant ab eo discedere. Hinc fit, ut si memoriae pondus inutile au feras, nihil, praeter arroquarov quoddam, maneat. Homunciones isti memoriae dumtaxat exercendae intenti, iudicii vero prorsus ex pertes, libros quosvis sine delectu memoriae mandare adsueti, innumeris snnt expcsiti er roribus; quotcnmque eorum oculis subiiciun tur. Ne igitur adolescentes, qui memoriam tantum in Scholis huc usque exercuerunt, eamdem premant viam, sibique pessime cou sulant: visum est, cautionem hanc eo neces sariam, quo prima scientiarum hic funda menta sternuntur, ipsis suggerere et inculca re, ut iudicium excolentes in aliorum senten tiis ad examen rcvocandis, et ad eruendas inde propria meditatione veritates apti red dantur. ver  In legendis Auctorum libris, prum phrasiumque lenociniis ne conti eto: sed ut sententiam ipsis subiectam lare, ac distincte intelligas, pro vi ili curato. Ita vitabitur stupida illa aliorum sententiis adquiescendi consuetudo, quae in caussa fuit, ut liberculi aliquot ex transmontanis, transma rinisque regionibus huc appulsi stilo quodam auribus pruriente tot incautos captarint adolescentes, quos inter crassae incredulitatis te nebras errabundos non sine magno dolore vi demus. Hi namque culpabili ignorantia verbis tantummodo adquiescentes, nec sententias in tellexerunt, nec eas ad trutinam revocare sunt ausi, iudicandi quippe facultate destituti. 3. Rerum, quas nondum distincte in telligis, definitiones proprio marte con ficito, ut ex iteratis' actibus, continua que exercitatione habitum in eo adqui ras. Res quidem non parvi momenti erit, multun que laboris impendendum, pauco forsan aut irrito eventu. Animo tamen non deficiant a: dolescentes: ab exiguis enim initiis maxima procedunt, atque experientia tandem, qui sit huius canonis fructus, addiscent. Poterit autem quisque imitando incipere, experiundo prosequi, ac notionum analysi sednlam na vans operam felici demum exitu proficere. Vi de quae docebimus infra. Caveto, ne res omnes definiri pos. vel debere, credas; * aut definitio nes verbis diversas re quoque differre putes. Videantur interim a nobis ante dicta G. 27. Gap. III. De definitionibus. 79 ¥ Si namque dantur synonyma, verba nempe et phrases eumdem habentes significatum, quidni definitiones illae verbis diversae synonymicis erunt expressae terminis, adeo que re unum idemque significare poterunt? 5. Si e Philosopho Orator aliquan dofieri cupis, definitiones pro definitis adhibeto: tunc enim auditorum animos inani verborum ambitu non fatig abis solidaeque doctrinae clarissimum dabis indicium. Exemplo sit elegantissima M. Ant. Mureti pe riodus Part. I. Orat. 1. ubi de laudibus Theo logiae acturus, amplificat syllogismun quam brevissimum has continentem propositiones: Facultas hominem Deo con ugens est omnium praestantissima. Egpyas a eius talis est. Nam si eorum omnium, quae in hac inmensa re rum universitate cernuntur, unumquodque per ficiendi sui desiderio tenetur; et animus no ster ad similitudinem Divinitatis effictus tan to perfectior est, quanto propius ad illud, a quo ductus et propagatus est, exemplar ac cedit: dubitari profecto non potest, quia ea sit omnium praestantissima facultas, quae, quoad eius fieri potest, cum humanis divi na copulando, mortalitatem nostram, quantum illius imbecillitas patitur, Divinae natura e ar ctissima colligatione devincit. Vides hic Theologiae definitionem, oratorio licet more pro latam, multum orationi pulchritudinis ac di gnitatis adferre. 6. Definitionem tuam, si ab aliis di stingui exoptas, efformare curato; id que obtinebis, si intellectuales morales que virtutes tibi comparare studueris. * Hi namque definitionis characteres esse de bent. Quod ni facias in vulgi turba confu sus eris, nomenque tuum in tenebris, ob scurumque manebit ila, ut vel patrio, vel alio adpellativo nomine indigitari debeas. Notional Otionum analysin in adaequatarum idearum formatione consistere, snpra iam ostensum est. Porro in hac o peratione ideam aliquam in partes, sive notas dividi, hasque rursus in alias disper tiri, quisque novit qui earum naturam habet exploratam. Tunc igitur idea illa ut totum consideratur, characteres autem ut eius partes: adeoque non abs re analysis idearum verbis expressa DIVISIO nominatur, quae recte definitur, quod sit to tius in partes resolutio. Quum autem in divisione novae notarum de finitiones suppeditentur: iure doctrinam hanc definitionibus subiungimus. Quoniam vero quidlibet ut totum considerari potest: variae totius relationes sunt enatae. Et quidem 1. totum essan tiale quod constat ex partibus ad ajus essentiam pertinentibus, totum integra le, compositum nempe ex corporibus, quorum snmma eius integritatem constituit, genus, quod plures species suo ambitu comprehendit, 4. subiectum, quod plura accidentia sustinet, accidens quod pluribus subiectis inhaerere potest, 6. caus sa, quae plures producit 7 effectus, qui a pluribus potet procedere caussis. Quidquid tandem pro ratione obiectorum, circa ' quae versatur in tot partes distribui potest, quot sunt objecta. Inde ergo est, ut va riae a Logicis tradantur divisionis species veluti TOTIVS sive essentialis, sive in tegralis, in suas partes, GENERIS in suas species subordinatas, SVBIECTI in sua Accidentia in suos effectus, EFFECTVS CAVSSAE, ACCIDENTIS in sua snbiecta, rei in suas caussas, denique caiusvis per sua OBIECTA. Primae classis est haec: Homo dividitur in animam et corpus; vel as dividitur in duo decim uncias. Secundae: Animal dividitur in hominem, et brutum. Tertiae: Homo est, vel doctus vel indoctus. Quartae: Bonum est. vel animi, vel corporis. Quintae: Philoso phiae dogmata alia intellectuin instruunt, a. lia voluntatem dirigunt. Sextae: Veritatis impugnatio, vel ab ignorantia, vel a malitia procedit. Septimae denique: Philosophia theo retica alia circa res corporeas, alia circa incorporeas et intellectuales versatur. Totum illud, quod in divisionem cadit, DIVISUM; partes vero, in quas dispertitur, MEMBRĀ DIVIDENTIA no minantur. Sin membra haec in novas rur sus partes resolyamus., SVBDIVISIO di citar. * * E. g. Homo dividitur in partes suas essentia les animam nempe et corpus; hoc autem in caput, truncum o et artus reliquos. En subdivisionem, Ex membrorum itidem dividentiam numero nova quoque divisionis oritur dif ferentia. Si namque duo fuerint membra Cap. IV. De divisionibus. 83 dichotomia sive DIMEMBRIS; si tres? trichotomia seu TRIMEMBRIS; quatuor tetrachotomia hoc est QVA TRIMEMBRIS divisio, appellabitur. SI Sic bimembris erit divisio lineae in rectam, et curvam, trimembris trianguli in aequila terum, isosceles, et scalenum; quatrimembris denique parallelogrammi in quadratum, rc ctanguluin, rhombum, et rhomboidem., 58. Quoniam divisio est totius in par tes resolutio; totum autem ae quale partibus simul sumtis esse debet: consequens est 1. ut membra dividentia simul totum adaequare debeant divisum adeoqne nec plus illo, nec minus compre hendant; ut non sibi coincidant, sed repugnent, sintque per novas definitiones, easque oppositas, distincta;  ut ex ipsa rei dividendae natura petantur, scili cet in tot membra totum dividatur, capax est; 4. denique ut ad confusio nem vitandam prius idea totalis ab am biguitate liberetur, posteaque divisio insti tuatur. i quot Contra hanc regulam peccant, qui angulum dividunt in rectilineum et curvilineum, vel qui lineam esse aiunt, vel rectam, vel curvam & derari potest: vel mixtam. In primo enim casu membra di videntia simul sunt diviso minora; in se cundo autem eodem maiora. Huic quoque regulae adversantur ii, qui bo. num dividunt in honestum, utile, et iucundum: haec enim membra simul in uno coexistere debent, ut genuinam boni denominationem tue ri possit: adeoque non sunt repugnantia. Peccant etiam ii, qui licet totum in membra opposita distribuant, ea tameu definitionibus non repugnantibus determinant, ut quum cns in simplex et compositum diviserunt, et hoc esse dicunt, quod partibus constat: illud contra definiunt per id, in quo nihil consi Repréhensionem ergo.eruditorum merito incurrunt Ramistae, qui tam superstitiose di.chotomiis adhaerent, ut in plura membra totum dividere irreligiosum putent. Nec ali ter iụdicandum est de iis, qui nimiae mem brorum multiplicitatis sunt amatores. Idem enim vitii, inquit Seneca, habet nimia, quod nulla divisió. Ep. Quum autem divisiones et subdi visiones potionum analysin contineant, haec autem in idearum adaequa tarum formatione consistat, ideo que ad maiorem distinctionem in nobis producendam sit comparata: sequitur 5. ut divisionibus aeque, ac subdivisionibus, quae iisdem ' reguntur regulis, omnia vi tentur, quae confusionem adferre possunt; proindeque 6. liquido patet, non licere p? as ter necessitatem subdivisiones multiplicare, ne memoria fatigetur, ac intellectui veių. ti tenebrae offundantur, Schol. Haec de divisione. Ad hujus porro doctrinae usum nunc transeamus quem paucissimis inde nascentibus include mus regulis. Logicae itaque Tiro utilissi mos aeque, ac necessarios hosce discat CANONES, In dividendo subdividendove non aliorum systemata, sed naturam tantum consulito. Confusionem aeque, ac tae dium vitare curato. Hoc namque modo nec Ramistarum supersti tiosa restrictio, nec Scholasticorum nimia di visionum membrorumque multiplicatio locum habebit. Natura enim omnium optima, et ad curatissima est magistra. Divisiones ne per saltum facito. * Ordinem ac seriem in unaquaque re ser vato. Dicitur autem civisio per sattum, quae ordi... nem non scrval, et in qua ea, quae in sub divisione cxprirai deberent, comprehendun tur: e.g. si ideam diviseris in claram et ina daequatam, divisionem conficies per saltum; inadaequatam enim quae in subdivisionem ingredi deberet in divisione locum habere observas. Series ergo atque ordo ne pertur betur, quisque in studia incumbens cavere stu deat. CAPVT QUINTVM De iudiciis, et propositionibus, 6o. Hactenus de ideis, earumque ana lysi, quantum instituti brevitas tulit, actum. Eas vero si comparemus, scilicet si duas ideas inter se coniungamus vel separemus, alia mentis oritur operatio, quae IVDI CIVM adpellatur. Est autem iudicium duarum idearum comparatio earumque relationis perceptio. Iudicium porro ver bis expressum dicitur PROPOSITIO vel ENUNCIATIO. E. g. Si ideam spiritus cum idea indestructibi litaiis conferas, videasque unam alteri conve nire, tunc spiritum esse indestructibilem ndi cas: contra, si indestructibilitatis ideam cor De iud. et prop. separas: haec poris notioni non convenire observes,corpus non esse indestructibile colligis. In primo ca su ideas coniungis; in altero mentis operatio, qua earum relationem ex pendis, iudicii nomine venit. ** Nonnulli discrimen inter haec duo nomina statuunt: ut prius locum inveniat, si in syllo gismo spectetur; posterius vero, si extra id inveniatur. Sed in re tam parvi momenti diu immorari, foret ineptum. Quoniam iydicium duas ideas compa rat, et si verbis exprimatur, propositio di citar; idearum vero signa sunt voces seu termini: liquet, quam libet enunciationem duobus constare termi nis, quorum ille, cui aliquid convenire vel discrepare ennuciatur, SVBIECTVM; is vero, qui subiecto tribuitur vel ab eo removetur, ATTRIBVTVM vel PRAEDICATVM nomiuatur, qui duo simul pro positionis EXTREMA dici consueverunt. Quumque eorum nexus verbo substanti vo exprimatur: merito vox illa ex hoc verbo desumta, quae propositionis extrema coniungit, COPVLA vocatur. E. g. In hac propositione, “Deus est aeternus,” Deus est subiectum, quia ipsi tribuitur aeternitas; aeternus dicitur attributum, quia Deo convenire enunciatur; vox deniqne “EST”, quae duo haec extrema coniungit, atque unum al teri convenire indicat, copula, hoc est coniunctio, adpellatur. Hinc ergo colligitur, quain cumque propositionem SUBIECTO, COPVLA, et ATTRIBVTO constare debere, ut enunciatio LOGICA PERFECTA dici pos sit. Si namque horum aliquis lateat, CRYPTICA, vel IMPERFECTA dicilur, quia naturalis compositio crypsi aliqua tegitur: id autem accidit, quum verbuin aliquod copulae et attributi vices sustinet e. g. Deus mundum creavit: idem enim esset ac dicere: Deus est Creator mundi. Est et alia propositionum crypticarum species, iu quibus sub uno verbo tota enunciationis latet compositio per ellyp sin eruenda: ut in illis: veni, vidi, vici: hic namque tres iusunt enunciationes ex iis dem verbis repetendae, nempe: “Ego fui-ve nens, ego fui videns, ego fui vinccns.”  QvanVandoquidem in qualibet idearum comparatione sex potissimum con fiderari possunt, scilicet: materia, sive ideae quae comparantur; forma, seu comparatio ipsa; qualitas comparationis; eiusdem quantitas; objectum, 6. denique evidentia relationis: ideo sub totidem adspectibus propositiones intueri possumus; videlicet, ratione MATERIAE, FORMAE, QVALITATIS, QVANTITATIS, OBIECTI, et  EVIDENTIAE. Quamvis autem hunc ordinem divisionis natura suppeditet: liceat nobis in hac tractatione qualitatem ante omnia perpendere, utpote quae in aliis distributionibus usui esse debet; quaque postposita, nonnulla obscuritate laborarent. Propositionis QVALITAS consistit in extremorum combinatione tione. Quum ea coniungimus, scilicet prae vel separa dicatum subiecto convenire enunciamus ADFIRMARE dicimur; NEGARE contra, si illa seiungamus, seu unum ab altero discrepare pronuntiemus. Recte igitur omnis propositio, si qualitatem spectes, dividitur in AIENTEM et NEGANTEM. E. g. Quum dico, “Mundus est contigens”, praedicatum cum subiecto coniungo, adeoque de mundo adfirmo esse contingentem. Quando vero enuncio, “Mundus NON est aeternus”, extrema seiung, idest aeternitatem a mundo removeo et hoc est quod dicitur negare. Ex quo vides, negationem (“NON”) copulae praepositam reddere propositionem negantem: quod si non copulam, sed terininorum ali quem, vel eius partem negatio afficia, non negans, sed INFINITA orietur enunciate. E. g. Marcus Aurelius Romano Imperio pote ral non nocere, quia Philosophus. Distinctio haec aliter ab aliis enunciatur, scilicet in adfirmativam et negativam. Vtrum que apte. 64. Si ad propositionum materiam attendamus, eae sunt vel SIMPLICES, vel COMPOSITAE. SIMPLEX enunciatio dicitur, cuius termini plures non sunt sed unuin habet subiectum, et unum prae dicatum; COMPOSITA vero, quae plura > Cap. V. De iud. et prop 91 continet vel subiecta, vel attributa; eaque est vel EXPLICITA, si compositio sit mania festa, vel IMPLICITA, Scholastico nomine EXPONIBILIS, si compositionem habeat latentem, et paullo obscuriorem. Addunt alii enunciationem COMPLEXAM eamque haberi aiunt, quoties terminus ali. quis propositionem contineat incidentem sibi adnexam, quae, licet ad essentiam proposi tionis non pertineat, ad eam tamen intelli gendam plurimum confert, exprimiturque per pronomen relativum QVI. E. g. Plato, qui divinus fuit dictus, ideas innatas admisit. Propositio illa, qui divinus fuit dictus, in, çidens est. Sed distinctio haec in Logica aut parvi, aut nullius fere est momenti. Simplex ergo erit propositio: Deus est ae. ternus, iten que: aer est gravis. *** In quo vero consistat palens, vel latens compositio, ex sequentibus abande patebit, ubi de explicitarum implicitarum que enuncia tionum speciebus sermo erit. Id porro sedulo observandum, in compositis non unam, sed plures contineri enunciationes, id quod ex earum analysi poterit elucescere. EXPLICITA enunciatio dividitor in CONDITIONALEM; CONIVNСТАМ; DISCRETAM; CAVSSALEM; DISIVNCTAM et RELATAM. Conditionalis, alio nomine hypothetic, est, quae praedicatum habet subiecto tributum sub aliqua conditione: e. g. “Si mundus est ens contingens, non exsistit a se” -- in qua prima pars conditionem, altera propositionem continet. De hac autem observandum. I. conditio existentiam non largitur: visi enim veritatem adquirat, enunciatio vera esse non potest. Sic si dicas, “Si navis ex Asia venerit, centum tibi me daturum promitio”: promissio vera non erit, nisi navis ex Asia redux fuerit; 2. conditio impossibilis habet vim negandi. Et -recte: nam conditio impossibilis numquam in exsistentem abire poterit; adeoque enunciatio nullibi veritatem adquiret. Vnde idem est di cere: si digito Coelun tetigeris, centum ti bi dabo, ac si diceres: numquam tibi dabo centum: conditio namque impossibilis est. Coniuncta, sive copulativa dicitur, in qua termini ita connectuntur, ut de pluribus su biectis idem attributum; vel plura altributa de eodem subiecto enuncientur. E. g. “Iustitia et prudentia sunt virtutes”; “Deus est aeternus et omnipotens”.  Disiuncta, vel disiunctiva est, in qua uni subiecto plura tribuuntur praedicata, vel u Cap. V. De iud. et prop. 93 num attrubutum pluribus subiectis, ut plu ribus unum, vel uni plura conveniant, licet indeterminate. E. g. Aut doctus eris, aut in doctus. Quae de hac observari merentur, con fer in S. 58. cur Caussalis est, in qua ratio additur, praedicatum subiecto tribuatur. E. g. Vitia nostra, quia amamus, defendimus: Politicas quia prudentiae regulas tradit, sedulo exco lenda, 1 Discreta dicitur, quae duo de eodem s biecto judicia continet qualitate diversa: ut illud Horatii. Coelum, nou animum mutant, qui trans mare currụnt. Item illud Terent. andr. 1. SC. 2. Davus sum, non Oedipus. Relata, seu relativa est, cuius una pars ab altera vim sunnit, ad eamque refertur  ut il lud Virgilii Georg. et quantum vertice ad auras Aetherias, tantum radice in Tartara tendit. IMPLICITAE vero species sunt EXCLVSIVA;  EXCEPTIV;  COMPARATA RESTRICTIVA: licet alii quoque inceptivas, desitivas, et 'reduplicativus adiungant. Exclusiva est, in qua sensus duplicatur per particulas exclusivas solum, tantum, dumta xat etc., estque vel exclusi praedicati, e. g. oculus tantummodo videt. Exceptiva est, in qua particulae exceptivae praeter, nisi, et similes, sensum multiplicant. E. g.: “Omne ens, praeter Deum, est contingens.” Comparata cicitur propositio, vel particu la quaedam comparativa relationem adferat inter subiectum et praedicatum, ita ut ge mipus inde emergat sensus e. g., “ira est amore validior.  Restrictiva denique est, quae multiplicem continet sensum per particulas restrictivas. quatenus, in quantum, quoad etc. geminatum. E. g.: Ilomo, quoad corpus ', est mortalis. INCEPTIVAS vocant, quae actionem aliquam in principio enunciante, ut: successio temporum a creatione incoepi; DESITIVAS, inquibus ejus cessatio et finis praedicatur, ut: tutela pubertate finitur: REDVPLICACIVAS denique, in quibus subiectum geminalum at liud iudicium continet tacitum. E. g. “Corpus, qua corpus est, a spiritu differt. Sed de his plura coram. Si enunciationis FORMAM spectemus, erit NECESSARIA, CONTINGENS (fortuitam Cicero adpellat), POSSIBILIS, IMPOSSIBILIS: in quibus si necessita, contingentia, possibilitas etc. reticeantur, ABSOLVTAE dicentur; si vero exprimantur, MENTALES. Necessariam dicimus, cuius extrema ita contiunguntur, ut aliter se habere non possint. E. g. “Circulus est rotundus”. Contingens est, cuius termini nullam neces sariam habent connexionem, sed ita cohaerent, ut aliter esse queant. E. g.: “Crastinus dies erit serenus”.  Possibilem vocamus, in qua attributum sn biecto non repugnat, ut cera liquescit. Impossibilis dicitur proposition, cuius termini inter se repugnant, ut, “Circulus est quadratus”. Ratione OVANTITATIS enunciatio dividitur in VNIVERSALEM, si attri butum subiecto in tota huins 'extensione conveniat; PARTICVLAREM, si ad aliquas tantum species, ant individua in subiecti notione contenta extendatur; denique SINGVLAREM, si individuum subiecto exprimatur, Addunt alii inde finitam, sed eam non esse ab universali dstinctam, infra abunde patebit. in. Alia universalem vocant propositionem, qua ratio sufficiens, cur praedicatum subie cio tribuatur, latet in ipsa subiecti natura, scilicet, si praedicatum sit attributum essentiale subiecti. Ita haec enunciatio, “Homo est libertatis capax”, est universalis tum quia subiectum in tota eius extentione sumitur nullus enim homo invenietur, nullus enim homo invenietur, cui libertate careat; tum quia ratio sufficiens, cur libertas homini trihuitur, latet in ipsa hominis ESSENTIA et natura, hoc est, ut Scolastici aiunt, rationalitate. Signum universitatis in aiente propositione est “OMNIS” (italiano: “ogni”); in negante NVLLVS. Quae de universalitate metaplıysica et morali Philosophi docent, ea hic persequi brevitas non patitur, sed in ipsis praelectionibus aliqua no tabimus. Particularem propositionem alii esse dicunt, in qua ratio sufficiens; cur praedicatum subiecto naturam est repetenda; E. g. “quidam homines sunt crudili”. Vides hic subiectum non in tota sua extensione accipi, sed ad aliqua tantum individua extendi, ita ut ratio sufficiens, cur homini eruditio tribuatur hominis naturam inveniatur, scilicet in studio aique exercitatione. Particularitatis nota est QUIDAM, ALIQVIS; in negante vero additur particula NON.  E. g., Livius Romanorun historiam ad sua usque tempora scripsit. En propositionem singularem: subiectum enim est terminus singularis. 6g. Ex quibus omnibus consequitur v. ad essentiam propositionis universalis non reqniri notam uuiversitatis, sed eam pro lubitu exprinii vel' omitti posse; INDEFINITAM dici propositionen in qua pota reticetur ac proinde recte a Philosoplus adfirmari, propositiones in definitas aequipollere universalibus; qui nimmo, signum universale numquam efficere posse, ut enunciatio talis evadat; falli ergo eos, qui universalem propositio hem defipiunt per eam, cuius subiectum signo aificitur universali; particula rem facile in universalem commutari pos se, si subiecto addatur ratio suficiens, cur ei convcniat allributum, Ecquis enim propositionem hanc: “Omnis homo est doctus”, ideo universalem esse aufirmabit, quia signo universali subiectum adficintur? Hinc si propositionem universalem particularibus, vel particularem universalibus terminis signisque exprimamus a veritate deficiet, ut suo loco dicemus. Sumas e. g. hanc propositionem: “Quidam homo est philosophus”, habes propositionem particularem. Adde snbiecto caussam, cur de homine esse philosophum enunciatur. scilicet scientiam; eamque sequenti modo exprimito: “Omnis homo scientia praeditus est philosophus”, ex particulari in universalem abibit. Mirum quantum transmulalio ist haec in scientiis prodest. Ab ea enim pendet propositiomm analysis; puta earumdem resolutio in hypothesin ct thesin. Nobis in secunda part, ubi de experientia sermo erit, huius modi commutationis usus erit obiter attingen dus. Iuvat hic compendii loco addere, veteres harum propositionum differentiam quatuor vocalibus indicasse: “A”, “E”, “I” et “O”, id quod se quentibus expressere versiculis: Asserit “A”, negat. “E”, verum universaliter ambae. Asserit I, negat O, sed particulariter ambo: De rat. et Syll. De propositionibus mathematicae methodo inservientibus. Ostrema enunciationum divisio quae earum obiectum, et evidentiam res spicit, ea est, quae in recentioribus Phi osophorum et Mathematicorun scriptis pas sim observatur peculiaribus desiguala nominibus, quaeque a nobis ideo distincte tradenda, quia me!l dun mathematicas in hisce justitutionibus sequi statuimus. Ratione ilaque OBIECTI pto positio est vel THEORETICA, in qua a liquid de subiecto enuncialur, vel PRACTICA, quae aliquid fieri posse aut debere adfirmat. Sic propositio theoretica est haec, “Omnes ro dii eiusdem circuli sunt aequales”. Practica vero: “Quovis centro et intervallo circulus describi potest. Vides hinc, theoreticam propossitionem veritatis alicuius enunciationem; pra cticam vero operationis faciendae expositiouera continere, Quo ad EVIDENTIAM enunciatio vel talis est, ut extremorum nexus per se clare pateat, vel quae demonstratione in digeat. Illa INDEMONSTRABILIS, haec DEMONSTRABILIS dici consuevit. Quibus enodatis, ad peculiaria propositionum nomina explicanda transcamus. Indemonstrabilis ergo est enunciation, “Totum sua parte maius est”. Demonstrabilis. contra haec: “Scientia Philosopho est necessaria”, ea enim ex collatione definitionum scientiae et philosophi debet demonstrari. Propositio indemonstrabilis theoretica dicitur AXIOMA. Si vero practica fuerit, POSTVLATVM vocalır.  E.g. “Totum est aequale omnibus suis partibus simul sumti”. D. de Tschirnausen axioma vocat quamcumque propositionem ab unica definitione immediate deductam; Euclides au tem illam, quae primo intuitu ab unoquoque perspici potest. Res eo redit, ut axioma vo cemus enunciationem per se claram, adeoque demonstratione non indigentem, sive a defini tione, sive aliunde evideutiam suam repetat: ac proinde nostra definitio utramque amplectitur sententiam, ut diffusius coram ostendemus. ** E. g Quovis centro ac quovis intervallo cir culum describere. Coguita enim circuli defini tione, postulati huius veritasan. scitur, Cap. V. De iud. et prop. IOL Enunciatio theoretica demonstrabilis THEOREMA vocatur; practica contra dicitur PROBLEMA. In Theoremate ergo propositionis veritas ex plurium definitionum collatione demonstrari debet. E. g., “Deus est aeternus” Huius enim demonstratio ex definitionibus Dei, et aeter ni inter se collatis peti debet. Hinc est, ut duabus illud constet partibus, nempe enunciatione, qua veritas șive propositio theoretica enunciatur, et demonstratione, qua ea dein confirmatur: ideoque in fine demonstra tionis addi solet Q. E.'D., hoc est, “quod erat demonstrandum.” Quum Problema sit propositio practica, pa lam est, illud tribus absolvi, propositione sci licet, quae quid faciendum proponit, solutione, quae modum, quo fieri potest, ostendit, et demonstratione, quae rem bene processis se concludit, addends, “Q. E. F”. idest, “quod erat faciendum”. Sic problema est haec enunciatio: Commiserationem in altero excitare. COROLLARIVM, sive CONSEOTARIVM dicitnr quaevis enunciatio, quae ab alia immediate, et necessariae consequutione oritur. E. g. Cuum demonstraveris propositionem E T. hanc: Nihil est sire ratione sufficiente, per teris inde eruere corollarium; Ergo, id omne, quod ratione sufficiente destituitur, nec est, nec esse potest.  SCHOLION, seu SCHOLIVM, est oratio, qua illustratur quidquid in propositione obscurum videbatur. In eo igitur doctrinae usus exponitur, historia narratur, auctorum sententiae referuntur aliorum obiectiones proponuntur et refelluntur, ce teraque observatu digna enucleantur: ut videre est in omnibus Mathematicorum, et Philosophorum recentium scriptis.  LEMMA est proposititio ex aliena disciplina desumta, quae tamen ad demon strandum aliquid in doctrina, quam tra ctamus in subsidium adhibetur. Ita Aritmetici in costructione quadratornm et cuborum lemmata ab Algebra muluantur, ut est propositio illa: Cuiuscumque numeri bi partiti quadratum aequatur quadratis parti una cum facio dupli partis unius in al teram lucti. um Cap. V. De iud. et prop. 103 S E C T10 lll. De propositionum adfectionibus. HaecAec de enunciationum diversitate. Superest, ut de earum adfectionibus pau ca dicamus, de quibus quamplurima in Scholis praecipiuntur laboris quidem plena, vtilitatis autein expertia. Ad propositionum adfectiones referuntur: OPPOSITIO,  SVBALTERNATIO, CONVERSIO, et AEQVIPOLLENTIA. OPPOSITIO est duarum proposi tionum inter se pugnantium collatio: estque vel CONTRARIA, si earura utra que sit universalis in qua propositio nes ambae possunt esse falsae, sed non ambae verae; vel CONTRA-DICTORIA, si etiam quantitate differant, *** in qua enunciationum illarum necessario una ve ra esse debet, altera falsa; vel deni que SVBCONTRARIA, si ambae sint par ticulares, **** in eaque propositiones am bae verae, at non ambae falsae esse possunt. * Sic oppositae sunt hae propositiones: Omnis E 4 spiritus cogitat; nullus spiritus cogitat: pu. gnant enim inter se, quum de eodem subie cto idem una adfirmet, altera neget. ** E. g. Omnis homo est ratione praeditus: nullus homo est ratione praeditus, quarum una vera est, altera falsa. Possunt tamen da ri casus, in quibus ambae falsae sint, veluti huum unirersaliter enunciatur, quod particu lariter proferri debebat. E. g. Omnis homa est eruditres: nullus homo est eruditus. Om nibus enim tribuere quod quibusdam tan tum convenit, est falsum dicere dicere, ut infra videbimus. *** Ita propositiones: Omnis spiritus cogitats quidain spiritus non cogitat, sunt contradi ctoriae, earum enim una universaliter ait, al. tera particulariter negat. Iure igitur exclusa altera includitur, et contra: nam falsum est a quibusdam removere quod omnibus con renit, vel aliquibus tribuere quod nulli com petit. ***** Talis est sequens oppositio Quidam ko mines sunt divites: quidam homines non sunt divites: Vides hic ambas propositiones veras esse. Quod si dicas: quidam homo est liber: quidam homo non est liber, quum haec falsa sit, altera vera esse debet. Rationem eius re gulae, ne longius provehamur, coram dabi una, mus. 7SVBALTERNATIO est duarum Cap. V. De iud. et prop. 105 propositionum sola quantitate differen tium, sed eosdem terminos habeniium mutua quaedam relatio. Vniversalis enun ciatio SVB-ALTERNANS; particularis vero SVB-ALTERNATA, a Logicis dici con suevit. * De qua adfectione duo notanda occurrunt: 1. Veritatem subalternantis veritas quoque subalternatae consequi tur, non contra **. 2: Falsitas propo sitionis ' subalternatae falsitatem etiam subalternantis arguit, non autem con tra. E. g. Duarum propositionum:, Omnis homo est eruditionis capax; quidam, homo est eruz ditionis capax, illa subalternans, haec subal ternata dicitur. ** Sic quum ia superaddito exemplo verum sit, omnes homines doctrinae esse capaces, verum quoque erit, quosdam homines doctrinae capa ces esse. Ratio huius regulae est. Contrariae ambae verae esse non possunt (S. 78. ). Si ergo 'subalternans vera sit; eius contrará falsa erit. Quum autem huic contradıcat subalterna ta, et in contradictoriis necessario una sit, altera falsa (C. eod. *** ), liquet subal ternatan necessario verum esse debere; alias, enim in contradictione falsitas ex utraque par te daretur, quod est absurdu:n. Contra ea si verum est, quosdam hom nºs esse eruditos vera E 5 106 Logica Pars. I. cui quum non certe infertur omnes homines eruditos esse. *** Si namque subalternata est falsa, eius con tradictoria vera erit; sit contraria subalternans, haec non poterit non esse falsa, adeoque subalternae falsitatem necessario sequi. E.g.Falsum est, aliquem spiri tum esse mortalem: falsum qnoque erit, omnem spiritum esse mortalem. At şubalternantis fal sitas non ita subalternatae falsitatem includit. Quum enim in subalternante, utpote univer sali, subiectum in tota sua extensione suma tur ($. 68. ), poterit attributum aliquod extra subiecti naturam rationem sui habere sufficientem, adeoque aliquibus tantum spe ciebus, aut individuis conveniens propositio piem efficere particularem (f. eod. *** ). Fal sa in hoc casu' erit subalternáns, non vero subalternata. Hinc si falsuin est, omnes homi nes ésse doctos, non ita falsum erit, quosdam homines esse doctas. CONVERSIO est mutua extremorum salva enunciationis veritate, substitutio Ea fit tribus modis, scilicet 1. SIMPLICITER, quum eadem qualitas et quantitas manet; 2. per ACCIDENS, quin quan titas sola mutatur; 3. denique per CONTRA-POSITIONEM, quum salva pro, positionis quantitate, terminis additur ne galio, qua fit, ut enunciatio lex determi pata in infinitam abeat. Cap. V. De iud. et prop: 107 * Scholerum est ha ec doctrina a nobis recensi ta in gratiam eor um, qui huiusmodi loquite tiones scire cupiu nt; sed non caret sua uti litate; imo haud raro est necessaria, Sim plex igitur est conversio: Omnis spiritus est substantia cogitans: omnis substantia cogi tans est spiritus. E. g. Omnis doctus est homo, copyertitur per accidens hoc modo: ergo quidam homo est doctus. *** Sic: Quidam homo non est. pius, per con trapositionem convertitur: ergo quoddam non pium est homo. Sed quorsum haec? ais. Con fer, Dan. Richterum diss. de convcrs. propo • sition. Halae 1740 AEQUIPOLLENTES denique dicun tur enunciationes, quae verbis licet di versae, cumdem tamen sensum habent. * Duae ergo propositiones synonymicis termia nis expressionibusque prolatae aequipollentes sunt, nempe eumdem valorem habentes. Ego Omne animal vivit et sentio: nihil tam ani manti proprium est, quam vita et sensie. Quae de his postremis propositionum adfectionibus laboriosius a Scholasticis traduntur, tempus terendum potius, quam ad rationein excolendam sunt adcommodata. Nobis haec tantum notasse sufficiet. Schol. Quae de iudiciis, ac propositio nibus cupidae iuventuti observanda arbitra. mur, ea paucis exponenda supersunt. Qua propter tironi Philosopho sequentes tenea di sunt CANON ES, 1, Q Voniam iudicia sunt sapientiae, vel stultitiae fidelia indicia, par cius iudicato ne aliis sis ludibrio teque in errorem temere coniicias. 4 * Sensus namque communis a iudicandi peritia scientiam hominis metiri solet. Ea de re quum de alterius sapientia vel stultitia iudicium proferre volumus eum criterio pollentem pel carentem adpellamus. 2. De nuila re, nisi cuius adaequa tam, aut saltem distinctam habes ideam, iudicium proferto, tuum. Idearum enim confusio praeiudiciorum mater est fera cissima. * Quum enim rerum, de quibus iudicare volu mus, distinctatu vel adaequatam habemus ide am: tunc eas undequaque cognoscimus, re lationesque perpendimus; adeoque termino rum nexibus optime coguitis, recte iudiça þimus, Cap. V. De ind. et prop. 109 4. In vel tuo i quocumque iudicio vel alieno caussam et rationem atten te perspicito, cur tales ideae tali modo coniungantur vel scparentur, nec alio. * * Etenim infra abunde patebit, verae prope, sitionis criterium esse, si ratio sufficiens ad. sit, cur praedicatum subiecto tribuatur, vel ab eo removeatur. Tali ergo ratione perspem cta, non poterit iudicium non esse verum; ac proinde errandi metus procul aberit. 4. Praecipitantiam fugito: ideoque in iudicando tardus, in enunciando tardior esto, ne levitalis errorisve arguaris. Me mento Augustini praeclarum illud: ver IA BIS AD LIMAM, SEMEL AD LINGUAM, Ne cit enim, monente Horatio, vox missa Leverti. Notum est responsum illud nescio cui num quam loquuto, ac pro sapiente seinper habi. to, datum, postquam semel toqui voluit: Si tacuisses, Philosophus mansisses. 51. De moribus, et viia hominum num uam iudicato. Nemo enim alterius in er est a Deo constituius: > Hinc sapientissimum illud Servatoris nostri 110 Logica Pars. I. monitom gauctiope muniiuin habemus Matth. VII. 1. Nolite iudicare, ut non iudicemini. Qua vero ratione praeceptum istud homini bus inculeatum sit, ostendemus in Iure Naturae. Quoniam duarum idearum convenien tia, aut discrepantia non semper unica intuitu aguosci potest, adeoque dan tur veritates demonstrabites(s 71. ); de monstratio autem ratiociniorum serie absol vitur: ordinis ratio postulat, ut de ratiocinatione verba faciamus. Est vero RATIOCINATIO, sive RATIOCINIVM, actio mentis, qua ex duobus iudiciis no tionein communem habentibus tertium eli citur; vel practice est duarum idearum cum teriia comparatio', earumque rela tionis. deductio. Ratiocinium porro verbis expressa dicitur SYLLOGISMVS. * Quando igitur mens de veritate iudicii alicu ius nouduin certa, eius extrema, sive ideas confert cum idea aliqua tertia, et ab earum convenientia vel discrepantia, tertium elicit Cap. IV. De rat. et Syll. III iudicinm: tunc ratiocinatur, hoc est rationes conficit, ut veritatem inveniat. E. g. Ut sciat, an aer sit gravis comparat ideam aeris, et ideam gravis; cum tertia idea corporis, ob servatque, num inter eas adsit convenientia: qua comperta, duas illas ideas inter se quo que convenire concludit hoc modo: Omne corpus est grave: Aer est corpus; Ergo aer est gravis. En ratiocivium. Quod si verbis exprimatur, erit syllogismus. 83. Experientia teste scimus, duas ide as cum tertia triplici modo comparari pos se: vel enim cum illa conveniunt, vel u na convenit, altera discrepat, vel ambae ab ea discrepant. In primo casu elicitur ter tium iudicium aiens, in secundo negans, in tertio vero nihil exsurgit. Totum ergo ratiocinii pondus duobus his axiomatis con tinetur: nempe 1. Quae conveniunt cum aliquo tertio ea conveniunt inter se: 2. Quorum unum tertio cuidam convenit, alterum autem ab eo discrepat, illa in ter se quoque discrepant * Primum axioma est ratio sufficiens syllogismi aientis ut videre, est in exemplo supra al lato; alterum negantis: e g. Qui Deo servit non servit Mammonae: sed Christianus Deo. 1. servit: ergo Christianus non servit Mamm onae. Vides hic duaru n idearum Christiani et Mam monae servientis., alteram convenire cnm ter tia Deo serviendi, alteram vero ab ea di screpare: unde infertur a se invicem discrepare. 84. Ex quibus rebus clare consequitur 1. in omni ratiocinatione tres tantummodo ideas esse debere, adeoque 2. in omni syllogismo tres tantuin terminus; * unde 3. si plures ad sint tirinini; guain tres, syllogisuum es se falsum. ** Quumque tres ideae totidem combinationes adinittant (per exper. ): sequitur 4: ratiocinium tria quoque iudicia continere; ac proinde 5. syllogismum tres, nec plures, enunciationes admittere) Advertendum hic, tam terminos, quani pro positiones syllogismums, componentes y pecu liaribus a Logicis ' donata fuisse nominibus. Et ut a teruninis incipiamus, praedicatum tertiae propositionis,, quae principalis dici potest, MATOR adpellatur, subiectum eiusdeni, MINOR; {erminus vero, qui tertiam ideanı ex. primit, quique rationem continet suffizientem couvenientiae, vel repugnantiae termini ma ioris cum minore, MEDIUS voćatur. E pro, Cap. V. De iud. et prop. 113 > positionibus etiam illa, in qua medius cum maiore confertur, MAIOR, vel PROPOSITIO simpliciter; illa, in qua medius cum minore comparatur, MINOR vel ASSUMPTIO; ambae vero PRAEMISSAE dicuntur, propositio denique, quam principalem supra, adpellavimus CONCLUSIO COMPLE xto, a Scholasticis CONSEQUENTIA nos minantur. Sic in primo exemplo gravis est terminus maior, aer minor, cor pus est terminus medius, adeoque prima pro positio est maior, altera minor, tertia con clusio. * Solet enim quandoque quartus irreperę ter. minus, et syllogismum corrumpere, idque raro patenter; nam saepius in termino aliquo, vel compositione latet. Fieri hoc potest 1. per aequivocationem, ut fi terminuin aliquiem yagnum adhibeas in sensu diverso: eg: Vilpes habet qualuorpedes, Herodes est vulpes; er go Herodes habet quatuor pedes. In quo ob servas vocem vulpes prino proprie; secundo vero metaphorice suintam; 3. per supposi tionis mutationem, ut si idem terminus ma terialiter in una, formaliter in premissarum altera sumatır. E. g. Iinne ens est generis neutrius: femina est ens, ergo fernina est ge neris ncutrius, in quo nocens in miori gran. matice; in minori philosophice anceptum est; 3. per confusionem termini abstracti cum con creto. E.g. Omnis prudentia est habitus bo nus: Titius est prudens: ergo Titius est ha bitus bonus. Tres ergo enuuciationes syllogismi materia dici possunt: forma namque legibus absolvi tur, quas infra 'exibebimus. 85. Quamvis vero ratiocinium tam fa cilis exequutionis primo intuitu videatur: difficilis tamen admodum est termini me dii, qui communis idearum mensura est inventio. Sed ut omois difficultas evanescat, experientiam philosophiae matrem consule re decet. Ea enim duce discimus, mentem postrani in ratiocinando duplieem ingredi viam: vel enim notionum alteram ad pro prium genus, vel speciem revocat, et quid quid his convenit, illi quoque tribuit, vel definitionis characteres evolvit, eosque al. teri convenire observans definic tum quoque coniungit. Duplex ergo est medium inveniendi methodus: altera sub iectum ad genus, vel speciem, sub qua continetur, reducendi, eique tribuendi, vel adimendi quidquid ideae genericae con vepit, vel ab ea discrepat; altera attributi definitionem cum subiecto comparandi, et ab eorum convenientia vel discrepantia, praedicati quoque cum subiecto coniunctio nem eruendi. cum ea Cap. IV. De rat. et Syll. Exemplo sit sillogismiis supra adductus. Scire cupis, aer sit gravis? Reduc subiectum sub genere corporis, et vide, utrum huic conveniat gravitas, eam de aere quoque enunciabis, ita ratiocinando. Quodlibet corpus est grave, aer est corpus: ergo aer est gravis. Haec erit prima medium inveniendi methodus. Rursum gravitatis defi nitionem evolve, eiusque characteres, nem pe corporum inferiorum pressionem confer cum aere. Quumque ei conveniant, attribu tum cum subiecto coniunges hoc modo: Quidquid corpora inferiora premit, est grave: Aer premit corpora inferiora: Ergo aer est gravis Habes hic alteram medium inveniendi me thodum. Eodemque modo in aliis ratiociniis investigando procedes: quod si adcurate ser ves, numquam tua te fallet ratiocinatio. 86. Ex hoc principio fluunt sequentes regulae ratiocinii fundamentales. I. Quid quid convenit generi vel speciei, conve nit etiam omnibus speciebus, et indivi duis eorum ambitu conteniis. 2. Quid quid repugnat vel generi specici, repugn it omnibus quoque speciebus, et individuis sub iisdem contentis. * 3. Cui convenit  definitio, convenit pariter definitum: ac proinde 4. a quo discrepat definitto, di screpat etiam definitum. * Vides ergo ideam mediam semel universaliter sumi debere, quia ideam universalem, ge. mus nempe vel speciem, exhibet. Quod si bis particulariter sumeretur, ratiocininm vi tio laboraret, ut infra dicetur. Quumque praedicatum tam latc pateat, quam subiectum cui tribuitur, ut cuique manifestum est: li quet, propositionem, in qua medius vicem praedicati sustinet, particularem esse. Debet ergo medius terminis universaliter sumi in ea propositione, cuius subiectum constituit Et quoniam propositio, in qua subiectum in tota sua extensione sumitur, est universalis: liquido infertur, saltem unam praemissaram esse debere universalem. Variae syllogismorum figurae Scho lasticis fuere in deliciis, quas barbaris ali quot vocabulis, versibusque distinguere consueverunt. Nos, missis futilibus tracla tionibus, regulas quasdam Tironibus ma xime inservituras, quibus syllogismi leges breviter exponuntur, hic subiiciinus, quas. sequcntes exhibent. Cap. IV. De rat. et Syll. 119 CANONES. In syllogismo non plures termini sunto, quamtres. Si quartus irrepserit, vitiosusiesto. Est lex eo magis observanda, quo omnia sophismata, si bene perpendantur, contra illam peccare observamus. Ecquid enim sunt fallaciae tanto labore a Scholis evolutae, an liquitatis, amphboliae, dictionis composi tionis, divisionis, caussae, dicti simpliciter, con e juentis, accidentis, cetera, nisi syllogi smi e quatuor terminis conflati, in quibus quarins cryptice latet? Veritas hace altcate consideranti baud aegre patescet. Vide quae de quatuor terminis diximus g. Medius terminus numquam conclu sionem ingreditor. Monstruosuin enim es set, caussam in effectus constitutionem immisceri.: * → Intellectus enim in ratiocinando vice Mathe matici fungitur. Quia vero Mathematicus dua rum magnitudinuin aeqnalitatem ex cniusdam tertii adplicatione cognoscit, nec, nisi in comparatione, mensuram adhibet: ita et in tellectus in ratiocinando ex duobus indiciis 118 Logica Pars. I. * tertium ervit, in quod medium comparatio nis ingredi, valde foret absurdum. Vitiosum ergo esset ita raziocinati: Omnis bonus Phi losophus est homo: Titius est bonus Philo sophur: ergo Titius est bonus homo. Medius Damque terminus ex parte in conclusionem irrepsit. 4. Non esto plus minusve in conclu sione, ac fuit in praemissis, ne quatuor inde éxoriantur termini. Si nanque praemissae sunt veluti comparatio nes duarum magnitudinum cụm tertio eisdem adplicato, scilicet mersura: iudicium ex comparatione ipsa procedens, perfecte com parationibus ipsis convenire debet. Quando vero in conclusione plus minusve continetur, quam in praemissis, idem esset, ac si dice res productum maius vel minus esse altero, quod ex iisdem factoribus est ortum Plus cotineret conclusio, si ita diceres: Qui alium l'aesit, puniendus est: Cajus alterum laesit: Cajus ergo morte puniendus est. Minus con tra, si sic ratiocinaris: Qui furium commi sit, restitutioni et poenac subiacet: Titius fur tum commisit: tius restitutioni subiacet. 4. Ex puris particularibus, vel ne gantibus (praemissis ) nihil sequi, ius estc. Cap. V. De rat. et Syll. 119 * Diximus enim f. 86. *, praemissarum unam saltem esse debere universalem: unde si am hae essent particulares, impingeretur in regulam 1.1. S. cit.; si vero ambae negantes, tunc duarum idearum neutra cum tertia conveniret, adeoque nihil sequeretur per S. 83. Falsum ergo esset dicere: Quidam bo mines suni doeti: quidam homines sunt in docti: ergo quidam docti sunt indocti. Item Nullus impius salvatur: nullus impius est pius: ergo nullns pius salvatur. 5. Conclusio partem sequatur debilio rem, probe curato, ne in superiora pecces. * Pars debilior est propositio particularis, vel negativa. Si ergo una praemissarum fuerit particularis, conclusio quoque particnlaris, conclusio quoque particularis esse debet, alias plus esset in conclusione, quam in praemissis; quod est contra regulam 3.: si vero una praemissarum fuerit negans con clusio adfirmans contra regulam 2. In hoc eniin casu extremorum conclusionis unum cum medio convenit, alterum ab eo discre pat; adeoque ea inter se quoque discrepare concludendum est; quare conclusio negans esse dcbet. Quae de diversis syllogismorum figuris regulae vulgo traduntur, eae ad rem non faciunt; ac proinde a nobis tuto prae terinittuntur, 120 Logita Pars. I. CAPVT SEPTIMVM. De aliis ratiocinandi modis. 38. Sunt et aliae ratiocinandi formae, quae licet a syllogismo diversae adpareant syllogismum tamen continent vel 1. CRYPTICVM, vel 2., COMPOSITVM, vel 3. MVLTIPLICEM. De his obiter praesenti ca pite agemus. SYLLOGISMUS CRYPTICVS est, in quo forma ordinaria (*. 71 * ) quo modolibet périurbatur, aut occultatur. CRYPSIS ergo inducitur i. per ordinis perturbationem, *. 2. per propositionum aequipollentiam per propositionis alicuius omissionem, quo casu dicitur ENTHYMEMA, 4. denum per contractionem. * Ordo perturbatur, ai quando propositiones transponuntnr: ut si prino conclusionen vel minorem, de nde maiorein vel conclusio riem ponas. E. g. Quum ira sit adfectus minor ), debei omnino compesci (conclusio); omnis namque adfectus est compesccn dus (maior ). ܪ Cap. VII. De aliis rat. " modis. 121 ** E: 8. Adfectus est attentionem turbare. Quum ergo ira sit molus vehementior appe tus sensitivi ': infertur, in iracundo attcntio nem mirifice perturbari. *** ENTHYMEMA igitur est syllogismus dua bus constans propositionibus, quarum prima ANTECEDENS altera dicitur CONSEQUENS. In hac argumentandi forma praemise sarum aliqua reticetur, speciatim vero illa, quae cuique patet, ut: omnis adfectus tur bat attentionem: ergo ira turbat attentionem. Minor deest, utpote quae ab audiente sup pleri potest. Eodem modo et maior retice ri, minor contra exprimi solet: e. g. ir & est adfectus: ergo estcompescenda. SYLLOGISMUS CONTRACTUS dicitur in quo solus maior cum medio termino pro punijatur, relicto iniuore cum omni combi patione. Talis est Cartesii syllogismus. Cogi 10, ergo sum: ubi eogito est medius, est terminus maior; adeoque minor, scilicet ego, cum tota propositionum connexione reticetur: integrum enim ratiocinium lioc,mo do exponendum erat: Quid juid cogitat,exsistit ego cogiio: ego igitur exsisto. SYLLOGISMVS COMPOSITVS est, in quo adest aliqua' propositio composiía, estoque vel HYPOTHETICVS; * vel CO PULATIVUS, ** vel DISIVNCTIVVS, vel tandem ex hoc primoque coalescens, qui proprio nomine vocatur DILEMMA. Tom. I. F. Sun: Hypotheticus, sive conditionalis est, eut ius maior est propositio hypothetica: é g. Si homo est rationalis, sequi tnr, ut sit libertatis capax: atqui est ratio nalis; ergo est capax liberatis De hoc te nenda regula: Adfirmata conditione, adfir matur conditionatum; et negato conditionato, negatur conditio. Quum enim in hypothesi contineatur ratio sufficiens veritxtis proposi tionis, adfirmata caussá adfirmatur effectus contra vero negato effectu, eius quoque caus sa negari debet.. ** Copulativus, sive coniunctus est, qui malo. iorem habet duas simul propositiones coniun gentem, et negantein, quarum unam minor adfirmat, alteram conclusio negat. E. g. Non potest anima sinni aeternum vivere, et cum corpore perire, atqni aelernum vivit: ergo non perit cum corpore. ** Disiunctivas est cuius propositio maior est dis iunctiva. E. &. Aut anima cst ens ' simple: aut compositum: sed non est cns compositum, ergo est simplex. Notanda crgo regula: Ad firmato uno disi!ınctionis membro, reliqua negantur; ct negatis rcliyuis, unuin ad fir tur. Confer tamen quae de disiunctivis pro positionibus diximus. Si ergo in maiori propositio bypothetica cum disiunctiva copuletur, DILEMMA con surgit quod argumentatio bicornis vel crocodilina vocari solet. Id vero definitur: Syllogismus hypotheticus, cuius mai oris ' al 7 Cap. VII. De aliis rat. mo dis. Tera pars est disiunctiva, quae in minore negatur, et in conclusione totum destruitur. E. g. Si ens simplex naturaliter cx alio en te oritur tunc aut ex alio simplici, aut e composito oriri debet: sed neque ex alio ente simplici, neque c composito oriri potest: ergo naturaliter ex alio ente non potest orlum du cere. Mirificum est Dilemma AVGVSTINI Tract. 1. in Joann, quo Arianorum errorem circa Verbi aeternitatem egregie confutarit Huc referenda quae diximus de divisione MVLTIPLICEM SYLLOGISMVM, licet imperfecte exhibent 1. EPICHERE MA, in quo alterutri, vel utrique prae missarum probatio additur; * 2 PROSYLLOGISMVS, in quo ' prioris syllogismi conclusio posterioris eidem iuncti maiorem constituit POLYSYLLOGISMUS, qui plurium syllogismorum connexionem contínet, e SORITES, qui plures ita connectit propositiones, ut prioris aliribu tudi si ! posterioris subicctum. EPICHEREMA ergo rsl syllogisms. cuius praemissis compendii caussa ralio Quirlitur Exemplum habes iu Cic. pro Sex Rusc. MAI. Vt quis parricidii sit suspectus, is sce lestissimus ét audacissimus sit, oporlei. RATIO est enim crimen horrendum. NIIN. Sex Roscius non est talis PROB. Non est audax, non luxuriosus mon avarus. 124 Loigica Pars. I. CONCL. Non ergo est parricidii suspectus. ** In PROSELLOGISMO itaque duo adsunt syllogismi coniuncti, quorum posterior ma iorem habet in prioris conclusione contentam: quapropter eius minor SVBSVNTA vocatur MAI. Omnis spiritus est ens simplex, MIN. Anima humana est spiritus: CONCL. Ergo anima humana estens simplex. MIN. SVBSVMTA. Atqui ens simplex est indestructibile. CONCL. Ergo anima humana est indestructibilis. Si prosyllogismus uiterius procedat, aliae que minores subsumtae et conclusiones snb inugantnr, dicetur polysyllogismus, hoc est plurium syllogismorum connexio legitime fa cta. Exemplum habebis infra Part. II. Cap.3. Sect. 2. ubi demonstrationis specimen dabimus. SORITES a Cicerone de Divin. Lib II. cap. 4. acervalis dictus, est plurium propos sitionum cumulus ita connexarum, ut unius praedicatum sit alterius subiectum, adeoque tot syllogismos continet, quot sunt propo sitiones, demptis duabus, eodem fere modo, quo polygonum aa Geometris per diagonales in tot triangula resolvi potest, quot sunt la tera demtis duobus. Haec autem argumenta tio nisi cautiones quedam adhibeantur ad fallendum aptior est. Cautiones istae funt. 1. Nulla praemissarum diibia sit, aut falsa: > 1 Cap. VII. De aliis rał. modis. 123 coram. ex falso enim antecedente non potest verum consequens oriri.2. Non insint in Sorite duae propositiones negantcs. Hoc enim casu in eius resolutione aderit syllogismus ambas praemis sarum negantes habens, quem vitio laborare supra observavimus (F. 87. can. 4. ). En Soritis exemplum. Quodlibet corpus est ali quo loco: quod est in uno loco, potest etiam esse in alio: quod potest esse in alio loco, potest rnutare locum: quod potest mutare lo cum, est mobile: ergo quodlibet corpus est mobile. Eius vero analysis rationem reddemus 92. Syllogismo, eiusque speciebus. e diametro opponitur INDVCTIO, quse vere ac proprie dici potest argumentatio a posteriori, quippe quae a singularibus ad particularia, alquc ab bis ad universa lia procedit. Haec autem syllogismo prior est: nam quum ope experientiae praemis sas conficiat, indeque conclusiones eliciat universales, hac vero syllogismi praemissas constituant, utpote qui ab universalibus ad particularia, vel ab his ad singularia gra dum facit: hunc sine illa construi non posse, quisque videt, INDVCTIO itaque est argumentatio, in qua quiquid de singulis speciebus vel individuis speciation praedicatur, generatim quoque de toto genere vel speeie enunciatur; adeoque in ea tot minores adsunt, quot species vel in F 3 dividua exprimuntnr. E. g. aurum, argentuan orichalcum, cuprum, stannum, plumbun, ferrum, igni inieclun liquefiunt: ergo omne metallum igni ni ectum liquefit. Ad inductio nem ergo duo requiruntur, 1. plena partium enumeratio, 2. ut quod inferioribus tribuitur, ile superiori pariter enuncietur. Si ergo par tes omnes enuncientur, inductio dicelur com pleta, sin aliquae tantum, incompleta erit: si denique una dumtaxat fars proponatur, EXEMPLUM adpellabitur, quod tamen ad oratores non ad Philosophos pertinet, quum sit contra 34. S. n. 6. ** Ex iis enim, quae diximus Cap. 1., liquet, ideas universales abstractionis ope a singulari bus erui. Eodem modo Par. 11. Cap. 4. Sect. I. ostendemus, indicia universalia a sin gularibus abstrahendo confici. Id vero est, quod Inductionem constituit. Quum autein praemissarum syllogismi saltem una debeat es se universalis, patet, In ductionem syllogismo principia praestruere: adeoque illo priorem esse. Schol. De hụius doctrinae usu tandem pauca delibare juvabit. Quae de universa hac tractatione homini philosopho servanda sunt, qui sequuntur, exponunt. Cap. VII. De aliis rat, modis.127 CANONES, QVandaquidem ratiocinando veritas + vi. innotescit, principia prius con siderato num solida sint et indubia. Propositiones deinde ad trutinam revo cato, ac denique eurum connexionem adcurate perpendilo, ne in quolibet r'a riocinandi modo fallaris: “. Quum enim syllogismus materia et forma con siet: illan vero propositiones, hanc propo sitionum connexio, lioc est syllogismi "leges constituant; cuiuslibet autem rei bonitas materiae soliditate ac formae aptitudine absolvatur: patet; Philosophum de utraque sollicitum esse debere, ut ratioci. nia sua tulo proferre possit. 2. Quoniam omnis argumentatio ad unum redit syllogismum, id agito, ut huius leges nocturna diurnaque manu verses: alioquin loqui scies, non ratio cinari. Exploratum namque est, quamcumque ar gumentationem syllogismuni esse vel crypti cum ", vel compositum, vel multiplicem: nisi ergo syllogismi probe gnaa rus, nulliusmodi argumenta poterit quisque proferre. Qua de remiramur, viros alioquin F4 doctissimos, et de Philosophia optime atque abunde meritos, syllogismo fuisse adeo in fensos, ut eum inutilem, immo nullins bo ni effectorem esse clamitarint. Infra vero ab unde patebit, scientificam methodum sola syllogismorum concatenatione absolvi: unde evidenter proseguisque deducet, syllogismum homini philosopho esse omnino necessarium Videatur Wolffius in Log. Germ. S. III. seq., ubi mathematicas demonstrationes absque illo fieri non posse, experiundo ostendit 3. Si cum alio res tibi fuerit, omnia eius argumenta in syllogismos resolvito: tunc enim clare perspicies, cunctane re. cte procedant, an aliquis lateat error, an sub ambagibus fallacia occultetur. Varii namque sunt fallcndi inodi a Scholasti cis magno labore evoluti, qui tamen si ad sillogismum eiusque leges, tamquam ail ly, dium lapidem, exigantur, oppido evanescent, Ut hoc exempli loco addamus, si soriten duas propositiones negantes habentem in syl logismos resolvas: 'nonne statim patescet do lus, quum tres negantes propositiones in ra tiocinio, adeoqoe contra quartam eiusdem " legem peccatum esse, observabis. Praeclaro igitur hoc duce uti nolle idem esset, ac in. ventis frugibus, glandibus vesci. Hucusque usque satis satis.dede mentis mentis ope ope rationibus actum. Quum autem Logicae sit non contentiones nequicquam fovere, sed hominum vitae consulere, atque intel lectum in veritatis investigatione dirigere: doceamus, oportet, qua ratio ne tribus hisce mentis operationibus in cognoscendo diiudicandoque vero recte uti debeamus. Quod ut commodius effici pos sit, pauca quaedam de veritate generatim spectata, eiusque genuina tessera, hic prae mittemus, VERITAS est, vel METAPHYSICA, quum ens aliquod actu exsistens suam habet essentiam; vel ETHICA quando quilibet sermo interno sensųi, F 5 130 Logica Pars. II. scilicet conscientiae, respondet; ** vel denique LOGICA, si cogitationes nostrae obiectis suis sint conformes. Quia vero hic cum Metaphysica atque Ethicą nihil no bis est negotii, de veritate logica verba tantummodo faciemus. Metaphysice ergo verum dicitur quidquid om nibus gaudet proprietatibus, quae ad con stituendam eius essentiam sunt necessariae: adeoque huic falsum opponi nequit, qoia es: sentia entis est necessaria et immutabilis ut in Metaphysica fusius docebimus, ac proin de nequit ens exsistere, et sua simul essen. tia carere. Ita aurum est verum aurum, qu pin omnia auri adsunt requisita. At non_da tur, inquies, falsum aurum? Minime. Tunc enim non aurum, sed cuprum, orichalcum, aliudve, aut e pluribus metallis revera mi xtum erit. Illud autem verum aurum iudica. re, est nubem po lunone amplecti, atque a veritate Logica aberrare. ** Verę loqui dicimur, quum secundum cong scientiam loquimur, idest dicimus quae trinsechs sentimus. Atque ḥaec veritas dicitur moralis sive ethica, cui opponitur falsilo suium, quod est sermo contra concientiam prolatus, de in Moralibus agemus. quo 93. VERITATIS LOGICAE vocabulo itelligimus convenientiam cogitationum no strarum cum rebus ipsis, Quumquç no. De ver. eiusq. crit. 131 stra congitandi facultas tribus tantum mo dis sese exserat, vel in ideis forinandis vel in iudiciis eruendis vel denique in rationibus conficiendis (S. 15. ): liquet, logicam veritatem vel in ideis, vel in iu diciis, vel in ratiocinatione reperiri. * Hac definitione veritatem abstracto modo con sideramus: concreto namque definiri posset per cogitationem obiecto suo consentaneam. Porro veritasa Logicis dispescitur in FORMALEM, et OBIECTIVAM. Illa est, cuius obiea ctum extra nos vel non existit vel non tale ut a mente nostra concipitur: quales sunt veritates omnes purae geometricae; haec ve ro, cuius obiectum extra nos realiter exsistit. Ham alii INTERNAM hanc EXTERNAM adpellare consueverunt. Illa est clara, distin cta, et indeficiens, quippe qua mens de se suisque operationibus iudicat, haec vero ob scura, dubia, et fallibilis: non enim per eam, scire possumus, utrum cogitatioues nostrae obiectis suis extra nos positis conveniant necne? adeoque quum veritatem habemus in ternam, de reali extra nos obiecti exsistentia iudicare non possumus; quum contra veritatis externae compotes certi simus obiectum in cogitatione exsistens extra eamdem etiam rea liter existere. 96 IDEA VERA dicitur, si quando nca bis rem, uti in seu est, repraesentemus: *verum est lyDICIVM, siconiungenda co 2 F 6 132 pulemus, separanda seinngamus; 've rum itidem RATIOCINIVŇ, si ' neque in materia, neque in forma peccaverit, * Idea ergo singularis ($. 28. ) vera est, si quando eius obiectum extra nos realiter exsi stat, eoque modo, quo nobis illud reprae sentamus: vera pariter dici debet idea uni versalis, dum compositio vel abstractio a re rum natura non recedit, ita ut characteres illam comitantes simul in uno inveniri pos sint. Vides hinc, ideas deceptrices, chimae ricas, aliasque obiectis suis nullo modo re spondentes dici non posse veras. Advertas - tamen, absolutam obiecti deficientiam, vel ideae ab eo discrepantiam veritati nocere. Si namque obiectum non sit evidens, nec ideae characteres eum eo conferre queamus; con tra vero sufficientibus indiciis de eius verita te certi simus: notionem illam deceptricem vel terminum eam exprimentem inanem ad pellare, est contra Logicae regulas, ac pri ma cognitionis humanae principia tnrpissime peccare. In hunc errorem incidunt quicum que de mysteriis Sanctae Religionis sermonem instituentes, aliquam credentibus notam inu rere conantur, quod vocabula mente cassa proferant e id quod alibi diffuse enodabimus. ** Nimirum si de re quapiam aliquid adfirme mus vel negernus, quod adfirmari aut negari oporteret: veluti quum soli spendorem iri, buimus vel tenebras ab removemus? tunc judícia nostra veritate gaudebunt, f 2 2 eo 2 Cap. I. De ver. eiusq. crit. 133 *** Ratiocinationis, sive syllogismi materiam es se tres illas propositiones, e quibus confla tur; formam vero leges. (S. 87. ) expositas, supra docuimus (6- 84.** ). Si ergo pro positiones fuerint verae: leges autem adcuras te servatae, ratiocinium non poterit non es se verum: quia, quum qualis est caussa, ta lis esse debeat effectus, non potest ex veris praemissis falsa legitime fluere conclusic. Ex quo liquido colligi potest, eum, qui prae missas concessit, non posse negare conclusio nem ex iis legitimo nexu fluentem. Cave tas men, ne ex conclusione, licet evidenter ex praemissis deducta, de hárum veritate audeas áudicare: potest enim conclusio vera legitime ex falsis ambabus oriri praemissis. Talis es, set sequens syllogismus: Omnis virtus est fugienda: Avaritią est virtus; Ergo avaritia est fugienda, Vides hic veram conclusionem legitime ex fal sis praemissis deductam. Possesne conclusionis veritate praemissarum quoque veritatem ar 97. Quoniam iudicium verbis expres sumi propositio dicitur (§. 60. ): evi dens est. propositionem dici veram, quae adfirmanda adfirmat negandaque ne gat, servata ubique quantitate. * Sed quia non omnium cnunciationum veritas, nec ab omnibus distincte perspicitur: criterium aliquod inveniatur, oportet, ad quod guere? 134 Logica Pars. I1. tamquam ad lydium lapidem, propositio nem quamcuinque exigentes, eius verita tem dignoscere queamus. ** • Veluti quum particulariter enunciatur de su biecto quidquid extra illius naturam; vel uni versaliter quidquid in eius essentia rationem habet sufficientem. Vid. supra Part. I. Cap. 5. Sect. 1.. 68. ** Hoc autem criterium exsistere debet quo propositiones veras a falsis, a phanta smatis, realitates ab insomniis discernere pos simus: alias enim homo in perpetua illusia ne versaretur, id quod est Divinae sapientiae, homini, ipsiqne humanae menti iniurium. Quia de te Philosophi omnes in eo consenserunt, li cet in adsignanda illa tessera in contrarias partes opinando ierint, res 98. CRITERIVM VERITATIS est ra tio quaedam sufficiens, per quam intel. ligitur cur praedicatum subiecto tribua tur, vel ab eo removeatur. * Nimirum ut cogitationum nostrarum cum obiectis suis conformitatem perspicere possimus in 93. ), eiusmodi characteres in promtu haberi de bent, quibus attributi cuin subiecto con venientia vel discrepantia ita determinetur, nt mens adquiescat, nec ullus de earum veritate supersit dubitanli locus. Qua propter characteres illi REQVISITA ad peritatein recte dicuntur, *** Cap. I. De ver. eiusq. crit. 135 Variae de veritatis criteriis omni aetate fuere Philosophorum opiniones, exceptis Academi cis, üsqne, qui Scepticismum ad furorem usque provehere ausi, atque a Pyrrkone Pyr. rhonistarum nomine insigniti, nihil a nobis vere sciri posse, temerario ausu adfirmarunt, quorum insania comploranda potius esset, quam confutanda. PLATO yeri tesseram es se statuit, evidentiam intelligibilem aeterna rum idearum mentibus participatarum; EPI CURUS fidem sensuum. ARISTOTELES medium inter hos iter tenens, utramque evi dentiam veri criterium posuit: illam nempe in intelligibilibus; hanc in iis, quae sensi bus percipiuntur. STOICI, secundum Laer, tium, veri indicinm aibeant comprehensibilcm phantasiam hoc est, evidentiam &maginationum; CARTESIUS cum recentioribus, elaram, et distin ctam perceptionem: in Medit. 4.; MALEBRANCHIUS cam evidentiam, quam inter na animi coactio sequitur, ut ei adsensum denegare nequeamus. Lib.I.de inquir. verit. LEIDNIȚIUS in triplici evia dentia, intellectus, sensus et auctoritatis criterium illud posuit. Quae vero de his ob servari merentur, in ipsis praelectionibus ex ponemus. In hac ergo propositione: Aer est gravis, qualitas attributi, hoc est gravitas, per no tionem aeris determinatur: in hac enim inest ratio sufficiens cur ipsi illam tribuatur. Quum enim aer corpora inferiora premat; idque > 136 Logica Pars. U. ad costituendam gravitatis notionem requira tur: clare patescit, aerem esse gravem, adeo que propositionem esse veram. Et hoc est, quod Wolffius, criterium verae proposi, tionis ésse determinabilitatem attributi per notionem subiecti. 7 *** E. In hac propositione: Caius est invia dus, requisita ad veritatem sunt invidiae cha racterés alibi enumerati, qni in Caio deprehenduntur, quique rationem con tinent sufficientem, cur Caio to invidum es se tribuatur, Quum igitur veritatis criterium in ratione sulficiente consistat, et a requisitorum collectione constituatur sequitur 1. ut inter veritatis crite ria adnumerari debeant quaecumqne iis de terminationibus praedita sunt, ut a mente, quamvis invita, adsensum extorquere pos sint. At quia experientia quotidiana docet, mentem nostram non convinci, nisi ' sen suun testimonio in rebus sensibilibus, * in tellectus evidentia in intelligibilibus, auctoritatis deuique pondere in iis, quae neque sensu, nec ratione percipi possunt: liquet 2. criteria illa pro rerum di. versitate tria statuenda #Y *** esse, intellectus sensuum et auctoritatis EVIDENTIAM. nempe, Cap.II. De ver. eiusq. crit. 137 * Per res sensibiles intelligimus non modo cor poreas quae sensibus exsternis, sed et ipsas animae actiones, quae sensu interno perci piuntur. Quum igitur:Naturae sa pientissimus Auctor hominem conscientia, sen suque cum omnibns organis instruxerit, ut: omnium cogitationum suarum obiecta distin gueret, eorumque conscius esset: non ab re vera esse pronuntiamus, quae internus eter nique sensus ita se habere testantur. ** Et quidem omnium axiomatum evidentia a primo cognitionis humanae principio, nempe non posee idem simul esse et non esse, ori ginem suam repetit; hoc vero principium in timo sensu cunctis innotescit. Quaecumque porro propositiones a veritatibns evidentibus legitimo nexu deducuntur eamdem evidentiam adquirunt, quam illae habebant, id quod ra tione duce ac demonstratioris ope conficitur quibus intellectus convincitur,et mens adquie scit: evidens ergo est, veritates tam demon strabiles, quam indemonstrabiles ad Logicae reguias cxactas revera exsistere, ab homini bus certo cognosci posse, earumque criterium in intellectus adquiescentia reponi debere nempe ut Malebranchius ait, iu ea 'eviden ' tia, qnae internam producit coactionem, at que a mente adsensum extorquet. Huiusmodi sunt propositiones humanum ca ptum superantes, nobisque ideo imperviae, quae quum ab Ente intelligentissimo tantum agnosci possint, revelatae tandem addiscun tur, fidemque mereatur: quum entis illius perfectiones sint infinitae, nec de illarum 2 I veritate addubitari sinant. Eiusdem commatis sunt facta, sive propositiones singulares, quae in locis temporibusve remotis extiterunt, qnae que nec. sensibus, nec ratione a nobis una quam erui possunt, quidquid contra dicat D. Rousseau Disc. sur l ' inegalité parmi les ho mm.; sed sensibus olim ab adstantibus coaevis que percepta, ab his vero vel scriptis vel per manus tiadita ad. nos pervenerunt: ct quia narrantium auctoritas suspecta non est, certitudinem, aut saltem probabilitatem in mente producunt. Vides hinc, sententiam nostram in intelli gibilibus rationem, in sensibilibus experien liam, in factis rebusve humanum captum ex superantibus auctoritatem commend.ve; adec que eamdem asse cuin Cartesiana, Malebran chiana, et Leibnitiana. Sed quia tessera haec certitudinem potius, mentis scilicet nostrae statum, quam rei veritatem respicit, de ea, quam producit, evidentia plura infra, ubi de veritate certa sermo erit, haud spernen da dicemus. Interim confereudus Io.And. Osiander Diss. de Crit. Verit. Tubingae 1748. FALSITAS veritati opposita est di screpantia cogitationum nostrarum ab obiectis. Quumque oppositorum contrariae sint adfectiones, patet, falsitatem vel in ideis, vel in judiciis, vel in ratiociniis reperi ii; * adeoque FALSITATIS CRITERIVM esse manifestum rationis illius sufficientis defectum. Cap. I. De ver. eiusq. Falsa ergo est idea, quum aliter se habet a re repraesentata; falsum iudicium aiens., si quando subiecto non conveniat attributum, negans vero quoties boc illi conveniat; adeo que falsa propositio, quae neganda adfirmat, adfirmandaque negat, vel quae universaliter enunciat quod particulariter enunciari debe. bat; falsum denique ratiocinium, quod in materia vel forma peccat: i illa, quando propositiones sunt falsae; in bac vero, quum syllogismi leges, violatae sunt. ** Propositionis falsae rera tessera est, si non modo desit ratio sufficiens, cur praeuicatum subiecto tribuatur, vel non; verum adsit rl tio, cur contrariuin enuncietur: tunc enim subiecti notio determinal qualitatem attribu ti oppositi. Porro in ratiociniorum forma fal sitas esse potest vel patens, vel latens. Si vitinn sit manifestum, dicuntur PARALOGISMI; si vero crypsi aliqua tegatur, vo cantur SOPHISMATA A Scholasticis am bo vocantur FALLACIAE. Paralogismus est sequens: Omne homicidium est vitandum, nullum furtum est homicidium ergo nullum furtum est vitandum. In co enim aperto peccalum est colra Can. 4.6. 87.: me dius enim terminus his particulariter sumtus est. Sophisma contra crii, si sie ratiocinabea ris: Populus ex terra crescit: mulliluilo ko. 140 Logica Pars. II. minum est populus: ergo multitudo hominum ex terra crescit: quatuor namque termini ir repsere per aequivocationem termini populus, qui in maiori arborem, in minori hominum multitudinem siguificat. ** Plurima de fallaciis ad nauseam usque a Scho laflicis tradita invenientur, qui tamen tot tan tisque tractationibus nullum fecerunt operae pretium. Quia vero in huiusmodi failaciis, fi ve dictionis, five (ut ipsi aiunt) extra di ctionem, vitium plerumque latet in quarto termino cryptice tecto: Auditorum nostro rum mentes non ultra fatigabimus: attamen, si sapient, syllogismi leges memoriae inscul pent, et ad terminorum numerum semper animum adverlut. Quibens relligiose servatis, aut nihil scimus, aut numquam, neque de cipi ratiocinando, nec alios deçipere pote runt. Schol. De huius tandem docirinae usu opus cst, ut aliqua addamus. Ea paucis iisquo baud spernendis comprehendemus regulis. Qui ergo Philosophi nomen adse qui cupit, hos probe teneat. Cap. 1. De ver. eiusq. crit. CANONE S. I Dea, quae characteres continet si * bi invicem repugnantes, deceptrix est: imaginaria vero, qua ob similitudinem quampiam nobis fingimus quod non est, ut quasi per imagniem oculis obiectum praesens sistamus. ** * Hae igitur ideae proprie loquendo non falsae, sed potius impossibiles dici possunt, quia nihil sumt: ut ' idea circuli quadrati, ligni ferrei, creaturae infinitue', ec. ** Vocantur istae a Wolffio vicariae realium, quia earum vices gerunt, ut si memoriam ti bi rapraesentes per receptaculum idearumi: licet enim nulla adsit analogia inter spiritum el corpus, atque adeo inter eorum proprie lates: ob similitudinem tamen, quod, sicut in receptaculo plura servamus, quae inde, quum opus fuerit, depromiinus, ila memoria plures ideas, quae tamdiu latuere nobis sug gerit, memória ipsam veluti receptaculum nobis sistinus 2. De eo, cuius clare et distincte ra tionem perspicis sufficientem, tuto adfir mato: negalo vero, quod eidem pari ratione refragari cognoscis. Si eam non adhuc nosti: licet pro incerto haberi 142 Logica Pars. II. ſas sit, ne temere iudicato, donec veri tatis eius, falsitatisve criterio polleas. Hoc quidem modo vitari poterit audax illa in iudicando praecipitaptia, quae incautos maxime adolescentes quamplurimis subjicit erroribus. Hi ramque sola suarum virium praesumtione freti iudicia sua nec rationc ful ciunt, nec ad criterium aliquod exigunt; quo fit, ut ea praecipitanter nimis prouentiare adsueti, ratione tandem destituantur, et quid quid in buccam venerit effutiant. 5. Si diu in veritate invenienda fru. stra taboraveris, examen reintegrato. Si ne id qutdem profuerit, ne rem pro falsa, aut impossibili venditato, nitam ridiculus sis, qui mentem tuam veri ful sigue mensurani esse existimes. * * Perutilem harc cautionem inculcat Genu eusis noster, quae dici non potest, quanto sit omuibus adiumento. Quum enim obscurilas plerumque sit relativa, eiusque caussa in - bo mirum n.entibus, raro in re percepta, sit quaerenda (S. 20. ): nullum est huiusmo di iudicium, quod non ex praecipitantia fluat. Qui enim ita se gerunt, ni mia de in tellectus sui viribus praesamtione laborant, idque agunt, perinde ac si supremum persprie caciae cognitionisge gradum obtineant, cui an tefcratur remo, pauci pares putentnr. In hanc rigrilam offendunt quicumque mundi creatio Cap. II De ign. et er. cor. caus. 143 nem iu tempore, aliasve doctrinas, quas intellectu adsequi nequeunt, proimpossibi libus venditant, ut fusius in Metaphysica docebimns. Id vero quam ridiculum sit, nemo non videt. De ignorantia et errore, eorumque caussis. A Ctio mentis, qua verum (S. 94. ) agnoscit, resque sibi re praesentat ac percipit, COGNITIO adpellatur. Eius vero absentia dicitur IGNORANTIA, quae definiri pot est per statum mentis cognitione desti tulae. * Sic e g. qui disciplinae alicuius veritates ac praecepta novit, eaque mente tenet, illius cognitione gaudet: contra vero, si ea cogni lione sit 'destitutus, disciplinam illam igno rare diciiur. 103. Experientia quisque sna it aliena doceri potest, hominnm plerosque nihil aut minipium admodum in rebus cogno scere; plurima quoque nesciri ab iis, qui acriori se praeditos ingenio jactant: cos vero, qui doctissimorum virorum nomine gaudent, quo longius sua sese exserit co gnitio, eo plurima se ignorare comperient. 144 Logic. Pars II. * Ex innumerabili rerum, quae sciri possunt, puniero ingenii cuiuscumque vires superante, domesticaque experientia fluxit mos ille lau dabilis ad utilium rerum cognitionem ani mum adplicandi, neglectis iis, quae ad cu iusqne statum minime pertinentes, inter su ferflua et inuțilia referuntur. Recte namque observaverat Seneca necessaria a nobis igno rari, quia superflua discimus. Id ipsum er go argumento est, homines, postquam ad sublimiorem, ut aiunt, cognitionis apicem pervenerint, quamplurima adhuc habere, quorum nulla se gaudere cognitione animad vertant, illoruinqe esse admodum ignaros. 104. Ex quo patet 1. omnes homines in stalu verae ignorantiae versari, ac ne minem un quani reperiri posse, qui omui moda rerum cognitione praeditum se tuto adfirmet: quapropter oportere 2. ordine na in studiorum curriculo servari, ut primo necessaria * deinde ütilia, postremo iu cunda discantur; adeoque 3. eruditorum reprchensionem merito incurrere eos, qui neglecta hac methodo ad superfluarum re rum siudiuin animum adplicant, param curantes ea, quae ad interni extervique status suiperfectionem sunt necessaria. Necessaria dicuntur, quae Dei suique cogni tionem spectant, item quae facultatem quam quisque profitetur, postremo quae ad socie tatis commoda promovenda pertinent. Cap. II. De ign. et er. eor. cans. 1.45 ** Suo itaque officio deesset Medicus, si ne glecta medendi arte, eruditioni, hoc est quid quid extra Medicinae ambitum est, operam daret. Ignorantiam quoque suam magis pro moreret Legisperitus, si pro legum codici bus, medicos aliosve sibi inutiles libros evol veret. Alque utinam nostro hoc aevo Lit teratores isti extra aleam aberrantes defide, rarentur ! 105. Ad ignorantiae porro caussas de tegendas nobis lucem quam maximam ail fert experientia. Ea enim duce scimus igno rantain oriri a 1. DEFECTV IDEARVM, non solum in iis rebus, quae nostrum si perant captum, sed etiam in iis, quae iu jus limites von excedunt, 2. MENTIS IMBECILLITATE, sive impotentia co gnoscendi idearum nostrarum relationem, LABORIS IMPATIENTIA, qua fit, ut attentio minuatur, ideaeque fiant deterio res, STVDIORVM CONFVSIONE, MEMORIA vel nimia, vel labili, 6. denique SVBSIDIORVY INOPIA. (t ) Impotentia haec ab idearum mediarum defe ctu pendet: quo fit, ut communi illa defi ciente mensura, nec conferre inter se nolis nec propterea vertalem delegere quaemus. (ones T. 1.  ** Confusio studiorum habetur, vel quia fine attentione aut ordine fiunt, vel quia plurima eodem tempore cursimque discuntur: ex quo pluribus intentus minor est ad singula sen sus. Hinc nimia illa sciolorum turba, solis frontispiciis praefationibusque furfuroscrum, nostram invasit aetatem, ** Nimia namque memoriae praestantia laboris impatientiam, adeoque ignorantiam parit; illius vero infidelitas cognitionis defectum au get. Ecqua enim cognitio ei, qui unam al teramve propositionein memoria retinere non valet? (+ ) Subsidiorum nomine veniunt Magistri, si ve viventes illi sint, sive mortni, scilicet li bri. Ex horum enim defecte lici non po test, quot sublimia vilescant ingenia, quae vel mechanicis adeo artibus, aut otio et libidi ni se addicunt. Elegantissimum est Alciati em blema, quo ingenia ista iuveni euidam com parat, cuius sinistra manus duabus alis in Coclum tollitur, dextera vero ingenti pon dere impedita deorsum fertur. Cujus em blematis dilucidationem reddemus Dolendum autem magnopere est, quod si quando iuvenes isti litterario furfure vix in crustati Rempublicam invadunt, societatis perturbatores, bilingues, susurrones, ad pessima demum et turpissima quaeque, (si paucos excipias ) parati evadunt. 106. Haec de ignorantia. Quando au tem propositicni verre dissensim, falsae contra adsensum praebemus, tunc ERRA coram Cap. II De ign. et ei. cor. caus. 147 RE dicimur, sive judicia confundere. Qua propter ERROR definiri potest, quod sit confusio iudiciorun. Error autem in iu dicando commissus PRAEIVDICIVM * adpellatur, quod esse dicimus iudicium erroneum praecipitanter et sine maturi tale latum. Dicitur vero praeiudicium, vel quia sanae mentis praevenit iudicium, vel quia praema ture et fine criterio profertur. Talia sunt pleraque vulgi praeiudicia, veluti: discum solis diametrum habere circiter bipalmarein: cometas esse bellorum caussas: et alia eius modi. 107. Quum praejudicium sit iudicium erroneum; error vero confusio iudiciorun: evidens est s. praeiudicia na sci ex idearum ob curitate et confusione, adeoque 2. eorum originem ab intellectus corruptione unice esse petendam. Equidem sunt plerique, qui praeiudiciorum originem a voluntaté repetunt, eamque pri us emendandam esse aiunt; ii tamen io to aberrant coelo: voluntariam namque praeiudiciis adhaesionem vel negligen liam animum ab iis liberandi, pro praeiudia ciis venditant. Si vero rem probe per penderint videbunt, ea, quae voluntatis vitia asserunt, ab intellectus vitiis vel imagin natione pendere: et si qui méntem obun brant ad feclus, appetitus quippe sensitiyi * * 7 G 2 148 Logica Pars. It. ** vehementiores molus, non aliunde, quam ah ideis obscuris et confusis ortum trahunt. Qua de re legatur Syrbius in Phil. rat p: 5. 108. Duo intérim sunt praeiudiciorum genera, AVCTORITATIS scilicet, et NIMIAE CONFIDENTIAE. * Illa sunt, quae nostris viribus parum confisi, nimi aque oscitantia laborantes ab aliorum, quorum apud nos plurimum valet ancio ritas, scriptis vel sententiis kausta adopta mus, eaque pro sanctis habenda puta mus; hec vero, quae nostris viribus niinium fidentes, quamquam praecipitan ter et sine meditatione prolata., tainquam vera lamen adsumunus illis firmiter achae remus, et proeiis, veluti pro aris et fo. cis, pugnamus. * Addunt alii praeiudicia AETATIS. At quum illa non sint, nisi opiniones praeconceptae a nutricibus parentibus, atque magistris a teneris, ut aiunt, unguiculis haustae: ea ad auctoritatis praeiudicia referri, nemo non ri det. Illustris VERULAMIUS de augm. scient V. 4. praeiudicia,, quae iilola vocat, in quatuor dividit classes, quarum prima am plectitur idola tribus, scilicet quae in ipsa hamana natura fundata sunt; altera idola specus, hoc est hypotheses a nobis ipsis provenientes; tertia i: lola fori, idest prae concept as opiniones, quae ab hominum com mercio mabant; quarta denique idola the *** Cap. II. de ign. et er. eor. caus. 149 atri, videlicet erronea iudicia, quae ex Phi losophorum sententiis bauriuntur. Quae 0 mnia ad duas, quas retulimus, classes com mode referri possunt, ut coram ostende mus. * Auctoritatis praeiudicia sunt ea, quae a nu tricibus, magistris (vivis illis mortuisve ), aut populo haurimus: eiusmodi sunt opinio pes omnes aliquibus civitatibus, familiis, vel.: sectis familiares, quarum cultores illis, tam quam glebae, adscripli, nulloque utentes iu dicio, eas, tamquam oracula, pronuntiant seque inde dimoveri non patiuntur. Curio sissima est Galilaei narratio in Systemate co smico, de viro quodam nobili Peripatheticae philosophiae addicto, qui qunm Venetiis in domo cuiusdam Medici sectionem anatomicam perfici vidisset, in qua maximam nervorum stirpem e cerebro exeuntem, per cervicem transire, per spiralem distendi, ac postea per totum corpus divaricari observasset, nec, nisi tenue filamentum, funiculi instar, ad cor pertingere, a Medico rogatus, adhuc in Aristotelis sententia manere vellet rumque originem a corde repelere? non sine magno adstantium risu respondit: Equide:n ita aperte rem oculis subiecisti, ut nisi tex tus. Aristotelicus aperto nervos corde deducens obstaret, in sententiam tuam per tracturus me fueris. Quis, quaeso, haec au diens a risu ' temperaret? *** Vocari quoque solent praeiudicia receptae hypotheseos, novitatis, similia: ut sunt sy nervo e G 3 750 Logica Pars 11. MAE, stemata omnia ab eruditis inventa, quibus tam acriter inhaerent, ut uullum sit rationis pondus, quo ab opinione sua dimoveri pa tiantur. 109. De errorum caussis, restat, ut paulo ca addamus, Eae vel REMOTAE sunt quae mentem ad errores ac praeiudicia praeparant et disponunt; vel " PROXI., quae mentem ipsam ad iudicio rum confusionem impellunt, erroresque producunt. Remotae rursus in generales dividuntur, et speciales. Caussae generales sunt ATTENTIONIS DEFÈCTVS, qui ideas reddit deteriores ADFECTVS, quos attentionem turbare, idearumque obscuritatem parere supra ob. Servavimus, SCIENDI LIBRO ciun ralurali corporis inertia, COMPENDIA et DICTIONARIA disciplinarum, in quibus nulla idearum analysis reperitur MALVS vocabulorum VSVS, quo fit, ut auctorum sensus non intelligatur denique LIBERTAS PHILOSOPHANDI. Praeiudiciorum cnim origo ab idearum ob scuritate repetenda est, idearum vero obscuritatem pariunt attentionis defe clus et adfectus er his ergo caussis praeiudicia nasci, quisque intelligit. Quainvis enim corporis inertia laboris impa Cap. 11. De ign. et er. Cor. caus. ¥ tientiam creet, adeoque ignorantiae tantum Caussa esse possit (* 105. ): cum sciendi tamen libidine conjuncta errorum genitrix est: etenim sciendi pruritus efflcit, ut intellectus tali cupiditate ductus intra ignorantiae fuae te niebras consistere nolit, opportunisque prae • diis vacuus ea investiget, quibus par non est, ac proinde in plurimos lahatur errores. ** Libertas enim philosophandi iuxto maior in receptas hypotheses illidit; nimis autem con etricia in auctoritatis praeiudicia nos urget, sel saltem crassam parit ignorantiam. 110. Speciatim autem AVCTORITA TIS praeiudicia oriuntur harum trium abaliqua EDVCATIONE, scilicet, CONVERSATIONE [conversazione], et CONSVETVDINE; ut et praeiudicia NIMIAE CONFIDENTIAE aa nimia INGENII FIDUCIA. Et ut de educatione quaedam singularia attingamus, id sedulo notandum: praeiu dicia, quae ab ca procedunt, tribus cha racteribus optime distingui, temporis BREVITATE, 2. loci RESTRICTIONE, cognitionis DEFECTV. Qui quidem characteres si desint, propositio non in ter praeiudicia, sed inter veritates com muni hominum consensione probat as est referenda. Quot mala hominibus adferat educatio, vix dici potet. Parentes enim tantum abest, ut puerorum intellectum perficere eorumquemor is mederi curent, ut potius eorum aninum maximis praeiudiciis, anilibus fabeliis, erro neisque opinionibus imbuant. De magistrorum educatione nihil dicemus, ab iis enim quam multa hauriuntur praeiudicia, quum iuvenes in magistrorum verba iurantes quaeuis eo run effata sancta esse putent, ac de illis veluti de Religione, dimicent ! Conversatio cuin libris et eruditis, consuetudo cum po pulo quot foveant errores, quum res sit me ridiana luce clarior, in ea explicanda nihil immorabimur Legatur interim Tullius Tuscul quaest. Lib. III. cap. 1. Qui nimium suo indulget ingenio, fieri non potest, quin in errores incidat, el pacdın tismum vel contradictionis spirituin induat, quae duo vitia aliorum aversionem odiuinque conciliant. Praeterquam quod novitatis studi um quanta hominibus mala produxerit, ii sciunt, qui Ecclesiae vel litterarum vices er annalibus didicerunt. *** Nimirum educationis praeiudicia tantisper in animo sedent, donec ad maturitatem ra tionisque perfectionem sit perventum; nou sunt ubique earlem, sed quamvis in cuius cumque Regionis gentibus praeiudicia sedeant, diversa tamen pro educationis morumque di versitate inveniuntur; rudium tandem von eti am sapientum mentes occupant ita, ut dum illi inter praeconceptas opiniones erroresque iacent, hi eorum insipientiam ac ignorantiam destruere nullo modo valentes vel rideant, vel de ea conquerantur. Cap. II, De ign. ei er. eor. caus. 253 mus Omnes illae, quas recensuimus caussae praeiudiciorum remotae sunt; pro Xima namque est PRAECIPITANTIA. Quae quum ita sint, optimum, idqne uni cum, ad praeiudicia vitanda remedium est iudicium suspendere, seu DUBITARE: est: enim DUBITATIO « prudens iudicii su spensio. Tanc autem iudicium suspendi quum propositionein aliquam nec adfirmamus neque negamus. * Cave la nen credas, ad praeiudicia vitandą conferre Scepticismum, vel Pyrrhonismum insanam nempe illum de onnibus dubitandi miorem, quo hodiernos incredulitatis fauto. res uii, non sine dolore videmus. Stolidi tas enim, nedum temeritas infanda foret sine sufficienti ratione dubitare. Sobriam quip pe ac prudentem commendamus dubitationem eo fine institutam, ut suspendatur iu licium, donec mens ad ideas distinctas clarasve per veniat. ** Totum hoc de rebus intra rationis fines ex sistentibus, nullaque evidentia suffultis est intelligendum. Etenim quae Divina auctorita te nituntur, aut mathematica gaudent eviden tia de illis dubitare, impium; de his ve ro, foret adprime stullum. Schol. Espositis mentis humanae imbe. cillitate et vitiis, reliquum est jis praebeanius medelam. Quamvis Feromul, 7 ut aptam ti philosophicarum rerum Magistri, inter quos Nicolaus Malebranchius, et Antonius Genuensis, quamplurima ad id remedia. proposuerint, quibus vel minimum quidem addere, non opis est nostrae; licebit ta men, ad Auditorum nostrorum instructio nem, si plura n quimus, eadem saltem ab ipsis tradita paucis repetere. Quisquis ergo ignorantiam errorenive yitare cupis, hos menti infigito CANONES. MEREntem sedulo studio attentio ne, meditatione ab obscuritate et confusione liberato. * In hoc enim in. tellectus perfectio sita est, a qua exsu lant ignorantia et praeiudicia. * Ut id consequantur adolescentes, prae ocnlis habeant quae in prima harum Institutionum parte observavimus, ea praecipue, quae de ideis cap. 1. Schol. adnotavimus. 2. Ad studia praeiudiciis liber ac do cilis, uti modo in lucem editis infans, accedito. Magistrum eligito optimum ab eoque necessaria atque utilia disci io, nihil verens ab eius, qui te ad sa pientiam manuducit, prius ore pendere: Cap. II. De ign, et er. eor. caus. 155 ut praecepta demum, quum te ignoran tia deseruerit ad examen revocare possis. * In Magistrorum electione magna cautio adhi benda est: abea namque pendet cognitionum nostraram soliditas et rectitudo. Ad eorum dotes praecipue attendendum, de quibus ideo pauca inferius delibabimus. 3. Methodum ubique atque ordinem cordi habeto. In studiis eapraecedant per quae sequentia intelliguntur. Ex hujus canonis neglectu oritur studiorum confusio, quam ignorantiae caus sam haud postremam esse, experientia sensusque com munis evidenter ostendit Auctoritati nec nihil, nec multum deferto. Nimia namque aliis adhaesio servum pecus; sensus vero communi ne glectus audacem efficit, omniaque sibi permittentem. 5. De iis, quae vel Divina auctori tate, vel maxima evidentia destituta sunt, prudenter dubitato, donec certus fias. Rectam rationem prius, sensum dein de optimorum communem consulito. Quae captum vero tuum superant ne perqui rito, nisi prius opportunis mediis probę fueris instructus. * G6 156 Logica Pars. II. * Si vero captum humanum superent, ca non investigare omnino, recta ratio docet. 6. Laboris patiens, memoriae ac per spicaciae tuae ne nimis fidens esto. Me mento Poetae illud: ABSQUE LABO RE.NEMO MUSARUM SCANDIT AD ARCEM. Vides hinc, quam immerito a nostrae aetatis adolescentibus voluptati ac vanitati deditis laboremque horrentibus cognitio studiorum que felix exitus expectetur. Compendia et dictionaria, quippe quae nihil solidi profundique continent, ne multum amato. Paucos habeto libros, eosque lectissimos. * Cum lectione me ditationem semper coniungito  Non nostrum est praeceptum, sed Senecae, qui ut facilem Lucilio suo viam ad virtutem aperiret, librorum paucitatem diserte com mendat his verbis: Cum legere non possis quantum habueris, sat est habere quantum legas. Ep. 2. Vide quae diximns Part. I. 8. Poetas caute legito, ne inanibus fabellis animunı imbuas. Populum, utpo te pessimi argumentum, ut anguem fu gito. Senecam audito dicentem: SANA TIMUR, SIMODO SEPAREMUR A ÇOETU, cap. 1. Schol. Cap. II. De ign. et er. cor. caus. 157 Ad poetas quod attinet, eorum lectionem adolescentibus vel omnino interdicendan, vel arctissimis includiendam cancellis cuperernus, quippe qui vivida phanthasia pollentes ima ginationi retinere potius, quam laxare debent habenas: id quod ia legendis Poetis contra evenit. Populi porro damna paucis expressit idem Seneca, quum ait: Inimica est mullorum convcrsatu. Ep. 7. De Veritate ceria, melliisque ad cam perveniendi. $ 12. sis ad veritatis investigationem gradum faciamus. VERITAS vel CERTA est, si in ea adsint omnia veritatis requisita, ut nulla nobis de illa re maneat suspicio aut dubium, vel PROBABILIS, si propius ad certitudinem acce dat, nempe quum non omnia insunt re quisita. De illa nunc, de hac subsequen ti Capite agemus. CERTITUDO est mentis status veritati adensum ita praebentis ut nulla de opposito adsit sollicitudo Ex consequitur i, ut si quam minima adsit suspicio non certitudo, sed INCERTITUDO vocetur. Et quia non idem est om. nibus mentis status, sequitur 2. eamdem evunciationem uni certam esse posse, al teri incertam. Tandem quoniam quisque mentis suae statum agnoscit, consequens est 3. ut nemo aliorum certitudinis sed suae tantum iudex esse possit. * Quia omne, quod verum est, vel absolute et in se tale est vel in relatione ad mentem, quae non semper terminorum nexum distincte percipit: ideo Philosophi certitudinem divide bant in OBIECTIVAM et FORMALEM, il lamque esse, aiebant, nexum propositionis in trinsecum, hanc mentis nostrae statum respi cere. Nos illam proprie VERITATEM, hanc CERTITUDINEM adpellamus. E. 8. Axioma; Totum est maius sua parte, si absolute et in se spectetur, VERUM dicitur, si vero ad men tem referatur, CERTUM est, quia talia ad sunt indicia, ut ipsi absque ulla oppositi formi dine adsensuin praestemus. Quoniam indicia ad certitudinem ducentia trium generum esse possunt, sci licet vel absolute infallibilia vel dalis tantum permanentibus caussis naturalibus, vel denique sccundum huinanae prudentiae leges: evidens est 4. triplicem etiam esse certitudinem, METAPHYSICAM nempe yel MATIEMATICAM, quae illis; PHY. Cap. 111. De veritate certa etc. 159 SICAM, quae istis; MORALEM tandem, quae his fulcitur indiciis, quaeque alio no mine FIDES HUMANA adpellatur. * Primi generis sunt axiomata, aliaeque pro positiones nullis obnoxiae vicibus;alterius haec propositio: corpus non suffultum cadt: pos fremi vero haec: Augustus fuit primus Ro manorum Imperator. 115. Experientia abunde constat, men tem nostram non statim, nec semper, quod verum est, certo cognoscere- Via ergo quaedam ipsi monstranda est, qua tuto ad certitudinem perveniat: eaque, pro certitudinis varietate, diversa est; spe ciatim vero triplex, EXPERIENTIA sci licet, RATIO seu DEMONSTRATIO, et AUCTORITAS, de quibus singillatim, et quantum res ipsa furet, breviter agemus. Uidquid a nobis sciri potest, vel singulare est vel universale (S. 26. seqq. ); itemque vel effectus, vel caussa. Singulares porro ideas sensibus ad quirimus; universales' vero in 160 Logica Pars II. tellectus abtractione conficimus. Rursus quaelibet caussa effecluin salte in natura, praecedit, ut in Metaphysica do. cebimus. Duae igitur cognoscendi viae no bis aperiuntur, altera, quae a singulari bus ad universalia; itemque ab effectibus ad caussas ascendit, nemp: a sensibus, si ve experientia incipit; ideoqne dicitur co gnitio a posteriori: altera, quae ab uni versalibus ad particularia, a caussis ad ef fectus rationis ope descendit descendit,, ac proinde vócatur cogniíio a priori. De illa nunc; de hac sequenti sectione agemus. Omue itaque, quod experientiae ope scimus, dicitur COGNITIO A POSTERIORI. Est autem EXPERIENTIA cognitio adqui sita ex attentione ad obiecta sensibus obvia, Sic per experieutiam novi'nus aquam made. facere, ignem col fucere, ceram igni admo tam liquefieri, ct id genus alia. 117. Quum experientia sit in rebus sen sibus obviis; sensibus auien percipianlur les exisientes sive indiviadua: patet 1. a uobis res tan tum singulars experimento addisci, * extra eas nsilium alind esse experientiae obiectum, adeoque 3. eam in abstractiş 2 2. Cap. Ill. de Veritate certa ctc. 161 sensus et universalibus locum non habere, licet haec ab ipsa deriventur. Igi tur 4. qui demonstrationem aliqu am posteriori conficere vult, is casum singu larein, allegare debet, dummodo experien tia non sit cuivis obvia; 5. denique, ex perientia non datur in iis, quorum n ullam habenius ideam. * Quoniam vero est vel internus, vel externus experientia quoque est vel INTERNA, vel EXTERNA. Illa habetur qnum nobis ipsis attendentes aliquid in anima nostra contingere percipimus: e. g quoties nobis malum aliquod repraesentamus; toties taedio nos adfici animadvertimus; haec ve ro, si res in organis nostris mutationem pro ducentes percipimus: ut si manu igui admota, calorem igui inesse observemus. "Experientia rursus dividitur in VVLGAREM, quae mnibus aeque patet, ut calor ignis, et ERVDITAM, quae speciali studio, atque adhi bitis necessariis mediis cooficitur, arleoque so lis innotescit eruditis, ut ' aeris gravitas, elasticitas ctc. 118. Habitus, sive promtitudo aliorum vel propria esperimenta colline andi, et ex iis conlusiones elicianendi, dicitur ARS EXPERIVNDI. Quae quidem ab experientia tam longe distat, quantum ba bitus dfert ab actu. * Non ergo sufficit unam alteramye experientiam peragere, aut aliquot instrumenta s ertractan. 162 Logica Pars II. di peritiam habere, ut experiundi arte prae ditus quis dici possit, sed opus est habitn longa exercitatione adquisito, non solum res experimento subiiciendi, sed propria aliorum que experimenta ad critices regulas exigendi, atque ex iis conclusiones scientificas, sive corolla ria legitimo rationis usu deducendi 119. Quoniam experientia sensibus ni titur; ad sensionem autem duo requiruntur, scilicet mutatio in or ganis sensoriis ab externis obiectis produ cta, et repraesentatio in anima huic obie cto conformis (ut in Psychologia ostende mus ): consequens est 6. ut sensus, po sitis ad sentiendam requisitis quam fallant; * proindeque 7. nos non & sensibus, sed a iudicio, quod ani ma praccipitanter fert super experientia, persaepe falli. Rinc. 8. cautiones quaedam ad errorem hunc vitandum adhibendae > num sunt. et Requisita ad sentiendum tria sunt, orga norum sensoriorum sanitas 2. attentio, 3. justa obiecti distantia. Quotiescumque ve ro de visu agitur, et quartum requisitum adesse debet, nempe èiusdem mcdii in ter obiectum et organum interpositio. Quum enim in visione radii lucis in corporum superficiem incidentes reflectantur, et in acre prius, deinde in oculi humoribus ac lente cristalli ua refracti ad retinam usque pertingaat, u Cap. 111. De Veritatė certa etc. 163 hi motum in nervo optico, quod sensationis caput est, producunt: si partim in aere partim in aqua aliove densiori medio obie clum ponatur, non eadem erit lucis refra ctio, adeoque non idem locus obiecti parti ' bus adsignabitur: unde fit, ut illud fractum vel recurvum adpareat. Si ergo neglecto hoc requisito adparentiam illam pro realitate sumamus, non sensuum, sed judicii defectú id provenire, fatendum est. Cautiones, quas inculcamus sunt 1. ut sior gana sensoria paullo debiliora fuerint, debi tis armentur instrumentis, 2. ut obiecta in iusta ab organis distantia posita attente ob serventur 3. ad tot sensus, ad quot redi gi possunt, redigantur. Si cautiones istae adhibeantur nullus in percipiendis rebus sensibilibus irrepere poterit error: si vero quae dicta sunt probe attendantur, non in surgent amplius difficultates, nec erunt qui vetustissimam cipionis in aqua fracti, turris que emimus rotundae adparentis cantilenam ad nauseam usque repetentes, sensuum fal laciam ulterius inculcare velint. 120. Quia vero per experientiam sin gularia tantum cognoscimus sequitur ut VITIVM SVBREPTIONIS incurrant ii, qui ea, quae minime ex perti sunt, vel quae imaginationi aut ra tiociniis experientia deductis debentur, pro experientia obtrudunt. * Tales sunt, qui pliaenomeni alicuius caussam raperientia constare adserdut. Veluti si quis 164 Logica Pars II. ferrum a magnete altrahi videns, experien. tia compertum esse diçat, ex magnete efflu - via exire ferrurn attrahendi vim habentia, vitium subreptionis incurret. Quum ergo res singulares tantum modo experiamur; earum ve ro repraesentatio dicatur idea singularis: recte infertur 10. notiones expe rientiae ope immediate formatas esse ideas singulares, ut et 11. singularia iudicia ipsis innixa. * Quumque his nova deducta iudicia non nisi ratiocinationis ope eruan tur: evidens est 12. haec nova iu dicia di ci non posse singularia, sed DIANOETICA sive ratiocinantia.Vocantur huiusmodi iudicia INTVITIVA, quia in his, quae in rei cuiusdain notione comprehensa intuemur, eidem tribuimus: ut ignis est rulidus: aqua madefacit. Scholastici ea vocabant discursiva: ratioci nium namque ab iis dicebatur discursus. E. g. ignis est cctivus: vapor est elasticus. Quandoquidem indicia intuitiva conficiuntur tribuendo rei quidquid in ipsi us potione comprehenditur: sequilur. 13. ut ea conficianlur accipiendo rem perceptam pro subiecto, eique tribuen I 22. Cap. III De Veritate certa ete. 165 do quidquid attente consideranti in ipsa occurrit, vel ab ca removendo quod in aliis, non etiam in illa observatur. * remove * In primo casu habebis iudicium aiens, in secundo negans. E. g. Ignem percipis eique calorein inesse observas. Sume ergo ignem. pro subiecto, calorem pro attributo, et ha bebis iudicium aiens: ignis est calidus. Contra quia alias observasti aquam madefa cere, id vero in igne non intueris: ab igne hoc attributum, eritque indiciun negans: ignis non adefacit. 123. Quemadmodun autem enunciatio. nes particulares in universales comunitari possunt: ita, quamvis notiones et iudicia ab experientia deducta sint singularia, commode tamen in u niversalia transmulari possunt, si regulae sequenies exacte servcolur. 12. Quoniain individua'sunt omnimo de determinata ($. 18., et variis circum stantiis involuta: 14. at tente separari a re percepta debent acci dentia sive modi ab attributis essentialibus, quibus tantumu modo est attendendun: 15. allributa haec essentialia onipibus speciebus vel individuis 166 Logica Pars II. convenientia abstractionis ope retinenda, atque inde notae characteristicae depro mendae sunt, quae ad rem illam ab a liis discernendam sulliciant. Hi quidem ermut characteres definitionis a posteriori ex in dividuis casibus eruendae. 125. Vt antem operatio recte procedat, oportet 16. tot facere iudicia intuitiua quot res ipsa percepta suppeditat, 17. ac cidentia omittere, 18. attributa, quae non seinper eadem sunt, determinationis bus particularibus liberare, ac tandem 19. plura ea in re adducere exempla magna pe sollertia attendere in quibus perpcluo conveniant, aut inter se discrc pent. * E. g. Vt scias quid sit commiseratio, ob serva casum aliquem, in quo videas te, aut alium alterius commiseratione percelli. Ad duc et aliam huius modi speciem, aut plu res etiam, si id res exigat, videtoque cir cumstantias, quae sunt perpetuo similes. Hoc modo in notescet tibi commiserationis idea universalis, cuius notae definitionem suppe ditabunt realem, commiserationem nempe es. se tacdinm ob alterius infelicitateir. Conf Wolfi. Log. Lat. §. 492. 126. Nunc quo modo iudicia universa lia a posteriori coulcianlur, observemus. Cap. III. De Veritate certa etc. 167 Quia ab experientia oriuntur iudicia intuitiva: videatur primum, num praedicatum sit attributum rei perceptae essentiale: quo casu enunciatio erit uni versalis ($. 68* ). Deinde experientiam multoties repetendo dispiciatur, utjum at tributum illud rei perceptae perpetuo et costanter insit. Quod si non semper illud inveniatur, investiganda est ratio, cur in ea aliquando deprehendatur, eamque biecto addendo, indiciuin enascetur uni versale (5. 69. ): * Ita e. g. esperientia novimus, igni semper calorem inesse, ceram autem non seinper es se liquidam. Iudicium ergo ignein esse cali dum erit universale: at non universaliter ius ferre poterimus ceram esse liquidam;sed opor tet invenire rationem cera aliquando liguescat, quae quun sit in igne, cui tunc admovetur, hac subiecto addita, universalis orietur ennnciatio: cera igni admota li quescit. cur > 1 127. Philosophus interim in rerum ca ussis et rationibus investigandis studiose versatus regulas quasdam sequa tur oportet, ut veriiates ex experientia de ducere queat. llae regulae sunt: 1. Si in obiecto aliquo mutatio observetur, qun ties obiecto alteri iungitur, idquc con 168 Logica Pars I. stanter: tunc hoc esse illius caussano 3 tuto concludi potest. * 2. Si duo vel plura, licet perpetuo, coexsistere wel se mutuo sequi observeniur, sta tim inferre licet, unum esse alterius ca ussam, nisi prius recta rario sic esse convicerit. non * Id clare patet exemplo cerae liquentis igni, aut solis radiis admotae. ** Si ergo bellum simul cum cometa existat, vel eumdem sequatur: praecipitantia erit iu dicare, hunc esse caussam illius. 21. 128 Ex quibus omn: bus clare deducitur 20 propositiones ex experientia legitime uistitala confectas esse certo veras; quouicumque sensioni omnibus requisitis in stuctae convenit, pro certo haberi, adeo. que 22. et definitiones experientiae adiu mento legitime efformatas, et 23. axio mata vel postulata ex his de ducta itidem certitudine pollere.  Rationem definivimus per facile tum distincte perspiciendi. Il la ergo utimur si qnando enunciationem, de cuius veritate iudicium ferre volumus, ita cuin aliis connectimus, ut inde ter minorum nexus ctare perspiciatur: id ve. ro est, quod dicimus COGNITIONEM A PRIORI. Connexio isthaec vocatur DEMONSTRATIO, cuius est veritates ex certis principiis per legitimam ratioci nandi seriem eriiere (š. cod. ). SERI ES porro RATIOCINÀNDI habetur, si ex pluribus syllogismis invicem connexis conclusio prioris sit praemissa sequentis ut inox adparebit: qni quidem SYLLOGIS MI CONCATENATI dicuntur. 130. Ex quibus nullo negotio sequitue 1. in omni demonstratione duo requiri, nempe principia demonstrandi certa it in: dubia, eorumqne cum conclusione coone xionem. Et quia experientiae rite institu definitiones, axiomata et postulata T. 1. tae, 2 > H 170 Logic. Pars II. certitudine gaudent (s. 128. ): infertur 2. ea ad eiusmodi principia esse referen da, proindeque 3. illum adserta sua nou demonstrare, qui ea ex incertis dubiisque principiis deducit. 131. Quia vero duplex cognitio datur, a priori scilicet, sive per rationem; et a posteriori, seu per expe rientiam: sequitur hiec 4. duplicem quoque dari demonstrationem, earoque vel A PRIORI confici vel A PO. STERIORI: illam haberi, quando veri tatem aliquam a principiis legitime connexis deducimus, vel effectum per suas caussas probamus; si quando eam ex experientia reete institu ta, vel caussam per suos effectus demon stramus. ** Quum ergo a priori demonstrare volumus, principia statuamus necesse est, antequam ad syllogismorum concatenationem deveniamus. Id darius fiet exemplo. Ponamus hanc proposi tionem: Deus caret adfectibus. Eam a prio. ri sic demonstrabimus. DEFINITIONES. 1. Deus estens perfectissimun. 2. Intellectus perfectissimus est, qui omnia * hanc vero, sibi distinctissime repraesentat, 3. Appetitus sensitivus est. qui oritur ex idea boni confusa. 4. A'fectus sunt motus vehementiores appe 1. tu sensitivi. Cap. II!. De Veritate certa etc. 1. ): sed era mo AXIOMATA. 1. Ens perfectissimum gaudet in tellectu perfectissimo. 2. Distinctissima omnium repraesentatio ex cludit quamcumque idearum confusionem. THEOREMA. Deus caret adfectibus. DEMONSTRATIO. 1. Ens perfectissimum in tellectu gaudet perfectissimo (ax. Deus cst ens perfectissimum (def. 1. ); go Deus gaudet intellectu perfectissimo. 2. Quicumque intellectu gaudet perfectissi omnia sibi distinctissime repraesentat. Deus vero gaudet intellectu perfectissimo (num. 1. ): onania ergo sibi distinctissime repraesentat. 3. Qui omnia sihi distictissime rapraesentat, ideis caret confusis (ax. 2. ): at Deus om niasibi distinctissime repraesentat. (num. 2 ): ergo Deus caret ideis confusis. 4. Ab ideis boni confusis oritur appeti !us ser sitivus (def.?. ): quuin ergo Deuts careat idcis confusis (num.' 3. ); liquet, eum care re quoque appetitus sensitivi. 5. Qui appetău caret sensitivo, is caret adfe clibus (def. 4. ): atqui Deus carct appetitie sensitivo (num. 4. ): ergo Deus caret adfe ctibus. Vides hic syllogismorum connexione a principiis ceriis deducta confectam esse demonstratio nem. ** A posteriori demonstratur animae in nobis exsistentia hoc modo. EXPER. Si nobis ipsis attendamus, obserica biinus, aliquid in nobis esse, cuius ope nosa H 2 172 Logic. Pars. II. metipsos ab aliis rebus extra nos positis, inter eas vero alias ab aliis distinguiinus, boc est nostri rerumque extra nos positarum conscii sumus. DEFINITIO. Id. ipsum, quod nobis sui rerumque extra se positarum est conscium, dicitur anima. TIIEOREMA. Exsistit in nobis anima. DEMONSTRATIO. Experientia enim constat, aliquid in nobis esse nostri rerumque extra nos positarum conscium: id ipsiin autem est quod dicitur anima (per defin. ): e: c sistit ergo in nobis anima. Demonstratio iterum est, vel D. RECTA sive Ostensiva * vel INDIRE DIRECTA seu apogogica. **. Illa est qua ex notione subiecti colligitur eius nexus cum attributo; haec autem in qua oppositum tamquam verum assumen tes, conclusionem falsam inde deduci mus, ut propositionis nostrae veritas elucescat. Directa ergo erit demonstratio, si ordinem sequatur hactenus explicatum ($. 131., si ve a priori sil, sive a posteriori: ut videre est in superadductis exemplis ($: 131 " ); ** Indirecta demonstratio vocari quoque solet redactio ad impossibile vel ard absurdum, quia oppositam propositionem ut veram alla sumens, ex ea absurdum aliquod, sive cou clusionem impossibilem, eruit. Talis crit de monstralio scyueas. THEOREMA. Nibil est sine ratione sufficiente. DEMOSTRATIO. Ponamus aliquid esse sine ratione sufficiente. Ratio ergo, cur id sit aut fiat, erit in nihilo: adeoque nihilum ex sistet simul, et non exsistet. Essistet, quia aliter non posset esse caussa alterius: non exsistet, quia aliter non esset nihilum. Quod quum contradictionem involvat, sitque ideo impossibile: ergo nihil est sine ratione suffi ciente. 133. Ex hactenus dictis patet 1. quam cumque propositionem legitime demonstra tam esse certo veram idest certitudine gaudere metaphysica, proindeqne 2. de inonstrationem csse viam ad certitudinem perveniendi praestantissimam. Quumque ex perientiae et demonstraționis excellentiam ostenderimus: ' recie concludi mous 3. veritatem certain dici. dubia ' sensione, vel evidenti principio ni titur, dummodo in demonstrando CIRCU LUS non irrepscrit. In hoc vitiuni incurrunt ii, qui propositio nem probantem demonstrant per propositio nem probandam: quia in tali casu idem per idem demonstratur. Huic adfiuis est illa, quae a Scholasticis adpellari solet PETITIO PRINCIPII, nempe quum principium de monstrandi vel nullum est, vel nulla certi tudine aut ' evidentia gaudet. Huiusmodi sunt pleraeque enunciationes Epicuraeorum, Pla quae in H 3 174 Logic. Pars Ir. quis tonicorum, Stoicorum, aliorumque, de bus in Metaphysica erit disserendi locus. 134. Quoniam autem in detegendis per demonstrationem veritatibus ordo, sive methodus requiritur: ne longius hic pro grediamur, de ea sequenti capite, prout res exegerit, breviter enodateque tracta bimus. R Elite ut de AVCTORI TATE pauca dieamns. Ea non scientiam, ut experientia et rutio; sed FIDEM parit. Est autem FIDES: ad sensus propositioni datus, alterius te stimonio itinixus. Ex quo patet, rationem fidei sufficientem esse narrantis auctorita tem. Quumque auctoritas vel Divina sit, vel humana: fides quoque in DIVINAM et HVMANAM recte dispertitur. 136. Ex qnibus liquido infertur 1. fidei fundamentum in eo consistere, ut narrans taliasit, qui nec falli nec tallere possit; ac proinde 2. eo firmiorem esse fidem quo certiores sumus de scientia et veraci tate narrantis. Et quia Deus est omniscius Gap. VI. De Veritate certa 175 et infinite verax, quippe in quem nulla cadere potest ' imperfectio (per princip; Theo. nat. ): evidens est 3. fidem Dic vinam parere certitudinem omni exceptione maiorem; pariterque 4. Dei loquentis au ctoritatem esse fundamentum veritatis com pletum, omnibusque numeris absolutum; adeoqu 5. debere nos Deo loquenti ad quiescere, nec umqnam Dei testimonio demonstrationem ullam opponere, utpote vel falsam prorsus, vel indigestam. * Non potest enim certitudo certitudini adver: sari, quia si id esset, tunc contrariarum propositionum utraqua vera esset, adeoque idem simul esset et non esset: quod quum repugnet, non potest ergo fidei Divinae demonstratio ulla obiici. Quumque Dei verbum sit fundamentum veritatis com pletum (num. 4. f. huius. ): patet, quam cumque demonstrationem ei adversantem esse falsam. Quandoquidem autem auctoritas humana fidem parit bumanam, et certitudinem moralem: de ea pauca adhuc addenda supersunt. Et primo quidem, quum fundamentum fidei sit opi nio, quam de narrantis scientia bitate habemus; eoque fir mior sit fides, quo certiores sumus de hu et pro H 4 196 Logic. Pars II. jasmodi dotibus (S. eod. ): liquet 6. l dem humanam parere in nobis certitudi Nem moralem completam, si non adsit ra tio, cur in narrante aut imperitiain, aut malitiam supponere possimus: veluti si evidentia scientiae probitatisque indicia de derit si nihil emolamenti ex iis, quae narrat, perceperit, si ' parratio rectae ra tioni non repugnet; si denique pro nar rationis suae veritate dimicaverit, vel per secntionem passus sit. * Deinde quoniam non omnes homines eadem praediti sunt scientia et probitate, nec de his semper certo iudicare possumus, quum id io so la opinione versetur: exsurgit hinc probabi litas, de qua paullo post praecepta dabimus. * Postremâ haec conditio maius certitudini mo rali pondus adiungit: si vero deficiat, liu modo priores adfint circumstantiae, certilu do vim suam non amittit.. Schol. Nunc in eo sumus, ut explica tae doctrinae usum paucis tradamus. Qua propter Philosophus noster hos, qui se quuntur, observet. CANON E S. AMD quidlibet erudite experiundum, nisi necessariis praemunitusa in strumentis me accedito. Si haec desint, Cap. III. De Veritate certa etc. 177 aliorum experimenta consulito, dummo do eorum integritatis scientiaeque con stiterit, atque inde tuas deducito con clusiones. Si per insrumenta liceat, aliorum experimenta ad examen revo cato ut sacriorem eorum ideam ad quiras, caussasque facilius investigare possis. * Et quidem experientia erudita instrumentis opus habet, sine quibus experimenta fieri nequeunt. Si ergo desint, observationes nul lae erunt: ac proinde aliorum experimenta consulenda, praemissis cautionibus, quae de eorum veritate dubitare non sinant. Hinc Physicis admodum necessarius est machina rum instrumentorumque apparatus, ut phaea nomena observari possint, a quibus ad caus sas proximas rationis ope concludendum est. 2. Ne phantasiae partus, aut ratiocim nia ex experimentis deducta pro expe rientia venditato ne subreptionis ar guaris. *. Quidquid enim imaginationi debetur, reale non est, sed phantasticum. At in experientia realis rerum exsistentia observatur; adeoque qui phantas mata pro rebus obtrudunt, su bripiendo a dsensum extorquere conantur: et tunc evenit, ut cum ratione experientia pu gnare videatue, de quo infra sermo erit. Quod sem el expertus es, ne teme? depromito, sed experimenta saepius H 5 178 Logic. Pars II. repetens, an costantia sint, observato; nec, nisi certior omnino factus, de iis enunciato. Saepe enim accidit, ut effectus aliqui a cir cumstantiis oriatur accidentalibus, vel caus sae cuidam externae debeantur. Repetenda er go experimenta, ut diiudicari possit, utrum principali, an accessorüs caussis, effectus il le tribuendus sit, adeoque non mirum, si facta semel observatione, effectus productio propriae caussae non tribuatur, 4. Demonstrationes non nisi certis in dubiisque principiis superstruito. Ratio ciniorum catenam ne interrumpito; sed sequentium veritas ex antecedentibus patefiat. * Eo namque modo habebitur legitima syllo gismorum concatenatio in qua demonstras tionis essentia sita est, ut supra diximus. Ne ciedito, quamcumque enuncia tionis probationem pro demonstratione sumi posse: qaamvis omnis demonstra tio sit probatio. Ex debilibus enim prae inissarum probationibus exilis enervisque exsurgit demonstratio cui nihil potest roboris accedere. * Nimiruni demonstrationis robur a praemis stabilitate, legitimaque connexione procedit, adeoque pro; earum firmitate con clusionis pondus augetur, vel minuitur. sarumriat, 6. Demonstratio, ut certitudinem ра talis esto, quae neque per mate riam, neque per formam ulla possit ra tione convelli. Iunc enim adsensum etiam ab invito, extorquebis. 7. Si metaphysicae certitudini expe rientia adversetur, haecfallax esto. Absurdum namque foret id exsistere, quod rectae rationi repugnat. * Eo namque casu duas habemus 'propositiones inter se contradicentes, alteram singularem, quae quidpiam exsistere pronuntiat, univers salem alteram, quae idem existere posse ne gat; adeoque duo haec enunciata inter se pugnantia ita comparata sunt, ut quod pri mum sensibus perceptum fuisse ait, illud alte rum solidis rationibus intrinsecus impossibile esse demonstrat. Quum itaque ab impossibi litate ad non exsistentiam conclusio duci pose sit (per princ, Ontol, ): recte colligitúc, in hac collisione rationem vincere, ac proinde experientiam dici debere fallacem, quippe non experientia, sed subreptionis vitium rea pse adpellanda. Et hoc universali omnium phi losophorum consensione pro inconcusso axiom mate habendum est: ut ita Genuensis noster praecipuum inter suos de veritatis criterio cả nones illum posuerit: Si intellig:bili evidentiae physica adversetur, FALLAX HABETVR PHYSICA, est enim haecminor, cui proii # 6 180 Logica Pars 11. + de vals dicere, quam de intelligibili subdubitan re, quae summa est, acmathematicam parit certitudinem, par est. Cui deinde subiungit: Fingamus (quaquam id falsum keputo, ma thematica evidentia demonstrari terram mye veri: si qui sensuum evidentiam reponeret, non esset audiendus, nisi matorem minori evi dentiae praeferre velimus. Art. Lozicocrit Lib. IIT. cap. 3. 15. can 1, Sed quid, in quies, alienam auctoritatem in re tam evi, denti confulere conaris? Nimirum quia canon bic a quibusdam, apud quos Genuensis no stri plurimum valet auctoritas, nigro lapillo notatus est: ut sciant sententiam nostram non singularem aut phantasticam, sed ratio De aç unanimi hominum ratione utentium consensione fultam. cum eius quoque Viri ipsis non suspecti adsertione congruere. 8. Nihil Divinae auctoritatį opponere fas esto, Quum Deum loquutum esse con stal, cuncta silento. Huic metaphisicą, certitudo numquam refragator: sed si per rationem liceat, demonstrationes ad calculum revocato; * vel si Dei vera bum explicatione egeat, Ecclesiam in, fallibilem eius interpretem con sulit o. * Referentes nồs ad ea, quae diximns, quia demonstratio Dei verbo repugnans fal sa est, dummodo intra rationis fines quaer stip sit rationes,iterum conficiautur, e de Cap. IX. De. Methodo. 181 monstrationes ad calculum revocentur, ut adpareat, undenam oppositio illa ortum duxe rit, principiisne dubiis et incertis,, an a defectu legitimae connexionis? * Ratio huius canonis haec est, Onnis lex eiusdem Legislatoris spiritu est explican da Si enim leges humanae difficultate aut: ob scuritate aliqua laborent, earum explic atio et interpretatio tantum a Legislatore, eius que Administris est petenda, non a pri vatis Doctoribus proprio marte cudenda. Quan to magis ergo Divina lex quae verbo Dei con tinetur, ab eo qui eiusdem Dei spiritu gau det est explicanda. Ecclesiam autem Dei spi șitum habere, patet ex ipsis Servatoris no stri verbis Matth. ult, ubi Apostolis ait Ec ce ego vobiscum sum omnibus diebus usque ad consumationem saeculi. Et loan. XVI. 18. Cum, venerit ille Spiritus veritatis (Pa. raclitus ), docebit vos omnem veritatem. Quid quid ergo Ecclesia pronuntiat, assistente su premo animarum Pastore Christo, et docente Spiritu Sancto pronuntiat; adeoque per eana Deus ipse suum interpetatur verbum 182 Logica Pars. Į1. G A PUT QVARTV M De Methodo. 138. Vum in demonstrationibus con clusiones ex certis principiis per legitimam ratiociniorum seriem dedu ci debeant; illa vero series arglimentorum METHODVS dicatur: non abs re brevem hanc de metho do tractationem doctrinae de demonstrationis bus subiungiinus. 139. Quilibet experiundo agnoscere po - test, enunciationis cuiusvis veritatem du plici modo detigi posse, scilicet vel eam dividendo, et ope analyseosed prima simpliciaque principia perveniendo, vel componendo idest, principiis ad conclu siones sensim ac legitimo nexu progre. diupdo. Vnde clare patet, methodum esse vel ANALYTICAM sive divisionis, vel SYNTHETICAM seu compositionis. * Methodus ergo anulytica a principiatis ad principia, synthetica a principiis ad princi piata (uti Scholae aiunt ) procedit. Dla composita resolvit. haec simplicia componit, Rem exemplis illustrabimus. Ad demqnstran dam enunciationem alibi (S. 131, ) allatam? Deus earet adfectibus: analytice ita ratio cinabimur. 1. Quicumque caret appeti tusensitivo, caret @ap. IV. De Methodo, 183 etiam affectibus (per defin. aff. ): atqui Deus caret appetitu sensitivo; ergo Deus caret affectibus. a, Min. prob. Quicumque caret repraesentatio nibus confusis, caret quoque appetitu sensi tivo (per defin. app. ): Deus vero caret repraesentationibus confusis, ergo Deus ca. ret appetitu sensitivo. 3 Min prob. Quicumque omnia sibi distinctist sime repracsentat, repraesentationibus caret confusis (est axioma ): sed Deus omnia si bi distinctissime repraesentat: caret ergo repraesentationibus confasis. 4. Min. prob. intellectu gaudens perfcctissi mo omnia sibi distinctissime repraesentat (per defin. intell. Quum igitur Deus gau deat intellectu perfectissimo: omnia sibi distictissime repraesentat 5. Min. prob. Ens perfectissimum intellectu gaudet perfectissimo (est axioma ): Deus autem est ens perfectissimum (per defin. Dei ): ergo Deus gaudet intellectu perfe ctissimo Eamdem propositionem synthetice demonstravi mus ($. 131. * ). At in gratiam Tironum, quos ad Philosophiam manuducere instituimus, aliam adhuc dabimus demonstrationem, bre vem illam, at mathematico more confectam hoc modo: THEOREMA, Deus caret affectibus. DEMONSTRATIO. Est enim ens perfectism simum (defin. 1. ), cuius est intcllectu gaudere perfectissimo (ex 1. ), qmniaque 184 Logica Pars ir. sibi distinctissime repraesentare (defin. 2. ) id quod omnimodam ab eo idearum confu şionem excludit (ax. 2. ), Quum itaque ab idearun confusione pendeat appetitus sen sitivus (defin. 3. ) ', cuius vehementiores motus dicuntur affectus (defin. 3. ): iure colligitur, Deum omnino affectibus carere. Vides hic, quam bene monuerimus in fine primae partis, maximum atque insignem esse usum syllogismorum in conficiendis mathema ticis demonstrationibus: atque hinc patet, quam inepti ad demonstrandum sint ii, qui syllogisınıim eiusque leges negligunt, et igno rata vituperante 140. Quoniam methodus analytica a dif ficilibus ad facilia, a compositis ad sim. plicia progreditur (s. 139. ); synthetica vero a principiis ad conclusiones (S. eod. ) conséquens est 1. ut illa in veritate inve nienda, haec in alios docendo adhibeatur; * adeoque 2. eruditorum reprehensionem in currant qui ip docendo illam potius, quain hanc sequi amant. Et quia feracior illa est, haec sterilior **: novit quisque 3. docendi ordinem id exigere, ut post quan auditoribus synthetice veritas fuerit explanata, iisdem "analytice modus. indi cetur, quo fuit ab auctore inventa. Analyticam enim methodum in docendo ad bibere idem esset, aç opposita et difficili ti 9 Cap. IV. De Methodo. 185 rones ducere via, eosque ad veritatem vel numquam, vel raro admodum pervenire ** Feracior quidem est analytien methodus quia singula ad examen revocat, minuta quae que considerat, atque possibiles omnes fin git casus, inde ab hac quasi sylva conserta, enodatis extricatisque ambagibus, ad rem ipsam perveniat; synthetica vero sterilior, & generalibus namque principiis brevi atque ex pedita via pergit conclusiones. Eadem autem ratione illa difficilior, haec facilior est: adeoqne illa viatori tramitis inscio, qui di vinando et om nia tentando difficiliter quo tedebat pervenit: haec eidem perito similis, qui brevi apertaque via iter conficit, et finem ideo suum cito consequitur, 541. Iam ad melhodi leges, tum utri que communes cum alterotri peculiares, tradendas acMilanius. Eas aliquot complc clemur regulis; quarni quinque genera les, ceterae vero speciales sunt, analyticae praesertim methodo inserviturae. Quicum que igitur veram: methodum in veritatis investigatione cailere cupit, hos rigides servet. 186 Logica Pars. II. CANON E S. I. Q Votiescumque ad demonstrandum accedis, cur ato, ut a facilibus notisque incipias, indeque ad ignota et difficilia gradatim progrediaris. Prin cipia itaque solida, ideasque selig ito medias, atque ea semper cordi habelo * Est haec lex, quam inculcavimus ($. 130. ) et alibi retulimus. In -singulis ratiocinationis gradibus eamdem semper servato evidentiam, ut altei um ab altero derivari clare sentias. * * Ita vitabitur paedantismus, hoc est inutile illud memoriae pondus iudicio destitutum, et in minimis quibusque sectandis vanam quae ritans gloriolam, de quo vide supra Part. I. Cap. 3. Schol. Can. 4 3. Stilo utitor facili, ac naturali, non oratorio vel ampulloso. Verborum tantum, quantum ideis clare exprimen dis satis est adhibeto: nec, nisi in ideis claris, quidquam tentato. * Verborum enim copia ignorantiae confusioni sve indicium est: quae namque ignoramus vel confuse scimus, ea nimia verborum cir cuitione explicare cogimur. Cap. IV. De Methodo. Argumentum pertractanduſ ab am biguitate, si quafuerit, liberato prius; deinde in tot membra dividito, quot ca pax est: singula attente examinato ac definito: * omnia clarissimis explica to verbis, ac quaestione quam simplicis sime exprimito. * Prae oeulis tamen habeantur, quae de de finitionibus diximus Verba: quce obscuritatis aliquid habent, adcurata definitione dctermina to, in eoque semper sensu adhibeto. * Confer quae diximus SS. 5. 46. De methodo analitica livec habeto: 6. Ad veritatem inveniendam, quae stionemve solvendam, ne nudus princi. piorumque inscius accedito: num sorida cognitione ad id paratus advenias, se dulo perpendito. * Sinamque incapax principiisque destitutus rem aliquam adgrederis, fieri non poterit, quin inepta et ridicula effutias. Quaecumque cum proposita quae stione aliquam habent connexionem di 88 Logica Pars II. ligenter exquirito: omnes possibiles ti bifingito hypotheses: quaecumque ei lu men adferre possunt, ne rciicito sed Omnia simul colligito et comparato. 8. Principia quaeque atque ideas mutuo conferto: omnium relationes perpendito efinesque sectator, eaque, superflua de mendo in parvum referto numerum. Omnia deinde corrigito diuque considera to, ut tibi familiaria fiant. * Speciatim vero principiis diu haereto. Repetitione namque attentio renovatur ius ope ideas meliores fieri docuimus F. 19. Schol. Quas de syudetica methodo tradenda forent, ea partim a nobis incul. cata sunt, partim infra, ubi de modo alios docendi sormo erit, enodabuntur. Si quis autem metho dum hanc callere cupiat, is Christiani Wolf fii tractatum de methodo mathematica, universae Matheseos elementis * praemis-. sibi curet reddere familiare CU sum * Exstant haec 5. voluminibus in 4. excusa Ha lae Magdeburgicae. Cap. V. De Veritete Probabili. GA P VT QUIN T V M De Veritate probabili -542. o 142 Eritatein dici certam mnia adsunt requisita quamcum que oppositi formidinem excludentia, su pra docuimus. At intellectus nostri infirmitas persarpe impedimento est, quo minus nobis illa veritatis indicia pa. teant ita, ut veram absque ulla oppositi suspicione perspiciamus. Hinc ergo est, cur in praesenti capite de probabilitate, quantum satis erit, dicere instituerimus. Est autem PROBABILITAS status mentis ex indiciis insufficientibus verita ti adhaerentis, cum aliqua tamen op positi formidine, PROBABILIS ergo di cilur enunciatio in quc adest ratio in sufficiens, cur praedicatum subiecto tri bu atur. * Ita Cicero pro Milon. cap. 10 probabilibus argumentis probat, Clodium Miloni insidias struxisse. Ait enim: Clodium dixisse, Milo nem esse occidendum; 2. eum Miloni neces sarium iter Lanuvium facienti obviam ivisse, 3. idque itinere effecisse maxime expedito, et praeter consueludiuem; 4. servos cu: n les lis ante fundum suum collocasse. Probat id 190 Logica Pars I. esse > in quidem, sed probabiliter, insufficientibus quippe indiciis, adeo ut aliqua adhuc adsit oppositi formido. Ex quibus definitionibus clare de ducitur 1. eo probabiliorem esse proposi tionem, quo plura adsunt veritatis indicia 2. dici vero DVBIAM, si ex alterutra parte aequalia fuerint rationum momenta, adeoque 3. IMPROBABILEM qua paucissima inveniuntur; quibusque e contrario fortiora indicia opponuntnr; 4. omne probabile, esse quoque possibile, quamvis 5. non omne possibile dici pro babile possit. * Probabilitas enim supponit possibilitatem: quum enim probabilitas veritatis alicuius exsi sicntiam indicet, exsistere vero nequeat, cui deest possibilitas, liquet, tunc de pro. babilitate qnaestionem institui posse quum rei possibilitas firmata sit: ut ita qui eam esse im possibilem demonstravit, uihil aliud oneris habeat, omnemquede probabilitate contro versiai tollat. Possibilitas autem non infert probabilitatem: nam quum possibile sit, quod non involvit contradictionein (per princ. Onol. ), non ideo probabile dici potest, nisi quaedam adsint circumstantiae, quae id revera exsislere evincant. 145. Quia dantur enunciationes probabi les, sillogismus autem propositionibusconstat: liquet 6. Cap. V. De Veritate Probabili. 191 dari quoque syllogismum probabilem. Et quia couclusio sequidebet partem debiliorem; debilior vero est pro positio probabilis, prae certa: consequens est 7. ut conclusio sit probabilis, si alte rutra praemissarum talis sit. Sed quoniam conclusionis vis est aggregatum virium praemissarum (s. 82. seqq. ), infertur 8. ut si utraque praemissarum sit probabilis, conclusionis probabilitas minuatur pro sum ma graduum, quibus illae a certitudine recedunt. * Denique quum demonstra tiones coficiantur ex syllogismis concatena tis, quorum unus ab altero vim sumit: evidens est 9. integram de monstrationem, in qua vel una probabi lis propositio irrepsit, non esse, nisi 7 pro babilen. * Certitudo namque in philosophicis se habet, ut aeqealitas in mathematicis. Sicuti ergo ae qualitatis nulli sunt gradus, ita et certitudi nis. Probabilitas autem maior est vel minor provt minus magisve a certitudine recedit,ut et inaequalitas servata proportione. Ponamus ergo certitudinem constare gradibus 12. Si una prae missarum tantum certa sit, altera duobus gradibus ab ea recedat, habebimus conclu sionem probabilem duobus dumtaxat gradi 192 Logica Pars II. Io bus a certitndine distantem: tunc enim ma ior erit Ei, minor -, quibus addie tis, babetur in conclusione summa = 2. quae duobus tantum gradibus ab unitate, sive certitudine diftat. Ponamus porro prae missarum unam ita probabilem esse, ut duo bus gradibus a cerit udine deficiat, altera ve ro tribus; habebimus conclusionem sive summam fractorum et E quae quinque gradibus ab uuitate pe a certitudine recedit, quot deerant in am babus praemissis. Dem. 146. His generatim expositis, ad pro babilitatis species transeamus. Probabilitas recie dividitur ib HISTORICAM, PHYSICAM, POLITICAM, PRACTICAM, et HERMENEVTICAM. De singulis pau ca delibabimus. A probabilitate differt OPINIO, quae est propositio insnfficienter probata, scilicet a principiis nondum certis, et precariis dedu cta, quae ideo est mutabilis, ac proinde po test ut plurimum esse falsa: unde opinio di viditer in PROBABILEM, et IMPROBA, BILEM, prout principia sunt prout princi pia sunt probabilia, vel precaria, omni nem pe rationis auxilio destituta. Sap. 7. De Veritate probabili. He completanarratio eae De probabilitate historica. SISTORIA, est factorum fidelis et. Eius au ctores sunt homines: fidem ergo parit hu mapam. Homo vero factum aliquod fideliter et complete narrans, HISTORICUS vel TESTIS dicitur. Sed quia aliorum narrationes neque experientia, nec demonstratione ad examen revocari possunt ob vitae intellectusque nostri brevitatem mentisque imbecillitatem, nec de omnium probitate certo constare potest: quando ` id in sola opinione versetur, non certitudinem, sed probabilitatem in nobis gignunt. Quumque hominum aucto ritate freti adsensun historiae praebeamus: evidens est, historicae probabilitatis funda mentum esse fidem humanam. * Ut autem narratio historia dicatur, dcbet non modo esse fidelis, hoc est res clare, eoque, quo contigerunt, ordine narrare, sed completa etian ', omnia scilicet factorum adiuncta, circumstantias, relationes, caussas; et fines amplecti.Hinc Cicero Historici perinde, ac Oratoris dotes paucis expressit, nempe talem esse debere ne quid falsi dicere audeat ne quid veri non audeat.Quia fides aliorum testimonio in nititur, estque fundamentum pro babilitatis historicae; homines autem ob ignorantiam malitiamve, aut fal li aut fallere possunt, ut experientia testa tur: consequens est, ut ad adsequendam probabilitatem historicam cautiones quae dam adhibendae sint, quibus testium an ctoritas, factorum genuinitas, natrationuin qucque veritas dignoscatur. eam * Hinc ergo enata est ARS CRITĪCA, sive habitus aliorum auctoritatem ad trutinam re. vocandi, recte adhibendi, factaque scienter ac sine erroris nota dijudicandi:Tapinps 1 namque indicium notat. Et quamvis artis cri ticae officium, vulgarem sequuti opinionem, infra ad solum librorum examen atque in terpretationem restringamus; non ideo no bilissimam hanc artem cancellis adeo angu stis coarctare volumus; sed quidquid de usi auctoritatis, rernm gestarum examine ac in dicio dicenda sunt, ea ad artem criticam: pertinere, qnisque sciat: id quod semel pro sem per observandum. 119. Quia ergo in omni narratione tria considerari possunt; narrans nempe, bar ratiun, et ipsa narratio: hinc est, ut in fide humana ad tria potissimum attendi so leat, scilicet i. ad homines narrantes, ad res narratas, 3. ad modima parran di. * Ab hominibus nunc ordiamur. * Atque in his, quae sequuntur, regulis tam historicam, quam hermeneuticam probabilita tem respicientibus, nedum librorum genui nitatem integritatsmve expendentibus, gene rales totius críticae leges ad singulares spe cies et circumstantias adplicandae consistunt, in quibus addiscendis eo maiorem operam collocare debet, qui philosophi nomen tue ri cupit, quo frequentius in evolvendis li bris, factisque diiudicandis erit ei, re exi gente, versandum, Quoniam hominibus, licet eadem natura, non cadem tamen est perspicacia, mcrumque probitas, nec omnes iisden sensibus eamdein rem percipere possunt (per cxper. ); hoinnes autem factum aliquod narrantes testes vocantur 147. ): patet in quolibet teste tria concia derari posse, scilicet INTELLECTVM, VOLUNTATEM et SENSUS, Si intellectus spectetur, testesa sunt vel PRVDENTES ac PERSPICACES, yet RVDES et IGNARI; si VOLVNTAS,idem sunt vel NEVTRI PARTI, vel VNITANTVM faventes, itemque vel PROB!, vel IMPROBI; si denique SENSVS, sunt vel I 2 ATI 196 Logica Pars II. OCVLATI, qui factum quod narrant ocu lis perceperunt, vel AVRITI, qui illud ab aliis audiverunt; et hi denno vel Co AEVI sunt, qui eodem facti tempore vi xerunt, vel RECENTIORES qui id postea ab aliis acceperunt.  Sic Livius inter testes prudentes est referen dus: multo namque po!lebat iudicio. Idem tamen Romariorum parti favebat, quippe Romanus et ipse. Tandem factorum, quae sua aetate evenerunt, testis coaevus, eorum autem, quae ante conditam condendanıve urbem, ac per tot saecula ad sua usqne tem posa accidisse tradebantur, recentior dicen dus est. 152. Ex quibus omnibus patet 1. in fa cti alicuius narratione, quod attentionem iudiciumque requirit, homines prudentes et perspicaces rudioribus ignavisque esse antehabendos; promiscue vero se habe re in rebus solis sensibus, non etiam iu dicio, indigentibus, dummodo in illis af fectus partiumve studium non metuatur: tunc enim rudiorum testimonium proba bilius erit; 3. testes neutrales alterutri parti faventibus recie pracferri, nec non 4. oculatos auritis, 5. coaevos recentiori. bus,  inter auritos autem prudentes ru dioribus, eos tamen, ad quos ex oculato Cap. IV. De Veritate Probalili. 197 nullam esse, fide digno magnaque auctoritate pollente facti fama pervenit, ceteris incerto alio. quin rumore ductis esse anteferendos, ac denique 8. coaevi testimonium plurium contestium narratione augeri, cui nescio quidnam ad probabilitatem ultra deesse possit, 153. Quod altinet ad res ipsas narratas síve facta; observandumu 9. probabilitatem si circumstantiae adsint sibi invicem repugnantes;nihil enim impossibi le potest esse probabile (S. 144. ); 10. nullam quoque esse probabilitatem, si testis unicus factum aliqnod insolitum et mira bile narret: licet 11. probabilius id ha bendum sit, si a pluribus probatae fidei viris unico contesta narretur; 12. nulla itidem probabilitate gaudere, narrationem, quae claris rationibus -aperto repugnat; 13. non idem tamen dicendum de ea, quae moribus opinionibusque nostris ad versatur, *** nec 14. si caussa modusque ignoretur, aut vim artemque nostram su peret. Sic pleraque prodigià ab uno Livio narrata nullam merentur fidem, utpote omni proba bilitate destituta: veluti quod scribit Lib. 1. ca. 12. post pugnam Romanorum cum Albanis, Tullo ' Hostrilio Rege 1 factam, I 3 198 Logica Pars. II. in Monte Albano lapidibus pluisse; vel quando, Tarquinio Prisco regnante, Au guris Attii Nevii cotem novacula discissam refert Lib. I. cap. 25.: id enim mirabile quidem et insolitum, sed a Livio tantum relatum. Qua de re iure idem Historicus de his, fimilibusque factis improbabilibus vocabulo ferunt fidem suam sartam tectam servat, non modo singulorum narratione, sed et in historiae suae proaemio, ubi cas ideo nea adfirmare, nec refellere velle fatetur, ut potc poeticis magis decora fabulis, quam incor. ruptis rerum gestarum monumentis confirm mata. nempe Lu nam ** Huiusmodi sunt fabulae illae, quibus Mu hamedanum scatet Alkorauum, a Muhamede bifarian digito divisam partemque in vestis manicam delapsam iterum in coelum repositam; palmae eiulatus in eius absentia, et id genus alia. > *** Sunt enim, mores pro regionum ac tem porum varietate, varii. Quidquid ergo mori bus nostris turpe est, fortasse apud alias Gentes honestum erit, et quod nostro sae culo nefas habetur id licitum esse alio: tempore potuit. Quis enim ut cum Cornelio Nepote loquamur, non vitio verteret The bano Epaminondae, saltasse eumcommode scienterque tibiis cantasse? Et tamen haec aliaque nostris moribus indecora inter eius virtutes commemorantur. Nepos. in Proem. Cap. V. De Veritate probabili. 199 154 Quoad modum narraudi tandem, id sedulo advertendum, facta stilo simplici non oratorio aut poetico, narrari debere. Si itaque simpliciter atque historice nar ratio scripta legatur, maiorem meretur lidem, quam quae poeticis pigmentis aut oratorio fuco lasciviens aures demulcere conatur. SECTIO II. De Probabilitate physica, politica, et practica. 153.TJAEc de fide humana, quam qui ritatis praeiudicio occupatus conseri debet. Ad alteram nunc probabilitatis speciem ac Milanius, nempe PHYSICAM; quae ha betur, quum ex pluribus phaenomenis ad caussam aliquam physicani concludimus, cui illos tribuimus effectus. Gravesandius eas vocat hypotheses. 8 Probabile est, fluxum maris à lunae solisque attractione pendere: nam ex plurie. bus phaenomenis hanc illius caussam ess posse, compertum est. Ad physicam probabilitatem eruen dam quatuor adhibendae sunt cautiories: 1. ut phaenomenon adstumtum sit certum, eiusque distincta idea, aut clara saltem, habeatur, ne chimaeram pro re, aut nu bem pro Iunone amplectamur; 2. si phae nomenon illud sit ab alio relatum ad historicae probabilitatis regulas, tamquam ad lydium lapidem, exigatur: 3. eius porro caussae omnes pose sibiles investigentur, et.cum phaenomeno conferantur; ac denique 4. ex iis una plu resvc adsumantur, quae cum omnibus cir cumstantiis apte conveniant. * Quum autem doctrina haec ad Physicam fa cultatem pertineat: sufficiat de ea quaedam tantum hic notasse: commodius enim in Phi. sica tractabitur. POLITICA probabilitas ea est, qua ex alicujus personae phaenomenis in dolem animi arguimus. ' Quumque in ex propensiopuni signis ad ipsas propen siones concludamus: evidens est tracta tionem hanc ad Ethicam potius, quam ad Logicam pertinere: adeoque non mirum, si eam inoffenso pede oniittamus. ea Ut clarius politica probabilitas intelligi pos sit, sumamus e. g. aliquem, in quo vultus hilaritas, iocandi studium, corporis mobi litas, laboris impatientia, prodigalitas', in constantia, garrulitas etc. observentur: non ne eum statim voluptati deditum esse con Cap. V. De Veritate probabili. cludes: Haec erit probabilitas politica. Lega tur interim Cl. Heineccii dissertatio: Dein cessu animi indice. Quae de probabilitate PRACTICA dici inerentur, ea fusius persequuti sunt Andreas Rutigerus in Lib. de sensu peri et falsi. III. 8., et Ludovic. Mart. Kallius in Elementis Logicae probabilium Nos paucis rem expediemus. Eam Rudige rus vocat, qua ex physicis vel moralibus principiis futurum aliquem praedicimus even tum. Quod quum in practica casuum si milium expectatione consistat, eaque ex pectatio vocetur analogia evidens est practicam probabilitatem recte adpellari ARGUMENTUM AB ANALOGIA; id quod maximo apud Politicos usui esse solet. * * Politici namque in gubernandis rebus publi cis probe versati probabiliter unius aut alterius Regni praedicunt eversionem, propte rea quod aliae res publicae post easdem cir cumstantias subversae sint: adeoque a simi Jium casuum exspectatione practicam eruunt probabilitatem. CA habetur, quum a quibus dam in Auctoris scripto obviis eius sen. surn eruimus. Saepe enim accidit, ut in auctoris alicuius interpretatione quaedam occurrant, quae multiplicem sensum ad mittunt: tunc ex auctoris fine, verborum significatione, locorumque collatione pro babiliter colligitur, quidnam auctor ille voluerit intelligere, idque fit ope ARTIS HERMENEUTICAE, quae definiri potest per habitum Auctorum loca interpretan, di, sive eorum sensum eruendi. SENSUS AUCTORIS est ceptus, quem scriptor vel loquens vult in legentium auditorumve animis per ver ba produci. Auctorem ergo interpretari dicimur, qumun ex legitimis principiis eius sensus investigamus. Et quia ars hermes neutica est facultas auctorum loca inter pretandi; consequens est 1., ut eius sit genuinum auctoris sensum erue Te; adeoque 2. regnlae tradantur, opor tet, quarum ope sensus ille quam proba, bilius investigari possit, соп Cap. v. De Veritate,probabili. 203 Quumque in his regulis totius Hermeneuticae adeoque et Criticae artis leges Auctorum in terpretationem respicientes pofitae fint: non mirum, si a canonibus huic sectioni subii.. ciendis abstineamus, quippe qui superflui omnino forent, et loquacitatem potius, quam logicam praecisionem arguerent. Quoniam Scriptoris sensus perver ba significatur: colligitur in de 3. ut interpres linguam, qua scriptor conceptus suos expressit, eiusque idiotis, mos probe calleat: adeoque patet 4. falli eos, qui linguam illam ignorantes aliorum versionibus translationibusque fidunt; 5. ut ad scriptoris sectam, finem, affectus,mu nus, aetatem, gentis suae mores ' attendat: unde 6. integrum Auctoris systema prae oculis babeat, ac de eo secu dnm dome sticas notiones, non ex propriis opinioni bus, iudicium ferat., quid > * Praeclare id monet Clericus Arte Critica Part. Il Sect. 2. cap. 2. $. 7. et 8. Opor tct, inquit Vir eruditissimus, nostrarum opi nionum veluti oblivisci, el quaerere, veteres illi Magistri senserint non quod sentire dcbuisse nobis videniur, ut sape rent. 162. Ex eodem principio fluit 7 inter pretein affectibus, praeconceptisque opinionibns omnino vacuum esse debere; nee 8. Auctoris verba extra contextum legere aut considerare, sed antecedentia et con sequentia attente conferre: multoque ma gis y. loca parallela auctoris eiusdem sol licite comparare, ut quod obscuritatis ir, repserat, statim evanescat. Quumque ad cognitionis claritatem ac distinctionem om ne momentum ferat attentio (m. 19. ): sequitur 10. ut qui librum aliquem probe interpretari vult, eum attente atque ordi ne legat, et codicem habere ' curet quam emendatissimum. ' * Quantum ad librorum interpretationem con ferat editio, ratio in promptu est. Videmus enim, quam multis scateant erroribus edi tiones quaedam ab indoctis ignarisque con fectae typographis, ut Delio saepe notatore opus habeant. "Nitidissimae prae ceteris sunt editiones a Viris claris, qui id oneris susce perunt, effectae, quibus multum iure merita debet Respublica litteraria, Cop. V. De Veritate probabili. Uoniam magno Hermeneuticae adiumento est Ars Critica: non abs re fuerit, pauca de hac illustri arte haud contemnenda degustare. Quam bene de ea meritus sit Vir multiplici eruditione praeditus Ioannes Clericus, communi sa pientum consensu probatur. Nos eius du ctu regulas saltem generales nostris audi toribus trademus ut quantum fieri pote rit, libros genuinos a nothis, integros a corruptis discernere valeant. Res quidem foret laboris plenissima et satis prolixa, si Critices distincte praecepta trade re conaremus. Id adcurate cxsequutus est Clericus, quo'nemo elaboratius eam pertra ctare, operaeque pretium facere posset. Nos autem tironibus scribentes, notiones maxime genericas jis suppeditare adlaboramus; quia, quum perfectum fuerit ipsorum iudicium, et matura aetas, omnia, quae hoc super argu mento scienda forent, in eodem Clerico legent. ARS CRITICA est habitus libro Fum genuinitatem et integritatem diiudi, 20 Logica Pars I. Candi. * Quae definitio ut intelligatur, oportet claras notiones genuinitatis, et in tegritatis librorum in legentium animis excitare. * Notandum tamen hic Crilices vocabulum strictissimo iure usurpari', regulasque ea in re generales tironibus suppeditari: latiori Damque significatione tam historicam proba bilitatem, quam hermeneuticam amplectitur, de quibus per summa capita praecedentibus sectionibus sermonem instituentes praecepta, yeluti per lancem saluram, ex hibuimus. Earum. LIBER GENUINUS dicitur, qui ab eo, cuius nomen prae se fert,-. fuit exaratus; SUPPOSITUS autem, qui ab alio, quam cuius nomine insignitúr, scripius est. * Liber dicitur INTEGER, si tantum contineat, quantum Auctor in eo descripsit, CORRUPTUS vero al quid ab alio additub sit, vel demtum: speciatin Viro si additum INTERPOLATVS; sin den tuni, MVTILVS appel. latur. si 2 * Dici quoque solet spurius fictus vel fictitius: liniec vocabula ab aliis distinguantur. Sed non est idoneus huic quaestioni locus, Cap. V. De Veritate probabili. 2014 * Huius corruptionis quatuor caussas tradit Clericus: nempe Librarios (dictantes perin de, ac scribentes ), Criticos, impostores, tempus. Satis erit haec generatim scire guia singillatim percurrerenon vacat. 166. Criticae leges ab eodein Clerico de cem adisignantur. Eas nos sequentibus ex ponemius regulis, quas philosophus nos ter observabit. Sequantur ergo. CANONES t. " S " ppositum habeto librum, qui in vetuslis codicibus alii tribuitur Auctori; interpolatum, si in aliis de sideretur, quod in eo reperitur; muti lum denique, si quae in ipso desunt in antiquis codicibus inveniantur. 2. Si a veteribus quaedam a libro ali quo exarata sint, ea vero nunc in li eadem inscriptione. insignito deside rentur: aut alius esto, aili muiilus. Si aliter legantur, suspeciels. Si vero omnia aptu cohaereant, genuinus esto et inte ger, nisi alia adsit ratio dubitandi. 3. Liber, cuius nulla fit inentio in veteribus catalogis, aut a scriptoribus proxime sequentibus, plerumque fictus esto, cut saltem suspectus,. 209 Logica Pars I. > 4. Scriptá a veteribus diserte reiecta, aut in dubium vocata, nequit recentio, rum auctoritas, nisi gravissimis rationi. bus,, pro genuinis admittere. 5. Liber dogmata continens iis con trária, quae scriptor cuius nomen praefert, alibi constanter defendit, ut plurimum aut spurius esto, aut interpo latus. 6. Idem iudicium ferto de eo, in quo personae, facta, uut nomina com memorantur Auctore, cui tribuitur, recentiora. 7. Spurium quoque aut interpolatum iudicato librum in quo controversiae tractantur post Scriptoris tempora na tae, vel adest scriporis imitatio. 8. Talis quoque ut plurimum esto si fabulis scatens, aut ineptus, viro docto minimeque imperito tribuatur. 9. Liber stilo scriptus diverso a stilo Auctoris aut saeculi, in quo ille vixit, spurius esto, eiusque censendus, ius stilo est conformis. In. Vocabula recentiora Auctorem arguunto recentiorem, aut libri interpo Talioncm: in translatione vero, si ni hil est quod sapiet linguam, in qua scripsisse constat Auctorem, cui tribyi: utr, translatio non esto, cu * Cap. V. De Veritatc probabili. 209 * Pluribus hanc doctrinam persequi deberemus, idoneisque illustrare exemplis: sed res est maximi momenti, et nimis implicata, nec in stituti brevitas eam disquisitionem patitur. Quivero plura cupit, adeat Clericum in Ar te Critica, ubi plurima inveniet suo gustui. adcommodata. Id interim notasse sufficiet, in hisce omnibus ad praxin adplicandis ma gna cautione opus, esse ne in praecipitan tiam, adeoque in errores prono cursu la bamurSendus pecialior Logicae usus nunc evol vendus, nempe PRAXIS, qua mentis nostrae operationes sint in verita tis investigatione dirigendae.Veritas inveni tur vel proprio marte, sive per meditatio nem rite institutam; vel ab aliis inventa quaeritur et ud trutinam revocatur. Quia vero nec meditationi, nec bonae lectioni par est, qui hasce lautitias nondum degus tavit: Logicae est regulas suppeditare quibus mapuducti adolescentes et recte mea ditari, et libros cum fructu legere dis cant. Quumque nostrum sit auditorum nos trorum utilitati studere: de duobus his veri tatem inveniendi modis hoc capite agemns. MEDEDITATIO est conformis co gitationum nostrarum bonae methodi legibus adplicatio. Meditamur itaque, quum cogitationes nostra's bonae methodi legibus g. 138. seqq. ) ita dirigimus, ut veritates ex veritatibus, co gnitiones ex cognitionibus eruamus. Ex qua definitione sequitur 1. ait quantum diſfert regula ab eius adplica tione, tantum optima methodus a medi tatione distet,. meditaturus leges quibus bona methodus absolvitur (S. 141. ), callere debeat; adeome 3. eo felicius meditetur, quo exactius leges illas esequitur; nec non 3. aliquarum saltem veritatum debeat es se gnarus, ut ex ijs veritates aljas erue re legitime possit (S. 167. ). 5. Tirones ergo, aliique bonae methodi, veritaium que ignari ad meditandum sunt inepti. * Cui enim serei principium deest, nullo mo do seriem ipsam, hoc est veritatum catenam conficere potest. Pari modo qui concatenationis leges ignorat, quantumvis veritatum mente te *} Cap, VI. De Veritat. inquisitione. 211 neat, nec illas recte disponere, nec ordina tam seriem formare valet. 170. Quia ad bonam methodum requi ritur idearum claritas (5 141. cap. 3. ); ad claritatem autem confert attentio (S. 19. );consequens est 6. ut qui feliciter meditari vult, attenitonem praecipue colat; quin 7. et praeiudiciis liber et 8. certis indubiisqoe principiis (S. 131 ) praemunitus ad meditandum accedat. Quum que ad principia referantur praecipue de finitiones (f. eod. ): recte consequi tur 9. ut res de qua institui vult mcdi. tatio, edcurate definiatur, f. 141. cap. 5. ), ac inde novis definitionibus omnia dividantur. El * Serventur tamen, quae de definitionibus (Par. I. Cap. 3. ), et divisionihu:s (Cap. 4. ) docuimus, et quomodo definitiones ex ex perientia eruantur. quoniam inter principia etiam axiomata et postulata enumerantur (S. 130 ), eaque es definitionibus legitimue eruuntur: liquido infertur 10. medita turo innotescere quoque debere modum ex definitionibus axiomata eruendi, * ut om nes principiorum species probe tencat. Quonam autem modo ex unica definitione ar. iomata et postulata formentur, hic adden dum. Tribus quidem modis id effici posse certum est: scilicet PARTIS OMISSIONE, nempe quum genus vel differentiam specificam omittimus. E. g. ab hac definitio ne: Invidia est taedium ob alterius felicita tem, omitte genus, et habebitur axioma: Invidia respicit felicitatem alterius: omitte differentiam, eritque aliud axioma: Invidia est taedium 2. INVERSIONE, si definitio in definiti locum substituatur. E. g. Qui er alterius felicitate taedium percipit est invi. dus 3. CONVERSIONE, si aientes pro positiones in negantes convertamus E. g. Qui ex alterius felicitate non percipit taedium, -non esi invidus; vel eum, qui non est in vidus, alterius feliciiaiis non taedet. Postu lata eadein ratione conficiuntur, si nempe modus exprimatur, quo quid fieri potest: sed ea melius ex realibus, quam ex nomi nalibus definitionibus deducuntur. Sic ex ea dem definitione habebis postulatum: Invidia excitatur, si invido alterius felicitas reprae sentetur. 172. Praestructis ita principiis, opor tet il. ut ex eorum collatione THEO REMATA, vel PROBLEMATA compo nantur, j 12. et unde consequentiae im mediatae sese offerunt, COROLLARIA deducantur, vel 13. ubi maiori explicatio ni locus erit SCHOLIA subiungantur. De Veritatis Inquisitione. 213 Est enim Theorema propositio theoretica de monstabililis, demonstratio autem ex principiorum collatione conficitur, ut videre est in superioribus Cap 3. Sect. 2. et Cap. 4. Hoc modo ex principiis (§. 171. * confectis erui poterit theorema: Invidia oritur ab odio, et similia. Pari mo do quia Problema est propositio practica, eius solutio et demonstratio ex eorumdem principiorum collatione petitur. Ita ex eisdem principiis orietur problema: Juvidiam in altero excitare; cuius solutio haec erit Invidia ex odio nascitur. Fac er go ut is, in quo invidiam excitare vis, ala terum odio prosequatur, cuius inde felicita tem ei ostende: ex ea namque taedium per cipiet, adeoque in eo invidia excitabitur. Corrollaria vero tam ex indemonstrabilibus, quam ex demonstrabilibus enunciationibus des duci possunt. Sic ex superioribus axiomatis varia oriuntur corollaria, veluti ergo qui tae dii non est capax, invidus esse non potest: item ex postulato: ergo ubi non adest feli citatis repraesentatio, locum non habet invi dia ex secundo item theoremate ergo qui alterum amat, ei non invidet; atque ita porro. 173. Haec omnia vero praecepta, ut aemoriae infingantur, brevissimis ample temur regulis, quas, qui sequuntur, shibent 214 Logica Pars II. CANONES. ANicquam meditationem instituas, ipsam quantum natura ipsa fert, exa cte dividito. 2. Ex definitionibus axiomata, item postulata deducito, atque ab his per im mediatas consequutiones corollaria con ficito. 3. Plura principia vel antecedentes propositiones mutuo conferto, et sic theoremata vel problemata efformabis, ex quibus, quae haberi poterunt, erues consectaria. 4. Propositiones - inventas bona me thodo legitimoque nexu comparato, et id agito, ut omnia per demonstratio nes apte cohaereant. 1 * Ita novae orientur veritates, novaque semper ratiocinia fluent. Perinde ' vero est, qua met hodo ratiociniorum series in ordinem rediga tur, modo regulae alias ($. 141. ) propositae rite observeutur. Scol. Sint haee satis de meditatione, ei usque legibus, quae numerosias protra here non fert instituti compendium. Qui Cap. YI. Da Veritatis Inquisitione. 115. vero longius et distinctius meditandi re gulas vellet addiscere, ei Baumeisteri dis sertatio de arte meditandi attente legen da foret, eaque in syccuin et sanguinem vertenda. Interim ad auditorum nostrorum instructionem hic brevem subiicere praxin censuimus, quo facilius artem hanc per discere possint. Qua de re eruditissimiVic ri exemplopi addncemus pulcherrimum. Si quis AMICI characteres sit exploratu. rus, absque librornm auxilio, sequentem instituens meditationen, haec habibit. §. I. Ex casuum sin vularium observa tione g. 124. seq. ) critor Amici DEFI TIO: Amicus est persona, quae nos amat, f. II. Ad definitionis porro notas atten dens quisque videt, notionem amoris de. finitione indigere. Eodem igitur modo. hacc noya definitio eraalur. Sic. amare alierum nihil aliud significat, quam ex alterius felicitatc volup'atem percipere. 6. JIÍ. Ex his definitionibus eo, quo diximus, artificio axiomata de dacantur. Et quidem ex prima definitione (1. ) fiunt AXIOMATA. 1. Amicus al terum amat. 2. Qui alterum non amat non est amicus.3.Quicumque obligatur ad ali un amandum, ad amicitiam ei praestan 116 Logica Pars 11. dam obligantur.4. Vbi nullus amor, ibi nulla omicitia. 5. Quamdiu durat amor, tamdiu durat amicitia. 6. Qui efficit, ut ab alio ametur, eum sibi red dit amicum. Quidquid amorem in altero excitat amicitiam foret. 8. Quid quid amorem impedit, amicitiam tollit. Ex amoris defimtione ori untur sequentia. 1. Qui alinm amat, ex illius felicitate deleciatur. 2. Quicumque obligatur ad volupiatem ex aiterius fe licitate capiendan, obligatur ad alte rum amandum. 3. Qui iubet, ut volup tatem ex a terius felicitate capiamus, alterum, iubet, ! ť umemus. 4. Quid quid promovet voluptatem, ex alterius felicitate capiendain, promovet amo rem. 5. Qui illum impedit, hunc sis tit. V. Collatis inter se duabus illis de. finitionibus, nascitur. THEOREMA. Amicus alterius feli. citate delectatur. DEMONSTRATIO. Qui alterum a. mat, alterius felicitate delectatur (s. 1. ): amicus alteruu amat (§. III. cud 1. ); ergo amicus alte rius felicitaie delectatur. 5. VI. Ex quo inmediata consequutico ne cequentia fluunt, IV. AX Cop. IV. De Veritatis Inquisitione. 217 COROLLARIA. 1. Anicus ergo ex amatae personaefelicitate nullo taedio afficitur. 2. Sed potius ex eius infeli citate taedium sentit. S. VII. In quibus, quum taedii facta sit mentio, perapte addi potest. SCHOLION. Est autem invidus, qui, ex alterius felicitate taedium percipit misericors vero, quem alterius infelici. tatis taedet. $. VIII. Hinc ergo habentur THEOREMA I. Amicus non est in vidus. DEMONSTR. Invidus enim est, qili ob'alterius felicitatem taedio adficitur (S. VII. ): Quod quum in amico non reperiatur: amicus " go non est invidus. THEOREMA. Amicus est mise ' icors. DEMONSTR. Taedium enim percipit x personae amatae infelicitate ) $. II. or. 2: ): quod quum dicatur coinmise atio (5. VII. ): amicus ergo commi eratione tangitur erga personum ama zm. §. IX. Nova rursus inde sequenlur COROLLARIA. 1. Invidus ergo non si bonus amicus. 2. Qui ergo nescit Tom. 1. 218 Logica Pars. Ij. > novae r'e commiserari alterius vices, eumque ab infelicitate, dum potest, non vult eri pere, non se dicat amicum. 6. X. Si meditatio continuetur inde sequentur veritates. Et quidem defi niendo rursus notas voluptatis et felicita tis, maxima enunciationum seges adpare bit. Sint ergo. DEFINITIONES. Voluptas sive delectatio est sensus perfectionis. 2. For licitas est status durabilis gaudii.. XI. Ex quarum prima oriuntur AXIOMAT'A. 1. Delectutio ex aliqua supponit eius bonitatem ac per feciionem, earumque repraesentationem. 2. Quicumque obligatur ad sensum per fectionis in altero promovendum, obli gatur. ad voluptatem in eo excitandum. 3. Oui - iubet primum, praecipit secun dum. §. XII. Ex altera vero fluunt sequentia AXI. 1. Qui alterius felicitate dele ctatur, ex eius statu durabilis gaudii voluptatem capit. 2. Qui alterius statum durabilis gaudii promovet, eius felici tatem promovet. 3. Qui illud iubet, hoc quoque iubet. 4 Quicumque obligatur ad primum, obligatur ad secundum. 1. XIII. Conferantur definitiones cum antecedentibus, indeque nasceutur. Cap. VI. De Veritatis Inquisitione. THEOREMA I. Amicus alterius feli citatem sibi, tamquam bonum, reprae sentat. DEMONSTR. Alterius enim felicita te delectatur ($. V. ): quod quum fie ri nequeat, nisi illam sibi, iamquam bonum, repravsentet. Ergo amicus alterius felicitatem sibi tamquam bonum, repraesentat. THEOREMA II. Amicus delectatur alterius statu durabilis gaudii. DEMONSTR. Quum enim ex alterius felicitate delectetur; felicitas vero sit status durabilis gaudii (S. X. def. 2. ): ex hoc patet, amicum, quo que va luptatem percipere, THEOREMA. Amicus alterius gauuium durabile sibi, tamquam bonum repraesentat. DEMONSTR. Eius namque statu de lectatur (per theor. 2. ), quod fieri non potest, nisi id, tamquam bonum, sibi repraesentet. Ergo amicus alterius gaudiun durabile si bi, tamquambonum, repraesentat. §. XIV. SCHOLION. His praemissio succurrit lex appetitus, qua anima id, quod sibi, tamquam bonum repraesen tal, adpetit, et promovere studet. Plurimae hinc propositiones de duci poterunt. Et quidem THEOREMA. Amicus alterius felici tatem, idest gaudium durabile, adpe tit, et promovere studet. DEMONSTR. Omne, quod nobis, tamqnam bonum, repraesentamus, ad petimus et promovere studemus (XIV. ) amicus sibi alterius felicitatem statum que durabilis gaudii, tamquam bonum, repraeseníat: er go ea omnia adpeiit; et promovere stil det. *. XVI. Ex quo, sponte manant, COROLLARIA. Ergo amicus om nia cavet, quae alterum taedio affi ciunt 2. nec ullam omittit occasionem quai personae amatae iucunditatem et voluptatem promovere possit. S. XVII. Durabilis gaudii porro notio nem evolvendo occurret. DEFINITIO. Durabile gaudium est voluptas eminentior ex possessione ve iarum perfectionum grta. 9. XVI. Ex qua ultro sese off -rt. AXIOMA. Qui alterius gaudium du rabile promovet, eius quoque proinovet perfectiones. Atque inde exurget novum THEOREMA. Amicus alterius per fectiones promovet. DEMONSTR. Eius enim gaudium durabile promovet ($. XV. ), quod idem est ac promovere eius perfections.  F. XX. SCHOL. Est autem legis Natu rae iussum: Tuas aliorumque promove to perfectiones. S. XXI. Jude ergo oriuntur. COROLLARIA. 1. Amicus ergo legem Naturae observat 2. Nos ergo obligati sumus ad amicitiam colendam, 3. Adeoque,qui homines sibi reddit ini. micos Naturae legem violat. 4. Vo. luntati ergo Divinae: conveniens est, ut aliis simils amici. etc. Haec brevi meditatione compertae sunt veritates, Quod si modilatio aliquamdiu proferretur, dici non potest, quot novae propositiones exurgerent. Huic autem exer citationi si adolescentes adsueverint, aut nostra nos fallit opivio, aut sine multa lectione, brevi tempore, minimoque la bore Philosophi acutissimi evadent. K 3 2? 222 Logica Pars IT S E C T I O. II. De librorum lectione. Q" non 174 Vum intellectus noster arctis simis sit limitibus circumscrip tus, atque adeo veritatibus omnibus pro pria meditatione eruendis incapax:facile est and intelligendnm, cur aliorum scripta le genda sint, ut quae proprio marte possumus, ab alis detecta inueniamus. Sed quia non omnia ab omnibus adcurate scri pta, plerique etiam intellectus voluntatis vitio laborant, ideoque errare possunt: cautio quaedam adhibenda est in legendis eorum libris, ac proinde Lo gicae interest praecepta tradere, quibns in jis ad examen revocandis, dijudicandisqne veritatibus ab aliis inventis aut exaratis mens dirigatur: id quod in praesenti se ctione docendum. 175. LIBER est aut HISTORICVS, aut ŚCIENTIFICVS.Ille, in quo facta, seu enunciationes singulares; hic, in quo pro positiones universales et dogmata traduntor.* * Hac librorum divisione nulla alia exactior. Quorum eum librorum habemus notitiam, Cap. VI. De Veritatis Inquisitione. 223 nihil, nisi duorum, quae enunciavimus, ar gumentorum alterutrum esse potest obiectum Patet ergo ratio, cur libros omnes in histo ricos, et didacticos sive scientificos distri buerimus. 176. HISTORIA, quum sit rerum quae acciderunt fidelis narratio (S. 147. ), facta vero vel Naturae opera, vel Societatem vel fidelium communionem nempe Eccle siam, vel deniqne litterariam Rempublicain spectent, esse potest NATVRALIS, ClVILIS, ECCLESIASTICA, vel LITTERARIA. * Rursus quoniam omnium, aut quo rumdam, vel alicuius ex quatuor illis, fa cta refert, dividitnr in UNIVERSALEM, PARTICULAREM, et SINGULAREM. Jarum prima Naturae opera enumerat, altera hominum vices et facta commemorat, iertia Ecclesiae vicissitudines et annalia narrat, po strema vel disciplinarum et librorum, vel eru ditorum vitas et fata omnia refert. ** Historia Naturalis ergo erit VNIVERSA LIS, si omnia in ea Naturae opera eno dentur; PARTICVLARIS si alicuius tantum classis, veluti ex Regno vegetabili, fossili, ani mali etc. SINGVLARIS si alicuius tantummo do plantae, lapidis, metalli, aut viventis inventio, usus, incrementum etc, narrentur. K 4 224 Logica Pars II. civili, ecclesiastica, et litteraria, de quibus plura coram 177. Quia libri vel scripta ideo. legun tur ut veritates ab aliis inventae et dete ctae discántur (5. 274. ); ea vero verbis referta sunt, ut auctoris sensus intelliga. tur (§. 160. ), idest eaedem ideae ver bis adsignentur, quas Auctor cum iis con iunxit (S. eod. ): per se patet genera lis in legendo servandus. CΑΝΟΝ. IMN legendis, aliorum scriptis curato, uit easdem notiones cum verbis con iungas, quas Auctor voluit iisdem adfigi. 178. Ex quo legitima consequutione na scitur i. in cuiuscumque libri lectione at tendendum esse ad definitiones, quibus sin gularum significatio determinatur, vel and conceptum ab usu loquendi tributum 11s, quae sine definitione adsumuntur. Et quia claras ideas ac distinctas adquirere si ne attentione non possumus (9. 19. ): se quitur 2. ut ad id potissimum requiratur attentio, crebriorque repetitio, in libris praecipue historicis ut facta facilius me inoriae mandentur. * 9 Cap. VI. De Veritatis Inquisitione. 225 * Vide quae de attentione ac repetitione dixi mus in Part. I. cap. 1. Seol. can. ult. 179. Et quoniam in historia tria potis simum spectantur, nempe veritas, ordo ac finis, facile patet 3. in libris histori cis legendis attendi debere ' ad rerum sive factorum veritatem, ad eorum ordinem et legitimam seriem et ad finem an sci licet liber Auctoris scopo respondeat. > * Pro diiudicanda rerum VERITATE, bislo ricae probabilitatis regulae traditae sunt($.152. seqq. ). ORDO vero tuin in locorum, tuna in temporis circumstantiis consistit. Eius ergo legiiimitatem quoad loca suppeditat GEO GRAPHIA, circa teinporis autem seriem CHRONOLOGIA. FINIS demum ex üsdem scriptis abunde patebit, adeoque, an ei res pondeant, ex eorum lectione diiudicari pote rit Historiae nituralis finis est obiecta rario ra adcurate describere, phaenomeni alicuius cuncta notatıı digna, partiunqne nexum di stincte exponere; Civilis est politices civilis que prudentiae regulas exemplis et factis con firmare; Ecclesiasticae scopus est, statum Ecciesiae, incrementin, in file costantiain, in profligandis erroribus - prudentiam Su premi item Numinis, in ea conservanda au gondaque Providentiam, 2 gelis, ostendere; Litteraria? tandeſ, inveniendi arlena, quam EVRISTICAM vocant, aptis aliaque id K 5 226 Logica Pars II: subsidiis, et veritatum a veteribus invenla rum cognitione perficere. Cognito itaque libri scopo, restat ut attente legatur (S. 178. ) statimque innotescet, utrum suo fini respon deat. 1 180. De librorum scientificorum lectio ne sat erit, si pauca degustemus. Quo niam in scriptis didacticis methodus reqni rit, ut nullus adsumatur terminus, nisi notionem habeat sibi adiunctam, atque ut ea praemittantur, per quae sequentia in telliguntur: consequens est 4. ut in iis legendis singulae veritates prius in classes dispescantur, ibique videatur utrum ad principia an ad propositiones iu de deductis pertincant; deinde 5. ad sin gulas voces et notiones jis ab Auctore ad fixas attendatur; (ac deni que 6. ut legens veritates antecedentes si bi reddat familiares, nedum demonstratio nes in syllogismos resolvat, in quibus vi. deat, si quid doli contineatur. 181. In scriptorum porro didacticorum examine ad eorum dotes potissimum respi ciendum, de quibus sequenti capite age. mus. Id unum porro meminisse juvabit; ad illorum examen conficiendum requiri absolụtam et continuatam libri lectionem, Cap. VII. De l'erit. comm. 227 attenta mque veritatum earumque nexus con templationem: * quae omnia si desint, le ctio dicetur SUPERFICIARIA. * Ad id ergo ineptissimi videntur scioli quidam in sola romanensiiim fabellarum lectione ver sati, qui in dijudicandis per tabernas comoe diis scurrilibus, aut ephemeridibus omnia studia sua contulerunt; vel adolescentuli vo culis tantum, phrasibusque meinoriae infi gendis adsueti, qui vix e paedagogorum fe rula manum subduxerunt: " Requiritur autem laboris patientia, attentio, mens methodo ac meditationi adsuefacta, non vero in expen ex. dendis rerum corticibus solo sensuum et phan tasiae ductu exercita. OVampdoquidem a Platone * monitum non praeclare, non est no bis solum nati sumus, adeoque nec nobis sed aliorum commoda pro movere debemus: veritates a nobis dete ctas, vel quae ab aliis inven tae nobis ope lectionis innotuerunt, aliis proponere Natura obligamur. Qui vero verbis alium ad ignotarum veri talum cognitionem perducit, is eum Do 5 K 6 228 Logica Pars. Ir. CERE dicitur adeoque DOCTOR CO gnominatur. 7 * Ip Ep. ad Archytam Tarentium. Vid. Cic. de Fin. Lib. II. cap. 14. ** Latius hic patet docendi vocabulum, qu am a Cicerone de Offic. Prooem. usurpatur. Id ve ro ex definitione admodum completa prono, ut aiunt, alveo fluit. Ceterum in hoc usum loquendi sequuti sumus: vulgari namque ser mone tritum est, Magistrorum alios esse vi VOS, alios mortuos, qui Scriptorum vel Auctorum nomine distinguuntur, ita ut libros melonymicę magistros mortuos vulgo appel lent. 183. Et quoniam verba vel voce profe runtur, vel scripto exaranțur (S. 42. ): patet, duplicem esse docendi modum, vo ce scilicet, atque scriptis; adeoque MA GISTRUM dici debere, tam eum qui li þros in lucem edit, quam cum qui in A cademiis iuventutem instruit. Speciatim autem in sequentibus eum, qui scripta didactica (de quibus hic tantum ser mo est ) conficit, SCRIPTOREM vel AU. CTOREM; eum vero, qui adolescentes ro ce docet DOCENTEM, DOCTOREM, MAGISTRVM dicemus: idque ad evitan dam confusionem, atque inutilem verborum repetitionem. Sed quia doctrinam hanc in dus as dividere instituimus sectiones, nt de utri Cap. VII. De Verit. commun. 229 se esse usque virtutibus ac vitiis aliqua dicere posse mus: nunc, quae utrique communia sunt, dispiciemus. Ad calcem denique capitis quae dam de discentium dotibus ae naevis com pendii loco addemus. 184. Quia vero docents est, alios ad ignotaruin veritatum cognitiovem prducere; cognitio avlein debet certa et distincta eaque vel a posteriori vel a priori: consegucas esi 1. ut lectores vel auditores de veritatibus certi reddendi sint, adeoque 2, indiciis sufficientibus at que inf.l.bilibus ad veritatis cognitionem adducendi ($. 1: 4. ). quod ut fiat, 0 portet 5. ut docens ab iis intelligatur, ideoque 4. sit perspicuus, ad quod requiritur 5. ut artein, in qua versatur, distincte intelligat * ($. 24 ) 6. bonam methodum rigide servet (. 138. seqq. ), 7. et si quid implicatum confu suinque occurrat, distincte explicet. > * Criterium enim notionis distinctae est, si cum aliis eam possimus per verba communi Care: nisi ergo distincta artis suae docens cognitione gaudeat, fieri non potest, ut eius praecepta perspicue aliis proponere queat. CONVICTIO est actio, qua al terum de veritate certum reddimus. Quod quum fiat demoustrationis ope (. 133. ) quisque videt, convictionem sola demon stratione absolvi. * Ex quo liquet 8. do centem alios de veritate, quam docet, debere convincere, ** ac proinde 9. pro babilibus argumentis uti ei non licere: *** nisi res talis sit, ut sola probabilita te cognosci possit. * Quoniam ergo convictio demonstratione ab solvitur demonstratio vero est vel directa vel indirecta, vel a priori vel a poste riori: non abs re convictioni ea dem nomina, prout veritates demonstrantur, a Philosophis tributa sunt. ** Vt vero rationis pondus in convincendo ani mum sese insinuet, oportet, ut iHe sit atten tus, in demonstrationibus versatus, et talis; qui rationum momenta perpendere possit. Quapropter solidis demonstrationibus, non conviciis, irrisionibus, dictisque iniuriam in ferentibus ad veritatem est trahendus. Convi cia nanque odium iramque pariunt, et atten tionem turbant. *** Dici haec solet PERSUASIO, quae quum sit rationibus insufficientibus innixa, convi ctio dici nequit, quippe quae a convictione longe multumque distat. " Hinc vides, convictio sit Philosophcrum propria, perсиг Cap. VII. De Verit. commun. 231 suasio vero Oratorum, qui in investigatione verosimilium argumentorum versantur, quan tum sufficiat ad caussam probabilem redden dam, de quo conferendus est Cicero de In vent. cap. * 186. SOLIDITAS est completa artis, quam profitemur, methodique cognitio, Hinc ergo patet 10 maximam et praeci puam doceotium dotem esse soliditatem, adeoque 11. litteratos superficiarios es se ad scribendum aeque, ac docendum ineptos. * Vitium vero soliditati oppositum in speciali bus tractationibus infra explicabimus. Ad eas itaque progrediamur, SECTIO I. De Librorum dotibus. IBER, in quo veritates continen tur, SCIENTIFICVS dicitur, alio nomine SCRIPTUM DIDACTICVM. Eius dotes sunt SOLIDITAS, PERSPICVITAS, METHODVS, et SVFFICIENTIA. SOLIDITAS consistit in principio rum firmitate, ac deinonstrationum stabi 232 Logica Pars II. bilate. Solidus ergo dicitur liber 1. si eius dim principia certa fuerint atque indubia ($. 150. ), 3. si propositiones singulae rig de sini demonstratae, si bona me thodus in demonstrando adbibita  pec in demonstrando cir culus irrepserit. Si vero bonae methodi leges fuerint negle ctae, tunc liber SVPERFICIARVS dice tur. Huiusmodi vero libris Rempublicam ca rere litterariam, foret maguopere optandum. 189. PERSPICVITAS in verborum pro prietate, iustaque eorum cum ideis pro portione sita est. Verborum PROPRIETAS es'git, ut voces omnis secundum usum loquendi fixo sign ficatu adbibeantur, adcuratisque definitionibus deter spineniar. Iusta verborum cum ideis PROFORTIÓ requirit, ut liber non sit prolixior, nec brevior, quam scopo SIO conveniat. * Quemadmodum enim prolixitas verborum mul titudine mentem obruit: ita et nimia brevi tas Auctoris sensum occultat, adeoque am bae oliscuritatem pariunt, scilicet vitium per spicuitati oppositum Vid. Heinec. Fundam. Stili culiior. Part. S. cap. 2 §. 50. Cap. VII.De Verit. comm un. nexu 190. METHODVS in eo est ut veri tates ex veritatibus et principiata, ut aiunt, ex principiis legitimo et continuo sint deducta, nihilque confusionis vel perturbationis inveniatur; denique si ea praecesserint, per quae sequentia intel. ligi possunt. SVFFICIENTIA tandem id exigit, ut liber sit COMPLETVS, idest veritates et propositiones exhibeat Auctoris fin i suf ficientes: qui namque finem non ahso lvit, INCOMPLETVS adpellatur. * Longum valde foret, si sufficientiae particu lares characteres, hoc est fines lot tantorum que librorum percurrere vellemus. Sufficiat tamen generales eiusdem notas evolvisse: id enim ex attenta cuinsque libri lectione quisque poterit diiudicare. 192. SYSTEVIA est congeries verita tum inter se connexurum, et a prin cipiis suis legitime deductarum. Et quia id quatuor, quas recensuimus, dotibus absolvitur: hinc est, ut Logici dicant, librum quemcumque scien titicum systematice scribi oportere. * Non omnes tamen qui libros scribunt systema conficere possunt; sed ii tantum qui veritates a se detectas, et ad eumdem 234 Logica Pars IT. > scopum tendentes in libros referunt. Eorum autem, qui alienis laboribus insudant, alii sunt COMPILATORES, qui aliorum opera hinc inde dispersa colligunt, atque in lucem edunt, mulla ordinis habita ratione; E PITOMATORES qui brevius aliorum scripta prolixiora componunt. Et hi qui dem reprehensionem numquam, quandoque vero laudem (illi praecipue ) ab eruditorum universitate reportant. Sunt vero quidam, qui aliorum scripta suffurantes ea typis man dant, impudentique fronte suo nomine inscrie bunt, iique PLAGIARII nuncupantur. De his autem quidnam dicendum, sit, omnes no runt. SECTIO II. De Doctorum virtutibus et vitis. DOCTO OCTOR appellatur, qui alios voce ad rerum ignotarum co gnitionem perducit, vcos de veritatibus, qnas tradit, certos reddit, atque convincit. Eius virtutes partim ab inte !lectu, par tim a natura, partim a voluntate penden tes, sunt quatuor: ab intellectu SOLIDITAS, et in doendo PRUDENTIA; a na tura DOCENDI DONUM; a volnntate ve ro AMOR. De singulis pauca disquiremus. Cap. VII. De Verit. Commun. Ex doctoris definitione sequitur 1. ut generales docentis characte res possidere debeat is, qui doctoris munere fungi vult; adeoque 2. prima et praecipua eius virtus sit SOLIDITAS qua fit 3. ut res abstractas et intellectu difficiles exemplis illustret, at que propositionum omnium sive a se, si ve ab aliis enunciataruin analysin instituat. Nisi enim exemplis ac similitudinibus res dif ficiles illustrentur, aegre ab auditoribus au dietur, quibus abstrahendi ars vel ignota prorsus est, vel laboriosa: adeoque taedium concipientes attentione carebunt nihilque intelligentes doctorem fine suo frustrabunt. 195. Quia vero doctor auditores suos de veritate cerlos reddere debet (S. 184. ); ad certitudinem autem ducit demonstratio: consequens est 5. nt scientia praeditus, verborum facilitate in fructus ct ad rationem de omnibus red dendain promlus esse debeat. Et quia au ditores convincendi sunt, et ad hoc in eis attentio requiritur: patet 6. Doctorem DOCENDI DONO in. signitum esse debere, idest dicendi promti tudine et suavitate, quo deficiente, ad proprium munus obeundum ineptus erit. 236 Logica Pars II. parvum in eo 9 a do * Vt enim auditor sit attentus, cavere debet qui eum docet, ne taedio, eum adficiat. Tae dium autem haud excita bit, si verborum inopia, dicendi infelici tate, animique imbecillitate laboret. Eo nam que casu non modo attentionem minuet sed et illius ludibrio se exponet. Qui ergo se huiusmodi suavitate ac promtitudine senserit destitutum, ei auctores fuerimus, ut cendi munere se abstineat, si operae preti um perdere nolit. 196. Quoniam autem non eadein omni bus est adolescentibus perspicacia, que non tam voce, quam exemplo erudiuntur: liquido infertur 7. ut doctor facoltate gau deat doctrinas ad discentium captum ge niumgne adcommodandi. ac media ad fi nem rite disponendi, nec non 8. in ex sequendis praeceptis auditores manuducat, seque iis pracheat antecessorem: praecipue veio 9. si in moralibus vitaque civili ver setur institutic, animum ipse prius ad vir tutem instruat, ut ad hoc vivum exemplar omnes conformari studeant. * Et hoc est, quod dici soiet PRVDENTIA INDOCENDO. * Si namque docentis actiones a praeceptis dis crepent, nequicquam laborum suorum fru ctum exspectabit, et adolescentes exemplum potius malum, quam bonam vocem sequuti Cap. VII. De verit. commun. 237 nihil, praeter praeceptoris imitationem, prae se ferent: quum bene monuerit Iuvenalis: Omnes duciles sumus pravis ac turpibus imi tandis suos.Postrema doctoris virtus eaque magni momenti, est AMOR erga Quum enim in erudiendis pueris aut ado lescentibus permulta opus sit fidelitate inserviendi promtitudine, patientia patientia, et labore haec auien omma nisi ab iis, qui nos amant, sperare non possumus: recte infertur 10. doctorem sincero audi tores suos amore prosequi; adeoque 11. et studio; 7 commoda promoveadi adfcctum esse debere. eorum * Quam necessaria sit haec in doctore virtus, ex sequentibus alimde patebii. Si namque amor deficiat, et studium deerit disceniium utilitati inserviendi: ac proinde pro doctore exsurget mercenarius vel utilitati, vel existi mationi propriae consulens; et tanc nec morun ratio umquam habebitur, et omnes lucri fa cendi artes promovebuntur. Si haec omnia ponantor, habebimns magistrum, vel leo poribus inservientem, in muneris exercitio ne gligentem, timidum, sui dumtaxat studio abreptum, et ad vilissima quaeqne facilem; vel inaccessibilem, clatum, ' omnia sibi per mitientem, quandoque etiam garrulum, ét e cathedra, tamquam e suggestu, aliorum no mina lacerantem, quo tutius possit de suis virtutibus declamare. 198. Si virtutum quas recensuimus opposita evolvautur, illico doctorum vi tia ad parebunt, quae breviter enumera bimus. Eorum primum et praecipuum est IMPERITIA, idest artis methodique-igno. ratio. Huius effectus sunt 1. obscuritas, qua fit, ut talis doctor terminis inanibus, vagis obscuris, nec recte definitis sit con tentus, resque difficiles exemplis illustrare nequeat: 2. confusio quae methodi negli gentiam, analyseos ignorantiam, ac con vincendi impoientiam parit: 3. docendi ineptitudo; quum enim ars ignoratur et methodus, deficit prompitudo et suavitas, quibus ducendi donum absolvitur * (S. 95.): 4. molesta prolixilas, aut obscurabre vitas; ignorata namque arte vocabula quoque technica ignorantur, quo fit, ut vel inanibus circumloquutionibus, vel paucis et insufficientibus rei explicandae verbis uta tur: 5. superfluorum tractatio et necessa riorum omissio, quam veram ignorantiae causam esse ait Sencea (S. 103. * ): 6. ser monis barbarics, cui proxima est obscuri. tas et taediuin, adeoque ad minuendam ten dit attentionem. Non desunt equidem, qui naturali quodam suavitatis defectu laborantes nec genio, nec captui auditorum se accommodare sciunt, li cet doctissimi sint et omnimoda, eruditione praediti. Naturalis autem haec imbecillitas non inter vitia sed inter defectus est referen da, adeoque imperitia dici neqnit. Quamvis enim huiusmodi doctoribus lepor desit: me diorum tamen excogitatio aliaqne pruden tiae subsidia praesto sunt. Ineptitudinis ergo caussa non alia adsignari debet, quam impe ritia, scilicet soliditatis absentia. > 199. Alterum doctoris vitium a primo oilum ducens est IMPRVDENTIA in docendo, quae in caussa est, ut auditorum Caplui genioque se adcommodare, atque media ad finem ducentia excogitare, ac proinde animis morbo aliquo laborantibus mederi nesciat. Quae enim prudentia in imperito? Imprudentiae quoque debetur illa paedagogo rum imbecillitas, qua inter se invicem de futilibus inoptisque rebus decertantes, vel aliis invidentes discentium animos adversus aemulos stimulanti. et ad pueriles irrisiones dicacitatesque concitant: quo fit, ut ipsi in spretum et abietionem incidant, adolescentes contra pessimos, audaces, ridiculosque mo res induant. 240 Logica Pars II. 200. Ad voluntatis vitia, quae amorem excludunt, referuntur: AMBITIO, si ve nimia gloriae laudisque cupiditas, qua fit, ut vana eruditionis, autº eloquentiae ostentatione, nimioque sermonis fuco di sciplinarum praecepta non explicentur, sed implicentur, propriaeque existimationi potius, quam discentium utilitati doctores consulant. - 3. AVARITIA, quae omnia trabit commodum efficitque, ut sola sit utilitas iusti prope mater et aequi: VOLVPTATIS CONSECTATIO, quae ignaviam, laboris im pa tientiam oilierique neglectum parit, atque soliditatis defecium arguit, quum bene monterit Genuensis.noster: difficile esse reperire hominem vere doctum simul autem et mollem, ad suum > * * * * Inde quoque fluxit Cynicus iile mos, et ef fraenis alios lacerandi consuetndo, quae in caussa fuit, ut de quorumdam adolescentum petnlantia ad satyras proclivium emunctae nae ris homines conquesti · gint: videbant enim pravam consuetudinen a pessimo doctorum exemplo vatan in naturam paullatim ac cor ruptionem abituran Ex codem tandem fons te manat ctiam illa docentium praesumtio, qui, ne discipulus supra magistrum esse vie deatur, vel aliquot sublimiores doctrinas sla Cap. VII. De verit: commun. 241 bi solis reservant, vel sublimia auditornm in genia deprimunt ac despiciunt. Praeterquam quod ambitio in doctoribus novitatis amorem gignit, eosque opinionum singularium et ab surdarum, saepe etiam impietatis studiosos efficit: id quod maximo adolescentihus detri mento est, praecipue quum auctoritatis prae indicium altius in iis radices agat. Vid Hei nec. Ethic. l. 77. ** Quando quis avaritiae studet, non aliorum, sed sua tantum commoda promovet, idque per fas an nefas, nihil sua referre videtur. Hinc auditorum quosdam opibus pellantes, vel praeceptorum gratiam muneribus ementes reliquis praeferunt, eos seorsum instruunt, ac speciali cura in aliquibns reconditis rebus erudiunt, eaque praedilectione prosequuntur, ut se aliorum odio, invidiae vero illos expo nant, adeoque nihil neque hi pro. ficiant. *** Art. Logicocritic. Lib. I. cap. Voluptati nanque dediti plerumque sunt ignavi, desides, et laboris impatientes; atque inde fit, ut non satis praeparati ad doces dum accedcntes in lycaeo quidquid in buccain vererit effutiant, et quia ex abundantia cor dis, ut Servator ait, os loquitur, bonos persaepe mores verbis factisme corrumpant. Delicatuli isti suat etiam meticulosi, adeoque veritatem, quam alias intrepido vultu, si ri te munere suo fungi vellent, dicere debe ne aliorum indignationen incurruni Tom. I. L neque illi reni, ) 242 Logica Pars II. aut dissimulant, aut tegunt, aut (quod val de dolendum ) foede corrumpunt. Praeterea in huiusmodi hominibus ridicula quaedam et thrasonica reperitur ambitio, scilicet paedan tismus', quo furentes nusquam, nisi de suis rebus gestis plurima exaggeranti, auditorum, que risui se exponunt. 201 • Superest, ut doctrinae usum do etorumque officia exponamus, ut si qui munus hoc inire cupiunt, bene incipere, feliciusque prosequi possini. Quicunque cr go ad istruendam iuventutem animum ad. pellis, hos diligenter observato: CANON ES. Avditores eligito perspicaces, mui toque supientiae umore Nagrantes. Eo rum porro attentionem excitato sae pius, ac vitia, quibus eos laborare per cipis, prudenter sensimque corrigito. 2. Doctoris munus, nisi solida artis methodique cognitione imbutus, ne te mere suscipito: idque summa fidelitate, prucuttia, ac sincero erga discentes amore absolvito. 3. Adolescentes in moralibus civili Cap. VII. De Verit. comm. 243 busque disciplinis non tam voce, quam exemplis erudito. Evidentissimum numiz que, teste Augustino, docendi genus est subiectio exemplorum. 4. Religionis amorem, morumque in tegritatem in discentibus foveto, neque te illis familiarem nimis reddito, ne, excusso subiectionis fraeno, doctores parvipendentes nihil proficiant, et ad pessima quaeque praecipites ruant. "De Discentium dotibus ac naevisn's 202, Am de dotibus IAm vitiisque discça tium pauca apperidicis loco ad damus. Eorum est de veritatibus certos reddi; solidache imbui co gnitione, quae non nisi es claris distinctisque oritur notionibus. Ad claras vero ac distinctas ideas adquirendas requiritur attentio et libertas a praeiudiciis: Quidquid ergo attentionem tur bat, vel praeiudicia fovet, ab iis abesse debet. 203. Priina ergo et maxima discentium dos est BONA NENS, DOCILITAS, ATTENTIO sincerus erga stu. dia et docentes AMOR,  LABORIS PATIENTIA et otii fuga, + 6. de. nique ANIMI SOLITUDO. It * Bonae mentis vocabulo intelligimus non mo do naturalem ingenii perspicaciam, cuius de fectus hominem reddit cognitionis incapacem, verum etiam animum bene educatum vcrae que Relligionis amantem: quum Divino oracu lo monituin sit initiuin om nis sapientiae esse timorem Domini.  Hoc est libertas a praeiudiciis,ut supra di clum est, animique inclinatio ad quaecunque praecepta ediscenda, et ad pra xin adplicanda. ID adeo Si namque Doctores et studia amemus, his sedulam navamus operam, illosque atter te auscultamus: si vero amor hinc absit, taedium supervenit., attentio minuitur, que aut parum aut nihil in studiis profie mus. | Laboris enim impatientia ignorantiae cause est, ut dixiinus; quoniam veri tates vel propria meditatioue vel Aucts rum lectione inveniuntur, medtatio vero perinde ac lectio laborem cai gunt, ut ex superioribus abunde constat. De verit. eomm. 245 # Multitudo namque non modo praeiudicio rum fons est sed at tentionem quoque distrahit aut saltem mi nuit: adeoque solum oportet esse, qui sa pientiae sentit amorem. Ex iisdem principiis sponte manant discentium vitia, qualia sunt 1. Religionis spretus, quem conse quitur voluntaria praeiudiciis adhaesio, 2. mentis hebetudo, 3. attentionis distra ctio, 4. otium et laboris impatientia a dolescenlibus familiarissima, 4. aversio a studiis vel doctoribus, 6. denique spe ctaculorum, multitudinis, et sodalita tum amor, quo fit, ut attentio distraha tur ($. 40. Schol. Can. 5. ), et ad voluptatem inde ac perditionem praccipiti Cursu ruant. Schol. Quae de discentium officiis tra lendae forent regulae, eae ab eadem do trina huc usque exposita facile deduci po erunt. Quapropter hic a canonum addi tione con mode abstinemus. De litterario certamine. zv ERTAMINIS LITTERARII no Emine intelligimus quascumque disputationes, quae pro veritatis disquisitione vel diiudicatione instituuntur. Hae disceptationes similiter vel scriptis, vel vo. ce liont: et quidem SCRIPTO, vel alio rum errores confutamus, vel nosmet ab eorum imputationibus defendimus: VOCE autem rationes utrinque conficiuntur, et ad examen revocantur. Si ergo alterius errores scripto detegantur, actio haec dicilnr CONFITATIO; si pro positiones ab alterius impugnatione vindicentur, DEFENSIO, si denique coram disce platio instituatur, propio nomine DISPVTATIO adpellatur. De harum qualibet diversis sectionibus agemus qua alium erroris convincimus. Ex qua definitione patet 1. confutantem de Cdium erroris convincimus. Ex bere falsitatem propositionis, quam alter pro vera asseruit demonstrare, idque a priori vel a posteriori, directe aut apogogice indiciis sufficientibus, hoc est principiis demonstrandi certis ei utendum esse. Etquia eadem propositio non potest esse simul vera et falsa (alias in contradictionem inpingeretur ): evidens est. propositio nem legitime denionstratam confutari non posse, adeoque. eius demonstration, nem esse contrariae confutationem. Antequam vero confutatio instituatur opore tet STATVM QVAESTIONIS conficere, idest verum suctoris sensum intelligere, ut propositionem falsam ex ipsius auctoris men le demonstret. Eo enim ipso vitabitur LOGOMACHIA, qua propositio vera impetitur, cuius veritas, licet ab adversario sit cognita, aliis tamen verbis expriiuiiur et impugnatur, adeoquc insurgit quaestio de verbis. Vid. Weienfelsium de logomachiis eruditorum. Si vero indicia fuerint insufficientia, scilicet principia probabilia et precaria, tunc non con L'utilis, sed IMPVGNATIO dicetur. Impugnari tamen potest, nempe dubiis au dificultatibus quisbusdam subiici, ut eius veritas clarius elucescat, nec ulla remaneat op positi suspicio, id quod infra in Seet. 3. docebimus. Quoniam confutatio ost convictio; haec autein requirit, ut con vincendus sit attentus, nec adfectus in eo attentionem turbantes exciteptur: liquido infertur 5. confutantem ea omnia quae attentionem in altero per turbant, atque adfectus excitant, vitare debere; consequenter 6. a conviciis, ir risionibus, vel consequeniiis periculosis, quae confutandi famam laetlunt, abstinen dum esse. Sunt autem PERICVLOSAE huiusmodi CONSEQVENTIAE, quae non quidem ex genui no Auctoris sensi, sed ex confutantis opi nione eruuntur, quaeque non veritatis de fendendae gratia deducuntur, sed ut adver sarii fama in discrimen vocetur, isque alio rum ludibrio exponatur. Harum porro con sequentiaruin confectores proprio nomine CONSEQVENTIARII vocantur. 208. Qaum ergo consequentiae pericu losae aliorum odium Auctori concilient eique invidiam creent: non abs re a Philosophis argumenta ab invi L4 1 + Cap. ult. de titt. cerlamine. 249 * dia fuerunt appellatae. Ex quo patet ARGUMENTUM AB INVIDIA ductum in confutando sollicite esse vitandum; a deoque 8.non abs re consequentiarios a Wolfio PERSECUTORES cognominari. * Logic. Lat. pag. 752. Idque iure merito. Nam confutator vere dicitur, qui veritatem ab al terius paralogismis vindicare studet. At qui non veritatem, sed adversarii famam perse quitur, nullo inodo confutator dicendus est, sed alterius persecutor, quia id non rationis auxilio, sed invidiae stimulo perficit. Schol. Quoniam itaque in confutante solius veritatis amor exigitur: ut in con futatione nihil vel minimum peccetur, hos qui sequuntur, servare curato. CAN ONE S. I. A, D confutandum solo veritatis a more, non odio adversus alte rum ductus accedito. Adversarium soli dis rationibus non conviciis, dictisve famae nocentibus de errore et falsitate convincito. 2. Si obscuro impropriove stilo ad edəssarius scripsit, ut dictionem corriagat, seque intelligendum praestet, ad wertito. Si quid ab altero in demonstran do peccatum, sive principia falsa sint, sive connexio illegitima, cuncta distincte modesteque patefacito. Demonstrationis rigidus custos principiorum diligens investigator esto, ne tibi ab adversario nota inuratur. E tenim TURPE EST DOCTORI, QUUM CULPA RE DARGUIT IPSUM. DEFENSIO est propositionis ab alterius impugnatione vindi catio. Ex eadem ergo definitione sequitur 1. ut propositio legitime confutata defen din non possit, ut et 2. ad defensionem propositionis sufficiat eius veritatem solide demonstrare, aut 3. si de terminis tan tum quaestio sit, eos adcuratis definitio nibus determinare. Duobus vero modis defensio insti taitur. Vel enim propositionis veritatem ab alterius impugnatione vindicamus, vel Cap. ult. De litt. ccrtumine. 251 impugnantis errores itidem detegimus. Pri mae classis seripla dicuntur APOLOGE TICA; alterius vero POLEMICA vel E RISTICA. * jin, * Horum quidem scriptorum minorem num rum Respublica optaret litteraria. His nam que nec veritas invenitur, nec ratio perfici tur, sed contentiones animique perturbatio nes aluntur, nulla prorsus utilitate, magno autem Societatis, ac iuventutis studiosae malo.? 211. Defendenti ergo, ne a recto. aber ret, Sequentes proponimus., C ANONES. 1. PhoRopositionem a te légitime demon Stratam, aut notionem cum ver bis rite ' conjunctam ab alterius cuiusvis impugnatione ne defendito. Pro të nam que evidentia pugnabito?? 2. Eius, qui te maledictis conviciis que laesit, scriptis modesto respondeto silentio. * la cedendo victor abibis. * Si namque simili stilo, respondeas, nullum operae pretium facies, adversarii petulantiam temeritate lua iustificabis, inque idem vitium incides, quod in alio reprehendis. Quidquid ab altero tibi impugnari sentis, in eo tua versetur defensio. * Si vero argumentis ab invidia periculosis que consequentiis ab aliquo persecutore adfectus fueris, sat est eius malitiam et nocendi studium ostendere teque commiseratione potius, quam ira per citum perhibere. Si ergo deverborum sensu quaestio sit, eum te explicasse sufficiet: si principia impugna tor urgeat eorum certitudinem ostendas oportet: si in demonstrationibus te ar guere velit, earuin legitimam connexiouem prae oculis ponere; si vero aliqua consequen tia absurda tibi impPombaur, aut ipsius conse quentiae veritatem, aut eam ab adversario non recte deductam, demonstrare debebis. Quod si persecutor obscurae famae sit, te tacente veritas ipsa loqietur, tuaque mo destia impudeutem adversarium confusione " obruet. Ad veritatis tandem disquisitionem acMilanius, quae non scripto, sed voce fit, quaeque disputationis no. De litt. certaminemine venit. Est igitur DISPUTATIO -aru ritatis alicuius discussio voce facta. Ea tribus ' personis absolvitur, quarum una propositionem'impugnat, altera eamdem defendit, tertia vero huic suppetias fert. * Adeoque qui veritatem difficultatibus du bisque implicat, OPPONENS; qui vero eaka ab eiusmodi impugnatione vindicat, DEFENDENS, vel RESPONDENS; qui deni que huic aliquid adiumenti adfert, PRAESES aupellatur. Ex qua definitione liquet 1. di-, sputationem esse impugnationem proposi tionis veraen eiusque. defensionem; ideo que 2., utramque demonstratione absol vi, ut disputantium alteruter de veri tate convincatur; quare 3. quidquid ge neratim de convictione dictum, de disputatione etiam intelligatur, prae cipue vero 4. status quaestionis formandus  et 5. oportet, ut lingua loquantur clara et intelligbili, hoc est amboruin captui adcommodata 6. ut u trique nec animus nec lingua deficiat. Su per omnia autem 7 affectibus carcant, odio, praesertim et invidia, Non enim ad rixandum, sed ad disputandum. descendunt. At affectus convicia iniuriasque pariunt, quibus attentio turbatur (S. 207. ): ac proinde a disputantibus louge debent ab esse, ne ira odiove perciti tantum absit ut veritatem inveniant, ut potius.a convicis ad manus transeánt. Ex eadem definitione fluit 8. di sputantes debere in terminis contradicto. riis versari, hoc est ut idein ab uno a d. firmetur, ab altero negetur'. Et quia idem subiectum in contradictione requiritur; eruitur 9. disputantes debere in terminorum notionibus convenire: quapro pter 10 si verborum sensus- lateat, eorum explicationem a respondente peti posse, ut in claris distinctisque rebus incidat contro versia, ct ' sic logomachiae vitentur. Disputatio vel' ACADEMICA est, vel DIALECTICA. Illa continuato ac paene oratorio dicendi genere, haeć syllo gistico more conficitur. In illa opponens disscrtatione quadam propositionis veritatem impugnat, respondens contra eodemstilo obiectiones diluit, ihesiique defendit; in hoc vero syllogisniis aliisque ratiocinandi modis chunciationem opponens inpugnat, ' et ex Cap. ult. De litt. certamine. adverso respondens ratio cinia ad trutinam revocans propositiones veras concedit, falsas negat, dubiasque distinguit, eoque progre diuntur, donec ad principia perveniant.Addi potest methodus disputandi SOCRATI CA, quae Opponentis interrogationibus, et Defendentis responsionibus dialogico stilo ab solvitur. Sed quum ea iam pridem ab usu recesserit: ab eius explicatione merito ab stinemus: in ipsis tamen praelectionibus, quae de ill a dicenda forent, paucis expe diemus. Vides ergo methodum Academicam ad eru ditionis et eloquentiae ostentationem in Aca demiis prae se ferendam unice inventam esse. In disputando autem, quum homini pede stanti in uno ñec eruditio, nec verborum copia praesto esse possit, Dialectica metho dus merito praeterenda, Vtcumque vero disputatio instituatur invabit disputantiirin munera paucis expo nére: id quol sequentibus exequemur re gulis. Et primo quidem amborum, dein de opponentis; postremo respondentis mu nia recensebimus. Quisquis ergo ad dis putandum accedis, hos religiose castodito: Phim Rimum omnium controversiae sta tum conjici ! ). Nihil porro, nisi terminis claris fixisque expressum, in e am incidito. Obscura quaeque explica to. 2. Dispu'ans adfectibus vacuus, veria tatis tantum amans, eiusque invenienda cupidus esto. Cuncta modeste, suaviter, amice proferto. Convicia et dicta mor dacia, velut angiem, fugito. OPPONENTIS hae fere partes sunto. 3. Quacunque meihodo thesin aliquam adoriris, syllogisticam artem cuidi ha beto. Argumentu solida non sophismata ineptasve fallacias, proponito. Conclu sio thesi impugnatae semper e diametro contraria esto 4. Si quid a respondente tibi propo nitur explicandum, explicato: si vero probandum, tamdiu syllogismorum, au xilio probato, donec ad principia per veneris. Ad singula respondentis verba et distinctiones attendito. Si illa obscura sint, illi explicanda dato; si vero clara, Cap. ult. De litt. certamine. 257 novas exceptiones, prout res tulerit, contra formato. Praecipue videto, si ad versarium ex assertis suis convincere et refutare, proprioque, ut aiunt, gladio iu gulare possis Et hoc est, quod vocari solet ARGVMENTVM AD HOMINEM, de quo tamen videa tur lo. Lockius de intell. bum. IV. 17., qui eius insufficientiam in vero inveniendo et de bilitatem ostendit. Nos autem tantum in ex ercitationibus litterariis, quae coram fiunt id commendamus: de veri namque investiga tione fusius supra tractavimuis. RESPONDENS demum id sibi negotii sciat praecipue datum. Argumentum opponentis prius repe tito, deinde sedulo perpendito, num de bila gaudeat soliditate. Praenissarum quae tibi dubiae videbuntur, probatio nem postulato. Syllogismum in forma peccantem totum reiicito. Si haec bene processerit materiam ad examen reyocaio. Propo sitiones falsas negato, veras concedito, dubias vero distinguito: sed de omnibus rationem reddere memento., ne ridiculas, evadas. 258 Logic. Pars. ii. Perridicula ergo est illa Scholasticorum regula: Semper nega, numquam concede raro distingue. Si namque casu neges, duo rum alterum exspectare debebis, vel ut ne gationis caussam adferas, vel ut lucem quo que neges meridianam: utrumque homini sen sibili acerbissimum.. 8. Si oppositae propositionis impossi bilitatem demostrare possis; nihil ultra oneris habebis. Si vero in auctoritate probatio ' versetur: sat erit adversarii te.ctus obscuros claris auctoritatibus re fellere. 9. Caveto, ne propositionem concedas, in qua adversarius struxit insidias: ne cx eius admissione incidas in laqucos. Schol. Ceterum disputandi regulac usu magis ct exercitio, quam praeceptis, ad discuntur '. Si tamen dicendum quod res est, in huiusmodi litterariis contentionibus von soliditas, sed promtitudo, immo ve ro impudentia valet et veritas amittitur potius, quam invenitur: Qua de re vide inus eruditos doctosque viros raro admodum ad disputandum descendere. Legatur Bud seus Obseru. in Plit. instrum. Pur: III. Cup. 3. g. 11. AN OUTLINE OF SEMATOLOGY;  OR, AN ESSAY TOWARDS ESTABLISHING A NEW THEORY OF GRAMMAR, LOGIC, AND RHETORIC. “Perhaps if words were distinctly weighed and duly considered, they  would afibrd us another sort of Logic and Cretic, than what we have been  hitherto acquainted w4th." — Locke.     LONDON :  JOHN RICHARDSON, ROYAL EXCHANGE. G WOODPALL, AHQEh COUBT, •KllfWl* tTRWT, LOWDON. I PUT not my name to these pages, nor shall  I, beyond this notice, speak in the first per-  son singular, but assume the pomp and cir-  cumstance of the editorial "we". Why I  choose for the present to remain unknown, I  leave the reader to settle as his fancy pleases.  He is at liberty to think that, being of no  note or reputation, and fearing for my book  the fate of George Primrose's Paradoxes, I do  not place my name in the title page, because  it would inevitably make that fate more cer-  tain. Or, if he chooses, he may imagine a  better motive. He may suppose me to be  the celebrated author of ***** *, with half  the alphabet in capitals at the end of my  name ; and that I prefer an incogfiito, lest  he, my " cotirteous reader", should relax the  rigour of examination, and receive as true,  on the authority of a name, a theory that  may be false. In the last chapter of Locke's Essay on the  Human Understanding , there is a threefold  division of knowledge into ^uo-t*^, TrpaxriK^,  and trtjfieiaTiK'^. If we might call the whole  body of instruction wliich acquaints ua with  TO. <f>v<TtKa by the name Physicology, and  that which teaches to -irpaKTixa by the name  Practkology, — all instruction for the use of  TO <7?j^aTo, or the signs of our knowledge,  might be called Sematology. Physicology, far more comprehensive than the  sense to wliich Physiology is fixed, would in this case  signify the doctrine of the nature of all things what-  ever which exist independently of the mind's concep-  tion of them, and of the human will ; which things in-  clude all whose nature we grow acquainted with by ex-  perience, and can know in no other way, and therefi>re  include the mind, and God ; since of the mind as well  as of sensible things we know the nature only by ex-  perience, and since, abstracted from Revelation, we  know the existence of a God only by experiencing His  providence, Practicology, the next division, is the  doctrine of human actions determined by the will to s  preconceived end, namely, something beneficial to in-  dividuals, or to communities, or the welfare of the  kJ The signs which the mind makes use of  in order to obtain and to communicate knowledge, are chiefly words; and the proper and  skilful use of words is, in different ways, the  object of, 1. Grammar, of 2. Logic, and of  3. Rhetoric. Our outline of Sematology  will therefore be comprised in three chapters, corresponding with these three divisions.   species at large. As to Sematology, the third division,  it is the doctrine of signs, showing how the mind operates by their means in obtaining the knowledge comprehended in the other divisions. It includes Metaphysics, when Metaphysics are properly limited to  things TB /*ETa Tct pi/fiKa, i. e. things beyond natural  things — things which exist not independently of the  mind's conception of them ; e. g. a line in the abstract,  or the notion of man generally: for these are merely  signs which the mind invents and uses to carry on a  train of reasoning independently of actual existences;  e. g. independently of lines in concrete, or of men individually and particularly. But as to the class of  signs which the former of these instances has in view,  and which are peculiar to Mathematics, there will be  no necessity, in this treatise, to make much allusion to  them: it is to the signs indicated by the other example  that reference will chiefly be made: for these are the  great instruments of human reason, and we believe  they have never yet had their suitable doctrine.  To ascertain the true principles of Grammar, the method often pursued will be adopt-  ed here j namely, to imagine the progress of  speech upward as from its first invention. As  to the question, whether speech was or was  not, in the first instance, revealed to man, we  shall not meddle with it : we do not propose  to inquire how the first man came to speak Beattie and Cowper, poets if not philosophers, ate  among those who insist that speech must have been  revealed. The former thus turns to ridicule the well   L   known passage in the Satires of Horace, Cvm prorepseruntf &c. lib. I. Sat 3* v. 99 : When men out of the earth of old  A dumb and beastly vermin crawled.  For acorns, first, and holes of shelter, •  They, tooth and nail, and bdter dceker,   B 2  4 ON CiSAUMAH. [CHAP. I.   but whether language is not a necessary effect  of reason, as well as its necessary instrument,  Fought fist to fist ; then with a club  Each learned hia brother brute to drub ;  Till more experienced grown, these cattle  Forged fit accoutrements for battle.  At last, (Lucretius Bays, and Creech,)  They set their wits to work on speech :  And that their thoughts might all have marks  To make them known, these learned clerks  Left ofi' the trade of cracking crowns,  And manufactured verba and nouns." Theory of Language, Part I.  Chap 6. (in a note.)  The other poet does not, on this occasion, appear in  metre, but is equally merry.   " I ta';e it for granted that these good men are phi-  Bophically correct in their account of the origin of  language ; and if the Scripture had left us in the dark  upon that article, I should very readily adopt their  hypothesis for want of better information. I should  suppose, for instance, that man made his first effort in  speech in the way of an interjection, and that ah ! or  oh ! being uttered with wonderful gesticulation and  variety of attitude, must have left hia powers of ex-  presdon quite exhausted ; that, in a course of time, he  would invent many names for many things, but first  for the objects of his daily wants. An apple would  consequently be called an apple ; and perhaps not     SECT. 1.] ON GRAMMAR. 5   growing out of those powers originally bestow-  ed on man, and essential to their further deve-  lopment.   many years would elapse before the appellation would  receive the sanction of general use. In this case, atid  upon this supposition, seeing one in the hand of  another man, he would exclaim, with a most moving  pathos, * Oh apple !' Well and good, — ' Oh apple,** is  a very affecting speech, but in the mean time it profits  him nothing. The man that holds it, eats it, and he  goes away with ' Oh apple!** in his mouth, and nothing  better. Reflecting on his disappointment, and that  perhaps it arose from his not being more explicit, he  contrives a term to denote his idea of transfer,, or  gratuitous communication, and the next occasion that  offers of a similar kind, performs his part accordingly.  His speech now stands thus — * Oh give apple ! ** The  apple-holder perceives himself called upon to part with  his fruit, and having satisfied his own hunger, is  perhaps not unwilling to do so. But unfortunately  there is still room for a mistake, and a third person  being present, he gives the apple to him. Again dis-  appointed, and again perceiving that his language has  not all the precision that is requisite, the orator retires  to his study, and there, after much deep thinking,  conceives that the insertion of a pronoun, whose office  shall be to signify, that he not only wants the apple to  be given, but given to himself, will remedy all defects; Now instead of taking it for granted, as  others have done who have pursued the method  proposed, that men sat down to invent the  parts of speech, because they found they had  ideas which respectively required them, we as-  sert that men have originally no such ideas as  correspond to the parts of speech. The im-  pulse of nature is, to express by some single  sound, or mixture of sounds (not divisible in-  to significant parts) whatever the mind is  conscious of; nor is there any thing in the na-  ture of our thoughts that leads to a different  procedure, till artificial language begins to be   he uses it the next opportunity, succeeds to a wonder,  obtains the apple, and, by his success, such credit to  his invention, that pronouns continue to be in great  repute ever afl^er. Now as my two syllable-mongers,  Beattie and Bl^r, both agree that language was  originally inspired, and that the great variety of  languages we find on earth at present, took its rise from  the confusion of tongues at Babel, I am not perfectly  convinced, that there is any just occasion to invent  this very ingenious solution of a diiEculty, which  Scripture has solved already."   Letter to the Rev. Wm. Unwin, April 5, \'J8i.      invented or imitated. Let us take, for our first  fact, the cry for food of a new-born infant: that  is an instinctive ciy, wholly unconnected, we  presume, with reason and knowledge. In proportion as the knowledge grows, that the want,  when it occurs, can be supplied, the cry be-  comes rational, and may at last be said to signify, " Give me food," or more at full," I want  you to give me food." In what does the rational cry, (rational when compared with the  instinctive cry,) differ from the still more rational sentence? Not in its meaning,but simply  thus, that the one is a sign suggested directly  by nature, and the other is a sign aijsing out of such art, as, in its first acquirement, (we are  about to presume,) nature or necessity gradually teaches our species. Now, that the artificial sign is made up of parts, (namely the  words that compose the sentence,) and that  the natural sign is not made up of significant  parts, we affirm to be simply a consequence of  the constitution of artificial speech, and not to follow from any thing in the nature of the communication which the mind has to make. The  natural cry, if understood, is, for the purpose  in view, quite as good as the sentence, nor  does the sentence, as a whole, signify any thing  more.Taking the words separately, there is  indeed much more contained in the sentence  than in the cry; namely, the knowledge of  what it is to give under other circumstances  as well as that of giving food ; — oi'Jbod un-  der other circumstances as well as that of being given to me; — of me under other circumsttances as well as that of wanting food:  but all this knowledge, in this and similar cases for which a cry might suffice, is unnecessary, and the indivisible sign, if equally  understood for the actual purpose, is, for  this purpose, quite adequate to the artificially  compounded sign. The truth is this, that every perception  by the senses, and every conception which  [By Conception I mean that power of the mind,  which enables it to fonn a notion of an absent object of  perception ; or of a sensation which it has formerly follows from such perception, as well as every  desire, emotion, and passion arising out of  them, is individual and particular; and if language had continued to be nothing more than  an outward indication of these its passive affec-  tions, it would have consisted of single indivi-  dual signs for single individual occasions, like  those which are originally prompted by nature. But it was impossible to find a new sign  for every new occasion, and therefore an ex-  pedient was of necessity adopted; which expedient, from its rudest to its most refined ration, will be found one and the same, — an  expedient of reason, and that through which  all the improvements of reason are derived.  The expedient is nothing more than this : —  when a new expression is wanted, two or more  signs, each of which has served a particular  purpose, are put together in such a manner as  to modify each other, and thus, in their united     fclt." — Dugald Stewart : I'hilos. of the Human Mind,  Vol. I. Chap. 3.  [capacity, to answer the new particular purpose  in view. In this manner, words, individually,  cease to be signs of our perceptions or con-  ceptions, and stand (individually) for what are  properly called notions', that is, for what the  mind knows ; — collectivelif, that is, in sen-  tences, they can signify any perception by the  senses, or conception arising from such per-  ception, any desire, emotion, or passion — in  short, any impression which nature would  have prompted us to signify by an indivisible  sign, if such a sign could have been found : —  but individually, (we repeat,) each word be-  longing to such sentence, or to any sentence,  is not the sign of any idea whatever which the  mind passively receives, but of an abstractiont   • Notio or notitia from «o«co, I knov. (It is a pity  we cannot trace the word to ado instead of noac.->.)  Note, Locke will be mucli more intelligible, if, in the  majority of places, we substitute " tlie knowledge of"  for what he calls " the idea of" His wide use of the  word idea has been a cause of the widest con&slon in  other writers.   t Home Tooke's doctrine is very different from     wliich reason obtains by acts of comparison and  judgment upon its passively-received ideas.   tbis. He says (Diversions of Purley [2d edit. 1798]  Vol. I. page 51,) " That the business of the mind, as  far as regards language, extends no further than to re-  ceive impressions, that is, to have sensations or feel-  ings"; — he affirms (pa££^im) that what iscalled abstrac-  tion has no existence in the mind, but belongs to lan-  guage only, and that " the very term metapht/sic is  nonsense "' {page 399). It is hoped that what follows in  the test will prove these opinions to be erroneous.  Could the proper name John, or any word being an artificial part of speech, have been invented, if the mind  had not exerte  d its active powers upon its passively r&-  ceived ideas ? For whatever ideas of this last kind we  have of John must be ideas arising out of particular  perceptions ; and ve must irame him to our minds  standing, or sitting, or walking; talking, or silent;  dressed or undressed, with other circumstances which  imagination can vary, but cannot set aside. It is only  by comparison that we know John to be independent  of all these, and the name is the effect of this know-  ledge, not the cause of it. The abstraction is not in  the word only ; for till we know that Jolm is separate  (abstract) from whatever circumstance the perception  of him includes, how can his name exclude it ? Neither  is the terra iiietaphysic nonsense when applied to this  The sentence " John walks " may express  what is actually perceived by the senses ;  or any other abstraction. For John separate from circumBtancea that must enter into an actual perception,  ifithe nameof anotion /iCTa^ua-ixii, i.e.outof nature, or of  which we have no example in external nature, though  it may esist in our minds, like a line in mathematics,  which is deifined as that which has length without  breadth, and which is therefore, for the same reason,  properly called a metaphysical notion, and pure  mathematics are justly considered a part of metaphysics.  It was because H. Tooke set out with these principles  thus fiindamentally erroneous, that he could not complete his system when he had brought it to ail but a  close. With admirable acuteness of inquiry, he had  tracedup every part of speech till he found it, originally,  either a noun or a verb, and he then left his book im-  perfect, because he could not, on the principles he had  started with, explain the difference bet ween these : — he  promised indeed to return to the inquiry, but he never  fiiliilled his promise for the best of reasons, that there  was no pushing it further in the way he had gone ; he  must have contradicted all his early premises to have  reached a true conclusion. The whole cause of his  error seems to havebeen a too unqualified understanding  of Locke's doctrine, that the mind has no innate ideas. but neither word, separately, can be said to  express a part of that perception, since the  perception is of John walkmg, and if we per-  ceive John separate from walking, then he is  not walking, and consequently it is another  perception ; and so if we perceive walking se-  parately from John, it must be that we perceive somebody else walking, and not him.  The separate words, then, do not stand for  passively received ideas, but for abstract notions ; — so far as they express what is pec- ij  ceived by the senses, they have no separate  meaning ; it is only with reference to the un-  derstanding that each has a separate meaning.  The separate meaning of the word John is a  knowledge (and therefore properly called a I  notion not an idea*) that John has existed and ]   Hence, TOOKE acknowledges nothing originally but ]  the senseB, and the experience of those senses, calling reason " the effect and result of those senses and that  experience." See Vol, II. page 16. " If indeed the word idea were uniformly employed  to signify what is here meant by notion, and nothing  else, little objection could be made: such use would  will exist, independently of the present perception, and the separate meaning of the word  •walks, is a linowledge that another may waik as  well as John. This is not an idea of John or an  idea of walking such as the senses give, or such  as memory revives : for the senses present no  such object as John in the abstract, that is,  neither walking, nor not walking; nor do they  furnish any such idea as that of •walking inde-  pendently of one who walks. There is then  a double force in these words, — their separate  force, which is derived from the understanding,  and their united force, by which, in this instance, they signify a perception by the senses.   nearly correspond in effect though not in theory, with  the old Platonic Bcnse, and in the Platonic sense  Lord Mooboddo constantly employs it in his work on  the "Origin and Progress of Language." But as Dr.  Reid observes, ** in popular language idea signifies  the same thing as conception, apprehension. To have  KD idea of a thing is to conceive it." This sense of  the word Dugald Stewart adopts. (Philos. of the  Human Mind, Vol. L Chap. 4. Sect. 2.) Locke, as  already intimated, uses the word in all the senses it  will bear. In otlier instances, the united significa-  tion of words may not be a perception of the  senses j but whatever may be their united  meaning, they will separately include know-  ledge not expressed by the whole sentence,  though, if the meaning of the sentence be ab-  stract, the knowledge included in the separate  words will be necessary to the knowledge ex-  pressed by the sentence. " Pride offends,"  is a sentence whose whole meaning is abstract;  but pride separately, and offends separately,  are still more abstract, and in using them to  form the sentence, we refer to knowledge be-  yond the meaning of the sentence as a whole,  namely, to pride under other circumstances  than that of offending, and to offending under  other circumstances than that of pride offending; and here, tlie knowledge referred to  seems necessary, in order to come at the knowledge expressed by the sentence. " John  walks," (or, according to our English idiom,  " John is walking,") is a perception by the  senses, and does not therefore depend on a knowledge of John, and of walking in the abstract ; (though to express the perception in  this way requires it;) but " Pride offends,"  does not express an individual perception, nor  would many individual perceptions of pride  offending give the knowledge which the sen-  tence expresses : we must have obser\'ed  what pride is, separately from its offending,  and we must have observed what offending is,  separately from pride offending, before we  can rationally understand, or try to make  known to others, that Pride offends. In this  DOUBLE force of words, by which they signify  at the same time the actual thought, and re-  fer to knowledge necessary perhaps to come  at it, we shall find, as we proceed, the ele-  ments, the true principles of Logic and of  Rhetoric; while in tracingthe necessity which  obliged men to signiiy in this manner even  tliose individual perceptions which nature  would have prompted them to make known  by a single sign, (if such sign could have been  found,) we shall ascertain the true principles   of Gkammau. The last mentioned subject  must occupy our first attention. 5. To get at the parts of speech on our hypothesis, we must consider them to be evolved  from a cry or natural word. Not that this  is the present principle on which words are  invented ; for art having furnished the pattern,  we now invent upon that pattern j but our  purpose is to consider how the pattern itself  is produced by the workings of the human  mind on its first ideas. Those ideas can be  none other than the mind passively receives  through the senses ; and perhaps the first active operation of the mind is to abstract (sepa-  rate) the subjects or exterior causes of sensa-  tion from the sensations themselves. When  we see, we find we can touch, or taste, or  smell, or hear ; and when the perception  through one of these senses is different, we  find a difference in one or more of the others.  We also recollect (conceive) our former per-  ceptions, and finding the actual sensations  not recoverable by an effort of the mind alone, we recognize the separate existence of the ma-  terial world. All this is Knowledge, acquired indeed so early in life, that its com-  mencing and progressing steps are forgotten ;  but we are nevertheless warranted in affirm-  ing that not the least part of it, is an original  gift of nature. Along with this knowledge  we acquire emotions and passions ; for to knoia  material objects, is to know them as causes of  pleasurable or painful sensation, and hence to  feel for them, in various degrees, and with  various modifications, desire and aversion, joy  and grief, hope and fear. And here, as the  same object does not always produce the same  emotion, or the same emotion arise from the  same object, we begin a new class of abstractions: we separate, mentally, the object from  the emotion or the emotion from the object:  we are enabled in consequence to abstract and  consider those differences in the objects, from  which the different effects arise, and to ascer-  tain, by trial, how far they yield to volition ope-  rating by the exterior bodily members, which  SECT. we have previously discovered to be subservient  to the will. In this new class of abstractions,  and the consequences which arise from them,  we shall find the beginning of that knowledge  which human reason is privileged to obtain,  compared with that which the higher orders  of the brute creation in common with man,  are able to reach j and from this point we  shall be able to trace how man becomes /ie'poyjr,  or divider of a natural word into parts of  speech *, while other animals retain unaltered  the cries by which their desires and passions  are first expressed.   6. As we are able to separate, mentally,  the object from the emotion, and to remem-  ber the natural cry after the occasion that  produced it ceases, the natural cry might re-  main as a sign either of the object or of the  emotiont. But this does not carry us beyond  Thia is the sense in which we choose to under-  stand the word, and not merely voice-dividing or ar-  ticulating.  f For instance, as, in the present state of language,  the exclamation of surprise ha-ha '. is either an inter-     to the mind which forms the abstraction, and  has the power to establish a sign (wliether  audible or not) to fix and remember it: — our  inquiry is, how a communication can be made  from mind to mind, when the signs which na-  ture furnishes are inadequate to the occasion.  And first be it observed, that only such occa-  sions must, at the outset, be imagined as do  but just rise above those for which the cries  of nature are sufficient: — we must not suppose a necessity for communicating those abstract truths which grow out of an improved  use of language, and which could not there-  fore yet have existence in the mind. And  we have further to observe that no communication can be made from one mind to  another, but by means of knowledge which  the other mind possesses; — the cries of na-  ture can find their way only into a conscious  breast, — that is to say, a breast that has known,  jection eignifyiDg that emotiou, or the n  so placed ae to give occasion to it.  or at least can know, the feelings which are  to be communicated, and is capable, therefore,  of sympathy or antipathy ; and knowledge  of whatever kind can be conveyed to another  mind only by appealing to knowledge which is  already there. To suppose otherwise, would  be to attribute to human minds what has been  imagined of pure spirits, — the power of so  mingling essences that the two have at once  a common intelligence. To human minds It  is certain that this way of communicating is  not given, but each mind can gain knowledge  only by comparing and judging for itself, and  to communicate it, is only to suggest the sub-  jects for comparison. Let us suppose that a  communication is to be made for which a na-  tural cry is not sufficient, — the difficulty, then,  can be met only by appealing to the knowledge which the mind to be informed already  possesses. The occasion will create some cry  or tone of emotion ; but this we presuppose  to be insufficient. It will however be under-  stood as far as the hearer's knowledge may enable him to interpret it — that is, he will  know it to be the sign of an emotion which  himself has felt, and he will think perhaps of  some occasion on which himself used it. But  the cry is to be taken from any former par-  ticular occasion, and applied to another; and  he who has the communication to make, will  try to give it this new application by joining  another sign, such as he thinks the hearer is  hkewise acquainted with. The natural cry  thus taking to its assistance the other sign, and  each limiting the other to the purpose in hand,  they will, in their united capacity, be an ex-  pression for the exigence, and will, to all in-  tents and purposes, be a sentence. In some cases, nature seems to furnish  an instinctive pattern for the process here described : —a man cries out or groans with pain ;  he puts his hand to the part affected, and we  at once interpret his cry more particularly  than we could have done without the latter  sign. In other cases, we are driven to the  same process not by an instinct, but by the ingenuity of reason seeking to provide that  which nature has not furnished. If a man  unskilled in language, or not using that which  his hearers understand, should try to make  known what art expresses by a sentence such  as " I am in fear from a serpent hidden there,"  his first effort would be the instinctive cry of  fear ; but aware that this could be particularly  interpreted only of a known, and not of an unknown occasion, he would, by an easy effiirt of  ingenuity, fix it for the present purpose by add-  ing a sign or name of the reptile, (for mimick-  ing the hiss of the reptile would obviously be  a name,) and by joining to both these a ges-  ticulative indication of place. The instinctive  cry thus newly determined and appUed, is a  sentence ; and however clumsy it may seem  when compared with the more complicated  one previously given, yet the art employed is  of the same kind in both. We leave the read-  er to smile at the example as he pleases, and  will join in his smile while he compares it with  that in the epistle of the poet in the note at   Sect. 1.; and, if he is disposed to smile again,  we will suppose another example : — Two men  going in the same direction, are stopped by  an unexpected ditch, and ejaculate the na-  tural cry of surprise ha-ha/ This is remem-  bered as the expression suited for that par-  ticular occasion; and the mind, the human  mind, seems to have the power of generalizing  it for every similar object. Suppose one of  these men finding another ditch very offensive  to his nose, signifies this sensation by screwing  up the part offended, an d uttering the nasal  interjection proper for the case ; — the interjection may not be sufficient j for the other  man may remain to  be informed of what his  companion knows, namely that the offence  proceeds from the ditch. To fix the meaning, therefore, of the interjection to the case  in hand, the communicator adds the former  natural cry in order to signify the ditch, and  the two signs qualifying each other, are a  sentence. 8. An artificial instrument as language is,  growing (as we suppoaej out of necessity, and  adapted at first to the rudest occasions ; per-  fected by degrees, and becoming more com-  plicated in proportion as the occasions grow  numerous and refined ; — such an instrument,  when we compare its earliest conceivable state  with that in which it  has received its iiighest  improvement, must appear clumsy and awk-  ward in the extreme. But in the very rude  state in which we here suppose it, the art em-  ployed is essentially the same as afterwards :  — two or more signs are joined together, each "  sign referring separately to presupposed know-  ledge, but in their united capacity communi- i  eating what is supposed to be unknown. Of  the signs used, that must be considered the ,  principal by which the speaker intimates the ,  actual emotion j the other signs, which do but j  fix its meaning, are secondary. Thereforej ;  though the appellation word (that is p^/io, i  dictum, or communication,) strictly belongs  to the whole expression or sentence, we may  reasonably give that appellation to the principal sign. According to this supposition,  the original verb was an expression equiva-  lent to what we now signify by I hunger, I  thirst, I am warm, I am cold, I see, I hear,  IJeel, &c., / am in pain, I am delighted, I am  angry, 1 love, I hate, I fear, I assent, I dis-  sent, I command, I obey, &c. Whether this  a priori conjecture has any facts in its favour,  is an inquiry suitable to the etymologist, but  fo reign to our purpose, because, whether true  or not, the general argument by which we in-  tend to prove the nature of the parts of speech,  will remain the same*.     " Vet it may be worth while to quote the coinci-  dent opinion of another writer. " It may be asked "  says Lord Monboddo, " what words were (irst invented.  My answer is, that if by words are meant what are  commonly called parts of speech, no words at all were  first invented ; but the first articulate sounds that were  formed denoted whole sentences ; and those sentences  expressed some appetite, desire, or inclination, relating  either to the individual, or to the common business  which I suppose must have been carrying on by a herd  of savages before language was invented. And in this    We have next to imagine the use of  any of the foregoing verbs in the third per-  son ; for that, it should seem, would be the  next step. In communicating that anothet-  hungers or thirsts, or sees or hears, or is angry  or pleased, &c., the difficulty would be to give  the word this new application, and a limiting  sign would, as usual, be necessary. A proper  name would be the sign required ; and if not  too great a tax upon fancy, we may conceive  the invention of these from the mimicking of a  man's characteristic tone, or his most frequent  cry ; not to mention the assistance of gesticu-  lative indication. But when verbs had thus  lost the reference which, at first we presume,  they always bore to the speaker, a sign,  whether a change of form, or a separate word,  would be wanted to bring them back to their  early meaning as often as occas ion required.  A gesticulative indication of the speaker and     way I believe language continued, perhaps for many  ages, before names were invented." — Origin and Pro-  grese of Language. Vol. I. Book 3. Chap. 1 1-  of the person spoken to, can easily be con-  ceived : how soon tliese would give place to  equivalent audible signs, the reader is left to  calculate j and as to the pronoun of the third  person, he may allow a longer time for its in-  vention, especially as even in the finest of lan-  guages, tliere is no word exactly answering to  ille in Latin and he in English.   10. We have suggested a clew to the in-  -yention of proper names, and (for the reader  jnust allow us much) we will suppose these,  L ^ far as need requires, to be invented. But  r piost of these, from the difficulty of inventing  a new name for every individual, would gra-  dually become common. If a man has called  I the animal he rides on by a proper appellation  I corresponding to horse, what shall he call  t Other animals that he knows are not the same;   and yet resemble? Because he is unprovided ..  r jwith a name for each individual, he will call'  I each of them horse*, and the name will then   " Compare Adam Smith, " Considerations con-  cerning the First Formation of Languages," appended no longer be proper but common. But the  same powers of observation which acquaint  us with the points of resemblance, likewise  show the points of difference, and when we  wish to distinguish the animals from each  other, how is this to be done ? The question  is easily answered when we have a perfect lan-  guage to refer to, but it was a real difficulty  when the expedient was first to he sought.  Yet the difficulty not unfrequently occurs  even in a mature state of language, and the  manner in which it is overcome, will enable  us to conceive how, in the rude state of Ian-  guage we are supposing, itwas universally met,  till the noun-adjective became a part of  speech*. Of two horses, we observe that one   to his work on the Theory of Moral Sentiments. As a  proof how prone we are to extend the appellation of  an individual to others, he remarks that " A child just  learning to speak, calls every person who comes to the  house its papa or its mamma ; and thus bestows upon  the whole species those names which it had been taught  to apply to two individuals."   ' The Mohegans " (an American tribe) " have     so has the colour of a chestnut, and the other is  variegated hke a pie ; and we call the former  a cfieslnut horse, and the other a pied or piebald  horse. Here we perceive are two nouns-sub-  stantive joined together to signify an indivi-  dual object, and employed, Ui their united ca-  pacity, to signify what would otherwise have  been denoted by an individual or proper name.  This, then, is their meaning, respectively,  as a single expression. In their abstract or  separate capacity, the one word denotes either  one or the other of the two animals without  reference to the difference between them : the  other word denotes, not a chestnut or a pi^  but that colour in a chestnut, and those varie-  gated colours in a pie, by which one of the  animals is distinguished from the other, and  these words are no longer nouns-substantive  DO adjectives in all their language. Although it may  at first seem not only singular and ciuious, but im-  possible that a language should exist without adjectives,  yet it is an indubitable fact," — Dr. Jonathan Edwards  — quoted by H. Tooke, Diversions of Purley, Vol. II.  p. 463.   but nouns-adjective *. And here the ques-  tion will naturally occur, how would a hearer  know when a noun was used substantively,  and when adjectively ? As this would often  be attended with doubt and ambiguity, the  necessity of the case would soon suggest  some slight alteration in the word as ofi;en as  it was used adjectively ; and the same all-  powerful cause would likewise, in time, dia-  tinguish adverbs from adjectives : for at first  an adjective would be used without scruple to  limit the verb, as to limit the substantive j since     • " The invention of the simplest nouns-adjective,*'  says Adam Smith, " must have required more meta-  physics than we are apt to be aware of." But the dif-  ficulty he imagines is done away by the hypothesis  suggested above ; and how near it is to the truth, will  fae conceived by calling to mind the ready use of al-  most any substantive as an adjective, as often as need  requires : e. g. a chestnut horse, a horse chestnut ; a  grammar school, a school grammar ; a man child, a  cock sparrow, an earth worm, an air hole, a (ireking,  a water lily ; not to mention the innumerable com-  pounds that are considered single words ; as, seaman^  Iiorsenian, footman, inkstand, coalhole, bookcase, Sic.     «t       this is often done even in the present state of  language j but the doubt whether it was to be  taken with the substantive or the verb* would  soon produce some general difference of form ;  and thus the adverb would be brought into  being as a distinct part of speech.   11. Still it would often happen, that in  endeavouring to limit a verb to the particular  communication in view, no substantive or pro-  noun joined to it, not even with the further  aid of an adjective or adverb joined to the  substantive or verb, would suffice ; and failing,  therefore, to convey the communication by  one sentence, it would become necessary to  add another to limit or determine the significa-  tion of the first. Now a qualifying sentence  thus joined, when completely understood in  connexion with that it was meant to qualify,  would be esteemed as a part of the same sen-  tence, and the verb, in the added sentence,     • E. g. whether " I love much society " is to be  understood / much-li/ve suciety, or, / Iwe 7iutch-  society.      would possibly then lose its force as the sign   of a distinct communication. This again, will  easily be understood by a reference to what  occurs in the present state of language. Look-  ing at the sentence, " In making up your par--  ty, except me," no one hesitates to call concept  a verb ; but in this sentence, *^ All were there,  except me," although the word except has pre^^  cisely the same meaning, yet, as we do not con^  sider the clause except TTie to be a distinct com-  munication, but only a qualification to suit the  whole sentence to the purpose in view, we call  except a preposition *, that is, a word put be^     * This solution of the difficulty in the invention  of prepositions, which seems so considerable to Adam  Smith, is suggested, as the reader will perceive, by  the etymological discoveries of Home Tooke, and will  receive complete confirmation by the study of his ad-  mirable work. Let it not be supposed, however, that  we have nothing to object to in the Diversions of  Purley : some ftmdamental principles we have already  marked for inquiry ; and on the point before us, we  have to observe on that curious way of thinking, which  leads him, because a word was once a verb or a noun.      fore another to join it to the sentence that  goes before.   12. But in thus qualifying sentence by sen-  tence, it may sometimes be necessary to use  three verbs, one of them being merely the sin-  gle verb that joins the two sentences together ;  as, " I was at the party, and (i. e. add, or join  this further communication) I was much de-  lighted." Sometimes a noun will be used in  this way ; as, " I esteemed him, because (i. e.  this the cause) I knew his worth." Any par-  ticular form of verb or noun used frequently  in this manner to join sentence to sentence,  will cease at last to be considered any thing  more than a conjunction *.   IS. As to the article, we have only to sup-  to esteem it always so ; on the same principle, no doubt,  that, because the word truth comes from he trou-eth or  thinkelh, a.aA a man's thoughts are always changing,  he denies that there is any such thing as eternal, im-  mutable truth.   * Again the reader is referred to the Diversions of  Purley, for a confirniation of this account of the birth  of conjuncticms.      pose some adjective used in a particular limit-  ing sense so frequently, that we at last regard  it as nothing more than a common prefix to  substantives : — as to a participle^ it is confess-  edly, when in actual use, either a part of the  verb, or a substantive, or an adjective : — and  as to an interjection^ this we have supposed to  be the parent word of the whole progeny ; and  if it is sometimes used among the parts of  an artificial sentence, it is only as a vibration  of the general tone of feeling that belongs to  the whole.   14. In this manner, or in a manner like  this in principle and procedure, would lan-  guage grow out of those powers bestowed on  man by his Creator, even though it had not  been directly communicated from heaven :-—  in this manner is the progress from natural  cries to artificial signs contemplated and pro-  vided for by the constitution of the human  mind; — in this manner would the parts of  speech be developed j and men placed in so-  ciety, and endowed with powers for observation, reflexion, comparison, judgment, would,  in time, become fiepoire^f or dividers of a na-  tural word into significant parts, with the  same kind of certainty that they become bipeds  or walkers on two legs* ; being bom neither  one nor the other.   * And according to Monboddo, with the same  certainty that they lose their tails; for when they  were mutu/m, et turpe pecus^ he appears to think  they might have been so appendaged ; nay, he knew a  Scotchman that had a tail, though he always took care  to hide it : (his lordship was surely in luck^s way to  find it out.) After all, it would be difficult to prove,  notwithstanding the authorities Monboddo quotes, that  herds of men were ever found destitute of language.  Leaving, therefore, the origin of the first language,  and the subsequent confiision or division of it precisely  as those two &ct8 stand in Genesis, all we mean to  assert in the text is this, — that if a number of children  having their natural faculties perfect, were suffered to  grow up together without hearing a language spoken,  they would invent a language for themselves : though,  for a long time, it might remain nothing better than  that of the Hurons described by Monboddo, (Origin  and Progress of Lang. VoL I. Book 3. Chap. 9.) in  which the parts of speech are scarcely evolved, from  the original elements, but what in a formed language     But the object of the foregoing at-  tempt, was not so much to trace the origin     is expressed by several words, is expressed by a sign  not divisible into significant parts. Thus, he says,  there is no word which signifies simply to cut, but many  that denote cuttingjish^ cutting wood^ cutting chaths,  cutting the heady the arm^ &c. And so of the language  throughout. More than one generation would be re-  quired, and very favourable stimulating circumstances,  to bring such a chaos of a language into form ; but  that the human mind has within itself the powers for  accomplishing it sooner or later, we see no cause to  doubt — These words, and the whole of the hypothesis  in the text above, were written before the third Volume  of Dugald Stewart's Philosophy of the Human Mind  had been seen. From that part which treats on Lan-  guage we quote the following passages :   ^^ That the human faculties are competent to the  formation of language, I hold to be certain.* Language in its rudest state would consist partly  of natural, partly of artificial signs ; substantives being  denoted by the latter, verbs by the former.*"   These are among the many passages which coincide  with the views opened in the previous hypothesis. It  is to be added, that D. Stewart considers the imperative  mood to be the first form in which the artificial verb  would be displayed.   and first progress of language, as to get at  the real ground of diflference among the se-  veral parts of speech. On this subject, there  prevails a universal misconception. Prom the  definitions and general reasoning in Gram-  mar ; — from the theories laid down in Logic ;  — and the basis on which the rules and prac-  tice of Rhetoric are presumed to stand, this  principle seems to be taken for granted, that  the parts of speech have their origin in the mind  independently of the outward signs, when, in  truth, they are uothing more than parts in the  structure of language ; contrivances adopted  at first on the spur of theoccasion, the shifts  and expedients to which a person is driven,  ■when not being able to lay bare his mind at  once according to his consciousness, he tries,  by putting such signs together as were used  for former occasions and therefore known as  regards them, to form an expression, which, as  a whole, will he a new one, and meet the pur-  pose in hand. True indeed it is, that these  very contrivances become, in their more refined use, the great instruments of hmnan rea-  son by which all improvement, all extensive  knowledge, is obtained; but we are not to  confound the instrument with the intelli-  gence that uses it/ nor to suppose that the  parts of which it is composed, have, of ne-  cessity, any parts corresponding with them in  the thought itself. It is not what a word signi-  fies that determines it to be this or that part  of speech, but how it assists other words in ma-  king up the sentence. If it is commissioned to  unite the whole by the reference immediate  or mediate which all the other words are to  bear to it, and to signify that they are a sen-  tence, that is, the sign of a purposed commu-  nication, then it is the verb : — if it has not  this power, (namely, of uniting the other words  into a sentence,) and yet is capable, in all other  respects, of standing as an independent sign,  (this sign not being the sign of a purposed  communication) then it is a substantive .-—if it  is the implied adjunct of a substantive, it is an  adjective or an article^ — if of a verb^ an adverb : — if we know it to be a word, which, in  a sentence, is fitted to precede a substantive,  (or words taken substantively) in order to con-  nect such substantive with -what goes before,  then it is a preposition : — and if it goes before,  or mingles in a sentence, in order to connect  it with another sentence, then it is a conjunc-  tion. These are the only real differences of  the parts of speech : — as to the meaning, that  does not of necessity differ because a word is  a different part of speech ; — the following  words, for instance, all express the same notion :   Add   Addition   Additional   Additionally   With*   Andt   * The imperative of the Saxon verb Jpi^an to join.   -|- The imperative of the Saxon verb ananab to add.   The place and ofHce of these six words in a sentence  would of course differ, and the sentences in which they  were respectively used would require a various arrange-  Our definitions reach the real differences  among these words, and they will be found  adequate to all differences, when, by the ob^  servation hereafter to be made, we are quali-  fied to make due allowance for the licences  assumed by the practical grammarian *• In   ment to meet the same purpose, but as to the meaning  of the words, it would be the same in whatever  sentence : e. g.   Add something to our bounty.   Make an addition to our bounty.   Give an additional something to our bounty.   Give additionally to our bounty.   Increase o ur bounty with the gift of something.   Consider our bounty and give likewise.  * To suit our definitions to an elementary grammar,  they must be quaUfied and circumstanced: — a verb,  for instance, must be shewn to be a word that is by  itself a sentence, as esurio ; or which signifies a  sentence, as I am hungry ; or which is fitted to sig-  nify a sentence, as am, lovest. A verb in the infinitive  mood, is a verb named but not used ; a8 to be, to love ;  or if used in a sentence, it is not the verb. A noun-  substantive is a name capable of standing independently,  but it cannot enter into a sentence except by being  connected directly or indirectly with a verb. The in-  flexion of a noun-substantive, as Mard, Mark'' 8^ is  the mean time, in order to throw as much  light as possible on the nature of the con-  nexion between thought and language, let us  look back a little on foregoing statements,  and partially anticipate those which are to be  opened more at full under the heads of Logic  and Rhetoric.   called a substantive, bnt in so calling it, we must say  a Bubstantive in the genitive, or other case. A noun-  adjective is a name not fitted to stand independently,  but to be joined to a noun-substantive, and so to form  with it one compound name. An adverb is a word not  fitted to stand independently, but to be joined to a verb,  and to form with it one compound verb, A preposition  ig a word governing as its object a substantive or pro-  noun in the manner of a verb, but not an obvious part  of a verb, nor capable, like a verb, of signifying a  sentence. The article, pronoun, participle, conjunc-  tion, and interjection, may be defined as usual. We  would suggest moreoverthat in an elementary grammar,  no definition, and no part of a definition, should  be brought forward, till absolutely required by the  examples that are immediately to follow it. In  teaching a child, it is the greatest absurdity in the  world to set out with general principles, when the  business is, to reach those principles by the eiiamina-  tion of particulars. It may be that the organs of sensation  are not all fully developed in a new-born in-  fant ; but if, for the sake of our argument, we  allow that they are so, this is as much as to  say, that our earliest sensations from the ob-  jects of the material world, are the same that  they are afterwards. But there must be this  most important difference, — that the early  sensations are -wilkoui knowledge, and the lat-  ter, with it. I know that the object which now  affects my sense of vision, is a being like my-  self, — I know him to be one of a great many  similar beings ; — I know him to be older or  younger than many of them, — to be taller or  shorter; — I know pretty nearly the distance  he is from me ; — 1 know that the particular  circumstances under which he is now seen,  are not essential to him, but that he may be  seen under other circumstances : — I know that  what now affects my sense of hearing, is the  cry or bark of a dog j — I know, although my  eyes are shut, that there are roses near me,  or something obtained from roses j — I knoie     u      that sometliing hard has been put into my  mouth ; — and now I know it to be part of an  apple. All the sensations by which the  various knowledge here spoken of is brought  before the mind, the new-born infant may  possibly be capable of; but as to the know-  ledge, there is no reason to believe he lias the  least portion of it. For the knowledge is  gained by experience, requiring and com-  prising many individual acts of observation,  comparison, and judgment j all which we  suppose yet to take place in the new-born  infant. Now, in looking back to what has  been said on the acquirement of language, we  find the effect of our progressing knowledge  to be this, that every sign arising out of a par-  ticular occasion, will lose that particular re-  ference in proportion as we find it can be used  on other occasions j and so all words will, at  last, in their individual capacity, become ab-  stract or general. This is as true of such  words as yellow, white, heat, cold, soft, hard, .  bitter, sweet, and the like signs of what Locke    calls simple ideas as of any other * : for we  can evidently use these words on an infinity  of different occasions j and the power of so  using them is an effect and a proof of our  knowing that the different occasions on which  we use the same word, have a something in  common, or in some way resemble. But  while all words thus acquire an abstract or  general meanipg, every communication which  we purpose to make by their means, must, in  comparison with their separate signification,  be particular ; and our putting them together  in order to form a sign for the more particular  thought, will be to deprive them of the abstract  or general meaning which they had indi-  vidually. If this is the real nature of the  process, we are completely mistaken if we  suppose that every word in a sentence sig-  nifies a part of the whole thought, and that  the progression of the words is in corre-  spondence with a progression of ideas which  the mind first puts togetlier within, and then  * Vide Locke, Book II. Chap. 1. Sect. 3.    signifies without What deceives us into this  impression, is, that on considering each word  separately, each is found to have .1 meaning.  Let us try, however, whether the joining of  words into a sentence, does not take from them  the meaning they have separately. Put to-  gether the three words " My head aches,"  and we have an expression, namely the whole  sentence, which signifies what, from a want  of clearness in our remarks, may possibly be  the reader's present particular sensation: hut  my, separately, signifies the general knowledge  I have attained of what belongs to ine as dis-  tinguished from what belongs to another j a  knowledge which is not at all necessary (that  is, the ^'•CTJcra/ knowledge) to the sensation it-  self, nor even to the expression ofit, if we could  find any single sign in lieu of the three which  we have put together. Accordingly, the  word my, as soon as it is joined to the other  words, drops that meaning which it had  separately, and receives a particular limitation  from the word head, which word head is likewise limited by the word rrof ; and the more  particular meaning which both these receive  by each other, is limited to the particular oc-  casion by the word aches. Yet, it may perhaps  be thought, that in this, and in every other  sentence, each word, as the mind suggests it  to the lips, is accompanied by the knowledge  of its separate meaning, and that, in this  manner, if we use the word idea in the un-  restricted sense familiar to the readers of  Locke, each word may be said to represent an  idea. Without entirely denying the justice  of this view of the matter, we offer in its place  the following statement :   17. In forming a sentence for its proper  occasion, the knowledge of which each sepa-  rate word is fitted to be the sign, may, or  may not be in the mind of the speaker: it  may be entirely there, or only in part, or not  at all there ; that is to say, the speaker may  not know the separate meaning of a word,  but only the meaning it is to have in union  with the other words. And even if the speaker does know the full separate meaning  of each word, yet he is not under the neces-  sity of thinking of that separate meaning  every time he uses it : nor does he, in fact,  think of the separate meaning of words while,  in putting them together, his purpose is to ex.  press what has been often expressed before, but  only (and even then but partially and occa*  tonally) when he uses words to work out some  conclusion not yet established in his own mind,  or when a train of argument is required to  convince or persuade other minds. This  statement will of course require some con-  siderations in proof.   18. And first, as to the knowledge of  which each separate word is fitted to the sign,  it is to be observed that our knowledge grows  with the use of words, and therefore our firet  use of them is unaccompanied by that know-  ledge which we gain by subsequent use.  This is true, whether we invent words, or  adopt those already invented. In the rude  beginning of language, the first use of a word for head, would be a use of it for a particular  occasion, and the word would be particular or  proper. If the speaker used it with reference  to himself, it would signify what we now sig-  nify fay the two words my head ". By observ-  ation and comparison, he would find he could  extend the meaning of the word, and apply it  with reference to his neighbours as well as  himself, and it would then no longer be proper  but common ; that is to say, it would signify  a human head, and not mj/ head. Extending  his observations still more widely, he would ap-  ply it with reference to every other living crea-  ture, and it would accordingly then signify a /(u-  ing creature's head. Looking and comparing  still further, he would apply it with referenceto  every object, in which he discovered a part  having the same relation to the whole as the  head of a living creature has to its remaining  parts ; and the word would then, and not till  then, have its present meaning ; that is to   " Compare the characteristics of the Huron lan-  guage referred to in the note appended to Sect. 14.    say, in a separate unlimited state it would  signify neither my head, nor a human head,  nor a living creature's head, but the top,  chief part, beginning, supremacy of any  thing whatever. Nor is the process essentially  different in acquiring the use of words already  invented. A child does not at first put words  together, but, if his head aches, he will say  perhaps "head! head!" using the single  word in place of a sentence. At length he  will say mi/ head, and brother's liead, and  horse's head, and cradle's head. Still there  are other applications of the word to be  learned by use ; and it surely will not be  contended that any one knows the meaning  of a word beyond the cases to which he can  apply it. The knowledge which a separate  word is fitted to signify, may then be wholly  or may be partly in the mind of him who  uses it in a sentence ; and it is very possible  not to be there at all. A foreigner, for in-  stance, who had beard the phrase the head of  the army applied to the general-in-chief, would know the meaning of the phrase, but  might be quite ignorant of the meaning of  the separate words, or even that it was com-  posed of separable words : and probably most  people can look back to a time in early life,  when they were in the habit of using many a  phrase with a just application as a whole,  without being aware that it was reducible  into parts in any other way than as a poly-  syllabic word is reducible.   ig. But even when the speaker, in form-  ing a sentence, has previous possession of all  the knowledge of which each word is sepa-  rately fitted to be the sign, yet he does not in  general think of their separate meaning while  he is putting them together, but only of the  meaning he intends to express by the whole  sentence. For through the frequent use of  phrases and sentences whose forms are hence  become familiar, there is scarcely any senti-  ment, feehng, or thought, that suddenly arises  in the mind, that does not as suddenly sug-  gest an appropriate form of expression. This     [chap.   is manifestly the case with such sentences as  arc in constant use for common occasions :  these the speaker cannot be said to make,  they occur ready-made, and he pronounces  the words that compose them with as little  thought of their separate meaning as if he  had never known them separate. Even when  sentences ready-made do not occur, yet the  forms of sentences will occur, and the speaker  will, in general, do nothing more than insert  new words here and there till the sentence  suits his purpose. Thus he who had said  " My head aches," will recollect the form of  sentence when his shoulder aches, and in  using the sentence, will only displace head  for shoulder: or if his head " is giddy," he  will only displace aches for the two words  quoted, in order to say what he feels.   20. When indeed we use language for  higher occasions than the most ordinary in-  tercourse of life ; when by its means we pro-  secute our inquiries after truth, or use it dis-  cursively as an instrument of persuasion, then the operation itself is carried on by dwell-  ing on and enforcing the abstract mean-  ing of some of the words and some of the  phrases whUe in their progress towards form-  ing sentences, as of the sentences while in  their progress toward forming the whole ora-  tion or book. But in such cases, language  may more properly be said to help others to  come at our thoughts , than to represent our  thoughts : although it is likewise true, that  we could not ourselves have come at them  but by similar means. Independently of the  words, therefore, the thoughts would have  had no existence j neither should we have  proposed the inquiry after the truths we seek,  nor have imagined any thing in other minds,  by addressing which they could be influenced.  Still, however, in these higher uses of lan-  guage, (uses which are to be dwelt on more  at full in the chapters on Logic and Rhe-  toric,) there is the same difference between  words separately, and the meaning they re-  ceive by mutual qualification and restriction ;     «*    that is to say, in these higher uses of lan-  guage, 83 well as in those already remarked  upon, the parts that make up the whole ex-  pression, are parts of the expression in the  same manner as syllables are parts of a word,  but are 7tol parts of the one whole meaning in  any other way than as the instrumental means  for reaching and for communicating that  meaning. And suppose the communication  cannot be made but by more signs than use  will allow to a sentence, — suppose many sen-  tences are required — many sections, chapters,  books, — we affirm that, as the communica-  tion is not made till all the words, sentences,  sections, &c. are enounced, no part is to be  considered as having its meaning separately,  but each word is to its sentence what each  syllable is to its word ; each sentence to its  section, what each word is to its sentence ;  each section to its chapter what each sen-  tence is to its section, &c. Thus does our  theory apply to all the larger portions of dis-  course, and to the discourse itself, Aristotle's definition of a word, namely, ** a sound sig.  niiicant. of which no part is by itself signi^  ficant ;" * for if our theory- is true, the words  of a sentence, understood in their separate  ^rapacity, do not constitute the meaning of the  whole sentence, (i. e. are not parts of its  whole meaning,) and therefore, as parts of  that sentence, they are not by themselves  significant ; neither do the sentences of the  discourse, understood abstractedly, constitute  the meaning of the whole discourse, and  therefore, as parts of that discourse, they are  not by themselves significant : they are sig-  nificant only as the instrumental means for  getting at the meaning of the whole sentepce  or the whole discourse. Till that sentence  m oration is completed, the Word t is unsaid  which represents the speaker's thought- If   ♦ 4^6jvii (ni/xAVrixiii vi'; A*sf oj oOih B<rri xalP abrh arif/iotv-i   rikiv. De Poetic c. 20.   f In this wide sense of the expression is the Bible  called the Word of God. We shall distinguish the  term by capitals, as often as we have occasion to use it  with simitat comprehensiveness erf meaning.        it be asserted that the parallel does not hold  good with regard to such words as Aristotle  has in view, because, of words ordinarily so  called, the parts, namely the syllables, are not  significant at all, while words and sentences  which are parts of larger portions of dis-  course, are admitted to be abstractedly sig-  nificant, however it may be that their abstract  meaning is distinct from the meaning they re-  ceive by mutual limitation, — we deny the  fact which is thus advanced to disprove the  parallel : we affirm that syllables are signifi-  cant which are common to many words ; for  instance, common prefixes, as wn, mis, corif  dis, bi, tri, &c.; and common terminations,  as nesSjJul, hood, tion, fy, &c. j and so would  every syllable be separately significant, if it  occurred frequently in different combinations,  and we could abstract out of such combina-  tions the least shade of something common in  their application : nor is it peculiar to syllables  to be without signification individually; the  same thing happens to words when they are always combined in one and the same way in  sentences *. Conceiving, then, that we are  fully warranted in the foregoing statement, we  affirm it to be the true basis of Grammar, Lo-  gic, and Rhetoric. Leaving the latter two  subjects for their respective chapters, we pro-  ceed, in this chapter, with such further proofs  as may be necessary to confirm our position  as far as Grammar is concerned.   21. We have imagined the gradual de-  velopment of all the parts of speech recog-  nized by grammarians ; but no reference has  yet been made to the inflexions which some  of them undergo; nor to the diflference of  meaning they receive in consequence of such  inflexion ; nor to interchanges of duty among  the several parts of speech ; nor to pecu-  liarities of use, which so oflen take from them  their characteristic differences; nor to va-   " What separate meaning, for instance, is there,  now, in the words which compose such phrases as, by-  and'bij, goodJi'ye, ftatc-du-you-do, 8cc.     I ON GEAMMAB. t^CHAP. I.   riety of phrase in expressing the same mean-  ing j nor to the power which we frequently  exercise of making the same communication  by one or by several sentences ; nor, in  short, to the multitude of refinements which  grow out of an improving use of language,  many of which seem to confound and destroy  the definitions we obtain from the first and  simplest forms of speech. All these seeming  irregularities will, however, find a ready key  in the general principles we have ascertained.  For our general principles are these : i. That  two or more words joined together in order  to receive, by means of each other, a more  particular meaning, are, with respect to that  meaning, inseparable j since, if separated,  they severally express a general meaning not  included in the more particular one. Hence  it follows, that words may as easdy receive a  more particular meaning by some change of  form, as by having other words added to  them : nay, it seems more natural, when the  principle is considered, to give them a more particular meaninjj by a change of form than  fay any other way. — ii. That a word is tliis or  that part of speech only from the. office it  fulfils in making up a sentence. From this  principle it follows, that a word is liable to  lose its characteristic difference as often as it  changes the nature of its relation to other  words in a sentence ; and it also follows, that  every now and then a word may be used ia   L8ome capacity wliich makes it difficult to be  assigned to any of the received classes of  words. — iii. That since the parts of which a  sentence is composed denote general know-  ledge, distinct from the more particular mean-  ing of the whole sentence, it may be possible i  to work our way to a particular conclusion,  either in reasoning for ourselves or in per- j  auading others, by putting such words to-  gether as form a sentence, that, as a whole,  expresses the particular conclusion; but that  when, from the length of the process, this  cannot be accomplished in a single sentence,  we shall be obliged to work our way by many sentences, whicli will bear the same relation  to the conclusion implied by them as a whole,  as the parts of each sentence bear to what  the sentence expresses. From this principle  it follows, that using many or fewer sentences  to arrive at the same result, will frequently  be optional. The examination of these se-  veral consequences a Httle more in detail  with reference to the principles from which, i  they flow, will complete the chapter.  It is well known, that the inflexions  which nouns, verba, and kindred words are  liable to in many languages, are comparatively  unknown in English, the end being for the  most part attained by additions in the shape  of distinct words. Thusthe particular re-  lation of the word Marcus to the other words  in the sentence, which in Latin is made  known by altering the word into Marco, is  signified in English by the word io ; and to  MarcuSy esteeming the two words as one ex-  pression, is the same as Marco. So likewise  the word amo, which in English signifies /       Gl     l&ve, is adapted to a different meaning by  being changed into amabit, which in English  is to be signified by he mil love, the three  words, taken as a whole, being the same as  the single Latin word. Shall we call to Mar-  cus the dative case of Afarcus, and he will ,  love, the third person singular of the future  tense of / love, as Marco and amabit are re-  spectively called with reference to Marcus  and amo? or shall we parse (resolve into  grammatical parts) those English sentences,  and so deny, in our language, a dative case and '  a future tense ? It is evident that this is a  question which only the elementary grammar-  writer is concerned with : he may suit his own  convenience, and contend the point as he -I  pleases. Thus much is certain, and is quite  sufficient for our purpose, — that to Marcus ,  cannot be considered a dative case, nor he wiU ]  love a future tense, on any other principle than  the one it is stated to flow from, namely;  that marked i. in Sect. 21.   23. To the practical grammarian we may likewise frequently allow, for the sake of con-  venience, the continuing a word under its  usual denomination, when its office, and con-  sequently its character, are essentially changed.  He will love, taking the three words as one  expression, are a verb both on the principles  we have ascertained, and in the practice of  the elementary grammarian : but in parsing  tliis verb — this p^iio, dictum, communication,  01 sentence, — only one of the three words  can properly retain the denomination of verb,  viz. that word to which the others have a re-  ference, by which they hang together, and  are signified to be a sentence, namely, ■will.  As to the word love, which the practical  grammarian will tell us is a verb in the infi-  nitive mood, it does not in fact fulfil the  office of a verb, but of a substantive. But if,  by calling it a verb in the infinitive mood, its  character for practical purposes is con-  veniently marked, we may fairly leave the  matter as it stands. All we insist upon is,  that the doubtful character of the word is a     consequence of the principle marked ii. in  Sect 21."     I • Strictly, there is no verb but when a c  cation ib actually made ; and that word is then the  verb, which expreaseB the communicatioti, or which,  when several words are necessary, ie the sign of union  among the whole of them. A verb not actually in  use is acaptain out of commission, and if we still call  it a verb, it is by courtesy. Home Tooke never an-  swered his own question, " What is that peculiar dif-  ferential circumstance, which added to the definition  of a noun, constitutes a verb ?" (Diversions of Purley,  Vol. II. p. 514),) because he bad previously blinded  himself to the perception of what it is, by laying down  the principle already animadverted upon in a note ap^  ponded to Sect. 3., namely, that the business of the  mind, as far as regards language, extends no fiirther  than to receive impressions: the consequence of which  priuciple would be, (if it could have any consequence  at all,) that the first invented elements of speech were  nouns, or names for those impressions ; which accord-  ingly seems to be his notion, and that verba afterwards  arose from nouns, by assuming the difierential some^  thing that was found to be wanting. Our doctrine is,  that the original element of speech contained both the  artificial noun and the artiiicial verb ; that the mind  exerted its active powers in order to evolve the artir  ficial parts ; that the act of joining them together   It might also perhaps admit of dis-  pute, whether substantives in what are called  their oblique cases, do not, by being the ad-  juncts to other words, and taking a change  of form to signify their servitude, cease in  fact to be substantives, and merit no higher  name than adjectives or adverbs. But here  again we consult convenience by using the  descriptive title, a substantive in the geni-  tive, dative, accusative, or ablative case. We  only need insist, as philosophical inquirers,  that the definition of a substantive in Sect.  15., is not less correct, because it does not in-  clude a substantive in these oblique cases*.   i^ain, made them a verb ; but if the title was given to  one more than to the other, it was given to that which  arose most immediately from the occasion, and took  the other to fis or determine it ; and that subsequently  that word in a sentence came to be coneidcred the  verb, which joined the parts K^ether, and signified  them to be a sentence.   * The only oblique case in English substantives,  is the genitive terminating in 'fi or having only the  apostrophe, the s being elided. Grammarians, in-  deed, have found it necessary to allow an accusative. The very doubt itself which so often  arises, whether a word is this or that part of  speech, — the varying classification of the parts  of speech by different grammarians, — are cir-  cumstances entirely favourable to the theory  advanced, and adverse to any theory which  attempts to explain the parts of speech by a  reference to the nature of our thoughts in-  dependently of language. For if the parts of  speech had taken their origin from this cause*   because pronouns have it : for if  in the sentence Cas-  s-iua loved him, we put the noun where the pronoun  stands, and say, Casmus loved Brutus, it seems con-  venient to consider the noun to be in the same case  that the pronoun was in. On the same principle, the  substantives which, in the classical languages, have no  accusative distinct from the nominative, are neverthe-  less considered to have an accusative, because, lite  other substantives, they can be used objectively with  regard to verbs active and certain prepositions. On  the score of convenienee this must be allowed. But  when words are taken separately, (and this, by  the very delinttion of the word, is the business of  parsing,) it is evident that only those substantives  are, strictly speaking, in the accusative case, which,  when uaed as just staled, have a form to signify it.   surely we could never have been in doubt  either as to vskat, or koio many, they were.  But our theory accounts at once for the in-  certitude on these, and many other points.  We admit no original element of speech but  the VERB, or that one sign which denotes what  the speaker wishes to communicate. If no  one sign can be found adequate to the occa-  sion, then we must make up a sign out of two  or more. Now the division of a verb into  these parts of speech, is necessarily attended  by the consequence, that each part is insigni-  ficant of a communication by itself, and that  they signify it only by being joined together.  Supposing a sentence never consisted but of  two parts, the mere act of joining them to-  gether, would be sufficient to signify that  they were a sentence or verb. But the ne-  cessity or usage of speech being such, that  the hearer knows a sentence may consist of  two or of many words, how is he to be warned  that a sentence is formed, unless to certain  words is given the power of signifying a sentence, while to other words this power is de-  nied until associated with a word of the for-  mer class? Hence the distinction between  noun and verb ; a distinction arising out of  the necessities of speech, and not out of the  nature of our thoughts. The noun and the  verb, then, are the original parts of speech, the  verb beingthepreviouselementof both. But  as each derives its office and character solely  from an understanding between the speaker  and the hearer, a change of understanding  may make them change their offices, and so  the verb shall sometimes be a noun, and the  noun a verb. These changes occur in fact  so frequently, as to require no example.  Then, as we have seen, a noun will frequently  be used as the adjunct of another noun, and  so become an adjective j an adjective or other  word may be joined to a verb, and so become  an adverb j and any of these, by frequent use  in particular combinations, may acquire, or  seem to acquire, a new and peculiar office,  and so become articles, prepositions, and conjunctions. But who can ascertain that de-  gree of use, which, to the satisfaction of every  grammarian, shall fix them in their acquired  character • ? Nay, must not every such word,  of necessity, while in transitu, be at one period  quite uncertain in its character ? In this man-  ner do the effects arising out of such a theory of  the parts of speech as we have supposed, agree  with actual effects, and fully explain them.  26. Again, on any other hypothesis than  the one before us, what are we to think of  compounded nouns, adjectives, verbs, adverbs,  &c., of which all languages are full ? With-  out adverting to established compounds, such  as (to take the first that occur) husbandman.     * What, for instance, shnll we call the word fi/ce in  such phrases as like him, like me? Originally theword  unto intervening between it and the pronoun, govern-  ed the latter ; but unio cannot now be aid to govern  the pronoun, since it has been so long disused, as to be  no longer mtderstood. We miglit therefore say, that  like is a preposition governing the pronoun : — the  point perhaps is disputed ; — be it so : for this fact jugt  serves our argument.     :    m     worJcmanlike, waylay, browbeat, nevertheless ;  without bringing words from the ilUmitably  compounded Greek language, — we may refer  to such as are not established, but compounded  ibr the particular purpose ; as when Locke  speaksof '* Mr. 'Nev/ton'sjiever-enough-io be ad-  mired book," where the words in italic are an  adjective; and when some old lady pettishly  says to her grandchild " Don't dear Grand'  mother me i" v/here the whole sentence, ex-  cept the pronoun governed in the accusative,  is a verb. So in the phrases to fiAxov <rvvoia-eiv  7^ iroXei the being-about-to-be'prqfitable-to-t/ie-   Ci'/y,— and, TO Tct Tou iroXefiov raj^ii xal Kara   Kaipov Trpa.TTea$at, the completing-spcedili/'and-  seasonablif-the'lhings-for-the-war, we are war-  ranted in considering the whole of the words  following the article, to be, in each instance,  a noun-substantive. For these, and for every  other species of compound, the theory before  US at once accounts. For it shows that the  use of many words to form one sentence, arises  out of the necessities of language only, the na-      tiira] impulse of the mind being tomake its com-  munication by a single expression. Having  complied, then, with the necessities of lan-  guage, and rendered it capable of serving as  the interpreter of much more knowledge than  we could have attained without its help ; we  then return on our steps, and give a unity to  our expressions in every possible way.   27. The corruption of early phrases, by  which, in so many instances, they come under  the denomination of adverb, will be found  another obvious consequence of the present  theory, while they abundantly perplex the  grammarian who attempts to reconcile them to  any other system. "Omnis pars orationis"  says Servius, "quando desinit esse quod est,  migrat in adverbium." " I think" says Home  Tooke, " I can translate this intelligibly —  Every word, quando desinit esse quod est,  when a grammarian knows not what to make  of it, migrat in adverbium, he calls an ad-  verb."* What indeed can be made of such     ' Divctsioiia vi Puiky, Vol. I.     expressions as at all, by and by, to be sure, for  ever, long ago, no, yes. They are adverbs,  say the grammarians. But (to take the  phrases first) what are the words, individually,  of which the adverbs are composed? The  answer will be, they are prepositions, adjec-  tives, &c., which remain from the corruption  of regular phrases once in use. This is a true ,  account of the matter : — yet it leaves us still  to ask, what ai'e these single words, now that  the phrases which produced them exist no  longer in their original state. Let any gram-  marian, if he can, prove their right to the  name of any of the received parts of speech.  Our system, if it does not make a provision  tor them by a name for a new class of words,  at least shows the cause and the nature of their  difference. For according to our principles,  words have both a separate and a, joint signifi-  cation. But if words should be constantly     another place, he says " that this class of words, (ad-  verb,) is the common sink and repository of all hetero-  geneous, unknown corruptions."    occurring in particular combination, this ef-  fect will enaue, — that their separate significa-  tion in such hackneyed phrase, will at last be  quite unattended to, and their joint significa-  tion alone regarded ; — and such phrases will  then be as liable to be clipped in the currency  of speech, as any long word which is trouble-  some to be uttered at full : — thus will the re-  maining parts of the phrase be fixed for ever  in their joint, and lose for ever their separate  signification*. So much for the words com-  posing adverbial phrases. But what are we  to say for no, yes, which probably had the  same origin as the phrases ? These have not,  Hke the phrases, a compound form, nor do  they, like the phrases, always assist in making  up a sentence, but are frequently and proper-  ly pointed oft' by the full stop. Are we, un-  der such circumstances, to call them adverbs P  •• Yes." This is the answer our grammarians  make. But is there, in these words, any     • Thcwordtoas asignofthcinfiiiitivL'moodcumcs  onilcr this doicnption.    thing which gives them a just claim to be  ranked with any of the received classes of  words? " No." This is an assertion it would  be difficult to gainsay. For consider them  well, and we shall find, that, in their present  use, they are not j3ar/s of speech at all, except  with reference to the larger portions of dis-  course of which all the sentences are parts :  they are sentences ; and they afford a striking  example of what was intimated in the prece-  ding section, namely the tendency oflanguage,  in a mature state, to return on its early steps  as far as can be done without losing the ad-  vantages gained : for not only do we, when-  ever we can, bring the smaller parts of speech  into such union as to form larger parts, but  in some instances, (as in these last,) we come  round again to the simpHcity of natural signs.  28. This union of the smaller into larger  parts of speech, and the power we have to dis-  pose the same materials into more or fewer  sentences, will furnish further proofs, that the  present theory of language can alone be the true one. A proper examination of compound  sentences will show, that the grammatical  parts into which they are first resolvable, are  not the single words, but the clauses which  are formed by those words ; which clauses are  substantives, and verbs, and adjectives, and  adverbs, with respect to the whole sentence,  however they may, in their turn, be resolva-  ble into subordinate parts of speech bearing  the same or other names. To take the fol-  lowing as an example : " The sun which set  this evening in the west, will rise tomorrow  morning in the east." The two parts into  which this sentence is resolvable, are, to all  intents and purposes, a noun-substantive and  a verb, if considered with respect to the whole  sentence*. This is the first, or broadest ana-   * And HO may the two parts (technically called the  protasis and apodosis) of every periodic sentence be  considered : for every period, (TEfi'ofos, a circle,) is re-  solvable into two chief parts, the one assimilated to  the semicircle tending out, the other to the rendering-  in, or completing semicircle. These answering parts  ate commonly indicated in Greek by iJth — ft; in En- ]lysis. Then taking the former of these two  chief constructive parts, we shall find it re-  solvable into these two subordinate parts, viz.  the sun, a noun substantive, and w?iick set this  evening in the west, its adjunct or adjective : —  the latter chief constructive part being in the  same way resolvable into will rise, a verb, —  and, tomorrow morning in the east, its ad-  junct or adverb. Returning to the adjective  of the former chief constructive part, we shall   gUsh very frequently by as — so; though — yet, &c.  There may exist a doubt in most sentences so construct-  ed, whether the one part has a claim to be considered  tlie verb more than the other : each part is meant to be  insignificant by itself, and, {as was lately supposed of  the parts of speech in their early institution, before a  sentence was composed of more than two words,) they  Bifrnify a communication by the very act of being join-  ed together. Yet as the protasis is a clause in sus-  pense, and so resembles a substantive in the nomina-  tive case before the verb is enounced ; — as the apodo-  618 removes the suspense, and so resembles the verb in  its effect on tlie substantive ; — it seems that in con-  Hidering the protasis as a nominative case and the apo-  dosis aa its verb, we shall not be far from taking a ,  right view of the principle and procedure.     7find it, if separately viewed, to be a sentence  having its nominative which, its verb set, and  the latter having its adverb tins evening in the  ivest ; which adverb is resolvable into two  clauses of which the former consists of the de-  monstrative adjective this, and evening, a sub-  stantive used objectively with relation to the  preposition on understood •• The latter clause  in the west is nearly similar in its grammatical  parts ; but the preposition it depends upon, is  not understood. This subordinate or adjec-  tived sentence which we have thus taken to  pieces, (viz. which set this evening in the west,')  is however no sentence when considered with   " Or more properly this eeening is an adverb ; for a  word cannot justly be called understood, when its ab-  sence is not suspected till the grammarian informg us of  it : — on before euch phrases when the custom to omit  it had just begun, was indeed understood; it is now  understood no longer, and what remains of any such  phrase is an adverb. As the next clauses, in the tceat,  retains its preposition, we are at liberty to parse the  clause, instead of considering it, in the whole, as an  adverb attcndijig the verb set, though we are also ab  liberty to consider it in the latter way.     reference to the larger sentence of which it is  a grammatical part : but it might, if the  speaker had pleased, have been kept distinct,  and the same meaning have been conveyed by  two simple sentences, as by the one com-  pound one : e. g. " The sun set this evening  in the west : — It will rise tomorrow morning  in the east." Here, we have two sentences or  commuuications. But this is nothing more  than a difference in the manner of conveying  the thought, precisely analogous to the using  of two words that restrict each other, in place  of a single appropriate sign. In the instance  before us, the thought, whether expressed by  the one sentence or the two, is the same ; and  it is one and entire, whatever the expression  may be. For we must not confound the two  facts referred to in the sentences, with what  the mind thinks of the facts : — it is the con-  nexion of the facts that the speaker seeks to  make known. Yet he may imagine he can  best make it known by using the two sen-  tences ; for though, it is true, that while they  are in progress, they will be understood se-  parately, yet no sooner will they be com.  pleted, than the hearer will understand them  limited and determined the one by the other,  and no longer abstractedly as while they were  in progress. In this manner, in correspond-  ence with the principle stated Sect. 21 . iii., will  the same result be obtained by the two, as by  tlie one sentence.   29. This power, which exists in all lan-  guages, of expressing the same thought in a  variety of different ways, is, one would think,  a suiEcient proof, by itself; that thoughts and  words have not the kind of correspondence  whicli is commonly imagined : for if such cor-  respondence had existed, the same thoughts  would always have been expressed, if not by  the same words, yet by words of similar mean-  ing in the same order. Let us suppose that  tlie expressing a thought by several words,'  I had been, (which it is not,) a process analo-  gous to that of expressing the combined sounds  of a single word by several letters. There is  the more propriety in instituting tlie compa-  rison, because men were driven to the latter  expedient by a necessity similar to that which  drove them to the former. For, no doubt,  the first idea of the inventors of writing was,  to appropriate a character for every word ; and  we are told that, to this day, a practice near  to this prevails in China, But it was soon  found that the immense number of characters  this would require, must make the completion  of the design next to impracticable ; and the  expedient was at length adopted of spelling  words. By this expedient, twenty four cha-  racters, by their endless varieties of position  with each other, are capable of signifying the  multitude of words, and the innumerable sen-  tences, which constitute speech. The parts  of speech were set on foot by a similar urgency,  and in tlie same way. At first, every sound  was a sentence. But the communications  which the business of life required, far, far  outnumbered every possible variety of sound.  It was fortunate, therefore, when a necessity     eo     ON C   arose to give to some of the sounds a less par-  ticular application ; for then the requisite sign  was formed out of two or more sounds already  in use, and no new sound was required. So  far the parallel holds ; but it will go no further.  In the spelling of words by letters, the same  letters must always be used, — if not the same  characters, yet characters of the same power.  And it would have been the same in spelling  a thought by words, if the process had been  what it is commonly supposed to be :— that is  to say, the same thought would always have  been expressed by the same words, or if  the words had been changed, the change  must have been word for word, as in a  completely literal translation from one lan-  guage to another. How different this is  from fact, hardly needs further examples in  proof. Mr. Harris attempts to shew *, that     • Hermes, Book I. Chap. 8. We cordially agree  in Home Tooke's opinion of thia well-known work,  that it is " an improved compilation of almost all the  enors which grammarians liave been accumulating     S     tlic different forms or modes of sentences,  depend on the nature of our thoughts. That  the character of a thought has an influence in  determming our preference of this or that  mode of speech, needs not be questioned; but  all the modes of speech, are interchangeable  at pleasure, and therefore they cannot aub-  stantiallydepend on thenature of our thoughts.  An affirmative sentence, " 1 am going out of  town," ma be made imperative, " know,  that I am going out of town ;" or interrogative,  *' Is it necessary to say, that I am going out  of town ?" A negative sentence, " No man is  immortal," maybe made affirmative, "Every  man is mortal." It would waste time and  patience to multiply examples. The con-  clusion, then, is, that the parts of speech and   from the time of Aristotle, to our present days." Di-  versions of Furley, Vol. I. page 120. Vet occasionally,  when our etymologist runs a little bard on this Com-  piler of errors, the theory we advance, opposite as it ib  in its general tenor to all that the Hermes conttuns,  will be found to lend its author a lift. See the section  ensuing in the text.     the forms of sentences, are alike attributable  to the necessities and conveniences of lan-  guage, and not to the nature of our thoughts  independently of language. Perhaps by this  time it may almost seem that an opinion con-  trary to this has no defined existence, and that  the combat has been against a shadow. But  this is not true. If the opinion opposed to the  principles contended for, is seldom ^rwio%  expressed, it is nevertheless universally under-  stood — it is at the bottom of all the systems  of grammar, of logic, and of rhetoric, which  we study in our youth, and which we after-  wards make our children study ; and as it is  an opinion radically, essentially wrong, the  pains employed to overthrow it, cannot, if  successful, have been supeiHuous. In no  other way was a preparation to be made for  an outline of the higher departments of Sema-  tology.   30. New, however, as we believe our  theory to be, yet it is not without authorities in  its favour ; and with these we shall conclude the chapter. Harris, the author of" Hermes,"  in treating of connectives, stumbles unawares  on the fact, that a word which is significant  when alone, may he no significant part of  what is meant hy the expression it helps to  form. He makes nothing indeed of the fact,  further than to lay himself open to the ridicule  of Home Tooke for tKe inconsistent assertions  in which it involves him. " Having" says  Tooke *, "defined a word to he a sound significant, he (viz. Harris) now defines a pre-  position to be a word devoid of signification ;  and a few pages after, he says, ' prepositions  commonly transfuse something of their own  meaning into the words with which they are  compounded.' Now if I agree with him,"  continues Tooke, " that words ai'e sounds  significant, how can I agree that there are  sorts of words devoid of signification ? And if  I could suppose that prepositions are devoid  of signification, how could I afterwards allow,     ' Diversions of Purley, Vol. I. Cliap. 9.     9»    that they transfuse something of their own  meaning?" Yet with all this, Harris is right,  only that he is not aware of the principle,  which lies at the bottom of his own doctriue.  A preposition, as well as every other word,  is a sound significant j — it has an independent  abstract signification : but being joined into a  sentence, it is devoid of that signification it  had when alone : it has then transfused its  own meaning into the word with which It is  compounded, as that word has transfused its  meaning into the preposition — that is to say,  they have but one meaning between them.   31. But Dugaid Stewart, in his Philoso-  phical Essays, furnishes a direct, and a more  satisfactory authority in favour of the theory  we have advanced. " In reading " says he •,  " the enunciation of a preposition, we are apt  to fancy, that for every word contained in it,  there is an idea presented to the understand-  ing ; from the combination and comparison of  which ideas, results that act of the mind  • Philosophical Essays, Essay 5. Chap. I.     called judgment. So different is all this from  fact, that our words, when examined sepa-  rately, are often as completely insignificant aa  the letters of which they are composed, de-  riving their meaning solely from the connexion  or relation in which they stand to others." —  Again : " When we listen to a language which  admits of such transpositions in the arrange-  ment of words as are familiar to us in Latin,  the artificial structure of the discourse  suspends, in a great measure, our conjectures  about the sense, till, at the close of the  period, the verb, in the very instant of its  utterance, unriddles the jenigma. Previous  to this, the former words and phrases resemble  those detached and unmeaning patches of  different colours, which compose what op-  ticians call an anamorphosis ; while the effect  of the verb, at the end, may be compared to  that of the mirror, by which the anamorphosis  is reformed, and which combines these appa-  rently fortuitous materials, into a beautiful  portrait or landscape. In instances of this sort, it will generally be found, upon an  accurate examination, that the intellectual  act, as far as we are able to trace it, is  altogether simple, and incapable of analysis ;  and that the elements into which we flatter  ourselves we have resolved it, are nothing  more than the grammatical elements of  speech j — the logical doctrine about the com-  parison of ideas, bearing a much closer  affinity to the task of a school-boy in parsing  his lesson, than to the researches of philoso-  phers able to form a just conception of the  mystery to be explained." — Had this acute  philosopher brought these views of language  to the elucidation of Grammar, Logic, and  Rhetoric, and so have cleared them from the  incrusted errors of immemorial antiquity,  the reader's patience would not have been  tried by the chapter now finished and those  which are to follow.   Say, first, of God above, or man below.   What can we reason, but from what we know.   POPE.   1. In commencing this branch of Semato-  logy, it may be as well to define not only this  but the other branches, that their presumed  relation and difference may at once appear :   i. Grammar, then, is the right use of  words with a view to their several functions  and inflexions in forming them into sentences ;   ii. Logic is the right use of words with a  view to the investigation of truth ; and   iii. Rhetoric is the right use of words with  a view to inform, convince, or persuade *.   * This definition includes the poet^s use of words  as well as that of every other person, who, having one  or more of the purposes mentioned in view, speaks or     fts          2, The object of the present chapter  will be, to show that there is no art of Logic  (except sucli as is an imposition on the un-  derstanding but that which arises out of the  principles ascertained in the previous chap-  ter ; — that tliis, which is the Logic every man  uses, agrees with the definition in the previ-  ous section; —and that we cannot carry the  definition further, without transgressing a  clearly marked line which will usefidly distin-  guish between Logic and Rhetoric.   3. In affirming that there is no art of Lo-  gic but that which arises out of the use of  signs, we do not mean that reason itself is de-  writes skilfully. Should it be said, that the poet's end  is to delight, — we answer that he gains this end by in-  forming, convincing, or persuading. The true dis-  tinction between the poet and any other speaker or wri-  ter, lies iu the different nature of their thoughts, In  communicating his thoughts, the poet, like others who  are skilful in the use of words to inform, convince, or  persuade, is a rhetorician ; although, with reference to  the creative genius displayed, {iroix^n a jrcn'm,) and al-  so with reference to the added ornament of metre or  rhyme, we chU the result, a poem.         pendent on language. Reason must exist pri-  or to language, or language could not be in-  Vented or adopted. What we affirm is, that  prior to the use of words or equivalent signs,  »o art exists : the mind then perceives, as far  fts its powers extend, intuitively; and thus  working without media, it can no morye ope-  rate otherwise than as at first, than the eye  can see otherwise than nature enables it. The  mind can, however, invent the means to assist  its operations, as it has invented the telescope  to assist the eye ; the difference being, that  the telescope is not such an instrument as all  minds would invent, but the use of signs to  assist its operations, grows out of the human  mind by its very constitution, and the influ-  ence of society upon that constitution.   4. That writers on Logic do not in gene- '  ral view the matter in this light, is evident  from this, that they devote, or at least they  persuade themselves and their readers that  they devote, a great pait of their considera-  tion to the operations of the mind indepeud-     9entlyof language, which, for any practical end,  must evidently be nugatory on the supposi-  tion stated above ; since, if the mind, without  the aid of signs, can but operate as nature en-  ables it, all instruction concerning what the  mind does by itself*, will but be an attempt   * WattB Bays t&at " the design of Logic, b to  teaeli us the right use of our reason." Recurring to   our comparisDU in the previous section, this is as if any  one had proposed to teach the right use of the eye. It  is true indeed, a man may be taught a right use of the  eye, — that is, he may be taught to observe proper ob-  jects by its means ; and so may he be taught a right  use of reason by applying it to those things which are  conducive to his improvement and happiness. But all  this belongs to Morals not to Logic ; nor was this  Watts's meaning. He imagined a man could be tattght  how to use his reason independently of any considera-  tion of an instrument to work with ; as if any one had  offered to teach mankind how to sec with their eyes.  Now, there is nothing preposterous in offering to show  how a telescope is to be used in order to assist the  eye ; nor any thing preposterous in trying to show  how words may be used in a better manner than com-  mon custom instructs us, in order to assist the  mind. — Be it observed that the objection here made,  is to what was proposed to be done by Watts, and not to teach us that which every one does with-  out teaching, and which no teaching can  make us do better : but if, by the use of signs,  the mind can carry its natural operations to  things which it could not reach without signs,  the instruction of the logician should at once  begin by pointing out the use and the abuse  of signs. Now this is in fact the point at  which every teacher of logic does begin, how-  ever he may disguise the real proceeding from  himself, and whatever confusion he may throw  over his subject, by not knowing in what way  he is concerned with it. In pretending to  teach us the nature of ideas j logicians do no-  thing but teach us what knowledge we attain   to what he actually does, except so far as he has done  it amiss from setting out badly. What follows in the  text will explain this last observation.   Our illustration must not lead the reader to think  we are ignorant of the fact that men do learn to see,  that is, to correct, by experience and judgment, the im-  pression of objects on the retina. We take the matter  as commonly understood, namely, that men see correct-  ly by nature, which is near enough to the truth for our  present purpose.     by means of words-, and when Home Tooke  says of Locke's great work, that it is " merely  a grammatical Essay or Treatise on words," *  be comes so near the truth, that it is wonder-  ful he should have so wrongly interpreted  other parts of that philosopher's doctrine.  Putting a wrong construction on Locke's just  fundamental principle, that the mind has no  innate ideas, Tooke affirms that '* the busi-  ness of the mind, as far as it regards language,  extends no further than to receive impres-  sions, that is, to have sensations or feelings.  What are called its operations are merely the  operations of language." t This is palpably  absurd ; ftx how can language operate of it-     • Diversions of I'utley, Vol. I. page 31, note.   -j- Diversions of Purley, Vol. I. page 51. We have  already quoted this passage ; and perhaps more than  ontc : but it is hoped we need not apologise for the re-  petitions whicli may be found in this and the next  chapter. Our purpose is to trace Grammar, Logic, and  Rhetoric, to a common source, and in doing so, if they  really have an origin in common, we must necesEarily  traverse the same ground repeatedly to come at it          aelf? The mind must observe, compare, and  judge *, before it can invent or adopt the lan-  guage of art ; and having adopted it, every  use of it is an exercise of the reasoning facul-  ty, excepting only that kind of instinctive use,  in which some short sentence takes the place  of a natural ejaculation. Feelings or sensa-  tions we cannot help having ; but these do not  help us to language. This requires the ac-  tive powers of the mind ; and every word, in-  dividually, will accordingly be found the sign  of something we kno-w, obtained, as every  thing we know must be obtained, by previous  acts of comparison and judgment, involving,   * These powers of the mind are innate, — that is  to e&y, they belong to tlie mind by its constitution, al-  though sensation is the appointed means for first call-  ing them forth. It should seem as if Tooke thought  nothing was bom with man except the power to receive  senEStionB or feelings, and that reason comes from Un-  guage ; an opinion so preposterous that we can hardly  think him capable of it ; and yet, from what he says,  no other can be understood : — " Jleason,"" he says, " ia  the result of the senses, and of experience." Diver-  sions of Purley, Vol. 11, p^e 16.     J^    in every instance beyond that which sets the  sign on foot, an inference gained by the  use of a medium. And such, as we have seen,  are the necessities of speech, that tliey lead  us constantly to extend the application of  words ; which extension requires new acts of  comparison and judgment; and thus, by  means of words, (or signs equivalent to words,)  we are constantly adding to our knowledge,  still carrying the signs with us, to mark and  contain it, and to serve afterwards as the media  for reaching new conclusions. It is only ne-  cessary to read Locke's Essay with this ac-  count of the matter in view, to prove that it  is the true account j so readily will all that he  has said on ideas, yield to this simple inter-  pretation *, He who first made use of words     * " Read," saya Home Tookc, " the Essay on the  Underslnnding over with attention, and see whether  all that its immortal author has justly concluded, will  not hold equally true and clear, if we substitute the  composition, &c. of lerraa, wherever he has supposed a  composition, Sec. of ideas. And if that, upon strict  examination, appear to you to be the case, you will equivalent to yellow, white, heat, cold, soft,  hard, bitter, sweet*, used them, respectivelyy  to signify the individual sensation he was con-  scious of, and in that first use, the expression  must have been a sentence, or tantamount to  a sentence. By experience, he came to know  the exterior cause of that sensation, and after-  wards, by the same means, to know that other  need no other argument against the composition of  ideas : it being exactly similar to that unanswerable one  which Mr. Locke himself declares to be sufficient  against their being innate. For the supposition is un-  necessary : every purpose for which the composition  of ideas was imagined being more easily and naturally  answered by the composition of terms, whilst at the  same time it does likewise clear up many difficulties in  which the supposed composition of ideas necessarily in-  volves us." Diversions of Purley, Vol, I. page 38.  In this, and other passages, H. Tooke is very near  the trutli ; but he nevertheless misses it. " The com-  position, Sic. of terms "' in lieu of " the composition, &c.  of ideas," does not describe the actual process. But  Tooke, who discovers that Locke has started at a  wrong place, begins his own theory from a false found-4  ation.   • yide Locke, B. 2. ad initium : we have used  the examples before. Chap. I, Sect. 16.      ol^ects produced the same sensation. To  these several objects he would naturally apply  the expression (originally tantamount to a sen-  tence) by which he first signified the sensa-  tion ; and suppose those objects already pro-  vided with namesj the expression would, in  such pew application, be tantamount to a  name or noun-adjective. Thus in the several  instances, he would use two names for one  thing, in correspondence with our present  practice when we say, yclhw flower, yellow  sky, yellow earth, yellow skin. Such a proce-  dure is an effect and a proof of what the speak-  er has observed in common, and of what he  observes to be different, in the several ob-  jects; and this is a knowledge evidently ob-  tained from comparison and judgment exer-  cised on many particulars. The same know-  ledge enables us, when we please, to drop the  words which name the objects accojding to  their differences, and to retain only that which  signifies their similarity, and the name-adjec-  tiv e then becomes a name-substantive standing for the sensation itself whenever or how4  ever produced, and not standing for it in amy  particular case, until limited to do so by the  assistance of other words. Individually and  separately, then, these words^ viz. yellow;  white, heat, cold, soft, &c. are, to him who  has properly used them in particulars, tiie  eigns of the knowledge he ha^ gained by com^  paring those particulars :«^hey denote con-  clusions arising out of a rational process which  has been carried on by their means ; which  conclusion, as to the word^elloWf for instaop^  is this, — ^that there are » great mwy Qbjepte  which produce the same sensation, or a sensar  tion very nearly the same j*— ^(very nearly the  same, since yeU&w^ by all who have acquired  a full use of the word, is applied to different  shades of yellow j — ) and to understand the  word, is to have arrived at, or kno^ this cof^-  elusion.   5. The words so far referred to, are those  which denote what Locke calls simple ide^js.  Now, we may reasonably doubt wheth^ the mind could have obtained the knowledge,  which, as we have seen, is included even in  a word of this kind, if it had not been gifted  with the power of inventing a sign to assist  itself in the operation. That sign needs not  be a word, though words are the signs com-  monly used. He who remembers the sensa-  tion of colour produced by a crocus, is re-  minded of the crocus the next time he has  the same sensation from a different thing ;  and the crocus may become the sign of that  sensation arising from the new object, and  from every future one. And this is the way  in which the mind probably assists itself an-  tecedently to the use of language, or where,  (as in the case of the totally deaf *,) the use of     * Though long for a quotation, yet we cannot re-  sist transcribing, from a work by Dr. Watson, master  of the Deaf and Dumb Asylum, Kent Road, near  London, the following able remarks : — they will help  to shew how for superior are audible signs to every  other kind, and place in its proper light the misfor-  tune of being naturally incapable of them. He is  speaking of the comparative importance of the two  it, by the ordinary means of attainment, is  precluded. But for this power of the mind,   senBES, hearing and seeing. " Were the point," he  says, " to be determined by the value of the direct  sensations transmitted to the sensorium through each  of them, merely as direct sensations, there could not  be any ground for a moment's hesitation in pro. ,  nouncing the almost infinite superiority of the ej/e to ]  the ear. For what is the sum of that which we derive I  from the car as direct sensation P It is sound ; and  sound indeed admits of infinite variety ; but strip it of j  the value it derives Irom arbitrary associations, and it  is but a titillation of the organ of sense, painful or  pleasurable according as it is shrilly soft, rough, dis-  cordant, or harmonious, Sec. Should one, on tlic con-  trary, attempt to set forth the sum of the information we  derive from the eye " — independently of the aid derived  from arbitrary means — " it is so immense, that volumes  could not contain a full description of it ; so precious,  ' that no words short of those we apply to the mind itself,  can adequately express its value. Indeed, all lan-  guages bear witness to this, by figuratively adopting  visible imagery to signify the highest operations of in-  tellect. Expunge such imagery from any language,  and what will be left ! What, in this case, must be-  come of the most admired productions of human ge-  nius P Whence then (and the question is often asked) 1  does it arise, that those bom blind have such su-  h2    which seems pecuHai* to man, and is the  cause of language, (not the effect of it, as     perlority of imelligence over those bom deaf? Take,  it miglit be said, ii boy nine or ten years of age who  has never seen the light, and you will find him con-  versable, and ready to give long narratives of past oc-  currenceH, &c. Place by his side a boy of the same  age who baa had the misfortune to be bom deaf, and  observe the contrast. The latter is insensible to all  you say : he smiles, perhaps, and his countenance ie  brightened by tlie beams of ' holy light;' he enjoys  the face of nature; nay, reads with attention your  features ; and, by sympathy, reflects your smile or  your frown. But he remains mute : he gives no ac-  count of past experience or of future hopes. You at-  tempt to draw something of this sort from him : he  tries to understand, and to make himself understood ;  but he cannot. He becomes embarrassed : you feci  for him, and turn away from a scene so trying,  under an impression that, of these two children of mi^  fortune, the com])ari8on is greatly in favour of the  blind, who appears, by his language, to enter into all  your feelings and conceptions, while the unfortunate  deaf mute can hardly be regarded as a rational  being ; yet he possesses all the advantages of vi-  sual information. All this is true. But the cause  of this apparent superiority of intelligence in the blind,  is seldom properly understood. It is not that those    H. Tooke seems to tliiak,) we never should  have been able to arrange olyects in classes,   who are blind possess a greater, or anything like an  equai stock of materiak for mental op^adons, but bs-  cause they possess an invaluable etigine for forward-  ing those operotioiis, however scanty the materials to  operate upon — artificial language. Language is de-  fined to be the expression of thought ; so it is : but it  is, moreover, the medium of thinking. Its value U>  man is nearly equivalent to that of his reasoning fa-  culties: without it, he would hardly be rational. It  is the want of language, and not the want of hearing,  (unless as being the cause of the wont of language,)  that occasions that deficiency of intelligence or ine&.  pansion of the reasoning faculty, so observable in the  naturally deaf and dumb. Give them but language,  by which they may designate, compare, classiiy, an4  consequently remember, excite, and express their sen^  sations and ideas, — then they must surpass the origin<  ally and permanently blind in intellectual perspicuity  and correctness of comprehension, (as far as having  kctual ideas afiixed to words and phrases is concerned,)  by as much as the sense of seeing, furnishes matter for  mental operations beyond the sense of hearing, con-  Eidered as direct sensation. It is one thing to have a^  fluency of words, and quite another to have correct no-  tions or precise ideas annexed to them. But though  the car furnishes us only with the sensation of sound,  and reason on them when so arranged ; nor to  consider some common quality in many ob-  jects, separately from the objects themselves.  Every object might have produced the same  individual effect by the senses, which it now  produces, and have been recognized as the  same object when it produced the effect  again ; for all this happens to other animals,  as to man ; but to know a something in each  which is common to many, implies a remem-  brance of that something in the rest at the  time of perceiving each individually j and  how can this remembrance, (a remembrance   and sound, merely as such, can stand no comparlEOD  with the multiform, delightful, and important informa-  tion derived from visual imprestiioDS ; yet as sound  admits of such astonishing variety, (above all when  articulated,) and is associablc, at pleasure, in the mind  with our other sensations, and with our ideas," (notions,)  " it becomes the ready exponent or nomenclature of  thought ; and in this view is important indeed. It is  on thie account, chiefly, that the want of hearing is to  be deplored as a melancholy chasm in the human  frame.'" Instruction of the Deaf and Dumb,  not of the objects, but of a common some-  thing in all of them,) how can it be kept up,  but by a sign fitted to this duty ; which sign,  as just observed, may be either a word, or  one of the objects set up to denote the com-  mon characteristic, and retained in mind  Bolely for this purpose, in this representative  capacity ?   6. In proceeding from what are called by  Locke simple ideas to those he denominates [  complex, we shall find the account just given  equally applicable. The words he refers to .  under the threefold division of Modes, Sub-  stances, Relations, are, as our last examples,  signs of certain conclusions obtained from s  comparison of particulars. This is true even \  of a proper name ; for a proper name, as was '  shewn Chap. I. Sect. 3., does not denote an  individual as we actually perceive him, or as. J  we remember him at any one time ; but it J  denotes a notion, that is, a knowledge of him I  drawn out of, or separated from all our par- '     I04f oNr Lo&ic. [cHap. ii.   ticular perceptions *• For such an effect of  reason^ we have however nb certainty that  the superior powers of the huknan mind ar«  indispensable; nor is it eiisy to ascertaiq  any peculiar privilege it enjoys till we find  it rising from individuals to classes. As  soon as it sets up a sign to represent some  property, whether pure or mixed, which has  been observed iA many individuals,— or to re-   * It id aft efifect of reaisoiiing to know that a pa]>>  ticular act or situation, which enters into our percep-  tion or conception of an object, is not essential — to  know, for instance, tliat the act of walkiAg is ftot es-  iBentiAl to John. The reasoning by which «uch k^w-  ledge is acquired, occurs indeed so early, that the  operation is forgotten ; but there was a time when our  perceptions were without the knowledge, because they  had not been repeated i^ isu^ti^t hUtiibet to leHkbl^  the mind to make the BCcessary ootaipluidcms^ Th^  natives of the South Sea Islands^ when Cttptaia Cook  <8nd his companions first made their appearance among  them, took every sailor and his garments to be one  creature, and did not arrive at a different condhision,  but by o{>portuiiitte6 fdr comparicon.     present the whole class of individuals, so  classed because of the common property, — ^it  displays a power of assisting itself which we  have no cause to think any of the inferior  animals enjoy. To ahew how this takes place  in producing what Locke calls complex ideas,  and which he subdivides into Modes, Sub-  stances, Relations, would only carry us onc^  more over the ground we have so often cur-   Lsorily traversed. We should have to shew,  for instance, how some word, at first equiva-  lent to a sentence, by which a man expressed  his delight at a particular visible object, came  to be a name for the object ; how this name  beauly, came to be applied as a noun-adjec-  tive to the nouns-subatantive of other objects  producing the same or a similar emotion j  how, by the continued application of this  noun-adjective, we kept on comparing innu?  merable particulars, till our knowledge (no-  tion) included a very wide class of things  very different indeed in other respects, — nay^  including objects of other senses than sight—   but still, agreeing with each other in a certain  effect produced on the mind : and that then,  dropping the nouns-substantive of the nu-  merous individuals, we retained solely in con-  templation the noun beautiful or beauty, the  sign of the knowledge we had gained from  this extensive comparison— of the induction  derived from these numerous particulars *.   • Very few persons reach so wide a knowledge of  the subject as we here refer to, and books may be, and  have been written, to teach us how to apply the word  beautiful with taste, and critical — nay, moral pro-  priety. Having attained so far, we are not to suppose that  beautiful or beauty is a real existence independently  of the classification of objects we have thus established.  All we have learned is, to know the objects which pro-  duce a certain elfect ; to know why they produce it ; to  enjoy, it is probable, the pleasure of that effect with  higher relish ; and to be prepared, by means of the  classiUcation we have formed, to lise, in our reasonings  on the objects it contains, to higher truths, and still  more important conclusions. Now, if the reader would  see how a business so plain and simple, may appear  very complex and mysterious, let him consult  Plato  on the beautiful or t'o xayjtv, as he will find it treated,  for instance, in the dialogue called STMHOSION :  Let him admire as he will, (for who can help it. We should again have to shew, (to take  another instance,) how a word once expres-  sive of some sentiment or recognition of  which a horse was the subject, came to be  used as a name for that particular horse i  that the name came afterwards to be given to  another resembling creature, — thence to  another, — and to others, till the points of re-  semblance which led to this extension of the  word, could be found no longer *. We should   especially in company with Cicero, — witness his Errare  tnekercule malo cum Plaione, quam cum istia vere  sentire?) let him admire the sublimity which the  amiable and highly-gifted Athenian throws over his  doctrine ; but let him not be betrayed into an opinion,  that a speculation which is in the most exalted etriun  liipoeh'y, belongs to the sober, the undazzled, and tin-  dazzling views of philosophy.   • Compare Chap. I.Sect, 10. We may be per-  mitted once more to observe, that, with regard to sab-  stances at least, the sign of the class needs not be a  word : one individual set up for all, will equally serve  the purpose. Not that the boundaries of a class are  plain, till an accurate logic determines them ; but the  general differences (as of the horse, for instance) are  sufficiently obvious to prevent a person from being  likewise have toshew, (totake a third instance,)  how some word,-^originally equivalent, like  the others, to a sentence, — by which a man  expressed his gratitude for kind offices, might  come to be a name for every one to whom  gratitude for similar offices was due; and  how this ua.me,Jriend, applied at first only to     misled, who carries one individual in his mind ae the  eign of all he has seen, and all he calculates on seeing,  and reasonB on this one, with a conviction that the  reasoning includes all the others. The idea of an in-  dividual thing which is thus set up as the represent-  ative of a class, may perhaps, without impropriety, be  called a general idea ; and if Locke had never used  the expression but in subservience to such an cxplana-  uon, little or no exception could have been taken to  it. There is a passage (Essay on the Understanding,  Book III., Chap. 3. Sect. Jl.) which perfectly ac-  cords with the doctrine in the text, and proves that  though Locke had misled himself by setting out with  an opinion that the operations of the human under-  standing could be treated of independently of words,  he had more correct thoughts on the subject as he  proceeded. Another passage, giving a correct account  of abstraction with reference to language as the instru-  ment, will be found Book IL Chap. II- Sect. 9-     one who stood in this ration to the speaker,  came at last, by observing and comparing  other cases, to be applied to all who stood in  the same relation to any other person. We  should, in short, have to shew the same pro-  cess with regard to all the examples of modes,  substances, and relations, which Locke's Es-  say supplies; but with these brief hints to  guide him, the reader may be left, in other  instances, to trace the process for himsdf.  It will now be time, — still witii reference to  the principles ascertained in the last chapter,  —to examine some other points of doctrine in-  sisted upon by writers on Logic.   7. The operations of the mind necessary  in Logic are said to be three, viz. Percep-  tion or Simple Apprehension ; Judgment ;  and Reasoning. Under the first of these di-  visions, writers on Logic treat of ideas, or  the notions denoted by separate words, that  is, words not joined into sentences ; — under  the second, they give us separate sentences,  technically called propositions j — ^and under  the third, they shew how two propositions  may of necessity produce another, so that the  three shall express one act of reasoning. Now,  that perception, judgment, and reasoning,  are all essential to Logic, needs not be called  in question ; but if the theory we have before  us in this treatise be true, the common doc-  trine will appear, by the manner in which it ex-  emplifies these acts of the mind, to have com-  pletely confounded what really takes place, in  the preparation for, and in the exercise of this  art. What, in the first place, is perception but a  sensation or sensations from exterior objects  accompanied by a judgment ? Our earliest  sensations are unaccompanied by any judg-  ment upon them ; for we must have ma-  terials to compare in order to judge ; and  these materials, in the earliest period of our  existence, are yet to be collected. At length,  we can compare j and because we can com-  pare, we judge, and hence we come to know :  — " I know that the object which now affects  my sense of vision is a being like myself; I        know him to be one of a great many similar  beings j I know him to be older or younger,  &c. ; I know that what now affects my sense of =  hearing, is the cry or bark of a dog" •, &c.j  I could not know all this, if I had had no  means of judging ; and I can have no means  of judging which the senses do not originally  furnish or give rise to. Perceptiouj then,  (which in every case is more than mere sen-  sation,) always includes an act of judgment ;  and to treat of Perception and Judgment  under different divisions of Logic, must pre-  vent the proper understanding of both. In-  stead, however, of the term Perception, some  writers t use that of Simple Apprehension.  *' Simple apprehension," says Dr. "Wliately,  *' is the notion (or conception) of any object  in the mind, analogous to the perception of  the senses." t The examples appended to     • See Chap. I. Sect. 16.  of- Viz. Professor Duncan and Dr. Whately.  J Elements of Logic by Dr. Whately, Chap. II.  Part I. Sect. 1.      this definition, are, *'inan;" "horse;"  •'cards ;" " a man on horseback ;" " a pack  of cards." Now, if the notion or conception  of tliese, 13 analogous to the perception of  them by the senses, — then, as the perception  includes an act of judgment, so Ukewise  does the conception. But, in truth, the no-  tion corresponding to any of these expressions,  is very different from the perception of a  man, a horse, a man on horseback, &c. ;  and the word or phrase in a detached state  does not stand for a perception or concep-  tion inclusive only of an act of judgment,  but signifies an inference obtained by the use  of a medium, — in other words, a rational  conclusion. For in all cases, what gives the  name and character of rational to a proceed-  ing, is the use of means to gain the end in  view. When we perceive intuitively of two  men, that one is taller than the other, al-  though the judgment we form may be an  e0ect of reason, yet we do not describe it as  a rational process ; but if the investigator,  not being able to make a direct comparison  between them, introduces a medium, and by  its means infers that one is taller than the  other, then we say the conclusion has been  obtained by a process of reason *. So, in  applying a common name to two individuals  that are intuitively perceived to resemble,  we may be said to exert the judgment, and  nothing more ; but if we apply it to a third,  and a fourth, and a fifth, it is a proof that we  measure each by the common qualities ob-  served in the first two, and that we carry in  the mind a sign of those common qualities  (whether the name, or one of the former in-  dividuals) for the purpose of carrying on the  process. In this way, an abstract word or  phrase, let it signify what it will, provided it  be but abstract, is both the sign of some ra-     • Reasnn is the capacity for using mpdia of any  kind, and it consequent capacity for language : — the  term reasoning has reference to tlie act of thinking,  with the aid of media in order to reach a couclu-     tional conclusion the mind has already come  to, and the means of reaching other conclu-  sions : which statement is true even of a  proper name. For the name John, for in-  stance, underetood abstractedly, does not sig-  nify John as we now perceive him, or as we  have perceived him at any one time ; but it  signifies our knowledge of him separately  from any of those perceptions. But we could  not know of him separately from our percep-  tions, unless we had the power of setting up  some sign (whether the name or aught else)  of what was common to all those perceptions,  and comparing them all with that sign *.   • It is not meant that we could not know him  every time we perceived him, but that we could not  know of him separately from our perceptiong, if we bad  not the power spoken of in the text. It might be  curious to trace this distinction in the case of a dog.  A dog knowE his master every time he perceives him :  — when he does not perceive him, he is reminded of  his absence by some change in his sensations, — (smcU,  for instance, as well as sight, and perhaps some  others ;) he therefore seeks him, and irets if he cannot  find him. But abstracted from all perception, and     It appears, then, from what precedes,  that words and phrases which writers on  Logic give as examples of Perception or  Simple Apprehension distinct from Judg-  ment and from Reasoning, are no examples  at all of the first distinct i'rom the latter two ;  and equally groundless will appear that dis-  tinction which refers a proposition to an act  of judgment separate from reasoning. Not  that an act of reasoning takes place whenever  a proposition or sentence is uttered. For, as  we have seen in the previous chapter, (Sect.  19.) a speaker does not always think of the  separate meaning of the words when he utters  a sentence ; and if a sentence denotes, as a  whole, some sensation or emotion not de-  pendent on reason, (for instance, " My head  aches;" •' My eyes are delighted,") the ut-  tering of it as a whole, without attending to  the sqiarate words, will no moj'e express aa     from all notice by change of sensation, it will scarcely  be contended that a dog knows of his master, as a ra-  tionsl being knows of his absent friend.     act of reasoning, or even of judgment, than  would a natural ejaculation arising out of the  occasion, and used in place of the sentence.  But the following propositions, " Plato was a  philosopher;" "No man is innocent ;" which  are given in Watts's Logic as examples of the  act of the mind called Judgment, stand on a  different footing ; and we affirm that, being  used Logically, they involve not an act of  judgment merely, but express a conclusion  drawn from acts of reasoning.   9- Previously to shewing what has just  been asserted, let us distinguish a grammati-  cal, and an historical understanding of these  sentences ; for a mere grammatical under-  standing of them must be, and an historical  may be, essentially different from the logical  understanding of them. A grammatical un-  derstanding, for example, of the sentence,  Plato was a philosopher, is merely a recog-  nition of its correctness as a form of speech  without considering whether it conveys any  meaning or not ; and it would be grammatically understood if any words whatever were  substituted for those that compose the sen-  tence, provided they had a proper syntactical  agreement. An historical understanding im-  plies some concern with the meaning of the  sentence ; but this may be very different in  kind and degree, as depending on the know-  ledge whicli the mind is previously possessed  of. If the hearer did not know what Plato waa  previously to the communication, but knew the  meaning of the word philosopher, he would,  by the sentence, be informed what he was, If  he previously knew, from history, how Plato  lived, thought, and acted, but did not know  the meaning of the term philosopher, the ad-  ditional information conveyed to him by the  sentence, would be but little : he would be in-  formed. Indeed, that he was called a philoso-  pher, but why or wherefore, he could, for the  present, only guess. Let us suppose, however,  that before he comes to calculate why Plato is  called a philosopher, he had heard the word  plied to others : if he bad heard Socrates     m     [chap. II.     called a philosopher, and Confucius a philosopher, he would, on hearing Plato so called,  compafe the individuals in order to ascertain  some common qualities in all, of which the  word might be the sign, and getting these,  he would know or have a notion of the word  philosopher ; though the notion would pro-  bably undergo many modifications as otlier  individuals, Solomon, Seneca, Locke, Rous-  seau, Newton, were successively subjected to  the common sign : — for if the hearer fixes his  notion at once, many individuals will perhaps  be excluded from his class of philosophers,  which other people include under that term ;  and perhaps he will include many, which the  usage of the term excludes. In this way,  then, while our knowledge of what is included  in separate words or phrases is imperfect, we  may nevertheless have some understanding of  the sentences we hear or read ; and this his-  torical understanding suggests the reasoning  process just described, by which we get a  logical understanding of the separate words. But now to make a logical use of  tfaem in framing a proposition. We suppose  the preliminary steps, namely the knowledge  included in the separate words ; we suppose  it to be known, from history, how Plato lived,  thought, and acted ; we suppose it to be  known what is meant by philosopfier, by  having heard the word applied to many indi-  viduals i but we have not yet applied it to '  Plato ; in other words, we have yet to ascer-  tain whether Plato belongs to the class of in-  dividuals denominated philosophers. Writers  on Logic talk of a comparison of ideas for  this purpose, and of an intuition or judgment ;  but this, to say the best of it, is an imperfect  and bungled account of the matter. If, in-  deed, to know how Plato lived and acted can  be called an idea, it is necessary to have this  idea ; it is further necessary to have a clear  notion of the term philosopher, — if this again  can be called an idea: — and it is true enough  that in comparing Plato with this sign, we  judge or know their agreement intuitively. But out of this intuitive judgment an infer-  ence arises, and the sentence expresses that  inference : a comparison has been instituted  through the intervention of a medium, in  order to ascertain whether Plato is to be as-  signed to a certain class of individuals ; we  intuitively perceive his agreement with the  medium, and draw or pronounce our infer-  ence accordingly, — " Plato was a philoso-  pher." Nor is this the splitting of a hair,  but a real distinction, marked and determined  by that difference in the words so often  pointed out, when understood detachedly,  and when understood as a sentence. The  proposition, Plalu was a pJiilosopher, may be  understood as a whole, without making the  comparison in the mind between what Plato,  and what philosopher, abstractedly signify j  but this, with a full understanding of the  whole sentence, can be done only after the  comparison has once at least been effectually  made : — then indeed, when the comparison  has been made, and the inference drawn, the sentence which expresses that inference, be-  comes, like any single word, the sign of knowledge deposited in the mind, and, like  such single term, it is fitted to be an instru-  ment of new comparisons, and further con-  clusions.   11. Let us now take another proposition :  *' A philosopher, or every philosopher," (for  the meaning is the same,) " is deserving of  respect." This, hke the other, is an infer-  ence from a comparison which took place in  the mind ; previously to which comparison,  the notion or knowledge included in the word I  philosopher was obtained in the manner lately  described (Sect. 9.) : and the notion included  in the phrase to be deserving of respect was  similarly obtained, but independently of the  knowledge denoted by the other expression ;  — that is to say, the phrase deserving of re-  spect, was originally, we suppose, a sentence  applied to some one thing deserving of re-  spect J whence it was successively applied to  other things till a class was formed — in other  words, till a notion (knowledge) was esta-  blished in the mind of what things are de-  serving of respect. Now, the present ques-  tion is, whether a philosopher is deserving of  respect ? To determine this, we consider  what a philosopher is, (it is presupposed tliat  we have this knowledge,) and we then niea-  Bure our notion of a philosopher with our no-  tion of what is deserving of respect, and thus  £nd that a philosopher is to be admitted  among the things to which we had been ac-  customed to apply the designation deserving  qf respect : that is to say, we come to the  conclusion, that a philosopher is deserving of  respect. Here, therefore, as before, there has  been a reasoning process previously to the  proposition, and the proposition expresses the  inference from it. And the comparison  having once been made in this instance as in  the other, the sentence becomes, like any  single term, the sign of knowledge deposited  in the mind, and like such single term, is  fitted to be an instrument of new compsrisons, and further conclusions. Well then, we know  from reasoning these two things, that " Plato  IB a philosopher," and that " a philosopher is  deserving of respect." These are detached  WORDS* or sentences : but the mind, in com-  paring them, at once comes to the inference  that Plato is deserving of respect: and the  whole may be expressed in one sentence ;  thus ; " Plato, who is a philosopher, is deserv-  ing of respect j" where Plato-who-is-a-pJiiio-  sopher, is equivalent to a noun-substantive in  the construction of the whole sentence ; and,  deserving-qf-respect is equivalent to another ;  and thus the two, with the assistance of the  verb which signifies them to be a sentence,  are but one proposition. Here, as in the  former cases, a comparison has been made \ij.  means of the signs of deposited knowledge ^  for we knew that Plato was a phUosopher;  we knew a class of things or persons deserv-  ing of respect: — comparing our knowledge by   • See the second note (Aristotle's definition of a'  vord bcuig the first) appmded to Sect. 20. Chap. I.    ir.   means of the sign deserving-of-respect, the in-  ference follows, that " Plato, who is a philo-  sopher, is deserving of respect." And the  comparison having once been made in this  instance as in the others, the sentence be-  comes, like any single terra , the sign of know-  ledge deposited in the mind, and either in  this or any other equivalent form, is fitted to  be an instrument of new comparisons and  further conclusions. And in this manner are  we able, ad infinitum, to investigate new  truths by means of those already ascertained,  always making use of former words or their  equivalents, as the means of operation.   12. Now, so far as Logic is the art of in-  vestigating truth, (and we intend to show that  its office ought not to be considered of further  extent,) this is the whole of its theory. We  have defined it as the right use of words with  a view to the investigation of truth ; and the  way in which words are used for the purpose,  is that which has been described : — in brief,  they are used by the mind in making such comparisons as it cannot make intuitively. Of  two objects, or of a sensation or emotion  twcie experienced, we can intuitively judge  what there is in common between them;,  l< suppose a third object, or a sensation, &c«  thrice experienced, an intuitive judgment can  still be applied only to two at a time, and wei  can but know in this way what there is  common to every two. But if we set up tf  sign of what is common to two, we can compare  with the sign a third, and a fourth, and a  fifth, and judging intuitively how far it agrees  with the sign, we infer its agreement in thq  same proportion with the things signified,  In Logic, the sign used is always presumed  to be a word. Now, in our theory of Ian-  guage, every word was once a sentence ; and  every sentence which does not express the  full communication intended, but is qualified  by another sentence, or becomes a clause of a  larger sentence, is precisely of the nature of  any single word making part of a sentence *.  • See Chap. I. Sect. 28.     IM     I^CMAP. 11,     From the first moment, then, of converting  the expression used for a particular communi.  cation, into an abstract sign of the sentiment  or truth which that communication conveyed,  the mind came into possession of the instru-  mental means for furthering its knowledge :  and this means always remains the same in  kind, and is always used in the same way.  The word which once signified a present par-  ticular perception, ceased, through the ne-  cessities of language, to signify that percep-  tion in particular, and came to signify, in the  abstract, any perception of the same kind, or  the object of any such perception. In this  state, it no longer communicated what the  mind felt, thought, or discovered at the  moment, but was a sign of knowledge gather-  ed by comparisons on the past. By u«ng this  Bign, the mind was able to pursue its inves>  tigations, and every new discovery was de-  noted by a sentence which the sign helped to  form, its general application being limited to  the particular purpose by other signs. But if  one WORD"  ' may lose its particular pnrpose,  and become an abstract sign, so may another,  and be the means, in its turn, of prosecuting  further truths, and entering into the com-  position of new WORDS. Thus will the procesa  which constitutes Logic, be aiways found one  and the same in kind, having for its basis the  constitution of artificial language, such as it  was ascertained to be in the previous chapter.   H 13. Now of this Lc^ic, — the Logic, uni-   H versally, of ntpotres, or woKD-dividing men, —   H let the characteristics be well observed, in order   H to keep it clear from any other mode of using   H signs for the purpose of reasoning, to which   H the name of Logic is attributed. The Logic   H here described, is a use of words to regista-   H our knowledge as fast as we can add to it, by   H new examinations, and new comparisons of   I things } each new esamination, each new   H sen!     • The reader will bear in mind the comprehenBive  sense of the term which we have in view, when it is  printed in capitate.  comparison, being made with the help and  the advantage of our previous knowledge.  The reasoning takes place in the mind in such  a manner that it is not a comparison of terms,  but a comparison of what we newly observe,  with what we previously knew. Words indeed  are used, because without signs of one kind  or of another to keep before the mind the  knowledge already gained, we could compare  only individuals j but however words may in-  tervene, it is always understood that the mind,  at bottom, compares the things, A man  may be informed, that, " Plato who is a phi-  losopher, is deserving of respect;" that,  " William who is recommended to his service,  is an honest man ;" that, *• A particular tree  in his garden, is a mulberry tree ;" that,  " Stealing is a vice, and temperance is a  virtue ;" that, " Throughout the Universe, all  greater bodies attract the smaller ;" that, " A  triangle described within two circles in such  a manner that one of its sides is a radius of  both, and the others, radii of each circle respectively, is an equilateral triangle;" — a  man may be informed of these and similar  ^'things, and may entirely believe the inform-  ation; nay, hemayjustifiably believe it J for he  may know of those who give it, that their ho-  nesty is such, that they would not wilfully de-  ceive him ; that their intelligence and inform-  ation are such, that they are not likely to say  what they do not know to be true : but a man  can be said to know these things of his own  knowledge, and in this way to be convinced  of their truth, only by a process of reasoning  that musl take place within his own mind ; a  process which can take place only in a mind  by nature competent to it, and which requires,  in every case, its proper data or facts, aided,  it is true, by language, or by signs such as Ian-  guage consists of, to register each inference *,  • The necessity of language, as a means of in-  vestigation, applies not to our last example. The mincl  may investigate (though no one can demonstrate)  mathematical truths, with no other aid than visible  diagrams ; or even diagrams that are seen only by  " the mind's eye." and so to get from one inference to another,  and thus, ad infinitum^ toward truth. Be-  cause the several steps, leach of which is a  conclusion so far attained, cannot take place,  without the instrumentality of signs to assist  the mind, we consider the process an art ; and  if the signs used are words, the art is pro-  perly called Logic. But whatever aid the  reasoner may borrow from words, the only  true grounds of his knowledge are the facts  about which the reasoning is employed.  Without them, no comparison of the terms  can force any conviction further than that  the terms agree or disagree. He may be told  that — " Every philosopher is deserving of  respect,*' and that, — " Plato is a philosopher :**  but if he knows not what a philosopher is, or  what it is to be deserving of respect, the  comparison of the terms in order to draw a  conclusion from them, will be a mockery of  reason : — it will be reasoning indeed, but  reasoning without a rational end. And suppose  the knowledge to have been acquired of what  a philosopher is by the application of the word  to many particulars, and by a consequent  classification of them in the mind, — supposing  the knowledge of what is deserving of respect  to have been acquired in the same way, —  supposing the inquirer has learned from history  what Plato was in his opinions and manner of  life, — the conclusion takes place by a com-  parison of the thingSj by means indeed of  words, but not by any comparison of the terms  independently of the things ; nor is the con-  viction in the least fortified, or the process ex-  plained, bya demonstration that in reasoning  with the terms alone, independently of their  meaning, we get at the conclusion ; — by  shewing, for instance, that the terms which  include the facts, may be forced into cor-  respondence with the following ^nwwfa;  Every B is A :  C is B :  Therefore C is A.  Every philosopher — is— deserving of respect :   Plato — is— a philosopher :  Therefore Plato — ^is — deserving of respect. This way of drawing a conclusion from a  comparison of terms, is. properly speaking, to  reason or argue with words ; but in the Lo-  gic we have ascertained, every conclusion is  required to be drawn from a comparison of  the facts which the case furnishes ; and words  being used only for the purpose of registering  our conclusions, such Logic is properly de-  fined the art of reasoning by means of words.  The inquirer who seeks to know, of his own  knowledge—" Whether William who is re-  commended to his service, is an honest man",  — will gather facts of William's conduct by  his own observation ; and these he will com-  pare by the light of his previous notion (i. e.  knowledge) of what an honest man is : but  then he must have that previous notion, or he  cannot make the comparison ; and the notion  will have been gained by a process just like  that he is pursuing : and so downwards to the  original comparison of individiial tJujigs, from  which all knowledge begins. So again, if an  inquirer seeks to know that " a particular tree is a mulberry tree", — he must first know  what a mulberry tree is; and how can he  know this but by a comparison of different  trees? There must be some art employed to  classify the individual trees, otherwisehe could  never know more than the difference between  every two trees. By setting up one tree, or  some equivalent sign, as a word, to denote  the common qualities observed in many, he  comes to know what a mulberry tree is ; and  looking at the particular tree in question, he  sees that it has the common qualities indica-  ted by the sign, and infers that it is a mul-  berry tree. So likewise, if an inquirer seeks  to be convinced that " SteaUng is a vice",  or that "Temperance is a virtue", — he  must have such facts before him as will  enable him to come to a clear conclusion as  to what is vice, and what is virtue : and  this conclusion will either include or ex-  clude stealing with respect to his notion  of vice, and temperance with respect to his  notion of virtue, and he will consequently be convinceti or not convinced of tlie proposition  in question. So, once more, if an inquirer  desires to know, of his own knowledge,  *' Whether, throughout the universe, all  greater bodies attract the smaller", — he must  first observe certain facts from which the ge-  neral law may be assumed hypothetical ly : —  he must then ascertain what, according to  other notions gained from experience, would  be the effect throughout the universe of the  general law which he has so assumed ; and if  the effects arising out of the hypothesis cor-  respond with actual effects, and no other by-  pothesis to account for them can be framed,  he will have all the proof the subject permits,  and know of his own knowledge, as far as can  be known, the conclusion asserted. So, lastly,  if an inquirer seeks to be convinced that "a  triangle described within two circles in such  a manner that one of its sides is a radius of  both, and the others radii of each circle re-  spectively, is an equilateral triangle", — he  must first form within his mind the notions of a triangle, and of a circle, the latter of which he  will find can be conceived perfect in no other  way than in correspondence with this definition :  — "a plane figure bounded by one line called-  the circumference ; and is such that all straight  lines, (called radii,) drawn from a certain  point within it to the circumference, are equal  to one another. " Having formed this notionr^  he will find, by certain acts of comparison^  (which must take place within the mind, al-  though they may be attsisted by a* visible sign-J^  that the previous proposition is an inevitable  consequence of the notfon so formed, and his'  conviction: wiU be comffiete. If the convic-  tion, in the previous ifrstances, has not the  same force as iiti the last^ — ^if, in those instances,  the force may be diffident m. degree, while in  the last there can be no coD^victioa short of  lliat which iS' absolute an4- entire, the cause^  in not that the reasoning process^ is different  in kind, but that the facts or data about which"  it is' employed are dii&re»t. In the last in^  stance^ the reasoning is employed about notions, which admit uf being so defined, that  every mind capable of the reasoning at  once assumes them before the reasoning pro-  cess begins ; but in the other instances, the  facts or the notions may be attended by cause  for doubt. A man, if he have any notion of  a philosopher at all, cannot indeed but be  quite sure (consciously sure) of his own no-  tion of a philosopher j but how can he be sure  that others have the same notion, or even  quite sure that Plato had the qualities that  conform to his own notion ? In the same  way, he will be quite sure (consciously sure)  of his own notion of an honest man ; but he  may be deceived as to the facts which bring  William within that notion. He will be quite  sure (consciously sure) of the notion he has  in naming a tree a mulberry tree ; but that  notion may be totally unlike the notion which  other people entertain ; or if the general no-  tion agrees, he may mistake the characteristics  in the particular instance. He will be quite  sure (consciously sure) of his own notion of vice or of virtue, and whether it includes or  excludes this or that conduct, action, habit,  or quahtjr ; and in this case the conviction is  absolute and entire while the reasoner confines  himself to his own notion ; but the moment  he steps out of this, and begins to inquire  whether it agrees with that of others, he finds  cause to doubt. He must be quite sure (sen-  sibly sure) that bodies near above the earth's  surface have a tendency towards it ; and by  proper experiments he may convince himself  that all bodies without exception which are  so situated, have the same tendency. In sup- ,  posing the fact universal of the tendency of  smaller bodies to the greater, his conviction  of the consequences involved in that hypo-  thesis, must, as soon as he has mentally traced  them, be absolute and entire ; but he has yet to  find whether reality corresponds with the hy-  pothesis. The strongest proof of this will  be, the correspondence of the consequences of  the hypothesis with the phenomena of na-  ture, joined to the impossibility of forming     138 ON LOGIC. [chap. II.   another hypothesis which shall account for  these phenomena; and the doubt, if any,  will attach to that impossibility, and to the  accuracy of bis observatioda of the pheno*  rneoa* I^ then, there is roonr for doubt, and  cocise^aently for various degrees of assent, in  all the instances except m that whose facts or  data are notions which the mind is bound to  tstke up according to the definitions before it  enters on the argument, we are not to con-  clude that the reasoning process is different in  kind iti any of them ; since the difl^ence in  the facts or data about which the reasoning  process i& employed, fully accounts for the ab-  solute and entire conviction which takes place  in one instance, and the degrees of convictioti  which are liable to happen in such cases as^  the others.   14. But what IB a process or act of rea^  soning? Is it, abstractedly from the means'  u£^d to register its conclusions, and so pro-  ceed to new acts of the same kind, — ^is it aa  act which rules can teach, or any generalbsau-  tion make clearer, or more satisfactory than it  is originally ? We shall find, upon examina-  tioH, that any such pretence resolves itself in- i  to a mere verbal generalization, or the appli-  cation of the same act to itself; and that this  does in no way assist the act of reasoning, or  explain, or account for, or confirm it. A man  requires not to be told — *' It is impossible for  the same thing to be and not to be," in order  to know that himself exists ; he requires not  the previous axiom, " The whole is greater  than its part, or contains its part, " in order to  know that, reckoning his nose a part of his  head, his head is greater than his nose, or his  nose belongs to his head ; neither is the previous  axiom, " Things equal to the same, are equal  to one another", necessary to be enounced,  before he can understand, that if he is as tall  as his father, and his father as his friend, he  is as tall as his friend *. Whatever neatness of  arrangement a system may derive from being   • Compare Lofku's Essay, Book IV. ChajHeis 7  and 12.     1headed with such verbal generalizations, it is  manifest that they neither assist the reasoning  nor explain it : nor must a generalization of   , this kind be confounded with the enunciation  of what is called a law of nature*, — (the law  of attraction and gravitation for instance, — )  since this last is a discovery by a process of  experiment and reasoning, but a verbal gene-  ralization is no discovery at all ; — it is merely  a mode of expressing what is known by every   " rational mind at the very first opportunity for  exercising its powers. Or more properly  speaking, the laws of reasoning, which are  gratuitously expressed by what are called  axioms, are nothing else than a mode of de-   * See Whately's Logic, Chap. I. Sect. 4, where he  attempts to evade Dugald Stewart's oh^ection to the  Ariatotelian syllogism, that it is a demonstration of b  demoiigtration, by comparing the Dictum de omni et  de nullo to the enimciation of a law of nature. — It is  rather pleasant, in the first note of the Chapter referred  to, to hear the doctor running riot upon Locke's con-  fuinon of thought and common place declamation, be-  cause the latter had the sense to sec the futility and  puerility of the syllogism.     SECT. 14.] ON LOGIC. 141   scribing the constitution of a rational mind.;—*  they are identical with the capacity itself for  reasoning: to view them in any other light is  to mistake a circumlocution for the discovery  of a principle. And this kind of mistake  every one labours under who supposes that,  by any means whatever, an act of reasoning  is assisted or explained, accounted for, or con-  firmed. Nothing is more certain, than that if  two terijns agree with a third, they agree with  each other, — if one agrees and the other dis-  agrees, they disagree with each other: but  every other act of reasoning has a conclusion  equally certain (the facts or data about which  an act of reasoning is conversant being the  sole cause of any doubt in the conclusion*,)  and this or any other attempt at explaining or  accounting for the act, will therefore only   . * And note, that when people are said to draw a  wrong conclusion from facts, the correct account would  be, that they do not reason from them, but from some-  thing which they mistake for them, through their ina-  ability to understand, or their carelessness to the na-  ture of, the facts given.     I4!l     [chap. ir.     amount to the placing of one such act by the  side of another; as if any one should set a  pair of legs in motion by the side of another  pair, and call it an explanation of the act of  walking. Such would at once appear to be  the character of the Aristotelian Syllogism,  were it not for the complicated apparatus ac-  companying it ; an apparatus of distinctions  and rules rendered necessary by the nature of  the terms compared. For these terms being  obtained by the division of a sentence, are  such that they agree or disagree with each  other only in the sense they bore before the  division took place. Our theory makes this  plain; for it shows that words which form a  sentence limit and determine each other, and  thus have a different meaning from tliat which  belongs to them when understood abstracted-  ly. Therefore, though it may be true that  " Plato is a man deserving of respect, '  does not follow that " Plato " and " A maai  deserving of respect " shall agree togetiier as  abstract terms : accordingly the latter term  understood abstractedly, signifies any or every  man desei-ving of respect, and does not agree  with Plato. It must be obvious, then, that  terms obtained iirthis way, can be compared  with other terms similarly obtained, only un-  der the safeguard of certain rules. Such rules  are accordingly provided ; and tliat they may  not want the appearance of scientific general-  ization and simplicity, they are all referred to  one common principle, — the celebrated dic-  tum de omni et de nullo ; whose purport is,  that what is affirmed or denied of the whole  genus, may be affirmed or denied of every  species or individual under it ; — which indeed  is nothing more than a verbal generalization  of such a fact as this, that what is true of every  philosopher, is true of any one philosopher.  All tliese pretences to the discovery of a uni-  versal principle, do but leave us just where we  were, a few high-sounding empty words ex-  cepted; and this must ever be the case when  we seek to account for that which is, by the  constitution of things as far aa we can ascertain them, an ultimalefact. An act of reason-  ing is the natural working of a rational mind  upon the objects, whatever they may be, which  are placed before it, when, having formed one  judgment intuitively, it makes use of the re-  sult as the medium for reaching another: and  the pretence to assist or explain this operation  by the introduction of such an instrument as  the syllogism, is an imposition on the under-  standing.   15. This will more plainly appear when we  examine the real use, (if use it can be called,)  of the Aristotelian art of reasoning. It may  be described as the art of arguing unreason-  ably, or of gaining a victory in argument  without convincing the understanding. As  it reasons "with words, and not merely by  means of words, it fixes on expressions not on  things, and is satisfied with proving a conse-  quence, or exposing a non-sequitur in those,  without inquiring into the actual notions of  the speaker. " Do you admit " says a syllogi-  zer, " that every philosopher is deserving of respect? " " I do;" says the non-syllogi-  zing respondent. " And you admit, (for I  have heard you call him by the name,) that  Voltaire is a philosopher : you admit, there-  fore, that Voltaire is deserving of respect. "  Now, if the notion of the respondent is, that  Voltaire is not deserving of respect, here is a  victory gained over him in spite of his con-  viction. Arguing from the words, and allow-  ing no appeal from them when once conceded,  the conclusion is decisive*. But in looking  beyond the words to the things intended, we  shall find that the respondent either did not  mean every philosoplier, as a metaphysical,  but only as a moral universal, or else (and the  supposition is the more likely of the two) that  in calling Voltaire a philosopher, he called   • " If," says a. doughty Aristotelian doctor, " a  imiyeraity is charged with cultivating only the mere  elements of mathematics, and in reply a list of the  hooks studied there is produced, ^should even any one  of those books be not elementary," [" / day here on  my biynd,''] " the charge is in fiiirncss refuted."  Whately's Logic, Chap III. Sect. 18.    . II.   him so according to the custom of others, and  not according to his own notion. In a Logic  whose object is truth and not victory, the  business would not therefore end here. An  attempt would be made to change the notion  of the respondent (supposing it to be wrong)  by an appeal to things. His mind might in-  deed be so choked with prejudice as to be in-  capable of the truth ; but at least would the  only way have been taken to remove the one  and procure admission for the other. — To the  foregoing, let another kind of example be add-  ed : " Every rational agent is accountable ;  brutes are not rational agents ; therefore, they  are not accountable." * " Non sequitur*^  cries the Aristotelian respondent. The other  man, who reasons by means of words and not  merely mth words, is certain that the internal  process by which he reached the conclusion is  correct ; nor is he persuaded to the contrary,  or at all enlightened as to his fault, when he  is told that he has been guilty of an illicit pro-   ♦ From Whately's Logic, Chap. I. Sect. 3.  cess of the major. He is informed, however,  that his mode of reasoning finds a parallel in  the following example : " Every horse is an  animal ; sheep are not horses ; therefore they  are not animals.'* * But this he denies ; be-  <:ause he is sure that his mode of reasoning  would never bring him to such a conclusion  as the last. All this time, while the Aristo-  telian has the triumph of having at least  puzzled his uninitiated opponent, the real  cause of diflference is kept out of sight, name-  ly, that the one refers to that reasoning which  is conducted merely with words, and not by  means of words only, while the other refers to  that reasoning which looks to things, inatten-  tive perhaps, as in this instance, to the expres-  sions. If the latter had used no other ex-  pression than " Brutes are not rational agents ;  therefore they are not accountable ;•" — the as-  sertion and the reason for it, must have been  suffered to pass; but because another sen-  tence is prefixed to these two, and the whole   * Whately'*s Logic, Chap. I. Sect. 3.   l2     F   1    of them happen to make a violated syllogism,  the speaker is charged with having been guilty  of that violation, when in fact he has not at-  tempted to reason syllogistically at all ; i. e. to  draw his conclusion from a comparison of the  extremes with the middle, but from a judg-  ment on the facts of the case. In a Logic  which gets at its conclusions by jneans of  words, and not by the artifice we have just  referred to, an expression which does not  reach the full facts reasoned from, (every  rational agent, for instance, where it should  have been said none but a rational agent,J  would not be deemed an error of the rea-  soning, but a defect in the expression of the  reasoning.   ] 6. These examples will, it is hoped, be  sufficient to show the real worth of the Aris-  totelian syllogism, ft is indeed, as its advo-  cates assert, an admirable instrument of ar-  gumentation ; but of argumentation distinct  from the fair exercise of reason. It is a pro-  per appendage to the doctrine of ReaUsm,      SECT. 16.]]     149     and with that exploded doctrine it should long  ago have been suffered to sink. While ge-  nera and species were deemed real independ-  ent essences, to argue from words was con-  sistently supposed to be arguing from things :  but now that words are allowed to be only  counters in the hands of wise men, the Logic  of Aristotle, which takes them for money,  should surely be esteemed the Logic of fools".  The claim for its conclusions of demonstrative  certainty, rests solely on the condition that  words are so taken. Every conclusion from  an act of reasoning, would have that charac-  ter, if the notions about which it was employ-  ed were notions universally fixed and agreed  upon. In mathematics, this circumstance is  the sole ground of the peculiar certainty at-  tained. All men agree in the metaphysical  notion of a point, of a line, a superficies, a  circle, and so forth t : if all men necessarily     * " Words are the counters of wise men, but the  money of fools," — Hobbes.   f According tu Sugald Stewart, mathematical  agreed in the notion of who is a philosopher  and who is not, of what is vice and what is  virtuBj and so forth ; our conclusions on these  and similar subjects, would, as in mathematics,  be demonstrative : but till definitions can be  framed for Ethics in which men must agree,  there is little chance of erecting this branch  of learning, with any praciical benefit, into a  science, according to the notion insisted on  with some earnestness in Locke's Essay*,  lu Physics we can do more ; for men agree  pretty well as to what is a mulberry tree, and  what is a pear tree ; what is a beast, and what  is a bird ;— by experiment they can be shewn  what are the component parts of this sub-  stance, what the qualities of the other j and  so forth : so that here, our conclusions need   definitions are mci-e hypotheses. Do they not rather  describe notions of and relating to quantity, which, by  the congtitution of the mind, it must reach, if, setting  aside the sensible instances of a point, a line, a circle,  &c., it tries to conceive them perfect ?   * Book IV. Chap. III. Sect. 18,: and the same  book Chap. XII. Sect. 8.    not be wanting in all necessary certainty;  although, as that certainty depends on the  conformity between our notions, and the out*  ward or sensible objects of them, it will be of  a different kind from the certainty obtained  in meta-Phi/sicSj and therefore not called de-  monstrative. In the latter department, (Me-  taphysics,) the chain of evidence has its first  hold, as well as every subsequent link, in the  mind, and the mind cannot therefore but be  sure of the whole.   17. As we propose to limit the province  of Logic to the investigation of truth, the re-  marks and examples in the section preceding  the last (15.), might have been spared till we  come to consider Rhetoric, to which we in-  tend to assign, among its other ofiices, that  of proving truth. How far the form of ex-  pression which corresponds to the syllogism,  is calculated to be useful to a speaker or wri-  ter, may at that time draw forth another ob-  servation on the subject. Meanwhile we pro-  pose to exclude it entirely from Logic; and   in truth the common practice of manlcind out  of the schools, has never admitted it as an in-  strument either for the one purpose or the  other. Common sense has always been op-  posed to it ; and Logic is a word of bad reputa-  tion, because it is supposed to mean the art  of arguing for the sake of victory, and not for  the sake of truth. In vain have Locke,  Campbell, Reid, Stewart, and other sound  thinkers, endeavoured to clear the art from its  reproach by detaching the cause : the Aristo-  telian Syllogism has been repeatedly over-  thrown ; yet some one is ever at hand to set it  on its three legs again, and argue in defence  of the instrument of arguing : — some per-  tinacious schoolmaster may always be found  Who e'en though vanquished yet will ahgue still;  While words oflearncd length and thundering sound*.  Amaze the gazing rustics ranged around.     * Videlicet, Terms middle and extreme ; premiss  major and minor ,- quantity and quality of propositions ;  Universal affirmative ; Universal negative ; Particular  affirmative ; Particular negative ; Distribution and non-  distribution of terms; Undistributed middle; Illicit pro-     So much — (till, in the next chapter we come  to a parting word — ) so much for the Aris-  totelian Syllogism.   18. As to the Logic which we have en-  deavoured to ascertain, it is, we repeat it, the  Logic which all men learn, and all men ope-  rate with in gathering knowledge ; and the  only inquiries which remain are, i. Whether,  so far as we have gone, there is ground or ne-  cessity for principles and rules in the exercise  of Logic, as there is for grammar in speaking  a language; and ii. Whether we ought to  consider its limits as extending beyond the     cBss of the major ; Illicit piocese of the Tninor ; Mood  itnd figure— Barbsrs, Celarent, Darii, Ferio, Cesare,  CameBtres, Festino, Baroko, Darapti, Disamis, Datisi,  Felapton, Bokardo, Feriso, Bramantip, Camenes, BU  maris, Fesapo, FrcBison ; Categoricals, Modals, Hypo-  theticals. Conditionals, Constructive form. Destructive  form, Oatcnsive reduction, Illatire conversion, &c. kc  &c. Well may we join with Mons. Jourdain —  " Voila dee mots qui sont trop rebarbatifs. Cette  logique ]& ne me rcvient point. Apprcnons autre chose  qui soit plus joli.'*    . [chap. II.   bounds proposed at tlie commencement ot*  this Chapter.   19. Though few persons would be dis-  posed to answer the former question in the  negative, yet an analogous case may induce a  moment's pause in our reply. At the conclu-  sion of the first note appended to Sect. 4.,  allusion was made to the fact, that men do  not see truly by nature, but acquire, through  judgment and experience, the power of know-  ing by sight the tangible qualities of objects  and their relative distances. Now, the in-  terference of rules, supposing them possible,  to assist this early discipline of the eye, would  be useless — perhaps raiscliievous : — why are  we to think differently of the discipline of the  mind, as regards the use of those signs which,  if our theory is true, are forced upon us at  first by an inevitable necessity ? Because the  art of seeing truly is necessary to the preserva-  tion of the individual ; and nature takes care,  therefore, that we do not teach ourselves im-  pertectly or erroneously ; but the conducting  of a train of reasoning with accuracy and pre-  cision into remote consequences, is unne-  cessary in a rude state of society j and man,  who is left to improve his physical and moral  condition, has the instrument of that improve-  ment confided to his own care, that he may  add to its powers, and form for himself rules  for using it with much more precision and  much more effect, than any random use of it  can be attended with. Accordingly, if we  look to that department of knowledge which  Locke calls ipvaiK^ * , we shall find that it owes  its existence to the accurate Logic by which  inquirers registered all their observations and  all their experiments, and by which they as-  cended from individuals to classes, till each  had comprehended in his scheme all he de-  sired to consider. Here then begins the pro-  per business of Logic as a system of instruc-  tion : it ought to lay open all the various me-  thods of arrangement and classification by     ' Vide the lutrixluction to this Treatise.       which science is acquired and enlarged ; and  if something may yet be done toward im-  proving these methods, it should open the  way to such improvement. The Aristotelian  rules for definition, which are a sound part of  Logic, should be explained and illustrated ;  and the nomenclatures invented by various  philosophers, particularly that which is used  in modern chemistry, should be detailed and  investigated.   SO. But if, by the application of a more  accurate Logic than belongs to a random use  of language, men have been able to accom-  plish so much in ^uo-ik^, it does not appear  that they have great cause to boast of their  success in the other department, namely  ■n-paKTiK-^. Do they act, whether as com-  munities or individuals, muck better with a  view to their real interests, than they did two  thousand years ago ? If improvement here,  as in the other department, is possible, how  is it to be accomplished ? We live in an at-  mosphere of passions, prejudices, opinions,     which mould our thoughts, and give a cer-  tain character and hue to all the objects of  them ; — these we do not examine, but take  them as they appear to us, and our reasonings  too often start from them as from first facts.  As to the process itself, — a process which  every individual conducts ■within his avra  mind according to the power which nature  gives him, — we affirm that it cannot be other  than it is, and that, provided it starts from  true data, it can never lead us wrong : but if  that is false which at the outset we take for  true, then indeed our conclusions may be  perniciously, ruinously erroneous. It is ac-  cordingly the business of the moralist to re-  move the false hue which habit, opinion, and  passion, cast over the surface of things ; and  it should be the business of the politician to  examine the principles on which the general  affairs of the world are conducted, and open  the eyes of mankind to their pernicious ten-  dency, if in the whole or in part they are per-  nicious. But neither the moralist nor the politician can come at the necessary truthis  intvitiveljf : they must use the mediaj and the  media consist in that use of words which con-  stitutes Logic, as we have described it. We  do not intend to say that language affords  the means of reaching equal results to every  person who makes the right logical use of it ;  for men's minds are very different in natural  capacity; and some are able to perceive  truths intuitively, which others attain only by  a slow process; as tall men can reach at  once, what short men must mount a ladder  to : but we do intend to say, that, let the  natural powers of any human mind be what  they will, there is no chance for it of any ex-  tensive knowledge, but through the employ-  ment of media to assist its natural operations ;  <and, we repeat it, the media which nature  suggests, and leaves for our industry to im-  prove, is language *. Well then, if our im-   * The reader does not understand us, if he  deems it an objection to our reasoning, that many  highly gifted men in point of understanding, do not provement in ntpaKrucrfj is, at this time of ^ay,  less than we might expect, is it not reason-  able to think that, with regard to this depart-  ment, we do not quite understand the instru-  mental means, and consequently do not ap-  ply them with complete effect ? Surely there  is some ground for such a suspicion, when we  find a doctor (of some repute we presume) in  one of our two great places of learning, de-  claring that '^ the rules of Logic have nothing  to do with the truth or falsity of the premises,  but merely teach us to decide (not whether  the premises are fairly laid down, but)   appear to have a skilful use of language. A man may  be rhetorically unskilful in language without being  logically so ; — he may be imable to convey to others  how and what he thinks ; but he may make use of  media in the most skilful manner to assist his own  thoughts. And if his capacity is such that he seei  many truths intuitively for which others require  media^ it is evident that he cannot convey those  truths to them till he has searched out the means.  The nature and the principle of such an operation be-  longs to our next chapter on Rhetoric.     fim         whether the conclusion fairly follows from  the premises." * We acknowledge that the  Logic to which this description applies, has  never been the Logic of mankind at large,  however it may have been the baby-game of  men in colleges ; but that the office of Logic  should be described so completely opposite  to what it really is, at a time when its proper  office and character ought to have been long  ago thoroughly understood, is not a little  surprising, and may reasonably warrant the  suspicion stated above. We have no doubt  our reader is by this time convinced, that  men who reason at all, do not want rules for  drawing their conclusions fairly, if we could  but get them to draw those conclusions from  right premises ; and that to get at right pre-  mises is every thing in Logic. For this end,  it is our business to set all notions aside that  have not been cautiously acquired ; and to  begin the formation of new ones at the point   * Whateiy'a Logic. Provinceof Reasoning, Cliap-  I. Sect. 1.     sf;ct. 20.]     IGI     where all genuine knowledge commences, —  the intuitive comparison of particulars or  single facts ; to make use of the knowledge  (notions) hence obtained as media for new  comparisons or judgments; and so on ad in-  Jinitum. Alas! it is but too certain, that  though we draw our conclusions faiily enough,  our premises, in a vast proportion of cases,  are laid down most foully, because they are  laid down by our ignorance, our passions,  and our prejudices ; and because language  itself, when its use is not guarded, is a means  of deception*.   • We arc somewhat backward in offering examples  of general remarks, such as is this last ; because it is  scarcely possible to be particular without touching on  questions in religion or politics that carry with them,  either way, a taint of parti zanshi p ; and we hold it to  be very impertinent in a writer on Logic, to turn  those general precepts for the discovery of truth  which he is bound to ascertain, into a particular chan-  nel in order to serve his own sect or party. What  business had Watts to exempliiy so many of hU  cautionary rules by the errors of Papistical doctrine,  at a time when its doctrine was a subordinate and     But can the assistance which lan-  guage is intended to furnish, be rendered such   party queBtioit, and be himself was a sectarian opposed  to it ? We trust that no exception of the same kind  can be taken {particularly as we give them only in a.  note) to two examples we are about to submit of  the remark in the text, that language itself may lie  the means of deceiving us into wrong premiseB : — they  are by no means singular, hut Guch as may he met  with every hour on almost every question. The  ph rase natural state is, as we all know, a very com-  mon expression, which we are much in the habit of  applying to things that have not been abused or per-  verted from the form or condition in which nature  first placed them. Now, because the same phrase  happens to be frequently applied to man in a rude  state of society, we start, in many of our reasonings,  with the notion, that in proportion as we have depart-  ed from such a state, we have perverted and abused  the purposes of nature ; when, in truth, it seems wiser  to inquire, whether we have yet reached the state  which nature means for creatures such as we are, and  whether she is not constantly urging us on to such an  unattained state. Our other example is of narrower in-  terest, and belongs to politics, or rather to what is  called political economy. The word price, in general  loose speaking, means that which is given (be it what  it may) to obtain some other thing ; but in a strict as to lead us to truth in spite of ignorance,  passion, and prejudice, and in spite of the  delusions of which it is itself the cause? Why  not, if the guarded and careful use of it, is  fitted to diminish these obstacles, and if we  do not look for the ultimate effects -faster  than, by the use of the means, the obstruc-  tions ^ive way ? Nor are mankind inattentive  to improve the means, nor are the means     and mercantile Bense, it has a uniform reference, direct  or indirect, to the quantity of precious metal given for  commodity ; inasmuch as gold and silver are the sole  universal medium of barter throughout the world, and  every promise to pay has reference to a certain quan-  tity of one or the other of these metals. These things  premised, it must be obvious that the phrase price of  gold, using price in a strict sense, is an abeurdity, and  could arise only from confounding the meaning which  prevails in ordinary speech with the meaning in which  the merchant uses it. What, then, are we to think of  an English House of Commons, which, some twenty  years ago, deputed to a committee the task of in-  quiring into the causes of the high price of bullion ?  Might not the committee, with as much reason, have  been deputed to inquire, why the foot rule was more  or less than a foot ?    without effect : for when we ask, whether their  moral and political condition is much ad-  vanced beyond what it was in the most pro-  mising state of the world in past days *, we do  not mean to deny what every one of common  knowledge and observation is aware of, that  it has advanced : all we urge is, that a sys-  tematic attention to the means of investigating  truth, might, peradventure, in politics and  morals, as it has in physics, have been at-  tended with effects more widely beneficial.  Neither do we afSrm that existing works on  Logic are destitute of many admirable pre-  cepts for investigating truth, although we  assert that the precepts are referred either   * Note, that it is unfair to fix on a particular part  of the world in proof of what it was in the whole. States  and cities may advance themselves for a time by a  partial policy which keeps others backward : but the  policy will fail in the end. By a natural course of  things the advanced state will merge in the mass and  improve it : and thus the world will keep on advancing,  although the spectator, who contemplates only the  particular state, will think it is retrograding.   to a false principle, or to no principle at all  fitted to unite them into one body of sys-  tematic instruction. The work lately referred  to *, fnrnishes, for instance, many excellent  precepts for avoiding errors in the use of  words, and for guarding against the snares of  sophistry; and if such precepts and such ex-  amples as it offers, distinct from the doctrine  of the syllogism, were industriously collected,  and brought forward in aid of the Logic  which all men learn and all men use, they  would be of inestimable value. A useful  system of Logic will guard our notions from  error not only while we think, but while we  are reasoned witht: for one chief way by  which truth enters the mind, is through the     * Viz, Whately's Logic.   + Our meaning will be understood ; but wc express  it by ii distinction which is grounded on no real dif-  ference. He who is reasoned with, if he understands  the ai^ument, is set a thinking ; and his agreeing or  disagreeing with the argument is the effect of his own  thoughts, however these may be set in motion, and  perhaps unreasonably influenced, by what he hears.  medium of language as employed by others :  and Logic should therefore arm us with all  possible means for coming at truth so offered,  through the various entanglements by which  the medium may be accompanied. Hence,  the various sophisms of speech accompanied  by their appropriate names, would still occupy  a place in such a Logic ; nay, for this purpose,  and for this alone, would the Aristotelian  doctrine of the syllogism deserve explanation ;  namely to understand how a conclusion drawn  from mere terms, may, as a conclusion from  them, be perfectly true and perfectly useless,  and thus to induce us to bottom all our  reasoning on things. — Having thus offered,  on the first of the questions proposed in Sect.  18, such observations in the affirmative as we  thought it required, we now proceed to the  second question.   22. That question was. Whether we ought  to consider the limits of Logic as extending  beyond the bounds proposed at the com-  mencement of this chapter : towards answering  which, we may first inquire how far other  views of it extend. By the Scotch metaphy-  sicians, and generally in the schools of North  Britain, the word Logic seems to be so used  as to imply the cultivation of the powers of  the mind generally, correspondently with  M'atts's definition of tlie purpose of Logic,  namely, " the right use of reason." " I  have always been convinced," says DugaJd  Stewart*, " that it was a fundamental error  of Aristotle, to confine his views to reasoning  or the discursive faculty, instead of aiming at  the improvement of our nature in all its parts."  And he then goes on to mention the following  as among the subjects that ought to be con-  sidered in a just and comprehensive system  of Logic. " Association of ideas ; Imagina-  tion ; Imitation j the use of language as the   GREAT INSTRUMENT OP THOUGHT ; and the   artificial habits of judging imposed by the  principles and manners in whicli we have     * Fhilotiuphical Essays.  Chap.    16s been educated." * Now if the threeibld di-  vision of human knowledge is a just one,  which, in the Introduction of this work, was     his     * io the same purpose,  Philosophy of the Humat     n the second volume of  Mind, (Chap. III. Sect.     S.) he speaks thu^     ' The following, (which     mention by way of specimen,) seem to be among the  most powerful of the causes of our felse judgments.  The imperfections of language both as an instru-  ment of thought, and as a medium of philosophical  communication. 2. The difficulty in many of our  most important inquiries of ascertaining the facts on  which our reasonings are to proceed. 3. The partial  and narrow views, which, from want of information,  or some defect in our intellectual comprehension,  we are apt to take of subjects which are peculiarly  complicated in their details, or which are connected  by numerous relations with other questions equally  problematical. And lastly, (which is of all perhaps  the most copious source of speculative error) the pre-  judices which authority and fashion fortified by early  impressions and associations, create to warp our  opinions. To illustrate these and other circumstances  by which the judgment is apt to be misled in the  search of truth, and to point out the most effectual  means of guarding against them, would form a very  important article in a philosophical system of Logic,"    borrowed from Locke,— namely into, it., the  knowledge of things tiiat are, — ii., of things  fitting to be rfonc, — and, Hi., of the means of  acquiring and improving both these branches  of knowledge;— it wUl at once appear that  all the subjects referred to in this enumeration  of Stewart's, except the fourth, which we print  in capitals, come under the denomination of  physica : — they are energies or tendencies of  the mind derived from nature, or habits  arising out of natural causes ; and they come  accordingly under the division of things ex-  isting in nature, which things, as they all  concern the mind, it is the business of the  Pliilosophy of the human mind to explortf:  but the fourth of the subjects mentioned in  the quotation from Stewart, viz •* the use of   LANGUAGE AS THE GREAT INSTRUMENT OF   THOUGHT," comes under the third of the  divisions laid down by Locke, and ought cer-  tainly to be distinguished from the other  subjects, because it is the means of becoming  acquainted with them : it is the instrument.     m  and they are among its objects. True, we  discover, as we proceed in the use of it, and  we are properly warned by those who have  used it before, that its efficacy is assisted or  impeded by extraneous causes, as well as by  defects in the instrument itself: similar dis-  coveries will be made, and similar warnings  must be given, in the practice of almost every  art: but these ought not to enter into the de-  finition of the art, although it will be proper  to bring them forward, incidentally, as we  open its rules. " A method of invigorating  and properly directing all the powers of the  mind is indeed," says Dr, Whately, " a most  magnificent object, but one which not only  does not fall under the province of Logic, but  cannot be accomplished by anyone science or  system that can even be conceived to exist.  The attempt to comprehend so wide a field is  no extension of science, but a mere verbal ge-  neralization, which leads only to vague and  barren declamation. In every pursuit, the  more precise aud definite our object, the more   likely we ai'e to obtain some valuable result j  if, like the Platonists, who sought after the  avTodyaSov, — the abstract idea of good, —  we pursue some specious but ill-defined  scheme of universal knowledge, we shall lose  the substance while grasping at a shadow, and  bewilder ourselves in empty generalities." *To these just remarks, we may add our ex-  pression of regret that Dugald Stewart never  had opportunity to do more than speak pro-  ^'^ectively of *' a just and comprehensive  system of Logic ;" " to prepare the way for  which, was," he says, " one of the main  objects he had in view when he first entered  upon his inquiries into the human mind."t  Had he himself completed such a design in-  stead of leaving it for others, we doubt not he  would have found the necessity of circura-  scribing Logic within the bounds we have  proposed, in order to give it existence as an     • Whately's Logic ; Introduction,  t Pliilos. Essays. Prelim. Diss. Chap. II.: in the  paragraph immediately following the last quotation.     fjtt ON LOGIC. [chap. U.   art distinct from the wide ocean of intellectual  philosophy.   23. But Dr. Whateiy, who deems, with  us, that every consideration of the mind con-  ducted without reference to its making use of  language as its instrument, lies out of the de-  partment of the teacher of Logic*, com-  pletely differs from us, as to the province of  the art. Of the question, " whether it is by  a process of reasoning that new truths are  brought to light," he maintains the negative t,  and consequently denies that investigation be-  longs to Logic. Afler what has been ad-  vanced in the former sections of this chapter,  we think it quite unnecessary to combat this  opinion here ; and as Dr. Whateiy concedes,  that " if a system could be devised to direct     • Dr. Whateiy defines Logic (Chap. II. Part I.  Sect. 2.) " the art of employing language properly for  the purpose of reasoning." But with him, reasoning  B argumentation.   t Whateiy "s Logic, Province of llcasoning, Chap.  II. Sect. 1.     ^     the. mind in the progress of inveBtigation ", it  might be " allowed to bear the name of Lo-  gic, since it would not be worth while to con-  tend about a name " *; — as, moreover, we  propose to comprehend under Rhetoric all  that belongs to the proving of truth — that is,  convincing others of it after we have found it  ourselves ; — we might be satisfied with stating  that this is the distribution we choose to  adopt, and there let the matter end. Be-  lieving, however, that our reasons will shew  this distribution to be not only useful, but al-  most indispensable, we proceed to offer them.  24, And first, that, so far as we have  gone, the art we have described ought to be  called Logic, we think will hardly now be de-  nied: — for we have proved that from be-'  ginning to end, it is a process of reason, that  is to say, a process to reach an end by mediae  and we have shown that the media are     • Whalely't* Logic, Province of Jteasoiiing, Chap.  II. Sect. 4.     Wi        words, (Xo'yoi.) If the term Logic is not pro-  perly applied to such an art as this, we know  not where an instance can be found of pro-  priety in a name. But shall we include the of-  fice of proving truth under this name, as well  as that of investigating it ? We answer, no, for  these two reasons : first that the things them-  selves are difierent, and ought therefore to be  assigned to different departments ; since it is  one thing to find out a truth, and another to  put a different mind in a posture for finding it  out likewise : And, second, that persuasion by  means of language, which is the recognized  office of Rhetoric, is not so distinct from con-  viction by means of language, as to admit of  our saying, precisely, where one ends, and the  other begins. That common situation in life.  Video meUora proboque, deteriora sequor,  proves indeed there are degrees of conviction  which yield to persuasion, as thei'e are other  degrees which no persuasion can subdue : yet  perhaps we shall hereafter be able to show,  that such junctures do but exhibit one set of  motives outweighing anol^ier, and that the ap-  plication of the term persuasion to the one set,  and of conviction to the other, is in many cases  arbitrary, rather than dictated by a corre-  spondent difference in the things. If, then, the  finding a truth, and the proving it to others,  ought to be assigned to different departments  of Sematology, why not, leaving the former to  Logic, consider the latter as appertaining to  Rhetoric, seeing that convincing is not always,  and on every subject, clearly distinguishable  from persuading, which latter is the acknow-  ledged province of Rhetoric ? Thus will ana-  ^5ii' uniformly belong to Logic, and synthesis  to Rhetoric. While we use language as the  medium for reaching further knowledge than  the notions (knowledge) we have already  gained, we shall be using it logically : when,  knowing all we intend to make known, we  employ it to put others in possession of the  same knowledge, we shall be using it rhetorically. As learners we are, according to  this distribution, to be deemed logicians }— .as     176     [chap, II.     teachers, rhetoricians. The two purposes are  quite distinct, though they are often con-  founded under the same name, reasoning ;  which sometimes means investigation, and  sometimes argumentation*, or a process with   • 111 spite of all we have said against taking up no-  tions from mere terms, (for " what's in a name ?") we  confeES a strong antipathy to the word argumentatmi.  It no sooner meets our eyes, than, fearing the approach  of some Docteur Pancrace, we instinctively put our  hands to our ears. " Voub voulez peut-etre savoir, si  la substance et Vaceident sont termes synonymes on  equivoques k I'egard de Tetre? Sganarelle. Point  du tout. Je... Pancrace. Si la lo^ que est un art, ou  une science.^ Sgan. Ce n'est pas cela. Je... Pancr.  Si elle a pour objet les trois operations de I'esprit, ou  la troieieme seulement ? Sgan. Non. Je... Poner. S'il  y a dix categories, ou s'il n'y en a qu'une ? Sgan.  Point. Je... Pancr. Si la conclusion est Vessence  du sylle^sme ? Sgan. Nenni. Je... Pancr. Si  fessence du bien est mise dans I'appetibilite, ou dans  la convenancc? Sgan. Non. Je... Pancr. Si le  bien se rcciproque avec la fin ? Sgan. He, non! Je...  Pancr. Si la fin nous pent emouvoir par son etre reel,  ou par son Stre intentionel ? Sgnn. Non, non, non,  non, non, dc par tons lea diables, non. (Moli&re's  Mariage Force.) We join in our friend Sganarelle'g    a view to proof: and the confusion is promoted by the circumstance, that the two pro-  cesses are often used in subservience to each  other. Thus, when a writer sits down to a  work of philosophical investigation, it is to be  expected that the general truths he designs to  prove, are already in his possession ; but he  has to seek the means of proving them. Now  in searching for these, it is not unlikely, that,  with regard to the detail, he will frequently  come to conclusions different from those he  was inclined to entertain, though the final re-  sult he had entertained may remain un-  changed. At one moment, therefore, he is a  logician, at another, a rhetorician. His reader,  on the other hand, is a logician throughout :  in following and weighing the arguments offer-  ed, he is an investigator of the truths which   deprecation, wishing to shun all argumentation, except  of that quiet kind which takes place when the talkers  on both sides are disposed to truth, ilot victory. If  the word conveyed to us the notion of so peaceable a  meeting, we should have no objection to it ; but we  have confessed our prejudice.    the other undertakes to prove. In this man-  ner may the same composition, accordingly  as it exercises the inquiring or the demon-  strating mind, be considered at one time with  reference to Logic, at another with reference  to Rhetoric. Still must it be admitted, that  to investigate and to prove are different  things ; and conceiving there is sufficient  ground for confining Logic to the former  office, we shall conclude our chapter as we  began it, by defining Logic to be the right  use of WORDS with a view to the investiga-  tion of truth.    Non posse Oratorem esse nisi viriim bonum.   AKG, CAP. I. LIB. XII. QtriN. 1N3.  In the chapter just finished, it was shown  that the use of language as a Logical instru-  ment, entirely agrees with the theory of Gram-  mar we ascertained in the first chapter, and  that, on no other principles than those which  arise from that theory, can Logic be pro-  fitably studied. We have now to show that  the use of language as a Rhetorical instrument  agrees with the same theory, and that the  view of the art hence obtained, lays open its  true nature, and the proper basis for its rules.  2. The language of cries or ejaculations,  which in the first chapter we started with,  may be called the Rhetoric of nature. To  this succeeds the learning of artificial lan-  guage ; and the process, whether of invention  or of imitation, brings into being the Logic  described in the preceding chapter. For  whether we invent a language, or learn a lan-  guage already invented, (presuming it to be  the first language we learn,) we must learn,  (if we do not learn like parrots,) the things of  which language is significant. All words  whatever, not excepting even proper names *,  express notions (knowledge) obtained from  the observation and comparison of many par-  ticulars ; and singly and separately, each word  has reference to the particulars from which  the knowledge has been gained. But it is by  degrees we reach the knowledge of which  each single word is fitted to be the sign. We  begin by understanding those sentences, or  single words understood as sentences>, that  signify our most obvious affections and wants,  and which, taking the place of our natural  cries, retain the tone of those cries as far as  the articulate sounds they are united with  permit. In all cases, as a sentence expresses   * Vide Chap. II. Sect. 7- ad fincm.    a particular meaning in comparison with the  general terms of which it is composed^ the  hearer may be competent to the meaning of  the sentence, who is not competent to the  full meaning of the separate words. A cry,  a gesture, may deprecate evil, or supplicate  good ; and a sentence which takes the place  of, or accompanies that cry or gesture, will,  as a whole, be quickly interpreted. But the  speaker and the hearer must have made con-  siderable progress in the acquirement of know-  ledge by means of language, before the one  can put together, and the other can separate^  understand, such words as, ^^ A fellow  creature implores"; "A friend entreats *\   It is by frequently hearing the same word in  context with others, that a full knowledge of  its meaning is at length obtained * ; but this  implies that the several occasions on which it   * Consult, on this subject, Chapter 4th of Du-  gald Stewart's Essay " on the Tendency of some late  Philological Speculations,^ being the fifkh of bis " Phi-  losophical Essays^.     [chap. hi.   is used, are observed and comjiared; it im-  plies, in short, a constant enlargement of our  knowledge by the use of language as an in-  strument to attain it.   3. But he who uses language as a logical,  will also use it, when need requires, as a rhe-  torical instrument. The Rhetoric of nature,  the inarticulate cries of the mere animal, he  will lay aside ; or at least he will employ them  (and he will then do so instinctively) only on  tliose occasions for which they are still best  suited, — for the expression of feelings re-  quiring immediate sympathy. On all other  occasions, he will use the Rhetoric by which  a mind endowed with knowledge, may expect  to influence minds that are similarly endowed ;  and our inquiry now is, how the effect is pro-  duced;— how, by means of words, (taking  words to be nothing else than our theory of  language has ascertained them to be,) — how,  by such means, we inform, convince, and  persuade.   4. According to our theory, wobds are to be considered as having a double capacity ;  in the first, as expressing the speaker's actual  thought ; — ^in the second, as being the signs  of knowledge obtained by antecedent acts of  judgment, and deposited in the mind ; which  signs are fitted to be the means of reaching  further knowledge. Now, when we use lan-  guage as a rhetorical instrument, we use it,  or at least pretend to use it, in order to make  known our actual thought, — in order that  other minds should have that information, or  be enlightened by that conviction, which we  have reached. Could this be done by a single  indivisible word — could we realize the wish  of the poet —   Could I embody and unbosom now   That which is most within me ; could I wreak   My thoughts upon expression, and thus throw   Soul, heart, mind, passions, feelings, strong or weak.   All that I would have sought, and all I seek,   Bear, know, feel, and yet breathe, into One Word*   Were this instantaneous communication with-  ♦ Byron's Childe Harold, Canto III. Stanza 97- in our power. Rhetoric would be a natural  faculty, not an art, and our inquiry into  its means of operation would be idle. But  getting beyond the occasions for which the  Rhetoric of nature is sufficient, and for which  those sentences are sufficient that serve the  most ordinary purposes of life, an instan-  taneous communication from mind to mind, is  impossible. The information, the conviction,  or the sensitive associations, which we have  wrought out by the exercise of our observing  and reasoning powers, can be given to another  mind only by giving it the means to work out  the same results for itself ; and, as a rhetorical  instrument, language is, in truth, much more  used to explore the minds of those who are  addressed, than to represent, by an expression  of correspondent unity, the thought of the  speaker ; — rather to put other minds into a  certain posture or train of thinking, than pre-  tending to convey at once what the speaker  thinks. Contrary as this doctrine will ap-  pe$ir to common opinion on the subject, a very little reflection will show that it must be true.  For a word can communicate to another mind  what is in the speaker's, only by having the  same meaning in the hearer^s : but if it have  the same meaning, then it signifies no more  than what the hearer knows already, or what  he has previously experienced. And this is  plainly the case with sentences (words) in  familiar use, which signify what all have at  times occasion to express, which are used  over and over again for their respective pur-  poses, and of which, while uttering or hearing  them, we do not attend to the meaning of the  separate words, but only to the meaning of  the whole expression *. Here, it is confessed,  the communication is made at once ; but then  it is a communication which the hearer is pre-  pared to receive, because he has himself used  the same expression for the same purpose.  What is to be done when the information or  the conviction is altogether strange to the  mind which is to receive it ? In this case the   ♦ Refer to Chap. I. Sect 19.     ON RHETOKIC. QCHAP. HI.     speaker will seek in vain, as in the first case,  for an expression previously familiar to the  hearer; and he will have to form an expres-  sion. But how shall he form it? As words  have the power of representing only what is  known on both sides, he must form it not  with signs of what is to be made known, but  of what is already known. In this way, he  may produce an expression — whether that  expression take the name of sentence, oration,  treatise, poem, &c. * — which, as a whole, de-  notes that which his mind has been labouring  to communicate — the information, the con-  viction, or the sensitive associations he is de-  sirous that others should entertain in common  with himself. The necessity of so protracted,  so artful a process, must be set down to the  hearer's account, not to the speaker's. The  latter is (or ought to be) in previous possession  of what he seeks to communicate — he has  been through the process, and reached the  result : but that result he cannot give at once  ' Compiirc Chap. I. Sect. 20.      and gratuitously to others : he can but lead  them to it, as he himself was led, by address-  ing what they already know or feel ; and his  skill in rhetoric will be the skill with which,  for this purpose, he explores their minds. It  will be a process of synthesis on his part, and  of analysis on theirs. He will form an ex-  pression out of WORDS which signify what  they already know, or what they have already  felt : and the separate understanding of these  on their part, will enable them to understand  his expression as a whole. This being the  theory of Rhetoric which grows out of our  theory of language, we now proceed to show  that the actual practice of every speaker, and  of every writer, is in accordance with it.   5. To begin with Description and Narra-  tion : — Is it not obvious, that, to procure in  another mind the idea of things unknown, we  proceed by raising the conception of those  that are known ? An object of sight which  the party addressed has never seen, we give  an idea of by allusions made iu various ways to objects he has seen :— or if, being new as a  whole, it is made up of parts not new, we give  the idea of the whole by naming the parts,  and their manner of union. An unknown  sound, or combination of sounds, an unknown  taste, smell, or feel, is suggested to another  mind by a comparison, direct or indirect,  with a known sound, taste, smell, &c. As to  conceptions purely intellectual, it is a proof  how little one mind can directly represent or  open, itself to another, that, in the first in-  stance, such conceptions can be made known  not by words that directly stand for them, not  by comparisons with things of their own  nature, but only by comparisons with affec-  tions and effects outwardly perceptible; as  would at once be obvious in tracing to their  origin all words that relate to the faculties and  operations of the mind *'y although it is true   * Thus afdrnvs^ amma^ +*'%»», originally signify  wind or breath : ^vfiog /Mevog^ mens^ impetuosity ; in-  tellect is from inter and lego, I collect from among ;  perception and oonceptUm are from capio I take, — a     that these words at last become well under-  stood names, that at once suggest their re«  spective objects, without bringing up the ideas  of the objects of comparison that once in-  tervened. In narration we proceed by similar  means. We presume the hearer to be ac-  quainted with facts or events of the same  kind as that which is to be made known,  though not with the particular event ; for we  \x%Q generalievmSy i. e. terms expressing kinds  or sorts, in order to form every more par-  ticular expression. If the hearer should be  unacquainted with facts or events of die same  kind, the communicator then has recourse to   use of the verb still common in such phrases as ^^ I  take in with my eye,'' and, " I take your meaning ;''  judgment is from jus dicere ; understanding suggests  its own etymology ; refleadon implies a casting or  throwing back again; imagination is from imago^  an image or representation; to thinks according to  Home Tooke, is from thing ; — " Res-^k thing (he says)  gives us refyr I am thinged,'' i. e. operated upon by  things. These are etymologies suggested by authori-  ties universally accessible ; — the curious in this depart-  ment of learning would be able to add much more.      circuitous comparisons. If nothing is pre-  viously known to wliich the action or event  can, however remotely, be compared, the  attempt to make it known must be as fruitless  as that of giving an idea of colours to one  bom blind, or of sounds to one born deaf*.   * Not without reason does the angel thus speak to  Adam in the Paradise Lost :  High matter thou enjoin'st me, O prime of men,   — and hard : for how shall I relate  To human sense the invisible exploits  Of warring spirits ?  And he proposes to overcome the difficulty in the only  way in which it can be concaved possible to be over-   — what surmounts the reach  Of human sense, I shall delineate so  By likening spiritual to corporal forms,  As may express them best.   Far. Lost. Book 5. 1. 5G3.  Still must the discourse of the Angel have been unin-  telli^ble to Adam : for the latter must be supposed  ignorant not only of the things to be illustrated, but  of far the greater part of the illustrations. There  was no keeping clear of this defect in the philosophy  of die jwem, if, in a poem, we arc to look for philoso-  phy. The discourse even of Adam and Eve, though   Thus, then, when we make use of  words in order to inform, we produce the  effect by adapting them to what the hearer  already knows. In using words in order to  convince and persuade, we produce the effect  in the same way. But to convince, it is ne-  cessary to inform — to acquaint the hearer  either with something he did not know before,  or with something he did not attend to ; and  the information is called the argument * or  proof. Thus the information that "Plato was  a philosopher," is an argument or proof that  he is deserving of respect: and the clear  testimony that " a man has killed another  maliciously," proves that the perpetrator is  guilty of murder. But why do we account  the information in the respective instances an  argument or proof of the conclusion ? For   Iieautifully fiimple, is tilled with alluaions to things  which the least philosophy will teach us they could not  be acquainted with.   * The word argument is commonly used iii the  sense we here assign to it ; though it is likewise often  used with » more coniprelicnBivc meaning.  no Other reason than this, that it is addressed  to a notion (knowledge) previously acquired  of what persons are deserving of respect, (in  the first instance,) and of what constitutes the  crime of murder, (in the second instance.)  Take away this previous knowledge, and the  information remains indeed, and may perhaps  be clearly understood, but in neither instance  can it lead the hearer to the conclusion, —  that is to say, it will not then be an argument  for the end in view : it will communicate,  perhaps, what it professes to make known, but  there the matter will end. In every process,  then, by which we propose to convince others  of a truth, there are three things implied or  expressed : i. that which we intend to prove  true, and which, if stated first, is called the  proposition, if last, the conclusion : ii. the in-  formation by which we try to prove it, and  which is accordingly called the argument or  pro of; iii. the previous notion (knowledge) to  which the information is addressed, and  which is frequently called the datum ; being that which is presumed to be already known,  and therefore conceded or given by the person  reasoned with ; on account of which, and  solely on this account, the information is  offered in the capacity of an argument or  proof. Now, here we have the parts of a  syllogism, (though in reversed order, viz. the  conclusion, the minor, the major,) and this  may serve to show, without having recourse  to the Aristotelian doctrine of the comparison  of a middle with extremes, why the form of a  syllogism, where necessary, must always be a  forcible way of stating an argument. For  first we state that which our hearer cannot  but. concede j (major ;) then we state that  which he did not know or attend to, in such  a way that he must receive it on our testi-  mony, or admit as evident as soon as it is  attended toj (minor;) and these two being  admitted, they are found to contain what we  proposed to prove: which we then draw  from them without the possibility of a rational  contradiction; (conclusion.) For example;   o    our hearer knows by experience what persons  are deserving of respect: he knows, then,  that   ** Every philosopher is deserving of respect.^   We then remind him of the fact which he has  learned from history, that   " Plato is a philosopher :''   Hence on his own knowledge we advance  the undeniable conclusion,   " Plato is deserving of respect''   Is this conclusion at all fortified — is the  process which led to it explained — by shew-  ing that a comparison of the terms independ-  ently of the things, produces the proposition  which expresses it ? Both the hearer and the  speaker must have the kno'wledgevfYiicYi the first  two propositions refer to, or the conclusion can-  not be drawn for any rational end : and if they  have the knowledge, they have the conclusion  in that knowledge. In convincing the hearer,  the speaker does nothing but remind him  that he (the hearer) has the necessary knowledge ; and the syllogism, we admit, puts the  matter home in a very forcible way : but that  is all : another form of speaking will oflen do  equally well : for instance, " Plato who is a  philosopher is deserving of respect." Whether  the truth is stated in this way, or in the for-  mer way, or in any other way, the extract-  ing of a middle and extremes out of the ex*  pression, and demonstrating that these agree  or disagree, is, we repeat it, a puerile addition  to the process that has previously taken place.  Again, with regard to the other example at  the beginning of the section: — Our hearer  knows, (suppose him to be a juryman,) either  of his own knowledge, or by the definition  laid down by the judge, that   ^^ Maliciously killing a man is murder.''^   This is the datum, or major. He receives in  charge, i. e. he is informed that A. B. killed a  man maliciously, which is tantamount to  saying that   " What A. B. did, is killing a man maliciously.*"   o 2     196 ON RHETORIC. [CHAP. Ill,   This information is to be the argument or  minor by which the conclusion is to be esta-  blished; but the juryman must be made sure  of its truth, — he must know it, — before he  can receive it in this capacity : — well, he is  made sure of its truth : — must he then go to  Aristotle, and be taught to compare the  middle with the extremes, in order to pro-  nounce his verdict that   " What A. B. did, is murder:''   that is, he is guilty of murder? Will he be  MORE satisfied with his own verdict, if he is  able to do so ? Common sense pronounces,  no. Let us, then, for ever have done with  the Aristotelian Syllogism ; admitting, how-  ever, in favour of the form of expression, that  to express (i.) the datum, — (ii.) the inform-  ation which, because it is addressed to the da-  tum, is an argument,— and (iii.) the conclusion  from them — in three distinct propositions, is a  very forcible way of stating a truth which we  have reason to believe our hearer is prepared to admit the moment it is so stated. But  the syllogism thus detached from the artifice  of comparing a middle with extremes, is only  one among the innumerable ways of express-  ing a truth, which the custom of language  permits, and is no more the invention of  Aristotle in particular, than any of those  other forms that might be used instead  of it *.   7. This brief notice of the syllogism in  addition to what was advanced in the last  chapter, occurs by the way : — ^the point we  had in hand, was, to show that in convincing  others by means of words, we adapt our words  to what they already know. And this must  be evident from what has preceded. For we  previously proved, that, in order to inform,   * Our observations on the syllogism are not meant  to call in question the intellectual capacity of the in-  ventor. For what we conceive to be a just estimate  of his merits, we refer to Dugald Stewart'^s Second  Vol. of the Philos. of the Human Mind, Chap. III.  Sect. 3., near the middle of the section.     we adapt our words to what our hearers al-  ready know ; and we have just shown that the  process of convincing them, is a process in  which we address some information to a pre-  existing notion. Let us now see how this  doctrine tallies with the terras of art which  are already in recognised use ; and, as occa-  sion may offer, let us inquire if there be any  difference, and what, between conviction and  persuasion.   8. That every argument used to influence  others, is considered to derive its efficacy  from some pre-existing notion, opinion, or rul-  ing motive, whether permanent or transitory,  in the hearer, is evident from the following  and similar expressions : argumentum ad Judi-  cium, by which we signify that our inform-  ation is addressed to such general principles of  judgment as mankind at large are guided by :  argumentum ad hominem, by which we imply  that we address those peculiar principles by  which the individual man is actuated. Again ;  argumentum ad vtrvcundiam, argumentum ad ignorantiam, argumentum ad Jidem, argumcn-  tum ad passiones, all imply arguments (infoim-  ation) addressed to some partial motives of  judgment and action ; and in all these, the  conclusion arising out of the reasoning has  the same validity, as far as regards the mere  act of reasoning : it is the difference of the  data that makes it of very different value. A  conclusion from an argument addressed to  principles which all men recognise, is obvious-  ly a conclusion of universal force; but one  which arises from an argument addressed to  peculiar principles, can of course be convinc-  ing only to such as admit those principles.  So likewise a conclusion which arises from the  reverence entertained for the author of the  principles professed ; — or which follows in the  hearer's mind from his limited notions, and  would not follow if he were better inlorra-  ed ;— or which follows because of his faith,  and would not follow, if he had not that  iaith J— or because his passions are previously  disposed, and would not follow, if they were otherwise disposed: — in these and in similar  cases, the argument is valid, and therefore ef-  fective with respect to the minds for which it  is adapted, but addressed to other and more  general motives or knowledge, it may be no  argument at all *. Here, then, we may  perhaps see how the difference arises between  conviction and persuasion ; — mere persuasion  is conviction as far as it goes ; but it is con-  viction arising out of partial data : the person  persuaded is conscious that the reasoning  process itself is right, but he suspects —  perhaps more than suspects — tliat the data  which he has permitted his inclinations to lay   • Hence, what is Rhetoric at one tune and to one  set of auditors, may be none whatever at another time.  Who has not admired tlie Rhetoric of Marc Antony,  (the Hpeecb over Ciesar's body,) in Shakspeare's play  of Jnhua Caesar ? But why do we admire it F Is it  such Rhetoric as would persuade all people under the  circumstances supposed ? No. But it is just such  Rhetoiic as was fitted for the multitude under those  circumstances; and we admire the dramatist who so  completely suits the oration to the art of the speaker,  und the minds of those whom be has to operate upon.      down, are wrong: he perceives another con-  clusion from other and less suspicious data,  though he has not resolution enough to em-  brace it : so that the case we referred to in  the last chapter* as being so common in life,  Video meliora proboque^ deteriora sequor,  amounts to this, — that we are divided between  two conclusions, the one drawn from data  which we know to have the sanction of uni-  versal consent, the other from data supplied  by private motives. Thus, when Macbeth is  bunging in doubt between the suggestions of  duty and ambition t, the conclusion from each  source is reasonably drawn : but he is not  ignorant of the different value of the respec-  tive sources. He has nearly determined in  favour of the conclusion drawn from duty,  when his wife enters, who, by addressing con-  siderations (information, arguments,) to his  known sentiments of greatness and courageous   * Chap. II. Sect. 2+.   f Shakspcare's Macbetb, Act I. Scene 7-     daring, persuades him to murder Duncan and  seize the crown.   9. So much for the terms of art by which  we signify the quaUty of the arguments we  use, as depending on the known motives, or  information, or disposition, of the persons  addressed : which terms suit our theory so  well, that they seem to be invented for it.  Nest, for the terms by which the arguments  themselves are technically distinguished.  First, we have a distinction of them into Ex-  ternal and Internal. Now, according to our  theory, every argument consists of some in-  formation which we communicate to the per-  son reasoned with : — but this information  may be something that he could not possibly  have discovered by any consideration of the  subject itself J or it may be something that he  might have so discovered ; in which latter  case, our information will amount to nothing  more than making him aware of what he had  overlooked. The former, then, will be an ex-      temal argument or proof; the latter, an in-  temal argument. Of the former, the evidence  in a court of justice is an example ; as are al-  so proofs from history and other writings, and  irom the testimony of the senses. Of the lat-  ter kind, are all arguments from what are call-  ed the topica or loci communes : — for instance,  from the definition or conditions of a thing j  as when certain lines are inferred to be equal  to each other from their nature or conditions  as being radii of the same circle : — from  enumeration ; as when we prove that a whole  nation hates a man, by enumerating the  several ranks in it, who all do so : — from nota~  tion or etymology ; as when we infer that Lo-  gic has reference to the use of words in  reasoning, from its connexion with the Greek  Xt'yw I speak, and \6yoi a word :— from genus f  as when we prove that Plato is deserving of   respect, by showing that he is one of a getius  or kind that is deserving of respect : — from  species ; as when we infer the excellence of ^  virtue in general from that which we observe      eo*      [chap. lit.     in some particular act of virtue : — anil so like-  wise of the same kind, namely internal, are  aiguments from the other well known topics ;  (not to prolong the instances, which are easily  imagined ;) from cause, whether efficient, JiJial,  Jbrmal, or material; from adjuncts, antecedents,  consequences, contraries, opposiles, similitudeSy  dissimilitudes, things greater, less, or equal:  &c. The deriving of arguments from these  internal topics*, is nothing more, on the part  of the speaker, than turning a subject into  every point of view that may suggest a some-  thing relating to it, overlooked perhaps by  the hearer, and which, by being brought to  his notice, and addressed to his pre-existing  notions, may prove, or render probable, the  proposition in hand ; and according to the de-  gree of force which the argument carries, it is   • The reader needs not be reminded how largely  this subject of topics, (or places for finding the internal  or artiiicial proofs in contradiGtinction to the external or  artificial,) ia treated by the ancients : for instance, by  Aristotle, by Cicero, (vide the book called Topu-a,)  and by Quinctilian.     deemed an instrument of conviction or of  persuasion. An argument from defimlion ; — -  (for instance from the conditions of a problem  or theorem j as where lines are required to he  drawn which are to be radii of the same cir-  cle J ) which argument is addressed to a notion  assumed among the general conditions of the I  reasoning ; (for instance, that " a circle is suct]^ ]  a figure that all lines, (called radii,) drawn, j  from a certain point within it to the circum-  ference are equal " ;) — an argument so derived  and so addressed, is demonstrative of the pro-  position which it is brought to prove : (e. g^  that the lines are equal.) An argument froni[1  enumeration, — (for instance, from a statement 1  of the several ranks that are found in a n&- ]  tion,) addressed to a notion that the parta J  enumerated are all the parts, (for instance^ j  that the several ranks of people that hate A. j  B. comprise the whole nation,) is also de-  monstrative with respect to that notion ; but  if the enumeration should not comprehend all  the parts in the hearer's notion of the whole, or if the hearer should doubt whether his own  notion is sufficiently comprehensive, no ab-  solute conviction takes place. Still, the enu-  meration may induce belief, and will in such  case be said to persuade, though not to con-  vince. The same might be shown of the ar-  guments derived from all the other topics.  Entire conviction would follow from any of  them, if the hearer were fully satisfied both of  the truth of what is offered in the way of ar-  gument, and of the correctness of his own no-  tion to which the argument is addressed : but  greater or less degrees of doubt may accom-  pany each of these, and greater or less de-  grees of doubt will therefore attach to the  conclusions which flow from them. We may  moreover observe, that the truths a speaker  has in view, do not always stand in need of  demonstration : they are perhaps admitted al-  ready, but it may be that they do not suffici-  ently influence the hearer's sensibilities. The  object of an argument will then be, to awaken  those sensibilities, and with this effect its purpose wiU stop : as, for instance, when in or-  der to awaken sensibility to the frail nature  of man's existence, (not to demonstrate it,)  the speaker draws his argument from simili-  tude :   Ah ! few and full of sorrows are the days  Of mieerable man ! his life decays  Like that fair flower that with the sun's uprise  Its bud unfolds, and with the evening dies.   Here, the argument is obviously meant for  persuasion. There may, at the same time, be  an ultimate truth in view, which the speaker  designs to enforce when he has prepared the  mind for receiving it; and he will then employ  arguments of a different kind, and address  them to notions of universal dominion. — But  with regard to any of the arguments which,  in this brief review we have glanced at —  whether external or internal, whether demon-  strative, or only inducing belief, whether de-  signed to convince, or fitted but to per-  suade, — the process accords with the theory  assumed: — the speaker adapts words to knowledge the hearers have already attained, or  to feeliugs they have already experienced, in  order to conduct them to some discovery he  wishes them to make, or to some unexperienc-  ed train of thought conducive to such dis-  covery.   10. The assumption of this as the great  principle of the art, will, in the next place,  enable us to clear it from certain misdirected  charges to which it has always been liable.  The expedients which the orator employs,  the various tropes and figures of which his  discourse is made up, are apt to be looked  upon as means to dissemble and put a  gloss upon, rather than to discover his real  sentiments*. That, like all other useful   * We refer more especially to the following pas-  sage with which Locke concludes his Chapter ^^ on the  Abuse of Words ;^ being the 10th of his 3d book.  ^^ Since wit and &ncy find easier entertainment in the  world than dry truth and real knowledge, figurative  speeches and allusion in language will hardly be ad-  mitted as an imperfection or abuse of it. I confess  in discourses where we seek rather pleasure and de-     SECT. 10.] ON RHETORIC. 209   things, they ^re sometimes abused*, nobody   • E/ 3f, ort /jieyaKa jSxa\J/£(£v av b xi^f^^^°^ d^Uag  Tn roKzuTn ^uvifAEi tcHv Aoywv, touto re Jtoivov eo'ti Kara  ^ivruv Tuv ayaOav* Arist. Rhet. I. 1.     light than information and improvement, such orna-  ments as are borrowed from them can scarce pass for  faults. But yet if we would speak of things as they  are, we must allow that all the art of rhetoric, besides  order and clearness, all the artificial and figurative ap-  plication of words eloquence hath invented, are for  nothing else but to insinuate wrong ideas, move the  passions, and thereby mislead the judgment, and so  indeed are perfect cheats : and therefore however  laudable or allowable oratory may rehder them in ha-  rangues and popular addresses, they are certainly, in  all discourses that pretend to inform or instruct, wholly  to be avoided ; and where truth and knowledge are con-  cerned, cannot but be thought a great fault either of  the language or the person that makes use of them.  What, and how various they are, will be superfluous  here to notice ; the books of rhetoric which abound in  the world, will instruct those who want to be informed :  only I cannot but observe how little the preservation  and improvement of truth and knowledge is the care  and concern of mankind ; since the arts of fallacy are  endowed and preferred. It is evident how much men will deny : but to consider them by their very  nature as instruments of deception, only  proves that the objector utterly misconceives  the relation between thought and language.  These expedients are, in fact, essential parts  of the original structure of language ; and  however they may sometimes serve the pur-  poses of falsehood, they are, on most occa-  sions, indispensable to the effective communi-  cation of truth. It is only by expedients  that mind can unfold itself to mind;— lan-  guage is made up of them ; there is no such  thing as an express and direct image of  thought. Let a man's mind be penetrated   love to deceive and be deceived, since rhetoric, that  powerftil instrument of error and deceit, has its esta-  blished professors, is publicly taught, and has always  been had in great reputation : and I doubt not but  it will be thought great boldness, if not brutality in me,  to have said thus much against it. Eloquence, like  the fair sex, has too prevailing beauties in it, to suf-  fer itself ever to be spoken against. And it is in vain  to find fault with those arts of deceiving, wherein men  find pleasure to be deceived.'*'  with the clearest truth — let him burn to com-  luunicate the blessing to others ; — ^yet can he,  in no way, at once lay bare, nor can their  minds at once receive, the truth as he is con-  scious of it. He therefore makes use of ex-  pedients : — he conceals, perhaps, his final pur-  pose ; for the mind which is to be informed,  may not yet be ripe for it :— ^he has recourse  to every form of comparison, (allegory, simile,  metaphor*,) by which he may awaken pre-  disposing associations : — he changes one name  for another, (metonymy,) connected with  more agreeable, or more favourable associa-  tions : — he pretends to conceal what in fact  he declares ; — (apophasis ; — ) to pass by what   * In referring to these and other figures of speech,  it is impossible not to be reminded of Butler'^s distich,  that   All a rhetorician'^s rules   Teach nothing but to name his tools.   The fact is as the satirist states it. But then it is  something to a workman to have a name for his tools ;  for this implies that he can find them handily. — May  we add to our remark, that the world is scarcely yet in truth he reveals ; — (paraleipsis) he interrogates when he wants no answer ;— (ero-  tesis ; — ) exclaims, when to himself there can  be no sudden surprise;— (ecphonesis) he  corrects an expression he designedly uttered ;  — (epanorthosis) he exaggerates ;— (hyperbole) he gathers a number of particu-  lars into one heap; — (synathroesmus) he  ascends step by step to his strongest position ;  — (climax ) he uses terms of praise in a  sense quite opposite to their meaning ; — (ironia) he personifies that which has no life,  perhaps no sensible existence ; — (prosopopoeia) he imagines he sees what is not actually present ;— (hypotyposis) he calls upon aware how much it owes to such men as Butler, Moliere,  Shakspeare, Pppe ;r-^men who joined to other rich gifts  of intellect, that of plain sound sense, which enabled  them at once to see, in their true light, the vanities and  absurdities of (misqalled) learningp But for the histo-  rian of Martinus Scriblerus, his predecessors and suc-  cessors, the world might still be under the dominion of  a set of solemn coxcombs, whose whole merit consisted  in making small matters seem big ones, and themselves  to appear wiser than their neighbours.   the living and the dead ; — (apostrophe) all  these, and many more than these, are the ar-  tifices which the orator* employs ; but they  are artifices which belong essentially to lan-  guage ; nor are there other means, taking  them in their kind and not individually, by  which men can be effectually informedy or  perstuidedj or convinced. Could the prophet  at once have made the royal seducer of  Uriah's wife fully conscious of the sin he had  committed, he would not have approached  him with a parable t : that parable was the  means of opening his heart and understanding  to the true nature of his crime ; and it is a  proper instance of the principle on which all  eloquence proceeds. It is true, we do not   * We trust the reader scarcely needs to be remind-  ed, that the word Orator isused throughout this treatise,  in the comprehensive sense which includes all who  wield the implements of Eloquence. In modem times,  the influential orator is read not heard ; or if heard,  his hearers are few in number compared with his  readers.   t 2 Sam. 12.     now make use of parables fully drawn out ;  but all metaphorical expressions, all compa-  risons direct or indirect, are to the same pur-  pose ; namely, that of bringing the mind of  the hearer into a state or temper fitted for the  apprehension of truth. Nor, (we repeat,)  must it be thought that the means referred  to, (excepting some instances in bad taste,)  are ornaments superinduced on the plain mat-  ter of language, and capable of being detached  from it : they are the original texture of Ian-  guage, and that from which whatever is now  plain at first arose. All words are originally  tropes ; that is, expressions turned (for such is  the meaning of trope) from their first pur-  pose, and extended to others. Thus, when a  particular name is enlarged to a general one,  as our theory shows to have happened with  all words now general, the change in the first  instance was a trope. A trope ceases how-  ever to be one, when a word is fixed and re-  membered only in its acquired meaning ; and  in this way it is that all plain expressions have originated. In a mature language, a speaker  or writer may, therefore, if he pleases, avoid  figurative expressions. But the same neces-  sity, the same strong feelings, which originally  gave birth to language, will still produce new  figures, or lead the speaker to prefer those  already in use to plain expressions, if, by  the former, he can touch the chords, or awaken  the associations, that are linked with the truths  iie seeks to establish.  Our theory of language, and consequent theory of Rhetoric, will, in the next  place, no longer leave us to wonder at an ef-  fect, which Dr. Campbell has laboured to  account for with much ingenuity; namely,  that nonsense so often escapes being detect-  ed both by the writer and the reader*. For  according to our theory, words have a sepa-  rate and a connected meaning, each of which  is distinct from the other. Now, suppose a  succession of words to have no connected     Chap. VII.      See Philosophy of Rhetoric, Vol. II. Book II.      meaning, which is as much as to say, suppose  them to be nonsense ; yet, in their separate  capacity, they will nevertheless stand for  things that have been known and felt ; and  if both the speaker and the hearer shbuld be  satisfied with the vague revival of this know-  ledge and of these feelings, they will neither  of them seek for, and consequently will not  detect the absence of an ulterior purpose.  The effect which is produced by words thus  used, (or rather misused,) extends no further  than that produced by instrumental music,  and is of the same kind. For no one will  pretend that a piece of niusic expresses, or can  express, independently of words, a series of ra-  tional propositions ; yet it awakens some sen-  timents or feelings of a suflSciently definite cha-  racter to occupy the mind agreeably. Now  perhaps it is not an unwarrantable libel on  one half of the reading world, if we affirm,  that they read poetry and other amusing  composition for no further end, and with no  further effect, than the pleasure of such vague    Sentiments or feelings as spring from music :  and to such readers it is of little moment  whether the words make sense or not. Ac-  cordingly, when composition like the follow-  ing is put before them^ which presents striking  though incongruous notions, in words gram-  matically united, agreeably jingled, and having  a connexion, probably, with certain sensitive  associations, they are liable to read on, not  only without feeling their taste shocked, but  perhaps with some pleasure.   Hark ! I hear the strain erratic  Dimly glance from pole to pole ;   Raptures sweet and dreams ecstatic,  Fire my everlasting soul.   Where is Cupid's crimson motion,   Billowy ecstasy of wo ?  Bear me straight, meandering ocean,   Where the stagnant torrents flow.   Blood in every vein is gushing,  Vixen vengeance lulls my heart ;   See, the Gorgon gang is rushing !  Never, never let us part *.   * " Rejected Addresses ;^ the particular example     Nor is it in (pretended) poetry alone, that the  eflFect here alluded to tahes place. Bring to-  gether the rabble of a political party, and  place before them a favourite haranguer: — it  13 not by any means necessary that he should  make a speech which they understand, or even  himself: he has only to string, in plausible  order, the accustomed slang words of the  party, and to utter them with the usual fer-  vour ; the wonted huzzas will follow as a  matter of course, and fill each pause that the  speaker's art or necessity prescribes. And  BO likewise in an assembly of a different de-  scription, — the piously disposed congregation     above being in ridicule of Rosa Matilda's style. See  also Pope's " Song by a Person of Quality." The  reader whose taste is gratified by such composition as  is here caricatured, stands at the other extreme from  that mathematical reader, who returned Thomson's  Seasons to the lender with an expression of disgust,  that he had not been able to find a single thing proved  from the beginning to the end of the book. The  reader for whom the genuine poet writes, is equally  removed from each extreme.  of a conventicle : the good man whom they  are accustomed to hear has but to put to-  gether the words of familiar sound and evan-  gelical association — grace, and spirit, and  new light, regeneration and sanctification,  edification and glorification ; an inward call,  a wrestling with Satan, experience, new birth,  and the glory of the elect ; interweaving the  whole with unceasing repetitions of the sa-  cred name, accompanied by varied epithets of,  blessed, holy, and divine : and with no further  assistance than the appropriated tone and  frequent upturned eye, he will throw them  into a holy transport, and dismiss them, as  they will declare, comforted and edified.  This effect, which is apt to be attributed to  hypocrisy because the ordinary notions of  language suggest no cause for it, our theory  explains with no heavy scandal to the parties.   12. Concerning the elements of Rhetoric  ranged under the divisions of Invention and  Elocution, we have now made what remarks our object required. There yet remains one  division, namely, Pronunciation *; which will,  however, scarcely furnish occasion for extend-  ing our observations ; since our theory is not  in any peculiar manner concerned with it.  As we started with the Rhetoric of nature,  namely, tone, looks, and gesture, so we are at   * Disposition and Memory are in general adde4  to these three. " Omnis oratoris vis ac facnltas,'*^  says Cicero, ^^ in quinque partes est distributa ; ut  deberet reperire primum, quid diceret; deinde in-  venta non solum ordire, sed etiam momento quodam  atque judicio dispensare atque componere ; tiun ea de-  nique vestire, atque omare oratione ; post, memoria  sepire; ad extremum, agere cum dignitate et venustate.^  De Orat. 1. 31. As to two of these divisions, we have  no occasion to notice them, because there is nothing  in our theory of language which requires them to be  viewed in a new or peculiar light : — We may take oc-  casion to observe, before' concluding the note, that the  modem use of the term Elocution, assigns it to sig-  nify what the ancients denoted by Pronunciation or  Action : and Dr. Whately sanctions this modem sense  by adopting it in his Rhetoric. We have used it  in the foregoing page in the ancient sense : ^^ quam  Graeci f^aa-iv vocant,^ says Quinctilian, ^^ Latine  dicimus Elocutionem.'*'* Ins. viii. 1.    once ready to admit that these may, and  ought to accompany the language of art ; —  that they ought not to be absent even from  the recollection of him who writes, lest  his style be deficient in vivacity. In union  with these parts of Pronunciation, is that ele-  ment of artificial oral speech called Empha-  sis ; and it will be to our purpose to observe,  how very inadequate are the common notions  of language to account for the actual practice  of emphasis, as it may be observed in English  speech. The common view of words that  make up a sentence, is, that they respectively  correspond to ideas that make up the thought :  and therefore, in a written sentence, if we  would know the emphatic word, we are de-  sired to consider which word expresses the  most important idea*. Thus, when Dr.   * To this end some teacher of elocution (elocution  in the modem sense) somewhere says : ^^ If, in every  assemblage of objects, some appear more worthy of no-  tice than others ; if, in every assemblage of ideas,  which arc pictures of those objects, the same difference  Johnson was asked how we ought to pro-  nounce the commandment, ** Thou shalt not  bear false witness against thy neighbour/* he  gave as his opinion that not should have the  emphasis, because it seemed the most im-  portant word to the whole sense. But Garrick  influenced by no assumed theory, pronounced  according to the practice of English speech,  ** Thou shalt-not bear," * &c. There is in fact  no other rule than custom in English speech  for the accenting of words in a sentence, any  more than there is for accenting syllables in a  word. A peculiar or referential meaning  may indeed disturb the usual accent of a   prevail, — it consequently must follow, that in every  assemblage of words, which are pictures of these ideas,  there must be some that claim the distinction called  emphasis.^ All this ingenious parallel, with Aristotle^s  authority to back it, we affirm to be purely visionary,  and we hope the reader by this time thinks as^ we do.  Yet is the passage in entire accordance with the no-  tions of language that commonly — nay, it should  seem, universally prevail.   * The story is somewhere related by BoswelL  word : for instance, the common accent of  the word for^ve, will be displaced if the  word is pronounced referentially to a word  that has a syllable in common ; as in saying  to give and loj'drgive. And just so will it be  in a sentence which is pronounced refer-  entially to an antecedent or a subsequent  sentence, either expressed or understood :  which would be the case, if we pronounced tie  ninth commandment in contradiction to one  who had said "Thou shaltbear false witness,"  &C., for then we should accent it in Johnson's  way, and say " Thou shalt n6t bear," &c.  Now this is what is properly called emphasis,  namely, some peculiar way of accenting a  sentence in order to give it a referential mean-  ing. A sentence pronounced to have a plain  meaning has its customary accents, but no  emphasis. The commonest example will be  the best ; and therefore we will quote one  that may be found in every book in which  emphasis is treated of: "Do you ride to town to-day?" If this is pronounced without allusive meaning, ride, town, and day,  are equally accented by the custom of the  language, and there Is no emphasis properly  so called : which, by the way, is a pronunciation of the sentence that teachers of read-  ing, in their search after its possible oblique  meanings, forget to tell us of. Suppose we  give an emphasis to ride, then lide-to-toivn-to  day will be allusive to ■wdlk-to-town-to-day, as  we might accent the word intrinsical in the  mauner marked with a reference to the word  Extrinsical, although the plain accentuation is  intrinsical. So again to-loTvn-lo-day is allusive  to the-country-to-day, and to-town-to-ddy is al-  lusive to to-town-to-m6rrow ; as the word  powerless might be accented on the last syl-  lable with a view to poweiiful. That the ac-  tual practice of emphasis corresponds with  this account, the reader may satisfy himself  by observing the conversation of the well-  bred, — not their reading, for that is oflen  conducted on mistaken principles : — and we  scarcely need point out how completely this practice accords with our theory of language.  For with us, a sentence is a word, not more  resolvabie into parts that constitute its whole  meaning, than a word made up of syllables ;  and as with regard to a word of the latter de-  scription, the accent is determined to one syl-  lable by custom, but is disturbed and placed  on another syllable in making allusion to  another word having syllables in common ;  so with regard to a sentence (word) made up  of words, the accents are likewise determined  to certain words that usually bear Ihem, but  these accents are disturbed and placed on  other words in making allusion to a meaning  which has, orwhich, if expressed, would have,  words in common. And here, with this new  kind of proof in favour of our theory, and  with the last subject usually treated of in  Rhetoric, we might stop the hand that has  traced this OutHne. But there remain a few  remarks that could not be introduced earlier,  for which the patience of the reader is en-  treated a little longer. We may take the liberty in the first  place to observe, that, with regard to the  materials of Sematology which have been con-  sidered, our theory leaves them what they  were : it pretends only to show the true basis  on which they stand, and that the learned  distribution of them, is not that which accords  with the actual practice of mankind. Suppose  then, (if we may suppose so much,) that our  Grammars, our Books of Logic, and our In-  stitutes of Rhetoric, are to be altered in con-  formity with the views which have been  opened, the changes will not affect the detail,  but the general preliminary doctrine, and the  subsequent arrangement. As to doctrine,  the changes will mostly consist of omissions.  In Grammar, if we omit the common de-  finitions of the parts of speech *, and allow   * God help the poor children that are set to learn  these, and other of the definitions in elementary  grammars, particularly English grammars; for the  Latin ones are a little more sensible. That jumble of  a grammar that has the name of a Lindley Mturay in  the title page, after defining a verb to be ^^ a wend     the tyro to learn what they are by the parsing  of sentences — that is, to ascend from par-   ihat Bignifiea to be, to do, or to suffer," {as if no other  part of speech signified to be, to do, or to suffer,) —  after saying what is true enough, but cannot be under-  stood by a child till he has practically discovered it,  that " common names stand for kinds containing many  sorts, or for sorts containing many individuals under  them;" — with many like things, picked up from  Lowth and others, equally fitted for the instruction of  young minds; condescends to give a few plain di-  rections for knowing the parts of speech, such as the  tyro is likely to understand: but the author, as if  ashamed of having been intelligible, remarks that  " the observations wliich have been made to aid  learners in distinguishing the parts of speech from one  another, may afford them some small assistance ; but  it will certainly be mucli more instructive to distinguish  them by the definitions, and an accurate knowledge of  their nature" Now the observations referred to, are,  in fact, the only passages calculated to give a just un-  derstanding of the parts of speech ; the definitions  wliich the writer enhances, being founded in an es-  sentially wrong notion of the nature of grammar. It  is speaking to the purpose to tell the tyro that " a  substantive may be distinguished by its taking an  article before it, or by its making sense of itself;"^ that,  " an adjective may be known by its making sense with  ticulars to generals instead of descending  from generals to particulars, — there la nothing   the wortl thing, or any particular Gubstantive ;" that,  " a verb may be diBtinguishcd by its making sense  with any of the personal pronoiuiB ;" that, " a preposi-  tion may be known by its admitting after it a personal  pronoun in the objective case ;" and so forth. These  are not only plain directions for the purpose professed,  but they suggest the real differences among the parts  of speech; and if the compiler had condescended  throughout his book (or books, for there are appen-  dages) to adapt his explanations, in the same manner,  to the minds of those who were to be taught, he would  have avoided the errors of doctrine which he always  runs into when be attempts to give, what as the author  of an elementary grammar he has never any buaiiiesa  to give, namely a philosophical or general principle.  Moreover, in the arrangement of his materials, he  seems incapable of, ot at least is inattentive to, the  clearest and most necessary distinctions. Thus, (to  take at random two examples from liis book of ex-  ercises,) he gives the following as instances of bad  grammar : " Ambition is so insatiable, that it will  make any sacrifices to attain its objects." (12mo. edit,  p. 128.) " When so good a man as Socrates fell a  victim to the madness of the people, truth, virtue, re-  ligion, fell with him." (Ibid 116.) The former of  these sentences exemplifies the Logical fault, non-   in what remains that can be objected to : the  declining of nouns, the conjugatiiig of verbs,   scquitur, and the latter will advantageouBly receive  the Rheimcal ornament polysyndeton : but to give  them as instanccB of defective Grammar, b to blind  the learner to the nature of the art he is studying. —  The grammatical works wc are referring to, seem,  from the number of editions they have gone through,  to be in very general iise, or we should not have  deemed them worth so long a note. \Ve pass to a  remark on another grammatical work of very different  character and value, the Greek grammar of Matthise.  This work has justly won the approbation of the  learned throughout the world; but we conceive the  praise belongs to its elaborate detail, and not to such  principles as the following. " Every proposition, even  the simplest, must contain two principal ideas, namely  that of the Subject a thing or person, of which any  thing is asserted in the proposition, and that of the  I'redicate, that which is asserted of that person or  thing." (Matth. Gr. § 293.) To state our objections  to tliis passage is difficult, because we do not know how  the author or translator may define a propositic»i, or  what they may mean by the principal ideas in it.  Perhaps they may consider no expression a proposition  which does not consist of a subject and predicate. Wc  deny that, from the nature of the thought, any commu*  nication requires these grammatical parts, {they are     A    and the other business of the grammar-scliool,  we deem, as it has always been deemed, in-  dispensable. In Logic, if we omit ail that is  taught concerning ideas independently of  words ; if we omit what ia taught concerning  the two operations of the mind, Perception  and Judgment distinct from Reasoning, not  because those operations do not take place,  but because every single abstract word fully  understood, (and Logic begins with words,)  expresses a conclusion from a rational process  as efTectually as a syllogism ; and if we further  omit (and the omission is important) whatever  is peculiar to Aristotelian Logic ; — all that  remains will, on the principles we have had  before us, be essentially useful to the learner ;  namely, the precepts for accurate definition ;  the precepts against the assumption of un-  warranted premises j the precepts for guarding  against the false conclusions to which we are     merely g^rammalical,) though the necessities of lan-  guage in general prescribe them. See Chap. I. SecL  25. ; about the middle of the Section.    liable when we reason tvith words, and not  merely by means of words; the precepts for  guarding against being led away by true con-  clusions, when there may be conclusions like-  wise true and more important from other  data ; which data, with their conclusions, are,  kept out of sight by the art of the speaker, or .  the blindness of the inquirer*. In Rhetoric,  there is less to be omitted than in the other  branches ; but in this department, the general  views we have opened are important, because  they exhibit the art in connexion with a great  and worthy end; an end which, it should seem>  has not always been thought essential to it.     * We mean to say, that the7na(e)'taZsof acomplete  budy of ioEtructioD ia Logic already exist in Literature ;  but tliey esisE not in any one system. They are more-  over BO mingled with what is erroneous hi doctrine, that  the good is difficult to reach, without imbibing a great  many wrong notions that frustrate the practical benefit  How can it be otherwise, if what we have endeavoured  to prove, is true, that the principle of the Logic which  all men use and all men operate witli, has never yet  been cxpIaiRvd ?     For as Rhetoric is an instrumental art, we  are told that it ought to be considered ab-  stractedly from the ends which the speaker  or writer may propose in using it j and  Quinctilian who insists that the Orator, (that  is, of course, the consummate orator,) must be  a virtuous man, lias been classed with those  whom atraihevffla, and aXai^ovela have betrayed  ioto a wrong estimate of the art*. As we  think the good old Roman schoolmaster is  not quite beside the mark in his notion on  this point, we propose to inquire wliether  the placing of Rhetoric on the basis we have  ascertained, does not lead to the position he  so stoutly maintains. Now, the immediate  basis of Rhetoric is Logic ; and our remarks  will therefore begin with the latter.   14. Logic as well as Rhetoric is an in-  strumental art ; but if our definition is correct,  it is an instrument for the discovery of truth,  and it is then only perfect as an instrument  when it is completely adapted to that end.  • See Whately's Rhetoric. A great and worthy end is therefore essential  to Logic ; and a correspondent effect will  appear in those who have made a skilful use  of it. But the Logic we speak of, is that  which is applied to things, namely to Physicot  and Practica *; that is to say, which is em-  ployed to ascertain the constitution of the  world in which we Uve, and of ourselves who  live in it, and thence to deduce what we  ought to do: — but the examination of the  world, and of ourselves, and of our duties, is  the examination of particulars ; and our Logic  has recourse to universals for no other purpose  than to understand particulars the better. If  there is a Logic, which, resting in universals,  confers the power of talking learnedly and  wisely, yet leaves a man to act the part of an  Ignoramus and a fool in the commonest  concerns of life, this is not the Logic we have  had in view. There is indeed a learned ig-  norance, aa there is an ignorance from want  of learning ; there is also an ignorance from natural incapacity, and an ignorance from  superinduced insanity ; by any one of wliich  tbe mind may be prevented from reaching  truth. Not that in any case whatever the  reasoning process is wrong ; but if the  reasoning proceeds on wrong or insufficient  premises, which it will in any of these cases,  the conclusion will of course be wrong. Some  one has said that " the difference between a  madman and a fool is, that the former reasons  justly from false data, and the latter erro-  neously from just data." This is incorrectly  said : — the idiot who walks into the water  because he knows no better, is incapable of  the just datum, and therefore cannot be said  to reason from it : if he knew the datum,  namely that the water would drown him, he  would not walk into it ; but he does not  know this, and therefore he walks into it : in  doing which, he reasons, so far as his know-  ledge goes, as justly as the madman, who  walks into it because his disturbed fancy  makes him take it for a garden. Wlien the     SECT. 14.] ON RHETORIC. 235   road to truth is blocked up by either of these  two causes, namely irabeciUty or insanity.  Logic can do nothing ; but ignorance whether  from wrong learning or from want of learning,  is to be removed by the appUcation of ge-  nuine Logic to P/it/ska and Praclica. Still,  independently of tlie toil to be encountered,  there are obstructions and delusions which  are liable to turn the most ardent inquirer out  of the path. There may not be natural im-  becility, nor permanent insanity ; yet there  may be an habitual incapacity of judgment  from the influence of prejudice, and aa  occasional insanity of judgment from the in-  fluence of passion. But among other things  we learn in Pki/sica, these facts are to be  reckoned ; and the precepts which warn us of  them, are among the most important of those  which belong to Praclica. In the mean  time, that we may be induced to persevere in  the search after truth, till our real interests  become so plain that we cannot but embrace  them, we are not permitted to feel at ease   under the mists which passion and prejudice  create. The fool and the madman to whom  mists are reaUties, are satisfied in their judg-  ments; but it is not so with those who see  dimly through the fog, and suspect there may  be better paths than those they are pursuing.  This suspicion, as light breaks in, may at last  become conviction, strong enough to subdue  even the habit or inclination by which a  wrong path is made easy, and a departure  from it difficult. True, indeed, such over-  powering conviction may not reacii the ma-  jority of mankind at present: they may be  compelled, as heretofore, to wear out life in  struggles between right and wrong, between  inclination and duty, between future good  and present solicitation : but are we forbidden  to hope, for future generations, a gradual  alleviation of so painful a conflict, in propor-  tion as what is good and what is evil shall be  made plainer to the eye of reason • P At least   > * All vice is ignorance or habit. Who would not  take the best way of being happy, if he knew it — that may we affirm, that all learniag has, or ought  to have, this consummation in view.   is, knev it to conviction — and his habits did not prevent  him ? But he may discover the best way when hia  bahitE are fixed; as a miEerable dnmkard, who drinks  on to escape from utter dcepair, sees with bitter regrel  the happiness of a sober life. With a common notion  of learning and ignorance, an objector will demur to  our statement ; but such an objectot should be told,  that a man may have run the circle of the sciences aa  they are commonly taught, and yet remain in ignorance  of what is most important to be known. This is s  truth which not only Christian teachers, but the wise  among the heathen inculcate. In that admirable relic  of Socratic philosophy, £;EBHT02 niNAH, there  are, among the personifications, two that bear the  names of naiitia and "Htuimaihla, (Learning and  Counterfeit-learning,) by the latter of which is ligured  all that, independently of the knowledge which makes I  men permanently happy, passes under the name of I  learning. Now, in that knowledge which alone ia |  valuable, a man cannot be called learned, whose coik  viction is not strong enough to determine his practice.  The thirsty wight Tiho, in a state of profuse perspira*  tion, calls for a glass of iced-water, may know there is  danger in the draught : but if his knowledge is not  strong enough to prevent the act, what is its value ?—  at the moment, it is even worse than useless ; since   Such then is the aim and scope of Lo-  gic in relation to Physica and Pracika : it is   may be sufficient to disquiet the luxury of the draught,  though not sufficient to subdue the desire for it.  When Macbeth, (for the case is not dissimilar,)  resolves to gratify his ambition, he is not ignorant of  the danger he runs, and the secure happiness he leaves  behind him ; but he is so far ignorant as to prefer the  phantom of happiness to the reality. Yet he is not so  ignorant as his wife, and he reaps, in consequence, less  immediate gratification. Having once held the balance,  with some impartiality, between right and wrong, he is  incapable, even for a moment, of being a triumphant  villain. The crooked-baek Richard, (for having begun  our examples with Shakspeare, we will continue with  him,) is not so distracted by divided data. " Securely  privileged," says Mr. Foster, " from all interference of  doubt that can linger, or hiunanity that can soften, or  timidity that can shrink, he advances with a grim con-  centrated constancy through scene after scene of  atrocity, still fiilfilling his vow to ' cut his way through  with a bloody ase.' He does not waver while he  pursues his object, nor relent when he seizes it."  (Essays on Decision of Character, &c.) Yet both he  and Macbeth's wife at length get nervous in their  sleep : for so it is, that if one scruple of conscience lurk  in the soul, it will produce its effect sooner or later;  and tliat effect will begin when the bodily powers are  the means of discovering truth in botli these  departments. Now we assume, that the pro-  weakest; and as body and mind have a mutual in-  fluence, the former -will sicken and perpetuate the  horrors of the latter, unless, as with Richard, a violent  death intervene. The three wretches vc have thus  far referred to, have this in common, that they do not  embrace vice for its own sake, but as a means of reaching  the phantom of happiness that dances before them.  But there is a state of vice brought on by habit, in  which a man finds a pleasure in doing evil, and is in-  capable of any other pleasure. lago is our example —  a character which, it is to be feared, is by no means  out of life. Imagine a shrewd and selfish child per-  mitted from infancy to create for himself a satis-  faction in the disquietude of others — a little worrier of  defenceless creatures— a petty tyrant indulged in his  worst caprices ; — imagine such a one, as he grows up,  placed where his habits cannot be indulged but in  secret, and where those around him are such, that he  must, in his own mind, either hate them, or hate  himself: imagine all this, and lago will appear too  possible a character. Some critics have objected, that  there is no sufficient motive for the mischief he brings  on Othello, Desdemona, and Cassio. Can there be, to  Aim, a stronger motive, than that they arc noble-  minded, benevolent, and happy, and tacitly remind  him, at every instant, that he is in all respects a  per business of Rhetoric is to make truth  known when found j which assumption, if ad-  mitted, would at once establish our position ;  for to suppose a consummate orator would, in  such case, be to suppose one who is too fully  possessed of truth not to be led by it himself,  while acting as a guide to others. After ad-  mitting the assumption, it would signify little wretch? He knows and bitterly feels, tliat each  " hath a daily beauty in his life that makes him ugly-"  The only pleasure which habit has given him, in lieu  of those of which it has made him incapable, is, to  torture the beings that wound his self-love to the quick,  and to destroy the happiness he cannot partake in.  Such is the power of habit. Though the means, when  properly applied, of putting a human being in train to  become an angel, yet added to, and encouraging the  tendencies of his uninstructed nature, it will render him,  prematurely, a fiend. lago is utterly depraved — a be-  ing incapable of Paradise if placed in it — more odious  tlian Milton has been able to depict even Satan him-  self; for that majestic bdng, (the hero of the poem as  Drydeu truly says he is,) never appears " less than  arcliangel ruined. " The " demi-devil " of the dra-  matist, excels, in mental deformity, what the epic muse  has been able to conceive of " the author of all evil. "    to object the actual characters of those who  speak and write ; for they may be pretenders  in Rhetoric j or their advance in it, though  real, may be very inconsiderable toward the  perfection we are supposing. But it may be  said that the assumption begs the question,  and leaves us still to show that the office of leading men to truth is essential to Rhetoric,  in contradiction to those who view it as a mere  instrument equally fitted for the purposes of  truth and falsehood. Now, it must be con-  fessed, with regard to the means employed in  Rhetoric, that they frequently seem adapted  to the prejudices of men, — to meet rather than  to oppose their ignorance and their passions.  And if there were any way of conveying truth  at once into minds unfitted to receive it *, the     * It is a comiuoii thing to say of a person, that he  vtiU not be convinced. The fact generally stands  thus : we use arguments that convince ourselves, and  presume they are fitted to convince him, not knowing  or not observing, that all argument derives its force  &om the previous knowledge in the mind to which it  is addressed ; and that our hearer may have been so use of such means would be conclusive against  an honest purpose in the speaker. But the  instantaneous communication of truth, is, un-  der most circumstances, impossible ; and there-  fore we may next ask, what interest a writer  or speaker can have in an ultimate purpose to  deceive. The answer will be, — to serve one  or other of those partial purposes, of which  the common business of life, whether we look  into its private circles, or into the forum or  senate house, furnishes hourly examples. But  may we not describe all this as a conflict, in   educated as to render convicUon impoBsible by iuch  arguments as we offer him. Suppose, however, it be  true, that our hearer mill not be convinced, — thai is  to say, does not wish to be convinced, because his par-  ty perhaps, or his profession, or the career (be it what  it may) into which he has entered, does not agree witli  what is sought to be established : let us in candour  consider in such a case what a vantage ground we oc-  cupy, inasmuch as we see our own interest, temporal  or eterual, coupled with the proposition in view ; and  let us condescend, by the argumeittum ad homhiem,  to give him a similar advant^e, before we expect his  conviction from the argumentum ad judicium.     which each is eager to show just so much  truth as suits the present purpose, and to veil  the rest? And will not the whole of truth be  shown in this manner, as far at least as men  have discovered it, although not shown at  once ? Of these skirmishers that use the arms  ufiensive and defensive of the art, each takes  credit for a certain degree of skill j but among  them all, which is thg Orator? Is it not he  who soars above partial views and partial pur-  poses, who unites into one comprehensive  whole what others advocate in parts, who  teaches men to postpone petty for greater ad-  vantages, and to seek the welfare of the indi-  vidual in the happiness of the kind ? If, then,  the palm of eloquence is permanently his alone,  who contends for it in this manner, our chain  of argument will not want many links before  we reach the conclusion, that to undertake  the art on a valid principle, we must con-  sider its purpose to be that of leading men  to truth.   16. A Rhetoric growing out of the Logic of Aristotle *, which, as we have seen, is the  art of reasoning mlh words, and not merely  by means of words, may indeed well be sus-  pected as a specious and delusive art. Aim-  ing at plausibility alone, it gives the power of  talking largely without requiring the know-  ledge which grows up Irom experience in  particulars ; and thus we have statesmen,  who, if we listen to them, are capable of setting  the world in order, but know not how to re-  gulate their households ; we have financiers  ready to accept the control of a nation's     • Aristotle's own treatise on Rhetoric is a work  completely to its purpose ; that is to say, fitted to make  men prevailing speakers at the time in wliich he wrote,  by exhibiting comprehensively the bearings of the ques-  tions they would have to discuss, and the various kinds  of persons they would have to influence. It is indeed  remarkable how little Aristotle's other works are of a  piece with his Logic ; nor is it without some show of  reason that Dugald Stewart supposes he was aware of  its empty pretensions, and was too wise to be deceived  by it himself, though lie chose to impose it on others.  Sec Vol. II. of the Philosophy of the Human Mind,  Chap, III. Sect. 3.   wealth, that have never learaed to manage  their own estates; we have lawyers, whom  the simplest questions of right and wrong  would be sufficient to pei-ples * ; and priests  who, once a week, discourse " in good set  terms " to well dressed congregations, of vir-  tue and of vice, of this world and the next j but  who would be incapable of oifering, from their  own stores, a single argument fitted to deter  a plain thinking, ignorant man from vice, or  to stop the commission of a specific offence  by remonstrance adapted to the case. This  specious eloquence, however, like the Logic  from which it springs, has almost lost its re-  putation and influence: we now require from  speakers and writers more substantial recom-  mendations than the power of dwelling on  vague generalities ; and in proportion as   • But perhaps, with regard to lawyers, we are  requiring knowledge, which, as matters stand, would  be an incumbrance to them. A special pleader may  Bay, " what have I to do with simple right and wrong ?  My business is to see how the letter of the law can be  applied or evaded."     Mfi     genuine Logic enlarges the empire of truth,  will the necessity appear of seeking in an en-  lightened mind, and a heart kindled by active  philanthropy, for the true springs of eloquence. Thus will ambition be brought to  side with virtue} because there will be no  way of winning distinction, but by cultivating  the powers of language in subservience to  that knowledge, which gives a man the de-  sire and the faculty of beiug useful to others,  and governing himself.  To conclude ; — the theory which, in  this treatise, we have endeavoured to establiah  is this, — that we come at all our knowledge  by the use of media, which media are, chiefly,  words; and that, as the words procure the  notions, the notions exist not antecedently to  language : —that when, by these means, we  have gained knowledge, and try, by similar  means, to communicate it to others, we do  not, while the process is going on, represent  our own thoughts, but we set their minds a  thinking iu a particular train ; that our own thought 13 represented by nothing short of  the completely formed word, whose parts, if  any or all of them are separately dwelt upon,  are not parts of our thought, but signs of  knowledge which we and our hearers possess  in common, and which, by bringing their  minds into a particular attitude, enables them  to conceive our thought, when the whde  WORD that expresses it, is formed : — that i§  before this word is formed, there are parts by  which something is Communicated not known  before, yet, being communicated, it is still  but a part of the means toward knowing  something not yet communicated, and stiU,  therefore, the principle holds good, that we  are adding part to part of the whole word  which is to express something not yet communicated ; which word, even though it ex-  tend to an oration, a treatise, a poem, &c., is  as completely indivisible with respect to the  meaning conveyed by it as a whole, as is a  word which consists only of a single syllable,  or a single sound. If this doctrine truly de-  scribes the nature of the connexion between thought and language, we claim for it the  merit of a discovery, because the common  theory, that is, the theory which men are  presumed to act upon, and to which all pre-  ceptive works are adapted, — not the theory  which, unawares, they really act upon, — ex-  hibits that connexion in a very different light.  And, as a discovery, we are the more dis-  posed to urge attention to it, because our  soundest metaphysicians have expressed them-  selves as if there 'ooas something to be dis-  covered as regards the connexion we speak of,  before a system of Logic could be establisiied  on a just foundation. Locke says that when  he first began his discourse on the Under-  standing, and a good while after, he thought  that no consideration of language was at all  necessary to it. At the end of his second  book, he discovers, however, so close a con-  nexion between words and knowledge, that  he is obliged to alter his first plan ; and having  reached his concluding chapter, he speaks as  if he still felt that he had not yet ascertained  the full extent to which language is an instrument of reason. Dugald Stewart, too, from  whom, in the conclusion of our first chapter,  we quoted a passage which entirely agrees, so  far as it goes, with the views we have opened,   ' has the following remark in his last work, the  third volume of the Philosophy of the Human   ' Mind : " If a system of rational Logic should  ever be executed by a competent hand, this **  (viz. language as an instrument of thought)  '* will form the most important chapter."  Our doctrine is, that this will not merely form  the most important chapter, but that it wtU  be the only chapter strictly belonging to Jjo^ I  ^c ; and yet the theory we offer keeps deaf  of the extreme which betrayed Home Tooke,  who appears to consider reason as the result  of language. We pretend, then, to have inade  the discovery which Locke felt to be necessary,  and the nature of which Stewart more than i  conjectured j but oura is only " «?i Outline ; '*  and the system of rational Logic which the  Scotch metaphysician speaks of, yet remains to  be "executed by a competent hand:" — we  pretend but to have ascertained for it the  true foundation. — Something might be add-  ed on the importance which the subject de-  rives from the aspect of the times : for the  most careless observer cannot but remark,  how the rapid communication of knowledge  from mind to mind moulds and forms public  opinion ; and how the opinion of the many, ac-  quiring, day by day, a character and a weight  that never distinguished it before, threatens to  become the law to which not only individuals,  but governments, and eventually the common-  wealth of nations, must conform ; and hence we  might be led to urge that Philosophy cannot  be employed more opportunely, than in a new  examination of the instrument by which so  much has been, and so much more is likely  to he effected. The consideration is, how-  ever, too obvious not to have occurred to the  reader, and we therefore close our remarks.  At page 55, the assertione, that the words of a sentence, " as parts of that sentence'''', and the sentences  of a discourse, " na parts of that discourse"", are not  by themselves significant, would perhaps sound a little  less paradoxical, if, instead of each of the phrases quo-  ted, the reader were to substitute " as parts of that  completed expression ".   At page 88, supply the other parenthetical mark  after " imderstanding" in line 4.   At page 196, line 6, the question is asked, whether  the juryman must go to Aristotle, and be taught to  compare the middle with the extremes ? The reader  will observe that the example is already farced into a  form, namely that of a syllogism in barbara, which a  juryman untaught by Aristotle would probably never  think of giving it, the other way of speaking being by  far the more obvious, viz. To kill a man maliciously  is murder ; A. B. killed a man maliciously ; therefore  A. B. is guilty of murder. Here, instead of the Aria-  totclian names major and minor, we prefer calling the  first proposition the datum, and the second, with re-  ference to the datum it is addressed to, the argument ;  and the truth of the argument having been proved by  testimony, we atfirm that the conclusion is as evident  as a conclusion can be, and that the Aristotelian  formula is a needless and puerile addition to a process  already complete — a proof of what is proved : — it is a  use of language for the purpose of reasoning which  does not identify with, but goes beyond, and childishly refines upon that use of language in which the logic  of mankind at large consiets.   The doctrine of the whole work may receive some  light from the following way of stating it : — Man, in  common with other animals, derives immediately from  nature the power to express hie immediate, or, as they  are commonly called, his natural wants and feelings.  But he also possesses the power of inventing or learn-  ing a language which nature does not teach ; and it is  solely by the exertion of this power, which we call  reason, that he raises himself above the level of other  animals. By media such as artificial language consists  of, and only by such media, he acquires the knowledge  which distinguishes him from other creatures ; and  each advance being but the step to another, he is a  being indefinitely improveable. But if words are the  means of knowledge, it is an error to describe or con-  sider them in any other light ; and we accordingly  deem them not as, strictly speaking, the signs of  thought, but as the means by which we think, and set  others a thinking. This principle being admitted, renders unnecessary Locke's doctrine of ideas ; and Sematology stands opposed to, and takes the place of,  what the French call Idealogy,   With respect to these addenda, should the reader ask, whether they are to be esteemed a part of our  WORD, we answer in the affirmative. We imagined  our woED complete. If, on further consideration, we  had supposed so, we should not have added another  SYLLABLE. {^uT^Qh a ffvMMiiSavuv.)   G. WoedbUi Frlnlei, Angd Courl, SkJnnsi Street, Londoo.  Giuseppe Capocasale. Keywords: sematologia, la sematologia di Vico, dialettica, assoc: ‘a tear’ may be a sign of sadness – or love – (‘una furtiva lagrima – ‘m’ama’) but the kind of sign that an idea or conception of the soul, or ‘rivelazione’ of the animus -- are related with are arbitrario – ad placitum -- arbitrary, not necessarily a natural causal sign or nature. The correlation between the segnans and the segnato may be ‘imitativa’ or iconic, arbitrary, arbitraria, associative, associative, etc. A sign is not essentially connected with the purpose of communication (smoke means fire, spots mean measles, a tear means love). Grice is into ‘communication,’ not sign as such – a theory of communication, not a semeiotic. Capocasale does not expand on the intricacies of the cocodrile’s tears (fake tears – or Grice’s frown), because he is not interested, but it woud just take a footnote to his comment on ‘lacrima’ being a ‘signum’ traestitiae. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capocasale” – The Swimming-Pool Library

 

Grice e Capocci: l’implicatura conversazionale del significare e santificare – il sacramento evangelico significa grazia e sanctifica grazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Viterbo). Filosofo italiano. Grice: “I like Capocci; he was a Griceian; he opposed Aquinas on the dependence of will and intellectus – surely they are independent, and possibly the will is more basic! La ‘volonta,’ as the Italians call it! -- “That’s how I shall call himothers favour “Giacomo da Viterbo.”” Essential Italian philosopher – Di famiglia nobile, studia a Viterbo. His monicker was ‘il dottore speculativo”. Insegna a Napoli. Il suo saggio più conosciuto, “De regimine christiano” Approfondisce i temi della teocrazia, e del potere temporale del cesare e il suo stato. Altre opere: “Quaestiones disputatae de praedicamentis in divinis”. “Summa de peccatorum distinctione” – “there are surely more than seven sins – Multiply sins beyond necessity --. Dizionario Biografico degli Italiani.Vi sono in cui Giacomo viene raffigurato con un'aureola – segno naturale accordo di Peirce del santo.Mariani identified two manuscripts containing a Summa de peccatorum distinctione: Biblioteca Nazionale di Napoli, cod. vii G. 101 and Biblioteca di Montecassino, both of which ascribe the work to James. Ypma does not mention. Summa de peccatorum distinctione Fratris Jacobi de Viterbio Sacrae Theologiae Professoris, Fratrum Eremitarum Sancti Augustini, Archiepiscopi Neapolitani.  AMBRASI, La Summa de peccatorum distinctione del b. Giacomo da Viterbo dal ms. VII G 101... GUTIERREZ, De vita et scriptis Beati Iacobi de Viterbo, “ Analecta Augstiniana ”, XVI,Lectura super IV libros Sententiarum Quaestiones Parisius disputatae De praedicamentis in divinis Quaestione de animatione caeli Quaestiones disputatae de Verbo Quodlibeta quattuor Abbreviatio In Sententiarum Aegidii Romani De perfectione specierum De regimine christiano Summa de peccatorum distinctione Sermones diversarum rerum Concordantia psalmorum David De confessione De episcopali officio Like many of his contemporaries, James devotes serious attention to determining the status of theology as a science and to specifying its object, or rather, as the scholastics say, its subject. In Quodlibet III, q. 1, he asks whether theology is principally a practical or a speculative science. Unsurprisingly, perhaps, for an Augustinian, James responds that the end of theology resides principally not in knowledge but in the love of God. The love of God, informed by grace, is what distinguishes the way in which Christians worship God from the way in which pagans worship their deities. For philosophers—James has Cicero in mind—religion is a species of justice; worship is owed to God as a sign of submission. For the Christian, by contrast, there can be no worship without an internal affection of the soul, i.e., without love. James allows that there is some recognition of this fact in Book X of the Nicomachean Ethics, for the happy man would not be “most beloved of God,” as Aristotle claims he is, if he did not love God by making him the object of his theorizing. In this sense, it can be said that philosophy as well sees its end as the love of God as its principal subject. But there is a difference, James contends, in the way in which a science based on natural reason aims for the love of God and the way in which sacred science does so: sacred science tends to the love of God in a more perfect way. One way in which James illustrates the difference between both approaches is by contrasting the ways in which God is the “highest” object for metaphysics and for theology. The proper subject of metaphysics is being, not God, although God is the highest being. Theology, on the other hand, views God as its subject and considers being in relation to God. Thus, James concludes, “theology is called divine or of God in a much more excellent and principal way than metaphysics, for metaphysics considers God only in relation to common being, whereas theology considers common being in relation to God” (Quodl.). Another way in which James illustrates the difference between natural theology and sacred science is by using St. Anselm's distinction between the love of desire (amor concupiscientiae) and the love of friendship (amor amicitiae). The love of desire is the love by which we desire an end; the love of friendship is the love by which we wish someone well. The love of God philosophers have in mind, James contends, is the love of desire; it cannot, by the philosophers' own admission, be the love of friendship, for according to Aristotle, at least in the Magna Moralia, friendship involves a form of community or sharing between the friends that cannot possibly obtain between mere mortals and the gods. Now although James concedes that a “community of life” between God and man cannot be achieved by natural means, it is possible through the gift of grace. The particular friendship grace affords is called charity and it is to the conferring of charity that sacred scripture is principally ordered.Like all scholastics since the early thirteenth century, James subscribes to the distinction between God's ordained power, according to which “he can only do what he preordained he would do according to wisdom and will” (Quodl.) and his absolute power, according to which he can do whatever is “doable,” i.e., whatever does not imply a contradiction. Problems concerning what God can or cannot do arise only in the latter case. James considers several questions: can God add an infinite number of created species to the species already in existence (Quodl. I, q. 2)? Can he make matter exist without form (Quodl.)? Can he make an accident subsist without a substrate (Quodl.)? Can he create the seminal reason of a rational soul in matter (Quodl.)? In response to the first question, James explains, following Giles of Rome but against the opinion of Godfrey of Fontaines and Henry of Ghent, that God can by his absolute power add an infinite number of created species ad superius, in the ascending order of perfection, if not in actuality, then at least in potency. God cannot, however, add even one additional species of reality ad inferius, between prime matter and pure nothingness, not because this exceeds his power but because prime matter is contiguous to nothingness and leaves, so to speak, no room for God to exercise his power (Côté). James is more hesitant about the second question. He is sympathetic both to the arguments of those who deny that God can make matter subsist independently of form and to the arguments of those who claim he can. Both positions can reasonably be held, because each argues from a different (and valid) perspective. Proponents of the first position argue from the point of view of reason: because they rightly believe that God cannot make what implies a contradiction, and because they believe (rightly or wrongly) that making matter exist without form does involve a contradiction, they conclude that God cannot make matter exist without form. Proponents of the second group argue from the perspective of God's omnipotence which transcends human reason: because they rightly assume that God's power exceeds human comprehension, they conclude (rightly or wrongly) that making matter exist without form is among those things exceeding human comprehension that God can make come to pass.Another question James considers is whether God can make an accident subsist without a subject or substrate. The question arises only with respect to what he calls “absolute accidents,” namely quantity and quality, as opposed to relational accidents—the remaining categories of accident. God clearly cannot make relational accidents exist without a subject in which they inhere, for this would entail a contradiction. This is so because relations for James, as we will see below, are modes, not things. What about absolute accidents? As a Catholic theologian, James is committed to the view that some quantities and qualities can subsist without a subject, for instance extension and color, a view for which he attempts to provide a philosophical justification. His position, in a nutshell, is that accidents are capable of existing independently if they are thing-like (dicunt rem). Numbers, place (locus), and time are not thing-like and are thus not capable of independent existence; extension, however, is and so can be made to exist without a subject. The same reasoning applies to quality. This is somewhat surprising, for according to the traditional account of the Eucharist, whereas extension may exist without a subject, the qualities, color, odor, texture, necessarily cannot; they inhere in the extension. James, however, holds that just as God can make thing-like quantities to exist without a subject, so too must he be able to make a thing-like quality exist without the subject in which it inheres. Just which qualities are capable of existing without a subject is determined by whether or not they are “modes of being,” i.e., by whether or not they are relational. This seems to be the case with health and shape: health is a proportion of the humors, and so, relational; likewise, shape is related to parts of quantity, without which, therefore, it cannot exist. Colors and weight, by contrast, are non-relational, according to James, and are thus in principle capable of being made to exist without a subject.The fourth question James considers in relation to God's omnipotence raises the interesting problem of whether the rational soul can come from matter. James proceeds carefully, claiming not to provide a definitive solution but merely to investigate the issue (non determinando sed investigando). The upshot of the investigation is that although there are many good reasons (the soul's immortality, its spirituality and its per se existence) to say that God cannot produce the seminal reason of the rational soul in matter, in the end, James decides, with the help of Augustine, that such a possibility must be open to God. Thus, it is true that in the order which God has de facto instituted, the soul's incorruptibility is repugnant to matter, but this is not so in absolute terms: if God can miraculously cause something to come to existence through generation and confer immortality upon it (James is presumably thinking of the birth of Christ), then he can make it come to pass that souls are produced through generation without being subject to corruption. Likewise, although it appears inconceivable that something material could generate something endowed with per se existence, it is not impossible absolutely speaking: if God can confer separate existence upon an accident—despite the fact that accidents naturally inhere in their substrates—then, in like manner, he can confer separate existence upon a soul, although it has a seminal reason in matter. Scholastics held that because God is the creative cause of all natural beings, he must possess the ideas corresponding to each of his creatures. But because God is eternal and is not subject to change, the ideas must be eternally present in him, although creatures exist for only a finite period of time. This doctrine of course raised many difficulties, which each author addressed with varying degrees of success. One difficulty had to do with reconciling the multiplicity of ideas with God's unity: since there are many species of being, there must be a corresponding number of ideas; but God is one and, hence, cannot contain any multiplicity. Another, directly related, difficulty had to do with the ontological status of ideas: do ideas have any reality apart from God? If one denied them any kind of reality, it was hard to see how they could function as exemplar causes of things; but to attribute full-blown essential reality to them was to run the risk of introducing multiplicity in God. One influential solution to these difficulties was provided by Thomas Aquinas, who argued that divine ideas are nothing else but the diverse ways in which God's essence is capable of being imitated, so that God knows the ideas of things by knowing his essence. Ideas are not distinct from God's essence, though they are distinct from the essences of the things God creates (De veritate). One can discern two answers to the problem of divine ideas in the works of James of Viterbo. At an early stage of his career, in the Abbreviatio in Sententiarum Aegidii Romani­—assuming one accepts, as seems reasonable, the early dating suggested by Ypma (1975)—James defends a position that is almost identical to that of Thomas Aquinas (Giustiniani). In his Quodlibeta, however, he moves to a position closer to that of Henry of Ghent. In the following I will sketch James' position in the Quodlibeta as it provides the most mature statement of his views. Although James agreed with the notion that ideas are to be viewed as the differing ways in which God can be imitated, he did not think that one could make sense of the claim that God knows other things by cognizing his own essence unless one supposed that the essences of those things preexist in some way (aliquo modo) in God. James' solution is to distinguish two ways in which ideas are in God's intellect. They are in God's intellect, firstly, as identical with it, and, secondly, as distinct from it. The first mode of being is necessary as a means of acknowledging God's unity; but the second mode of being is just as necessary, for, as James puts it (Quodl. I, q. 5, p. 64, 65–67), “if God knows creatures before they exist, even insofar as they are other than him and distinct (from him), that which he knows is a cognized object, which must needs be something; for that which nowise exists and is absolutely nothing cannot be understood.”  But James also thinks that the necessity of positing distinct ideas in God follows from a consideration of God's essence. God enjoys the highest degree of nobility and goodness. His mode of knowledge must be commensurate with his nature. But according to Proclus, an author James is quite fond of quoting, the highest form of knowledge is knowledge through a thing's cause. That means that God knows things through his own essence. However, he does so by knowing his essence as a cause, and that is possible only by knowing “something (aliquid) through a cause, not merely by knowing that which is the cause (i.e., God)”. Although James' insistence on the distinctness of ideas with respect to God's essence is reminiscent of Henry of Ghent's teaching, it is important to note, as has been stressed by M. Gossiaux (2007), that James does not conceive of this distinctness as Henry does. For Henry, ideas possess esse essentiae; James, by contrast, while referring to divine ideas as things (res), is careful to add that they are not things “in the absolute sense but only determinately,” viz., as cognized objects (Quodl. I, q. 5, p. 63, 60). Thus, divine ideas for James possess a lesser degree of distinction from God's essence than do Henry of Ghent's. Nevertheless, because James did consider ideas to be distinct in some sense from God, his position would be viewed by some later authors—e.g., William of Alnwick—as compromising divine unity. The concept of being, all the medievals agreed, is common. What was debated was the nature of the commonness. According to James of Viterbo, all commonness is founded on some agreement, and this agreement can be either merely nominal or grounded in reality. Agreement is nominal when the same name is predicated of wholly different things, without there being any objective basis for the application of the common name; such is the case -of equivocal names. Agreement is real in the following two cases: (1) if it is based on some essential resemblance between the many things to which a particular concept applies, in which case the concept applies to these many things by virtue of the self same ratio and is said of them univocally; or (2) if that concept is truly common to the many things of which it is said, although it is not said of them relative to the same nature (ratio), but as prior to one and posterior to the others, insofar as these are related in a certain way to the first. A concept that is predicated of things in this way is said to be analogous, and the agreement displayed by the things to which it applies is said to be an agreement of attribution (convenientia attributionis). James believes that it is according to this sense of analogy that being is said of God and creatures, and of substance and accident (Quaestiones de divinis praedicamentis I, q. 1, p. 25, 674–80). For being is said in a prior sense of God and in a posterior sense of creatures by virtue of a certain relation between the two; likewise, being is said first of substance and secondarily of accidents, on account of the relation of posteriority accidents have to substance. The reason why being is said in a prior sense of God and in a secondary sense of creatures and, hence, the reason why the ‘ratio’ or nature of being is different in the two cases is that being, in God, is “the very thing which God is” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 1, p. 16, 412), whereas created being is only being through something added to it. From this first difference follows a second, namely, that created being is being by virtue of being related to an agent, whereas uncreated being has no relation. These two differences can be summarized by saying that divine being is being through itself (per se), whereas created being is being through another (per aliud) (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 1, p. 16, 425–6). In sum, being is said of God and creature, but according to a different ratio: it is said of God according to the proper and perfect nature of being, but of creatures in a derivative or secondary way.James' most detailed discussion of the distinction between being and essence occurs in the context of a question that asks if creation could be saved if being (esse) and essence were not different (Quodl. I, q. 4). His answer is that although he finds it difficult to see how one could account for creation if being and essence were not really different, he does not believe it is necessary to conceive of the real distinction in the way in which “certain Doctors” do. Which Doctors does he have in mind? In Quodl. I, q. 4, he summarizes the views of three authors: Godfrey of Fontaines, according to whom the distinction is only conceptual (secundum rationem); Henry of Ghent, for whom esse is only intentionally different from essence, a distinction that is less than a real distinction but greater than a rational distinction; and finally, Giles of Rome, for whom esse is one thing (res), and essence another. Thus, James agrees with Giles, and disagrees with Henry and Godfrey, that the distinction between being and essence is real; however, he disagrees with Giles about the proper way of understanding the real distinction.The starting point of his analysis is Anselm's statement in the Monologion that the substantive lux (light), the infinitive lucere (to emit light), and the present participle lucens (emitting light) are related to each other in the same way as essentia (essence), esse (to be), and ens (being). The relation of lucere to lux, he tells us, is the relation of a concrete term to an abstract one. To-emit-light denotes light as an act, just as to-be (esse) denotes essence from the point of view of an act. Now, a concrete term signifies more things than the corresponding abstract term, e.g., esse signifies more things than essence, for essence signifies only the form, whereas esse signifies the form principally and the subject secondarily. By ‘subject’ James means the actually existing thing, which he also calls the aggregate or supposit (Wippel 1981). Esse and essence thus signify the same thing principally, but differ in terms of what they signify secondarily. Although this difference is only conceptual in the case of God, it is real in the case of creatures. It is this difference that explains why one does not predicate to-emit-light (lucere) of light itself (lux) or being of essence: what properly exists is that which has essence, viz., the supposit. Esse denotes essence as existing in a supposit.The kernel of James' solution, then, lies in the distinction between what terms signify primarily and secondarily. To his mind, this is what makes his solution closer in spirit to Giles of Rome than to either Godfrey or Henry, without committing him to a conception of the distinction as rigid as that of Giles. The distinction is real for James, but in a qualified way (Gossiaux 1999). Because identity or difference between things is determined to a greater degree by primary rather than by secondary signification, it follows that essence and existence are primarily and absolutely the same (idem) and conditionally or secondarily distinct. Yet, although the distinction is conditional or secondary, it is nonetheless James devotes five of his Quaestiones de divinis praedicamentis (qq. 11–15), representing some 270 pages of edited text, to the question of relations. It is with a view to providing a proper account of divine relations, he explains, that it is “necessary to examine the nature of relation with such diligence” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 11, p. 12, 300–301). But before turning to Trinitarian relations, James devotes the whole of q.11 to the status of relations in general. The following account focuses exclusively on q. 11. James in essence adopts Henry of Ghent's “modalist” solution, which was to exercise considerable influence among late thirteenth-century thinkers (Henninger 1989), although he disagrees with Henry about the proper way of understanding what a mode is.The question boils down to whether relations exist in some manner in extra-mental reality or solely through the operation of the intellect, like second intentions (species and genera). Many arguments can be adduced in support of each position, as Simplicius had already shown in his commentary on Aristotle's Categories—a work that would have a decisive influence on James' thought. For instance, in support of the view that relations are not real, one may point out that the intellect is able to apprehend relations between existents and non-existents, e.g., the relation between a father and his deceased son; yet, there cannot be anything real in the relation given that one of the two relata is a non-existent. But if so, then the same must be true of all relations, as the intellectual operation involved is the same in all cases. Another argument concerns the way in which relations come to be and cease to be. This appears to happen without any change taking place in the subject which the relation is said to affect. For instance, a child who has lost his mother is said to be an orphan until the age of eighteen, at which point it ceases to be one, although no change has occurred: “the relation recedes or ceases by reason of the mere passage of time.”But good reasons can also be found in support of the opposing view. For one, Aristotle clearly considers relations to be real, as they constitute one of the ten categories that apply to things outside the soul. Furthermore, according to a view commonly held by the scholastics, the perfection of the universe cannot consist solely of the perfection of the individual things of which it is made; it is also determined by the relations those things have to each other; hence, those relations must be real.The correct solution to the question of whether relations are real or not, James contends, depends on assigning to a given relation no more but no less reality than is fitting to it. Those who rely on arguments such as the first two above to infer that relations are entirely devoid of reality are guilty of assigning relations too little reality; those who appeal to arguments such as the last two, showing that relations are distinct from their subjects in the way in which things are distinct from each other, assign too great a degree of reality to relations. The correct view must lie somewhere in between: relations are real, but are not distinct from their subjects in the way one thing is distinct from another.That they must be real is sufficiently shown by the first Simplician arguments mentioned above, to which James adds some others of his own. However, showing that they are not things is slightly more complicated. James' position, in fact, is that relations are not things “properly and absolutely speaking,” but only “in a certain way according to a less proper way of speaking.” A relation is not a thing in an absolute sense because of the “meekness” of its being, for which reason “it is like a middle point between being and non-being” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 11, p. 30, 668–9). The reasoning behind this last statement is as follows: the more intrinsic some principle is to a thing, the more that thing is said to be through it; what is maximally intrinsic to a thing is its substance; a thing is therefore maximally said to be on account of its substance. Now a thing's being related to another is, in the constellation of accidents that qualify that thing, what is minimally intrinsic to it and thus farthest from its being, and so closest to non-being. But if relations are not things, at least in the absolute sense, what are they? James answers that they are modes of being of their foundations. “The mode of being of a thing does not differ from the thing in such a way as to constitute another essence or thing. The relation, therefore, is not different from its foundation” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 11, p. 33, 745–7). Speaking of relations as modes allows us to acknowledge their reality, as attested by experience, without hypostasizing them. A certain number's being equal to another is clearly something distinct from the number itself. The number and its being equal are two “somethings” (aliqua), says James; they are not, however, two things; they are two in the sense that one is a thing (the number) and the other is a mode of being of the number.In making relations modes of being of the foundation, James was clearly taking his cue from Henry of Ghent, who has been called “the chief representative of the modalist theory of relation” (Henninger 1989). For Henry and James, relations are real in the sense that they are distinct from their foundations and belong to extra mental reality. However, James' understanding of the way in which a relation is a mode differs from Henry's. For Henry, a thing's mode is the same thing as its ratio or nature; it is the particular type of being that thing has, what “specifies” it. But according to James' understanding of the term, a mode lies beyond the ratio of a thing, like an accident of that thing (Quaestiones de divinis praedicamentis, p. 34, 767–8). In conclusion, one could say that in his discussion of relations, James was guided by the same motivation as many of his contemporaries, namely securing the objectivity of relations without conferring full-blooded existence upon them. Relations do exhibit some form of being, James believed, but it is a most faint one (debilissimum), the existence of a mode qua accident. James discusses individuation in two places: Quodl. I, q. 21 and Quodl. II, q. 1. I will focus on the first treatment, because it is the lengthier of the two and because the tenor of James' brief remarks on individuation in Quodl. II, q. 1, despite certain similarities with his earlier discussion (Wippel 1994), make it hard to see how they fit into an overall theory of individuation.The question James faces in Quodl. I, q. 21 is a markedly theological one, namely whether, if the soul were to take on other ashes at resurrection, a man would be numerically the same as he was before. In order to answer that question, James tells us, it is first necessary to determine what the cause of numerical unity is in the case of composite beings. There have been numerous answers to that question and James provides a short account of each. Some philosophers have appealed to quantity as the principle of numerical unity; others to matter; others yet to matter as subtending indeterminate dimensions; finally, others have turned to form as the cause of individuation. According to James, each of these answers is part of the correct explanation though it is insufficient if taken on its own. The correct view, according to him, is that form and matter taken together are the principal causes of numerical identity in the composite, with quantity contributing something “in a certain manner.” Form and matter, however, are principal causes in different ways; more precisely, each accounts for a different kind of numerical unity. For by ‘singularity’ we can really mean two distinct things: we can mean the mere fact of something's being singular, or we can point to a thing qua “something complete and perfect within a certain species” (Quodl. I, 21, 227, 134–35). It is matter that accounts for the first kind of singularity, and form for the second. Put otherwise, the kind of unity that accrues to a thing on account of its being a mere singular, results from the concurrence of the “substantial” unity provided by matter and the “accidental” unity provided by quantity. By contrast, the unity that characterizes a thing by virtue of the perfection or completeness it displays is conferred to it by the form, which is the principle of perfection and actuality in composites.Although James thinks he can quite legitimately enlist the support of such prestigious authorities as Aristotle and Averroes in favor of the view that matter and form together are constitutive of a thing's numerical unity, his solution has struck commentators as a somewhat contrived and ad hoc attempt to reach a compromise solution at all costs (Pickavé 2007; Wippel 1994). James, it has been suggested, “seems to be driven by the desire to offer a compromise position with which everyone can to some extent agree” (Pickavé 2007: 55). Such a suggestion does accord with what we know about James' temperament, namely, his dislike of controversy and his tendency, on the whole, to prefer solutions that present a “middle way” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 11, p. 23, 513; Quodl. II, q. 7, p. 108, 118; De regimine christiano, 210; see also Quodl. II, q. 5, p. 65, 208–209). However, James' professions of moderation must sometimes be taken with a grain of salt, as there are some positions he wants to pass off as moderate that are quite far from being so, as we will see in Section 7 below.The belief that matter contains the ‘seeds’ of all the forms that can possibly accrue to it is one of the hallmarks of James of Viterbo's thought, as is the belief that the soul pre-contains, in the shape of “propensities” (idoneitates), all the sensitive, intellective, and volitional forms it is able to take on. We will look at James' doctrine of propensities in the intellect in Section 5, and his doctrine of propensities in the will in Section 6. In this section, we present James' arguments in favor of seminal reasonsOne important reason for subscribing to the existence of seminal reasons is that the doctrine enjoys the support of Augustine.  Although James is sometimes quite critical of his Augustinian contemporaries, including his predecessor Giles of Rome, he is an unreserved follower of Augustine, especially when it comes to the greater philosophical issues, such as knowledge and natural causation. However, what is particularly interesting about James is the way in which he enlists such decidedly un-Augustinian sources as Aristotle, Averroes, and especially Simplicius in the service of his Augustinian convictions (Côté 2009). James offers a thorough discussion of seminal reasons in Quodl. II, q. 5.   The question he raises there is not so much whether there are seminal reasons, for this is “admitted by all Catholic doctors” (Quodl. II, q. 5, p. 59, 16), but rather, how one is to properly conceive of them. A seminal reason, according to James, has two characteristics: it is (1) an inchoate state of the form to be, and (2) an active principle. Most of the discussion in Quodl. II, q. 5 is devoted to establishing the first point. James thinks that the thesis that forms are present in potency in matter is consonant with the teaching of Aristotle, who, he claims, follows a “middle way” on the issue of generation, eschewing both the position that forms are created, and also Anaxagoras' “hidden-forms hypothesis,” according to which all forms are contained in act in everything. Now to say that forms are present in matter inchoately or in potency, according to James, entails that the potency of matter is something distinct from matter itself. One argument in favor of this thesis is that matter is not corrupted by the taking on of a form: it remains in potency towards other forms. Also, potency is relational, whereas matter is absolute. When James states that matter is distinct from potency he does not mean to say that they are entirely distinct or unconnected, quite the contrary: potency is the potency of matter. However, potency adds three characteristics to the concept of matter. First, it adds the idea of a relation to a form (matter is in potency towards a form); second, it adds the idea that the form to which it is related is a form it lacks; finally, it implies that the form which matter lacks is a form it has the capacity to acquire, for as James explains, one does not say that a stone is in potency toward the power of sight merely because it lacks sight. In order for something to be in potency toward a particular form it must both lack that form and also possess an aptitude to take it on. James neatly summarizes his views in the following passage: “[the potency of matter] denotes a respect of the matter toward the form, attendant upon its lacking that form and having the aptitude to take it on, so that four properties are included in the concept of potency, namely matter, lack of form, aptitude toward the form and a respect toward the form insofar as it is educible by an agent and motor cause” (Quodl. II, q. 5, p. 69, 359 – p. 70, 363). The originality of James' position lies in the way in which he conceives matter's aptitudes. The term “aptitude” has a precise technical meaning, which he fleshes out with the help of Simplicius' commentary on the Categories. It denotes a certain incipient or inchoative state of the form in matter. Potency and act, James tells us, are two states or modes of the same thing, not two distinct things. What exists in the mode of actuality must preexist in the mode of potency, but in an inchoate way. James is aware of the several objections that may be leveled against his conception of aptitudes or propensities. The most serious of these is perhaps the charge that their existence makes generation, i.e., the production of new beings, impossible or useless. James replies by suggesting that those who argue in this fashion misconstrue Aristotle's doctrine of change. For change, according to Averroes' understanding of Aristotle (see Quodl. III, q. 14), does not result from an agent's implanting a form in a receiving subject, for this would imply that forms “migrate” from subject to subject; it results rather from an agent's making that which is in potency to be in act. For this to occur, however, more is required than the mere passive potency of matter: the seminal reason must also be viewed as an active principle. The activity of potency manifests itself in the shape of a natural inclination or tendency to attain its completion.  Generation thus requires two things (besides God's general operative causality): the “transmutative” agency of an extrinsic cause and the intrinsic agency of the formae inchoativum which inclines the potency to attain its completion. James' doctrine of seminal reasons would elicit considerable criticism in the early fourteenth century and beyond (Phelps 1980). The initial reaction came from Dominicans, e.g., Bernard of Auvergne, the author of a series of Impugnationes (i.e., attacks) contra Jacobum de Viterbio, and John of Naples who argued against James' distinction between the potency of matter and potency. But James' theory would also encounter resistance from within the Augustinian Order, e.g., from Alphonsus Vargas of Toledo. James' doctrine of cognition must also be understood in the context of his thoroughgoing Augustinianism and against the backdrop of the late thirteenth-century arguments against Thomistic abstraction theories. According to Thomas Aquinas' theory of knowledge, the agent intellect abstracts a thing's form or essential information from the image or representation of that thing. The outcome of this process was what Aquinas called the intelligible species, which was then taken to “move” the possible intellect to conceptual understanding. However, as thinkers such as Vital du Four and Richard of Middleton were to point out (see the articles by Robert and Noone), the information coming in through the senses is related to a thing's accidental properties, not to its substance. How, then, could abstraction from the senses produce an intelligible species relating to the thing's essence? Although James of Viterbo agreed by and large with the spirit of this objection and believed that the replies by proponents of abstractionism were unsuccessful, he had another reason for rejecting the theory. This was because it implied a view of the intellect which he thought to be profoundly mistaken, namely, the view that there is a real distinction between the agent intellect (which abstracts the species) and the possible intellect (which receives it). If it were truly the case, he reasoned, that one needed to posit a distinct agent intellect because phantasms are only potentially intelligible, then, by the same token, one would have to posit an “agent sense”, because sensibles “are only sensed in potency” (Quodl. I, q. 12, p. 164, 234). But given that no proponent of abstraction admits an agent sense, one should not allow them an agent intellect. Furthermore, if there were an agent intellect distinct from the possible intellect, it would be a natural power of the soul and so would be required for the cognition of all intelligibles, not just a certain class of them. Similarly, qua natural power, its use would be required not only in the present life but also in the afterlife. But of course that would be absurd, as the agent intellect, ex hypothesi, is only necessary to abstract form from matter, something the mind does only when it is joined to a corruptible body. James was well aware that by denying the distinction between the two intellects, he was opposing the consensus view of Aristotle commentators. Indeed, his views seem to run counter to the De anima itself, though, as he would mischievously point out, it was difficult to determine just what Aristotle's doctrine was, so obscure was its formulation (Quodl. I, q. 12, p. 169, 426—170, 439). He replied that what he was denying was not the existence of a “difference” in the soul, but merely that the existence of a difference implied a distinction of powers (Quodl. I, q. 12, p. 170, 440–45). The intellect, he held, was both in act and in potency, active and passive, but one could account for its having these contrary properties without resorting to the two intellect model. This is because intellection is not a transient action (like hitting a ball), requiring an active subject distinct from a passive recipient; rather, it is an immanent action (like shining). James' solution, in other words, was to conceive of the intellect (as indeed the will) as essentially dynamic, as an “incomplete actuality”, its own formal cause, spontaneously tending toward its completion, much in the way seminal reasons tend toward their completing forms—indeed both discussions drew their inspiration from the same source: Simplicius' commentary on Aristotle's analysis of the second species of quality. The intellect was described as a general (innate) propensity made up of a series of more specific (equally innate) propensities, the number of which was a function of the number of different things the intellect is able to know: “The intellective power is a general propensity with respect to all intelligibles, that is, with respect to the actual conforming to all intelligibles. On this general propensity are founded other specific ones, which follow the diversity of intelligibles” (Quodl. VII, q. 7, p. 93, 453–55). Of course, as James readily acknowledged, although the intellect is its own formal cause, it cannot issue forth an act of intellection without some input from the senses. However, the type of causality the senses were viewed as exercising was deemed to be purely “excitatory” or “inclinatory” (Quodl. I, q. 12, p. 175, 613–16), making the senses not the principal but rather an instrumental cause of intellection. In all, three causes account for the operation of the intellect, according to James: 1) God as efficient cause; 2) the soul and its propensities as formal cause, and 3) the object presented by the senses as “excitatory” cause. Although, as we have just seen, James rejected the distinction between the agent and possible intellects, there was another, equally widely-held distinction in the area of psychology that he did maintain, namely the distinction between the soul and its powers.For the purposes of this article, it will suffice to think of the debate regarding the relation of the soul to its powers as being motivated at least in part by the need to provide a coherent understanding of the soul's structure and operations in view of two inconsistent but equally authoritative accounts of the soul's relation to its powers. One was that of Augustine, who had asserted that memory, intelligence, and will (i.e., three powers) were one in substance (De trinitate X, 11), and so believed that the soul was identical with its powers; the other was Aristotle's, who clearly believed in a certain distinction, and whose remarks about natural capacities (dunameis) as belonging to the second species of quality, in Categories c. 8,14–27, and hence to the category of accident, making them distinct from the soul's essence, were commonly applied by the scholastics to the soul's powers. Each view, of course, had its supporters; and, naturally, as was so often the case, attempts were made to find a middle way that would accommodate both positions. During James' tenure as Master at the University of Paris, the majority view was very much that there was a real distinction. It was the view held by many of the scholastics whose teachings he studied most carefully, namely Aquinas, Giles of Rome, and Godfrey of Fontaines. There was, however, a commonly discussed minority position, one that eschewed both real distinction and identity: that of Henry of Ghent. Henry believed that the powers of the soul were “intentionally”, not really, distinct from its essence. James, however, sided with Thomas, Giles, and Godfrey, against Henry (Quodl. II, q. 14, p. 160, 70–71; Quodl. III, q. 5, p. 83, 56—84, 63). His reasoning was as follows. Given that everyone agreed that there was a real distinction between the soul and one of its powers in act (between the soul and, e.g., an occurrent act of willing), then if one denied that there was a real distinction between the soul and its powers, as Henry had, one would be committed to the existence of a real distinction between the power in act (e.g., an occurrent act of willing) and that same power in potency (that is, the will, qua power, as able to produce that act), since the power in act is really the same as the soul. But as we saw in the preceding section, something in potency is not really distinct from that same thing in act. This followed from James' reading of Simplicius' account of qualities in the latter's commentary on Aristotle's Categories. For instance, seminal reasons are not really distinct from the fully-fledged forms that proceed from them, nor are intellective “propensities” really distinct from the fully actualized cognized forms. Hence, James concluded, the powers must be really distinct from the soul's essence. The question of the will's freedom was of paramount importance to the scholastics. Unlike modern thinkers, for whom establishing that the will is free is tantamount to showing that its act falls outside the natural nexus of cause and effect, showing that the will is free, for medieval thinkers, usually involved showing that its act is independent of the apprehension and judgment of the intellect. Although the scholastics generally granted that a voluntary act results from the interplay between will and intellect, most of them preferred to single out one of the two faculties as the principal determinant of free choice. Thus, for Henry of Ghent, the will is the sole cause of its free act (Quodl. I, q. 17), so much so that he tends to relegate the intellect's role to that of a sine qua non cause. For Godfrey of Fontaines, by contrast, it is the intellect that exercises the decisive motion (Quodl. III, q. 16). Although James of Viterbo sometimes claims to want to steer a middle course between Henry and Godfrey (Quodl. II, q. 7), his preferences clearly lie with a position like that of Henry's, as can be gathered from his most detailed treatment of the question in Quodl. I, q. 7. James' thesis in Quodl. I, q. 7 is that the will is a self-mover and that the object grasped by the intellect moves the will only metaphorically. His main challenge is to show is that this position is compatible with the Aristotelian principle that whatever is moved is moved by another. As we saw in the previous section, James believes that the soul is made up of what he calls “aptitudes” or “propensities” (idoneitates), which are the similitudes of all things knowable and desirable, “before [the soul] actually knows or desires them” (Quodl. I, q. 7, p. 91, 407 – p. 92, 408). The pre-existence of such aptitudes implies that the soul is neither a purely passive potency nor made up of fully actualized forms, but rather an “incomplete actuality” or, perhaps more correctly, a set of “incomplete actualities,” which James describes as being “naturally inserted in [the soul], and thus, remaining in it permanently, though sometimes in an imperfect state, sometimes in a state perfected by the act” (Quodl. I, q. 7, p. 92, 419–24). In order to show how this view of the soul is compatible with Aristotle's postulate that every motion requires a mover distinct from the thing moved, James introduces a distinction between two sorts of motion: efficient and formal. Efficient motion occurs when motion is caused by a thing that possesses the complete form of the particular motion caused; formal motion occurs when the moving thing has the incomplete form of the thing moved. Heating is given as an example of the first kind of motion; “gravity” or rather heaviness, i.e., the tendency of heavy bodies to fall, is cited as an example of the second kind of motion. Aristotle's principle applies only to the first kind of motion, James asserts, not the second. Things which possess an incomplete form naturally—i.e., in and of themselves without an external mover—tend to their completion and are prevented from reaching it only by the presence of an external obstacle. For instance, a heavy object naturally tends to move downward and will do so unless it is hindered. Such, mutatis mutandis, is the case of the soul and especially of the will: the will as an incomplete actuality naturally tends to its completion; in that sense, that is, formally but not efficiently, it is self-moved. The difference between it and the heavy object is that whereas the object moves upon the removal of an obstacle, the will requires the presence of an object; it requires, in other words, the intervention of the intellect in order to direct it to a particular object. However, once again, the intellect's action is viewed by James as being merely metaphorical, that is, extrinsic to the will's proper operation. Like Albert the Great and Thomas Aquinas, James of Viterbo holds that the moral virtues, considered as habits, i.e., virtuous dispositions or acts, are connected. In other words, he believes that one cannot have one of the virtues without having the others as well. The virtues he has in mind are what he calls the “purely” moral virtues, that is, courage, justice, and temperance, which he distinguishes from prudence, which is a partly moral, partly intellectual virtue. In his discussion in Quodl. II, q. 17 James begins by granting that the question is difficult and proceeds to expound Aristotle's solution, which he will ultimately adopt. As James sees it, Aristotle proves in Nicomachean Ethics VI the connection of the purely moral virtues by showing their necessary relation to prudence, and this is to show that just as moral virtue cannot be had without prudence, prudence cannot be had without moral virtue. The connection of the purely moral virtues follows from this: they are necessarily connected because (1) each is connected to prudence and (2) prudence is connected to the virtues (Quodl. II, q. 17, p. 187, 436 – p. 188, 441). Since the time of Augustine, theologians had agreed that man needs the gift of grace in order to love God more than himself, and that he cannot do so by natural means. However, in the early thirteenth century, theologians raised the question of whether, at least in his pre-lapsarian state, man did not love God more than himself. That this was in fact the case was the belief of Philip the Chancellor as well as Thomas Aquinas. Other authors, such as Godfrey of Fontaines and Giles of Rome, argued further that to deny man the natural capacity to love God more than himself, while allowing this to happen as a result of grace, was to imply that the operations of grace went counter to the those of nature, which was contrary to the universally accepted axiom that grace perfects nature and does not destroy it. By contrast, James of Viterbo famously argues in Quodl. II, q. 2, against the overwhelming consensus of theologians, that man naturally loves himself more than God. He has two arguments to show this (see Osborne 1999 and 2005 for a detailed commentary). The first is based on the principle that the mode of natural love is commensurate with the mode of being and, hence, of the mode of being one. Now a thing is one with itself by virtue of numerical identity, but it is one with something else by virtue of a certain conformity. For instance Socrates is one with himself by virtue of his being Socrates, but he is one with Plato by virtue of the fact that both share the same form. But the being something has by virtue of numerical identity is “greater” than the being it has by reason of something it shares with another. And given that the species of natural love follows the mode of being, it follows that it is more perfect to love oneself than to love another (Quodl. II, q. 20, p. 206, 148 – p. 149, 165). The second argument attempts to infer the desired thesis from the universally accepted premise that “the love of charity elevates nature” (Quodl. II, q. 20, p. 207, 166–67). This is true both of the love of desire and the love of friendship. In the case of love of desire, grace elevates by acting on the character of love: by natural love of desire we love God as the universal good. Through grace God is loved as the beatifying good. Regarding love of friendship, James explains that God's charity can only elevate nature with respect to its “mode,” that is, with respect to the object loved, by making God, not the self, the object of love. In other words, James is telling us that if we are to take seriously the claim that grace elevates nature, there is only one way in which this can occur, namely by making God, not the self, the object of greatest love, which implies that in his natural state man loves himself more than God. James' opposition to the consensus position on the issue of the love of self vs. the love of God would not go unnoticed. In the years following his death, such authors as Durand of Saint-Pourçain and John of Naples criticized him vigorously and attempted to refute his position (Jeschke 2009). Although James touches briefly on political issues in Quodl. I, q. 17 (see Côté, 2012), his most extensive discussions occur in his celebrated De regimine christiano (On Christian Government), written in 1302 during the bitter conflict pitting Boniface VIII against the king of France Philip IV (the Fair). De regimine christiano is often compared in aim and content with Giles of Rome's De ecclesiastica potestate (On Ecclesiastical Power), which offers one of the most extreme statements of pontifical supremacy in the thirteenth century; indeed, in the words of De regimine's editor, James' goal is “to formulate a theory of papal monarchy that is every bit as imposing and ambitious as that of [Giles]” (De regimine christiano: xxxiv). However, as scholars have also recognized, James shows a greater sensitivity to the distinction between nature and grace than Giles (Arquillière 1926). De regimine christiano is divided into two parts. The first, dealing with the theory of the Church, is of little philosophical interest, save for James' enlisting of Aristotle to show that all human communities, including the Church, are rooted in the “natural inclination of mankind.” The second and longest part is devoted to defining the nature and extent of Christ's and the pope's power. One of James' most characteristic doctrines is found in Book II, chapter 7, where he turns to the question of whether temporal power must be “instituted” by spiritual power, in other words, whether it derives its legitimacy from the spiritual, or possesses a legitimacy of its own. James states outright that spiritual power does institute temporal power, but notes that there have been two views in this regard. Some, e. g., the proponents of the so-called “dualist” position such as John Quidort of Paris, hold that the temporal power derives directly from God and thus in no way needs to be instituted by the spiritual, while others, such as Giles of Rome in De ecclesiastica potestate, contend that the temporal derives wholly from the spiritual and is devoid of any legitimacy whatsoever “unless it is united with spiritual power in the same person or instituted by the spiritual power” (De regimine christiano: 211). James is dissatisfied with both positions and, as he so often does, endeavors to find a “middle way” between them. His solution is to say that the “being” of the temporal power's institution comes both from God—by way of man's natural inclination—in “a material and incomplete sense,” and from the spiritual power by which it is “perfected and formed.” This is a very clever solution. On the one hand, by rooting the temporal power in man's natural inclination, albeit in the imperfect sense just mentioned, James was acknowledging the legitimacy of temporal rule independently of its connection to the spiritual, thus “avoid[ing] the extreme and implausible view of [Giles of Rome]” (Dyson 2009: xxix). On the other hand, making the natural origins of temporal power merely the incomplete matter of its being was a way of stressing its subordination and inferiority to the spiritual order, in keeping with his papalist convictions. Still, James' very choice of analogies to illustrate the relationship between the spiritual and temporal realms showed that his solution lay much closer to the theocratic position espoused by Giles of Rome than his efforts to find a “middle way” would have us believe. Thus, comparing the spiritual power's relation to the temporal in terms of the relation of light to color, he explains that although “color has something of the nature of light, (…) it has such a feeble light that, unless there is present a more excellent light by which it may be formed, not in its own nature but in its power, it cannot move the vision” (De regimine christiano: 211). In other words, James is telling us that although temporal power does originate in man's natural inclinations, it is ineffectual qua power unless it is informed by the spiritual. Bibliography Modern Editions of James' Works Abbreviatio in I Sententiarum Aegidii Romani, dist. 36. Edited by P. Giustiniani, Analecta Augustiniana, 42 (1979): 325–338. De regimine christiano. A Critical Edition and Translation by R.W. Dyson, Leiden: Brill. 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Come elemento figurativo, la sua origine è stata codificata iconograficamente fin dagli albori della figuratività cristiana, ovvero nel IV secolo.   Gli esempi del Mausoleo di Sant’Elena a Roma e della Chiesa di San Vitale a Ravenna (IV e VI sec.) Testimonianza preziosa e paradigmatica sono, ad esempio, i due mosaici delle calotte absidali del Mausoleo di Santa Costanza a Roma. Si tratta di un cimelio architettonico costruito attorno alla metà del IV secolo per la sepoltura della figlia di Costantino. Nei due mosaici, parzialmente restaurati e tra i pochi ad essersi conservati delle volte, si trovano due rappresentazioni di Cristo. La prima lo vede seduto sul Globo, mentre consegna le chiavi del Regno dei Cieli a Pietro (traditio clavium).  La seconda, invece, lo identifica giovane e apollineo mentre si erge sul monte da cui sgorgano i quattro fiumi dell’Eden, consegnando a Paolo la parola/legge della Nuova Alleanza (traditio legis). In entrambe le rappresentazioni musive, che costituiscono alcuni dei primi esempi di iconografia cristiana a Roma, il volto di Cristo è circonfuso da un’aureola blu-azzurra. Quest’ultima conferisce e immediatamente attribuisce alla figura un alone di divinità, disancorandolo dalla contingenza terrena e proiettandolo nella dimensione del trascendente.  Traditio clavium (a dx) e traditio legis (a sx) in due calotte del deambulatorio del Mausoleo di Santa Costanza a Roma (IV secolo) L’aureola è anche regale Talvolta, poi, sono i sovrani-imperatori stessi ad auto-rappresentarsi col capo circonfuso da aureola, come negli straordinari mosaici che arricchiscono il presbiterio della chiesa di San Vitale a Ravenna.Quest’ultimo, databile al secondo quarto del VI secolo, raffigura, tra gli altri, anche i ritratti degli imperatori Giustiniano e della moglie Teodora,entrambi corredati da aureola dorata.    L’imperatrice Teodora (a sx), moglie dell’imperatore Giustiniano (a dx), in due mosaici del presbiterio della Chiesa di San Vitale a Ravenna (VI secolo) Entrambi gli esempi, sebbene distanziati da ben due secoli, testimoniano alle origini del Cristianesimo ufficiale (ossia istituzionalizzato in una ecclesiae) un’iconografia dell’aureola già compiutamente codificata diffusa.   I primi esempi figurativi di aureole Sebbene, come detto, l’aureola costituisca un inconfondibile attributo iconografico cristiano, non è però nel Cristianesimo (che del resto si istituzionalizza nei primi secoli d.C.) che affondano le radici della sua nascita. Queste infatti, come del resto molti altri aspetti della liturgia e religione cristiana, devono essere rintracciate ben prima della nascita del Cristianesimo stesso.   Tale scelta figurativa risale a diversi secoli, se non millenni prima di Cristo.  Consiste nel rappresentare divinità (qualora queste potessero essere rappresentate) inscritte, totalmente o parzialmente, in aloni di luce funzionali a proiettare le figure in dimensioni ultraterrene ed evocarne la natura divina.  Per esempio, nella pittura parietale egizia, il dio Ra è quasi sempre rappresentato con un disco solare situato sopra il suo capo e inglobato da un cobra. In questo caso dunque, nelle rappresentazioni di Ra, il disco solare  ha soprattutto la funzione di rappresentare l’attributo del sole, di cui Ra, secondo la cosmologia egizia, era il dio referente.    Rappresentazione di Ra e Imentet (a sx.) sulle pareti della tomba di Nefertari nella Valle delle Regine a Luxor (Egitto) Quando l’aureola era ancora una corona raggiante Tuttavia, per poter conoscere i primi veri esempi di aureole, occorre risalire alle prime rappresentazioni della divinità di Mitra. Questa è nata in origine dallo Zoroastrismo (dal profeta Zarathustra, o Zoroastro) e successivamente, soprattutto presso l’Impero Romano, si è costituita come divinità indipendente e inscritta in uno specifico culto (quasi monoteista), detto appunto Mitraismo.  Nella fase imperiale soprattutto, il Mitraismodivenne la religione dominante dell’ecumene (sebbene non la sola) e poi concorrente al Cristianesimo delle origini. Quello che interessa rilevare però è che, in quanto dio solare e dunque simbolo di vita, anche nelle rappresentazioni di Mitra, la divinità venne ben presto corredata con attributi iconografici quali, per esempio, una “corona” raggiante.    Rappresentazione di Mitra come Sol Invictus su un disco argenteo romano Un simbolo trasversale della divinità tra Occidente e Oriente  Possono forse essere questi i primi significativi antecedenti dell’iconografia dell’aureola? Ben presto questa divenne un vero e proprio simbolo trasversale adottato in molte altre religioni di origine orientale. Forse la sua adozione è legata all’efficacia visiva con cui riesce a restituire allo sguardo un immediato riferimento alla dimensione trascendente e/o spirituale. Dapprima adottato nel Cristianesimo, questo riferimento venne poi, attraverso scambi culturali, trasmesso anche ad altre religioni orientali, tra le quali il Buddismo.   Sotto questo profilo appare infatti singolare che proprio negli stessi secoli in cui l’iconografia cristiana si codifica (tra il IV e il VI secolo), l’adozione dell’aureola come attributo iconografico si manifesta anche in diverse rappresentazioni buddiste in area cinese. Come si spiega questo utilizzo pressoché contemporaneo dell’aureola come attributo figurativo del divino, in due religioni così distanti e appartenenti a mondi diversi?  La chiave di volta è costituita ancora dal Mitraismo.    Reliquiario di Bimaran, I sec. d.C. circa Il Mitraismo è la chiave di lettura Per comprendere infatti la trasmissione di tali scelte figurative tra la cultura latina e quella asiatica, occorre risalire al primo secolo d.C. Per precisione quando gli Indo-sciti (popolazioni nomadi originarie dell’attuale Iran, dove lo zoroastrismo e con lui il Dio Mitra ebbero origine) e alcune popolazioni dell’Impero Kusana (originario dell’attuale Afghanistan), invasero e conquistarono alcuni territori degli attuali Pakistan e India. Portarono dunque  con sé e trasferirono alle popolazioni conquistate alcuni tratti della loro cultura e della loro religione, tra cui anche il Mitraismo con i rispettivi attributi iconografico-rappresentativi.  Nella latinità mediterranea, dunque, l’iconografia di Mitra avrebbe influenzato parzialmente quella cristiana. Parallelamente, attraverso un processo di osmosi culturale, la medesima iconografia veniva trasmessa anche alle culture e alle religioni orientali (Pakistan, India meridionale e, attraverso questa, la Cina), tra le quali anche il Buddismo. Questo processo pare avvenne precocemente, come testimonia il celebre reliquiario di Bimaran (città al confine con il Pakistan), databile al primo secolo d.C.   Dipinto cinese raffigurante Buddha (al centro) Ci sono poi altre importanti manifestazioni figurative del Buddismo, quali ad esempio alcune statue di Buddha risalenti al II sec. d.C. e oggi conservate al Tokyo National Museum. Oppure ancora diverse pitture cinesi raffiguranti Buddha sempre con il capo circonfuso da aureola.  Insomma, dalla pur brevissima disamina effettuata, ci si rende conto di quanto la cultura occidentale e quella orientale, dopo tutto, non siano poi così distanti. In questo senso, le testimonianze figurative nate dalle rispettive pratiche cultuali e religiose ne costituiscono un memorandum preziosissimo. Capocci. Keywords: peccatum – sin – holiness – aureola segno naturale della santita.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capocci” – The Swimming-Pool Library. Capocci.

 

Grice e Capodilista: l’implicatura conversazionale -- n principio era la conversazione – filosofia fascista – filosofia italiana – Luigi Speranza (Battaglia Terme). Filosofo italiano. Grice: “I like Capodilista – good vintage (literally)! – Capodilista is difficult to comprehend, but when I was struggling to find examples of implicatura due to exploiting ‘be perspicuous,’ he was whom I was thinking! Keywords in his philosophy are ‘il non-detto,’ ‘homos eroticus’ – filosofia dell’espressione – metafisica – equilibrio apolineo-dionisiaco, positive-negativo –“  “Un pensiero perfetto in sé non esiste; un pensiero è perfetto solo nella serie innumerabile dei pensieri che nascono da esso.»  (Quaderni). Appartenente ad una famiglia veneziana di nobili origini, nacque nella villa di famiglia da Angelo Emo e da Emilia dei baroni Barracco. Studia a Roma sotto Gentile. Le sue riflessioni sul nihilismo sono un'anticipazione della filosofia di Heidegger.  Debitore dell'attualismo gentiliano. Partendo da questo, giunse a trasformarlo in una filosofia dove l'atto è la re-figurazione dell'auto-negazione del nulla che comunque conserva una sua funzione positiva così come nela religione romana la morte del corpo ha la funzione di salvezza nella redenzione dello spirito (animo). La forma superiore dello spirito intristisce e cerca invano di uscire da sé per trovare qualcosa che lo salvi. Un'istanza di salvezza che trova senso nella religione romana. Dio espia la sua universalità. Distrugge ogni valore e il proprio, sì che lo sparire, il nascondersi di Dio nella sua espiazione non è altro che la nuova creazione dei valori, e così il ciclo ricomincia. Dio si abolisce col suo stesso realizzarsi. Un altro punto fondamentale di sua filosofia è la figura centrale dell’intersoggetivita., del rapporto concreto particoare, particolarizato, inter-personale contrapposto all’astrazioni di una collettività IMpersonale generalizato (universalita, universabilita, generalita formale, generalita applicazionale, generalita di contenuto --, sia quella esaltata da uno stato etico (la communita, la popolazione, la societa). Una diada conversazionale non può essere un dato. Una diada conversazionale può essere solo un rapposro inter-soggettivo, cioè due resurrezioni. Il filosofo è assillato da questo fondamentale problema. Il problema è questo: di quali fedi si nutre e sussiste il mondo? Quale è la fede autentica che lo sostiene nella vita che gli dà la forza dell'attività e la convinzione di partecipare con la sua vita (o la sua azione o il suo essere) alla immortalità, cioè all'assoluto? La diada conversazionale ha bisogno dell'assoluto (l’universabilita) e pertanto il suo problema è questa partecipazione all'assoluto. Come raggiungerà l'assoluto le due uomini – le due maschi -- della diada conversazionale? Quale sarà la sua fede laica? Non certo quella collettivistica-sociale che ha fatto uso della violenza, la forza, e la autorita illegitima, e ha fallito ma neppure quella etrusca che ha compresso la libertà di coscienza.  I etruschi sono nati sotto il segno dello scandalo. Ma il sacro si è allontanato dalla sua scandalosa azione originaria.  Perché in ogni fede vi è qualcosa di scandaloso e di vergognoso? Perché vi è qualcosa di vergognoso nella verità e nella vita stessa? Forse l'elemento vergognoso è l'intersoggetivita pura attorno a cui verte la fede e che si crea con la sua negazione. L’intersoggetività è sempre nuda e la nudità è scandalosa. I vestiti sono l'uniforme innecessari della società. Invano due maschi credono di distinguersi con le vesti; e credono che le due nudità sia uniformità. Le vesti sono il riconoscimento della società, del sociale. Ma le vesti sarebbero nulla se non fossero animate dalla vita intersoggetiva di due nudità. Le veste sono orgogliose delle due nudità che  socializzanoa. È quindi con la libertà degl’entrambi della diada, con le due nudità, con il rifiuto di ogni veste di uniformità, IM-personalita, ed obbedienza all'autorità ad una dottrina o scuola di mistica pitagorica collettivizzante, che la diada recupera la sua essenza duale intersoggetiva interpersonale particolarizata che si fonda sull'amore -- alta espressione del "singolare duale".  Altre opere: “Il dio negative” (Marsilio, Venezia); “La voce d’Apollo musogete: arte e religione nella Roma antica” (Marsilio, Venezia); “Supremazia e maledizione” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “Il mono-teismo demo-cratico” (Mondadori, Milano); “Metafisica” (Bompiani, Milano); Il silenzio (Gallucci, Roma); “La meraviglia del nulla” Dizionario Biografico degli Italiani. Le parole che si riferiscono a dei valori, si svalutano progressivamente come le monete, come, appunto, i valori.  Quando pensiamo troppo profondamente, perdiamo l’uso della parola. La parola si può “usare”, cioè profanare, quando non se ne comprende il significato. Se comprendessimo il significato delle parole, non usciremmo mai più dal silenzio.  La conversazione è pericolosa per un’idea, per uno spirito, per una verità che non resiste alla lieve immediatezza (e cioè rapidità) che è l’anima irriducibile di una conversazione e di una comunicazione tra viventi (e che altro è l’arte?). E così l’idea è pericolosa per una conversazione. Conversazione (espressione, comunicazione ecc.) e idea tentano continuamente di sopraffarsi. Appunto perché l’una non può vivere senza l’altra.  È lecito ad un artista prendere sul serio ciò che scrive? Non decade dalla sua qualità di artista e di creatore per divenire soltanto un credente? Il torto dei romantici è stato principalmente quello di prendersi sul serio; i più antichi scrittori prendevano sul serio il loro argomento, ma sempre conservandosi estranei ad esso; senza considerare la loro soggettività di creatori come l’oggetto stesso della loro creazione. I romantici invece prendevano sul serio se stessi, e ciò li rendeva ridicoli, perché ovviamente non potevano più mantenersi al di sopra del loro argomento. Si dovette, pertanto, da Baudelaire in poi, ricorrere ad una forma di ironia. Ciò che distingue la sfera (moderna) del sacro è la mancanza di ironia; eppure può anche darsi che l’universo che abitiamo sia una forma dell’ironia divina, manifestatasi come creazione. Nella sfera antica del sacro, gli Dei di Democrito e di Epicuro ridevano negli intermundi. La sfera della sacralità antica si differenzia dalla sfera della sacralità moderna appunto perché gli antichi Dei, grazia alla loro pluralità, conoscendosi l’un l’altro, ridevano. Un’ilarità che non si addice a un Dio unico e solitario, ma che potrebbe, se l’Unico non fosse troppo preso da se stesso e dalla sua onnipotenza, tradursi nel termine più moderno di ironia. A noi uomini accade appunto di osservare che l’ironia è il solo modo di distaccarci dalla nostra onnipotenza, di uscire all’esterno della nostra assolutezza.  Le opere d’arte, come tutte le immagini, sono in realtà dei ricordi. Sono la memoria. Noi amiamo un’opera d’arte perché essa è la nostra memoria che si risveglia, che riprende possesso di noi, e del suo universo, cioè di tutto. La memoria talvolta dimentica; ed essa ricorda quando dimentica.  La forma letteraria in cui meglio ci si può esprimere è appunto la lettera (l’epistola). Perché l’altro è sempre presenta mentre scriviamo e abbiamo la facoltà di creare il destinatario. Abbiamo la facoltà di creare un pubblico come destinatario? Se non avessimo la facoltà di creare un destinatario, individuale e universale, non scriveremmo mai. Forse non penseremmo neppure. Nessuno scrive per sé. L’immagine e la rappresentazione, che dovrebbero essere la fedeltà assoluta delle cose rappresentate, sono allora infedeltà altrettanto assoluta, diversità radicale dal rappresentato? Il rappresentato in quanto oggetto è per definizione diversità assoluta dal soggetto; come allora, con quale sintesi si può superare questo iato? In quanto differenza dal soggetto, l’oggetto ne è la negazione, la pura negazione; e questa negazione, in quanto puramente essa stessa, è soggetto essa medesima, cioè è il soggetto che si nega; è l’atto del soggetto, in quanto questo atto è l’atto del negarsi. Quindi noi siamo la rappresentazione, siamo l’atto in cui tutte le cose sono e vivono, cioè l’attualità, in quanto siamo autonegazione. La negatività è l’universalità dell’atto. L’eco è la voce del nulla, la parola del nulla, appunto perché è esattamente la nostra voce e la nostra parola, obiettivata, ripetuta. L’obiettività è la ripetizione del soggetto che non può mai ripetersi? Tutto ciò che pensiamo o scriviamo è nell’atto stesso una metamorfosi. Il nostro pensiero non ha altro oggetto che il proprio nulla. L’arte dello scrivere è l’arte di far dire alle parole tutte le trasmutazioni che esse contengono e sono – tutta la loro attuale diversità, tutta la negazione che esse sono quando si affermano, e tutta l’affermazione che viene espressa dalla negazione. Mediante la loro trasmutazione, che è l’affermarsi dell’attualità di una negazione (cioè dell’attualità dell’atto che si riconosce come negativo), le parole finiscono per creare un organismo, un organismo di parole, cioè la frase: L’organismo della frase e del verbo che trasforma la negatività della parola in un atto. La parola è la diversità dell’atto. Negarsi e attualità, negarsi e trascendenza e diversità, sono sempre, e sempre attualmente congiunti; perciò la parola contiene il seme della frase, del discorso. Forse il nostro nome è soltanto uno pseudonimo; forse anche i nomi delle cose sono pseudonimi. Ma qual è il vero nome? È più probabile che le cose come crediamo di vederle siano soltanto gli pseudonimi di un nome; e noi stessi e il nostro essere siamo pseudonimi; di un nome che forse non conosceremo mai e che appunto per questo ha una realtà suprema. Una realtà unica. Una sintesi invisibile di realtà e verità. Una realtà che la conoscenza (la scienza) non può dissolvere, analizzare. Gli scritti di aforismi o di idee frammentarie, di epigrammi o di formule, sono i modi di esprimere l’assoluto, o qualche assoluto, qualche verità in forma breve. Ma ognuno di questi frammenti vuole essere l’espressione dell’assoluto, e quindi non può essere frammentario. Frammenti e parti che sono relative all’assoluto, senza esserlo, si trovano nelle opere di una certa ampiezza, ampie come la vita. La vita, essendo universale, può essere plurale. Il Mangiaparole rivista n. 1Il Mangiaparole 6 Mario Gabriele Lo scrivere è una forma silenziosa (fonicamente) del parlare; ma è un parlare che ha il singolare privilegio di non essere interrotto, se non dalla propria coscienza; la coscienza è la madre, l’origine del discorso, ma è anche la coscienza che fa al discorso, cioè a se stessa, le continue obiezioni. La coscienza è il maggiore obiettore di coscienza. La coscienza parla per affermarsi o per smentire? La nostra scrittura è geroglifica come la nostra parola, che non coincide con ciò che vuole esprimere, ma soltanto vi allude simbolicamente; allude a qualcosa di originariamente noto od originariamente ignoto. A qualcosa di diverso. La parola stessa è originariamente diversità. La Parola è diversità da se stessa e perciò coincide con la diversità dell’atto, con la diversità originaria che vuole esprimere? Questa coincidenza era l’ideale, lo scopo, la fede dell’età dell’autocoscienza. L’età dell’autocoscienza e la tirannia; vi è sempre un quid al di là dell’espressione, senza questo quid l’espressione non sarebbe una metamorfosi. La metamorfosi vuole esprimere se stessa con la negazione; noi alludiamo alla diversità con la negazione, con la identificazione. Noi siamo la verità; è proprio per questo che ci è impossibile conoscerla. la conosciamo quando diventa altro da noi. La conoscenza, l’espressione, la stessa memoria creano l’anteriorità della verità e della sua attualità. Se la verità è un Eden, noi possiamo conoscerla solo quando ne siamo fuori, quando ne siamo espulsi ed esiliati. L’arte dello scrittore consiste nel creare una complicità nel lettore; e di quale colpa diviene complice il lettore? Non lo si è mai saputo. Esistono innumerevoli sistemi di estetica e di spiegazioni complesse e fallaci di un atto che è la semplicità originaria. Una complicità del lettore con l’autore. Il delitto (e il diletto) perfetto. Soltanto l’inesprimibile è degno di un’espressione. La parola è un irrazionale ed è strano che essa esista in un mondo razionale e quantitativo; nel mondo dell’identità. la razionalità è soltanto nel numero; la Parola è divina, anzi la scrittura ha identificato la Parola (il verbo) e la divinità; per gli antichi il numero aveva significati simbolici, cioè spirituali. Oggi il numero privato di ogni significato è identificato dalla sua «posizione» (nello spazio è o sarà il vero successore della parola – ma troverà in se stesso una nuova irrazionalità?) Il numero è la massima razionalità e insieme la massima irrazionalità come serie infinita; non possiamo vivere senza irrazionalità, appunto perché la vita è essa stessa irrazionalità; il numero può vivere? Noi parliamo, noi scriviamo, senza ricordarci la suprema scadenza del silenzio. L’espressione più perfetta è quella che crea l’inesprimibile. L’aforisma e l’ironia sono una professione di scetticismo nei confronti della poesia. L’aforisma è la definizione, l’analisi, la spiegazione, la risoluzione in termini umani della lirica; l’ironia è la scoperta dei suoi motivi non lirici: uno sguardo dietro le quinte. Come esprimerò io il mio pensiero, la mia vita, la mia esperienza? Questa dovrebbe essere l’interrogazione da ogni uomo posta a se stesso. Vero è però che in genere l’inesprimibile è ciò che per noi ha più valore e importanza; quello verso cui ci sentiamo più attirati; quello per cui sentiamo come un’antica, istintiva e simpatica affinità e parentela. La quantità di parole inutili che uno scrittore inserisce nel suo scritto è inversamente proporzionale all’importanza dello scrittore stesso. Vi sono scritti in cui nessuna, o quasi, parola può essere tolta senza grave danno per l’opera e per noi; altri in cui si possono togliere tutte… (Q. 14, 1932).   Il caso della vendita della Palladiana Villa Emo a un magnate straniero. SEMBRA CHIUDERSI UN LUNGO MINUETTO DURANTE IL QUALE LA BANCA DI CREDITO TREVIGIANO HA CONCRETIZZATO L’INTENZIONE (SINO AD ORA MAI UFFICIALMENTE AMMESSA) DI ALIENARE IL BENE.    La vendita della Palladiana Villa Emo a Fanzolo di Vedelago è stata ufficializzata.  Il consiglio di amministrazione di Banca di Credito Trevigiano, che ne detiene la proprietà (da quando per 15 milioni di euro la acquistò dall’ultimo erede, il conte Leonardo Marco Emo Capodilista) ha messo ai voti il suo destino e ha deciso: accetterà l’offerta di uno sconosciuto magante straniero.  IL PERCORSO Sembra chiudersi così un lungo minuetto durante il quale l’istituto di credito ha concretizzato l’intenzione (sino ad ora mai ufficialmente ammessa) di alienare il bene. Il 9 gennaio la prima avvisaglia attraverso un comunicato stampa che parlava di un’offerta d’acquisto misteriosamente pervenuta “da un privato appassionato del Palladio, e desideroso di riportare la Villa (Patrimonio Unesco dal 1996) al suo originario splendore”. Ora la conferma di cedere “il solo edificio storico e non gli adiacenti cespiti occupati dalla banca. L’immobile oggetto della trattativa -specifica l’ultima comunicazione- non rappresenta un asset strumentale all’attività bancaria e il Consiglio di amministrazione (…) ha deciso di dare il via libera alle attività propedeutiche alla due diligence di tipo tecnico per giungere all’eventuale chiusura della transazione entro l’anno 2019. Fatto salvo il diritto di prelazione previsto dal D.lgs. a favore del Ministero dei Beni culturali e delle altre competenti autorità”. Nota, quest’ultima, che, ad onor del vero, suona un po’ come una beffa: se lo stesso ente di credito ad oggi dimostra di non poter investire nel mantenimento del bene (ordinario e straordinario inclusi i restauri di cui gli affreschi dello Zelotti avrebbero urgenza), ancor più lontana appare l’ipotesi che possa farsene carico un ente pubblico.  LA STORIA La storia recente del resto lo conferma: dopo il commissariamento (seppur temporaneo) da parte di Bankitalia, la fondazione appositamente creata per la gestione della villa ha dovuto dire addio ai 325 mila euro annui che Credito Trevigiano versava. Insufficienti i proventi derivanti da bigliettazione e affitto degli spazi. Così i bilanci in perdita, primi licenziamenti per il personale della fondazione, le dimissioni, nell’ottobre scorso del presidente Armando Cremasco. Poi, reciproche accuse tra parti, la preoccupazione del sindaco, la petizione “No alla vendita di Villa Emo a Fanzolo di Vedelago” su change.org che raggiunge in pochi giorni quota 975 firme. Tentativo inutile ma che tocca, negli intenti, un nodo fondamentale della vicenda: i firmatari sono soci, clienti della banca e semplici cittadini che riconoscono in Villa Emo il bene più rappresentativo della loro comunità. Un bene acquisito da una banca strettamente legata al territorio e che su di esso ha come stesso suo mandato quello di reinvestire. Una banca della comunità in cui però la comunità, a seguito di questo atto, non si riconosce più.  IL CASO DI VILLA EMO Il caso di Villa Emo, generalizzando, appare uno fra molti nell’inarrestabile processo di alienazione del nostro patrimonio storico. Perché agitarsi tanto se, solo per citare i casi territorialmente più prossimi, la magnate cinese Ada Koon Hang Tse ha recentemente acquisito Villa Cornaro a Piombino Dese (Padova) e il veneziano Palazzo Pisani Moretta sul Canal Grande? Perché forse, per fare un po’ d’ordine, ogni singola vicenda necessiterebbe d’un corretto approccio, di una corretta lettura, esercitando invece proprio il diritto a una non generalizzazione in polemiche a catena. Polemiche aventi nel nostro paese sempre le stesse parole-chiave: sostenibilità, valorizzazione, gestione strategica, autosufficienza nonché il terribile reiterato “fare sistema”. Anche il caso di Villa Emo (per la verità per ora confinato alla cronaca locale) si presterebbe quindi benissimo a dibattiti e disquisizioni filologiche in rapporto al paesaggio, alla fruizione futura (sarà ancora accessibile?) agli immancabili paragoni gestionali (esteri) qui in Italia spesso apparentemente inattuabili. Ma servirebbero, ancora una volta, a tener desta per un po’ l’attenzione e nulla più. L’analisi dei fatti dimostra solamente una sola, nuda verità: siamo bravissimi a scatenare il dibattito e a proporre a parole soluzioni possibili ma anche stavolta, conti alla mano, non siamo stati capaci di elaborare un piano di sostenibilità per tenerci stretto qualcosa che appartiene alla nostra storia. Non resta che augurarci che il nuovo proprietario si riveli un illuminato signore in villa. Così potremo risolvere il tutto con la consueta, amara alzata di spalle: “molto rumore per nulla”. Rodenigo Villa Emo is one of the many cre­ations con­ceived by Ital­ian Re­nais­sance ar­chi­tect Andrea Palladio. It is a pa­tri­cian villa lo­cated in the Veneto re­gion of north­ern Italy, near the vil­lage of Fan­zolo di Vedelago, in the Province of Tre­viso. The pa­tron of this villa was Leonardo Emo and re­mained in the hands of the Emo fam­ily until it was sold in 2004. Since 1996, it has been con­served as part of the World Her­itage Site »City of Vi­cenza and the Pal­la­dian Vil­las of the Veneto«.[1]  History Andrea Palladio's ar­chi­tec­tural fame is con­sid­ered to have come from the many vil­las he de­signed. The build­ing of Villa Emo was the cul­mi­na­tion of a long-lasting pro­ject of the pa­tri­cian Emo fam­ily of the Re­pub­lic of Venice to de­velop its es­tates at Fan­zolo. In 1509, which saw the de­feat of Venice in the War of the League of Cam­brai, the es­tate on which the villa was to be built was bought from the Bar­barigo fam­ily.[2] Leonardo di Gio­van­nia Emo was a well-known Venet­ian aris­to­crat. He was born in 1538 and in­her­ited the Fan­zolo es­tate in 1549. This prop­erty was ded­i­cated to the agri­cul­tural ac­tiv­i­ties that the fam­ily pros­pered from. The Emo family's cen­tral in­ter­est was at first in the cul­ti­va­tion of their newly ac­quired land. Not until two gen­er­a­tions had passed did Leonardo Emo com­mis­sion Pal­la­dio to build a new villa in Fan­zolo.  Historians un­for­tu­nately do not have firm chronol­ogy of dates on the de­sign, con­struc­tion, or the com­mence­ment of the new build­ing: the years 1555 or 1558 is es­ti­mated to have been when the build­ing was de­signed, while the con­struc­tion was thought to have been un­der­taken be­tween 1558 and 1561. There is no ev­i­dence show­ing that the villa was built by 1549: how­ever, it has been doc­u­mented to have been built by 1561. The 1560s saw the in­te­rior dec­o­ra­tion added and the con­se­cra­tion of the chapel in the west barchesse in 1567.[1] The date of com­ple­tion is put at 1565; a doc­u­ment which at­tests to the mar­riage of Leonardo di Alvise with Cor­nelia Gri­mani has lasted from that year.[3] Par­tial al­ter­ations were made to the Villa Emo in 1744 by Francesco Muttoni. Arches within both wings that were close to the cen­tral build were sealed off and ad­di­tional res­i­den­tial areas were cre­ated. The ceil­ings were al­tered. The villa and its sur­round­ing es­tate were pur­chased in 2004 by an in­sti­tu­tion and fur­ther restora­tions were made.  Since 1996, it has been con­served as part of the World Her­itage Site »City of Vi­cenza and the Pal­la­dian Vil­las of the Veneto«.[1]  The villa is at the cen­tre of an ex­ten­sive area that bears cen­turi­a­tion, or land di­vi­sions, and ex­tends north­ward. The land­scape of Fan­zolo has a con­tin­u­ous his­tory since Roman times and it has been sug­gested that the lay­out of the villa re­flects the straight lines of the Roman roads.[2]  Architecture Marcok The main building (casa dominicale). Villa Emo was a prod­uct of Palladio's later pe­riod of ar­chi­tec­ture. It is one of the most ac­com­plished of the Pal­la­dian Vil­las, show­ing the ben­e­fit of 20 years of Palladio's ex­pe­ri­ence in do­mes­tic ar­chi­tec­ture. It has been praised for the sim­ple math­e­mat­i­cal re­la­tion­ships ex­pressed in its pro­por­tions, both in the el­e­va­tion and the di­men­sions of the rooms. Pal­la­dio used math­e­mat­ics to cre­ate the ideal villa. These «harmonic pro­por­tions» were a for­mu­la­tion of Palladio's de­sign the­ory. He thought that the beauty of ar­chi­tec­ture was not in the use of or­ders and or­na­men­ta­tion, but in ar­chi­tec­ture de­void of or­na­men­ta­tion, which could still be a de­light to the eye if aes­thet­i­cally pleas­ing por­tions were in­cor­po­rated. In 1570, Pal­la­dio pub­lished a plan of the villa in his trea­tise I quat­tro libri dell'architettura. Un­like some of the other plans he in­cluded in this work, the one of Villa Emo cor­re­sponds nearly ex­actly to what was built. His clas­si­cal ar­chi­tec­ture has stood the test of time and de­sign­ers still look to Pal­la­dio for in­spi­ra­tion.[1]    Renato Vecchiato [CC-BY-SA-3.0] Another view of Villa Emo. The layout of the villa and its es­tate is strate­gi­cally placed along the pre-existing Roman grid plan. There is a long rec­tan­gu­lar axis that runs across the es­tate in a north-south di­rec­tion. The agri­cul­tural crop fields and tree groves were laid out and arranged along the long axis, as was the villa it­self.[1]  The outer ap­pear­ance of the Villa Emo is marked by a sim­ple treat­ment of the en­tire body of the build­ing, whose struc­ture is de­ter­mined by a geo­met­ri­cal rhythm. The con­struc­tion con­sists of brick-work with a plas­ter fin­ish, vis­i­ble wooden beams seen in the spaces of the piano no­bile, and coffered ceil­ings like that within the log­gia. The cen­tral struc­ture is an al­most square res­i­den­tial area.[4] The liv­ing quar­ters are raised above ground-level, as are all of Palladio's other vil­las. In­stead of the usual stair­case going up to the main front door, the build­ing has a ramp with a gen­tle slope that is as wide as the pronaos. This re­veals the agri­cul­tural tra­di­tion of this com­plex. The ramp, an in­no­va­tion in the Pal­la­dian vil­las, was nec­es­sary for trans­porta­tion to the gra­naries by wheel­bar­rows loaded with food prod­ucts and other goods. The wide ramp leads up to the loggia which takes the form of a col­umn por­tico crowned by a gable – a tem­ple front which Pal­la­dio ap­plied to sec­u­lar build­ings. As in the case with the Villa Badoer, the log­gia does not stand out from the core of the build­ing as an en­trance hall, but is re­tracted into it. The em­pha­sis of sim­plic­ity ex­tends to the col­umn order of the log­gia, for which Pal­la­dio chose the ex­tremely plain Tuscan order.[2] Plain win­dows em­bell­ish the piano no­bile as well as the attic.  The cen­tral build­ing of the villa is framed by two sym­met­ri­cal long, lower colon­naded wings, or barchesses, which orig­i­nally housed agri­cul­tural fa­cil­i­ties, like gra­naries, cel­lars, and other ser­vice areas. This was a work­ing villa like Villa Ba­doer and a num­ber of the other de­signs by Pal­la­dio. Both wings end with tall dove­cotes which are struc­tures that house nest­ing holes for do­mes­ti­cated pi­geons. An ar­cade on the wings face the gar­den, con­sist­ing of columns that have rec­tan­gu­lar blocks for the bases and capi­tols. The west barchesse also con­tains a chapel. The barchesses merge with the cen­tral res­i­dence, form­ing one ar­chi­tec­tural unit. This ty­po­log­i­cal for­mat of a villa-farm was in­vented by Pal­la­dio and can be found at Villa Bar­baro and Villa Baroer.[1]  Andrea Pal­la­dio em­pha­sises the use­ful­ness of the lay-out in his trea­tise. He points out that the grain stores and work areas could be reached under cover, which was par­tic­u­larly im­por­tant. Also, it was nec­es­sary for the Villa Emo's size to cor­re­spond to the re­turns ob­tained by good man­age­ment. These re­turns must in fact have been con­sid­er­able, for the side-wings of the build­ing are un­usu­ally long, a vis­i­ble sym­bol of pros­per­ity. The Emo fam­ily in­tro­duced the cul­ti­va­tion of maize on their es­tate (and the plant, still new in Eu­rope, is de­picted in one of Zelotti's fres­coes). In con­trast to the tra­di­tional cul­ti­va­tion of mil­let, con­sid­er­ably higher re­turns could be ob­tained from the maize.[5] It is not clear if the long walk, made of large square paving-stones, which leads to the front of the house, served a prac­ti­cal pur­pose. It seems to be a fifteenth-century thresh­ing floor.[6] How­ever, Pal­la­dio ad­vised that thresh­ing should not be car­ried out near a house.  Hans A. Rosbach. Frescoes by Giovanni Battista Zelotti, west wall of the hall Frescoes Hans A. Rosbach [CC BY-SA 3.0] Hall West The ex­te­rior is sim­ple, bare of any dec­o­ra­tion. In con­trast, the in­te­rior is richly dec­o­rated with fres­coes by the Veronese painter Gio­vanni Bat­tista Zelotti, who also worked on Villa Foscari and other Pal­la­dian vil­las. The main se­ries of fres­coes in the villa is grouped in an area with scenes fea­tur­ing Venus, the god­dess of love. Zelotti ap­pears to have com­pleted the work on the fres­coes by 1566.[1]  In the log­gia, the fres­coes have rep­re­sen­ta­tions of Cal­listo, Jupiter, Jupiter in the Guise of Diana, and Cal­isto trans­formed into a Bear by June. The Great Room is filled with fres­coes that were placed be­tween Corinthian columns that rise from high pedestals. The events in the fres­coes con­cen­trate on hu­man­is­tic ideals and Roman his­tory al­lud­ing to mar­i­tal virtues. Ex­em­plary scenes in­clude Virtue por­trayed in a scene from the life of Sci­pio Africanus. On the left wall is the scene of Scio­pio re­turns the girl be­trothed to Al­lu­cius and the right wall a scene show­ing The Killing of Vir­ginia. The sides  of these fres­coes have false niches that con­sist of mono­chrome fig­ures: Jupiter hold­ing a torch, Juno and the Pea­cock, Nep­tune with the Dol­phin, and Cy­bele with the Li­oness. These fig­ures al­lude to the four nat­ural el­e­ments (fire, air, water, earth). Side pan­els con­tain enor­mous pris­on­ers emerg­ing from the false ar­chi­tec­tural frame­work. On the south wall of the great hall to­ward the vestibule is a false bro­ken ped­i­ment that ap­pears above a real en­trance arch. A fresco of two fe­male fig­ures, Pru­dence with the Mir­ror and Peace with an Olive Branch, can be seen. The North wall at the cen­ter of the upper part of the build­ing con­tains the crest of the Emo Fam­ily. It is carved and gilt wood, sur­rounded by trompe-l'œil cor­nices and festoons.[1]  To the left of the cen­tral cham­ber is the Hall of Her­cules. It con­tains episodes re­fer­ring mainly to the mytho­log­i­cal hero. The in­tent was to em­pha­size the vic­tory of virtue and rea­son over vice. The fres­coes are in­serted in a frame­work of false ionic columns. The east wall con­tains scenes of Her­cules em­brac­ing De­janira, Her­cules throw­ing Lica into the sea, and The Fame of Her­cules at the cen­ter. The west wall is Her­cules at the Stake, placed within false arches. On the south wall is a panel above the door­way that de­picts a Noli me Tan­gere («Touch Me Not») scene.[1]  To the right of the cen­tral cham­ber is the Hall of Venus. This hall con­tains episodes that refer to the God­dess of Love. On the west wall within false arches are the scenes of Venus de­ters Ado­nis from Hunt­ing and Venus aids the Wounded Ado­nis. The east wall fresco shows Venus wounded by Love. On the south wall is a panel above the door­way that shows Pen­i­tent St. Jerome.[1]  The Ab­sti­nence of Scipio ap­pears fre­quently in cy­cles of fres­coes for Venet­ian vil­las. For ex­am­ple, the Villa la Porto Colleoni in Thiene and Villa Cordel­lina in Mon­tec­chio Mag­giore, built nearly 200 years later, also use this image, fos­ter­ing ideals which, had in the 15th and 16th cen­turies, re­sulted from the re­newed dis­cus­sion of the de­prav­ity of town life, in con­trast to the tran­quil­ity, abun­dance, and free­dom of artis­tic thought as­so­ci­ated with rural ex­is­tence. Hence, an­other room in the villa is called the Room of the Arts, fea­tur­ing fres­coes with al­le­gories of in­di­vid­ual arts, such as as­tron­omy, po­etry or music.[7]Within the many fres­coes are de­pic­tions of dif­fer­ent flow­ers and fruit, in­clud­ing corn, only re­cently in­tro­duced into the Po Val­ley. Many of the frescoes are pre­sented within false ar­chi­tec­ture, like columns, arches and ar­chi­tec­tural frame­work.[1]  Media Markhole [CC BY-SA 4.0] Perspective view of the front grounds Marcok / it.wikipedia.org [CC BY-SA 3.0] Perspective view of the rear garden. In the 1990s Villa Emo was fea­tured in Guide to His­toric Homes: In Search of Palladio,[8]Bob Vila's three-part six-hour pro­duc­tion for A&E Net­work.  The movie Ripley's Game used the Villa Emo as a lo­ca­tion. The City of Vicenza and The Palladian Villas in the Veneto: A Guide to the UNESCO Site. Italy: The Unesco Office of the Municipality of Vicenza, the Ministry of Cultural Assets and Activities. 2009. pp. 186–191. ^ a b c Wundram (1993), p. 164 ^ Wundram (1993), p. 165 ^ Beltramini, Guido (2009). Palladio. Italy. . ^ Wundram. Palladio Centre ArchivedJune 10, 2008, at the Wayback Machine (in English and Italian)Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio, accessed September 2008 ^ Wundram (1993), p. 173 ^ BobVila.com. »Bob Vila's Guide to Historic Homes: In Search of Palladio«. ^ »Ripley's Game News« ArchivedJune 9, 2008, at the Wayback Machine Retrieved on 2008 05 31 Sources The City of Vicena and The Palladian Villas in the Veneto: A Guide to the Unesco Site. Italy: The Unesco Office of the Municipality of the City of Vicenza. 2009. pp. 186–191. Wassell, Stephen R. »Andrea Palladio (1508-1580)«. Nexus Network Journal: 213–222. Beltramini, Guido, Palladio. Italy;  Boucher, Bruce (1998) [1994]. Andrea Palladio: The Architect in his Time (revised ed.). New York: Abbeville Press. Rybczynski, Witold; The Perfect House: A Journey with Renaissance Master Andrea Palladio. New York: Scribner. Wundram, Manfred (1993). Andrea Palladio, Architect between the Renaissance and Baroque, Cologne, Taschen.  Andrea Emo Capodilista. Emo Capodilista. Keywords: in principio era la conversazione, filosofia fascista, I taccuini del barone Capodilista, il taccuino del barone Capodilista. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capodilista” – The Swimming-Pool Library. Capodilista.

 

Grice e Capograssi: l’implicatura conversazionale degl’eroi di Vico – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sulmona). Filosofo italiano. Grice: “I love Capograssi; at Oxford we’d call him a lawyer, but the Italians call him a philosopher! My favourite of his tracts is his attempts – linked as he was to the Napoli area – Vico relevant! Oddly, he stresses the ‘Catholic,’ or RC, as we say at Oxford, rather than the heathen, pagan, side, of this illustrious philosopher who Strawson – as along indeed with Speranza -- think as the greatest Italian philosopher that ever lived – I mean, what can be more Italian than Vico?!” Si occupa principalmente di filosofia del diritto. Fu membro della Corte costituzionale. Da un'antica famiglia nobile che vi si era trasferita da un comune della provincia di Salerno, a seguito del vescovo Andrea. Si laurea a Roma con “Lo stato e la storia", in cui già affiorano le problematiche connesse alle interrelazioni fra individuo, società e stato: problematiche che impegneranno tutta la sua filosofia. Insegna a Sassari, Macerata, Padova, Roma, e Napoli. Prende parte ai lavori che portarono alla redazione del Codice di Camaldoli.  La sua filosofia si centra nell’esperienza giuridica ed è rivolta alla centralizzazione della volontà del soggetto agente, che si imprime nell'azione stessa, vera fonte di espressione giuridica e di vita. La filosofia dovrebbe quindi occuparsi della vita e dell'azione, avendo a centro della sua speculazione la "persona".  Il suo pensiero si ricollega al personalismo. Il ponere al centro della sua filosofia il rapporto essenziale che intercorre fra il diritto inteso come esigenza giuridica e la vita consente alla filosofia del diritto di superare il campo della tecnica giuridica per pervenire ad una visione organica e totale del reale, cioè a Dio.  Fede e scienza; Lo Stato; Riflessioni sull'autorità; democrazia diretta; Analisi dell'esperienza comune; L’esperienza giuridica; La vita etica; Il problema della scienza del diritto); Incertezze sull'individuo, Milano, Giuffrè).  “Pensieri” sono alcuni scritti vergati su foglietti e conseglla. Nei Pensieri, poi raccolti e pubblicati, si colgono i momenti salienti della sua filosofia. La teoria dei valori. Il personalismo.  Il positivismo giurdico in Italia. Decentramento e autonomie nel pensiero politico europeo.  I sentieri dell'uomo comune. Dizionario biografico degli italiani. Kelsen avrebbe, invece, potuto utilizzare la stessa idea di una Norma Fondamentale come un principio etico-politico costituente. Anzi, proprio perché essa è tale, non si identifica con la pura fatticità della Forza, come, invece, pensa C.. Ed è rivendicando la funzione costituente della Norma Fondamentale che Bobbio può osservare: Il C. sostiene che tutta la costruzione kelseniana è così solida solo perché poggia su alcuni presupposti, e che questi presupposti non sono soltanto delle ipotesi di lavoro utili alla ricerca, ma si fondano su una vera e propria concezione della realtà. E che questa concezione è che il diritto è forza (N. BOBBIO, La teoria pura del diritto ecc., cit., p. 24. Per la posizione di C. si veda: Impressioni su Kelsen tradotto, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», poi in Opere, Giuffrè, Milano). Le argomentazioni di Capograssi, secondo Bobbio, rinviano a una concezione giusnaturalistica del diritto che confonde «il criterio di validità e il criterio di giustificazione del diritto», e aggiunge che il Kelsen si limita a dire che il diritto esiste (indipendentemente dal fatto che sia giusto o ingiusto) solo quando la norma, oltre che valida, è anche efficace (il cosiddetto principio di effettività). Non si potrebbe mai trarre dalla concezione kelseniana il principio che il diritto è giusto in quanto è comandato, perché da nessun passo del Kelsen si può trarre la conclusione che il diritto, il quale esiste in quanto è comandato (e fatto valere colla forza), sia anche giusto53. Dunque, l’insoddisfazione di Bobbio per la soluzione kelseniana nasce dal fatto che il giurista viennese lascia aperto il problema del che cosa fondi e legittimi il sistema normativo e l’ordinamento giuridico, con la 50 BOBBIO, La teoria pura del diritto e i suoi critici, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», poi ristampato in ID., Studi sulla teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino; Il saggio è ora in ID., Diritto e potere, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli. Utilizzo quest’ultima edizione. La citazione è alla p. 39. 51 Cfr. BOBBIO, MaxWeber e Hans Kelsen, «Sociologia del diritto», , ora in ID., Diritto e potere, BOBBIO, La teoria pura del diritto ecc.. Per la posizione di Capograssi si veda: Impressioni su Kelsen tradotto, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», poi in ID., Opere, vol. V, Giuffrè, Milano, BOBBIO, La teoria pura del diritto, BISIGNANI conseguenza che la stessa funzione costituente della Norma Fondamentale non viene esplicitata. L’esigenza di superare i limiti teorici di Kelsen non comporta, però, il recupero del giusnaturalismo come ideologia (come idea di una fondazione del diritto su valori assoluti e trascendenti), ma sollecita il pieno recupero di quelle ragioni etiche e sociali che, dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale e dopo l’olocausto, si erano manifestate come una “rinascita del giusnaturalismo”54. Per queste ragioni Bobbio non si lascerà mai tentare dal ridurre lo Stato al suo ordinamento giuridico; a quello Stato-Forza che Capograssi rinfaccia a Kelsen. REFS.: Impressioni su Kelsen. C. E IL NICHILISMO GIURIDICO. ASPETTI DELLA CRISI DELLA SCIENZA GIURIDICA. Le “Impressioni su Kelsen tradotto” come critica all’astratto formalismo giuridico kelseniano e alla teoria del diritto come “forza e forma”. La “pars destruens” di C.. C. scrisse le “impressioni su Kelsen tradotto” poco dopo la traduzione della teoria generale del diritto e dello stato da Cotta e Treves, edita dalle Edizioni di Comunità. Si tratta di un saggio denso, in cui la prosa capograssiana e la sua cifra stilistica è mossa, libera, sinuosa, andante come sempre, ma particolarmente severa, austera, critica, propositiva, concettualizzante, come dappresso noteremo, sia nella “pars destruens” che nella “pars costruens” del saggio. La pars destruens è chiara e persuasiva. La dottrina kelseniana dello stato e del diritto si pone fuori i reali problemi della scienza giuridica ed una prima immediata impressione ha il lettore, e deve subito dirla, una impressione singolare di riposo. Sarebbe così bello se uno potesse accettare questo pensiero. Come si capisce il successo che ebbe quando nacque, in un’epoca e in un mondo, che ci è ormai così lontano e che era così facile ad accogliere ogni genere di illusioni. Qui non ci sono più problemi. Come per un’operazione di magia i problemi sono spariti. Non ci sono più disordini, incertezze, incoerenze, nel pensiero e nella realtà. Ogni cosa è sistemata ordinata disegnata in una specie di piano regolatore, che smista e distribuisce tutto in compartimenti separati. Se uno potesse accettare. Con tanto più impegno di attenzione il lettore è indotto a leggere.  Il diritto come concepito e teorizzato da Kelsen è una scienza esangue. Lo notava pure  Pigliaru, in “Persona umana ed ordinamento giuridico” richiamando proprio in nota il pensiero capograssiano testè citato. E’ un diritto scisso dall’essere e dalla storia, fondato su un’astratta idea di dovere contrapposta all’essere, entro una rigida separazione, che Kelsen svolge nell’opera surriferita, ma anche in altri scritti, tra natura (essere) e spirito (devere). Si tratta di un’idea di scienza giuridica totalmente formale, fondata sulla norma giuridica, monade, essenza, fondamento del sistema kelseniano. Il diritto è un ordinamento coercitivo basato sulla validità, cioè la forza vincolante e sull’efficacia cioè l’effettiva applicazione delle norme giuridiche. L’ordinamento giuridico è un sistema di norme connesse fra loro in base al principio che il diritto regola la propria creazione. Lo stato, il potere dello stato, i tre poteri dello stato, gli elementi dello stato, sono soltanto stadi diversi nella creazione dell’ordinamento giuridico. Così come, in questa intelaiatura teoretica, per Kelsen quelle che per lui sono le due fondamentali forme di governo, democrazia ed autocrazia, sono modi diversi di creare l’ordinamento giuridico. Lo stato, entro una simile ed asfittica concezione, è un ordinamento giuridico espressione di norme giuridiche valide ed efficaci, collocate in un sistema giuridico gerarchico, in cui ogni norma trae il fondamento della sua validità dalla norma gerarchicamente superiore e la stessa costituzione è ridotta a norma sulla normazione, sulle procedure di formazione della legge. C. nota opportunamente che lo stato è, altresì, un ordinamento relativamente accentrato, a differenza dell’ordinamento internazionale più decentrato. Un ordinamento che produce diritto e da cui deriva la giurisprudenza normativa, che coincide con un sistema di norme valide, che è l’unico sistema che deve riguardare l’indagine del filosofo della giurisprudenza. C. osserva, inoltre, che in Kelsen il diritto in senso sociologico che descrive l’effettivo comportamento umano che rappresenta il fenomeno del diritto e cerca di predire l’attività degli organi creatori del diritto e specialmente quella dei tribunali e lo stato in senso sociologico riguardano la sfera dell’ efficacia del diritto, delle norme, e sono condizionati dal diritto normative, così come quest’ultimo concerne la sfera della validità delle norme e condiziona la scienza sociologica del diritto. Ma scienza delle norme e scienza dei fatti sono scisse, ciascuna vive di vita propria, sono parallele e non interferenti, sempre rigorosamente distinte ed eterogenee. In questi due mondi così puri l’uno e l’altro, il filosofo si muove con la libera facilità con cui l’uccello vola nell’aria. Di conseguenza, la giurisprudenza normativa non si interseca mai con la giurisprudenza sociologica, il diritto come tecnica della sanzione ed ordinamento coercitivo può rivestire qualsiasi contenuto, in una concezione del dovere assolutamente formale che non ha nemmeno per così dire il contenuto di sé stessa come dovere, perché questo dovere  non ha nulla del dovere reale. E afferma altresì l’insigne autore, citando Bobbio e comparando la teoria generale del Kelsen a quella di Carnelutti, che se la teoria generale è teoria generale del diritto POSITIVO, sicuramente quella del Carnelutti, a differenza di quella del Kelsen, è relativa alla vita stessa della realtà giuridica, perché muove dalla nozione di diritto come composizione di conflitti di interesse. La teoria generale del Kelsen è astratta e resta sulla superficie della norma e della vita dell’esperienza giuridica comunale, perché il sistema gerarchico di norme valide trae il suo fondamento da una norma non da un fatto, da una norma fondamentale, una “Grundnorm”, presupposta ed ipotetica, ricavata con procedimento interpretativo dal filosofo. Quest’ultima pone una data autorità, non si fonda su nessuna norma, è valida» in virtù del suo contenuto e non «perché è stata creata in un certo modo, al pari di una norma di diritto naturale, a prescindere dalla sua validità puramente ipotetica, ed il suo contenuto è il fatto storico particolare qualificato dalla norma fondamentale come il primo fatto produttivo del diritto. La norma fondamentale cioè significa in un certo senso, la trasformazione del potere in diritto. La perfetta separazione della forma dal contenuto, la perfetta indifferenza della forma da qualsiasi contenuto, che è la base di tutto questo sistema, non vale per la norma fondamentale, che da validità a tutte le norme, che si caratterizzano proprio perché il contenuto è per esse indifferente…perché è proprio il contenuto a dare qui validità alla norma fondamentale». L’identificazione perfetta tra diritto e Stato, inoltre, fondata sulla “Grundnorm” e “l’esteriorità” del diritto, osserva il Nostro, deriva da una concezione del diritto «come forza», come «diritto naturale della forza». E’sistema di «norme sanzionatorie» che, formalmente, sono «un aliquid di stabile di fronte al perpetuo oscillare della forza», ma la cui validità è “emanazione” di una “norma fondamentale”, la quale trae il proprio contenuto dall’evento di forza che si è assicurato il potere vale a dire il diritto di riempire le forme vuote delle norme».Questo è il «residuo giusnaturalistico kelseniano»: il diritto naturale della forza» che fonda il diritto positivo statale. La prosa capograssiana sul punto è vibrante, incisiva: «qui il diritto è forza organizzata, cioè forza e forma; la forza sostiene e riempie la forma, la forma riveste la forza». La “pars destruens” del saggio in esame giunge al suo acme con una metafora corrosiva: «la rappresentazione del diritto che è in questo libro…richiama la visione di quegli spettri di città e paesi, che i bombardamenti avevano demolito in modo che erano rimasti in piedi muri e travi: non c’era più nulla tranne quel tragico scheletro di case nude e vuote, terribili sotto la luna», «ma che si sarebbe detto di uno di noi che avesse preso quei “cadavera urbium” per città viventi, per le case dove gli uomini vivono? Ci sarebbe stato errore pari a questo? E così accade per il diritto, come è esposto in questo libro». Il diritto è, in definitiva, confuso dal Kelsen per «eventi di forza», «dispositivi di sanzioni», «sistemi coercitivi». La “pars costruens” capograssiana ed il richiamo al pensiero del VICO ed alla concezione del “diritto come esperienza” La “pars costruens” dello scritto oggetto delle presenti considerazioni richiama, con riferimenti sintetici ma convincenti, il pensiero del Vico, sempre presente nella riflessione del C., la storia e lo storicismo, la nozione di esperienza. Capograssi indica come prioritaria la necessità «di non mutilare l’oggetto della scienza del diritto, cioè l’esperienza», «riducendola tutta al cosiddetto valore o alla cosiddetta forma o alla cosiddetta forza», alla «nuda forza» e alla «vuota forma»; la «necessità di vedere l’oggetto, cioè l’esperienza, nella sua integralità vivente, nella sua natura, cioè vichianamente nel modo di nascere perenne e quotidiano del diritto come vita e come esperienza, e quindi con tutto quello per cui nasce, per cui si afferma, per cui si concreta in forme concrete nella realtà». Al riguardo si accennano idee di grande importanza che hanno più ampi sviluppi nell’opera principale del Nostro, “Il problema della scienza del diritto”: la possibilità della conoscenza della realtà e del diritto si compie «nella comune coscienza umana di colui che osserva e conosce e di colui che opera nella realtà che è osservata e conosciuta. In quanto chi osserva partecipa della stessa vita, degli stessi principi, delle stesse esigenze di chi opera, è il segreto per cui chi osserva riesce a rendersi conto di quello che fa colui che opera». Ne “Il problema della scienza del diritto” si legge, infatti, ad esempio, che «con tutto il suo lavoro l’intelletto riflesso che si pone come scienza viene faticosamente e lentamente, perché fa il suo cammino momento per momento e tappa per tappa, scoprendo quella che è l’idea viva del diritto, la viene scoprendo traverso tutte le forme concrete e particolari dell’esperienza che essa forma». E l’idea viva del diritto si forma come «parte essenziale dell’esperienza», «momento e parte della vita stessa dell’esperienza» che «conosce sé stessa nella sua effettiva e determinata puntualità e riesce a conservare la realtà di sé stessa nelle sue molteplici e puntuali determinazioni». C., inoltre, soffermandosi ulteriormente sull’opera di Kelsen richiama anche «la grande verità vichiana che il mondo storico lo conosciamo perché lo facciamo…»; richiama il monito, proprio del Vico, di non «mettersi fuori dall’umanità…»E rileva che «se uno si mette al mondo supponendolo già compiuto…e quindi estraneo all’osservatore, necessariamente l’integralità dell’esperienza gli sfugge». In tal modo l’insigne autore coglie, dunque, il punto di maggiore fragilità dell’impianto teorico di Kelsen, cioè la netta, irriducibile, incolmabile separazione tra la “norma giuridica” e la “coscienza dell’individuo”, tra l’ “oggetto” ed il “soggetto”, tra la «norma estrinseca al soggetto e il soggetto estrinseco alla norma». La “pars costruens” capograssiana ruota, quindi, intorno al concetto di «unità in perenne movimento che è tutta la natura dell’oggetto» del diritto, «l’esperienza nella sua vivente umana unità» che è “falsata” (perché l’ “oggetto” è falsato) dai presupposti e dai postulati della teoria generale del diritto e dello Stato di Kelsen. E l’illustre autore, perciò, individua la «positività del diritto» come «coerenza intrinseca al processo di vita», «coerenza interna e vitale», e non «coerenza formale e artificiale», delle «determinazioni della vita giuridica», che «vivono nel concreto», ricordando un’opera in tal senso significativa, gli “Orientamenti sui principi generali del diritto” del civilista Cicu. 3. – Sull’attualità del pensiero di C. e su alcuni aspetti significativi dell’attuale crisi della scienza giuridica alla luce di recenti saggi monografici sull’argomento. Per una critica del “nichilismo giuridico” (ontologico) Perché è attuale la critica capograssiana al formalismo giuridico kelseniano? Perché nell’ “ambiguità del diritto contemporaneo”, per riprendere il titolo di un notissimo saggio del grande pensatore abruzzese, si parla di frequente di “crisi”, con ciò indicando, per riprendere il linguaggio dello stesso C., «una situazione che non vorremmo», «un elemento di disapprovazione» ed «un elemento di speranza», il richiamo di una «situazione passata» o «pensata», «che crediamo migliore, vale a dire che preferiremmo». Ora, tra gli autori che hanno approfondito gli aspetti dell’attuale crisi della scienza giuridica sono di notevole importanza, a parere dello scrivente, tre saggi monografici, il “Diritto senza società” di Barcellona, il “Nichilismo giuridico” (e la più recente opera dello stesso autore, “Il salvagente della forma”) di Irti ed “Il diritto e il suo limite” di Rodotà. Ritengo che la sfida più radicale ed invasiva[46], tra le teorie sviluppate in questi saggi, sia quella del “nichilismo giuridico” (più precisamente del “nichilismo giuridico ontologico”, riprendendo la ricostruzione di una recente monografia di Barcellona, “Critica del nichilismo giuridico”, che lo distingue dal “nichilismo giuridico cognitivo” nordamericano) e quest’idea è affermata dall’angolo visuale di chi cerca, come lo stesso Rodotà si propone con lucidità, risposte alternative al nichilismo. Il nichilismo, senza voler entrare nel merito di tutti i suoi significati, secondo il filosofo Severino ed il giurista Irti, significa, in un senso specifico al diritto ed alla tecnica economica, «ricavare le cose dal niente» e «riportarle al niente». Franco Volpi scrive che esso è «la situazione di disorientamento che subentra una volta che sono venuti meno i riferimenti tradizionali, cioè gli ideali e i valori che rappresentavano la risposta al “perché”e che come tali illuminavano l’agire dell’uomo». Nietzsche ne parla come «il più inquietante tra tutti gli ospiti». Sul punto penso al “Dialogo su diritto e tecnica”, scritto in più atti dai due stessi importanti autori surrichiamati, Irti e Severino, in cui l’Irti afferma che «l’unica superstite razionalità riguarda il funzionamento delle procedure generatrici di norme», «la validità non discende più da un contenuto, che sorregga e giustifichi la norma, ma dall’osservanza delle procedure proprie di ciascun ordinamento» ed il Severino ritiene che «la tecnica è destinata a diventare principio ordinatore di ogni materia, la volontà che regola ogni altra volontà», «la “capacità” della tecnica è la potenza effettiva (“potenza attiva” nel linguaggio aristotelico) di realizzare indefinitamente scopi e di soddisfare indefinitamente bisogni». L’idea di sistema giuridico unitario e di diritto statale «portatore di valori», in un simile orizzonte, è ormai destinato al declino irreversibile, sul viale tramonto. Il diritto della globalizzazione, e questo è il “topos” di crisi più acuta, porta alle estreme conseguenze quella scissione tra “liberalismo” e “liberismo” che Croce già tracciava negli anni trenta. Lo stesso Irti scrive che «la tecno-economia non conosce differenze soggettive ma soltanto variazioni di quantità». Il “diritto globale”, come nota un altro grande giurista, Francesco Galgano, fondato sul principio di effettività e non su quello di legalità, è pienamente funzionale all’ “idea di produzione” che viene dall’economia e, come scrive l’Irti, «caratterizza l’economia globale», i cui spazi sono fluidi e sottratti al controllo giuridico e politico degli Stati nazionali sovrani. E’ in crisi, come opportunamente pone in risalto lo stesso insigne autore ne “Le categorie giuridiche della globalizzazione”, il «dove del diritto», il «dove applicativo», il «dove esecutivo» delle norme, «l’intrinseca ed originaria spazialità del diritto», l’idea di “confine” consustanziale allo Stato nazionale moderno che si afferma con il capitalismo mercantile. Non solo: i ritmi produttivistici della tecnica e della sua volontà di potenza, posti in evidenza e criticati, pur se ritenuti ineluttabili da Severino, secondo lo stesso Irti «producono un vorticoso succedersi di norme giuridiche…» che «attesta la “nientità” del diritto, i canali delle procedurequesti che potremmo chiamare nomo-dotti, poiché conducono le volontà dalla proposizione alla posizione di norme - sono pronti a ricevere qualsiasi contenuto.Ogni ipotesi può scorrere in essi: la disponibilità ad accogliere qualsiasi contenuto è indifferenza verso tutti i contenuti…». Per cui, l’attuale crisi del diritto, «nella postmodernità giuridica», è «l’indifferenza contenutistica” che “sospinge verso il culto della forma” e costituisce perciò realizzazione ed inveramento dello “Stufenbau” kelseniano, “capace di tradurre in norma qualsiasi contenuto” (“la Grundnorm di Kelsen – che Severino definirebbe “logos ipotetico”- spiega la validità di qualsiasi ordinamento», è il trionfo del vuoto formalismo giuspositivista che «si svela nelle procedure produttive di norme», nella razionalità tecnica e nell’«autosufficienza della volontà normativa». Al riguardo si deve porre l’accento su un altro notevole autore, di diversa formazione culturale, il filosofo marxista Volpe, che in un saggio dal titolo emblematico, “Antikelsen”, contenuto nel suo volume “Critica dell’ideologia contemporanea”, individuava i limiti propri della dottrina del diritto e dello Stato del Maestro di Praga, del Kelsen, proprio riferendosi ad una concezione meramente formale, raffinata e colta espressione di un’idea borghese del diritto, della democrazia e dell’eguaglianza. Ma sono altrettanto importanti le profonde ed intelligenti critiche di Nicola Abbagnano, che ha giustamente parlato del formalismo giuridico nei termini di una dottrina adattabile a qualsiasi regime politico e quindi sprovvista di sostanza, di contenuti. Per tornare all’analisi di alcuni rilevanti aspetti dell’attuale crisi della scienza del diritto, “nichilismo e formalismo” sono i due aspetti pregnanti di un diritto “tecnico”, “autoreferenziale”, “senza società”, come scrive Pietro Barcellona realizzazione anche, secondo quest’ultimo autore, delle distorsioni della teoria sistemica di Luhmann. Rodotà nella sua opera summenzionata scrive che «il diritto deve misurarsi con una tecnica di cui è stata da tempo esaltata l’irresistibile potenza, la continua produzione di fini, alla quale sarebbe ormai divenuto impossibile opporsi. Così la tecnica annichilirebbe il diritto, condannato ormai ad una umile funzione servente. Ma questa è una profezia destinata a realizzarsi solo se la politica diviene progressivamente prigioniera di una logica che la induce a delegare alla tecnologia una serie crescente di problemi…e se il diritto, seguendola in questa deriva, accettasse un’espulsione da sé di valori e scopi, determinado quella che Michel Villey ha chiamato una “mutilazione del diritto per ablazione della sua causa finale. Per cui viene da chiedersi, in termini comunque molto problematici, se è possibile individuare una via d’uscita al declino dei sistemi giuridici e della certezza del diritto, alla “crisi di razionalità”, per riprendere Habermas, delle società capitalistiche postmoderne, all’oscuramento dei contenuti essenziali degli ordinamenti giuridici democratici, tra cui rientrano, anzitutto, i diritti fondamentali (lo stesso Rodotà ritiene altresì che «la ricostruzione di un fine del diritto intorno ai diritti fondamentali si presenta così come una guida quotidiana, come un test permanente al quale sottoporre anzitutto le scelte giuridicamente rilevanti. E’un impegnativo programma, che mette alla prova politica e diritto. La politica, considerata non più nell’area dell’onnipotenza, ma del rispetto. Il diritto, non più vuoto di fini, ma strettamente vincolato a un sistema di valori, dunque in grado di offrire una guida pur per le scelte tecnologiche») Insomma: qual è oggi lo scopo del diritto? Ed in che senso l’antikelsenismo vichiano e personalista di C. è attuale e può costituire, “storicizzato” ed adeguato al “presente storico”, una chiave di lettura delle asimmetrie e degli scompensi dei sistemi giuridici vigenti e degli attuali “usi sociali del diritto”?  La critica capograssiana al formalismo costituisce un richiamo al presente. Essa rappresenta una delle più significative alternative teoriche agli esiti del nichilismo formalista; essa, per riprendere le parole del Maestro che ricordiamo, è «sforzo per costruire la storia», per «realizzare la vita nei suoi termini di attualità», e quindi il diritto «nella profonda vita delle sue determinazioni positive»; anche perché il diritto, come scriveva un altro importante giurista, Satta, è «dover essere dell’essere» e non «dover essere» contrapposto all’«essere, “Sollen” staccato dal “Sein”. C. ne “L’ambiguità del diritto”propone delle conclusioni dense di speranza, affermando che «quest’epoca…pur muovendosi in un macrocosmo di dimensioni così gigantesche…non fa che mettere al centro di questo mondo e delle sue creazioni niente altro che l’uomo». Ed esse possono essere un’alternativa alla “nientità” del diritto globale contemporaneo ed al liberismo tecnicistico, produttivistico e massificante; al trionfo dell’ «Apparato tecnocratico», di cui parla Severino ne “La filosofia futura”, che quasi lascia presagire la «fine della storia» e del «divenire storico» come «farsi dell’esperienza umana» e, per riprendere Jhering, della “lotta per il diritto”. Il presente testo riprende, nelle linee essenziali, la relazione presentata al convegno di studi internazionale sull’ “Attualità del pensiero di C.”, Sassari, Mulino”. C., Impressioni su Kelsen tradotto, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”, ora in ID., Opere, Milano, KELSEN, General theory of law and State, Teoria generale del diritto e dello Stato, tr. it., a cura di Cotta e Treves, Milano; PIOVANI, Introduzione a G.Capograssi, Il problema della scienza del diritto, Milano, C., Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 314. Per una differente concezione del diritto critica verso il formalismo gradualista di Kelsen v. WINKLER, Teoria del diritto e dottrina della conoscenza.Per una critica della dottrina pura del diritto (1990), tr. it. di A. Carrino, Napoli (ove è scritto che «la dottrina pura e generale di Kelsen è stata…, sin dall’inizio, nelle sue premesse epistemologiche e gnoseologiche, priva di fondamenta solide…»); 189 (pagina in cui si afferma che «la dottrina pura del diritto di Kelsen si impiglia inevitabilmente in molteplici dilemmi. Un aspetto di questi dilemmi risiede nel tipo di determinazione dell’oggetto, un altro nella concezione della scienza. Un altro ancora nella ipostatizzazione di un orientamento metodologico che deifica il concetto teoretico del diritto, lo interpreta nel senso della logica formale, lo deforma e lo priva al tempo stesso del suo oggetto empirico»). [5] V. A. PIGLIARU, Persona umana ed ordinamento giuridico, Milano, 1953, 98. Su quest’opera v. G. BIANCO, Prefazione a Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico, in “Diritto @ storia”, dirittoestoria.it/5/Contributi/ Bianco-Pigliaru-persona- umana- ordinamento-giuridico ed in A. PIGLIARU, op.ult.cit., Nuoro, KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano, KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 18 ss. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato; KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato. C., Impressioni su Kelsen tradotto. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 126 ss. Peraltro Kelsen sull’argomento introduce una sua distinzione tra “Costituzione formale” e “Costituzione materiale” specificando che «presupposta la norma fondamentale, la costituzione rappresenta il più alto grado del diritto statale. La costituzione è qui intesa non già in senso formale, bensì in senso materiale. La costituzione in senso formale è un dato documento solenne, un insieme di norme giuridiche che possono venir modificate soltanto se si osservano speciali prescrizioni, la cui funzione è di rendere più difficile la modificazione di tali norme. La costituzione in senso materiale consiste in quelle norme che regolano la creazione delle norme giuridiche generali, ed in particolare la creazione delle leggi formali». Questa distinzione è, ovviamente, eterogenea rispetto al dualismo “Costituzione formaleCostituzione materiale” proposta dai “realisti”, in particolare da Costantino Mortati, Carl Schmitt, Guarino, peraltro con connotazioni peculiari in ciascuno degli autori richiamati. V. in argomento G. Bianco, Quel che resta della Costituzione materiale (tra congetture e confutazioni), in “La Costituzione materiale. Percorsi culturali e attualità di un’idea”, a cura di A. Catelani e S. Labriola, Milano. C., Impressioni su Kelsen tradotto, KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato. C., Impressioni su Kelsen tradotto. C., Impressioni su Kelsen tradotto. C., Impressioni su Kelsen tradotto. C., Impressioni su Kelsen tradotto. C., Impressioni su Kelsen tradotto, CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, C., Impressioni su Kelsen tradotto. C., Impressioni su Kelsen tradotto. C., Impressioni su Kelsen tradotto. C., Impressioni su Kelsen tradotto. C., Impressioni su Kelsen tradotto, C., Impressioni su Kelsen tradotto. Ed il nostro aggiunge nella stessa pagina, con il consueto tono intelligente ed appassionato, che «concepito il diritto come forza e come forma, è evidente che l’ordinamento giuridico ha una doppia faccia, la forza, cioè l’efficacia, la forma, cioè la validità. La seconda dipende dalla prima ed è condizionata dalla prima; la prima finchè dura si esprime nella seconda; la validità è l’espressione formale dell’efficacia, e l’efficacia è la realtà sostanziale della validità. Per questo i due diritti in senso normativo e in senso sociologico si rispecchiano e vanno di conserva: sono due facce dello stesso fatto. Dappresso è scritto che «la forza è il principio del diritto; gli interessi, le passioni, le ideologie sono il contenuto; e la forma è la norma come puro dispositivo della sanzione, e l’ordinamento che è il sistema delle norme valide fondato sull’evento di forza che costituisce il contenuto della norma fondamentale. Si può dire, può non chiamare nuda, perché non ha in sé nulla di razionale: forza nuda dall’esterno, poiché s’impone per qualsiasi via e vince se è legittimata, forza nuda dall’interno di sé stessa, perché non è altro che il (preteso) fondo irrazionale e cieco dell’azione umana. Rare volte la concezione del diritto come nuda forza è stata espressa e svolta con più riuscita e più completa coerenza sia in sé sia nel suo naturale esplicarsi e compiersi nelle forme vuote delle norme. Abbiamo qui nella forma più razionale e perfetta il diritto naturale della forza e la sua dogmatica». C,, Impressioni su Kelsen tradotto,  C., Impressioni su Kelsen tradotto. C., Impressioni su Kelsen tradotto. C., Impressioni su Kelsen tradotto. C., Il problema della scienza del diritto (1937), Milano, 1962 (con introduzione di Pietro Piovani) C., Il problema della scienza del diritto. C., Il problema della scienza del dirittv btg55zo, C. Impressioni su Kelsen tradotto. C., Impressioni su Kelsen tradotto, C., Impressioni su Kelsen tradotto. C., Impressioni su Kelsen tradotto. C., Impressioni su Kelsen tradotto, C., Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 356. Molto intense e particolarmente significative sono le vivaci conclusioni del saggio in considerazione: «Quello che è essenziale è questo riportare a questa unità vivente, a questa coerenza intrinseca al processo di vita, proprio le profonde esigenze e funzioni per cui il diritto costituisce un interesse formativo della vita; quel cogliere dall’interno e come componente il diritto tutta la sostanza etica del fenomeno giuridico. Qui il giurista è non il tecnico che fa uno sforza di costruzione puramente formale, per raggiungere una coerenza puramente formale, ma l’uomo, proprio l’uomo nell’alto senso della parola, che cerca di cogliere il diritto nella profonda vita delle sue determinazioni positive e nelle profonde e immutabili connessioni, con i principi e le esigenze costitutive della vita e della coscienza. Qui il giurista è proprio il collaboratore della vita, il collaboratore indispensabile del segreto processo traverso il quale la vita concreta si trasforma in esperienza giuridica, e l’umanità del mondo della storia viene perpetuamente difesa contro la barbarie sempre presente e sempre immanente della forza. E se non è questo, che cosa è il giurista? Che cosa ci sta a fare nella vita? Perché vive?» [41] V. G. CAPOGRASSI, L’ambiguità del diritto contemporaneo, in AA.VV., La crisi del diritto, Padova, 1953, 13-47, ora in ID., Opere. C., L’ambiguità del diritto contemporaneo; BARCELLONA, Diritto senza società, Bari, IRTI, Nichilismo giuridico, Bari, 2004; ID., Il salvagente della forma. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, 2006. [46] Sia consentito di rinviare a G. BIANCO, Nichilismo giuridico, in Digesto IV, disc.priv., sez.civ., III vol. di agg., Torino, BARCELLONA, Critica del nichilismo giuridico, Torino, RODOTÀ, La vita e le regole, op.ult.cit., 9 ss. Si legge, in particolare, tra i molti spunti presenti nel saggio monografico, che «sullo sfondo scorgiamo la fine di un’epoca nella quale esistevano valori generalmente condivisi, mentre oggi viviamo in un tempo caratterizzato da un politeismo dei valori e da controversie intorno al modo di dare riconoscimento al pluralismo…Si scorge una frontiera mobile, addirittura sfuggente, tra diritto e non diritto…»(p. 16); «il percorso tra diritto e non diritto porta al disvelamento progressivo dell’inadeguatezza della dimensione giuridica tradizionalmente conosciuta rispetto alla vita quotidiana…nello stesso ordine giuridico possono annidarsi i fattori che si oppongono al dispiegarsi della personalità, alla pienezza della vita» (p. 23); «non siamo più di fronte all’astrazione, ma alla cancellazione del soggetto».  V.in modo particolare sul punto M. HEIDEGGER, Il nichilismo europeo, tr. it., a cura di F. Volpi, Milano, 2003, 108; F. NIETZSCHE, La volontà di potenza, frammenti postumi ordinati da P. Gast e E. Forster-Nietzsche, nuova ed. italiana a cura di M. Ferraris e P. Kobau, Milano;  IRTI, Atto primo, in N. IRTI-E. SEVERINO, Dialogo su diritto e tecnica, Bari, 2001, 8 ss.; ID., Nichilismo e metodo giuridico, in “Nichilismo giuridico”, op. cit., 7. [51] V. F. VOLPI, Il nichilismo, Bari; NIETZSCHE, La volontà di potenza, IRTI, Atto primo, in N. IRTI-E. SEVERINO, Dialogo su diritto e tecnica, SEVERINO, Atto primo, in op. ult. SEVERINO, Atto primo, in op. ult. cit., 28-29. [56] Su cui v. B. CROCE, Liberismo e liberalismo, in “Elementi di politica”(1925), Bari, 1974, 69 ss. v. al riguardo N. IRTI, Il diritto e gli scopi, in “Esercizi di lettura sul nichilismo giuridico”, op. cit., 115 ss. Sull’argomento v. pure le riflessioni contenute in B. LEONI, Conversazione su Einaudi e Croce, in ID., Il pensiero politico moderno e contemporaneo, a cura di A. Masala e con introduzionedi L.M. Bassani, Macerata. IRTI, La rivolta delle differenze, in “Esercizi di lettura sul nichilismo giuridico”, in Nichilismo giuridico; IRTI, Nichilismo e formalismo nella modernità giuridica, in Nichilismo giuridico, op.ult.cit., 25. Sul pensiero del Galgano v. ID., Lex mercatoria, Bologna; IRTI, Le categorie giuridiche della globalizzazione, in Norme e luoghi. Problemi di geodiritto, Bari, 2006 (2a ed.), 143 ss., 144. [60] v. tra i molti scritti dell’illustre filosofo Id., La filosofia futura, Milano; Destino della necessità, Milano, 1980, p.41sgg.; Id., Essenza del nichilismo, Brescia, 1972, p.227sgg. [61] V. N. IRTI, Atto secondo, in E. SEVERINO-N. IRTI, Dialogo su diritto e tecnica. IRTI, Atto primo; VOLPE, Antikelsen, in ID., Critica dell’ideologia contemporanea, Roma, ABBAGNANO, Stato, in Id., Dizionario di filosofia, Torino;  BARCELLONA, Diritto senza società; BARCELLONA, Diritto senza società, op. ult. cit., 9 ss., 11, in cui si legge che l’epoca della globalizzazione «appare essenzialmente come definitivo tramonto della società come istituzione (come tecnica organizzativa), attraverso la quale si realizza la mediazione tra l’istanza di libertà e l’ordine prodotto dall’autogoverno della società, e come fine della storia intesa come metamorfosi dell’orizzonte di senso entro il quale si sviluppa la dialettica sociale…I concetti di Stato nazionale, che aveva rappresentato la forma dell’organizzazione sociale, e di sovranità, che aveva individuato nella democrazia, come governo di popolo, la base di ogni ordinamento, sono inutilizzabili per descrivere e comprendere le forme della globalizzazione». BARCELLONA, op. ult. cit., 151 ss., ove si afferma che nella teoria surrichiamata «il sistema può fare a meno delle intenzioni e dei progetti, della volontà e della coscienza e, in definitiva, degli uomini in carne ed ossa. Perché il suo destino si compie nella perfetta circolarità della riproduzione auto-referenziale e auto-riflessiva dei suoi “dispositivi” e della sua logica. Luhmann ha scoperto il segreto del moto perpetuo e per questo la sua teoria è ormai il nucleo vero di tutte le rappresentazioni della modernità…»(p. 152). V. al riguardo N. LUHMANN, La differenziazione del diritto (1981), tr. it., Bologna. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto. Su cui v. in generale le classiche pagine di JHERING, Lo scopo del diritto, tr. it., con introduzione di M.G. Losano, Torino, 1972, 6, in cui è scritto che «lo scopo è il creatore di tutto il diritto; non esiste alcuna norma giuridica che non debba la sua origine ad uno scopo; cioè ad un motivo pratico». Sul tema è stato opportunamente notato che «là dove si parla di scopo…si allude a processi intenzionali, consapevoli, voluti» (R. RACINARO, Presentazione di “La lotta per il diritto” di R.von Jhering, tr. it., Milano, 1989, XX). [71] Sull’attualità del pensiero del Capograssi v. anche il paragrafo quarto di BIANCO, Nichilismo giuridico. Al riguardo v. la ricostruzione contenuta in S. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, op.cit., 9 ss. [73] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 356. [74] Sul tema v. S. SATTA, Norma, diritto, giurisdizione, in “Studi in memoria di Carlo Esposito”, III, Padova, Capograssi, in “Raccolta di scritti in onore di Arturo Carlo Jemolo”, Milano, 1963, IV, 589 e ora in ID., Soliloqui e colloqui d’un giurista, Padova. Sull’argomento sia consentito rinviare, per una più articolata ed ampia trattazione, a G. BIANCO, Crisi dello Stato e del diritto in Salvatore Satta, in “Clio”. L’ambiguità del diritto contemporaneo. SEVERINO, La filosofia futura. La volontà che nell’Apparato si vuole sempre più potente e decide in questa direzione, in ogni momento del suo sviluppo decide innanzitutto di eseguire quell’insieme determinato di azioni che in quel momento aumentano determinatamente la sua potenza. In quantoè questa decisione, la volontà è quindi certa dell’accadimento di tali azioni e pertanto è certa di esistere nel futuro in cui tali azioni sono compiute. Ma la volontà che si vuole sempre più potente non è solo questa certezza di esistere in quel momento del futuro in cui la sua potenza riceve un incremento determinato: è anche la certezza che in ogni momento futuro essa sarà il tentativo di aumentare la propria potenza e cioè di trasformare ogni stato dell’essere. E’ certa del proprio tentativo. Decide che, in ogni momento del futuro in cui essa si troverà esistente, tenterà di aumentare la propria potenza», pur non essendo «certa che il divenire sia eterno» perché «la volontà che si vuole sempre più potente riconosce la possibilità del proprio annientamento»).  JHERING, La lotta per il diritto. Sostiene l’Insigne giurista che “il diritto ci presenta, pertanto, nel suo movimento storico, il quadro del tentare, del combattere, del lottare, in breve dello sforzo faticoso…il diritto come concetto rivolto a uno scopo, posto nel mezzo dell’ingranaggio caotico di scopi, aspirazioni, interessi umani, è costretto incessantemente a tastare, saggiare per trovare la via giusta, e, quando l’ha trovata, ad atterrare ancora innanzi tutto l’opposizione, che gliela preclude”.  C. The Antiquity of the Italian NationThe Cultural Origins of a Political Myth in Modern Italy. Francesco. Oxford. With Italy under Napoleon, the antiquarian topic of anti-Romanism is turned against the dominant French culture and becomes a pillar of the nation-building process. The antiquity of the Italian nation — prior to the Roman dominion — is evoked in order to support an inveterate Italian cultural primacy and proves very useful for creating Italian nationalism. The issue is completely forgotten today because Italian studies of Roman history, following the example of Mommsen, would drape a long veil over the period of earliest Italy, while, subsequently, Fascism openly claims the legacy of the Roman Empire. Italic antiquity, however, remains alive throughout those years and it often returns as a theme, intersecting deeply with the political and cultural life Italy. Philosophy examines the constantly reasserted antiquity of the Italian nation and its different uses in history, archaeology, palaeoethnology, and anthropology, from the Napoleonic period to the collapse of Fascism. Examining the fortunes and misfortunes of this subject, it challenges the view of 19th-century Italian nationalism as an ethnical movement, suggesting how deeply the image of pre-Roman Italy forged the political and cultural sensibility of modern Italy. Introduction Source: The Antiquity of the Italian Nation. Francesco. Oxford. The resumption of studies on Italian nationalism focuses upon the aggressive forms that Fascism comes to represent. The introduction discusses the easy notions of ethnic or racial nationalism, questioning these categories and suggesting how complex Italian nationalism is. Regarding this, the theme of the antiquity of the Italian nation—that is, the myth of a perpetual presence in the country substantiating a cultural primacy—represents an important example. An examination of the earliest Italy, as it was proposed in 19th-century Italian culture, suggests how it did not have a racial or ethnic basis, its main feature being cultural. This peculiar aspect of early Italian nationalism is outlined in its historical perspective, and the structure of the essay is described, indicating how the topic will be followed from its birth during the Napoleonic years to its final demise shortly after the fall of Fascism.  Keywords:   Italian nationalism, Fascism, earliest Italy.The historic past of the nation The Antiquity of the Italian Nation. Francesco. Oxford. This philosopher is devoted to the first explicitly nationalizing reading of the myth of antiquity developed by  Cuoco, who, in his “Platone in Italia”, recalls the existence at the dawn of humanity of a civilizing people, the Etruscans. In this way, Cuoco, aiming to establish antecedents for the Italian nation as it measures itself against the French cultural model, could propose the ethnic-cultural unity of the peninsula’s inhabitants since ancient times. Italian nationalists rediscover Cuoco’s thesis and see it as the basis of  Italian political identity. However, some philosophers have underlined how this can be regarded as a predatory operation, which overvalues the actual significance of “Platone in Italia” in the cultural context of Italy. It also shows how “Platone in Italia” remains known mainly for emphasizing the cultural primacy of the Italians rather than its assertion of their ethnic uniformity. Cuoco, Platone in Italia, Etruscans, Italian nationalists. A plural Italy. The Antiquity of the Italian Nation. Francesco. Oxford. Cuoco’s interpretation of Italian antiquity does not hold up against Micali’s Italy before the dominion of Rome. Micali responds to Cuoco’s view, suggesting that cultural unity does not lead one to believe that the country’s peoples necessarily share a common origin. It is Micali rather than Cuoco that come to dominate the patriotic culture of the Italians. The significant impact that Micali has is shown by the fact that Micali became a subject of great interest throughout the country, accompanying the national movement -- the so-called Risorgimento -- on its progress towards the events of the  revolution. Micali, Italy before the dominion of Rome, Cuoco, Risorgimento,  revolution. Unity in diversity. The Antiquity of the Italian Nation. Francesco Publisher: Oxford. We measure the impact of Micali on the political culture of the Risorgimento, testing the importance of his “Storia degl’antichi popoli italiani” on the studies of the Italic past published in several areas around the peninsula, especially in Lombardia, which remains the main Italian publishing centre, Napoli, and Sicilia. The analysis shows the multiple and different nationalizing uses of Micali’s works in tthese regions and confirms how his reading of a cultural, rather than ethnic, uniformity of the Italian people, is overwhelmingly accepted by the patriots on the eve of the revolution. Micali’s model appears, in fact, to be the only one that could be followed in a country which, though culturally united for centuries, is at the same time deprived of political cohesion.  Micali, Storia degl’antichi popoli italiani, Risorgimento, Naples, Sicily, Lombardy. The other Italy. The Antiquity of the Italian Nation. Francesco. Oxford. Micali’s model comes under fire when, after the political unification of the Italian peninsula, it becomes clear that the encounter between the various parts of Italy is not particularly harmonious. The problematic area of southern Italy seems to obstruct, rather than smoothen, the way towards a rapid process of stabilization for the newly unified state. We cast light on how the southern regions’s difficulty in becoming an integral part of the new unified Italy determine the reflections on the roots of a diversity which wocomes home to roost in the considerations concerning the Aryan race which populates ancient Italy. Unified Italy, southern Italy, Micali, Aryan race, Mediterranean race. The anthropology of the nation. The Antiquity of the Italian Nation. Francesco Publisher: Oxford Those who insist on the racist nature of the unified state improperly rely on Sergi’s anthropology as demonstrating firm evidence of his racist tendencies and establishing a connection between liberal Italy and Fascism. Philosophers have reconstructed Sergi’s career in order to re-situate him in his specific political and cultural context. From this point of view, his theme of racial differences within the nation suggests the existence of two different peoples on the peninsula: one northern and Aryan, the other southern and Mediterranean. This distinction remains popular and rapidly becomes a political matter, pertaining to the left of the political spectrum rather than the right. It is used to explain the reasons why the modernization of Italy seems to be grinding to a halt, as well as to help sustain the political struggle that the radical left launches against liberal Italy. Sergi, anthropology, racist tendencies, liberal Italy, fascism  Return to Rome. The Antiquity of the Italian Nation. Francesco Publisher: Oxford. The Italian state seems to be heading for an irreversible crisis. Faced with this challenge, many academics are quick to reaffirm the value of the unified state and reject every reading of Italian identity which does not sustain the idea of complete uniformity. This area is covered by philosophy, which deals with the renewal of the study of Roman history through the example of the work of Pais. A keen admirer of Micali, Pais soon adopts the model suggested by Mommsen, which sees in Roman expansionism a work of political and cultural unification of the whole of Italy. Pais’s main concern, therefore, is the construction of the nation’s common historical identity. That is why he aligns himself with all the political choices of the nationalist movement, from colonialism to the interventionism of The Great War and the acceptance of Fascism. Pais, nationalist movement, colonialism, Fascism. The Italian Fascist Empire, racial policy and Etruscology. The Antiquity of the Italian Nation. Francesco. Oxford. Romanism does not eradicate the tradition of Italian plurality, founded on the specific contributions of peoples of different origins. The theme of Italic antiquity is useful during fascism. Following the war in Ethiopia and the foundation of the Italian Empire, the idea of italic antiquity is used to reject the mixing of races in the name of a civilising policy with regard to populations held to be inferior. This theme helps to bring about a significant return of academic interest in relation to the origins of Italy’s ancient civilisation.  Basing his ideas on the example of the ancient Romans, Pallottino is able to re-read Etruscan origins as the result of the meeting of different peoples through a cultural model that becomes common property. In this way, the process turns full circle and the work of  Micali makes a powerful comeback.   Romanism, Pallottino, Italic antiquity, Etruscan origins, Italian Empire, Micali. Keywords: gl’eroi di Vico, il culto degl’eroi, positivismo, positivismo giuridico, H. L. A. Hart, Kelsen, il concetto di stato, stato italiano, il mito dell’Italia nuova -- stato come forza, stato come autorita, Capograssi contro Bobbio. La critica di Bobbio a Capograssi, essere/devere – Capograssi/Hart – Capograssi e il fascismo – la nazione d'Italia previa all’unificazione -- in concetto di stato come medimen, medimen medimen medimen previous drafts --  il concetto di stato com medimen --– kelsen, positivismo giuridico – l’esperienza giuridica, azione giuridica, due tipi d’obbedenza: formale (vacua) e materiale (intenzione inclusa), intenzione, agire, vita etica, intersoggetivita, intersoggetivo, soggeto, individuo, interpersonalismo, l’interpersonalismo di Capograssi – Aligheri, Leopardi, Zibaldone, Rosmini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capograssi” – The Swimming-Pool Library. Capograssi.

 

Grice e Caporali: l’implicatura conversazionale di Pitagora, l’italiano -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Como). Filosofo italiano. Grice: “You gotta (as we say at Berkeley) love (as we say at Berkeley) Caporali – typically Italian he dedicates his life to philosophise on Pythagoras (or Pitagora, as he prefers) just because he is ‘italico,’ or ‘Italiano,’ with the capital I that was then in fashion!” Grice: “What I like about Caporali is that, unlike the 98% of Italian philosoophers, he detests German philosophy, as represented by Muri – “See how clear the religion of the Italian anti-clerics is compared to the German obscurity of Muri!’ And right he is, too!”   -- Grice: “For the Oxonians I always recommend his “epitome di filosofia italiana,’ which, I subtitle it as “From Pythagoras to Pythagoras, and back!” – His three-part tract on Pythagoras (Natura, Uomo, Other) is fascinating – especially the other – he also philosophised on ‘scienza nuova.’” Laureatosi in giurisprudenza all'Padova, studiò anche storia e geografia presso l'ateneo bolognese, così come approcciò, sia Italia che all'estero, le scienze naturali e la matematica.  Nel corso dei suoi viaggi si avvicinò al movimento metodista, tanto che  a Milano, dove l'anno prima aveva dato alle stampe la Geografia enciclopedica, ne ricevette l'ordinazione a evangelista, mentre quella a diacono la ricevette a Terni. E, non a caso, Caporali è stato segnalato fra le menti più eccelse dell'evangelicismo.  A Perugia, e poi come ministro a Todi finì per distaccarsi dal movimento metodista. È in quel contesto che diede vita alla rivista La nuova scienza. La notorietà che ne conseguì gli portò l'offerta di reggere come titolare, su indicazione di Nicola Fornelli, la cattedra di filosofia all'Bologna, che tuttavia Caporali rifiutò.  Dal 1905 riprese e approfondì le questioni filosofiche, studiando, in particolare, la dottrina di Pitagora, che avrebbe ricondotto, da nazionalista qual era, ad una tradizione italica e latina, in funzione anti-straniera. Secondo Caporali, la formulazione pitagorica del numero reale consentiva di riconoscere la relazione dell'espressione della coscienza e della volontà umane con i problemi della vita.  Opere principali Geografia enciclopedica rispondente al bisogno degl'italiani ordinata alfabeticamente, Politti, Milano; Epitome di Filosofia italica della nuova scienza. Vademecum delle persone colte che vogliono diventare filosoficamente italiane, Tip. dell'Umbria, Spoleto; La natura secondo Pitagora, Atanor, Todi; L'uomo secondo Pitagora, Atanor, Todi; Il pitagorismo confrontato con le altre scuole, Atanor, Todi; La Chiara religione degli anticlericali italiani con la nebbiosa tedesca di Romolo Murri (della pubblica opinione moderatore), Tip. Tuderte, Todi. L'Enciclopedia Italiana, vedi, V. Vinay, Desanctis, Claudiana, Torino.  In tal senso Croce, Pescasseroli, Laterza, Bari, che lo cita con i filosofi protestanti Taglialatela e Mazzarella; Furiozzi, C. tra politica, religione e filosofia, in Idem, Dal Risorgimento all'Italia liberale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli  R. Mariani, Del sommo filosofo pitagorico C. da Como: da Pitagora ad Alberto Einstein, Domini, Perugia. C. su C. M.C.C., C.  in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana; Pilone, C.  Dizionario biografico dei protestanti in Italia, Società di studi valdesi, sito studivaldesi. Filosofia Filosofo Filosofi italiani Professore Como Todi Scrittori italiani Personalità del protestantesimo.  LA NUOVA SCIENZA. Alcuni pedanti, non intendendo la sacra scienza dei Numeri, o dei Principii Universali, che Pitagora fece il centro del suo sistema, attribuirono a questo grande Maestro teorie confuse e assurde. Così gli studiosi, i quali non seppero discernere il pensiero Pitagorico dalle aggiunte e dalle non scientifiche interpretazioni che ne fnrono fatte dopo Pitagora, supposero che la radice e i rampolli della Antiquissima Italicorum Sapientia fossero ormai disseccati, e trascurarono l'Italo Maestro per andare ad abbeverarsi a fonti straniere. Con tutta fede dunque, e sicuro di fare opera veramente italiana, C., si ritirò nella misteriosa solitudine della sua villa presso Todi per dedicarsi tutto alla restaurazione del Pitagorismo tra il plauso e l'ammirazione dei migliori pensatori nostrani e stranieri. Redasse allora la Nuova Scienza e in seguito pubblicò altre opere fra le quali i volumi della Sapienza Italica presso questa Casa Editrice. La quale, avendo ora rilevato dall'eredità giacente dell'illu stre estinto, quel che rimaneva della sua prima opera suddetta, la presenta agli studiosi. La Nuova Scienza è composta di 25 spessi fascicoli. Restano quarantasette copie dell'Obera completa e si vendono al prezzo di L. 125 ognuna. Si vendono anche separatamente alcuni fascicoli che possediamo in maggior numero, al prezzo di L. 5 ciascuno. Diamo qui i titoli delle principali dissertazioni contenute nella detta opera La Nuova Scienza: L'odierno pensiero Italiano. La Formula Pitagorica della Cosmica Evoluzione. L'Evoluzione anti-clericale Germanica nella disperazione. L'Evoluzione anticl. germ. negli errori finalisti. L'Evoluzione malin tesa e la sua negazione. Monismo Pitagorico antico. Perpetua voce umana— Commedia degli Spiriti. La psicogenia pitagorica di Pauthan . La sostanza impasticciata di Pozzo. Il principio Eraclitico con frontato col Pitagorico -- Pitagorismo di Bruno. La formula Pitagorica dell'Evoluzione Sociale. La Sapienza Italica mmfà i opera insigne del filosofo nella quale facendo rivivere il Pitagorismo alfa luce dello scibile moderno sì mira alla restaurazione della nazionale *coltura. Atanòr, Todi; La Natura secondo Pitagora ossia La progressiva concentrazione e sistemazione delle unità senzienti. Tov ò\ov oòpavóv àp|iovóav sivat xat àpt&fiov. Tutto l'iTiiiverso è numero e armonia. Pitagora. Oùx' fircstpog èaxl [isxa^oXr] où5s(iia oì)xs auvsx^SNiente può cambiare nell'indeterminato e nel continuo. Aristotele (Phys8).  La Sapienza Italica i La Natura secondo Pitagora opera insigne del filosofo Enrico Caporali il - nella quale facendo rivivere il Pitagorismo alla luce dello scibile moderno si mira alla restaurazione della nazionale coltura Con cenni storici su Pitagora e la sua Scuola. Atanòr. Todi. MI STORICI SO PITAGORA E LA SUA SCUOLA. Pitagora, secondo Teopompo, Aristossene e Aristarco (citato da Clemente), e figlio di un gioielliere etrusco, che mercanteggia a Samo. La Pitonessa di Delfo, consultata mentre la sua madre e incinta, dice: Avrai un figlio che sarà utile a tutti gl’uomini, in tutti i tempi. Pitagora, fin dalla sua prima gioventù avido di scienza, segue le lezioni d’Ermodamate e quelle di Ferecide a Siro. Visita in Mileto Talete, l'iniziatore della filosofia, e per suo consiglio viaggiò in Egitto. A Memfi, presentato a quei sacerdoti d'Iside dal Faraone Amasis, al quale, dicesi, e stato raccomandato da Policrate il tiranno di Samo, e da essi ricevuto nel loro tempio e iniziato alle loro dottrine segrete. Così, durante gli anni di questa sua iniziazione, il saggio di Crotone puo bene internarsi in esse, e principalmente versarsi con ardore in quella sacra scienza del numero e dei principii universali, che egli fece di poi il centro del suo sistema e formida in un modo originale. Egli arriva agli alti gradi del tempio, ma, essendo avvenuta in questa epoca una ribellione in Egitto, dopo aver assistito al saccheggio dei santuarii e allo scempio compiuto su le opere millenarie dalle orde della plebe, e condotto insieme con altri adepti a Babilonia. A Babilonia accresce il suo sapere ed ha rivelati gli arcani dell'antica sapienza Caldea. Da qui ritorna a Samo, che un usurpatore straniero, dissoluto e crudele, ora tiranneggia, e volle subito fuggirne. Venne in Crotone, ove si stabilisce. Crotone, nel Golfo di Taranto, e, con Sibari, la città più fiorente d' Italia. Ora egli che ha attinto a sì pure fonti di filosofia e acquistato grande esperienza della vita, nauseato dalla indisciplinatezza delle democrazie, dalla insipienza dei altri filosofi, dall' ignoranza dei sacerdoti, dalla dissolutezza che venne a diffondersi, ha visione di un rinnovamento da effettuare fra gl’uomini. Onde stabilì di fondare una setta dalla quale usceno, non dei politicanti e dei sofisti, ma dei uomoni dall'animo nel vero senso della parola virile, e che e il nucleo, come il punto di partenza per la trasformazione graduale dell'organamento politico di Crotone, in corrispondenza al suo ideale filosofico. Secondo questo ideale, affinchè lo stato e ordinato armonicamente, dovesi conciliare il principio elettivo con un reggimento della cosa pubblica costituito per la selezione dell'intelligenza e della virtù. Sorse dunque a Cotrone il più grande istituto pedagogico di quei tempi, che è pur da considerarsi come il più nobile tentativo d'iniziazione laica che sia stato mai impreso; e in breve ha a fiorire in tal modo che, non solo nell’area, come a Metaponto, a Taranto, e più tardi a Eraclea, sono stabilite filiali, ma anche in altre parti d'Italia e principalmente in Etruria, la sacra terra donde il maestro e oriundo. Egli si circonda di scelti discepoli, e tutti seduce, poiché avviluppa di grazia l’austerità dei suoi insegnamenti. Essi doveno levarsi all'alba, adorare il sole, seguendo una dorica danza, quando il sole appare su l'orizzonte, passeggiare nel parco dell' istituto dopo le abluzioni di rigore, recarsi nel tempio di Apollo in silenzio, affinchè l'anima, così nella sua verginità, si raccoglia all'inizio del giorno. Indi, in ampie sale, venneno istruiti nella matematica, nell'astronomia, nella medicina e nelle scienze naturali, o nella politica, nella morale e nella religione, secondo le classi o gradi d'iniziazione, e in altre ore nella musica istrumentale e corale. A mezzogiorno, dopo la preghiera al sole, si fa un pasto frugale di pane, mele, noci e olive, e quindi si anda allo stadio per gli esercizi ginnastici, che tutti, fuor che la lotta e il pugilato, sono tenuti in onore. Poi si discute di amministrazione della città, di morale e di 'politica generale, e in fine si anda a cena, dove si mangia anche carne in piccola quantità e si beve vino, sedendo intorno a ogni tavolo in numero di X, poiché X è il numero perfetto. Durante la cena, si fa una lettura ad alta voce, e questa lettura e seguita da libere obiezioni e discussion. Poi si ricordano le regole dell' Istituto, e, cantando un inno ad Apollo, si anda a letto. Il vestito di tutti i discepoli era di bisso, a forma egiziana o etnisca. Pitagora ha due figli, Arimneste e Telangete. Arimneste e autore di prose e poesie morali. Telangete divenne più tardi il maestro di Empedocle di Girgenti e a lui trasmise i secreti della dottrina. Altro pitagorico fu il più celebre degli atleti, Milone di Crotone. Dall'Istituto pitagorico usceno anche geometri, medici, artisti, amministratori ed uomini politici ragguardevoli, che portano, sotto certi aspetti, la Magna Grecia al disopra della Grecia. Non si concede di entrare nell' Istituto a scolari di famiglie non onorate o di costumi cattivi. Fa per avere rifiutato un certo Cilone, ricchissimo, il quale desidera di far parte dell'Istituto, che Pitagora venne una sera assalito mentre sta in casa di Milone. E, cogliendo pretesto dal voto contrario che Pitagora da sulla distribuzione delle terre di Sibari, che i Crotoniati hanno conquistate, il suo nemico Olone induce la plebaglia a dare l'assalto all'Istituto, uccidendo e ferendo molti alunni. Pitagora si rifugia negli istituti filiali di Locri, di Taranto e di Metaponto, dove muore. Pitagora non crede nella metempsicosi, ma sol-tanto nella immortalità dell'anima razionale. Però permise che la metempsicosi dei Misteri Orfici e presentata al popolo come opportuna per spronare alla virtù ed impedire la delinquenza. Infatti egli non ha collegato in nessun modo la metempsicosi al suo sistema filosofico. Egli si sforzava sempre di liberare gli schiavi e di dare agli umili cittadini il sentimento della dignità morale, e dice che la virtù non è perfetta se non è accompagnata dalla fede nel Sole, perchè l'ordine universale si regge sulla mente divina ordinatrice e perchè il Sole solo può dare alla morale sanzioni efficaci. Diogene Laerzio narra che Pitagora scrive tre saggi, uno sulla Educazione, uno sulla Politica ed il terzo più importante sulla Natura. Ma andarono tutti e tre perduti e ne rimangono soltanto i frammenti citati da Aristotele e da altri filosofi posteriori. Fra i discepoli di Pitagora si distingueno Archita di Taranto, Timeo di Locri, Ocello di Lucania, Ecfanto di Siracusa, Filolao, Eudossio, Alcmeone, Epicarmo ed Ipparco. Quando Platone viaggia in Italia, e Archita di Taranto che gì' insegna la dottrina del numerante. Ma Platone la guasta nell' intrecciarla alla sua teoria delle idee eterne ossia concetti gènerali delle cose ch'egli suppone esistere da se, indipendenti e separati dalle cose. Nella filiale pitagorica di Girgenti sorge Empedocle, il quale abbraccia con ardore lo studio della Natura comune ai Pitagorici. Ma mentre Empedocle osserva  da vicino una eruzione dell’Etna soccombette asfissiato. Nella filiale pitagorica di Siracusa brilla Archimede, il fondatore della idrostatica, il quale scopre anche la quadratura della parabola, oggi ancora ammirata dai Matematici. Ma qual era il carattere della filosofia di questa setta di Crotone? Pitagora e l’enciclopedista del suo tempo. Fonda la Filosofia Italica. Come fa notare Zeller gl’errori di Platone e di Aristotele erano quelli del popolo ellenico, troppo idealista e portato a giudicare le cose colla fantasia, ed a studiare poco la natura. Gl’ellenici sono artisti e poeti, non filosofi o scienziati. Appena hanno fatto dell’osservazioni superficiali, volano a stabilire delle massime generali. Invece Pitagora e in stretto senso uno scienziato, un appassionato scrutatore della natura, sicché puo fondare il Naturalismo Italiano. Da per primo il nome alla filosofia, come lo da al mondo, chiamandolo “cosmo”, che vuol dire ‘ordine’, vale a dire che porta in se la gran legge della tendenza di le IV elementi a formare più alta unità: in modo che ogni particella sta in armonia col Tutto ed è fatta da una forza numerante. L'Universo, secondo Pitagora, è la manifestazione dell’energia divina, che si contrappone i punti di forza o atomi, i quali, derivando da una potentissima Unità, tendono a riunirsi ed a ritornare alla unità primitiva, sicché tutte le cose si fanno dal di dentro al di fuori. E un Monismo del Noumenon vivente in ogni individuo, che fa i fenomeni della Sensazione e del Moto. Gli Organismi sono governati dal Sentimento, trovando piacere nell’assurgere a più alta Unità, e dolore nello scomporsi. Anche la Natura inorganica sente e vuole il suo sviluppo, il suo godimento, benché non sia provvista di nervi. Ma è da essa e dalla sua rudimentale sensazione e volontà, che a poco a poco, attraverso la evoluzione delle attrazioni molecolari chimiche dei colloidi, si vanno formando, per successiva divisione del lavoro, gl’organi ed i nervi. Egli precisa con ripetuti esperimenti il rapporto fra la lunghezza, il diametro e la tensione delle corde sonore e la qualità dei suoni; indovina per il primo che la terra è sferica e gira attorno al sole, che le stelle sono altrettanti soli in movimento. Scopre il teorema sulle proprietà del quadrato della ipotenusa nel triangolo rettangolo. Calcola la teoria degl’ isoperimetri, dimostrando non commensurabile il rapporto fra la diagonale ed un lato del quadrato. Introduce nell’aritmetica il sistema decimale X, e nella musica l'ottava, VIII, la quarta IV, e la quinta, V.. Il filosofo Lucio (in Plutarco Symp.) narra che gli’eruschi, che stimano Pitagora quanto i Greci, osservano i simboli di Pitagora. Ad un acuto osservatore come Pitagora non puo sfuggire la legge di attrazione e coesione che forma e tiene assieme tutti i corpi gazosi, liquidi e Egli ne supponeva la causa nella tendenza di tutti gli elementi a riunirsi ed a formare più alta Unità, ed invano i fisici moderni ne cercarono la causa in pretese pressioni dell'etere cosmico. Empedocle di Girgenti la chiama poeticamente “amore universale”, contraponendovi l'odio o repulsione, che avviene contro tutto ciò che disturba il piacere dell'unione. Empedocle pensa la Natura organica, piante ed animali, come un processo di crescente unificazione e sistemazione -- benché non conoscesse la cellula -- e la malattia e la morte come un processo di dissoluzione delle particelle senzienti. L'Essere non è per Empedocle in continuo flusso, il diventare non è un formarsi di cose nuove -- come pretendeva Eraclito, l’eleno che emula Pitagora), ma è l'unirsi delle particelle, lo ascendere a pnu alta Unità, il formarsi dai molti l'Uno: mentre il morire discioglie la Unità nella Molteplicità. Era bene istruito del pensiero pitagorico Anassagora, il primo filosofo che separa lo spirito dalla materia, e che suppose le anime degli animali e degli uomini come formate di Omeomerie, specie di Numeranti, che separano, distinguono, scelgono, conoscono le cose utili e respingono le inutili al bene dell'individuo e della specie. Ma i suoi discepoli Socrate e Platone intesero poco il pitagorismo, in modo che dopo Anassagora la filosofìa d’Atene si allontana dalla Italica. Pitagora e il genio tutelare del pensiero laico Italiano, e da sempre il midollo alla coltura nazionale. E grazie a Pitagora che nell'antichità e nel Medio Evo l'Italia non e una provincia della filosofia ellenica. E grazie a Pitagora che un po' alla volta e sorpassato il Platonismo ed e vinto l'Aristotelismo. Nel Rinascimento con le invasioni dei barbari dal Nord si oscura ogni luce di pensiero. Ma la idea pitagorica torna a brillare per la prima e a dare impulso alla nuova filosofia italiana grazie a Cuza, educato in Italia. Cuza scrive: «Ratio est mensura quae omnia in multitudinem, magnitudinemque resolvit. Mens est viva mensura quae mensurando alia, sui capacitatem atiingit. La mente è la unità che si esplica nella diversità. Essa discerne confrontando e misurando. L' investigazione della Natura, che era stata lo scopo principale della setta Pitagorica venne promossa dall'Accademia di Cosenza, a 40 miglia da Cotrone, fondata da Parrasio - dalla quale sorge Telesio che scrive: « Della natura delle cose secondo i propri principii » -, dall'apertura in Padova del primo Orto Botanico, dall’Aliatisi botanica iniziata nei giardini di Alfonso aVEsie, dall’Accademie dei Lincei a Roma, del Cimento a Firenze, dei Segreti a Napoli con Porta, le quali servirono di stimolo e di esempio ai popoli di oltralpe per la fondazione delle loro accademie maggiori. Bruno sostenne poi contro i filosofi del Lizio che gli elementi medesimi della natura si ritrovano in terra e in cielo, indovina la trasformazione degli organi animali secondo l'uso che se ne fa, nota che la Unità domina nell'uomo e che alla sua Monade centrale convergono quelle periferiche del corpo, sicché l'organismo è come un dispiegarsi dell'anima. Lontano dalla luce del Pitagorismo, Cartesio trasse per alcuni anni in errore col definire la Materia come Res extensa, confondendola con lo Spazio, fantasticandola come piena di vortici, credendola sostanziale. Ma la verità Pitagorica della Attrazione e dimostrata da Newton e il newtoniano Boscovich concepì gli Atomi come punti di forza. Ad essa furono poi aggiunte l'attrazione molecolare chimica, elettrica e magnetica, le quali danno ragione agli antichi Pitagorici e ad Empedocle. Supponiamo che Pitagora siasi istruito dello scibile moderno, e consideriamo la Natura dal punto di vista pitagorico, che è il più fecondo per intenderne le leggi. La Nafta secondo Pilajora La progressiva concentrazione e sistemazioni delie unità senzienti. Noi fondiamo la filosofìa sopra la totalità del- l'Esperienza, ossia stiamo sempre sulla base dei fatti, come li prende, li elabora e li interpreta il nostro stromento del conoscere (lì. Nessuno vorrà ammettere che una volta non ci fosse niente: e che dal Niente venisse fuori l'Essere. Ex nihilo nihil. L’Hegelismo, che, invece di stare ai fatti, fonda la filosofìa sui Concetti, e quindi prende il Concetto del Nulla come equipollente a quello del- VEssere li ha sposati per farne uscire il Diventare: ma per noi il Nulla è un vero Niente e lo la- sciamo nei cervelli che lo pensano come reale. Dunque un Essere vi è sempre stato. Che questo essere eterno fosse molteplice, nes- suno che guardi il mondo e conosca la Unità delle forze fisiche che si manifesta, non solo sulla (1) Non bisogna esagerare il bisogno di gnoseologia al punto di farla precedere ad ogni studio filosofico. Di gnoseologia parleremo nel Volume L' uomo secondo Pitagora di prossima pubblicazione. Coloro che non vogliono filo- sofare senza prima determinare i confini della ragione, somigliano a colui che non vuol entrare nell'acqua, se prima non ha imparato a nuotare. Terra, ma in tutti i 50 milioni di stelle visibili nelle notti serene (anche in quelle più lontane la cui luce impiega più di diecimila anni per ar- rivarci, quando si studiano colFanalisi spettrale) nessuno potrà affermarlo. Dunque YEssere eterno era Uno. Che cosa era questo Essere uno eterno? Ardigò dice che era la Sostanza Psicofisica, ossia psiche (unità), e poi forza materiale (molteplicità). E così può essere. Nel voi. IV. delle sue opere egli ci dice che questo primo Essere ha cominciato a sdoppiarsi in Spazio e Tempo, per poter fare la esteriorità, ossia il Mondo: ed aggiunge che lo spazio era allora convertibile nel tempo e viceversa, senza dirci a quanti anni, mesi, giorni ed ore corrisponda un determinato spazio. Noi c'inchi- niamo al prof. Ardigò per questa bella trovata, la più positiva e la più radicale della sua filosofìa, così immaginosa, che la bellissima Cerezada, per divertire il potente sultano Sciariar nelle Mille ed una notte, non avrebbe saputo inventare. Il male si è che (se fosse vera la convertibilità dello spazio nel tempo e viceversa), sarebbe impossibile la Natura. Il Senatore B. Croce poi, di natura non ne vuol sapere affatto e nel gennaio 1909 scrisse nella sua Critica che la filosofia può abolire la natura (1). Questa è fatta di sensazioni, di senti- menti, di volontà, di movimenti, dei quali è dif- (1) S'intende che egli non pretende di abolire la Natura, bensì, come dice a pag. 75, il concetto di Natura. E la filosofia ha da essere tutta dello spirito, senza impicciarsi di Natura. fìcile formarsi concetti esatti, e si richiede, per intenderla, uno studio vastissimo e profondo. Sarebbe comodissimo di risparmiarlo. Le scienze naturali, dice il Croce, sono fatte con concetti sbagliati, e la pratica che ne consegue, è fatta di volere e di azione, ossia di soggetto fatto oggetto. Sia come ipostasi della scienza, sia come forma pratica dello spirito, che diventa volontà ed azione, e quindi oggetto, è meglio tagliar corto, e considerare come abolito il Concetto della Natura. Fino ad ora nessun filosofo, neppur Hegel, ha potuto ^fare a meno di tentare una Filosofìa della Natura. E vero che sarebbe stato prudente abolirla, come la volpe dichiarava non matura quell'uva, alla quale non poteva arrivare. Se vi è un lettore inimicato contro la Natura, potrà con essa conciliarsi in questo Libro, nel quale cercheremo di penetrare appunto nella Natura. Avvertiamo che V Essere eterno ed uno ha dovuto essere attivo sempre, estrinsecandosi (poiché essere vuol dire essere attivo) pensando prima i due sistemi di punti e di istanti (lo Spazio ed il Tempo) e poi contrapponendosi i punti di energia. Dunque il nostro studio deve cominciare da queste estrinsecazioni primissime dell'Essere Eterno; vale a dire la matematica in spazio e tempo, e la fisica in atomi eterei ed atomi ponderali. La fisiologia dei sensi ha mostrato come dal tatto, dalla vista, dal senso muscolare sorga in noi l'idea dello spazio e le condizioni in cui questa intuizione si forma ancora nei bambini. Questa esperienza è sempre diretta dalla Unità di coscienza. Altro è la intuizione di spazio e il concetto dello spazio, ed altro è lo Spazio, ossia il fondo eterno. Se un centimetro quadrato contiene 1.000.000 di punti, mezzo centimetro quadrato dovrebbe con- tenerne mezzo milione. Ma non si può ficcarvene dentro altri milioni allo infinito; altrimenti i punti si toccano e diventano di due o tre un punto solo. Chi nega la realtà dello spazio, nega la realtà del mondo, che è tutto esteriorità. Se fosse puramente nostro subbiettivo e continuo, non vi sarebbero punti fissi, uno fuori dell'altro, non vi sarebbe alcun luogo; quindi il moto, cioè il passaggio di un corpo da un luogo ad un altro, non avrebbe realtà. Zenone di Elea infatti negava la realtà del moto, perchè lo riteneva continuo, come spazio e tempo, e diceva che, se il veloce Achille sta un passo dietro la tartaruga, non la potrà mai raggiungere. Ma quando si considera lo spazio come un si- stema bene connesso di punti pensati dall'Essere Divino e quindi reali, e il tempo come un seguito di istanti, divisi da minimi intervalli, allora si ca- pisce che il moto reale è possibile, perchè il corpo che si muove va a scatti, cessando di essere nel punto dove era, per cominciare ad essere laddove non era. Altrimenti un corpo in moto non sarebbe in nessun luogo. Celere è il moto i cui intervalli o riposi sono brevi. Lento è quel moto i cui in- tervalli sono meno brevi. Lo spazio ed il tempo non hanno energia motrice, ma non sono nulli ed hanno una realtà numerica. E siccome il Numero è la realtà maggiore della Logica, come dimostra Hegel, così la loro realtà è certa. Kant suppose che noi creassimo lo spazio ed il tempo, ossia che fossero come occhiali colorati o nostre intuizioni che ci obbligassero a vedere e toccare le cose esteriori in un modo subbiettivo della nostra coscienza. Ipotesi resa impossibile oggidì, giacche le fotografìe e le fonografìe ci di- mostrano che le macchine fotografiche vedono le cose come noi e notano così le divisioni dello spazio come noi, e le macchine fonografiche dividono il tempo come i nostri orecchi, riproducendo le vibrazioni fonografate e quindi i suoni. È vero che riconosciamo dapprima lo spazio ed il tempo em- Lo spazio, il tempo, gli atomi, sono la molteplicità del mondo che non può essere fatta se non da una Unità spirituale. Se tutte le cose hanno relazioni numeriche tra loro, la sostanza comune numerica dello spazio, del tempo e delle minime unità atomiche, va considerata nella Unità Cosmica.piricamente: e che per i bambini non sono altro che forme della distanza degli oggetti voluti e del moto necessario per raggiungerli. Più della vista e del tatto è il senso muscolare, ossia il senso dinamico della forza ricevuta e spesa, il senso del moto, e della resistenza, che ci dà lo spazio ed il tempo: è questo il primo senso a comparire nella evoluzione animale e nel feto. La realtà dello spazio è il da mihi ubi constitam della filosofìa scientifica. Nella « Teoria del cielo » Kant riconobbe la realtà dello spazio, e lo disse un assoluto, indi- pendente dalla materia, anzi base della possibilità di sviluppo delle forze, eterno, infinito, vuoto: e aggiungeva « dubito che se ne sia mai data una « definizione adeguata. Le determinazioni dello « spazio non sono conseguenze del posto che oc- « cupano reciprocamente gli atomi, ma queste sono « conseguenze dello spazio, e le diversità nei corpi si « riferiscono sempre allo spazio assoluto, che non è « oggetto di sensazione, ma è una idea fondamen- « tale, la quale rende possibile tutte le altre. Di « modo che non si può percepire un corpo se non in « relazioni spaziali con altri corpi ». Più tardi però Kant concepì spazio e tempo come forme subiettive della visione e dell' intelletto, con le quali noi mettiamo ordine nei fenomeni e fu in questa stra- nezza seguito dallo Schopenhauer. Non però dagli altri maggiori pensatori della Germania, non da Jacóbi, da Schelling, da Hegel, da Herbart, da Beneke, da Schleiermacher, da Bitter, da Weisse, da Ueberweg, da Wundt, da Hartmann, da Zeller, da Trendelenburg, da Lazarus) da Dilhring, da Baumann. Il danese Kromann ed altri provarono che le difficoltà che Kant trovava nello spazio obbiettivo, rimangono anche se lo spazio fosse meramente subbiettivo. Alcuni matematici, come Riemann, credettero che, oltre al nostro, vi fosse uno spazio a molte dimensioni. Ma, se lo spazio avesse più di tre dimensioni (larghezza, lunghezza e profondità), tutti i corpi varerebbero di massa e di volume. Ogni azione a distanza ritornerebbe sopra se stessa. La gravitazione sarebbe proporzionale inversamente del cubo, e non già del quadrato della distanza, come dimostrò A. Wiessner. Le leggi di gravità stabilite dal genio di Isacco Newton ci provano che lo spazio a tre dimensioni è il solo reale; giacche la irradiazione degli atomi si ripartisce sulla periferia interna delle sfere; appunto per il rapporto inverso del quadrato della distanza. E se lo spazio avesse due sole dimensioni, si ripartirebbe sulla periferia interna dei circoli. In altre ipotesi la gravitazione sarebbe in rapporto inverso di ogni altra funzione delle distanze. — Anche i tre assi perpendicolari dei cristalli ed altre leggi fisiche, ci provano che lo spazio reale ha tre sole dimensioni. E lo dimostra anche il chiaris- simo professore Federico Enriquez trattando della Geometria non Euclidea e non Archimedea nei suoi « Problemi della scienza » Bologna 1905. La realtà dello spazio assoluto a tre dimensioni, è tanto sicura, che il maggior fisico del nostro tempo sir W. Thomson (creato poi Lord Kelvin), mostrò che si deve prenderlo per base di tutte le misure. Abbiamo riassunto le ragioni e le proposte del Thomson nel volume quarto della nostra Nuova Scienza pa- gina 81 a 84.  La realtà del tempo poi che (come dice Neioton) « fhixus mutari nequit, equabiliter fhlit » è dimostrata vera da molte leggi. Se non vi fosse un centro immobile nell'Universo, tutta la meccanica serebbe fallace. Se non fosse reale il Moto assoluto, addio astronomia. Tutto cangia o di luogo, o di forma, o di qualità, e nessun cangiamento può av- venire se il tempo non fosse una realtà. Si potrebbe dubitare della realtà del tempo soltanto se niente si cambiasse. Non sono inerti spazio e tempo, perchè assoggettano, come sistemi inalterabili di punti e di istanti, a regole certe i moti, le azioni e le resistenze. Lo spazio ed il tempo sono così obbiettivi come subiettivi, sono i due Oceani della possibile espansione di qualsiasi energia. Il fondo eterno non può essere che uno. Lo implica la interazione delle forze; lo implica il coesistere di un numero enorme di scopi e di azioni e di moti che si incontrano e lottano fra loro senza confusione. Se non vi fosse la sistemazione dei punti di spazio e degli istanti di tempo, sistemazione che è tutta dovuta alla Unità Reale eterna {Numerorum Fons di Bruno) discontinuando il tempo e lo spazio, il Moto che è l'espansione della Energia in questi due Oceani, non avrebbe mai precisione; anzi non sarebbe possibile. La possibilità dei coesistenti (spazio) e dei successivi (tempo) rende facile l'azione dei punti di forza. — Spazio e Tempo esistono per se come sistemi di termini puntuali indivisibili  e tra i termini puntuali ci (lì Una superfìcie è definita lunghezza e larghezza, senza profondità. Una linea lunghezza, senza larghezza, ne profondità. Un punto, ciò che manca di larghezza, di sono intervalli infinitesimi, ma non nulli. Se fos- sero nulli non sarebbe possibile il moto e specialmente il moto curvilineo, die si calcola col diffe- renziale. Infatti una curva cambia continuamente di direzione, con grandezze infinitesime, che cre- scono o diminuiscono. Il differenziale è un valore che limita e non una grandezza numerata. Per variare la direzione in una curva qualsiasi, vi è bi- sogno di un nuovo impulso, sia pure infinitesimo, ma non nullo. Possiamo pensare come infiniti lo spazio ed il tempo, ma lo infinito non è mai una realtà. La loro connessione e tale che sembrano continui e si trattano come tali; nondimeno i punti dello spazio e gl'istanti del tempo sono realmente fuori gli uni degli altri e quindi numerabili, senza tener conto degl' intervalli infinitesimi. Ogni punto è numelunghezza e di profondità. Se i punti, le linee, le superficie non avessero per limiti dei punti indivisibili, questi limiti sarebbero composti di molte parti, di cui nessuna sarebbe l' ultima; non vi sarebbe alcuna figura definita, non vi sarebbe linea lunga e linea corta perchè tutte sarebbero composte di parti infinite, mentre in realtà la linea corta è quella composta di minor numero di punti. Ecco la realtà dello spazio: sta nell'essere numerabile. Il tempo poi è composto di istanti indivisibili, perchè se non si potesse arrivare alla fine della sua divisione, vi sarebbe un numero infinito di istanti (ossia di elementi del tempo) contemporaneamente. Locchè è assurdo. Il tempo è fatto dalla Unità cosmica e intuito dalla nostra Unità intima e non è un concetto empirico. Senza l'Unità in- tima non riveleremmo il Moto e il cambiamento delle cose tutte, come lo rilevano anche gli animali, perchè non si confronta se non vi è l' Uno vivente. Gli istanti sono reali e numerabili e fanno la realtà del Tempo. Contro questi intervalli Pascal diceva che i punti dello spazio o si toccano interamente e allora invece di rato, ogni istante del pari, sono tutti diversi e discernibili, hanno tutti una esistenza separata e permettono di evitare la confusione nel Cosmo e nella Scienza. Cartesio rinnovò la geometria cambiando la qualità, ossia la forma dei corpi, in quantità; riducendo la forma alla posizione e determinando la posizione con le linee coordinate potè sostituire alla misura diretta la indiretta e trovare le quadrature, le cubature ecc. Egli applicò l'al- gebra alla geometria, osservando che ogni spazio chiuso può determinarsi dalla lunghezza delle li- nee perpendicolari abbassate su due linee rette o su tre piani che si taglino nello stesso punto ad angolo retto. Così le linee e le superfìcie curve possono determinarsi dalle loro equazioni, in cui le relazioni variabili sono combinate con quantità costanti, ed i numeri servono a constatare le proprietà dello spazio. Il che sarebbe impossibile se lo spazio non fosse realmente composto di punti separati indivisibili. Inversamente, le proprietà dello spazio, può dirsi che dipendano dalle proprietà del numero; sicché lo spazio si risolve in un sistema di numeri, pensato dalla Unità suprema del Cosmo. Galilei scoprendo le leggi d' inerzia, scoprì an- che la necessità del moto assoluto, almeno nel calcolo, e quindi del Tempo assoluto. — Kuno Fischer ha dimostrato (contro Trendelenburg) che il moto è preceduto e spiegato dal tempo e non gedue sono uno: o si toccano soltanto in parte e allora sono divisibili. E sbagliava, perchè non sono circoli, ma punti e non hanno parti, ma essendo fuori l'uno dell'altro non si toccano. L'estensione dello spazio deriva appunto da questo, che non si toccano.nera né il concetto ne la intuizione pura del Tempo. Nei suoi « Philosophiae naturalis Principia », 1714, (Def. Vili) Newton scrive: «Eadem est Buratto seu perseverantia rerum, sive motus sint celeres, sive tardi, sive nulli ». Il tempo sarebbe il medesimo anche se l' Universo e i suoi, moti fossero affatto diversi da quelli che sono. È un pensiero della Eagione eterna di cui Descartes (Lettera a Vatier nov. 1643) scriveva: « Tempus non est affectio rerum sed modus cogitandi ». Aristotile. Phys. IV. 10 chiama àpi&iioc, x^viqaeos ossia numero del moto. 11 tempo è eguale da per tutto e questa sua ubi- quità non permette di prenderlo per una linea, benché sugli orologi e nelle clessidre lo si misuri sopra una linea. Newton dice che il tempo è un sistema d' istanti che non dipende dalla nostra coscienza. Ogni fi- nalità si appoggia sulla idea del tempo, senza la quale niente si farebbe, non potendo aspettarsi effetto alcuno dalle proprie azioni. La legge d' inerzia prova che il moto è assoluto come lo spazio ed il tempo. Essa è dimostrata vera da tutte le esperienze (benché sia impossibile la esperienza fondamentale perché stiamo in un pianeta del sistema solare e non nel centro universale). Essa prova la realtà dello spazio e del tempo e la loro uniformità. Che lo spazio ed il tempo per noi sieno concetti a priori o sieno in- tuizioni, poco importa. Quello che importa di sa- pere è quello che sono in se stessi. Sono due sistemi di punti e di istanti separati e discernibili, perchè numerati. La realtà che hanno è minima, mancando di energia, ma se non vi fosse, si avrebbe il caos e la indeterminazione. Spinoza diceva: « Quo plus realitatis aut Esse unaquaeque res habet, eo plura attributa ei competunt » e questi due sistemi di punti e d'istanti non hanno altro attributo che l'ordine, il mimerò, la realtà dell' Essere puro, del Numero. Lo esigono la Meccanica, l' Astronomia e tutte le scienze esatte. Al principio delle cose non vi poteva mai essere (come supposero parecchi Metafìsici, ed anche YArdigò) Vessere indeterminato. Come prova il grande matematico Cantor, lo spazio ed il tempo sono due oceani di punti e di istanti nei quali anzitutto si estrinseca l'Essere Uno Reale. Il Numero è così alla genesi di ogni possibile energia. Pitagora, dando al Mondo il nome di xoajjto? (ossia ordine) comprese che il generatore dell'ordine era il Numero. E Leibnitz scrisse che « omnibus ex nihilo ducendis sufficit unum ». La seconda estrinsecazione dell' Essere Primo (Atomi eterei e ponderali) Come non sono continui lo spazio ed il tempo, così non è continua la Materia (come crede Ardigò)1 e se lo fosse, non opporrebbe resistenza, come dimostrarono Poisson e Cauchy. La forma sferica non basterebbe all'equilibrio di un corpo di materia continua; una siffatta materia si dissi- perebbe nello spazio: sarebbe una specie di atmosfera diffusa allo infinito, con strati concentrici, sempre più rarefatti. Parti di numero indeterminato, mai non potrebbero fare un tutto di numero determinato, come dimostrò Saint-Venant. Nella « Révue du mois » 1906, Jean Perrin provò la discontinuità della materia con la radioattività e con altri fatti. Ciò che è sostanziale non può concepirsi come indeterminato o indefinito, quindi l' indistinto di Ardigò è un concetto inapplicabile in fìsica. Tutte le leggi fisiche e chi- miche ci provano concordi che gli atomi serbano sempre proporzioni definite nello scambiare le loro forze (attrazione, calorici specifici, equivalenti elettrici e chimici, ecc.). Il Secchi (« Unità nelle forze fìsiche » ) fa os- servare che teoricamente l'equivalente definito e multiplo esige che la materia sia composta di centri distinti e semplici. Questo lo aveva già in- tuito Pitagora, quando distinse nettamente il nu- merato o numero concettuale dalla Unità Reale o sostanziale: e fu svolto il suo pensiero da Ecfante di Siracusa, il quale mostrò che le Unità reali erano Atomi, intendendoli come unità immateriali, esistenti a se, come punti di energia propria se- movente, prevenendo così le obbiezioni degli Eleatici contro la possibilità del moto. Spazio e tempo sono le condizioni numeriche nelle quali ci si presentano la materia e il moto nelle esperienze di forza, mentre l'energia atomica, come vedremo, sente e vuole e fa il moto opponendo alle forze incidenti la forza propria della impenetrabilità. L' Essere atomico non si lascia annichilire. Il dire che persiste la forza, la volontà, ossia una attività, una realtà indeterminata, è vago e per nulla scientifico, se non si dice che è la medesima in quantità. Bisogna dire che quello che persiste è Vertergià, la Unità Reale. Il carattere distintivo della scienza italica fu di eliminare l'in- determinato, e di cercare il concreto misurabile. Il Moto non è altro che un rapporto di spazio e di tempo e non ha esistenza in se stesso. La realtà sta nell' Atomo senziente e volente. Lo ammise il Taine nel 1892 e lo aveva, dodici anni prima, ammesso anche Herbert Spencer scrivendo nella Revue Philosophique de la France « La forza « cosmica non può somigliare alla nostra: ma sic- « come la genera, devono essere modi diversi della « stessa energia. Il potere manifestato in tutte le « cose è alla fine quello che in noi scaturisce sotto «forma di coscienza. La materia vive in ogni « Atomo per se stessa. Questo centro, questa Unità « interiore di tutte le cose e inaccessibile alla nostra « coscienza: le scienze studiano i loro fenomeni « e non la realtà conscia che li fa. Ma siccome « noi dobbiamo sempre pensare la manifestazione « esterna nei termini della Energia intima, così, « (conclude l'eminente filosofo inglese) si arriva « ad un concetto psichico degli Àtomi ». Quando si dice che gli atomi sentono un tantino, è inutile spiegare che non si parla dei nostri sensi, che sono frutto di lunghissima evoluzione, nella quale gradualmente si sono accmnunati il sentire ed il volere di milioni di Atomi, dividendosi il la- voro fisiologico, e formando così organi perfezionati. Ma si intende che gli Atomi debbano avere il solo senso dinamico (o della forza fondamentale che tende a formare più alta unità). Infatti la coe- sione è universale e non è mai un moto, ne fatta da moti esterni. E se viene disturbata, fa il moto termico o calorico e la elettricità dinamica. In altre parole si parla di quella sensazione primitiva minima dell' Èssere in se, dalla quale derivano tutte le altre più complicate e più raffinate della chimica e della biologia. Quando la violenza del verito fa accavallare le onde del mare, un buon Capitano (come ce lo de- scrive l'ammiraglio francese Cloué) fa portare in- torno i sacchi di telaforte, pieni di stoppa imbevuta di olio di pesce, di foche o di marsuini, fa forare con aghi da vele i sacchi, legandoli alla poppa o alla prora, non mai più vicini di dieci metri fra loro. Ogni ora escono da tutti i sacchi da due a tre litri di olio, formando quasi una strada piana, larga 50 a 80 metri, che manda lembi di olio fino a 400 o 500 metri ai due lati della nave. Questa pellicola di olio che si diffonde sul mare e calma le onde furiose, non può mai essere piegata dal vento, per quanto sia veemente. Eppure questa pellicola ha lo spessore di i /QQ, 0QQ di millimetro (poco più delle bolle di acqua saponata), e basta a far cambiare la direzione alle molecole dell'acqua che arrivano con impeto. E perchè? Unicamente per la forza di coesione delle minime molecole dell'olio. Il Cloué ha avuto più di duecento rapporti concludenti da varie società di salvataggio, da molti capitani di lungo corso, che attra- versano periodicamente 1' Oceano Atlantico. La coesione è dunque una gran forza, se in una pellicola poco più grossa della bolla di sapone può arrestare i marosi in burrasca ! ! Ed è una forza indipendente da qualsiasi altra, che non deriva da cause meccaniche, ma unicamente dalla sensazione dinamica, dal piacere di unirsi delle molecole di olio. L'atomo di una goccia di acqua non vede, non ode, non ha ne palato, ne olfatto, ne udito, né vista, ne tatto; ma ha bensì il senso rudimentale, dal quale (con lunga evoluzione) uscì il tatto chi- mico e quello delle cellule degli organismi inferiori. E quando milioni di atomi fanno la goccia di acqua senza esserci costretti da alcun moto, da nessuna pressione di etere (come fu constatato), la fanno godendo, altrimenti non la farebbero. Il maggior neocritico tedesco, il Wundt, con- cepiva gli atomi come volontà elementari, come es- seri attivi che sentono (benché più semplicemente di noi): e li aveva concepiti così anche Antonio Rosmini, come si vedrà nel terzo Volume. Materia inerte non esiste che in apparenza. « Instar arcus tensi, qui non indigent stimulo alieno, sed sola suòlatione impedimenti» diceva Leibnitz. La Materia è un Concetto vuoto di una cosa che la Scolastica credeva sostanziale, che non ha qualità propria, ma si supponeva servisse di base alle forze, le quali sarebbero state (secondo gli scolastici) meri accidenti: mentre sono le vere realtà. La Materia (dice Righi) ha per proprietà distintiva Vinerzia; e gli elettroni (o atomi veri), benché non sieno materiali, perchè le loro masse crescono colla velocità (Moderna Teoria dei fenomeni fisici), la mostrano in molti casi, quando stanno fermi, come punti di forza disposti simmetricamente intorno ad un centro positivo; ma in moltissimi casi non la mostrano, cambiando il modo di sentire e di volere. La cosa reale non può essere che un sistema di punti di energia senziente. Anche nell'urto meccanico, il corpo urtato si muove per una intiina reazione, ossia perchè le molecole ritornano al posto in cui trovavano la coesione gradita. Nessuno misura la Materia se non come peso, massa o volume: di cui i primi due si risolvono in forze e il terzo in spazio occupato dalle forze. Gli atomi sono punti, ma fanno la massa e la densità, perchè vi è fra loro dello spazio, anche nei liquidi e nei solidi: ciascuno esiste in sé, e persistendo in relazioni diverse, si sviluppa in molteplice. La causa del moto è sempre intima, nella sensazione delle forze. Gli atomi veri che il prof. Stones ha chiamato Elettroni, non sono estesi, perchè, se fossero estesi, sarebbero divisibili: ma sono punti di energia, che irradiano nell'Etere il quale è pure discontinuo e (secondo Helm e Vogt) darebbe origine agli Elettroni. Invece di Materia, si dica dunque Corpo, vale a dire complesso di energie: e si lasci la Materia alla scienza morta di Aristotile e degli scolastici medioevali e moderni. L' Energia di qualsiasi specie si trasforma con- servando il suo valore numerico: ogni Energia è potenziale rispetto a quella in cui si trasforma. L'Energia è sempre misurabile ed è l'unica che ci interessa. Si compra la materia come la- boratorio di energia. L'Elettrica ha un valore commerciale, dunque è realissima, benché la parte materiale degli impianti elettrici non si alteri, né diminuisca col consumo. Sembra che il calore sia energia cinetica, ma non si può trovare la sua potenziale, se non è nel disturbo della coesione, che è un modo di avvicinarsi godendo l'armonia. Nessuno sa se la Elettricità sia energia cinetica oppure Energia potenziale: non è fatta dal movimento dagli atomi complessi di Thomson, ma soltanto dal moto degli Elettroni. Questi sono punti di forza senza nucleo materiale, senza caput mor- tuum che li porti, come la terra va attorno al sole senza essere portata dall'Elefante o dalla tartaruga degli Indiani. « Omnis Ens, aut in se, aut in alio est » diceva Spinoza e gli Atomi sono in se, elementi psichici che non si lasciano distruggere e se disturbati reagiscono. Lotze osserva che la reazione non è mai simile all'azione, ne Veffetto somiglia alla causa, almeno nella qualità. Chi è colpito si difende in modo diverso (Microcosmos). E Lasson filosofo di non minor valore del Lotze, aggiunge: « Non esistono cose meramente oggettive, passive, esterne». Una energia reale (osserva Guyau) deve avere un modo interno di essere: un appetito, una sensazione rudimentale. Così pensarono eminenti fisici (oltre ai filosofi), quali furono: G. Bruno, Leibnitz, Kant, Boscowich, Maupertius, Cauchy, Moigno, Ampère, Faraday, Tyndall, Zóllner, Fechner, Wundt, Haeckel, Delboeuf, Cournot, Cope, Vacherot, Fouillée, Preyer, Ostwald, Mach (1). Nella sua « Mechanik in ihrer Entwickelung » ossia « La meccanica nel suo sviluppo, il Mach scriveva che « La mitologia Meccanica è sbagliata. Marchesini e gli altri discepoli di Ardigò credono che gli Atomi siano materiali e si affannano a combattere la falange dei, veri pensatori di cui qui abbiamo dato alcuni nomi. E giusto però osservare che hanno male inteso Ardigò, il quale scrisse che « la Materia è Pensiero ». S'intende non dei sassi, né dell'uomo, ma della Sostanza Psicofìsica, di quella divinità inconscia dello Schelling ch'egli chiamò V Indistinto.  La nostra fame non è molto diversa dal bisogno « di combinarsi delle molecole. La nostra Volontà « non è molto diversa dalla pressione del tetto « sulle pareti di una casa ». E Kromann, filosofo di Copenhagen (Unsere Natur Erkentniss) osserva: « se l'Atomo fosse ma- « teriale, non opererebbe se non nel posto ove si « trova, non irradierebbe energia termica o elet- « trica; anzi non si continuerebbe il moto dopo « V urto, se non per alcuni istanti, e andrebbe « estinguendosi per l'attrito. Avviene l'opposto: « dunque l'Atomo è Energia psichica ». Il considerare la Fisica come una estensione della Meccanica va bene fino ad un certo punto, per la comodità dello studio esteriore, ma la filo- sofia non è limitata dagli orizzonti della Materia estesa e cerca la realtà intima che fa le forze originali. Bisogna evitare di fare della scolastica positivista una Metafisica di Materia, di Forza, di Massa, di Moto, di finzioni logiche, che si pigliano per reali quanto più sono lontane dalla realtà, mentre sono meri simboli, meri concetti astratti. I fatti reali di coesione, di solidarietà dell'etere e dell'aria, senza la quale non vedremmo la luce, non ci arriverebbero ne luce, ne suoni, ci con- vincono che sotto le astrazioni della scolastica materialista, ci sono le realtà psichiche indivi- duali minime. L'Etere cosmico forma un tutto solidale ed elastico, è quindi composto di tanti punti di forza che reagiscono. Quando questi punti di forza si scindono in due elettricità, l'una positiva al centro e l'altra, composta di elettroni negativi, alla periferia, fanno gli atomi ponderali, che tendono ad unirsi, se vicini, con la coesione, e se lontani colla gravitazione, in ragione inversa del quadrato della distanza. L'etere è il mezzo che porta istantaneamente l'attrazione da un punto al- l'altro, per quanto sia lontano, Coesione e gravitazione, ossia le forze attrattive, ci indicano che la prima tendenza intima degli atomi è quella di formare più alta unità anzi ce lo indica già la costituzione degli atomi sferici in due specie di elettricità, il cui centro è positivo e la periferia è negativa, ossia composta di elettroni negativi (2). La massa è il numero degli atomi di un corpo, il peso è invece relativo al corpo celeste sul quale si sta; cosicché un corpo pesante un chilogramma sulla Terra, peserebbe sul Sole 28 chili, su Marte 4 /2 chilo, sulla Luna 37 centigrammi. Ma il platino pesa 80 volte il sughero di egual volume in qualunque posto si trovi. Le prime forze dunque sono di elettricità statica. Quando questa è disturbata, ne segue un moto disordinato e dispersivo che si dice calorico e sembra spiacevole, perchè appunto è disordinato e ogni corpo cerca di rigettarlo sui vicini e si di- sperde. Questa è la seconda forza fondamentale della Natura. Ed è sempre un eccitamento a ri- (1) Ben inteso che l'attrazione o coesione incomincia a una distanza minima sì ma non quasi nulla, perchè quel punto che si dice atomo non può essere annichilito. (2) Nella nostra Nuova Scienza abbiamo lungamente mostrato che i tentativi di Lesage, Secchi, Isenkrahe ed altri di spiegare la coesione e la gravitazione per pres- sione dell'Etere, erano falliti; e di questa opinione sono tutti i maggiori fisici, fra cui l'eminente prof. Augusto Righi. tornare all'armonia facendo la elettricità dinamica, ossia quelle correnti che divennero nella moderna industria mezzi di grande efficacia. Già nei vecchi esperimenti di Siebeck e di Nobili il calorico si trasformava in elettrico contrasto. Che dal calo- rico (moto disordinato) gli atomi appena lo possono, passino all' elettricità ed al magnetismo (moti ordinati e piacevoli), venne recentemente dimostrato dai professori Ettingshausen e Nernst, mettendo in un campo magnetico una piastra di bismuto, perpendicolarmente alle linee di forza: poi riscaldando la piastra da una parte, si vede dall'altra parte sorgere una corrente galvanica. Una data quantità di energia termica è sempre equivalente ad una determinata quantità di ener- gia elettrica (2) qualunque sia la sua temperatura; si ottiene sempre lo stesso valore trasformando una nell'altra. L' Elettricità che non si manifesta in tensione (statica) si manifesta in corrente (di- namica) o in rotazione (magnetica) o irradiando e vibrando. Le proprietà di isolare o di condurre la elettricità dipendono dall'aggregazione molecolare, p. es. il Carbonio nel diamante isola, nella grafite conduce; i corpi a molecole bene orientate si elettrizzano bene scaldandosi poco (come l'ambra, la ceralacca, il vetro); ma i metalli composti di atomi neutri, avendo le molecole male (1) Avendo Carnot provato che il calorico non si con- verte in lavoro meccanico se non quando passa dai corpi caldi ai freddi, Thomson ne dedusse che una parte sempre maggiore della Energia convertita in calorico si disperde nel cielo e il lavoro scema: così alcuni credono che l'ener- gia dopo molti milioni di secoli si estinguerà; ma questo sarebbe già raggiunto (se fosse vero), perchè l'Universo non ha avuto principio nella sua energia potenziale. orientate, si lasciano molto riscaldare con lo sfre- gamento senza elettrizzarsi, sono elettropositivi, e si possono jonizzare con poca energia. Un corpo carico di elettrico, sebbene isolato, produce nei vicini uno stato elettrico di specie opposta (negativa o positiva) in ragione inversa della distanza. Con una macchina di induzione si elettrizzano migliaia di cilindri di latta. La elettricità è un contrasto di correnti bipartite e non si ricompone se non allora che la positiva è posta in contatto improvviso colla negativa. Niente passa dal corpo inducente al corpo indotto; ma gli atomi di questo assumono la corrente, senza che l'e- tere frapposto si elettrizzi ne si polarizzi - e questo ci prova che non è l'etere che fa la elettricità. La fisica nuovissima fa oggi sugli elettroni ossia sugli atomi elettrici ricerche perseveranti. Studiando la conduttibilità della Elettricità attraverso i li- quidi ed i gas, si vide che era costituita da Elettroni, ossia da Atomi elettrici, rispetto ai quali le cariche sono multiple, come numeri interi di atomi elettrici. Helmholtz l'aveva intuito e Lorentz lo dimostrò. Lodge e Righi trovarono che l'Etere è elettri- cità di forza minima ed il principio di ogni materia, ha una massa ed una forza viva, che dal punto centrale dell' Atomo fa i vortici elettrici, l'atomo vorti- coso di sir William Thomson (lord Kelvin) il quale conteggiò il numero degli Atomi minimi (Elettroni). Gli Elettroni sono emessi con enorme velocità dal catodo, nei tubi a vuoto (raggi catodici) e dal radio (raggi beta). Questi risultano da cariche elettriche in moto rapido assai e sono deviati dalle calamite (1). fi) Kauffmann: La costituzione dell'Elettrone, Annalen der Physik. Il prof. Abraham di Gottinga nel 1902 ha cal- colato la massa apparente dell'Elettrone per le diverse velocità, supponendo che abbia causa elet- tromagnetica e che l'Elettrone sia sferico e rigido. Kauffmann confermò che non vi è nocciuolo materiale nell'Elettrone. Un magnete, ossia una pietra di ferro sulla quale si scaricò probabilmente il fulmine e nella quale le due elettricità restano separate ed in contrasto continuo, attrae il ferro, come tutti sanno. Il magnete non attrae cei*to per la pressione dell'etere, che si esercita su tutti i corpi. Dopo il ferro, il nikel e il cobalto sono i metalli più magnetizzabili: un pezzo di acciaio che subisca un forte sfregamento con un magnete, diventa un magnete e serve a fare altri magneti. I gas e le materie contenute nelle fiamme sono magnetizzabili e di- vidono le fiamme in due corni. Jonizzare vuol dire separare da un atomo neutro alcuni suoi elettroni negativi: e si fa facilmente nei metalli, composti di atomi neutri. Si jonizza sia col gran calore, sia con urti violenti che scal- dano molto, sia coi raggi catodici, di Rontgen o di Becquerel. Un filo arroventato jonizza il gas che lo tocca, ed i gas delle fiamme sono tutti for- temente jonizzati e ridotti ai più semplici elementi Uberi. Le scariche elettriche sono fatte dai joni dei gas, urtati violentemente, scomposti in elet- troni negativi. La luce deriva da vibrazioni elettriche trasversali e perpendicolari ai raggi da destra e da si- nistra. Se la destrogira o la levogira ritarda, non danno più una riga sola nello spettro, ma due. I raggi scoperti nel 1895 da Rontgen che partono dai catodi ossia dai poli negativi in sfere di gas rarefatti, hanno onde quindici volte più corte di quelle della luce del sole, e non si vedono, ma fotografano e non si rifrangono, non sono carichi di elettricità come i raggi catodici; ma fanno sor- gere l'elettricità nei corpi conduttori. I raggi scoperti da Becquerel nel 1897 non partono da sfere di gas rarefatti, ma da corpi estratti dalla pecliblenda (q sono i seguenti: radio, uranio, torio, bario, attimo) vengono emessi anche nel vuoto ed a temperatura glaciale e sono di tre specie: alfa, beta e gamma. Gli alfa sono fatti da joni positivi e deviabili e jonizzano i gas che urtano. I beta più forti anche nel fotografare, si comportano come raggi catodici e deviano in senso opposto agli alfa. I gamma sono più veloci e più penetranti degli alfa e dei beta. Trasformano l'ossigeno in ozono, il fosforo bruno in rosso. Non derivano da scomposizione chimica, ma da emissione di elettroni. Arrestano le scintille di, una fortissima macchina elettrica, perchè egualizzano le elettri- cità accumulate, e le scaricano da se. I raggi Rontgen sono esplosioni elettriche (materia radiante di Crookes, il quarto stato di Faraday) e scompongono gli atomi dei gas nei loro Elettroni negativi. Traversano i corpi opachi, fanno vedere le ossa e le palle di fucile rimaste nelle ferite. I raggi Becquerel dei corpi radio attivi permettono di scoprire in un miscuglio di gas elementi in proporzioni assai più piccole di quelli indicati dallo spettroscopio. Intorno agli Elettroni negativi l'Etere è teso in lunghezza e premuto dalle parti trasversalmente. Le linee di forza magnetica sono cerchi perpendicolari alla trajettoria centrale. Una corrente elet- trica è un flusso di Elettroni negativi equidistanti: se il moto non è uniforme si ha Vinduzione, come dice Righi - (La moderna teoria dei fenomeni fi- sici, 1907, Bologna, p. 257). Le aurore boreali e le corone dipendono dal magnetizzarsi della luce. La efficacia della elet- tricità e del magnetismo diminuisce col quadrato della distanza. Scaricando una corrente elettrica sopra un disco di vetro, la positiva fa raggi diritti, mentre la negativa fa delle ramificazioni si- mili alla radice di una pianta. R. Hertz trovò che l'elettricità si propaga con onde dell'Etere cosmico che nel suo oscillatore erano ridotte a 6 centimetri, ma colle bottiglie di Leyda superano 300 metri e nelle macchine dei telegrafi senza fili arrivano a 7000 dalla stazione di Coltano. — Le onde di Hertz dipendono da esplosioni per urto (1). La elettrolisi è la scomposizione in joni degli elementi delle molecole: p. es. il sale di cucina sotto l'azione di una pila e di due elettrodi, si di- vide in joni di Jodio positivi che vanno al polo negativo, o Catodo, e in joni di Cloro, negativi, che vanno al polo positivo o Ànodo. E l'acqua si scompone in ossigeno, che va al polo positivo, o Anodo, ed in idrogeno, che va al polo negativo o Catodo. Sulla elettrolisi si fondano gli accumulatori, o casse cariche di elettricità, ottenuta separando il (1) Le scariche oscillanti, come quelle fatte negli Oscillatori di Marconi sono prodotte da molti alternati passaggi, da una serie rapida di flussi che, urtando violente- mente l'Etere, vi fanno delle onde concentriche assai lunghe. Il ricevitore o coherer alternando lo stato magnetico permette di far segnali. piombo dall'ossido di piombo (che si adoperano per muovere i tram elettrici). La genesi degli elementi ossia delle varie specie di Atomi fu studiata dal Crookes in Inghilterra, dal Mendelejew in Russia e da altri (1). Dalla in- focata nebulosa, per la irradiazione del calorico, e l'abbassarsi della temperatura, si formarono dapprima i 14 elementi leggeri (2) e poi, per successivi raffreddamenti, anche gli elementi pesanti fino all'Uranio che pesa 240 volte l'Idrogeno. Ogni elemento leggero diventò capolista di un gruppo, per successive differenziazioni e complicazioni. — Raffreddandosi le stelle, la elettricità ci va for- mando nuovi elementi e si complica la loro strut- tura. Così nelle stelle bianche non vi è che Idrogeno, e poco Magnesio. Nelle stelle gialle, come il sole, vi sono i metalli: ma non ancora i metalloidi. Nelle stelle rosse che si raffreddano poi, come Ercole, ci sono metalloidi, e i metalli sono (1) Tutti sanno che la piccolezza delle molecole è estrema. Gli Elettroni non sono che punti di forza. Si può assottigliare l'oro in lamine di cinque milionesimi di millimetro. Certi infusori provvisti di organi hanno un diametro minore di un millesimo di millimetro. (2) Idrogeno, Litio, G-lucinio, Boro, Carbonio, Azoto, Ossigeno, Fluoro, lodo, Magnesio, Alluminio, Silicio, Fosforo, Solfo disposti in due serie: la elettrizzata positivamente e la elettrizzata negativamente, ciascuna di 7 ele- menti. (Per gli elementi seguenti vedi Wendt, Evolution der Elemente, 1891, Berlino). L'analisi spettrale datante linee quanti sono gli elementi che compongono i corpi incandescenti. Nei laboratorii chimici è difficile superare 2.400 gradi centigradi, tuttavia gli atomi di idrogeno vibrano del pari nelle stelle, nel sole, nelle nebulose o in un tubo di Geissler riscaldato, perchè danno lo stesso spettro. tutti combinati. Ma ad altissima temperatura gli elementi si dissociano, perchè gli Elementi non sono gli Elettroni o Atomi veri, ma sono atomi composti vorticosi, che Thomson mostrò essere circolari, non tagliabili che vibrano quando sono urtati. Dissociando gli elementi, diventano radioattivi, come dicemmo sopra, e la dissociazione può arri- vare a tale energia che, col disgregare un soldo di rame, si avrebbe forza bastante per far muovere un treno di centinaia di quintali. Il prof. Ramsay vide il radio trasformarsi con- tinuamente in elio. Le cinque leggi principali della fìsica pura mostrano la Unità ideale e reale di azione e sono: Inerzia, Indipendenza delle Forze, Eguaglianza fra Azione e Reazione, Conservazione della Materia e Conservazione della Forza potenziale (non della manifestata). Del resto il principio di conservazione della Energia, ha valore per i fatti osservati; ma è inesatto l'applicarlo agli altri. Tutti i fatti meccanici, sono nello stesso tempo fatti elettrici o chimici. La meccanica ne coglie un solo aspetto: risolvere il mondo in figure è una mitologia. Le forze interne sono le essenziali, sono psichiche. Il nostro Giambattista Vico diceva che il conato o virtus movendi è fatto dall'appetito, dal desiderio. Del resto tutte le spiegazioni meccaniche, quando escono dal problema dei tre corpi, ossia cercano di determinare le variabili che preponderano, di tro- vare le relazioni funzionali tra loro, per predire lo stato futuro di un sistema di corpi, non danno mai la certezza e sono soltanto approssimative. Se si considerano sistemi isolati come conservativi, vi s' introducono delle variabili, riguardandoli 45 come porzioni di un sistema conservativo più ampio: ma gli attriti, le viscosità e le complicazioni dei moti di altri corpi, e sopratutto le rotazioni, rendono la soluzione impossibile: come ben dice E. Picard (La mécanique classique, 1906). Laplace, invece di supporre che l' impulso fosse proporzionale alla velocità, ritenne che fosse una funzione della velocità e variasse con la velocità, come si è trovato poi per gli Elettroni, le cui masse crescono con la velocità, per cui non sono materiali. Così bisogna abbandonare le equazioni differenziali e cercare le equazioni funzionali, se si vuol prevedere l'avvenire di un sistema di corpi. I corpi non sistemati o che sono in moto lento, sono soggetti a cambiare direzione e velocità, se vengono urtati. Non è l'urto, ne la pressione che si converte in calore: bensì l'urto eccita le forze- interne a difendersi con moto rapido irregolare che dilata e si disperde. Se si urtano due palle lanciate una contro l'altra, le forze che risultano sono momenti eguali, ma opposti: così che entra nel corpo urtato la sola differenza. II moto che segue all'urto non avviene mica per una infusione di moto come suppongono gl'ingenui: ma esso si verifica sempre per la solidale elasticità delle molecole, che ritornano al loro stato abituale di coesione, come ha dimostrato fin dal 1887 Todhunier (nella sua bella Theory of Elasticity). Fin qui abbiamo considerato la Materia nel minimo, ossia nei suoi Atomi eterei e ponderali, cercando (per quanto era possibile) le sue forze intime. Se ora la consideriamo nel massimo, dobbiamo riconoscere che l'Universo non può essere infinito, come è sempre ripetuto nella filosofia del prof. Ardigòy ne in massa, ne in energia potenziale, perchè allora, come ha provato l'astronomo Olbers, il centro di gravità sarebbe in ogni punto del mondo e la meccanica e l'astronomia se ne andrebbero a rotoli: ed anche perchè, come notava Angelo Secchi (Le stelle, pag. 334 a 336) se il mondo fosse infinito e popolato di infinite stelle, la vòlta celeste ci comparirebbe lucida come il sole in tutta la sua estensione. Chi avesse occhi sarebbe subito accecato, ma nessun occhio avrebbe potuto nem- meno formarsi. Zollner credeva che l'Universo finito evaporerebbe nello spazio: ma questo è impossibile, perche, alla temperatura di 270 gradi sotto zero, (che è quella della Via Lattea) e tanto meno ai freddi maggiori delle regioni più lontane della Via Lattea, nessun corpo può svaporare. Le forze della Materia sono anzitutto attrattive, e di queste parleremo nel seguente Capitolo. Le ripulsive sono quelle della impenetrabilità, del calorico, dell'elettricità che abbia eguale dire- zione e le esplosive dei composti chimici in cui entri l'azoto e delle cariche elettriche. Derivano dal disturbo del godimento che è caratteristico delle forze attrattive. La solidarietà degli Atomi in generale Coi principii delle scienze fìsiche insegnati da Cartesio in poi, non si è riusciti mai a spiegare l'attrazione e la coesione, che tengono insieme tutti i corpi e sono le prime forze iniziali (1). Quanto tendano a stare insieme gli Atomi Eterei lo prova la flessibilità ed elasticità dell'Etere. Quanto tendano a stare congiunti gli Atomi ponderali, ognuno lo vede nelle goccie di acqua, nelle colle, nei cementi, nei marmi, nei legni duri, nei corami, nelle corde di canapa, nei diamanti,. in molti metalli e specialmente nei fili di ferro: anzi in tutti i corpi liquidi o solidi compreso il proprio. Al di là di una piccola frazione di millimetro, la coesione diminuisce e si estingue e su- bentra l'attrazione in ragione inversa del quadrato della distanza, perchè gli Atomi irradiano sopra superfìcie tanto più grandi quanto più sono lontane. Newton e Faraday hanno intavolato bene il problema dell'Attrazione Universale. Ma gli Empirici,, ed anche il gesuita padre Secchi (che non era punto filosofo, e credeva come tutti i Tomisti, nel Motore immobile divino) lo hanno oscurato. (1) L'amore degli animali e anche dell'uomo è la su- blimazione di quella tendenza fondamentale che tiene as- sieme tutti i corpi del mondo. — 48 — Newton per un quarto di secolo ci meditò so- pra (1) e stabilì due punti vale a dire che l'agente della gravitazione non può essere meccanico (nella Prefazione ai suoi Principii 1713), e che l'agente immateriale muove. Dunque è la unità energica psichica degli Atomi ponderali, che trasmette per l'Etere la tendenza a congiungersi. Quando questa calma, istantanea irradiazione arriva ad altri Atomi ponderali è sentita, ed avviene la attrazione reciproca. Faraday commentando (nel Philosophical Magazine, 1884, pag. 143 del Volume XXIV), scriveva « Nella gravitazione la forza va per l' Etere alle « maggiori distanze, partendo dai punti Atomi di « Boscovich. Ogni Atomo irradia dal suo centro a « tutto il sistema solare ». Newton non ammise che la gravitazione fosse dovuta ad una causa immateriale (che sarebbe la psichica Unità reale degli Atomi) perchè come fi- sico diceva « hypothesis non fìngo » ma non lo escluse e lo lasciò pensare al lettore. Egli vide bene fin dal principio e concluse definitivamente nel 1681 che ogni teoria meccanica sulla gravità non si può sostenere mai, perchè non si propaga, non si al- tera, non devia per l'interporsi di qualsiasi so- (1) Newton studiò la ipotetica pressione dell' Etere per spiegare la gravitazione fin dal 1675, e ne scrisse una Memoria che lesse alla Royal Society. Ma nel 1686 di- chiarò in una Lettera ad Halley che tale ipotesi non aveva il minimo fondamento. Sfortunatamente per loro e per la scienza fìsica alcuni Empirici ed anche il padre Secchi nei due ultimi secoli perdettero il tempo nel tentare di scoprire come V Etere facesse tale pressione, che già il genio di Newton, dopo maturo esame, aveva trovata impossibile. — stanza gazosa, liquida o solida, non prende mai la direzione di una risultante, non si rinette, non si rifrange, non si trasforma come la luce, non può essere un moto, ne derivare da un moto, è istantanea. I tentativi di Lesage, di Schramm e di Secchi di far derivare la coesione e la gravità dal flusso e dalla pressione dell'Etere, per quanto ingegnosi, rimasero così imbrogliati da difficoltà enormi che non persuasero alcun filosofo. Arago in Francia, Maxwell in Inghilterra ed altri grandi fisici li dimostrarono inani. Clerk Maxwell ne enumerò così gli assurdi: 1. — Eichiedono un punto motore che agisca fuori e al di là dell'Universo. Esigono che la materia sia ora creata ed ora annullata, giacche ora la forza è esaurita ed ora acquista una enorme velocità. 3. — Riducono la gravità, che è forza perenne in- distruttibile, ad un semplice effetto di di- verse forze che ci sono ignote. Implicano la esistenza di capitali strabocchevoli di energia nell' Etere, capitali che nes- suno ci ha trovati. 5. — Se fossero vere, farebbero andare in frantumi varie volte al giorno tutti i sistemi solari. II padre Secchi altro non fece che generalizzare per isbaglio un caso speciale di Poinsot (N. Scienza,. IV voi., 282 e seg.) (1). (1) È molto deplorevole che alcuni giovani, unicamente^ mossi dall'orrore per la psiche e per ogni interiorità (senza- badare che essi sentono, vogliono e pensano) e volendo spie- gare tutto il mondo con la esteriorità, ossia meccanicamente, sprechino oggi il loro ingegno nel cercare a quali squili- Newton (nell' Ottica) dichiarò assurdo che la gra- vitazione fosse proprietà dovuta a moto di materia. Il suo concetto si trova nei Principia (alla fine del libro) dove suppone che la forza psichica degli atomi faccia la gravità; benché, come dice- vamo or ora, seguisse la regola del suo tempo, fondata sul pregiudizio di Cartesio che la Materia nulla avesse di psichico, che « in Philosophia experimentali hypotheses locum non habent » „ — Egli veramente non arrivava fino a supporre che gli atomi avessero un germe di sensazione, ma cre- deva in uno spirito pervadente gli atomi, e lasciò (come Cartesio) la materia inerte passiva, mossa dallo spirito divino. Fu Voltaire che presentò alla Francia il Newton della gravitazione universale, considerata come una brìi dell'etere possano attribuirsi la coesione e la gravita- zione; dando prova unicamente della insolubilità del pro- blema. Fra questi va notato l'egregio ingegnere M. Barbèra nel suo libro «L'Etere e la materia ponderale» uscito a Torino sulla fine del 1902, nel quale, in meno di 140 pa- gine fa 1400 ipotesi: ma nella Prefazione del quale egli ha però il buon senso di confessare che il meccanismo di ogni fenomeno fisico « rimane affatto misterioso, e che i risultati della ricerca di esso sono quasi sempre concezioni stranissime ed assurde, ma spera nondimeno che non sieno dannose ». Dal momento cbe fu riconosciuto da eminenti fisici, fra cui in Italia da Righi ed altri, cbe gli Elettroni (elementi degli Atomi) non hanno nucleo materiale, sarebbe meglio fare a meno di scervellarsi per restare materialisti, limi- tandosi a dire: « Sic volo, sic jubeo: sit prò ratione vo- luntas ». Se non è assurdo cbe io, cbe sono composto di Atomi, senta, non sarà assurdo cbe un atomo abbia un germe di sensazione gradita, nella Coesione. proprietà della Materia, e divulgò quello che Newton dichiarò assurdo, vale a dire che la materia agisse dove non era. Ma Voltaire non era che un letterato. Nella evoluzione fìsica in grandi masse, come nella evoluzione chimica in piccole masse, più o meno lentamente, le parti si rendono solidali nella sensazione rudimentale dinamica (o della forza): perciò tutti i corpi (siano allo stato gasoso, liquido o solido), sono elastici. Alla superfìcie di una massa liquida, per 10 a 12 milionesimi di millimetro, la coesione è massima. Alla profondità doppia è diminuita di 3/4. Rucker nel 1885 con esperimenti ottici elettrici confermò questi risultati. Quincke nel 1887 ha analizzato le pellicole liquide che bagnano i solidi e disse che a meno di 25 milionesimi di millimetro incomincia la coesione per le molecole dell'ac- qua. Nelle bolle di sapone la pellicola è costante, se lo spessore eccede cinque soli milionesimi di millimetro, e torna a crescere, se lo spessore viene ridotto ad un milionesimo. Un liquido è formato da diversi strati, cosicché due porzioni di acqua si attraggono quanto più stanno alla superfìcie: alla distanza di un dieci- milionesimo di millimetro si attraggono con una forza massima. Thomson nel 1886 disse che l'at- trazione capillare non è altro che l'attrazione Newtoniana resa più intensa per le molecole mobilissime che fanno il liquido. La forza di coesione è tanta da resistere a grossi pesi. Da oltre un secolo Barton prese molti cubi di rame aventi le loro superfìcie ben levigate e liscie, li mise sul tavolo uno sopra l'altro e vide che, prendendo in mano il più alto, gli restavano attaccati tutti i sottoposti. I fenomeni della capillarità nei tubi stretti sono ben conosciuti da tutti. Centinaia di esperimenti svariati della solidarietà furono fatti da Plateau (Statique expérimentale et théorique des liquides soumis aux seules forces moléculaires). Facendo ca- dere a goccie certi olii sopra l'acqua, si distendono come piani: mentre le goccie di altri olii cadendo si dispongono in forma di lenti più o meno convesse. La coesione delle molecole di olio è tanta che i marinai calmano le onde furiose del mare vicino alla loro nave col versarvi sopra un sottile strato di olio nel modo indicato nel Capitolo precedente. La natura numerica della coesione si può in- vestigare pigliando certe soluzioni, fortemente colorate, di permanganato di potassa e facendone cadere alcune goccie sull'acqua, a minima distanza da questa, e lentamente. Si vedrà che la sostanza colorata, nel suo discendere e nel modificare l'as- sociazione molecolare assume la forma di anelli vorticosi, cinti da una pellicola, che, sempre più assottigliandosi, si rompe: ed ogni frammento degli anelli maggiori, discendendo, assume subito la forma di minore anello vorticoso e via di se- guito, dando una figura di polipo che genera sempre nuovi e minori anellini vorticosi fino a che diviene invisibile. — Con una goccia di inchiostro il fenomeno succede lo stesso ma con tanta velocità che riesce impossibile di studiarlo. Gli anelli vorticosi sono sempre fatti in questo esperimento dalla forza di coesione in lotta col peso: prova che molti atomi simili sempre tendono ad unirsi e uniti una volta stentano a disunirsi, e che l'unità domina i molti. Per quanto siano caldi i liquidi riescono a for- mare delle goccie. L'astronomo Young (Il Sole, — 63 — p. 220) dice che il Sole (che sembra sia in gran parte gazoso) deve formare la sua fotosfera con goccioline di metalli. Non vi è corpo gazoso che non possa gustare la coesione. Infatti Cailletet e Wriblowcki, con macchine possenti, sono riusciti a rendere liquidi quasi tutti i gas. La teoria cinetica dei gas di Clausius, Joule e Maxwell non si regge più, perchè gli urti obliqui farebbero roteare le molecole, il moto di traslazione si rallenterebbe e cesserebbe, e perchè la legge di Mariotte e Gaylussac (essere a temperatura costante il volume di un gas in ragione inversa della pressione) non si verifica che poche volte, come provò Regnatili: anzi Hirn variò a piacere la temperatura senza che cambiasse la resistenza (1). Clausius cre- dette che le molecole dei gas corressero senza vi- brare e spiegava così la discontinuità degli spettri dei gas, dei liquidi e dei solidi. Ma recentemente vari fisici hanno attribuito gli spettri lineari dei gas alla piccolezza delle loro molecole, invece che alla fantasticata loro corsa vertiginosa, e fu tolto al Clausius l'ultimo suo rifugio che era lo spettroscopio. Venne allora Hirn a provare che, se le molecole dei gas corressero in linea retta, non vibre- rebbero e non potrebbero mai dare un suono. Il suono ci prova che i gas hanno le loro parti solidali e sistemate, come una corda tesa vibra; ma se non è tesa, non vibra più. Per vibrare occorre (1) Tait nel suo bel libro Heat, nell'ultimo Capitolo indicava fin dal 1884 le gravissime difficoltà che presen- tava l' ipotesi cinetica dei gas del Clausius, che venne accettata per alcuni anni provvisoriamente. 4 che le molecole ritornino allo stato di prima. L'aria vibra (come le lamine sonore di Chladni e di Savart perchè è elastica e solidale. D'altronde se l'aria fosse costituita al modo escogitato dal Clausius, essa non si alzerebbe più di dodici chilometri, secondo Hirn, mentre si eleva a cento e più. Bisogna anche pensare che tutti i corpi premuti si riscaldano e così si riscaldano anche le onde di aria vibrante. Se non si riscaldasse, dice Hirn, il suono si propagherebbe in un minuto secondo a 288 metri, mentre si propaga a 340, perchè il suono passa da onda ad onda più calda. Il prof. Hirn conclude che gli atomi dei gas non corrono, non si urtano, ma formano un sistema elastico solidale, che deriva dalla stessa tendenza intima che fa la coesione dei solidi, dei liquidi e la gravitazione. La facilità con cui si mescolano i gas, le leggi della pressione, si spiegano senza bisogno che cor- rano molti chilometri al minuto e senza che su- biscano tanti urti. — Il Sisifismo di Clausius può essere eliminato. La solidarietà non è un moto, è uno stato psichico, in cui si forma un essere collettivo, una grande unità. E il godimento è evidente in un esperimento che tutti possono fare, mettendo dei cavalierini di carta sopra due o più corde vibranti vicine e lontane. Quando due corde danno il medesimo suono, appena si tocca coll'archetto una corda, si vede che dall'altra i cavalierini saltano via, anche se la corda è lontana molti metri. Mentre, se non danno il medesimo suono, anche se sono avvicinate quasi a toccarsi, i cavalierini delle corde non toccate rimangono fermi ed indifferenti. Dunque l'aria è solidale, di una solidarietà così intima da far vibrare tutto ciò che vibra nel medesimo tempo e non ciò che vibra in altri tempi. Così se abbiamo due coristi eguali, battendone uno, suona anche l'altro; se ne abbiamo cento o mille, tutti vibrano del pari. Il rinforzo di un suono avviene sempre quando, in vicinanza del corpo so- noro, ce ne sono altri che dieno lo stesso suono. I fabbricatori di stromenti musicali applicano con- tinuamente questa legge, che prova la solidarietà degli Atomi anche allo stato gasoso. Questa solidarietà è evidente non soltanto fra gli Atomi ponderali allo stato solido, liquido e gasoso. ma anche fra gli Atomi eterei, che sono infinitamente più piccoli degli Atomi ponderali. Locke (nel suo Saggio sull'umano intelletto, II, 23) fece notare quanto sia stupido cercar di spiegare la Coesione degli Atomi ponderali inventando una pressione dell'Etere, perchè gli Atomi dell'Etere che sono coerenti e solidali fra loro, esigerebbero per spiegare questa pressione un secondo Etere che premesse il primo e questo esigerebbe un terzo etere e via di seguito all'infinito. Sopra un'onda di luce rossa stanno 200 Atomi Eterei. Faraday provò che il mezzo etereo è elastico, col mostrare che le sue linee di forza si curvano. Hirn ne dedusse che gli Atomi Eterei sono solidali e formano un tutto elastico persino nelle suddivisioni infinitesime. Se l'Etere fosse in flusso continuo, se fosse di densità variabilissima come supponeva il padre Secchi per poter darsi l'aria di spiegare la coesione, non potrebbe mai trasmettere la luce con tanta regolarità e delicatezza. Questo è evidente se si riflette un poco. Secondo Lorentz l'Etere deve essere in stato di relativa quiete e di solidarietà nel suo complesso, per permettere il moto della Elettricità e della Luce. Senza questa solidarietà non avremmo la luce del sole e delle stelle, come senza la solidarietà dell'aria non avremmo il suono: quindi non si sarebbero formati ne occhi, ne orecchi; ed è alla solidarietà dell' Etere e dei gas che dobbiamo la civiltà ed i maggiori piaceri della parola e dell'arti belle. Alla stessa solidarietà dobbiamo le onde scoperte dal prof. Hertz assai grandi, sulle quali si fondano i telegrafi senza fili. Quando la coesione degli atomi e la loro solida- rietà vengono disturbate, sorge il moto irregolare del calorico, che allontana gli atomi gli uni dagli altri, dilata i corpi, liquefa i solidi, volatilizza i li- quidi, disperde e non si concentra mai. Hirn schiacciando il piombo (senza accrescerne la densità) provò che il calore deriva dal disturbo della coe- sione e che è un moto degli atomi e non delle molecole. Ben a ragione dunque il fondatore della ter- modinamica Mayer diceva che la coesione e l'at- trazione non sono moti, ma tengono della natura della sensazione, sicché la Materia bruta inorganica ha un senso di solidarietà innegabile e l' Unità do- mina la moltiplicità, il molteplice tende ad unirsi e di questa tendenza sono visibili gli effetti in tutta quanta la fìsica. Fra le soluzioni separate da membrane permeabili ha luogo sempre uno scambio, nel quale la più densa assume più che non ceda e la meno densa perde più che non acquisti; fatto che prova la tendenza ad associarsi di tutti gli atomi. Il disturbo dell'armonia fa l'allontanamento degli atomi, la dilatazione dei corpi, la disgregazione.  La tendenza all'armonia fa i contrasti elettrici della luce, la solidarità dell'Etere e dei gas, la coesione dei liquidi e dei solidi, e l' attrazione dei corpi lontani. Così si manifesta nella fisica la tendenza a for- mare più alta Unità, che si accentra poi e si rende manifesta nella Chimica, e, ancor meglio, nella Biologia e nell'Amore delle Piante e degli Animali, sempre per cause intime e non mai per le forze incidenti dell'Ambiente. Nel succitato libro sul Calore il Prof. Tait di- ceva bene: senza moto non vi è Calore, ma non ne segue che il Calorico sia un moto: come senza Fosforo non vi è Pensiero; ma non ne segue che il Pensiero sia Fosforo. Il Moto che fa la gravitazione, il Calorico e 1' Elettricità, ossia le forze fondamentali dell'Universo, deve essere fatto dalla sensazione rudimentale degli atomi e deve essere una manifestazione della loro volontà primitiva. Come dicea Herbert Spencer: gli specialisti stu- dino pure i fenomeni fisici come meri movimenti; ma la filosofìa badi alla realtà conscia, ossia alla Unità interna di tutte le cose. (Vedi sopra Cap. II, pag. 20) (1). Siamo coerenti e riconosciamo che la (1) Lo stesso Ardìgò scrisse, come Schelling, che la Materia è una forma del Pensiero (e doveva dire non del Pensiero, ma della sensazione della Volontà), ma in tutto il suo sistema non seppe spiegarlo e adottò la fisica che attribuisce agli urti delle forze incidenti ogni fenomeno. Newton aveva ben capito che della materia si poteva affermare una forza sola generalissima, cioè la resistenza, scrivendo nei suoi Principia Definitio IIIa: « Materiae « vis insita est potentia resistendi ». Egli aveva pure compreso che l'aria e l'etere erano elastici fé quindi solidali) scrivendo nella sua Ottica (Questione XVIII) che l'aere è assai più elastico e più attivo dell'Aria. 58 vera filosofìa della Natura non può bandire la psiche dalla fisica, ma può andare sotto la scorza delle cose e indovinare la loro intimità. I filosofi che dicessero che noi fin qui abbiamo fatto della fìsica e non della filosofia, mostrerebbero corto intelletto; perchè abbiamo stabilito e provato che la Materia sente e che è tutta solidale. Il materiale dei cristalli è chimico: ossia fatto da molecole; ma la costruzione è fisica, e conserva le proprietà fìsiche delle molecole, orientandole secondo le direzioni dei tre assi; e specialmente il calorico, la elettricità e la luce. Chi non ammette la psiche nella Materia e si affanna a spiegare la coesione delle molecole di una goccia di acqua, inventando la assurda pressione dell'Etere, ha bisogno poi di tutt' altra pressione, per spiegare la formazione di un cristallo e deve fare mille ipotesi di un Etere più schiacciante (1). (1) L'Illustre Presidente della Società Geologica Inglese, il prof. Judd diceva che « Each minerai like each plant, or animai, possess its own individuality ». Le forze a tergo, gli urti, le pressioni non spiegherebbero mai la gran varietà di strutture che presentano i cristalli (Sulla formazione dei cristalli parlammo nella nostra Nuova Scienza, voi. IV. pag. 479 a 481 e in altri siti). La coesione geometrica cristallina indica chiaramente la tendenza a godere la Eleatica quiete fra i contrasti elettrici. Evers disse che la preparazione biotica è evidente nei cristalli; è l'alba della vita che si chiude fra le pareti; è una vita modesta, casalinga, incipiente, quella che si rappiatta fra i tre assi di coesione geometrica e mantiene le loro pareti. Le molecole allo stato liquido, quando si abbassa la temperatura (se trovano la calma e le soluzioni necessarie) tendono a cristallizzarsi. E, dalla vescicola centrale che fa il cristallo, gli Atomi della soluzione vanno disponendosi in tre assi perpendicolari (i quali rivelano che sono tre e non più le dimensioni dello spazio reale, come nel Capitolo I fu detto). E prendendo le forme di tetraedri, di prismi, a base triangolare o parallelopipedi (1) non le prendono per quelle forze esterne a cui lo Spencer e VArdigò ricorrono, e che non possono riunire altro che detriti, arena, polveri e spazzature: le prendono per la tendenza delle Unità interne a formare, unite coi simili, dei sistemi di equilibrio stabile di godimento durevole, fra i contrasti elettrici. Il punto centrale dove si intersecano i tre assi rimane indifferente fra le polarità. Scaldando un (1) Ai sistemi cubico, prismatico, romboidale ecc. si aggiungano le strutture lamellari dei marmi, la granulare del gres, la ramificata delle miche, del bismuto, del cobalto grigio, la capillare dell'asbesto, dell'amianto, quella a pagliette o lamine sottilissime degli scbisti. In qualunque forma gli spigoli opposti si modificano insieme. Il clivaggio o spaccatura produce polveri della forma medesima a quella di ogni cristallo. Soltanto il granato e lo smeraldo si rompono in frammenti irregolari. cristallo, l'asse dominante si dilata per primo e maggiormente; il polo positivo si riscalda, il negativo si raffredda. Le proprietà ottiche variano secondo che la luce segue l'asse principale o gli assi secondari. Nei cristalli della neve cinque o sei aghi diacciati a forma di stella formano l'ossatura. Tra questi gli aghetti trasversali formano un ricamo regolare. Si crede che le forme dei cristalli sieno, se non eguali, almeno analoghe a quelle delle molecole della medesima sostanza; perciò l'acqua, avendo le molecole semplicissime, di quasi nove decimi di ossigeno e poco più di un decimo di idrogeno, cristallizza in forma di aghi. Non cristallizzano i Colloidi, perchè le loro particelle o molecole sono in moto irregolare e senza centro, e si ritengono essere reti di cristalli filiformi, entro le quali si organizzano gruppetti di molecole che tendono ad una elasticità variabile: però si induriscono facilmente in colle, in pelli, in unghie, in corna. Nella parte non cri- stallina, non filiforme dei colloidi, ossia nella parte elastica, la tendenza alla vita è di un altro genere (gomma, amido, colla, destrina, tannino, albumina ecc.) diverso dal cristallino, ma non an- cora cellulare. Lo stato colloidale si verifica anche nell'argilla ed in qualche metallo. Le sostanze amorfe sembrano gelatine compatte, come il vetro, il quale, benché assai duro, è elastico, probabilmente per la gelatina inserita nella rete dei minimi filetti cristallini di silice, dai quali derivano le sue proprietà ottiche di trasparenza. Nelle vere gelatine le parti molli si ingrossano nell'acqua, assorbendola per endosmosi. Nelle roccie cristalline vi sono molti cristalli. I metalli sono miscugli di cristalli e di sostanze amorfe, che non lasciano passare la luce e la as- sorbono o la riflettono. Per lo più le terre sono metalli ossidati. L'interna struttura dei cristalli non è in generale omogenea: essi sono divisi in magazzini, che contengono acido carbonico, ed alcuni liquidi ed hanno delle vescicole che si muovono da se. I cristalli si formano subito nell'acqua ipersaturata, quando vi sia un minimo frammento della loro specie. Il Thoulet professore di mineralogia a Nancy col signor Germez, preparavano, ad esempio, soluzioni ipersaturate contenenti del borace ottaedrico a 5 equivalenti di acqua, e del borace rombico a 10 equivalenti di acqua e poi vi immergevano corpi di diversa qualità senza che il liquido perdesse la sua purezza. Ma appena si poneva nella prima un minimo frammento di bo- race ottaedrico e nella seconda un minimo poliedro di borace rombico, la vita cristallina si cominciava, la temperatura si elevava, ed in pochi minuti tutto quanto il borace disciolto veniva cristallizzato. Sicché si può dire che ogni cristallo imita il tipo della sua famiglia. Nessun cristallo scende verso gli inferiori; tutti cercano di innalzarsi, di ascen- dere a più alta Unità. E se non arrivano ad imitare le forme superiori, vi si avvicinano. Così il feldspato potassico triclinico si trasforma in monoclinico, l'assofìlite monoclinica diventa tetra- gona ecc. ecc. (Vedi Nuova Scienza, Voi. II, p. 94). II principio della inerzia o della eredità, lotta an- che nei cristalli, come nelle cellule, col principio della variazione, secondo le circostanze valutate dalla Natura che si fa ossia dall'intima Unità. Soltanto la formazione e lo adattamento e perfezionamento dei cristalli sono molto più lenti e la loro vita è molto più semplice di quella delle cellule. Link vide che il principio di ciascun cristallo che si forma in una soluzione ipersaturata, sta in una vescicola più ipersaturata nella quale le molecole si concentrano meglio. Attorno alla vescicola si formano globuliti, mentre fanno i tre assi e le figure geometriche, rivestendosi di pareti. Dalla molecola integrante di Hauy, alla molecola fìsica di Delafosse, alla maglia cristallina di Bravais, si elevano, mediante il polimorfismo, a forme più complesse. I cristalli mutilati, se hanno la soluzione conveniente, si rifanno e si ripresentano intieri. Anche adulti, essi variano per la pressione, il calore, la luce, e sentono ogni variazione del- l'ambiente. Ma sempre e tutti si fanno dal di dentro al di fuori per virtù propria, per la tendenza ad unirsi ed a godere e non per le forze incidenti dall'ambiente, come pretende il falso Positivismo di Ardigò. La durezza, la conduttibilità del calorico e delle elettricità, la fosforescenza ed altre proprietà di- pendono dalla simmetria con cui sono disposte le molecole del cristallo. La opacità dei cristalli deriva da squilibri termici, da incipienti efflore- scenze e da disgregamenti molecolari. I minerali giovani sono molto diversi dagli antichi. La Petrografia è la Paleontologia dei Minerali. I cambiamenti vitali delle rocce provengono dalia- tendenza di quello che è instabile a divenire stabile. Judd ha visto che esiste una perfetta gradazione fra le roccie cristalline (granito, diorite, gabbro), i tipi vulcanici (riobiti, basalti) ed i vetri vulcanici. La temperatura delle lave uscenti dai vulcani è di 2,000 gradi centigradi. Alla superfìcie si raffreddano, nell' interno restano semiliquide e vi- scose, solidificandosi mano mano che corrono giù per il declivio del monte, in masse vitree oscuredi cui la metà è silice (combinata sotto forma di sili- cati coll'allumina, col ferro, colla calce, colla magnesia, con la potassa, colla soda). Queste masse vitree mostrano al microscopio milioni di cristallini inci- pienti chiamati microliti. Ve ne sono anche di più grossi, formati nell' interno del vulcano, prima di essere eruttati, ma rotti dal magma infocato. Alcuni geologi scozzesi, inglesi e francesi ten- tarono di riprodurre artificialmente, da un secolo in qua, tali eruzioni vulcaniche. Daubrée, Fouqué, M. Levy scaldando i minerali al bianco abbagliante, abbassandone poco a poco la temperatura al rosso aranciato (punto a cui si fonde l'acciaio), alzando allora il crogiuolo sul forno e riducendo la temperatura al rosso ciliegio (punto a cui si fonde il rame) e ritirando poi dal forno, lasciarono tempo sufficiente alle molecole di cristallizzarsi (1) in serie. Ed ottennero in tal (1) A rinforzare quanto nella Introduzione dicevamosulla Unità della Natura, parliamo qualche minuto dei Cristalli formati fuori della nostra Terra. Chi guarda una Meteorite entrare nella nostra Atmosfera, a 60 chilometri di altezza, accendersi, correre 30 chi- modo la leucotefrite del Vesuvio, la onte dei Pirenei, i Basalti e molte altre roocie, della cui ori- gine ignea non si era ancora ben certi. Le più difficili ad ottenersi sono le roccie primitive acide che racchiudono quarzo, mica ed ortosi. Si è tentato recentemente di esperimentare i miscugli di detriti organici nella formazione dei Cristalli e si sono ottenuti degli accentramenti misti di forme nuove. Un sale in soluzione amorfa omogenea diede al prof, von Schrón di Napoli delle petrocellule che si riprodussero per endogenesi. Il prof. Dubois di Lione, depose sul brodo di gelatina dei cristalli di cloruro, di bario e di radio, e ne fece sorgere muffe e granulazioni pseudovegetali, che si dupli- carono. Hennequey di Parigi le disorganizzò presentandole al radio. lometri al secondo e talvolta il doppio, chi ascolta le de- tonazioni che ne succedono, crederebbe che si fondano. Invece alle volte si rompono, ma rimangono solidi e freddi nel loro interno. La più grossa cadde a S. Caterina nel Brasile e pesa 250 quintali: in termine medio non vanno oltre mezzo quintale. Tre quarti cadono nei mari; delle altre ben poche in terre coltivate. Le meteoriti ci mettono nella condizione di un generale che riesce ad impadronirsi di qualche prigioniero, e lo interroga su tutto quello che si è fatto nel cielo, perchè ogni minerale testimonia delle circostanze in cui nacque. Ebbene, questi avanzi condensati delle nebulose, hanno gli elementi delle primitive roccie Terrestri. Vi si trovano delle specie mineralogiche identiche, che possiedono i medesimi angoli, le stesse faccie nei loro cristalli, e sono spesso associate nel medesimo modo. La silice o acido silicico (tanto energico nelle temperature elevate), ci testimonia l'alto calore in cui furono generate le Meteoriti. Il Peridoto (il quale si forma allor- ché nelle officine viene ossidato il silicio) lo si trova an- Nel 1904 BurTce mettendo sopra uno strato gelatinoso del cloruro o bromuro di radio, guadagnò i primi Radichi, o microbi del radio, in uno, due o tre giorni. Crescevano fino ad Vìooo ^ m^~ limetro, mai di più, avevano nuclei oscuri, si segmentavano e si scioglievano nell'acqua. Il radioli distruggeva e finivano col cristallizzarsi. Ben si vede nella materia inorganica una ten- denza ad unificarsi sempre maggiore. Essa assuma aspetti diversi (come li abbiamo ora indicati) nei colloidi, nelle gelatine, nei vetri, nei metalli, nei cristalli: sempre la intima unità generatrice della forma cristallina, che dalla vescicola centrale dispone le molecole in contrasti elettrici, o della forma colloi- dale che fra le reti cristalline dà origine a gruppi elastici, o della forma pseudocellulare che fa muffe e granulazioni nei miscugli di detriti organici coi minerali, va assurgendo ad armonie speciali. che nelle meteoriti e nelle roccie profonde del nostro globo e può dirsi la scoria universale. La contestura soprafina delle Meteoriti rassomiglia a quella della neve, ed è do- vuta all' immediato passaggio del vapore di acqua allo stato solido. Come la neve, e malgrado la loro tendenza ad una cristallizzazione nettamente geometrica, le combinazioni silicato delle Meteoriti presentano cristallini confusi e minutissimi. Il silicio che sulla Terra ha bruciato, formando l'acido silicico, deve essere stato causa di un gran riscaldamento degli astri quando si combinò con l'ossigeno. Cuocendo il ferro fuso, per trasformarlo in ferro malleabile od in acciaio, l'ossigeno dell'aria brucia il carbonio ed il silicio ed una parte del ferro, producendo una scoria nera che contiene un Peridoto a base di ferro che ha V identica chimica costituzione e la medesima forma cristallina del Peridoto magnetico delle Meteoriti conser- vate nei principali Musei. Sono frammenti di vecchi corpi celesti, errabondi fra i sistemi stellari. Sono le forme primitive, spesso non ancora ben -definite della vita, la quale diventerà poi libera e forte nell'accentramento Cellulare e più che mai nell'Organico. Ogni forza attrattiva della Natura è ministra di ordine, che parte dalle Unità senzienti, le quali non sono essenze incaliginate di una filosofìa nebulosa, non sono Concetti antitetici da conciliare, uè Indistinti che si vadano distinguendo colla di- visione delle forze come nello Hegelismo e nell'^lr- digoismo, ma sono intime cause di fenomeni e di atti della Natura che si fa coadunando, anno- dando, stringendo, godendo. Non è un lume pallido ed intermittente quello che mandano i mille fatti fin qui accennati della coesione e della solidarietà, ma diventa, raffron- tato con altri della Chimica, un cardine di principii naturali, dei quali la scienza del pensiero è tenuta a fare indagini nuove. Non si dirà, speriamo, che in queste pagine abbiamo fatto della cristallografìa, perchè nelle descrizioni e nelle misure degli angoli di questa non siamo entrati (e di goniometri e di polariscopi non abbiamo fatto alcun cenno); abbiamo soltanto passato in rivista le diverse tendenze della materia che si crede morta, stupida ed inerte alla finalità del piacere, all'esercizio sempre più elevato •e complicato della coesione geometrica. L'ascesa alle chimiche combinazioni La combinazione chimica è un perfezionamento notevole e graduale della Coesione. Diciamo graduale perchè prima si fa coi simili e poscia impara a sposarsi con altri elementi. Così l'ossigeno libero, il cloro libero, lo idrogeno libero, lo azoto libero, il silicio libero sono sempre appaiati in molecole di due atomi. Che l'energia chimica non derivi dagli urti di particelle solide o liquide è dimostrato dal fatto che la energia di qualsiasi elemento non sta in proporzione delle masse, e che i loro equivalenti meccanici sono enormi. Ad esempio se si combi- nano per formare 36,5 di acido cloridrico, un gramma di idrogeno con 35,5 di cloro, svolgono tanto calore da innalzare di un grado la temperatura di venticinque chilogrammi di acqua (come osserva Stallo). Non è certo per cause meccaniche che V azoto (il quale forma quasi quattro quinti dell'aria) resta sempre il più inerte ed il più indifferente di tutti gli elementi, non entra in alcuna combinazione se non vi è spinto dalla elettricità. Ed è sempre pronto ad uscirne, abbandonando i compagni. Non è per cause meccaniche che V Ossigeno si combina con quasi tutti gli elementi con grande facilità od ardore. Unito con poco più di un decimo di idrogeno fa l'acqua, così benefica in tutta la natura. Ma unito coi metalli fa gli ossidi e le terre. Unito con corpi combustibili brucia, fa la fiamma del legno, delle candele, dell'olio, ecc. e forma e conserva e rinnova i corpi organici. Unito coll'azoto fa gli esplosivi, i cui atomi si spaccano, slanciano i projetti con velocità di chilometri per minuto secondo (2 la polvere di fucile, 7 ad 8 la nitro manite). Non è per cause meccaniche che il Carbonio e sempre un elemento di accentrazione, il quale con l'ossigeno, l'idrogeno e l'azoto serve a comporre i corpi organici, che vogliono continuamente scambiare i loro elementi. Non è per cause meccaniche che tutti gli ele- menti i quali si trovano in equilibrio instabile si combinano con ardore. La polvere da fuoco alla prima scintilla svolge un grande volume di gas acido carbonico, grazie all'azoto indifferente ed inerte, per cui l'ossigeno ed il carbonio si trovano in equilibrio instabile. E più ancora nella nitro- glicerina e nella dinamite. Non e per cause meccaniche che le combinazioni chimiche cambiano profondamente il modo di sentire e di operare dei loro elementi. Chi ravviserebbe nel sale di cucina, bianco, cristallino i suoi due componenti, vale a dire il cloro (gas giallo attivissimo) ed il sodio (metallo argenteo leggerissimo). Chi riconoscerebbe nell'acqua, composta per quasi nove decimi di ossigeno comburente, con oltre un decimo di idrogeno, combustibile, i suoi elementi? Chi troverebbe nel quarzo che cri- stallizza in aghi esagoni trasparenti, il silicio nerastro ed il gas ossigeno che lo hanno formato? ~L'Ardigoismo venga un po' qui col suo Indistinto, col suo incrociarsi delle famose linee del tempo e dello spazio, e con la sua legge di formazione, dividendo la linea e suddividendo all' infinito. Non è,'col dividere, ma coll'unire che si trova piacere e si fa l'evoluzione. Lo Hegelismo spieghi un po' col processo antitetico dei suoi concetti universali e concreti queste combinazioni chimiche ed i loro effetti, dovuti evidentemente a modi diversi di sentire e di volere. Non è per cause meccaniche che le sostanze iso- mere, vale a dire composte della stessa qualità e del medesimo numero di Atomi, hanno spesso un modo diverso di sentire e di operare. Ad esempio il fosforo bianco è velenoso; ma, scaldato nel vuoto, fa il fosforo rosso, che è innocuo. Il cianato di ammoniaca è velenoso, mentre non lo è l'urea. Sono Isomeri molte glucosi e saccarosi, l'amido, il legno e la destrina. Se le cause meccaniche facessero le combinazioni chimiche, la atomicità o valenza degli ele- menti (che si può chiamare la loro dose di energia) avrebbe una legge invariabile. Questa fu supposta quando nel 1855 il compianto senatore Cannizzaro (allora professore a Pisa) provò che non esiste contraddizione fra la legge di Avogadro che determina il peso delle molecole e quella di Dulong e Petit che determina il peso degli Atomi. Ma la ipotesi svanì ben presto (1). (1) L'idrogeno ed il cloro valgono 1, l'ossigeno 2, l'azoto 3, il carbonio 4, e pochi elementi hanno una valenza superiore. Infatti il carbonio si combina con 4 atomi di idrogeno e con 4 di cloro, o con 3 di idrogeno ed 1 di cloro, o con 3 di cloro ed 1 d' idrogeno. Invece 2 atomi di ossigeno, che è bivalente, si combinano con 1 atomo di carbonio. Nelle sostituzioni la valenza ha importanza, p. es. 1 di azoto che è trivalente, può surro- Anche i pronubi delle nozze (che sono in generale il calorico e la elettricità) non danno il modo di predire le combinazioni. Quelle che si fanno sviluppando calorico, dette esotermiche, hanno meno energia della somma dei loro componenti, essendo rimaste esauste. Quelle invece che si fanno convertendo subito il calorico in elettricità, senza perdita, dette Endotermiche, hanno energia maggiore della somma dei loro elementi. Armstrong considera la chimica affinità come una Elettrolisi rovesciata, in cui l'azione è eguale alla reazione. L' intimo fattore delle formazioni chimiche pare sia la tendenza a formare più alta Unità: infatti garsi a 3 di idrogeno, oppure a 1 di idrogeno e 1 di ossi- geno. Se uno di carbonio sposa 3 atomi di idrogeno non è saturato, e può appetirne e guadagnarne un altro di cloro o di idrogeno. Sempre univalenti sono idrogeno, cloro, argento, ed i metalli alcalini terrosi. La valenza è di 1, 3, 5, 7 in alcuni gruppi, di 2, 4, 6, 8 in altri. Una combinazione non saturata serve di radicale per nuove combinazioni. La ipotesi delle leggi di Atomicità o Valenza svanì quando si vide che l'ossigeno non è sempre bivalente e si fa valere come tetravalente quando vuol combinarsi con elementi più pesanti e che l'azoto non è sempre trivalente, perchè nella Urea 2 atomi di azoto ne sposano 1 di car- bonio ed invertendo l'urea in cianato di ammoniaca la diversità aumenta con 4 di idrogeno. E si vide pure che il ferro vale 2 nel bicloruro e vale 4 nel bisolfuro; si as- sodò che il solfo, il selenio ed il tellurio valgono 2 con l'idrogeno e 4 negli acidi anidri e nelle anidridi, e si constatò che l'azoto ed il fosforo che in generale sono tri- valenti, in alcuni casi si fanno valere come 5. Anche il Carbonio che vale 4, quando fa l'ossido di carbonio, di- venta soltanto bivalente. i fermenti o catalizzatori le accelerano. La meccanica chimica è fondata sulle leggi di Newton che non sono meccaniche. I composti binari della chimica organica (idrogeni carburati), i composti ternari (alcool, olii, grassi, acidi) ed anche i quaternari (amidi, ligneo, aldeidi, destrine, gomme, gelatine, albumine) esi- gono lungo tempo per formarsi, moltissime essendo le loro molecole. Quando un tipo è formato, questo si ripete e si sviluppa in una lunga serie: p. es. il tipo dell' idrato di potassa, o quello dell' ammoniaca. Quando si presenta un tipo di formazione superiore, è imitato e moltiplicato. E questo prova il principio pitagorico dell'ascesa a più alta Unità per godere, insito in tutti gli Atomi. Se non si frappongono ostacoli, la moltiplicazione dell'azione chimica è continua. Così nelle fabbriche di acido solforico, pochissimo biossido di azoto basta a provocare l'unione dell' ossigeno dell' aria con grandi quantità di acido solforoso. Come è naturale le combinazioni chimiche du- rano e resistono quanto più sono semplici. Fra i minerali, i protossidi, le terre e gli alcali. Resistono meno i deutossidi, i tritossidi ed i perossidi nei quali 2, 3, 4 Atomi di ossigeno stanno congiunti ad un Atomo di metallo o di altro elemento. I sali poi, che sono composti di 5 o più Atomi, non resistono al forte calore: meno che mai i sali doppi. Appena 30 o 40 gradi centigradi bastano per danneggiare i composti organici, come è noto a chiunque: e per poco che si vada oltre i quaranta si distruggono. La vita non sta mai nelle sostanze chimiche, ma nella morfologia, ossia nella capacità unitaria di fare funzioni ed organi, scambiando e dominando le sostanze chimiche. Perciò i chimici non arriveranno mai a fare nei loro laboratori nna cellula. Nondimeno l'analisi e la sintesi degli elementi organici si è ottenuta da mezzo secolo in qua sempre meglio, nelle sostanze meno essenziali alla vita. Berthelot sperava di arrivare a formare gli zuccheri. E. Fischer ottenne le sostanze zuccherine naturali semplici. Nessuno arrivò ancora a fare le albumine. Hegel definiva la vita e V idea arrivata alla esi- stenza immediata »; sicché le forze fìsiche avrebbero, secondo Hegel, soltanto una esistenza mediata, ossia non esistono in se: non sentono, non sof- frono, non godono. Ma allora sarebbero esseri puramente passivi e quindi non esseri. L'Unità assimilafrice cellulare L'acqua alla sua superficie, di 1 /25000 di milli- metro, tende a colloidare. E sotto una atmosfera gravida di carbonio, e dopo che un vulcano abbia versato solfo e fosforo, nel periodo geologico Laurenziano, sembra che alcuni Atomi isolati di car- bonio si sieno combinati con l'ossigeno, con l'idro- geno dell'acqua e con un po' di azoto dell'aria, per formare i primi biomori o granuli invisibili, i quali poi diedero origine al bioplasma reticolato, visibile eoi microscopio. Dal bioplasma si formarono i plastiduli ed i citodi che si sono concentrati in cellule. Concentrazione mille volte disfatta e mille volte rifatta forse, secondo le intemperie. Grazie alla intima tendenza delle molecole di formare più alta unità, e di accrescere e rendere durevole il godimento, acquistando capacità di fare moti volontari, tale concentrazione ha finito per durare. Da queste prime Cellule è uscita tutta quanta la Natura organica sopra la Terra. La forma sferica persistette poi in tutta la flora e la fauna allora quando, abbondando gli alimenti, si moltiplicarono rapidamente e si concatenarono, formando colonie di cellule. L'acqua rimane, anche negli organismi superiori, l'elemento necessario ed universale, perchè tutte le reazioni chimiche vitali avven- gono in essa, essendo essa composta, per quasi nove decimi, di ossigeno. L'acqua discioglie e mette in circolazione ed in conflitto le sostanze di ogni organismo, essa dissolve i sali in acidi ed in basi libere, come lo farebbe un forte riscaldamento, perchè libera il suo calorico la- tente (Gautier). E quando l'uomo stesso sente diffondersi sostanze inette alla vita, bevendo ac- qua si prepara ad eliminarle. — I sali, e specialmente il marino, o cloruro di sodio, rialzano lo scambio vitale, penetrando da per tutto, per la piccolezza delle loro molecole e determinando la solubilità o insolubilità di molte so- stanze proteiche. L'agente della vita non è una pretesa forza vitale staccata dagli Atomi; ma è Velevazione delle Unità atomiche ad Unità più alta e a godimenti maggiori (1). Se si guardano le cellule dal punto di vista della Unità formatrice si intendono e si penetra nella causa che è la Natura che si fa; mentre, se si guardano dal punto di vista del molteplice materiale, non si hanno che dei frammenti slegati ed inerti. Delle prime cellule viventi ci può dare un'idea oggidì il protoplasma o parte sempre giovine delle piante. La cellula si forma unificando e restando una nella varietà. Infatti le molecole binarie, ter- narie o quaternarie della sostanza proteina del protoplasma (per la instabilità dell'azoto), sentono le variazioni di temperatura, e le vibrazioni elettriche e luminose, come la coesione e l'attrazione molecolare. Il protoplasma delle piante è colloide, viscoso, non traversa mai le membrane per diffusione, ed è formato da due o più sostanze albuminoidi (2), con acqua e sali. Non si scioglie nell'acqua, ma ne assorbe moltissima, e senza essa non vive. Si muove sempre ed ha granuli (3) che vanno alle pareti della cellula a prendere aria ossigenata (1) A questo innalzamento giovano molto gli accelera- menti dei processi chimici che sono cagionati per Catalisi, ossia per la presenza di una minima quantità del prodotto della combinazione bramata, che ecciti al piacere della sensazione superiore. (2) Una molecola di albumina ha 72 Atomi di carbonio al centro, che trattengono in un solo sistema sociale pa- recchie centinaia di Atomi di idrogeno, di ossigeno e di azoto. (3) Questi granuli sono per lo più di materie proteiche, però ve ne sono di grasse e di minerali e luce ed a nutrirsi di polveri e fanno appendici come amebi, variando la vita a seconda delle cir- costanze, finché queste non sono troppo avverse. Nei nostri laboratorii si studiano le combinazioni in proporzioni costanti delle sostanze non più viventi, perchè le viventi variano troppo le loro combinazioni per essere osservate con sicu- rezza. Con l'acido acetico si scioglie il protoplasma delle cellule, ma non il loro nucleo. Il protopla- sma staccato dalla sua colonia è sempre morto, ed assorbe indifferentemente tutte le sostanze, anche il cloruro di sodio ed il nitrato di potassa. Ma quando è vivente, respinge queste e tutte le sostanze nocive, e non assorbe se non quelle che può assimilare, provando così che la Unità interna fa la vita, e che la struttura materiale, ossia la Natura fatta ne dipende. Infatti il protoplasma perde ogni irritabilità e vitalità se viene sottoposto all'azione dell'etere e del cloroformio, come se fosse un animale. Del protoplasma quattro quinti sono acqua, un quinto è formato dalla materia granulosa vitale della quale ora parleremo. Questa massa granulosa è sempre molle ed estensibile, ma non è densa se non attorno al nucleo. Ogni varietà di granuli si assimila le materie opportune. Senza sensazioni gradevoli o spiacenti, senza figurazioni non si sarebbero mai fatte le cellule del protoplasma. La funzione precede la struttura; ma il protoplasma rimane sempre allo stato ameboide. Una macchina a vapore è fatta dal di fuori, unendo pezzo a pezzo, come l'uccello fa il suo nido e il castoro la sua capanna; se viene guastata, non si accomoda da se, non si provvede da se di ac- qua e di carbone, ed è indifferente se invece di carbone si ponga materia non combustibile sotto la caldaia, e se dentro questa si metta dell'arena invece di acqua, e se invece di vapori arrivi ghiaccio nel suo distributore. Ma il protoplasma si fa da sé stesso, come una società cooperativa, dal di dentro, per slancio delle energie chimiche, intente ad accrescere le loro sensazioni rudimentali di os- sidazione. Perciò è pronto a riparare una ferita, un danno. Non vi è una forza vitale particolare: ina tutte le forze fisiche e chimiche cooperano nell'ascesa alla Unità Cellulare. 1j assimilazione è una prima funzione delle Unità confrontanti, e sta nel fare (come lo dice il nome), simili alla propria cellula le sostanze diverse che incontra. L'azoto non serve se non come elemento indifferente, dando agli elementi attivi (carbonio, ossigeno, idrogeno e sali) la facilità di scomporsi e di ricomporsi, onde cambiare le molecole inerti e semplici in molecole operose e composte, ascen- dendo (se l'ambiente è favorevole) a maggior pia- cere di vivere. La cellula scompone le materie incontrate, trat- tenendo quelle che può appropriarsi, dando loro il SUO tipo, e respingendo od escretando le altre, conservandosi nella sua forma e nella sua chimica composizione, nella sua armonia, come un Tutto bene sistemato. Il protoplasma è una continua affermazione dell'Unità reale, ossia dell'Essere Uno, per se. Quando una cellula è ben nodrita e si gonfia, la Unità formatrice si raddoppia, divide le sue molecole in due segmenti, che diventano ciascuno eguale alla cellula madre, e così di seguito. Ogni cellula ha il suo nucleo, distinto dai granuli microscopici che lo attorniano. Il nucleo (nel quale ci è sempre un po' di fo- sforo) è una minima cellula interna centrale, con sugo alcalino e molti granuli, di cui il maggiore si dice nucleolo. Nella segmentazione (chiamata Cariocinesi) vi è un centro-soma, ossia corpo centrale, che fa un citoplasma (rete di fili colorati che contengono il protoplasma). Dal centro-soma cominciano, nel momento della segmentazione, i due Astri (Aster) o centri di fibre diramate verso la periferia e contenenti, nella loro rete, materie contrattili e sostanze nutrienti. Ingrossandosi queste, e formando un solco, la cellula madre si divide in due parti. Non vi sono genitori ne figli, ma la Unità del Tutto che determina le parti, si ripete vitalmente migliaia e milioni di volte. Questo processo di segmentazione continua nella nutrizione delle piante e degli animali. La Unità cellulare è una legge sociale, che si conserva in tutte le cellule derivate, con la stessa forza assimilatrice. La spiegazione meccanica qui è, non solo impotente, ma diventa assurda; giacche tutti sanno che dall' 1 al 2 non vi è frazione che possa condurre 1 +- V2 + 7^ -b 78 4- 716 ecc. ecc. Ed anche coi Differenziali, non si è mai trovata la costante degli Integrali. L'agente della Cariocinesi è la Unità sociale ereditata, il tipo assimilato?^ che sa conservare la sua identità in tutte le cellule che ne derivano, distinguendosi sempre dall'ambiente. Chi volesse vedere la vita incipiente non ha che a passeggiare lungo gli stagni. Se si raccoglie in uno stagno una goccia di acqua, e se la si osserva col microscopio, si ve- dranno cellule non protoplasmiche, ma separate le une dalle altre; cioè Amebi privi di colore, che si muovono con lentezza e si nutrono di pol- vere vegetale, facendo una lunga digestione e rigettando il soverchio. I più sviluppati sono la Terricola, la Guttata, ed il Limax. Benché gli Amebi e le Molière non abbiano struttura, hanno sensazioni e volontà e rispondono agli eccitamenti. Guardando col microscopio la materia granulosa delle muffe, degli Amebi, non presenta cel- lule: è un plasma semifluido con granuli che as- similano e si nutrono. In questi, come in molti altri esempi, risulta chiaro che non è il tessuto che fa la vita dal di fuori al di dentilo; ma all'opposto, la vita, che è tendenza all'unità superiore e al piacere, funzionando dal di dentro al di fuori fa poco a poco le strutture. Il prof. Verwoorn studiò le cellule dei Protozoari, prima che divengano animali o piante, e vide che sentono gli eccitamenti, si nutrono, as- similano, escretano, si adattano all'ambiente, ed accumulano energia chimica. Cercano di acquistare materiali per rendersi indipendenti (ecco il principio della vita, l'opposto dello Ardigojano che fa sorgere gli individui per le forze incidenti dello ambiente) per rendersi indipendenti nel nutrirsi, nel respirare e nel lottare. Esse manifestano la facoltà di discernere quello che è utile da quello che è dannoso nel sistema di armonia che si ven- gono formando, in cui trovano piacere (1). (1) Nessuna bestia mangia erbe velenose. Nella putrefazione della carne, nascono in un paio di giorni innumerevoli bacteri, i quali nel giorno seguente fanno cigli e flagelli, ed arrivano alla lungezza di i j iQQ o 2/ l00 di pollice; poi si gonfiano e seminano un liquido da cui nascono punti vivi, che diventano granuli e germinano i figli per segmentazione. In alcuni infusori il protoplasma si differenzia in parte contrattile e sensibile e parte digerente, che trasforma in clorofilla. In essi si vede la ge- nesi dei due regni animale e vegetale. Quando la parte nutritiva di una massa di cellule prevale sulla contrattile, sensibile, la vita ameboide si ri- trae in pochi punti e si rivivifica solamente nella stagione degli amori. Gli esseri inferiori assumono, a seconda dell'ambiente, il carattere vegetale o iL carattere animale. Ad es. le Euglene, benché provvedute di bocca e di apparato digerente, si nutrono come vegetali, prevalendo in esse la clorofilla. — I Protozoari o Protofiti non sono organismi, perchè cambiano di struttura: ma sentono il calore, la luce, l' umidità, il contatto, e si nutrono, si moltiplicano. Alcuni tastano, gustano, nuotano, vi- vono in società e spiegano i loro pseudopodi, ten- dono ad impadronirsi dei frammenti vegetali che trovano vicini. Sono i viventi più piccoli e più allegri e non hanno struttura visibile. I preludi delle azioni vitali sono per lo piùfatti dai fermenti. I fermenti, figurati o no, aiutano l'assimilazione nelle piante e negli animali, come Catalizzatori, accelerando o ritardando le reazioni, senza prendervi alle volte parte attiva,, come fa la polvere di platino nella fabbricazione dell'acido solforico. I fermenti aerobi respirano l'ossigeno dell'aria. I fermenti anaerobi pigliano l'ossigeno senza contatto con l'aria, cercandolo nei liquidi dove si trovano. Ogni fermento è una vitalizzazione od unificazione (animale o vegetale) di succhi, e l'agente che li fa può essere solubile, ossia senza forma organica, ma la sua solubilità è però soltanto apparente. Ve ne sono in ogni protoplasma vivente; ce ne sono dei digestivi, degli idratanti, che sa- ponificano i grassi (come la steapsina) degli ossi- danti (come la laccasi) dei coagulanti (come la caseasi), degl' invertivi (sucrosi) che, se affondati nel glucosio, scompongono lo zucchero per cavarne l'ossigeno, sia nel mosto, sia nei frutti carnosi; se ne trovano anche nei germogli del grano e della barbabietola. Il fermento lattico inacidisce lo zucchero del latte; il mycoderma aceti ossida il vino e l'alcool, il mycoderma vini cambia l'al- -cool in acqua e acido carbonico, alcune muffe di- struggono aerobicamente lo zucchero e la celluiosi. Il lievito di birra, secondo le circostanze, è aerobio o anaerobio. Invece il butirico e la maggior parte dei bacteri sono anaerobi; tolgono l'os- sigeno agli zuccheri ed agli amidi e fanno all'oscuro la loro sostanza albuminoide. Quasi tutte le terre contengono fermenti, i quali trasformano l'azoto dei concimi animali in azoto nitrico. Le terre di leguminose sono abitate da colonie di bacteri sopra le radici e nel 1886 furono descritte da parecchi biologi. Nel 1906 l'inglese Bootmley ha scoperto il modo di modificarli e di renderli adattabili anche ad altre piante coltivate, sicché ogni coltura diventerebbe capace di ingras- sare la terra da se, senza sfruttarla mai, come fanno adesso le lupinelle, i trifogli e le erbe me- — 81 — diche, utilizzando tutto lo azoto che fa quattro quinti dell'aria e sotto l'azione della elettricità investela terra arativa e fino ad oggi andava perduto. Si intravvede così la possibilità di rendere facile la coltura intensiva anche nelle terre inferiori. I batteri di radici non somigliano affatto a quelli di cui parleremo nel Capitolo seguente, ne a quelli di cui fu detto nella pagina precedente. Nei diversi modi di essere, di sentire, di operare delle Cellule, vi sono tre fatti che altamente interessano la filosofia, vale a dire il Dominio del nucleo sopra le parti circostanti, la Segmentazione che è chiamata anche Cariocinesi, e VAssimilazione, Il dominio del nucleo ci prova che le unità delle molecole e dei biomori accentrano il loro senso* rudimentale, facendo delle moltissime piccole Unità solidali, una Unità centrale. La segmentazione prova che questo governo centrale non riesce a dominare un molteplice maggiore, per cui allorché questo supera il numero di Atomi governabili, la solidarietà si divide in due cellule. Jj Assimilazione dimostra che la Unità centrale così formata, rende gli Atomi nuovi inesperti,, (che entrano con gli alimenti), solidali degli Atomi vecchi non soltanto, ma che li sa ridurre (come lo dice il nome) simili ai precedenti facendo le medesime chimiche combinazioni; e rigettando le materie inette ad essere vivificate. Ecco il vero principio della vita. Questa tendenza, differenziata in apposite funzioni, per diverse specie di cibi, formerà poi, negli organismi superiori, le-' funzioni digestive. Fatti che non si spiegano certo con le sole forze chimiche, e tanto meno con le sole forze incidenti dell'ambiente, al modo Ardigojano; ossia dal di fuori al di dentro; ma che sorgono dalla forza unitaria del piacere. E sono dovuti al grande progresso che ha ot- tenuto nella cellula la originaria tendenza a più alta Unità, e ad accumimare stabilmente il sentire e il volere degli atomi. Così avviene anche nelle società umane: p. es. la Repubblica Portoghese non fu fatta nell'Ottobre 1910 da forze incidenti, venute dal di fuori al modo Ardigojano per caso; ma dalla tendenza -a godere la libertà ed a governare dei cittadini più istruiti, irradiando dall'Accademia a tutta la Nazione la volontà e la forza che rovesciò la.Monarchia clericale dei Braganza. Come le Unità Cellulari si accentrano nelle Piante per godere l'amore Nelle grandi associazioni di cellule, le varie parti hanno sensazioni assai diverse, perchè la Unità generale del Collettivismo dà a ciascuna parte funzioni specifiche, e quindi si vanno for- mando differenti strutture. Però la chimica composizione è presso a poco la medesima. Questa è una prova palmare che le diverse tendenze e funzioni non dipendono da cause materiali. Ogni cellula dell'organismo (oltre la funzione nutritiva e la facoltà di segmentarsi in due) ha una funzione sociale, che le viene imposta dalla collettività nell'atto della segmentazione. In generale le piante sono fatte da idrati di carbonio (amido, zucchero, grassi, albumine e clorofille). L' amido diventa celluiosi e legno, e nutre le piante dietro la luce che passa per le parti verdi o clorofille. Anassagora ed Empedocle insegnarono per i primi che le piante crescono per appetizione (éTuifruiila) e che la vita incomincia sentendo pia- cere o dolore. In generale le piante sono colonie o collettivi- smi di amebi protoplasmici che, facendo prevalere la parte nutritiva sulla semovente, si sono fatte delle costruzioni sufficienti a ricoverarli moltiplicati, per godere gli alimenti, l'aria, l'acqua, e la comodità di copularsi senza essere disturbati. In- vece di essere fatte dall'ambiente (come pretende lo Ardigoismo), cercarono fino dall'inizio di premunirsi e difendersi contro il medesimo. La natura che si fa cerca sempre di rendersi indipendente dall'ambiente. Noi vediamo le sole costruzioni e non i microscopici costruttori. Questi differenziano una parte del protoplasma in piccoli dischi di clorofilla con pigmento colo- rato in verde, per impedire la soverchia ossidazione dei carbonati e per moderare la propria respirazione dell'ossigeno. Della clorofilla due terzi sono carbonio, un sesto è ossigeno, 1' 11 °/ idrogeno, il B °/ azoto. Essa respira in modo contrario della parte animale delle piante, cioè assorbe il gas acido carbonico, ed emette l'ossigeno, e serve a proteggere gli amebi. Senza la clorofilla il protoplasma animale non resisterebbe al sole e si dissolverebbe sotto la pioggia. Le cellule o dischi verdi sovrapposte sopra le coste dei mari, fecero le Alghe ora in linee semplici, ora a lamine, ed ora a rami. Si ingrandirono, riunendo le tre dimensioni, e si ingrossa- rono, mentre il protoplasma animale ascendeva e le soluzioni saline col gas acido carbonico penetravano per endosmosi attraverso le membrane di celluiosi. Il protoplasma animale andava intanto concentrando il senso della coesione e delle chimiche combinazioni in modo sempre più perfetto, ed ar- rivava così a fare dei punti sintetici di amore ossia delle spore incipienti. Il diletto dell'unione si affinò e le colonie vegetali crebbero d' importanza. Come diremo nel Capitolo XIII, non si può chiamare memoria la riproduzione del collettivismo vegetale, perchè è piuttosto una legge sociale diventata meccanismo, come nella cellula la segmentazione in due cellule riproduce raddoppiata la cellula prima, per un modo di associarsi divenuto abituale a tutte. Le prime specie vegetali andarono così formandosi dal di dentro al di fuori. Alcune specie di Alghe crebbero fino a cento metri. E nelle prime Epoche Geologiche non vi furono altri vegetali che questi. Tutti sanno che le Epoche Geologiche anteriori alla Quaternaria, in cui noi viviamo, furono quattro, e che si dividono ciascuna in tre Periodi. Forse non tutti sanno che, ritenendo che, per i detriti delle roccie e le terre portate dai fiumi, il fondo del mare si alzi di un millimetro al se- colo (in termine medio) e misurando lo spessore dei sedimenti sottomarini che, per le sollevazioni delle Catene montuose (1) vennero in parte portati alla luce dalla prima Epoca in poi, si calcola che sono passati 40 milioni di anni divisi così: PERIODI Nell'Epoca Primitiva o Arcaica Laurenziano — 10 Milioni di anni Cambrico — 6 » > Siluriano — 7 » » Neil' Epoca Primaria o Paleozoica Devoniano Carbonifero Permiano 12 Neil' Epoca Secondaria o Mesozoica Trias Giurese Cretaceo Neil' Epoca Terziaria o Ceiiozoica ) Eocene Miocene Pliocene (1) Una volta il sollevamento delle Catene montuose veniva attribuito a spinte verticali date dal magma centrale dal sotto in su. Elia de Beaumont, Machperson, Suess, Lapparent e molti altri, fra cui Federico Sacco, professore di Paleontologia nella Università di Torino, dimostrarono che deve attribuirsi invece al raffreddamento del globo, che obbligò la prima crosta a corrugarsi, facendo delle catene montuose per la j^ressione laterale. Ripetendosi la causa, si formarono molte catene parallele una sotto l'altra come nelle Alpi, nell'Himalaya, nelle Cordigliere delle Ande e nelle Montagne Rocciose: oppure 6 In tutto 40 o 41 milioni di anni dopo le roccie primitive della scorza terrestre, e prima del periodo in cui viviamo (1). Quando le acque si ritiravano per l' innalzamento graduale di qualche costa, poco a poco le Alghe mandarono al fondo alcune appendici, che si tra- sformarono in radici. In pari tempo si andarono complicando e perfezionando gli organi della nutrizione, della re- spirazione e di difesa. Questi progressi furono lenti e graduali e sempre la Natura che si fa restò la parte minima, mentre la Natura fatta o meccanismo fu la parte una a distanza dall'altra in linee arcuate o diritte. E lungo queste Catene si sprofondarono i mari, il cui fondo, alle volte, veniva poi sollevato in parte. I vulcani trovansi sopra le linee soggette a movimenti più pronunciati. I terremoti avvengono dove il corrugarsi continua. L'eminente geologo prof. F. Sacco ha in molte memorie chiarito queste ed altre leggi di orogenia, e specialmente nell' « Essai sur l'Orogénie de la Terre», 1895, Turin. Clausen. Egli segue la nostra filosofìa pitagorica e desi- dera che essa venga accolta dalla maggioranza degli scienziati - anzi crede che questo dovrà verificarsi in un tempo più o meno prossimo. (1) Si crede che soltanto al principio dell'Epoca Terziaria cominciassero i ghiacci ai poli e sopra le più alte catene di montagne, ossia un milione di anni fa, dice il Falsan « La période glaciaire », pag. 221. Sicché per 30 milioni di anni la nostra Terra potè svi- luppare una vegetazione di paesi caldi. Ma i ghiacci si estesero in Europa soltanto quando il Sahara diventò un mare e quando cambiò il corso del Gulf Stream dell'Atlantico. E il clima mite nostro ritornò al disseccarsi del mare sahariano e al modificarsi della cor- rente calda dell'Atlantico dalle Canarie alla Norvegia ed all'America. —massima della vegetazione. Però la minima parte della Natura che si fa bastava a fare l'Evoluzione ed a dare origine a migliaia di specie diverse, sempre più rigogliose. Ancora oggi nelle Alghe Desmidie, nelle Diatomee, nelle Spirogire, tutte Alghe unicellulari e microscopiche, la copula è di semplice condensazione, e il protoplasma viene scambiato sotto la vecchia scorza e le fa ringiovanire. Per dare un' idea del numero immenso di queste semplici Alghe basterà dire che la scorza silicea delle Diatomee (numerosissime in tutte le acque dolci e salate del mondo), forma quella terra fina detta tripoli che serve a pulire i metalli. Benché una goccia di acqua contenga delle migliaia di* queste minime Alghe, pure il loro numero è così grande, che ne sono formati degli strati estesis- simi prima della Epoca Terziaria. Nelle Alghe composte di molte cellule si formarono le prime spore come centri dell'Amore. La filosofìa ha trascurato finora lo studio delle prime manifestazioni dell'amore, che tanti insegnamenti racchiudono. Le zoospore, animaletti microscopici, riuniscono in se la energia morfologica delle piante primitive, che non è Memoria come pretendeva Federico Deipino « La psicologia dell'avvenire », ma è una legge sociale la cui sintesi s'impone nel protoplasma animale delle piante. Nelle più semplici Alghe Porfirie, le spore cadute si muovono strisciando come gli Amebi. In altre Alghe esse si riuniscono in gruppi di cellule ovoidi, con delle appendici vibranti, le quali, col fissarsi in terra e col segmentarsi, produssero i primi talli germinanti. Molte Alghe per le inondazioni morirono nella melma; ma dai loro frammenti privi di clorofilla, uscirono i Funghi composti di filamenti ramificati. Da quelle poi che erano più putrefatte si crede che siensi formati i Bacteri, i quali rimasero sempre minutissimi, ma si moltiplicarono assai, re- stando innocui finche vivevano all'aria (1). Nelle Alghe superiori cominciò la divisione delle spore in femmine ed in maschi. I due sessi si as- sociarono per fare gli Sporangi od Oogoni capaci di germinare. Nei posti dove le Alghe erano prossime ai Funghi si unirono con questi per formare i Licheni. Ma i Funghi ed i Licheni (essendosi dati a vita parassita) rimasero piccoli e deboli. Le Alghe Characee popolarono le acque dolci e gli stagni. (1) È noto che quando i Bacteri penetrano nel sangue di un animale ferito, avendo bisogno di ossigeno, ne alterano il sangue, producendo una malattia contagiosa. Sopra di essi venne studiato il processo di evoluzione con facilità, perchè ve ne sono di quelli che in due ore si raddoppiano, sicché in pochi anni si possono ottenere molte migliaia di generazioni. E così si vide che era possibile col variare la loro ali- mentazione e l'ambiente e di rendere innocue le specie più virulenti. Pasteur li coltivava nel brodo, che presto si altera e non si coagula che a 0° gradi. Roberto Koch di Berlino li coltivò nella gelatina, che si solidifica a 16 gradi centigradi e quindi nel clima di Berlino permette quasi tutto l'anno (meno il breve estate) di fissare i bacteri sopra una lastra di vetro in un sottile strato di gelatina e di osservarli col microscopio fornito del così detto « Mare di luce Abbe ». Il Koch arrivò così a scoprire i bacilli della tisi, del colera, della febbre gialla, della peste; riformò la teoria Le Fucacee furono le più diffuse nei mari e formarono delle masse estese dette Sargassi. Al- cune Alghe come la Macrocystis arrivarono alla lunghezza di centinaia di metri. Le Alghe dei terreni che andavano asciugandosi, rese robuste, aspirando bene l'ossigeno, si trasfor- marono poco a poco in Muscinee o Muschi non più alte di mezzo metro. Nei Muschi acrocarpi le piante femmine producono degli archegoni o sacchetti in cui si sviluppa l'oosfera che, fecondata, fa l'uovo che germinerà, mentre le piante maschie fanno le anleridie o sacchetti dai quali scappano gli anterozoidi, che vanno a fecondare le oosfere delle sorelle. Dalle Muscinee vennero le Epatiche piene di spore, anch'esse per lo più divise in piante maschie con anteridie e piante femmine con gli archegoni, piene di acido malico, che attrae i maschi. delle infezioni ed ebbe numerosi discepoli, fra cui il nostro Gosio professore a Roma. Anche la muffa delle cantine (Pennicillum glaucum) le cui spore sono tanto minute che girano nell'aria, messa nel sangue di un animale senz'altro muore; ma, se viene coltivata ed abituata poco alla volta a stare nel sangue caldo, può far morire un coniglio in due giorni. I Bacteri sono a milioni nei paesi tropicali e in certi paesi sono cospersi o influiti da corpi radioattivi tanto da^ far luccicare le acque del mare. Se ne raccolgono molti di questi innocenti bacteri per farne in Germania delle lam- pade a luse verdastra-azzurra, le cui onde sono molto brevi, e si conservano senza rinnovare l'aria per parecchi mesi, permettendo di leggere i giornali di notte e di fare qua- lunque lavoro. Invece nei paesi assai freddi i Bacteri mancano, o sono pochi. Per questa ragione la carne degli animali uccisi si conserva benissimo nelle terre polari, giacche la causa della putrefazione delle carni non è il calore, ma sta nei Bacteri. Le proporzioni crebbero nelle Felci e nelle Preste. I vasi interni lunghi si moltiplicarono, per mandare in alto i succhi nutrienti e per formare edifìci e magazzini dove albergare e gustare la vita e l'amore, formando dei 'protalli. Alle Felci aventi spore, seguirono i protalli a Félce, con generazione alternante: l'una intenta ad accrescere la nutrizione, riproducendosi senza nozze; l'altra a gustare l'amore ed a migliorare la morfologia, mediante la riproduzione sessuale. Nella Età paleozoica le Crittogame avevano raggiunto proporzioni colossali anche ai poli: ma oggi si sono ristrette alle regioni tropicali. Nelle Preste dove i maschi erano separati dalle femmine, intorno al tallo permanente, ne sorsero altri più piccoli, a formare lo sporogono nelle Ofioglossee. Lo sporogono o sporangio, diventò il più gradito convegno di spore dei due sessi, e servì alla evo- luzione morfologica delle specie superiori, fino alle Fanerogame del nostro tempo. Dal periodo Devoniano al Permiano la vegetazione fu superba in Crittogame ed in Gimnosperme, soprattutto in Pini, mentre nessuna Angiosperma era ancor nata. Le Crittogame e Gimnosperme si svilupparono per milioni di anni e lasciarono, laddove si sono fossilizzate, il Carbon fossile, che contiene quattro quinti di Carbonio puro. Si restrinsero dopo il periodo Permiano e allora prevalsero le Conifere e le Cicadee. Nel Trias co- minciarono le Angiosperme. Dopo il periodo giurese prevalsero le Fanerogame, che prima erano piccole, e crebbero in al- tezza. Fin dalle prime Ofioglossee il tallo dell'amore si era impiccolito e fatto incoloro e sotterraneo, e si moltiplicarono gli sporogoni o sporangi: il tallo poi fu ridotto quasi a nulla nelle Rizocarpee, mentre lo sporogono dominando si divise in spore maschie e spore femmine nei Licopodi. Finalmente nelle Fanerogame (Gimno ed Angiospermé) lo spo- rogono nascose il tallo facendo spore maschili o polline e spore femmine od ondi. Il protoplasma maschio non si organizzò più in corpuscoli, ma attraversò per endosmosi le pareti del tubo pollinico e andò ad impregnare i corpuscoli dell'ar- chegono. Le foglie dello sporogono furono trasfor- mate per la festa dell'amore in variopinti e vellutati petali, stami e pistilli, emulando le spighe a sporangio floreale delle Crittogame. Nelle Gimnosperme (conifere e cicadee) la macrospora, ossia il sacchetto embrionale contenuto nell'ovulo (macrosporangio) diede luogo ad un piccolo protallo che rimase nel- l'ovulo e ad un endosperma con archegoni, che il polline andò a fecondare; dopo di che YOosporo potè fare il granulo del seme. Il polline è un surrogato dell'anterozoide delle Crittogame e non ha l'aspetto di ainebo, ma ne ha la virtù, senza sforzare le piante a perdere la vigoria nutritiva; è un perfezionamento che fa godere l'amore senza perdere la robustezza. In questa lunga evoluzione degli organi sessuali riesce evidente che la psicogenia è fatta dalla sen- sazione piacevole e che la somagenia non è altro che un risultato della psicogenia ripetuta con per- severanza. La Natura che si faceva nelle foreste era la parte minima, ma era piena di vita allegra. Nelle antere, nei pistilli dei fiori è evidente la vita animale: sono relativamente caldi e respirano più ossigeno che il resto della pianta. Uovulo ha molte cellule irritabili, il cui nucleo si segmenta e fanno il sacco embrionale, composto di due cellule che ricevono il polline, e sono nodrite dalle vicine: una di esse farà il germe con due cotile- doni che diverranno la radichetta e la piumetta. Nella Fanerogame la riproduzione è assicurata in tutte le parti giovani. I Protonti tendevano a fare un protallo sessuale permanente: ma non vi riuscirono: e già nelle Crittogame superiori e nelle Gimnosperme il protallo sessuale era stremato. L' indirizzo assunto dalla maggior parte delle specie vegetali fu quello invece di fare degli sprorogoni perpetui, nei quali per spore e per germorgli si gode una riproduzione più diffusa, benché i germogli non si stac- chino dalla pianta madre, come facevano le spore delle Felci. — Rosai, Viti, Ciliegi, Peri, Meli, Spine e migliaia di altre specie meno comuni nel clima temperato, si moltiplicano per germogli, quanto per semi - perchè spore o germogli di spore sono quasi dapertutto. In generale nelle piante attuali prevale la generazione agamica o la sessuale; ed è rara la generazione alternante (fuorché nelle Conifere-vascolari). Nelle Fanerogame le parti giovani hanno sempre spore e possono germogliare; tutti sanno che nelle Begonie persino ogni foglia fa germogli avventizi, capaci di produrre una pianta perfetta. Nelle Fanerogame il nodo del picciuolo delle fo- glie parte dal centro del midollo e dà la morfologia e la chimica delle parti che ne derivano, poco meno dei fiori. I fiori degli alberi corrispondono alle Meduse ed ai Polipi idroidi e si individualizzano, mentre i nodi e le foglie si riproducono senza nozze. Nelle miriadi di specie erbose ci sono individui agami alla radice, e nel fusto: mentre in cima al fusto sorgono individui fiori. Il fusto risulta dai fusticini posti a capo uno dell'altro, tutti con ra- dichette, con fibre, con vasi, con trachee. Mirabile composizione, formata lentamente nell'ascesa a più alta unità del collettivismo di ogni specie. Nelle Piante (come negli Animali) il fattore delle maggiori trasformazioni fu l'Amore. L'ambiente, il clima, l'uso e il non uso degli organi influirono meno della sintesi goduta nei piaceri intimi della Natura che si fa liberamente. Dorhn variando Fambiente, vide che gli organi restavano a lungo i medesimi, ma le funzioni variavano subito; poco a poco la funzione che era secondaria, diventava primaria, modificando in alcune generazioni tutta la struttura. Ed oggi il De Vries attribuisce la evoluzione delle piante a rapide mutazioni. La maggior cernita sta nelle mutazioni del si- stema riproduttivo, più che nell'adattamento al- l'ambiente: perciò la prima cura dei giardinieri (come degli allevatori del bestiame) è d' impedire Vincrociamento coi tipi vecchi e di somministrare all' individuo che si vuol variare una forte nutrizione. L'Embriogenìà, origine dell'individuo organico, è un raccorcio della Filogenìa, origine della specie, anche fra le piante. Nelle Fanerogame si tro- vano reminiscenze delle Thallofiti, delle Muscinee e delle Crittogame. Dove la pianta ha vita più attiva è aerobia ed animale, come nel seme che germina, nella gemma che si sviluppa, nella foglia che cresce, nel fiore che matura: e consumano molto ossigeno riscal- dandosi. I fiori assorbono in 24 ore tanto ossigeno quanto l'uomo (a parità di volume). Le parti più vive sono sempre più azotater giacche l'azoto, essendo indifferente ed instabile, favorisce la decomposizione e la ricomposizione delle molecole a seconda dei bisogni. Queste parti sono le più calde e le più zoidi; però la parte animale delle piante resta sempre minima, benché diffusa. Le piante più attive, come la sensitiva, si affaticano e poi dormono. La Dionea chiude le foglie e stringe gli insetti in trappola. La Drosera segrega in pari tempo un vischio che li uccide e li digerisce. Sono le piante più azotate di tutte. — In tre piante insettivore fu scoperto nel 1900 da Huberland un vero organo del tatto, sopratutto nella Mimosa pudica. Nel 1904 Kollwitz vide il principio di una struttura nervosa anche in altre piante. F. Hook attribuisce alle piante anche sentimenti e volizioni (1). La lenta Evoluzione delle varie specie di piante compiuta in milioni di anni nelle Epoche geologiche indicate fin qui, smentisce affatto gì' influssi delle idee- eterne del Platonismo e dello Hegelismo e più ancora la pretesa formazione naturale dell'Ardigoismo, che avverrebbe per lo incrocio della linea del tempo nei punti dove si tagliano le tre linee fra loro perpendicolari dello spazio e prova la verità del Pitagorismo, dimostrando che le piante si sono formate per sensazione e volontà, cercando ed ottenendo il godimento e la moltiplicazionedelie spore e dei germi di riproduzione. In generale le radici sono coperte di uno strato di cellule piene di aperture, le quali (quanto più si trovano verso la punta), assorbono per endo- (1) Sind Pflanzen und Thiere beseelt? 1906, Lipsia. smosi i succhi minerali disciolti. L'acqua passa più presto del fluido denso che empie le cellule e dietro essa i succhi minerali e sopratutto la soda vicino al mare e in terra ferma soda, potassa, calce, silice e talvolta il ferro. Darwin as- somigliava le radici a talpe, che volessero andare a cercare il cibo sotterra e col muso procurassero di stendersi nel terreno umido e grasso, evitando i sassi e all'occorrenza sciogliendoli nell'acqua un po' alla volta. Alcune arrivano, perseverando, a sciogliere marmi e silicati. Il moto di circumnutazione di queste radici sembra fatto dalla intelligenza, per evitare o superare gli ostacoli; poco sopra delle punte vi sono dei peli, che assorbono sempre succhi minerali. Nei fusti e nelle foglie il protoplasma fa un moto di circumnutazione che si alza la sera e si abbassa la mattina, ed è forte sotto i tropici* giovando a diminuire l'irradiazione notturna. L'energia della pianta viene dalla combustione in piccola parte, ma assai più dal sole; perchè i suoi cibi sono inossidabili ed inerti come lo sono l'acqua, l'acido carbonico, i nitrati ed alcuni sali e quindi incombustibili. Ma la luce fa operare la clorofilla, che aspirando il gas acido carbonico, lo scompone e rigettando l'ossigeno (1) mette il carbonio in grado di far zucchero, amido, grassi e albumine, e anzitutto l'amido (C6 H10 O 5 ) e la glucosi (C6 H12 O 6 ); poi anche molecole azotate, (1) Di notte la pianta vive come un animale assorbendo cioè l'ossigeno ed emettendo carbonio. Una foglia, re- stando all'oscuro, prende in un giorno circa 8 volte il suo volume di ossigeno, mentre l'uomo ne prende 14 vo- lumi ed un passero 200 a 260. pigliando l'azoto dalla terra e non dall'aria, ossia pigliandolo dai nitrati. Con questi elementi saturati incombustibili la pianta fa molecole combustibili non saturate e cariche di energia. Lo sviluppo della clorofilla comincia nei punti gialli dei cotiledoni chiamati leuciti, che alla luce fanno diventare verde il loro pigmento. Sono glomeruli che dal calore del sole e dalla luce assumono l'energia termico-elettrica, trasformandola in energia chimica che assorbe il carbonio. Ogni specie ha una clorofilla apposita, e ad esempio negli spinacci è fatta di C 40 H62 A2 O 4, nella erba medica G 42 H63 A2 O 4. Nelle piante acotile- doni è ancora assai diversa. Assorbendo il carbonio, i glomeruli verdi formano le aldeidi, gli zuccheri, gli amidi, i corpi grassi, il tannino e le materie albuminoidi, con un lungo e fecondo lavorìo. Negli albuminoidi, oltre al carbonio e agli elementi dell'acqua e dell'aria, entra sempre qualche po' di solfo e alle volte anche di fosforo: elementi accentratori, che vedremo cre- scere negli animali e di cui vi sono traccie già nei nuclei delle cellule degli amebi e del protoplasma. L'acqua col carbonio fa l'aldeide più semplice, il quale polirnerizzando fa lo zucchero. I fermenti della cellula, sotto la luce del sole fanno nelle foglie zucchero ed amido. Tenuto al- l'oscuro l'amido si cangia in celluiosi o mucilaggine. La celluiosi è una sostanza idrocarbonata insolubile negli acidi e nelle basi (che sotto l'in- fluenza degli alcali può tornare amido) con cui si fanno le parti più solide delle piante C 12 H10 O i0. Le piante prendendo l'azoto non dall'aria, ma dalla terra, riducono i nitrati ad acido cianidrico. Nelle sementi a lungo private di qualsiasi umidità i gruppi di cristalli poliedrici delle aldeidi, gruppi (che si chiamano i miceli) si toccano. Mase penetra l'acqua, si rianimano ossigenandosi, e, se la temperatura è dolce, germogliano. Mettendo del grano di frumento nell'acqua te- pida, non si cambia il suo amido finche non germina. Ma appena principia a germogliare, l'amido si idrata e si trasforma in glucosi. Ed ora veniamo alle analogie interne fra le piante e gli animali. Il liquido assorbito dai succhi digestivi in cui le radici hanno trasformato i sali ed altre sostanze minerali ascende nel fusto, sciogliendo alcune so- stanze che trova nel passaggio e diventa linfa. Quanto più questa ascende, tanto più diviene densa. Essa forma dei canali o arterie capillari, nei quali scorre, attratta dalle gemme sbocciate sul fusto, ed arriva agli stomi, ossia alle bocche delle foglie, dove si ossigena, evaporando l'acqua. Da queste foglie il succhio ridiscende sotto la corteccia, divenuto latice (piccolo sangue, di cui la parte essenziale si coagula, come il sangue ani- male). Come latice empie i canali laticiferi ramificati dal parenchima, e fa, nelle fibre allungate, il così detto Libro. Il latice è pieno di granuli vitali, che, come i globuli del sangue, circolano e depongono il nutrimento nelle varie parti, fino alle radici e nel midollo, formando quel deposito di materie nutritive che sta fra il legno e la corteccia delle piante dicotiledoni, chiamato Cambio. Nelle piante monocotiledoni mancano le gemme laterali, e le fibre del libro ed i vasi laticiferi sono contenuti nei fasci fibrosi vascolari arcuati sparsi nel fusto. E perciò nelle monocotiledoni il cambio si deposita in masse sparse. La gemma terminale unica di queste Monocotiledoni approfitta del succhio elaborato dalle foglie precedenti; e così avviene anche nelle Acotiledoni vascolari. I vasetti laticiferi abbondano presso le ghiandole e sopratutto in quelle della resina e delle gomme sotto la corteccia. Vere ghiandole sotto l'epidermide sono quelle dell'arando, del mirto, della ruta, che secernono olii volatili. Le ghiandole interne ed opache son fatte da peli gonfiati, come nelle ortiche. Le materie resinose, la cera impermeabile all'acqua sono vernici utilissime, le quali moderano la evaporazione, e non sono escre- menti. Così nei pini, nei pioppi, nei castagni d'India. Nel Chili e nel Perù quasi tutti gli arboscelli hanno il trasudamento resinoso, perchè il clima è asciutto e senza di esso svaporerebbero troppo i succhi: la polvere di cera segregata da peli glandulosi copre le foglie dei cavoli ed altre specie, le prugne, le uve, ed altri frutti. Molte piante sommerse nell'acqua si rivestono di uno strato vischioso che impedisce all'acqua di macerarle. Le resine e le gomme non sono escrezioni: lo sono invece quelle •che escono nelle radici dai fiocchi gelatinosi. F. Loed (The dinamics of living matter, 1906,.New-York) considera ogni organismo come una macchina chimica, di colloidi; ma non può spiegare l'assimilazione e la morfologia senza Vunità senziente collettiva, che provvede ad ogni bisogno interno ed esterno delU piante. Le albumine vegetali sono eguali a quelle animali. Tutte si coagulano a caldo, tutte reagiscono del pari agli acidi, alle basi ed ai sali.Le globuline vegetali o Edestine, sono fatte per metà di carbonio, per un quinto di azoto, per quasi un quarto di ossigeno: il resto è idrogeno, con pochissimo solfo. I bacteri che (come dicevasi nel Cap. VI) in- grassano le piante sono fatti di una globulina so- lubile nell'acqua chiamata myco-proteina. Le caseine vegetali (tutte insolubili nell'acqua) fanno il glutine e sono affini alle legumine estratte dai legumi. II protoplasma è alcalino, ma il liquido che lo circonda è acido trasparente. Le fibrille vive pulsano, e nei vacuoli si depongono sali, acidi, zuccheri, grassi, amidi, tutti len- tamente segregati. Le glucosi formate nelle foglie di un albero, scendendo nel cambio sotto la corteccia del fusto, e poi nelle radici, perdono la loro acqua, e vanno depositando l'amido insolubile e la celluiosi. Rie- scono polimerizzando a fare alcuni principii aro- matici. Una parte importante l'hanno i fermenti. Dove la pianta cresce presto, lo si deve a fermenti ossi- danti detti ossidasi. Ossidando molto le aldeidi si ottengono gli acidi. Nelle sementi del papavero, del ricino, della canapa, del fico, del lino, della veccia, del granturco, ci sono le steapsine che sa- ponificano i corpi grassi ed idratano. Nel latice della pianta a lacca del Giappone ed in molti Funghi vi è la laccasi, fermento che provoca la ossidazione dei tessuti ed agisce sui germogli e fu trovato anche nella Dahlia e nella Barbabietola. Wiirtz trovò la papeina, fortissimo fermento in altre specie vegetali. Vedremo negli Animali quante funzioni vengano attivate dai fermenti. I fenomeni vitali aerobi, distruggono nelle piante, come negli animali, i grassi, gl'idrati di carbonio, con lenta combustione, che riscalda alquanto le cellule. Da per tutto dove si moltiplicano le cellule in- terne e si organizzano, vi è combustione e riscal- damento, emettendo gas acido-carbonico ed acqua, precisamente come si verifica in un animale. Le diverse funzioni interne delle piante che abbiamo indicate sono dunque analoghe a quelle di certi animali inferiori (meno la clorofilla o parte verde). Non siamo entrati nella Botanica descrittiva, limitandoci ad investigare la Natura che si fa delle Piante, le cause intime della loro formazione ed evoluzione. I Botanici si arrestano quasi sempre alla Natura fatta delle Piante e trascurano la Natura che si fa. Questa invece interessa altamente la Filosofìa della Natura, perchè presenta una serie ricchissima di fatti, che ci convincono che la parte materiale dei Vegetali è la persistenza ereditata dei movimenti funzionali che, molte volte ripetuti, diventarono strutture ed organi. Dalla psiche del Proto- plasma, non già dall'Inconscio Indistinto, né dal caso, uscirono tutte le funzioni: e tutte le forme mirabili della vegetazione universale, le cui centinaia di migliaia di specie abbelliscono la faccia della Terra. Tutto si è fatto dal di dentro al di fuori, all'opposto di quanto insegna VArdigoismo. « E questo fia suggel ch'ogni uomo sganni ». Origine psichica delle specie animali Ogni forza nella sua intimità, lo abbiamo visto fin qui nella Natura inferiore, è sentire e volere: sentire il contatto delle cose esteriori portate nella propria unità; e poi volere l'allontanamento di ciò che fa male e l'avvicinamento di ciò che fa bene: e giova a sviluppare la propria vita ed a renderla indipendente. Quindi ogni forza organica ha la sua finalità, benché si manifesti come Materia. La Natura che si fa era, ed è ancor sempre nelle specie vegetali ed animali sentire, desiderare e volere. Il sentire precede il desiderio, il volere e il muoversi lo seguono. Negli animali più che nelle piante si manifesta la causa evolvente, cioè la tendenza di elevarsi a sensazioni più armoniche, ad unità più complesse, operando e dominando in relazione. « Et mihi res, non me rebus submittere amor ». Orazio. Nel processo chimico la distruzione provoca a rimettersi; nel processo morfologico la Vita è la evoluzione a forma più alta, e più sicura di dominare gli ostacoli. Se fosse un mero processo chimico di combustione, si potrebbe mantenere la vita nei membri mutilati degli animali superiori, di cui si può conservare per alcune ore la digestione, la respirazione, la circolazione del sangue e la secrezione delle ghiandole. La formazione lenta e perseverante degli Organismi per fuggire il dolore e procurarsi il piacere è universale. Essa fa le funzioni e le consolida in organi, dapprima deboli e semplici, poi, con l'esercizio, vieppiù complicati e robusti. La funzione è la distribuzione della forza che un organismo oppone a quanto inceppa il suo libero sviluppo, ossia lo sviluppo del piacere. Il materialista crede che le Turbellarie non re- spirano, perchè prive di branchie, che i Polipi non sentono, perchè non hanno nervi, che gli Insetti non hanno circolazione perchè non hanno arterie, né vene; ossia credono che la funzione dipenda dall'organo, il quale organo poi si sarebbe fatto miracolosamente per virtù dell'ambiente. Invece secondo Schelling, Hartmann si sarebbe fatto per virtù dell'Inconscio, Indistinto, Infinito, secondo Ardigò da tutti e due. Ma il zoologo filosofo sa che le funzioni prive di organi si compiono meno bene, ma si compiono: e che ci vuole molto tempo a fare gli or- gani. La vita intensa non si manifesta se non quando le materie azotate si scompongono, per ricomporsi con atti Unitari Morfologici, che ordi- nano le funzioni e formano poco alla volta gli organi. Le correnti interne delle Monere fanno le prime appendici e la contrattibilità: esse non hanno ah tro organo della volontà che i così detti falsi piedi, formati dal loro protoplasma esterno viscoso: e quando hanno finito di muoversi, li ritraggono nella massa comune. I cigli permanenti principiano negli Actiniferi ed irradiano da un centro. Nelle specie superiori degli Infiisorii (1) si riuniscono in una coda, detta flagello (anche le spore delle Alghe verdi hanno cigli vibratili). Le larve dei Celenterati ne sono coperte. Engelmann distinse i moti degli Amebi, che sono sarcodici o ad appendici brevi, o fila- mentosi, dai moti oscillanti dei Bacteri. Gli animali sono in generale assai più azotati delle piante; e quindi di composizione più instabile, più facile ad adattarsi alle nuove circostanze e tendenti a dominarle. La loro psicogenia fa la somagenia più presto che nei vegetali. Dalla gelatina che è Valfa delle materie proteiche, essi arrivano in poco volgere di tempo a far Valbumina che ne è Vomega. L'albumina, con 14 elementi diversi, forma molecole composte di centinaia di Atomi, la cui struttura si presta alle più diverse funzioni, grazie alle isomerie, per le quali (con l'aumento di Atomi della medesima specie nella stessa molecola (polimerie) oppure con la metameria (che lascia lo stesso numero di Atomi di ogni specie, cangiandone soltanto la disposizione) si ottengono nuovi adattamenti all'ambiente e nuove forze per svilupparsi (2). (1) Fin dal 1848 il prof. Ehrenberg di Berlino scoprì 400 specie di Infusori microscopici che vivono in diversi strati dell'atmosfera, ed altre centinaia se ne scopersero poi, di una piccolezza tale da essere invisibili, nella pioggia, nella nebbia, nella neve, nel mare, negli stagni. La vita ani- male pullula dapertutto dove vi è ossigeno, anche in forme minutissime. Ci sono animaletti che si muovono con molta alacrità, sanno evitare gli ostacoli che si oppongono al loro corso: i grossi vanno a caccia dei piccoli. Se ne sviluppano molti nelle infusioni fredde o macerazioni vegetali. (2) Queste materie proteiche vengono nei Laboratori delle Università, cimentate con l'idrato di barite, con poco risul- tato, perchè l'albumina morta non è più capace di nulla. La sintesi piacevole o dolorosa guida l'animale a fare le funzioni più adatte, trovando mezzi migliori, e respingendo, abbandonando i meno utili per nutrirsi, per respirare, per muoversi e per riprodursi. L'organo deriva dalla funzione, la quale (come dicevamo) si compie anche se gli organi sono di- fettosi o mancano del tutto, benché allora si compia meno bene. Così distrutti i reni, l'urea viene estratta dal sangue nella superficie mucosa dell' in- testino. Quando una funzione comincia a localizzarsi, è sempre confidata ad un vecchio organo leggermente modificato. La Natura che si fa, tende sopratutto a modificare opportunamente la Morfologia. La formazione degli organi di relazione e so- pratutto degli organi dei sensi, ci mostra che una continua crescente attenzione a determinati scopi fu rivolta dai più semplici animali. Le successive accumulazioni di energia e di abilità acquisita, benché piccole negl'individui, da- vano una grande somma, dopo una lunga serie di generazioni, con la legge ben nota della diminuzione del lavoro biologico generale a vantaggio di un organo particolare. Furono certamente figurate con perseveranza le varie maniere di difesa che si fecero animali di scarsa intelligenza. Quando un atto nuovo, per speciale combinazione, è trovato utile, i più stu- pidi animali arrivano a farne una funzione, e ri- petendola per varie generazioni in favorevoli cir- costanze un organo efficace. Così i Bagni in ori- gine segregavano un liquido viscoso per farsene bozzoli; ma discendendo dalle frasche mentre il vento li gettava sui rami prossimi, videro che ritornando più volte al primo ramo ed incrociando i fili, pigliavano mosche, finche impararono a far reti geometriche, che all'aria si induriscono. Alcune Formiche, il Bombardiere, alcuni Scarafaggi videro che getti e spruzzi loro servivano ad allontanare i nemici e ne appresero l'arte. La Seppia imparò ad intorbidare le acque. Le Torpedini del Mediterraneo, i Siluri del Nilo e del Senegal, il Gimnoto dell' Orenoco ed altri Pesci, con apparati nervosi pieni di cellule prismatiche di gelatina, si fecero delle batterie elettriche con le quali danno scosse violenti a chi li insegue. In un Vademecum destinato alle persone colte in generale, per far meglio intendere la multiforme attività della psiche, che va facendo e moltiplicando ogni specie, ci sembrò utile di dare alcuni esempi caratteristici. Se una divinità inconscia presiedesse alla evoluzione degli organismi o se questi fossero fatti dalle forze incidenti dell'ambiente (che YArdigò, seguendo lo Spencer, crede tanto influenti), non sarebbe vero il fatto osservabile in tutti gli ani- mali e nell'uomo stesso, che le funzioni fatte con coscienza e ripetute, rendono i moti più facili e più coordinati, omettendo gli inutili, per insistere sugli utili, con teleologia sempre più chiaroveggente, interna dell'animale e non esterna dell' Inconscio cosmologico universale. Quando la funzione, ripetuta per alcune generazioni, ha formato sarcodi, muscoli, nervi e moti riflessi, cessa il lavoro di convergenza che atten- deva ad un determinato progresso morfologico: la coscienza se ne ritira, dirigendosi a soddisfare nuovi bisogni; ma la coscienza e la convergenza ritornano sopra quei punti, quando cambiano le — 106 — circostanze, e l'animale tituba sul da farsi, e deve fare nuovi movimenti e quando impara un mestiere. La convergenza assomma le Unità senzienti come un fiume assomma le acque di tutta una valle. La convergenza della Natura che si fa, trova i moti migliori e li combina. La Natura fatta delle cellule associate per fare i moti nuovi, dopo averli imparati, li continua come una macchina, come i soldati, dopo aver imparato l'esercizio dagli uffi- ciali, li continuano da se soli e li ripetono centinaia di volte facilmente. E questo meccanismo si fa poco a poco, perchè, con la semplice ripetizione di un movimento, l'ani- male, sente fortificarsi i muscoli che contrae, le ossa sulle quali i muscoli si inseriscono, ed i centri nervosi che li eccitano. Un animale superiore racchiude in se milioni di sensazioni delle sue cellule dei suoi organi, che egli, nella sua vita conscia generale, non avverte. Se le sentisse sarebbe confuso, come un generale condannato ad udire i discorsi dei suoi gregari. La cenestesia o sentimento comune, accentra le Unità organiche e fa la sensazione interna sintetica, che ^impone di esercitare o di trascurare le funzioni. È un tatto interno, che sente la vita scorrere nei visceri, nelle membrane mucose, nelle ghiandole, nei muscoli, nelle arterie, nei polmoni, nelle articolazioni, nei nervi: è, come vedremo nel Capitolo XIV, la base dell'anima giacche ne fa i sentimenti, le sensazioni, i ricordi e le voli- zioni: base psichica, che viene dalle singole unità delle cellule e degli organi e non dall'ambiente, ne dall'Inconscio, Infinito, Indistinto. L'eredità ci dà gli organi, senza che il neonato sappia ancora farli funzionare: la coscienza degli antenati li ha fatti poco a poco, ma facilmente l'animale diventando adulto impara ad usarli. La funzione va presto nell'animale nato da poco, da se come un meccanismo: senza nuove aggiunte: finché non cambino le circostanze e non sorgano ostacoli impreveduti. Per modificare le funzioni ci vuole la coscienza, l'attenzione, la Natura che si fa, la sìntesi chiaroveggente, gaudente o sofferente. Essa per fare dei cambiamenti minimi esige un grande lavoro, come osserva il Pouchet, mentre il lavoro della psiche inconscia, passiva, che va come un meccanismo, ossia della Natura fatta, non spende energia visibile, perchè si fa per con- vergenze particolari, minute e locali, senza cercare nuove combinazioni. I vantaggi acquisiti da poco tempo, si perdono, se non sono conservati e rafforzati coll'esercizio, e se la Volontà li abbandona, gli organi si atrofizzano. La selezione fatale per la sopravivenza dei più adatti a vivere in un determinato ambiente (the sunnvance of the fittest) propugnata da Carlo Darwin esigerebbe molti più milioni di anni di quelli che attesta la stratificazione dei sedimenti geologici. Quindi bisogna con Naegeli dare molto maggiore importanza alle cause intime, alla Unità noumenica, ossia non fenomenica, la quale sentendo, desiderando, volendo, cambia le funzioni e le perfeziona. Romanes ha mostrato che VAmore ha separato le specie animali, perchè, fra certe famiglie si stringevano alleanze, che escludevano gli altri, e le isolava; cosicché alla fine, le nozze con altre famiglie restavano sterili. Infatti la prima cura degli allevatori è eli impedire l' incrociamento delle nuove varietà coi vecchi tipi. — La figurazione amorosa, separando ed isolando, fece e fa le specie nuove. La umana imaginazione è una piccola parte delle combinazioni di imagini e di sen- sazioni che ebbero gli Animali, e sopratutto di quelle relative al miglioramento delle proprie condizioni e dei propri organi ed alle scelte sessuali. Sembra che le modificazioni degli animali su- periori sieno avvenute bruscamente, nell'ovario o nella prima fase dell'embrione, quando erano state lungamente richieste dalle circostanze e vi- vamente figurate e bramate dai genitori. L' imaginazione della madre ha la più grande influenza sull'Embrione, non soltanto nel concepirlo, ma anche quando si va svolgendo nel ventre, come lo provano tanti fatti di cui alcuni ne ci- teremo in seguito (molti somigliano a mostruosità). Ohi guarda le miriadi di specie minute resta meravigliato di vedere come siensi fornite di organi così diversi, così opportuni per la vita, nelle fo- reste, sui monti, sul mare, sulle acque dolci, correnti o stagnanti. Gli Insetti che volano hanno valvole pulsanti sparse in tutto il corpo e perfino nelle zampe, ed un intricato sistema di vasi e di tubetti secretori che fanno sughi gastrici e in al- cune specie (numerosissime sulle rive del fiume Orenoco in America) veleni per i nemici. GÌ' Insetti hanno foggiate le membra loro a mille usi per afferrare o masticare i cibi, per succhiare od incidere le piante e le carni (mandibole, palpi labiali, proboscidi, trombe, lancette). Alcune specie, come VElater tropicale e le nostre Lucciole, sono fosforescenti e la fosforescenza è dominata dalla loro volontà. Il verme di acqua dolce fa le branchie dalla pelle; il Crostaceo phyllopodo le fa dalle zampe. Nel Gambero gli anelli sono assai diversi: gli uni portano antenne, i seguenti mascelle, zampe e l'addome. E tra le zampe, ve ne sono di ambulanti, di prensili, di respiranti e di natanti. Tutti conoscono molte specie di Molluschi, le quali si fecero un mantello, emettendo, a lamine di carbonato di calce, una Conchiglia del colore del mantello, piccola casa portatile. Così gli Uccelli fanno le uova con guscio calcare. In generale le parti mediane cambiano difficil- mente. Invece le estremità vennero adattate fa- cilmente in tutta la Fauna ai nuovi bisogni, quando duravano per varie generazioni. Il graduale innalzarsi (con sentimento, desiderio e volontà) delle specie animali, fu studiato da C. Darwin e da Haeckel e tenteremo di darne le linee principali (per quanto si può in un paio di pagine), onde mostrare l'efficacia delle leggi generali di evoluzione sopra esposte. Haeckel, con mente scrutatrice e geniale ha li- brato i fenomeni della Embriologia e le testimonianze della Paleontologia, dando un quadro approssimativo della generale evoluzione morfologica dalle prime colonie di cellule. Dai Polipi idroidi derivano le Meduse e stac- candosi, formando la testa, gli Anellidi. Gli Articolati (Anellidi, Miriapodi, Insetti, Ragni e Crostacei) saldarono i loro muscoli ai tegumenti esteriori, che in principio erano semplici indurimenti della pelle e poi si coprirono di chitina. Come dagli Articolati venissero i Molluschi non è deciso, vi sono due spiegazioni. (Vedi Capitolo XIII). Dai Molluschi si staccarono i Tunicati, animali assai piccoli, per la tunica a sacco, nella quale chiusero le branchie, gl'intestini, il cuore, ed i vasi sanguigni (Ascidìe, Bifore,.Pirosome, ecc. a generazione alternante. Si crede che dai Tunicati, per mezzo dei Cordati e dello Amphioxus (che non ha ancora cervello) sieno derivati i primi Pesci, alcune specie dei quali sono prive di ossa ed hanno soltanto cartilagini ancora oggidì. Tutti i Pesci hanno un cuore, che corrisponde alla metà del nostro, e sangue freddo: tutti hanno molte dita per nuotare. Se ne staccarono i Dispneusti, nel periodo Devoniano, i quali resero la loro vescica natatoria capace di funzionare come polmoni, entrando per molte ore al giorno nelle foreste prossime al mare. Per cacciare animaletti vivi i Dispneusti ridussero a poche le dita e le accorciarono. Dai Dispneusti provennero gli Amfibi, i quali nascendo respirano ancora con le branchie, ma nella età adulta respirano coi soli polmoni, abituandosi a vivere sulla terra. Essi ridussero a 5 sole le dita di ogni membro e queste rimasero poi 5 in tutti i Vertebrati, compreso YUomo. Le Rane inghiottiscono l'aria per la bocca. Perdendo affatto la respirazione bronchiale, complicando il cuore, ed acquistando quella membrana detta Amnio che riveste il feto e li fece chiamare Amnioti, si formarono dai più elevati Amfibi gli Stegocefali, che divennero padri dei Rettili. Come le più energiche forze plutoniche erano necessarie per dare origine ai basalti ed alle altre Ili roccie ignee della prima scorza terrestre, così le forze organiche più energiche erano necessarie a dare i primi abbozzi della Flora e della Fauna. E le Unità intime confrontanti in tanto carbonio e calore, come ne avevano i mari nell'epoca Primaria o Secondaria, dovevano aver maggiore facilità di oggi nel cambiare e scegliere le forme fondamentali. Perciò si trovano fino dalla Età Mesozoica i tipi fondamentali delle varie specie già pronunciati. Nel periodo Siluriano, ossia nell'Epoca Arcaica (subito dopo il Cambrico), vi erano già Molluschi superiori ed anche Pesci. 1 Pesci Ganoidi del Si- luriano avevano un sistema nervoso dorsale, di molto superiore a quello radiato o bilaterale o centrale dei Molluschi. Questo ci prova che, fino dall'origine, vi erano diversi tipi fondamentali e che non è vera la Evoluzione sopra una sola linea. Nel periodo Cambrico, vi erano già Crostacei di forme gigantesche. Dal Cambrico al Devoniano, abbondarono le Trilobiti (1), che sembrano essere stati i primi Crostacei, tanto numerosi da formare coi loro scheletri dei depositi estesissimi, ma estinte dopo il periodo Devoniano. Si moltiplicarono gli Amfibi e i Rettili. Alla fine di questo periodo si alzarono le piante terrestri e formarono grandi foreste che crebbero poi nel periodo Carbonifero. Nel Devoniano erano Felci arboree colossali, Si- gillane e Lepidodentri) tutte Crittogame, mentre nelle acque si moltiplicarono i Molluschi, i Cro- (1) H. E. Ziegler: «Die Descendenz Theorie in der Zoologie », 1902, Iena. -Piate: « Das Darwinistische Prinzip der Selection», 1905, Lipsia. stacci, i Zoofiti, i Pesci. Parecchi degli Amfibi e dei Rettili raggiunsero dimensioni assai notevoli. Alcuni Lepidodentri erano alti 30 metri e il loro tronco aveva un diametro di 3 a 4 metri, che si trovano spesso nei sedimenti di quel periodo. Le Sigillarle erano anche più alte, fino a 40 metri, con tronchi enormi e cicatrici alla base delle loro lunghe e durissime foglie; bastino questi esempi per mostrare in quale magnifica vegetazione si movessero quei grossi e feroci Vertebrati. Dal Trias al periodo Permiano, Amfibi e Rettili divennero padroni delle terre boscose e delle ac- que dolci. Il sangue restava freddo, e si mescolava nel cuore, il venoso con lo arterioso, senza passare per i polmoni. I più grossi furono gli Ictiosauri, carnivori per lo più, a lingua secca, con pochissimo senso del gusto. Nel periodo Cretaceo, dalle Lucertole derivarono i Fisomorfi e gli Ofidi o Serpenti, perdendo per inerzia ed atrofìa le membra, e facendosi ad ogni vertebra una costola, perchè vivevano sempre sdraiati e si limitavano a poltrire e strisciare (1) nel fango e fra le alte erbe. Gli Amfibi antichi erano coperti di squame, mentre i viventi sono ignudi avendo degenerato. Invece i Rettili antichi erano nudi, per lo più, e i viventi arrivarono ad agguerrirsi con squame e con corazze. (1) L'apparato velenoso delle Serpi sta nelle ghiandole salivari, che in parte secernono materia gialla velenosa, che passa poi per i denti forati superiori, mentre la bestia afferra la vittima (Vipera, Aspide, Sonagli, Crotalo o Tri- gonocefalo, Najadi). Dai Rettili ai staccarono i Draghi, piccole lucertole che rivolsero una parte delle costole a destra e a sinistra per sostenere due prolungamenti della pelle che, senza permettere loro di volare, gio- vavano però a sostenerli come paracadute nel sal- tare da un albero ad un altro lontano alcuni metri. Essi non stanno quasi mai per terra, ma vi- vono sulle cime degli alberi o si gettano nelle acque in cui nuotano con grande facilità, per prendere gl'insetti che mangiano. Ve ne sono molte specie ancor oggi nell'India orientale e nelle Isole della Sonda. Furono questi i primi Rettili che riuscirono a rendere caldo il loro sangue. Pare che anche i Dinosauri ed i Plesiosauri avessero il sangue caldo; essi vivevano nell'acqua ed erano provvisti di grossa coda, di natatoie potenti, avevano un collo serpentino assai lungo, per lanciare la testa sopra le prede, e sbranarle coi loro formidabili denti. Formati nel periodo Giurese si estinsero nell'Epoca Terziaria. Erano lunghi da 4 a 6 metri. Fra le specie affini ai Draghi e ai Dinosauri o Plesiosauri ve ne furono al principio dell'Epoca Terziaria di quelle più piccole, che diedero ori- gine agli Uccelli, diventando bipedi. A quelli che si appoggiavano sulle gambe di dietro, si allargarono le membra anteriori, che si coprirono di piume, per far salti e volate ed in- nalzarsi sulle Piante. Il passaggio dai Rettili agli Uccelli si vede nel periodo Giurese nello Hesperornis senza ali, che viveva nell'acqua e mangiava pesce, nello Ictyomis della Creta Americana e nell: " Archaeopterix di Germania: tutti avevano denti e coda da Rettili. An- oor oggi gli embrioni degli Uccelli sembrano Rettili, come le Rane neonate paiono Pesci. Nei Pesci come nei Rettili e così negli Uccelli il cervello manca di circonvoluzioni. Manca pure ad essi la vescica, e l'orina sbocca in un prolungamento del retto, detto cloaca. I polmoni degli Uccelli continuano in tutto il corpo, con le cel- lule membranose, perfino nelle ossa, per il grande esercizio della respirazione che fanno volando. Lo sterno è grande e solido, dovendo sostenere le ali. Per cercare sementi ed Insetti o Vermi ridussero la faccia a due mascelle, formando il becco, ren- dendo così impossibile la masticazione; per cui in pari tempo modificarono l'apparato digestivo, incominciando a digerire nel ventricolo succenturiato, per continuare poi nel ventriglio, dove si forma il chilo. Neil' Epoca Terziaria le specie degli Uccelli si moltiplicarono assai ed arrivarono a proporzioni enormi. Alcune di queste poco o nulla volavano come YEpyornis del Madagascar, oggi estinto, che era alto 4 metri, i Dinorni della Nuova Zelanda alti 2 metri e mezzo, lo Struzzo dell'Africa e dell' India, alto anche più e più grosso, ma che non vola più e corre fornito di cosce grosse come quelle di un uomo, colle sue gambe alte 130 cent, più del cavallo. Vive in truppe e mangia erbe; oggi si alleva con profìtto. Gli sono omologhi ed analoghi, ina un po' meno alti, il Casoar nell'isole della Sonda, lo Emù dell'Australia, il Nandù del- l'Argentina. Gli uccelli rapaci non raggiunsero mai quelle dimensioni: VAquila dell'Europa e dell'Asia, il Condor delle Ande non superano quasi mai il metro in lunghezza. Essi rappresentano nell'aria quella caccia fe- roce che è stata continua sulla terra e nell'acqua, caccia clie si esercita sempre contro altre specie. Fra i membri di una famiglia, fra quelli di una società animale, regnano l'amore o l'amicizia, e vi sono esempi numerosi di abnegazione e di sacrificio. Il numero delle specie di animali che vivono di erbe supera quello delle specie che vivono di carni, come il numero delle tribù selvaggie pacifiche, supera quello dei selvaggi feroci, e quello degli uomini civili e laboriosi supera quello dei delinquenti. E bisogna guardare all' origine dell' egoismo feroce. Come nella Fisica e nella Chimica le forze fondamentali ed universali sono le attrattive, e sol- tanto quando l'armonia e l'esistenza è minacciata sorgono le ripulsioni, così, quando le specie animali imparano a far caccia e guerra, è per lo più quando sono minacciate nel pacifico possesso dei loro mezzi di vivere, quando non trovano da sfa- marsi (1). I primi Mammiferi furono i Sauro-mammoli ed i Monotremi nel Trias e ne vennero 3400 specie, (1) Gli animali domestici ben trattati restano come fanciulli affezionati, mentre quelli maltrattati perdono la natura pacifica ereditata. All'opposto gli animali di specie feroce sono più o meno adatti a diventare domestici. Così si fa con gli orsi nelle locande del gran Parco Nazionale del Yellowstone negli Stati Uniti, così si fa con gli alligatori ed i coccodrilli negli Stati meridionali di quella grande Repubblica, i quali ornai nel Mississipi si allevano per venderli come carne da macello. delle quali metà sono già estinte. Il periodo glaciale le obbligò a surrogare alle squame i peli, mandando molto sangue alla pelle a formarvi le ghiandole pilifere per ripararsi dal freddo; così si fecero anche le lane delle pecore. Meno gli Equidi e le Antilopi, che impararono a correre più veloci, gli Ungulati, che tanto si erano moltiplicati, furono tutti mangiati dai Carnivori, derivati nel periodo Eocene dai Marsupiali, Laddove la persecuzione dei carnivori era più minacciosa, i Cetacei, che erano e sono ancora Mammiferi {Balene, Delfini) ed i Pinnipedi (Foche) si salvarono nel mare, lasciando inerti le membra posteriori, svilupparono in natatoie le membra anteriori; ingrossarono la musculatura della coda ed impararono ad allargare sempre più la bocca, per ingoiare molti pesciolini ad una volta. Invece sui grassi pascoli del Miocene e del Plio- cene dove i Carnivori non penetravano, i Ruminanti, riposando quando erano satolli, digerendo lentamente, si fecero quattro stomachi, risalendo i cibi dal pansé nella bocca per essere macinati, e tornare poi nel secondo stomaco {cuffia) e nel terzo (centopelli) e passare finalmente nel caglio che termina la digestione. I più grossi Mammiferi furono i Mammuti della Russia. Per prendere i cibi nelle paludi, per bere, per sollevare qualsiasi piccolo oggetto, gli Elefanti prolungarono il naso in proboscide, onde restare comodamente piantati sulle grossissime gambe poco pieghevoli. Per scavar la terra le Talpe cambiarono le zampe anteriori in uncini e zappe; per mangiare le foglie più alte delle Palme le Giraffe allungarono molto il collo; per nutrirsi di mosche e di farfalle not- turne il Pipistrello distese sopra le membra anteriori un mantello, facendo crescere sulle 5 dita assai lunghe una membrana che serve come di ali; ed anche il Pesce Dattilottero allargò le natatoie del petto e le allungò in ali. Per difendersi, i Ruminanti si fecero spuntare sulla testa le corna; per arrampicarsi sugli alberi le Scimmie cambiarono le zampe in mani; per armarsi di sassi e di bastoni con le mani alcune di esse si abituarono a stare dritte sulle membra posteriori e ne vennero i nostri piedi, e quell'af- flusso di sangue al cervello durante la gestazione del feto, che aumentò l'intelligenza. Studiando le differenze fra Scimmie ed Uomini il prof. Keit trovò che 312 caratteri morfologici sono propri di questi; 186 sono comuni all'Uomo ed al Gibbone, 272 all'Orangutano, 385 al Gorilla e 396 allo Scimpanzè. Selenica mostrò che la embriogenià umana somiglia moltissimo a quella di queste specie. Certo è che l'embrione nostro diventa successivamente in nove mesi: Monerula, Morula, Blastosfera, Gastrula, Cordoniano, Acranio, Ictioide, Àmnioto, Mammifero placentato e Primate, giacche la Ontogenia o evoluzione dell'individuo è un raccorciamento della Filogenia o evoluzione della specie. Il posto relativo delle parti negli animali di un medesimo tipo non cambia mai; benché se ne foggino stromenti tanto diversi (come ne abbiamo indicati parecchi) a seconda della loro volontà. Bisogna ben distinguere la Omologia o somiglianza delle forme, dalla Analogia o somiglianza delle funzioni, giacche la modificazione degli organi per farli servire a funzioni nuove è stata assai frequente in tutti i tipi. Vi sono specie fluttuanti per i molti incroci (cani, sorci, uomini ecc.). Il sentire-volere ha fatto tutte le specie estinte o viventi, compendiando le anteriori. Quindi con perseverante volontà l'uomo può perfezionare il sistema nervoso, il cervello sopratutto, il sistema vasomotore, il muscolare, il cuore, i polmoni. Tutte le volte che i figli tendono al medesimo scopo dei genitori, rinforzano la Natura che si fa e perfezionano il corpo, facendo ereditare capacità fisiche ed intellettuali migliori. Vi sono famiglie di atleti, di Boxers, di ballerine, e famiglie di pittori, di musici e di scienziati. La Civiltà è una gara continua nel far atten- zione a nuovi oggetti, un eccitamento perenne ad osservare, a pensare, e quindi a sviluppare gli strati corticali del cerebro. L' Inconscio è sempre un risultato della perse- veranza del Conscio nell'attivare nuove funzioni. Ne abbiamo addotte in prova centinaia di fatti, mentre nessun fatto può addursi per dimostrare che dall' Inconscio esca il Conscio. Ex nihilo nihil. Ciò nullameno Schelling nel 1799 diede all'In- conscio la parte di fare l'Ordine nel mondo, ed Ardigò lo riprodusse. « Die Materie ist erstarrte Intelligenz, disse Schelling, la materia è pensiero congelato ». Ed Ardigò Voi. IV, p. 269 « Il contenuto di ciò che si dice Materia, non è altro che lo stesso Pensiero del quale è una forma ». «L'Infinito inconscio fa l'Ordine nel mondo» disse Schelling. Ed Ardigò lo riprodusse, II, 235.  « La Unità ordinatrice dello Indistinto assoluto fa la Natura », p. 247. « Tutto risulta da urti: lavoro meccanico: ma in fondo vi è una razionalità sapientissima », p. 249. « L' Indistinto Universale, per cui tutto è uno, è la causa dell'ordine », p. 250. « L'ordine nel caso, e il caso nell'ordine: ecco la ragione della distinzione o formazione naturale », p. 129. «Lo Indistinto è Infinito, ed è l'ambiente che sta sotto ad ogni distinto », p. 183. E Ardigò conchiude che 1' Indistinto assoluto esclu- de il sopranaturale. E fa alcune osservazioni al padre Secchi, cercando di provare che la Natura è infinita e che l'Ordine viene da questa Infinità. Però noi abbiamo dimostrato nei primi Capitoli di questo Libro che l'Infinito non è mai una realtà, che non vi può essere materia continua, che il mondo non può essere infinito. Dalla falsa premessa che il mondo è infinito, non si può tirar fuori l'ordine; e dal cambiare il sopra naturale in sotto naturale non si può tirar fuori nulla, perchè l'effetto è lo stesso, che venga dal di sotto o dal di sopra, V Indistinto è la causa dell'ordine. Però VArdigò si contradice volendo parere positivista. Ed a tal uopo scrive, p. 249: « La Intelligenza viene dopo e non prima dell'ordine e ne è un effetto ». I suoi discepoli poi ripetono sempre questa seconda parte, e non la prima schellinghiana, del loro maestro: Marchesini (« Vita e pensiero di Ardigò », 1907, p. 338), scrive: «L'umano pensiero si è formato per la continuazione di accidentalità infinite, succedentesi ed aggiuntesi a caso, le une alle altre ». E a pag. 259 ci dà questa bella genesi degli Uccelli: « La specie della Gallina è un apparato  « fisiologico riuscito, per aggiunte e modificazioni « casuali, occasionate dalle azioni e reazioni del- « Vambiente ». Qui dunque lo Indistinto Inconscio, razionalità sapientissima, non fa più nulla: è il caso, è l'ac- cidente che fa tutto. E il ritmo che è la semplice ripetizione di un moto ad intervalli eguali, viene ad aiutare il caso. L' Indistinto a che cosa è ridotto? Si vuol ne- gare che venga da Schelling, da Hegel, da Hart- mann. Si vuol tirarlo fuori dal nostro sentire: « Potendo invertire le sensazioni che fanno il Me « da quelle del Mondo o Non Me, dice il Mar- « chesini (pag. 308 a 312) si scopre che la sen- « sazione in se stessa è indifferente ad essere « oggetto o soggetto, ed abbiamo così lo Indi- « stinto sottostante ad ogni distinto. Indistinto po- « sitivo trovato per induzione. « Via i misteri della divinità, avanti la conti- « nuità funzionale della Natura infinita, che si « manifesta come Materia, come Spirito. La espone rienza della nostra sensazione ci dà il sottostante « indistinto ». È questo il Positivismo radicale delVArdigò. È facile osservare che questo sforzo di far apparire come Positivo lo Indistinto Inconscio è impotente, perchè nessuno ha mai avuto una sensazione che sia sensazione di nulla, vuota ed indistinta, indifferentemente Oggetto o Soggetto: nessuno invertisce il proprio Io nelle cose o le cose nel proprio Io. Ne Ardigò, ne alcun suo discepolo ha mai ten- tato di spiegare l'ordine e la formazione delle specie vegetali ed animali, fuorché con trovate come quella della gallina or menzionata. La me- schinità dell' Ardigoismo si vede dai suoi frutti. L'oscillare continuo fra il Positivismo e l'Indistinto Infinito ha costretto VArdigò a continue contraddizioni ed oscurità. La verità è che la Natura che si fa, più o meno conscia e libera, ha fatto nella lunga evoluzione le varie specie animali, organizzando la psiche inconscia o passiva Natura fatta che va per necessità come un Meccanismo. Non andiamo a cercare la causa delle varie specie animali nelle stelle, nelle nebulose, nello ambiente infinito di Ardigò, nel caso e simili; siamo un po' più modesti e positivi, e cerchiamola in quella Unità intima che ha fatto le cellule ed i primi viventi, e che sentiamo capace di modificarci e di svilupparci ancora. Questo è il vero Positivismo armonico, pitagorico, Italico. Come la psiche fa la vita interna sana Fa sorridere il vedere Marchesini (nella sua- « Crisi del positivismo » ) stentar tanto a far venir fuori la sensazione dai corpi inorganici e il pensiero dagli animali, mentre Ardigò d'accordo con (1) Non è una divinità inconsapevole, inconscia, che rivolge l'attenzione a determinati scopi al disopra o al disotto degli animali lasciandoli inerti materie, che si muovano senza sapere perchè. Ma sono gli animali stessi che senza aspettare il caso, come la gallina sopralodata, desiderano ed ottengono col perseverare il proprio sviluppo. lo Schelling (nel Voi. IV sul compito della filo- sofia) scriveva che la Materia è una forma del Pensiero: e negli altri Volumi insistè sulla unità del Pensiero con la Materia. Per quanto cerchi di far prevalere nelle dot- trine contradittorie del suo maestro la parte positivista sulla parte schellinghiana panteista, pure egli è costretto a dire, p. 250: «L'Indistinto è « la nebulosa verso il sistema solare, è l' Embrione rispetto all'animale adulto. 253: L'In- « distinto è la realtà unica fondamentale della « Unità e molteplicità della Natura. 254: la realtà «della psiche e della materia insieme. 260: L'or- « dine si spiega per le due leggi dell' Indistinto « e del ritmo. Per l'Indistinto ogni accidentalità « è subordinata all'ordine universale. Per il ritmo « vi è ordine e numero (tautologia). 296: A sostrato « dei due mondi psichico e fisico sta l'Indistinto psi- « cofisico che ne è la ragione esplicativa (mentre « Ardigò diceva che l' Indistinto non si può spie- « gare, perchè spiegare vuol dire distinguere e « questo è l'art. 6 del suo Catechismo). 331: Il « che cosa sia non si rivela che sentendolo e si « risolve nel Divenire che è VEssenza dell'Essere « (frase presa da Hegel). E il divenire è per noi « ed in noi necessariamente sensazione ». Marchesini non ha capito che, se il divenire è sensazione per noi, lo sarà anche per gli animali, le piante, le cellule e le molecole. Quando Ardigò fu accusato di aver preso il suo Indistinto dall'Omogeneo dello Spencer ebbe facile la risposta. — Io non l'ho preso (come Spencer) dalla fisiologia, ma l' ho preso dal ^pensiero filosofico, e poteva aggiungere tedesco. E in- fatti il Panteismo di Schelling ed egli non ha mai negato di averlo preso dalla Germania: fu sempre studioso assai della filosofia tedesca, citò nella Psicologia molti autori tedeschi, per cento pagine, e quando fu accusato di essere Metafìsico, si schermì evasivamente (come diremo nel nostro III Volume). Se prendiamo V Indistinto deìYArdigò non verniciato di Positivismo,. non mascherato dal manto di pontefice dell'Ateismo Italiano, vedremo che è una nebbia panteistica, che (a quanto egli dice) contiene in sé la ragione della differenziazione e della continuità fra i differenziati. Infatti il suo discepolo G. Marchesini sostiene che la gran legge di formazione delle cose è questa: che una linea si suddivida in punti infiniti (pag. 115). Certo la linea è continua e contiene in se i punti. Ed è tutto. Questa è la sua gran spiegazione. Chi non se ne contenta, non ha capito come si sono fatte le piante, le bestie, gli uomini e pretende troppo dall'Ardigoismo. Ora questo Indistinto nebuloso e vago non ha fatto, secondo noi, veramente niente. Tutto era preciso e numerato fin dalle prime nebulose e dall'Etere. Quelle che hanno fatto l'ordine della flora e della fauna sono le Unità viventi, distin- tissime e precisissime della Natura che si fa, che cerca di aumentare la sensazione piacevole e di evitare la dolorosa, formando le più utili funzioni (e con la loro ripetizione, gli organi), della di- gestione, della respirazione, della sanguificazione o Ematosi, dell'assimilazione, della generazione. Per poco che noi penetriamo nella genesi della vita interna, potremo ben convincerci, sulla base dei fatti. Digerire vuol dire scomporre, macerare, idroliz- zare le materie ingerite e poi combinarle con le proprie sostanze. Arthus (Nature des Enzymes, 1896) suppone che i fermenti sieno sostanze non materiali, formate dalla Unità generale dell'organismo. Nei Protozoi comincia a separarsi la funzione digestiva dalla motrice. Nei Celenterati si può già distinguere 1' Entoderma che modificando gli ali- menti accumula energia, dall' Ectoderma che fa tentacoli. Gl'Infusori hanno bocca, faringe e ca- vità digestiva protoplasmica. Ma nei Polizoari YEntoderma diventa un canale alimentare, che si divide in esofago, stomaco ed intestino. Nelle Ascidie il sugo nutriente si separa dalle feci. In principio il fegato, il pancreas, sono semplici cellule escrementizie biliari: poi si riuniscono in sacchetti con piccoli canali ramificati. A misura che l'assimilazione si afferma, vengono segregandosi gli Enzimi o succhi digerenti come nelle Salpe. Le ghiandole segreganti crescono negli Aneh lidi (1), negli Echinodermi, negli Artropodi, e nei Molluschi: questi ultimi hanno un vero fegato. I Crostacei si sono già formato un fegato di cellule peptiche ed epatiche. In tutte le cellule delle ghiandole, che ricevono dalla unità generale dell' organismo la funzione di secernere, si compie un delicato lavoro di scelte feconde, e finiscono alcuni nervettini (i quali provengono negli animali superiori, sia dal gran simpatico, sia dal sistema cerebro-spinale). Meno nella Tenia ed in altri parassiti. Il corpo della Tenia riceve dapertutto gli alimenti, senza farsi un apparato circolatorio, ne digestivo. Tutte le sue cellule si nutrono e respirano. Sono questi nervettini che dirigono la funzione speciale del secernere. E non hanno bisogno di essere animati dallo Inconscio di Schelling e di Hartmann ne dallo Infinito sottonaturale che, se- condo Ardigò, è la causa dell'ordine. Il parenchima (o epitelio ghiandolare) attrae dapprima dal sangue l' acqua ed i principi in essa disciolti: la ghiandola, che era pallida, si ar- rossa, e si riscalda, elaborando sotto l'azione del sentire - desiderare - volere, mediante i nervettini, il suo secreto, traendo dal sangue, che filtra at- traverso ai capillari ed ai tubi porosi, la sostanza specifica. Le ghiandole sono i chimici o farmacisti del collettivismo organico. Il tessuto retico- lare delle ghiandole è privo di fibre. Mettendo della pepsina e dell'acido lattico con- tenuto nel sugo gastrigo in un bicchiere, si può fare una digestione artificiale. Ma non si può nei laboratori chimici far nascere il sugo gastrico. Per farlo è necessaria la sintesi organica, non fatta per accidente ad uso Marchesini, ma per godere la vita. Tutte le secrezioni sono finaliste, tutte si compiono per atto unitario sintetico, così quella del sugo gastrigo, come quella della saliva, della bile, della milza, o dei reni. E una finalità fatta poco alla volta, non venuta giù dall'Indistinto Infinito di Ardigò, provando e riprovando, insistendo sulle sensazioni piacevoli ed evitando quelle che dispiacciono. Per eredità della specie la digestione si fa anche nell'embrione, che non è ancora provvisto di nervi. Negli animali superiori la digestione rende i cibi capaci di essere assorbiti dalla mucosa inte- stinale ed assimilati nel sangue e nei tessuti. Gli animali, mangiando vegetali, ne desumono Carbonio, Azoto, Solfo, Idrogeno, Ossigeno, che sono pronti nelle albumine e nei grassi. Se gii animali dovessero prendersi l'azoto ed il zolfo fuori delle albumine vegetali, morirebbero: perchè essi non possono cavarli dalla terra, ne dall'aria, come fanno le piante. La maggiore vitalità e mobilità ottenuta dagli animali, dipende non già dall'Indistinto della teo- logia germanica o dell'Ardigoismo, ma dalla facilità di alimentarsi mangiando i vegetali, perchè le Unità senzienti formano più presto e più gagliarda la unità organica dell'Animale. Il riassorbimento del chilo nell' intestino, è fatto dalle cellule epiteliali (che tappezzano la parete interna dell'intestino) che assumono il cibo per contrazione attiva, come fanno gli Amebi ed i Rizopodi. Una parte più vitale l'hanno le cellule linfatiche, le quali emigrano dal tessuto adenoide, vanno fra le cellule epiteliali fino alla superficie dell'intestino, per ghermire le gocciole di grasso, e non lasciano passare veleni. Va notato che le sostanze alimentari solubili nell' acqua, non scendono mai dall' intestino al cuore per il condotto toracico, ma per la vena porta e per il fegato (che le assimila prima che entrino nel sangue). Le cellule linfatiche assu- mono sole il peptone disciolto nell'acqua. Le sostanze velenose ingoiate si fermano tutte nella bile. La linfa empie gli interstizi fra i tessuti ed i vasi linfatici ed è un complesso di trasudati non utilizzati, composto di plasma liquido e di corpuscoli, granuli o globuletti bianchi (circa 8.000 per millimetro cubico), e goccie di grasso. Quando ar- rivano nel sangue questi globuletti, diventano globuli bianchi (più grossi), e poi rossi. Nella linfa vi sono già gli elementi chimici del sangue (acqua, siero, albumina, fibrina, grassi, e specialmente 1' acido butirico, cholesterina, glucosio, leucina, urea, sali, carbonati e fosfati). Ma la linfa (che aumenta sempre durante la digestione), si coagula più lentamente del sangue ed è meno alcalina. Contraendosi ritmicamente il cuore, il sangue inturgidisce le arterie formando il polso. I globuli rossi trasfusi in animali di altra specie si combattono e si uccidono a vicenda, non già perchè abbiano una diversa composizione chimica, ina perchè è diversa la loro sintesi, ossia l'impulso loro dato dalla Unità generale organica, il che prova ad un tempo la individualità dei globuli rossi, e la psiche passiva loro imposta dall'Unità generale (1). Le unità dei globuli rossi debbono adunque es- sere formate da elementi morfologici vitalissimi. Sono clorotici coloro, i cui globuli rossi sono piccoli (una metà od un terzo del giusto), hanno cuore piccolo e vasi troppo stretti. — Nelle morti apparenti, il sangue non è morto. Se si fa entrare per due terzi nelle carni un ago pulito, dopo un'ora, se il sangue vive, l'ago si può ritirare an- cora pulito: ma se il sangue è morto, l'ago sarà arrugginito. — L'asfissia uccide i globuli rossi e (1) Va notato che (come provarono Friedental ed altri), il sangue di un uomo si può mescolare senza recare grave danno alla salute col sangue dello scimpanzè e viceversa, mentre non sopporta la mescolanza con altre specie ani- mali, locchè prova una certa consanguineità fra questo troglodite dell'Africa e l'uomo. l'ossido di carbonio uccide la emoglobina del san- gue ed i tessuti. La formazione del cuore non si spiega senza sintesi morfologica dell 1 Unità confrontante perchè nessuna persistenza della forza può formare ventricoli ed orecchiette, arterie e vene contemporaneamente. Ci vogliono figurazioni e moti sintetici mirabilmente accordati in tutta la lenta formazione della specie, che viene accorciata nel feto. Così la formazione del cuore insegna quanto sia falso at- tribuire l'evoluzione alle forze esterne, come fanno il Positivismo e \Ardigoismo. Bisogna penetrare nella intima compagine degli Organismi animali per vedere la sintesi organica nella sua formazione sotto l' impulso del Noumenon e della Volontà. L'assimilazione collettiva non dipende dalle materie che furono mangiate, come si credeva dai naturalisti tedeschi mezzo secolo fa, che scrissero Der Mann ist was er isst, ossia l'uomo è quello che egli mangia. Che una donna mangi fratti o legumi, carne o formaggio, uova o patate, pasticci dolci o erbe condite, le materie albuminoidi di questi alimenti si trasformano nel suo sangue in serina, fibrinogene e globulina, nei suoi muscoli in muscolina, nelle sue mammelle in caseina, nelle sue ossa in osseina, nel tessuto congiuntivo in congiuntina, ed in elastina: tutte sostanze chimiche fra loro differenti. La chi- mica organica ha ornai assicurato queste leggi (dice Gautier). Se la Evoluzione si facesse dal di fuori al di dentro (come pretende Ardigò) non vi sarebbe ne digestione, ne assimilazione. Perchè le stesse albuminoidi, tratte da cibi molto diversi fra loro, si trasformano nelle varie parti del corpo in sostanze chimiche così adatte a sviluppare o il sangue, o i muscoli, o le ghiandole, o le ossa, o il tessuto congiuntivo? forse per le accidentalità del Marchesini? venute non si sa da qual corpo estraneo? forse per l' Infinito causa dell'ordine o per l'Indistinto sottostante ad ogni distinto, il quale non ha altra legge di formazione se non la divisione della linea in parti infinite? Dividere non è fare nuove sostanze chimiche. Dividere e suddividere, distinguere e sotto di- stinguere non è fare da artista morfologo. Dunque bisogna riconoscere che la Unità or- ganica intima, il Noumenon reale, che cerca il piacere e fugge il dolore esercitando le funzioni essenziali del digerire, del far sangue, della assi- milazione, organizza le materie in modo da mantenere e sviluppare il proprio piacere ossia la propria Vita, combina le molecole in guisa da dar loro efficacia, e esercitando la funzione si fa la compagine fisiologica, adatta a lottare contro le dif- ficoltà ed a rendersi indipendente dall'ambiente. Non è dividere e distinguere: è piuttosto co- struire, riunire, combinare, disegnare nuove forme, nuovi sistemi di forze: è unificare, in una paro] a r e quindi godere la varietà nella Unità. La legge della Natura è l'ascesa a più alta Unità e non la divisione e suddivisione di un Indistinto in pezzettini. Per la stessa forza di assimilazione, l'animale trasforma gli idrati di carbonio che mangia in glicogene nel fegato, in glicosi nel chilo e nel sangue, in inosite ed acido lattico nei muscoli, in lat- tina nelle mammelle, in tunicina nella pelle dei Tunicati, sempre sotto la influenza del sistema nervoso, che sente il dolore e il piacere. Lo stesso dicasi dei grassi. Qualsiasi cibo prenda un animale, egli farà (senza aiuto dello Inconscio Indistinto sopra o sotto naturale) nelle cellule adi- pose della pelle butirina ed oleina, nel tessuto cel- lulare del ventre stearina oleina e palmitina; nelle mammelle butirina e margarina; nelle api farà della cera, e via dicendo. Eppure nel chilo, nei gangli del mesentere, vi sono sostanze omogenee: ma questi grassi, quando.sono arrivati nei diversi organi, si differenziano assai, ossia si specificano in sostanze nuove. L'assimilazione non. è una scelta dei materiali portati dal sangue. È piuttosto una metamorfosi operata da ogni cellula, sotto la influenza del si- stema nervoso, ordinato dalla Unità organica del- l'animale, dando origine, col medesimo chilo e con lo stesso sangue a nuove sostanze, le quali nel sangue e nel chilo non esistevano. Anzi l'assimilazione complessiva, sotto la in- fluenza del sistema nervoso, allorché l' animale non riceve più grassi, né principi amilacei, lo rende capace di formarsi le sostanze occorrenti, traendole dai suoi propri albuminoidi, idratandoli, ossidandoli ed arrivando a farsi nella milza la Emoglobina o materia rossa del sangue, la quale pesa il doppio della albumina, ed è assai più complicata delle albuminoidi mangiate. Tra i fattori dell'Ordine secondo VArdigoismo primeggiava dal 1870 in poi l'Indistinto, pallida luna, la cui luce rifletteva il sole dell'Inconscio di Schelling. Degenerando (per la sua intrinseca contraddizione di essere in fondo panteismo germanico e di voler parere ateismo positivista) ha finito col ridurre lo Indistinto ad una astrazione dalla sensazione indifferente tra soggetto ed oggetto, tra spirito e materia, e a renderlo così impotente a fare l'Ordine come da pag. 308 a 312 ci diceva, nel suo tentativo di popolarizzare l'Ardigoismo, il Marchesini (vedi sopra). Restarono così a far l'ordine in generale e Vor- dine biotico in particolare il caso ed il ritmo. Ma il ritmo non è altro che la ripetizione ad intervalli dello stesso moto e non può fare del nuovo, e il caso è antiscientifico. Così VArdigoismo per la sua intrinseca contraddizione ed oscurità e per la sua ostinata trascuranza di studiare la natura vegetale ed animale e le leggi di tutti gli organismi, va isterilendosi in una ontologia e fraseologia d'indistinto, d'infinito, e di casi. Perciò gli scienziati Biologi Italiani che non seguono il Pitagorismo oggi si sono dati alla fi- losofia dell' Inconscio di Schelling e di Hartmann (Die Philosophie des Unbewussten, 2 voi.) altri- menti, per fare codazzo al rispettabile prof. Ardigò, sarebbero stati condotti a dare di ogni or- ganismo una origine del tutto casuale, come quella insegnata dal Marchesini (vedi sopra) (1). Ad ogni modo, se VIndistinto che sta sotto ad ogni distinto è (come credeva VArdigò) un pensiero, ci si dica se questo pensiero che opera sotto, en- tra davvero nélVanimale e lo fa sentire, volere, godere o soffrire. Se sì, allora è inutile l' Inconscio e si viene nel nostro Positivismo Pitagorico bruniano, ossia nella filosofìa Italica. (1) Si legga la splendida Conferenza tenuta nell'Acca- demia dei Lincei dall'illustre fisiologo prof. Giulio Fano di Firenze dinanzi a S. M. il Re nel 1910. Se no, allora l'animale resta un trastullo della divinità. E nello Ardigoismo (che nega la unità intima di ogni organismo) se non si ricorre al- l'Indistinto Inconscio divino, manca ogni principio informatore, e la gallina e l'uomo stesso (compreso il prof. Ardigò) diventano prodotti del caso cieco e sterile. Nel delicatissimo lavorìo che prepara i succhi nutritivi, si manifesta la vita sintetica della Unità organica generale, che determina le funzioni di ciascuna ghiandola. I globuli bianchi sono preparati dal fegato e dalla milza, la quale può dirsi una doppia ghiandola linfatica, sierosa, chiusa, piena di vasi sottili, intrecciati in fitta rete, specialmente nei corpuscoli del Malpighi. Dal fegato, dalla milza, dal chilo, dalla linfa, escono i globuli rossi nuotando nel siero senza imbeversene, contrattili, e si chiamano Ematite, Il plasma in cui le Ematie sono sospese contiene la fibrina (che manca nel siero) e risulta dallo sdoppiamento del fibrinogene. La trama delle Ematie o globuli rossi è fatta da un albuminoide ferruginoso detto Emoglobina, da globulina, lecitina, cholesterina e sali minerali, per assimilazione sintetica senza che intervenga nessun Inconscio Infinito. Di pari passo con la funzione circolatoria procede quella di respirazione, che rinnova ad ogni istante il sangue venoso a contatto con l'ossigeno. La pelle, fatta di tessuto connettivo molle, non contrattile (ossia privo di muscoli) ma indurito all'aria, emette sempre vapore acqueo, gas acido carbonico, ed un po' di azoto, assorbe ossigeno, e fa, negli animali inferiori, quello che nei superiori è affidato alle branchie ed ai polmoni. La funzione respiratoria si svolge lentamente come la digestiva e la circolatoria. Nei Vermi marini le branchie sono foglietti di vasi capillari. Nei Vermi superiori ed in alcuni Crostacei sono a fasci di fili od a pennacchi. Nei Molluschi maggiori e nei Pesci diventano interne, quasi fogli di un libro. 'NegYInsetti le trachee conducono l'aria dapertutto e così anche in alcuni Ragni e negli Uccelli. Negli animali superiori, poi si sono formati quei milioni di alveoli o sacchetti polmonari, fatti di fibre muscolari liscie che nell'uomo presentano all'aria penetrata nei polmoni la superfìcie di una sala (circa 200 metri quadrati) dove il sangue venoso cambia la sua emoglobina in Oxy-emoglobina. Secondo Smith un uomo sdraiato prende un litro di aria nel medesimo tempo in cui un uomo seduto ne piglia 1.18, ed un uomo in piedi 1.33, chi cammina lento 1.90, chi va presto 4, chi corre 7 litri. La funzione respiratoria tra le vitali è quella che si può aumentare e perfezionare con maggiore facilità. In ogni organismo, oltre gli atti vitali, vi sono quelli non vitali. Ogni cellula fa prima le sostanze azotate, poi le non azotate, cioè i corpi grassi, la saccarosi, l'amido, la inosite, il glicogene. Il sangue si depura per atto vitale nei reni, che spremono fuori dal sangue la orina. Ma non è per atto vitale (bensì per forze chi- miche soltanto), che le albuminoidi coli' idratarsi si cambiano in creatina, lisatina, urea ed acido lattico. E per forze chimiche soltanto che la urea fa il carbonato di ammoniaca. — 134 — Il sangue sano contiene mezzo grammo per litro di acido urico che si idrata e si ossida e si elimina nei sani allo stato di urea, di acido os- salico e di acido carbonico. Tutte le perdite di carbonio, che è l'elemento accentratore, si fanno per atti non morfologici, non vitali, non diretti dalla Unità organica generale, appena l'ascesa a più alta unità, ossia al piacere di vivere, si rallenta in qualche parte. Queste perdite avvengono disassimilandosi, idra- tandosi, e facendo i rifiuti da espellere. Le funzioni principali della vita interna sana e specialmente l'assimilatrice sono sempre fatte dalla Psiche poco a poco e diventano abituali, regolari, quanto più sono ripetute di generazione in generazione e quanto più la specie ha imparato a rendersi indipendente dall'ambiente, ed anzi padrona dell'ambiente nel trovare abbondanti cibi, aria ed acqua salubri e nel perfezionare la facoltà di vitalizzare il chilo, la linfa, ed il sangue. CAPITOLO X. Come la Psiche fa le guarigioni. Come le malattie mentali derivano per lo più da disturbi o da irregolarità della convergenza nervosa che fa l'Unità conscia generale, la Per cezione e la Memoria, così le malattie del corpo dipendono spesso da disturbi e da irregolarità nella irrigazione sanguigna. I vasetti capillari sono lunghi nell'uomo 500 volte più delle arterie e delle vene non capillari. Ogni capillare è composto di cellule fusiformi con un nucleo in cui arriva il nervettino vaso- motore. Ogni organo può rendere indipendente dalla circolazione generale la sua particolare. Vi sono due provenienze dei nervettini vasomotori: quelli che dipendono dal gran simpatico, nelle emozioni si restringono e quindi rallentano il corso del sangue; quelli invece che dipendono dal sistema cerebro-spinale, si allargano, accele- rando il corso del sangue. Nell'uomo sano, bene equilibrato, queste due azioni si alternano e si combinano in guisa da mantenere l'armonia fra tutte le funzioni. Nell'uomo immorale si disturbano a vicenda. I delinquenti ed i pazzi sono più o meno inetti a regolare i vasomotori: ora la reazione è scarsa ed ora è eccessiva. La sfiducia e l' inquietudine guastano le ghiandole e l'assimilazione, e quindi anche la ematosi o sanguificazione e il sistema nervoso, ossia le vie per le quali corrono la sensibilità e la volontà. Queste sono prove palmari che gli animali si fanno dal di dentro al di fuori e sono sempre sintetizzati dalla propria unità generale. I sentimenti di fiducia e di bontà sono i migliori per regolare la Ematosi e quindi la nutrizione di tutti i tessuti. La psicogenia fa la somagenia, ossia la psiche fa il corpo. I vasomotori sono i primi ministri della natura che si fa col sentimento. La immoralità ed il vizio si traducono in una natura che si fa morbosa. I capillari venosi, col sangue reso inetto, per avere deposto, nel tessuto che irriga, gli elementi dei quali ha bisogno (1) portano verso le uscite anche i veleni prodotti dalla fatica o ponogeni (dal greco nóvoc, fatica) che sono l'acido lattico ed i leucomani, i quali impediscono di rimanere attivi. La circolazione nutritiva della notte rifa le forze esaurite nel lavoro diurno. I vasi capillari asportano per i reni, per i polmoni e per la pelle i veleni ponogeni. I vasomotori regolano sempre la produzione del calore animale. Si restringono se fa freddo, si dilatano se fa caldo per far sudare e svaporare. Per molte ragioni adunque, guastare i vasomotori è guastare la salute; e la Unità disordinata da desideri immorali e da passioni li guasta. La febbre è fatta dal sistema nervoso del gran simpatico irritando i nervettini vasomotori ed il cuore, e le arterie; alza la temperatura da due a sette gradi sopra la normale, e stanca i muscoli. È una reazione naturale che eccita gli organi ad eliminare le cause di malattia esterne ed interne e specialmente le alterazioni del sangue: perciò questa reazione salutare (a parità di cause) è maggiore nei fanciulli e minore nei vecchi. La reazione salutare è sempre più benefica quanto più vi è fede, speranza e piacere e non avviene o resta debole e fiacca in chi ha sfiducia o paura. Del resto gli animali tengono nella loro milza un serbatoio di fagoceti. La milza fa (oltre ai globuli bianchi e rossi della linfa e del sangue) anche i così detti Lenii) Anche calce e fosfati per darli alle cellule del periosto e per rendere possibile la formazione e lo induri- mento delle ossa, quanto più i muscoli vi si appoggiano. coceti o Fagoceti che sono amebi atti a fare il tes- suto congiuntivo attorno alle ferite ed a guarirle, cacciando via le infezioni. Infatti gli animali privati della milza soffrono di infiammazioni. Nelle infiammazioni essudative i Leucoceti cor- rono verso la parte che trovasi minacciata, come i medici corrono agli ammalati. La infiammazione in generale come la febbre è un processo salutare. Non è un processo fisico chimico, ma è una reazione di queste guardie sanitarie benefiche che si chiamano Fagoceti o Leucoceti. I quali corrono a prendere quella parte dei tessuti che si è guastata per portarla fuori verso le uscite. Nelle malattie acute scendono a milioni a purificare i tessuti, ed agguerriscono il corpo a procedere sicuro tra le insidie dell'ambiente ed a rendersene indipendenti, all'opposto di quanto pretende YArdigoismo. E sono sempre diretti dalla Unità generale dell'organismo e non dall'Inconscio Infinito sopra o sotto naturale. Grazie alla polizia sagace che viene esercitata dai Leucoceti, nelle orine dei malati si trovano leucomani basiche dannosissime. Ma la psiche riesce diffi- cilmente ad impedire il moltiplicarsi dei bacilli. Moltissime malattie sono formate dal moltiplicarsi dei Bacteri e specialmente le contagiose: I microbi anaerobi fanno escrezioni velenose che il prof. Selmi ha chiamate dal greco Ptomaine. Sono malattie ve- nute dall'esterno, che poco dipendono da disturbi della irrigazione sanguigna. Sono regali dell'ambiente, che fanno ammalare e mai guarire. Un'altra causa di gravi morbi è l'eccesso del mangiare e del bere liquori e vini alcoolizzati, che produce una combustione vitale non completa, arrivando a quadruplicare l'acido urico. L'inazione, l'inerzia, produce gli stessi effetti della fatica eccessiva, cioè acido urico, che si depone nelle giunture, perchè l'ossigeno del san- gue stenta molto ad ossidare le cellule organiche. Le malattie per combustione incompleta producono erpeti alla pelle, depositi artritici presso le ossa, guasti epatici ed ingrossamenti del fe- gato, nefriti e litiasi: e cagionano le così dette diatesi braditrofiche, ossia malattie croniche per rallentamento della nutrizione. Poco a poco, col massaggio e la ginnastica, la psiche può libe- rarsene. Tutti conoscono la riparazione dei tessuti che si opera rimarginando le ferite con tessuti nuovi e simili, anche il nervoso. L' uomo può riprodurre il cristallino dell'occhio (se non era stata levata la capsula), può rinsaldare le ossa rotte, e rifarne la parte che manca (se è rimasto il periosto). Gli animali inferiori riparano anche più presto. Tagliando la zampa ad un Tritone, i Leucoceti gli fanno un tessuto embrionale con vasi e pelle. Tagliandogli la coda può rifare le cellule grigie del midollo, i gangli nervosi ed i muscoli. Se una impressione morbosa ha cagionato una negmasia che ostruisca i vasi dei tessuti, si fa una neomembrana, detta Essudato, in cui si or- ganizzano nuovi vasetti capillari, che riassorbono il male, per espellerlo nel torrente della circola- zione. Se l'Essudato è soverchio, e non può essere -assorbito, si liquefa, si cambia in pus, e va verso le cavità sierose o verso la pelle. Se un corpo straniero è penetrato nell' organismo, provoca una acuta negmasia, con suppurazione per espellerlo; se poi il corpo estraneo è penetrato nelle parti profonde, dalle quali non si può mandarlo via, viene circondato da vasetti capillari nuovi, che formano una membrana di rivestimento o cisto, isolandolo per proteggere i tessuti. Anche nei tumori del fegato formati da entozoari, avviene lo incistimento con membrane apposite. I tumori fibrosi dell' utero si empiono di concrezioni calcari che loro impediscono di cre- scere. I flemmoni acuti della fossa iliaca dell'ovario e degli annessi dell' utero vanno nella vescica e negli intestini, cercando l'uscita. Se un'arteria o una vena si chiude, si organizza una vascolarità collaterale. Se entrano a piccole dosi delle sostanze vele- nose, la Unità organica fa poco a poco i contraveleni. L'animale vaccinato con le antitossine, diventa immune, anche con dosi di un cinquemilionesimo di grammo (1). (1) Due o tre secoli fa quando moltissimi contadini inglesi andarono a lavorare nelle fabbriche, la tisi fece strage. Nel secolo decimonono i loro organismi in poche generazioni divennero resistenti ed oggi la mortalità per tisi è inferiore in Inghilterra a quella di ogni altro paese, perchè, come dimostrò il prof. Sanarelli della Università di Bologna, gli organismi (quando se ne lasci il tempo oc- corrente) tendono ad immunizzarsi. Così nelle Pelli Eosse e fra i Negri, i germi della tisi portati dagli Europei fecero morire a centinaia, perchè i loro organismi non erano abituati a lottare ed a vincere i bacilli di Koch. Tra gli emigranti Italiani che andarono a stare nelle città industriose dell'America soccombettero alla tisi quelli che provenivano da provincie Abruzzesi, Calabresi dove la tisi è rara, mentre quelli venuti dalla Lombardia o dalla Liguria dove è frequente hanno resi- stito assai meglio.Le malattie croniche sono per lo più cattive abitudini della natura che si faceva, ossia meccanismi formati da errori e trascuranza dell'Unità di coscienza. Creighton (Inconscious Memory in di- sease, 1886, London) attribuisce alle cattive abitu- dini dei tessuti certi moti riflessi patologici, ed a quelle dei tessuti certe febbri persistenti, certe affezioni cutanee ed anche catarri cronici. Quando la legge sociale morbosa si è radicata, si forma una diatesi, che viene ereditata. Ma l'esercizio muscolare e il sudore guariscono un po' alla volta anche queste, e la Unità generale invita l'animale a far moto celere per sudare. Il sudore (che traspira per la secrezione dell'acido lattico, dovuta all'aumento della innervazione e della circolazione, al riscaldarsi del sangue che corre verso la pelle per raffreddarsi) è il caccia- mali per eccellenza, portando via ogni acidità e lasciando l'organismo alcalino e sano. Quante guarigioni ha fatto il sudore! Il maggior vantaggio dell'esercizio muscolare (sia fatto per lavoro professionale, o sia fatto per sport), sta nell' accelerare la circolazione sanguigna, e quindi lo scambio dei materiali inetti coi vitali, giacche in un muscolo che lavora passa 9 volte più sangue che in un muscolo che riposa, mentre si rende più. facile la innervazione e la dilatazione dei vasi. E siccome l'esercizio muscolare è sempre re- golato dalla coscienza dell'individuo, ognuno ha il mezzo più sicuro per guarire dai suoi mali. Il movimento non è necessario solamente al- l'apparato circolatorio, respiratorio e al digestivo; ma a tutti gli altri apparati semplici e locali. Lo stato liscio delle cartilagini, la secrezione regolare del liquido sinoviale, la flessibilità dei ligamenti, tutte le condizioni anatomiche, indi- spensabili al funzionare di un'articolazione, spariscono man mano che si sta fermi, arrivando ad ossificare le fibre dei ligamenti, a fare delle ossa vicine un solo osso; mentre chi molto si muove conserva benissimo le giunture e moltiplica le fibre ligamentose. I muscoli stessi che, nella inazione si ritraggono, e perdono ogni elasticità, l'acquistano a misura che vengono esercitati. Però va notato che il moto non è mai un tocca e sana, un rimedio istantaneo, e produce le sue modificazioni salutari soltanto un po' per giorno, sicché tardano per settimane e per mesi a manifestarsi pienamente, dovendosi colla nostra natura che si fa, formare una natura fatta, cioè un meccanismo che vada poi da se solo, salubremente, regolarmente. Un poeta inglese disse: Mentre sei nella tua casa di carne muoviti; ci sarà tempo di riposare poi nella casa di creta. Gli Inglesi se lo ripetono e nella età matura non poltriscono, ma accrescono gli esercizi. Il football da ottobre ad aprile è frequentato assai in tutti i prati che rompono la monotonia dei sobborghi di Londra. Si corre, si salta, si danno pugni non solo i diritti ma anche gli storpi. E in pari tempo si con- serva la tranquillità dell'animo, la fiducia e l'al- legria. In America, Mistress Mary Eddy Baker ha fondato una religione che chiamò « Christian Scientism », ha i suoi templi in Boston ed altre città e diffonde la fiducia nella salute; guarisce anche realmente molti mali e mantiene migliaia — 142 — di Ladies Cureers (1). A questo proposito non è inutile di ricordare che in tutte le religioni si sono curate le malattie con la fiducia e che a Cachemire, nella moschea maggiore, si conser- vano tre peli della barba di Maometto i quali ogni anno fanno delle cure mirabili. E chi se ne potrà meravigliare, se pensa che in tutti gli atomi e specialmente in quelli che appartengono ad un organismo, nel quale hanno accomunato il sentire ed il volere per un certo tempo, vi è un unanime accordo nelVassurgere a vita più intensa e ad unità più alta? Accordo delle Unità molecolari cellulari ben inteso, senza che venga giù dal Cielo Infinito di Ardigò, dalla sotto natura o dalla sopra natura, alcuna di quelle cause alle quali VArdigoismo attribuisce l'ordine. Si promuove la guarigione col crederci e col volerla. Spesso gli organismi inferiori che parevano morti, ma dei quali non si era guastata la morfologia, risorgono (come lo descrisse fin dal 1860 il Pouchet nelle sue « Récherches et expériences sur les animaux résuscitants » ). Egli fece risusci- tare fino a dieci volte dei Rotiferi disseccati col tornare a bagnarli. E così pure fece rivivere degli Ostracodi e dei Radiati, delle ova di Apus, e delle Anguillide. Gli atomi di ossigeno, di idrogeno, di carbonio, e d'azoto, si elevano nella mor- (1) Educate nel « Theological Metaphysical and Psychological College » di Boston. Il Finot nella sua Revue disse che la volontà ha sopra l'organismo la potenza di ringiovanirlo, guarirlo, raffor- zarlo. E consiglia di svolgere tutte le forze con fiducia ottimista, preparandosi robusta salute e vita lunga. fologia cellulare che trovano, rifacendo la Unità generale degli animali che sembravano rigidi. Perfino dei Vertebrati offrirono non dubbi esempi di risurrezione. Certe Rane chiuse da secoli fra le roccie appena ebbero l'aria si mossero. Certi Pesci agghiacciati dai crudi inverni, quando ri- sentivano l'aria e l'acqua tepida, poco a poco ricominciavano lo scambio col mondo esterno e ritornavano sani. Qui non ci entra affatto l'Ipnotismo. Gli organismi si sono fatti un po' alla volta per il piacere; e se la morfologia non è guastata, appena il piacere ridiventa possibile {perchè ritorna la umidità od il calore che mancavano)y ritorna la vita. Sopratutto nelle malattie che dipendono da stasi sanguigne e in molte altre, la Psiche guarisce agevolmente. In quanti sono i morbi che affliggono l'uomo poi, i bravi medici cercano sempre di inspirare fiducia e coraggio, ben conoscendo che questi hanno maggiore efficacia della Farmacopea. Non mancheremo, terminando questi cenni sulla guarigione, di osservare che la Natura che si fa per guarire, non è solamente la Unità generale dell'organismo; ma che vi concorrono le Unità dei singoli organi, essendo tutti intenti, anche quelli della psiche passiva diventata meccanismo, a conservare e ristabilire la salute. Come la Psiche fa il Sistema Nervoso. Le due funzioni del sentire e del muoversi, quando furono ripetute, depositano nelle vie per- corse delle sostanze più instabili, che sono deli- catissime e dalle quali si formano i nervi e servono col semplice rivolgersi delle loro molecole, a tra- smettere sensazioni e volontà. Il sistema nervoso è assai rudimentale nei Celenterati, nei Polipi e Acalefi, come le Meduse, nelle Pholades (molluschi inferiori). Diventa visibile nei Vermi inferiori, e cresce bene nei Crostacei, nei Ragni e negl' Insetti, con- centrandosi in fili bianchi formati da molti fasci e formando dei gangli o gruppi. I gangli si avvicinano specialmente nel torace e nella testa. Nei Molluschi Cefalopodi i gangli si accostano tanto da formare una sola massa attraversata dallo eso- fago. Negli Scorpioni vi è quasi un piccolo cervello in due lobi, poco separato dal grosso ganglio del petto. Le larve degli Insetti sembrano Vermi, e con- servano come i Vermi la catena dei gangli: ma nella metamorfosi il sistema nervoso si concentra in una massa, tripartita in testa, torace ed addome. I Tunicati e YAmphioxus sviluppano meglio il sistema dorsale ed il cervello; e nei Pesci inferiori questo si divide in midollo allungato o cervelletto, cervello medio (di lobi ottici e tubercolari) e cervello anteriore, in due emisferi, che ingrandiscono poi nei Vertebrati superiori. Sotto queste cinque forme (la diffusa dei Protozoari, la disseminata dei Radiati inferiori, la ra- diata delle Meduse e degli Echinodermi, la bilaterale ventrale dei Vermi, degli Artropodi e di alcuni Molluschi e la mediana dorsale dei Tunicati e dei Vertebrati), la composizione della sostanza nervosa si perfeziona gradualmente e arriva nei Primati e nell' Uomo ad avere molta lecitina, che è la sostanza la più instabile e la più adatta a ricevere impressioni. I fili nervosi fanno cilindrassi, chiusi in fo- dere di Keratina e dal neurilemma. Della sostanza nervosa tre quarti sono acqua, il quarto che resta solido è per metà di albumina e gelatina, e per l'altra metà di lecitina, cholesterina, e di altre sostanze grasse e di fosfati. I fosfati predominano nelle cellule grigie, che stanno alla fine di ogni nervo sensibile ed al principio di ogni nervo motore, ed hanno l'ufficio di ricevimento o di trasmissione dei dispacci. Nelle cellule grigie quasi nove decimi è acqua,, il 12 °/ è solido. La sostanza bianca che arriva nei gangli e nel cervello non ha che il cilindrasse e la myelina, senza fodere; è acida, con poca lecitina. La lecitina si compone di molto carbonio, ed ossigeno, con qualche grasso, con neurina ed acidi fosforici. La convergenza che fa sorgere la Unità intima generale dell'organismo va sempre a finire nelle cellule grigie. La Natura che si fa, col ripetere i moti, li fa andare con crescente facilità, finche di- ventano moti riflessi, ossia Natura fatta. Nell'uomo il centro moderatore degli atti riflessi della spina dorsale sta nel cervello, dietro ai tubercoli quadrigemini. Vi sono nel cervello molti altri riflessi, grazie ai quali vengono imparati i mestieri e si arriva a parlare presto. Tutti gli atti riflessi si compiono senza V imagine} e non vengono impediti dal cloroformio (1), mentre gli atti volontari non solo, ma anche gli abituali, e quindi di psiche passiva, ma recente, in- dividuale, non ereditata (come lo scrivere, il nuotare, la scherma, ecc.), esigono V imagine e sono arrestati dal cloroformio. — Nella scherma si fanno per abitudine istintivamente delle celerissime parate opportune che, pensandoci avrebbero voluto dieci volte più tempo, e queste, come i mestieri imparati da lungo tempo da operai provetti, sono impossibili sotto l'azione del cloroformio. Ma i veri atti riflessi ereditari non soffrono per il cloroformio (2) e predominano in tutta l' infanzia e l'adolescenza ed anche negli adulti nelle funzioni interne, quali sono il deglutire, i moti peristaltici degli intestini, l'animazione dei globuli rossi, il ritmo della respirazione, la contra- zione dei muscoli, la defecazione, il parto, la regolazione del corso del sangue che fanno i minutissimi nervettini vasomotori. (1) L'imperatore Commodo dava nel circo al popolo Romano lo spettacolo di parecchi struzzi che, presa la corsa, erano decapitati col lanciare frecce a falce al loro collo: essi compivano gli altri tre quarti della corsa nell'anfiteatro, per puri atti riflessi della loro spina dorsale. (2) Gli anestesici, cioè gli Eteri ed il Cloroformio, sono volatili ed il loro effetto è passeggero. — I nervi motori si avvelenano col curaro, i sensibili colla stricnina, e questi, essendo contripeti, basta avvelenarne uno per ucci- dere l'animale. I muscoli si avvelenano col cianuro di potassio. Nei moti riflessi abbiamo la prova evidente che il Conscio fa l'Inconscio. Questi moti riflessi sono stati una volta imparati dalla psiche attiva dei genitori, giacche l'In- conscio non può fare mai il Conscio. Ex nihilo nihil. E dalla unità generale di coscienza dell'or- ganismo animale deriva la combinazione di tutti gli scopi assunti nella evoluzione, che esprimono lunghe serie di atti compiuti per godere la vita, e deriva pure la prevalenza nell'uomo dei nervi sensibili sui nervi motori (1). La maggior parte dei moti riflessi dipende dal sistema del gran simpatico, che va dal midollo allungato al petto ed al ventre ed a tutte le ghiandole. Dipende pure in parte dal medio simpatico detto anche nervo vago, o pneumogastrico, che regola i moti del cuore. Il midollo allungato o bulbo, regola la respirazione, la deglutizione, e la voce (nodo vitale). Il nervo splanchico può inibire l'intestino tenue. Il moto del cuore e quello degl' intestini è fatto dai gangli delle loro pareti. Gli altri moti riflessi dipendono dal si- stema rachidiano della spina dorsale, in cui, in- trecciandosi i due sistemi nervosi (del cerebro e del gran simpatico), vi sono quattro colonne: due dei nervi sensibili e due dei nervi motori. Anche le cellule grigie sono doppie. (1) Sherrington mostrò nel 1906 (The integrative action of the nervous system. New York) che i riflessi maggiori sono composti di riflessi semplici e successivi, sopra una serie combinata di archi riflessi, divisi ciascuno in metà efferente e metà afferente; ossia partendo dalle cellule grigie ed andando al muscolo o alla ghiandola. Il nervo conduttore è fatto di neuroni che si toccano, ma non sono mai continui.  Nel cervello la sostanza grigia trovasi alla periferia, sotto la corteccia nelle circonvoluzioni e supera la metà, e la bianca con poca grigia sta nel centro; ma nel midollo la disposizione è in gran parte contraria, ossia la bianca sta alla periferia e la grigia nel centro. Però questa si con- tinua nella grigia del cervello fino allo strato ot- tico e al corpo striato, dove si agglomera nel mezzo del cervello. Le cellule grigie sono moltipolari, ossia hanno molti poli o prolungamenti e sono alcaline. Quando una sensazione colpisce una cellula grigia, segue l'assimilazione nuova. Il nervo in riposo è alcalino: lavorando diventa acido e le sue sostanze più vitali cominciando a guastarsi, fanno la cholesterina. Alla filosofìa importa molto la distinzione fra la Natura che si fa ed i moti riflessi, e tra la scomposizione e la ricomposizione delle cellule grigie. Herzen credeva che si avesse coscienza quando le cellule grigie si disintegrano; ma appena si di- sintegrano la convergenza nervosa che fa la co- scienza le reintegra, con una nuova figurazione. Allora alla negazione di ciò che sembrava male fondato, ossia alla imagine difettosa, succede l'af- fermazione di quello che dall'animale o dall'uomo è ritenuto vero, utile o bello, una imagine cor- retta o nuova. Per sistemare il nuovo, occorre prima disgregare la formazione erronea. Ritorneremo a parlare della Natura che si fa sotto quattro nuovi diversi aspetti nel Cap. XII sui Muscoli, nel Cap. XIII sulla Psiche generatrice, nel XIV sul Sentimento e nel XV sulla Volontà. Insistiamo sopra questi rapporti, perchè la Natura che si fa è conscia: mentre la Natura fatta è necessitata e va come un meccanismo, come quegli struzzi privati della testa, che l'Imperatore Commodo dava in ispettacolo ai Romani. (Vedi sopra, la noterella pag. 146). Come il midollo spinale ha quattro colonne, due dei nervi sensibili e due dei nervi motori, così il cervello ha quattro parti, di cui le due anteriori piò. alte giudicano e muovono in quei centri che il prof. Flechsig chiamò i quattro centri spirituali; dopo che le due posteriori e più basse hanno sentito in quei centri che lo stesso fisiologo ha chiamati i cinque centri sensitivi. La massa delle cellule grigie nel cervello alto è distribuita intorno sotto le meningi in 9 strati doppi sottili. Ha circa mezzo miliardo di cellule, ciascuna delle quali mediante 4 fili comunica con le vicine e con la sostanza bianca e grigia, che sta al centro del cervello. I cervelli sono magazzini d'imagini che con- servano nelle cellule grigie le più minute divi- sioni dello spazio e del tempo di quello che si è veduto, toccato ed udito. La convergenza dei nervi per l'attenzione, si porta appunto sopra quelle cellule grigie, dove si fa la percezione o che dopo fatta questa, in- teressano per ravvivare nella memoria alcune determinate imagini. II punto focale della convergenza generale è la vera Unità dell'organismo, e fa l' Io che gode, soffre e pensa: e al di là, subito al di là di questo punto focale, una minutissima divergenza delle stesse linee arrivate colla Convergenza, lascia sul piano delle cellule grigie l'imagine di quello che si è percepito e che si può in seguito rammentare, ritornando a convergervi le forze. Io. Il punto focale della convergenza adunque è mobile, si forma a seconda dei bisogni di questa o di quella parte. Le cellule grigie dove si riuniscono le imagini fatte nel cervello basso o strato ottico, stanno negli strati corticali interni, mentre nei seguenti, fino alle meningi le cellule grigie diventano sempre più piccole e contengono probabilmente gli estratti dei simboli delle imagini. Quando si pensa le cellule grigie cerebrali si consumano e si rinnovano cinque volte più presto di quando non si pensa. Quando si fanno le percezioni o le astrazioni o si correggono gli errori, si fanno nuove forme nelle cellule grigie corticali. Mentre quando non si pensa, il rinnovamento delle cellule grigie av- viene poco a poco per semplice nutrizione e scambio di materiali, senza cambiare le forme delle impressioni ricevute o dei segni astratti, i quali ultimi però rimangono sempre in stretta relazione con le imagini materiali, ossia con le minime suddivisioni dello spazio e del tempo delle cose vedute, toccate ed udite, ecc. Meno precise sono le imagini prodotte dai sensi dell'odorato e del palato, anzi non sono imagini, ma reazioni sentite pensando ai cibi e ai fiori o ad altre cose odorate. Precisissime sono invece quelle del senso muscolare, che sono sempre collegate con quelle delle cose vedute, toccate od udite. La Energia pensante ha le stesse origini della Energia fisiologica e chimica e risulta dalla Convergenza che percepisce, ricorda, rammenta o combina le imagini confrontando e giudicando. Dunque il Pensiero è un lavoro che distrugge la sostanza nervosa più delicata, come il lavoro dei muscoli consuma gli zuccheri ed i grassi che sono nascosti nella carne contrattile. Il Pensiero ha il suo equivalente meccanico, ma è impossibile sta- bilire quanto sia, per la difficoltà dell'esperimento. Il cervello anteriore regola le correnti nervose di tutto il corpo. Il cervelletto regola il senso muscolare ed il tatto, ed un poco anche l'udito, e ne partono i cordoni posteriori del midollo. Per agire il cervello abbisogna di sangue arte- rioso e ci arriva da due parti. Quella meringe che avvolge gli strati corticali ed è chiamata la pia madre, riceve un gruppo di arterie per il cervello alto, ed un altro per il cervello basso e posteriore. La rete chiamata nevroglie, sotto le meningi, protegge i nove strati doppi di cellule grigie, del cervello alto, i cui vasetti capillari venosi portano via i solfati ed i fosfati consumati nel pensare. Se si arresta la irrorazione arteriosa del cervello, avvengono svenimenti, sincopi, vertigini o colpi apopletici. Se la normale contrazione dei vasetti capillari, per causa di qualsiasi sentimento, cessa ad un tratto, si dilatano le arterie della faccia umana, che arrossisce. Basteranno questi pochi cenni, per intendere quanto diremo sul Pensiero nel Volume Secondo «L'Uomo secondo Pitagora». Il cervello umano pesa un solo quarantesimo del corpo, ma riceve un sesto del nostro sangue per le due arterie carotidi e le due vertebrali. Il cervello sta al peso del corpo come 1 a 5600 nei Pesci (che sono i più stupidi fra i Vertebrati), come 1 a 1300 nei Rettili, come 1 a 212 negli Uccelli, come 1 a 186 nei Mammiferi; numeri soltanto approssimativi e presi in termine medio fra le varie specie di ogni ordine. Un cavallo che pesa come sette uomini ha due libbre di cervello. Un uomo ne ha quattro libbre. Dunque, relativamente, l'uomo ha quattordici volte più cervello e più pensiero del cavallo. Come la Psiche fa il Sistema Muscolare Nei precedenti Capitoli abbiamo veduto il progresso graduale mirabile della Natura che si fa. In questo vedremo come ordina i moti. La Volontà si manifesta senza aver ancora al- cun organo negli amebi e nei nostri globuli bianchi, il cui protoplasma contrattile si compone di albumina coagulabile e di sostanze proteiche non solubili. Il protoplasma contrattile degli Embrioni degli animali inferiori vi somiglia assai. Tutti i muscoli cominciano nel feto allo stato di sarcodi amorfi: i nervi li fanno diventar muscoli. Il primo muscolo a formarsi, e V ultimo a morire, è quello che governa la circolazione del san- gue e non si arresta mai: è il cuore. Al momento in cui dal sarcode si sviluppa in un uccello il muscolo che pulsa (fra le ore 26 e 30 dalla incubazione della gallina), i suoi movimenti sono rari e poco percettibili. Poco a poco si ac- celerano e si pronunciano: ed allora si formano i vasi, pei quali si caccia il sangue (arterie) e quelli per cui ritorna (vene) ed un'area vascolare provvisoria, una vescicola che si allunga in ventricolo di sopra e in orecchietta di sotto: diventa un cuore di pesce. Poi si contorce, mentre il ventricolo va sotto, la orecchietta va sopra e diventa cuore di rettile con tre cavità. Finalmente fa la quarta ca- vità e si completa come cuore di uccello o di mammifero. Come avviene la contrazione dei muscoli? Avviene grazie a molecole di protoplasma assai grosse, chiamate sarcous, che mutano forma con grande facilità, essendo molto eccitabili e gonfiandosi col prendere il liquido ad esse vicino. Naturalmente nel gonfiarsi si avvicinano e costringono così le fibrille intrapposte a contrarsi, come ha dimostrato il prof. Arndt (Psychiatrie). Il sangue porta continuamente ai muscoli car- bonio, sotto forma di grassi e di zuccheri (che sono ambedue ossidi di carbonio). Il muscolo contraendosi non consuma la propria sostanza, ma si bruciano questi materiali portati dal sangue arterioso; anzitutto i ternari o idrocarbonati, cioè i grassi ed i zuccheri; e poi in grado minore i quaternari cioè gli azotati (1). E la combustione non avviene (1) I prodotti della combustione completa dei ternari sono l'acido carbonico e l'acqua, e il prodotto della combustione completa dei quaternari è l'urea. Ma se la combustione fu incompleta, il prodotto dei ternari è l'acido lattico, e quello dei quaternari o azotati è l'acido urico, la creatina e la creatinina, cause di grassezza, di artrite, di gotta, di renella, di calcoli orinari e di nefrite. se non allora che la Volontà fa contrarre i muscoli gonfiando i sarcous. Il gonfiamento dei piccoli in- visibili sarcous produce quello dei muscoli visibili. Dunque la Psiche, che ha fatto i muscoli, è quella che li fa contrarre. La combustione dei grassi e zuccheri è la principale sorgente del calore animale. La contrazione è atto vitale psichico della Unità intima volente, esercitata nella syntonina di cui fanno parte i sarcous. Invece la elasticità, per cui le fibre muscolari ritornano ad allungarsi dopo che erano contratte, è una proprietà fìsica della fodera delle fibre muscolari detta sarcolemma. L' Unità intima col ripetere i moti, li fa diventare abituali ed atti riflessi. Il plasma muscolare dei sarcous, detto myosina o syntonina, che sta fra le fibre, si coagula come il sangue. I muscoli viventi sono elastici, mentre i morti sono rigidi. Un muscolo affaticato non si contrae più. Ma se la Volontà è forte, ed esercitata, bastano 2 minuti per riattivare tutti i muscoli. I boxers inglesi ogni 3 minuti di lotta ne prendono 2 di riposo e così continuano per parecchie ore. Ogni 3 minuti l' Unità intima raccoglie la sua energia per tornare a gonfiare i sarcous. II sistema muscolare è una batteria di archi intrecciati; ma chi lancia la freccia è la Volontà, forza unitaria più delicata. Due uomini della stessa musculatura, lavorano molto diversamente, secondo la loro volontà. La differenza può andare dall'uno al dieci. Quando i nervi eccitano i muscoli a contrarsi, il sangue ci corre per avidità dell' influsso nervoso — 155 — dal quale furono fatti, essendo il sistema muscolare una continuazione dei nervi motori. E va notato che lo stesso nervo motore può contrarre il muscolo e può anche inibire il movimento, secondo che comanda la Unità intima, per il bene del Collet- tivismo organico. Il nervo motore comincia a deperire nella cel- lula grigia cerebrale, perchè la volontà è centri- fuga; mentre i nervi sensibili cominciano e deperiscono a partire dalla periferia, essendo emissari del cervello, che devono prendere le impressioni dell'ambiente. Perciò le sensazioni si diffondono; mentre il nervo motore muove un solo muscolo. I muscoli sono un po' innervati continuamente, quanto maggiore è la Energia della Natura che si fa; e sono quindi elastici, perchè gli estensori ed i Settori si equilibrano. Marey dice che, se i muscoli non fossero elastici, dovrebbero fare un lavoro decuplo, con un risultato ridotto al decimo. La loro elasticità si può far crescere con la Volontà e con l'esercizio, fino al punto da eseguire facilmente quei lavori di equilibrismo, di acrobatismo, di ballo o di operazioni manuali difficili in alcune professioni, che si ammirano. La Natura fatta della Volontà si può vedere sui corpi delle persone addestrate da lungo tempo alle ginnastiche: ed è un complesso di vasomotori, di nervettini del senso muscolare, di arterie, di vene, di muscoli collegati, che permettono di fare con prontezza movimenti impossibili a chi non è esperto, sempre diretti dalla Unità intima Volente. Quando danno spettacolo di sé le ballerine, gli atleti, gli acrobati, gli equilibristi, questa Natura fatta è già divenuta un Meccanismo. Allora i pròtagonisti, stanno attenti con la Natura che si fa soltanto alle nuove circostanze che si presentano nei loro compagni o nel pubblico. (Vedi Zucca, Acrobatica ed atletica, 1902). I corpi di essi sono continuamente addestrati ad innervare le spalle, i fianchi, le braccia, le gambe ed il ventre: e sono incomparabilmente più elastici di quelli di chi fa vita sedentaria. I muscoli hanno dei nervettini sensibili nelle loro fibre, che danno il senso muscolare, col quale noi proporzioniamo tutto quello che facciamo. Le isteriche anestesiche possono fare dei lavori di ago e di ricamo delicati, con la sola sensibilità muscolare. Il senso muscolare è il primo ministro della Volontà. Fra i muscoli bisogna distinguere quelli a fibre striate da quelli a fibre liscie. Le fibre liscie (lunghe cellule nucleate) stanno nell'uretere, nella vescica, nelle ghiandole, nello stomaco, nell'intestino, sempre alcaline e si con- traggono ad ogni improvvisa emozione, avendo nervetti vasomotori assai delicati che vengono dal gran simpatico, per atti riflessi. Dipendono dal gran simpatico anche i muscoli che fanno rigettare gli alimenti dannosi (contraendo l'addome ed il diafragma più dello stomaco). I più utili ad esercitarsi per sviluppare la salute sono i muscoli psoailiaci del retro venfre, vicini alla colonna dorsale, che sono i più ricchi di arterie, ed i più prossimi agi' intestini. Piacere e dolore crescono con le fibre striate. I più dipendenti dal^ cervello sono quelli della laringe. E evidente la Natura numerica della Unità in- tima quando cantano Uccelli, Scimmie ed Uomini, perchè, senza una interna ed elevata capacità di proporzionare la lunghezza delle corde vocali, rie- sce impossibile di emettere i suoni voluti. A tal uopo la struttura fatta dalla Volontà di cantare deve essere diventata un Meccanismo. Nell'uomo la laringe ha due corde che fanno le note basse, vi- brando in tutta la loro lunghezza. La glottide le ravvicina per farne vibrare una parte soltanto, a misura che il suono si vuol fare più acuto. Finite le note di petto, la sola parte che vibra dà un falsetto, perchè manca l'aria. Per fare le note gravi la faringe si contrae, la epiglottide si alza. Un tenore, un baritono, un basso profondo, un soprano, col muscolo tiroide (se hanno una Natura fatta esercitata) possono, senza preamboli, emettere quella Nota che desiderano. Basterebbe osservare questa facoltà di proporzionare i movimenti muscolari ed emettere le varie Note per far diventare pitagorico chiunque vi rifletta. Abbiamo indicato alcuni fatti della fisiologia utili a dar fondamento alla filosofia della vita. Il Pitagorismo esclude l'indeterminato e vuole che tutto sia definito se è possibile matematicamente, giacche la matematica è l'ossatura delle forze fìsiche, chimiche e biotiche come disse il Galilei. In fisiologia questa ossatura è determinata dalla Natura che si fa della Unità organica distinta e precisa, che numera col numero reale (e non col concettuale) intenta ad esercitare le funzioni es- senziali: digerire, respirare, sanguifìcare. assimilare e generare, attenta a cercare il piacere e fuggire il dolore, bramosa di ascendere a più alta unità e di affermarsi. Più che in tutti gli altri muscoli, in quelli della laringe, i nervi nel farli, nell' intrecciarli, nell'educarli, misurano col Numero reale. Della Parola diremo nel Yol. II. La Psiche generatrice Vedemmo ette gli organismi sono associazioni collettivismi di cellule, formati sentendo, desi- derando e volendo. Fra il sentire e il volere, vi è di mezzo non già il Concetto Hegeliano, ne lo Indistinto Ardigojano, ma una figurazione dell'atto necessario per svilupparsi. Ripetendo quell'atto, la Natura che si fa lo cambia in Natura fatta poco a poco. All'individuo bastano pochi giorni per fare un'abitudine: alla specie abbisognano molte generazioni. Le abitudini di due o tre generazioni non divengono Natura fatta della specie, ma quelle conti- nuate da molte generazioni rendono durevole la modificazione. Nel Oap. sul sistema nervoso abbiamo distinto gli atti riflessi che sono di natura fatta individuale o di poche generazioni, da quelli di molte generazioni, che si compiono senza avere la imagine e non vengono impediti dal cloroformio. Le parti più antiche, cioè i tessuti epiteliali, sono quelle che resistono più di tutte agli anestesici. 1 muscoli resistono meno assai dei tessuti epiteliali, ma continuano ad essere irritabili se non sopravvengono gravi guasti nell'organismo generale. Meno dei muscoli resistono gl'intestini, le ghiandole, il senso nutritivo, il senso respiratorio, il senso erotico. Invece la sensibilità conscia è subito abolita, appena vengono somministrati Etere o Cloroformio. Gli atti della sensibilità conscia progrediscono poco a poco e sono essi che fanno i piccoli perfezionamenti degli organi digestivi, dei respiratori, della circolazione, delle secrezioni, della sen- sazione e della locomozione clie vanno complicando e perfezionando gli organismi, facendoli passare dallo stato di Protozoari a quello di Animali più evoluti. La Natura fatta acquisita è una consuetudiner una legge, un esercito addestrato in modo diverso e proprio di ciascuna specie, in cui si riflettono tutte le sensazioni, tutte le volizioni, tutti i coefficienti del passato: cosicché ogni dettaglio nelle forme e nelle funzioni di un animale, ha avuto la sua causa intima. Questa legge di evoluzione si riproduce rac- corciata nel seme, nell'embrione, nel suo modo di crescere e di fruttificare — il che si esprime dicendo che la filogenia (origine della specie) si ricapitola nella ontogenia (origine dell'individuo). Quindi bisogna precisare che non è una memoria, come la chiamano molti naturalisti poco filosofi, quella che fa uscire dal seme l'una o l'altra pianta, e dal seme di un animale l'uno o l'altro tipo zoologico. Non è una Memoria,, ma è una Legge, una forma di moto, una psiche obbediente, passiva, inconscia nel suo complesso. Da molte uova di pesci e di uccelli di specie diversa, escono pesci ed uccelli assai diversi. Da spermatozoidi e da ovuli di Rettili, di Quadrupedi, di Primati, di Uomini, escono Vertebrati assai differenti, senza che la psiche sociale inconscia, nel ricapitolare la lunga evoluzione della specie,. mostri mai una libertà di volere, un qualsiasi arbitrio. Tutto va meccanicamente, necessariamente; ed anche le mostruosità, le forme terato- logiche hanno sempre cause straordinarie di di- sordine. I moti una volta imparati vanno senza imagine, sono ornai voluti fortemente, organizzati, diventati meccanici: camminando non pensiamo al moto delle gambe. Non si può chiamare Memoria se non quella dell'Individuo, al quale ricorda le sue percezioni, i suoi atti. Non si può avere Memoria senza possedere il sistema nervoso e specialmente la so- stanza grigia, in cui deporre e conservare le inda- gini. Hering professore a Vienna è stato il primo a chiamare erroneamente Memoria questa Legge o statuto sociale, progressivo delle specie che si -evolgono. Nella sua Dissertazione all'Accademia Viennese 1870 disse che la Memoria è una funzione generale della natura organica, e questa parola male applicata ha generato poi molta con- fusione così in zoologia, come in fisiologia ed in psicologia. La Legge o statuto sociale organico procede sicura fintanto che l'ambiente non sia troppo av- verso. E intimamente connessa con la Unità che la figurò. Le filosofìe straniere non spiegano il mistero della vita. Lo Inconscio di Ed. Hartmann come può far tante meraviglie nella sua inconsapevolezza? A che servirebbero il dolore ed il piacere degli organismi, se questi sentimenti non governassero la loro vita e la loro evoluzione e tutto fosse operato da una divinità inconscia? Tanto più che nello Inconscio di Hartmann la Volontà lotta sempre con l'Idea.  In realtà non vi è affatto questa pretesa lotta; anzi non vi è neppure l'Idea: ma fra il Sentire e il Volere vi è la figurazione del moto che può giovare, figurazione che non si può chiamare Idea, Concetto o Pensiero. Le altre scuole non facendo la distinzione fondamentale fra la Natura che si fa, libera, e la na- tura fatta, necessitata restano impotenti nei problemi essenziali della vita e dimenticano la Unità intima che dà il piacere di vivere, fattore primo ed essenziale. Piacere che è più che mai sentito e goduto nell'Amore, quando tutte le psichi degli organi si fondono in una grande unità, ed è sentita colla figurazione delle forme teleologiche del sistema di forze proprio di ogni specie, ossia della legge o statuto sociale dell'organismo. Un sentimento finalista, prepara in questa figurazione le generazioni future. La sintesi del collettivismo organico, agognata e goduta con sentimento, figurazione e volontà, è la causa della Eredità e somiglianza dei figli agli antenati, salvo quelle piccole modificazioni che furono vivamente bramate. I passi più notevoli nella bellezza e nell'utilità della struttura, si preparano a lungo e si fanno prontamente nella sintesi Erotica, e nell'Embrione quando il Collettivismo organico è vivamente sintetizzato. Platone vedeva il divino nell'Amore ses- suale, perchè (egli diceva) prende tutta l'idea della specie, e la realizza. Possiamo dire che è la tra- smissione della Legge sociale del Collettivismo. La forza di ogni cellula dell'organismo, con- verge e concentra sopra poche cellule tale funzione, sia che si faccia per germinazione, sia che si faccia per fusione di nuclei germinativi sessuali. Dapprima il piacere di congiungersi si compie senza sessi, ringiovanendo i nuclei delle cellule, per semplice fusione, come nei Ciliati, nei Rizoidi e nei Magellati. Le cause meccaniche non bastano per aggruppare intorno ad un progenitore, per riproduzione senza nozze, individui primordiali, per formare un individuo superiore, e tanto meno a dar ra- gione delle forme seriate, ossia disposte in serie, e meno che mai a spiegare la differenziazione autonoma. Sono necessarie le cause interne vitali (sensazione, desiderio, figurazione, volontà) a trasfor- mare gli organi. Ci vuole poi gran concentrazione morfologica per moltiplicare l' individuo e fare le -colonie. E gli animali inferiori stentano tanto a fare tale concentrazione, che la prole resta impotente a diventare adulta in breve tempo, ma gli embrioni gradatamente si sviluppano fino a divenire adulti. Negli organismi inferiori {Celenterati, Crinoidi, Vermi e Crostacei inferiori) l'uovo non produce quasi mai un organismo uguale al genitore: ma sviluppa un essere embrionale, che ri- corda il primo individuo delle colonie lineari (Idromeduse) od il centro dei Corollari, e degli Echinodermi, che crescono a raggi (Radiati). Quando si muove, diviene un primo anello, che ne germina dei successivi, ai quali servirà poi di testa nei Vermi {Trochosphera) e negli Articolati (Nauplius). Nell'Idra di acqua dolce non vi sono che quattro o cinque individui in colonia, ma nei Polipi idrati sono migliaia. La Medusa in colonia non fa uova: ma quelle •che si isolano nuotando per godere le nozze, le fanno. Un siconoforo è una federazione fluttuante di Meduse, divise in prensori, locomotori, riproduttori e nutrici. I Polipi del Corallo formano grandi co- lonie; ma anche fra essi vi è VAnemone che vive isolato. Nei Briozoari e nei Tunicati si vede sempre il rampollo, come nei Celenterati. Nei Vermi, negli Artropodi non si vede; ma sono formati essi pure da meridi (ossia parti), derivate rampollando le une dalle altre. Negli Anellidi la bocca e gli organi dei sensi stanno nella sola testa, ma ogni anello ha le proprie gambe, il proprio canale digestivo, il suo ganglio nervoso, e i suoi vasi saguigni, il suo sistema riproduttore. Se si separano, fanno la generazione alternante, ora a gemme, ora ad uova, come le Salpe, nuotatrici, tunicate, le une grosse come aranci e dedite all'amore, le altre piccolissime, associate in catene fosforescenti. Così lo Sciphystoma, alterna le funzioni riproduttive, in modo che il sessuato fa le uova, ma non le vede nascere, e le nutrici allevano le larve nate dalle uova. I Vermi si distendono con nuovi anelli sopra una linea lunga e diritta. Ma in alcuni la progressione si fece per asse trasversale, obbligando ad accentrare e differenziare, portando al centro gli organi di nutrizione e di circolazione, e ne vennero i Molluschi, cancellando i segmenti; eppoi si fecero la conchiglia, per ripararsi dai ne- mici (come pensano Perrier e Gegenbaur). Però nella loro Embriogenià, non mostrano mai di es- sere segmentati, e possono anche non essere derivati dai Vermi, come pensano Rabl e Cattaneo. La facoltà di rigenerare le meridi o parti ta- gliate è evidente nell'Idra e nella Stella di mare, come nelle Piante. I Crostacei derivano in gene- — 164 — rale da specie che avevano venti segmenti. Il Pe- neonauplio aumenta gradatamente i suoi segmenti, mentre il gambero ha 21 segmenti fin dalla nascita. Le larve degli insetti sono Embrioni nati avanti tempo, ma capaci di svilupparsi con l'aiuto di nutrici, ed anche senza di esse, quasi sempre con Metamorfosi, come nel Baco da seta. Questo ani- maletto, finche mangia sul gelso, non ha sessi: farà le ghiandole sessuali quando sarà crisalide e farfalla, giacche la Muta o Metamorfosi è sem- pre una crisi di maturità genitale. E per godere l'amore che si chiudono ed elaborano i germi della loro Unità più alta. Gli Artropodi fanno diverse mute, rigettando il guscio. Il bruco, con bocca masticante, diventa farfalla, con bocca da succhiare. Il verme bianco diviene scarafaggio senza mutar bocca. Nelle Api, nelle Vespe, nelle Pidci, nei Lepidotteri, e nei molti Vermi inferiori, si osserva la partenogenesi. La partenogenesi artificiale è sempre impossibile senza le forze che accumulano le ener- gie delle precedenti generazioni (1). La concentrazione erotica arriva a perfezionarsi negli spermatozoidi e negli ovidi. I sessi si svolgono in ghiandole ermafrodite, nelle quali il di fuori è maschile, il di dentro è femminile. Se prevale l'assimilazione si ha la femmina: se prevale l'azione si avrà il maschio. (Vedi: Thomson Geddes: Evolution of sex. 1890, Londra). (1) Nella « Biologia taurinensis » di A. Gìglio 1906, il prof. A. Ceconi dice che chi vuol spiegare fisicamente la vita, prende sempre per isbaglio delle analogie parziali, come se avessero valore totale. L'ovulo nasce nella donna dall'epitelio dell'ovario, che è uno dei tessuti più bassi, e più antichi dell'organismo. Anche gli spermatozoidi nascono dal tessuto epiteliale dell' uomo. L' uovo fecondato del maschio non si sviluppa in modo molto diverso dalle uova partogenetiche. Loeb e il prof. Delage della Sorbona 1906, trovarono il modo (con so- luzioni saline e semidolci miste a tannino), di pro- vocare la fecondazione artificiale delle uova di al- cuni minuti animaletti marini, alternando la coa- gulazione (con acidi) e la liquefazione (con alcali) delle albumine dell'uovo. L' uovo femmina ha molto citoplasma ed un pronucleo privo di corpo centrale. Il maschio ha un centrosoma, un pronucleo, e quasi nessun ci- toplasma. Il centrosoma maschio si biparte fecondando la femmina. Ogni organismo superiore esce da uno sper- matozoide che, nel suo mezzo milione di cel- lule, riunisce l'idea vitale da svolgere, ossia la psiche passiva degli antenati, in sintesi morfologica, che incomincia il suo impulso nell'astro del coito. Lo Spermatozoide e quasi uguale in tutte le specie superiori, ma ben diversa è la psiche passiva che riceve dai genitori. Entrando nell'ovulo lo irradia e lo vivifica, e ben presto la cellula uovo principia a segmentarsi ed a sviluppare (con struttura semifluida) l'embrione, dotato di una psiche passiva uguale a quella dei genitori. L'ovulo prodotto in una delle vescicole dette di Qraaf, quando è maturo, riceve molto sangue, gonfiandosi e rompe il follicolo, andando nelle trombe falloppiane, facendo mestruare la scimmia e la donna (non i quadrupedi). 11 L'uovo dei mammiferi è piccolissimo, ha quattro parti, cioè la vitellina, o zona pellucida esterna, il vitello pieno di granuli, e fra queste la vesci- cola germinativa di Purkinje e quella embrionale di Balbiani. Nelle uova degli Uccelli vi è di più l'albume ed il guscio calcare, dovendo essere nutrito e riparato fuori dell'alvo materno, covato tre settimane, mentre nei mammiferi l' uovo prende i materiali nutrienti dalla placenta (che nella donna è una, nelle pecore e nelle vacche sono parecchie). Il testicolo è fatto da molti tubetti stretti e lunghi contorti, che sboccano nel canale eiaculatorio: in ogni tubetto si formano strati di cellule di cui le più centrali allungano una coda e divengono così Spermatozoidi. Brown Séquard iniettando sotto la pelle dei neurastenici l'estratto dei testicoli di giovani animali fatto a freddo, ne guarì molti. La spermina iniettata sotto la pelle è tonica per due settimane e non fa mai male. Lo sperma contiene un numero enorme di sper- matozoidi ed uscendo si accompagna al liquido delle ghiandole del canale eiaculatore, al fluido delle ghiandolette del prostata ed a quello delle ghiandolette Cooper dell'uretra. Evaporato, lo sperma cristallizza alla superfìcie il fosfato di spermina. Gli acidi estinguono i movimenti degli spermatozoidi, gli alcalini a 35 gradi li conservano. La testa dello spermatozoide è ricchissima di acido nucleinico, il corpo è fatto da materie albuminoidi con lecitina e ce- rebrina, e il 5 °/ di fosfati (1). La Psiche ge- (1) Hofmeister vide che le protamine sembrano fatte dal trasformarsi delle proteine nel dar vita a spermatozoidi. Infatti nel Salinone, il testicolo cresce a spese della neratrice è affidata a questi elementi chimici, in- vestiti dalla Volontà o Legge o Statuto sociale ereditario. Quando corre molto sangue all'utero fecondato, incomincia alle mammelle la secrezione de] latte, umore albuminoso pieno di globuli bianchi e di cellule nucleate dolci, che dopo il parto diventa un composto di caseina, di lactosi, di sostanze grasse neutre e di sali. Siccome il sangue non contiene caseina, ne zucchero di latte, così è certo che vengono segregate nelle mammelle che gonfiano i loro acini. La caseosi emulsionata ed i globuli butirici rendono opaco il latte. Nei giorni della mestruazione il latte si altera: ma presto ritorna normale. Che cosa avviene nell'utero a cui corre il sangue dopo la fecondazione dell'ovulo? Il suo nucleo, come quello di tutte le cellule nella cariocinesi (di cui parlammo nal Cap. VI) fa una segmentazione che si moltiplica, finche si forma la così detta Morula; un assieme di palline come mora di gelso. Là si sgomitolano le membra venture dell'uomo. Nel centro della Morula si apre una cavità, in cui corre un liquido che gonfia e spinge le pareti, formando la Blastosfera. Questa va pigliando la musculatura del corpo, intanto che gli animali non mangiano. — Secondo Bang, invece di protamine vi sono istoni negli spermatozoidi in via di formazione e questi si sviluppano più tardi in protamine e proteine, che for- mano le teste degli spermatozoidi. Del resto la composizione chimica importa poco, poiché è la sintesi morfologica di tutto il collettivismo organico che dà la vita agli spermatozoidi come agli ovuli. Questa sintesi è del tutto psichica, come è evidente. forma di un ferro di cavallo, detta Gastrula, ed ha di dentro VEntoderma e di fuori VEsoderma. Neil' Entoderma (che diventa poi il canal digestivo) si fa un terzo foglio cioè il Mesoderma in- vaginando: il Mesoderma svolge il cuore ed i vasi sanguigni. L'Esoderma si sviluppa in sistema ner- voso muscolare, con un primo tubo di nervettini liquidi viscosi; e questo tubo farà la spina dorsale ed il cranio. La legge o statuto sociale è così divisa in tre dipartimenti. L'Embrione è un corpicino animato dalla legge intima ereditaria, che riproduce gli antenati, fa- cendo ogni giorno crescere la sensazione ed il moto del feto. La Unità che diventa organica svolge la legge sociale formata nell'atto della fecondazione: è V anima che fa il corpo, dal di dentro al di fuori, come dal di dentro al di fuori si è fatta la specie. Lo studio degli embrioni e dei feti presenta molte difficoltà per determinare nella Ontogenia la Filogenia, ossia per scoprire la genesi della specie, perchè l'acceleramento embriogenico modifica nel feto gli organi ed anche perchè si esige un magazzino di materie nutrienti che altera le forme, come dice il Perrier (Philosophie zoologique). In uno stesso gruppo zoologico la nascita avviene in stadi diversi; alle volte si saltano delle fasi, o le cavità e gli organi che esse contengono si costituiscono diversamente. La funzione generativa conferma adunque tutte le leggi di formazione delle specie animali che si sono esposte nei capitoli precedenti. La Unità infima nel Sentimento Il sentimento è il Governo del collettivismo organico, ed è piacevole o doloroso. Esige più tempo delle sensazioni. La sensibilità organica (che Rosmini chiama il sentimento fondamentale della vita animale, tenendone gran conto, a differenza di tutti gli altri Metafisici) detta in greco Cenestesia, in tedesco Gemeingefiihl, o tatto interno di tutti i muscoli, nervi, della circolazione sanguigna, delle funzioni digestive, della respirazione, delle secrezioni ghiandolari, del senso erotico, abituata da milioni di anni ad unificare il suo tatto interno ed il piacere della vita e della salute, è il fondamento delle tendenze individuali e del carattere: ed è ereditata come psiche passiva, che può fare l'attiva convergendo nella Unità. Il carattere viene dal complesso di tutte le cel- lule nervose, mentre l' intelletto viene da una piccola parte di esse. Nelle malattie la cenestesia è dolorosa quanto più vengono disturbate o minacciate le funzioni essenziali. Nella convalescenza è piacevole, quando si va guarendo ed eliminando le ultime stasi sanguigne; nella salute si gode fa- cendo una ginnastica, aumentando la circolazione del sangue, la respirazione e la innervazione delle membra. Dicemmo che il sentimento esige più tempo delle sensazioni, non però più di due secondi minuti, dopo l'eccitamento; tempo necessario per fare il bilancio dei vari organi e sapere se l'organismo guadagna o perde. Sono confronti fatti dalla Unità generale, in cui il Numero concettuale non entra mai, relativi all'ambiente, alla nutrizione, alla salute o malattia, all'età ed alle forze dell'in- dividuo; sono dunque calcoli dell' Unità numerante intima. Il tempo è abbreviato assai nelle gravi ferite. Le sensazioni sono reazioni localizzate nei sensi speciali dalla cenestesia: ed avvengono in generale in 2 centesimi di minuto secondo dopo l'ec- citamento. La differenza del tempo dal sentimento alle sensazioni può dunque arrivare al centuplo. Ogni sentimento eccita il cervello e qualche gruppo di ghiandole. Nella paura quelle degl'intestini, nella collera quelle del fegato, nelle in- quietudini i reni e la vescica depuratori del san- gue; nel dispiacere e nel dolore le lagrimali. Nei sentimenti che deprimono, il cuore si ral- lenta e nel primo istante si arresta. In quelli stellici il cuore batte più celere e le arterie si al- largano, il cuore si vuota più facilmente, nelle emozioni liete, e più difficilmente nelle emozioni tristi, per cui il popolo attribuisce i sentimenti al cuore. I sentimenti di piacere e dolore, salute o malattia, coraggio o paura, simpatia od antipatia esprimono il rapporto in cui stiamo con le cose e in massima parte dipendono dal sistema nervoso del gran simpatico, operando sui nervettini vasomotori. Essi promuovono la Evoluzione destando i desideri e facendo la convergenza sulle sensazioni e sulle imagini che più giovano a preparare il proprio vantaggio. Esprimono a fondo la Unità numerante, perchè consistono dal principio alla fine in confronti di proporzioni (benché fatti senza Numero astratto) e sono comuni agli animali ed all' uomo. Le scelte fatte fra le varie vie, i cibi, le bevande, le azioni di ogni specie, i diversi modi di condursi, le risoluzioni importanti prese d' improvviso e anche le meditate sono suggerite dal sentimento e fatte con lampi di attenzione. Sotto l'azione del sentimento il sistema vaso- motore modifica la digestione e la secrezione della saliva, dei reni, delle lagrime, del latte (1) ecc. Il piacere ed il dolore sono i due modi sostanziali dell'essere noumenico, dell'Intensivo conti- nuo nella sua intima forza: Varmonia che fa espandere le Energie, la disarmonia che le co- costringe a soffrire e ad estinguersi. Ogni piacere aumenta la forza muscolare; prova che ogni energia vuole ascendere. La felicità corporea sta nell' accumulare forza nervosa; è salute il condensarla ed è vizio il dissiparla. Il piacere, in chi non degenera, è una continua nascita ed è quindi ascendente in ogni specie, in ogni individuo che progredisce. Ogni Io sorge in condizioni diverse dagli altri, e (come diceva Góihè) chi gode meno è chi scimiotta i godimenti degli altri. Ogni uomo intelligente è originale nel modo di godere. Ogni acquisto di nuova sensazione armonica fa piacere più assai che la ripetizione delle co- (1) La gioia aumenta la secrezione del latte, la paura la diminuisce e l'arresta. La vacca e la capra munte da mano straniera non danno latte. nosciute e già provate: e questo è lo stimolo che fa ascendere i piaceri e specialmente quelli artistici. Ogni allargamento del dominio sopra le cose è piacevole, ogni restrizione ed asservimento è doloroso. L'ambizione di promovere il bene comune è sempre piacevole e non è vero quel che disse Bahnsen (nella sua Charactérologie) che sia mossa dall'egoismo. La gioia giova molto al cuore, ai vasomotori, allo stomaco, al fegato, a tutto il sistema nervoso e ghiandolare. L'amor sessuale aumenta molto la circolazione del sangue, la respirazione, il godimento del tatto, del senso muscolare. Ogni espansione di vitalità e di forza, che non esaurisca, fa bene: rende l'occhio più vivo, il cuore batte più celere, le narici si allargano, la respirazione si fa più frequente e profonda, i muscoli si alzano, il sugo gastrico corre allo stomaco, la saliva alla bocca, tutto il corpo aumenta la Cenestesia, non soltanto nei piaceri corporei della tavola, dell'alcova, della ginnastica, ma anche negl'intellettuali, come la contemplazione di un ca- polavoro dell'arte, di un bel paesaggio alpestre, di un progetto industriale promettente, o l'ascol- tazione di una musica che gradevolmente ci molce l'orecchio (1). Le teorie che fanno derivare i sentimenti benevoli dalla esperienza, dalla utilità sono superflue e false. L'amore infatti pervade tutto l'uni- verso e dà maggiore piacere che la malizia ed il calcolo egoistico, anche ai più vili animali. (1) Nei piaceri intellettuali l'aumento della circolazione, della innervazione è minore in paragone con i piaceri del corpo. Le carezze eccitano piacevolmente i vasomotori ed il gran simpatico, aumentano la vitalità, specialmente se sono variate di modo e di posto. La emozione tenera (da non confondersi con l'erotica) aumenta le secrezioni, la circolazione, la re- spirazione, e la vita e dà un piacere calmo e durevole. La gioia se è forte può far piangere per la pressione sanguigna degli occhi. Anche il pianto cagionato da dolore aumenta la circolazione del sangue ed è un mezzo indiretto per cacciar via le imagini tristi. La simpatia deriva da sinergìa di moti, da ammirazione per la bellezza, la bravura e la bontà (1) per cui si entra nel modo di sentire dell'ammirato e la Unità intima dell'ammiratore si mette all'uni- sono con quella di colui che lo incanta. La collera e la gioia aumentano la innervazione dei muscoli, dilatando i vasi, mentre la paura e la melanconia abbassano V innervazione e restrin- gono i vasi. La paura fa impallidire perchè re- stringe i vasomotori, raffredda il corpo, rilascia gli sfinteri, peggiora le malattie. Il terrore inibisce ed arresta il cuore. La melanconia è l'atonia di spirito deprimente, è un rinunciamento ad ogni convergenza, e se dura a lungo, sconcerta ogni funzione vitale e si co- munica altrui, come gli altri sentimenti. Il disgusto deriva dal palato e dall'odorato, che sono legati al pneumogastrico, promovendo moti ri- (1) Ed è comune anche fra gli animali. Si sono visti vertebrati di varie specie rifiutare il cibo e morire d'ina- zione per aver perduto l'amante, cani desolati per la morte del loro padrone, e persino oche ed anitre zoppe sostenute amorosamente nel camminare da amanti e da sorelle. flessi intestinali e del canale digestivo e quindi nausea e vomito. Paura e disgusto hanno un fondo comune, cioè la tendenza a fuggire e a respingere: sono movimenti di avversione. La collera astenica è penosa, la stenica non lo è, perchè lotta sperando di vincere e di farsi giustizia. Quando si intellettualizza, genera l'in- vidia, e il risentimento, composti dallo istinto ag- gressivo e del calcolo che inibisce ed arresta gl'impulsi distruttivi, per evitare le vendette e le pene sociali o religiose. I sentimenti malvagi che hanno le varie specie di delinquenti non vanno ascritti a necessità ere- ditata (benché si erediti il carattere) ma assai più a cattivi esempi ed a seduzioni nuove. Esagerando le ipotesi di Ferraz, Destine, Morel, Lubbock, corredandole di un gran numero di osser- vazioni personali sui delinquenti e sui pazzi, so- vente male applicate, Cesare Lombroso ha insegnato e fatto credere a moltissimi italiani viventi che i selvaggi sieno fatalmente malvagi e che i nostri delinquenti sieno uomini che ritornano allo stato dei loro antenati selvaggi. Però non è così; se vi sono e vi furono popolazioni selvaggie feroci, ve ne sono e ve ne furono molte pacifiche e buone. La guerra fra tribù e tribù, fra popolo e popolo va ascritta più che a nativa malvagità, alla debolezza del pensiero ed alla incapacità di estendere il proprio ideale sociale al di là di certi limiti, di fiumi, di monti, di laghi, di mari o di razza o di abitudini di lavoro. Infatti (come osserva l'eminente economista prof. Achille Loria), i delinquenti convicts, deportati dalla Grande Brettagna, nell'Australia si trasformarono in una sola generazione in gentiluomini e diedero impulso alla stupenda democrazia del « Common Wealih of Australia » dove due città più popolose di Roma e di Napoli (Sidney e Melbourne) ed altre parecchie accentrano istituti di beneficenza ed hanno meno delinquenti della madre patria. Non è il corpo che fa l'anima: ma è l'anima che fa il corpo. I sentimenti si comunicano facilmente: chi è triste rende tristi i suoi confabulatori, chi è al- legro tiene allegra la brigata, un buon libro fa buoni i lettori, unibro cattivo li corrompe: le carceri, il domicilio coatto sono semenzai di delinquenti, ad onta di tutte le conformazioni dei cranii e di ossa e di altri dettagli morfologici che il Lombroso ha descritto con tanta diligenza. Queste conformazioni non sono la causa, ma Veffetto degli animi pravi. La delinquenza, quando non sia passionale, è un vile mestiere che ha rischi come alcuni mestieri onesti, e che si sceglie a piacere o per suggestione, per imitazione, come gli altri, che forma le sue abitudini e adatta i suoi organi e perciò finisce per modificare la fìsonomia e per abbrutire anche l'aspetto. Ma in principio della loro- carriera molti delinquenti sembrano, a guardarli,, simili agli onesti. Si dimentica che la Natura fatta del delinquente è un'abitudine, un meccanismo fabbricato poco a poco dalla Natura che si faceva e che il primo indizio fisico del disordine del carattere non è il cranio, ne l'orecchio ad ansa, ma è il disordine del sistema vasomotore, per cui la reazione ora è ec- cessiva, ora insufficiente e manca l'equilibrio, la. facoltà di calcolar bene le conseguenze dei propri atti e di moderarsi. Il valentissimo propagatore delle idee Lombrosiane, l'eminente penalista prof. Enrico Ferri, le rese più dannose colla sua dottrina fatalista, at- tribuendo le passioni perverse ed ogni delitto ad una malattia, di cui l'uomo è irresponsabile ed insegnando che il criminale non va dispregiato più che non si disprezzino i pazzi e gli appestati. La nuova scuola penale, quando guarda l'albero genealogico di un delinquente dà la parte del leone ai parenti malsani e quella del lepre ai parenti sani. Eppure il Maudsley (Crime et folie, p. 255) dice che allorquando il cervello ha principiato a degenerare, l'uomo può prevenire o con- tenere la pazzia o il delitto con lo sviluppare il controllo della volontà e col proporsi un alto scopo. Non è la morfologia, ne l'atavismo che fa i cri- minosi, ma l'educazione data al popolo dai cattivi Governi. Nel Veneto la delinquenza è la minima d' Italia perchè l'Austria amministrava onesta- mente, come la Repubblica Veneta. Invece nel Lazio dove l' ipocrisia era obbligatoria prima del 1847, dovendo ogni cittadino comunicarsi a Pasqua, e dove non vi era giustizia, tutto si con- cedeva per favore a chi obbediva e serviva al clero; in Sicilia, dove la polizia dei Borboni stava agli ordini dei Feudatari, e l'autorità sembrava disonesta e nemica del popolo (il Colajanni assi- cura che facilmente ancor oggi si depone e si giura il falso in giudizio); nel Napoletano, dove a questi mali si aggiungevano i cattivi esempi, venuti dalle alte classi, la delinquenza è massima. Bisogna badare alle fonti dalle quali provengono i germi di degenerazione delle idee e dei sentimenti. A guastare le idee provvede fra noi una filosofìa balorda, a guastare i sentimenti provvedono i teatrali dibattimenti nelle Corti di Assise e le cronache giudiziarie dei periodici, la pornografìa, le carceri, il domicilio coatto ecc. Le missioni cristiane in Africa ed in Oceania riuscirono a convertire a buoni costumi milioni di uomini che il Lombroso riteneva inconvertibili. Tutta la storia ci testimonia che, quando le classi diri- genti erano morali, lo diventavano anche i popolani e viceversa. I sacerdoti ed i feudatari malvagi hanno diffuso la diffidenza e la ferocia. L'eroismo e l'esal- tazione, quanto il panico e la paura, e i sentimenti di odio e di vendetta, passano dai caratteri forti ai deboli, come provarono il prof. Sigitele ed altri. Chi non ha conosciuto l'ardore di sacrificio dei Mille? Chi non sa quanto gli occhi dolci, ma al bisogno fulminei, di G. Garibaldi valessero ad in- fiammare i giovani? Chi non ha respirato l'ideale della patria libera quando era serva? Come avvenne la comunicazione dell'eroismo, allorché Medici ed i suoi trecento, difendendo il Vascello, versarono il miglior sangue come un sol uomo? Dunque i sentimenti, buoni o cattivi, si comunicano. Il sentimento religioso, come lo ispirano i sa- cerdoti, colla paura dell'inferno, può trovarsi negli animali domestici verso i loro padroni. Ardigò e Trezza lo intesero così basso. Certe specie di scimmie fanno atti di ammirazione e di adorazione al levarsi del sole e seppelliscono i loro morti. Il sentimento religioso (come lo dice il nome) è quello che fa sentire la parentela che abbiamo con tutte le cose, con tutti gli esseri, e la derivazione dalla conscia Unità del Cosmo. Ma non si è sviluppato se non molto tardi nella storia. Vico e Comte sbagliarono supponendo che la prima età fosse quella degli Dei. Era piuttosto consacrata al culto dei defunti e delle forze naturali. I selvaggi primitivi credevano che la Natura fosse un seguito di fatti causati dagli spiriti incorporati nel sole, nelle stelle, nella luna, nei monti, nei numi, nei mari, nelle piante, negli animali e persino nelle rupi. Tiele provò che tutte le religioni più antiche cominciarono dall'adorazione delle forze naturali e dal culto degli antenati, dei genii protettori, o dei genii malvagi che mettevano paura. Lo spiritismo odierno ci mostra con quale fa- cilità uomini anche istruiti, ma inetti a pensare, si danno a credere alla esistenza di spiriti invisibili ed alla loro influenza. E infatti, in moltissime tribù selvagge, divengono sacerdoti o maghi coloro che possono ipnotizzarsi ed entrare in estasi, costringendo i de- moni a desistere dai loro perfidi propositi, ed invocando l'aiuto dei buoni genii. Le tribù tu- ramene dell'Asia centrale e settentrionale e quelle di varie parti dell'Africa credevano tutte che, per- dendo la coscienza e lasciandosi ispirare dalle potenze occulte si trovasse il rimedio ad ogni male. Del resto gli Dei dei popoli selvaggi, anche se più evoluti, operano sempre come uomini, capaci d'ira e di vendetta. L'origine dei miti sta nella combinazione d'idee che è propria dei selvaggi, per cui si rassomigliano le leggende dei Greci, dei Celti, dei Lapponi, degli Eschimesi, degli Iro- >ehesi, dei Cafri e dei Boscimani, come li ha confrontati fra loro Andrea Lang. Il progresso mitologico consisteva nel conside- rare come astratti, vecchi e privi di attività gli Dei di prima e come realissimi quelli immaginati dopo. Così al Cielo e Terra dei Turanici, gli Ari opposero Varuna o Ritam che fa l'ordine; ma poi Varuna tramontò e si fece annanzi Indra il dio della luce. Allora la religione ascende di grado e diviene più razionale ed intima. Si fanno sagrine! e scongiuri magici, nel mentre si prega come persona a persona e già nei più antichi inni Vedici, Varuna è invocato a perdonare i peccati. La lode della divinità si accende per la speranza nella vittoria dei propri fini individuali o sociali: e per conseguirla si viene accentuando la potenza e la generosità del Dio; gli si fanno offerte, sagrine!, gli si erigono templi, si stabilisce un culto. Il Cielo degli Indiani è anche il Dyaus Patir, il Padre celeste; il Tien dei Cinesi è il padre degli Dei e della Natura simbolo del maggior Dio; in Egitto il sole unificava gli dei locali primitivi, e così fra i Summeri e Accadi sull' Eufrate e fra i primi Semiti. Il culto del sole prevalse fra i Malesi, i Baici, primi immigranti nella China, e nei Sinto del Giappone, ed anche nel Messico e nel Perù, quando passarono in America la magìa e l'astro- logia dell'Asia. Ra, Dio del sole, ispira a Tot o Ermete i quarantadue libri sacri degli Egiziani, che insegna- vano la eternità della vita e del pensiero. Il Dio accadico del fuoco, Kebir, si fuse col Dio iranico del fuoco e col Bel, Dio del sole. Nell'India andò perduto il carattere personale del Dyaus Patir degli Ari primitivi e si pensò Brama come spirito assoluto, volontà impersonale che fa la Maya o illusione del mondo. Invece nell'Iran (Sogdiana, Battriana) fu concepito un Dualismo del Dio buono Ahura Mazda o Yaruna contro Arimane capo dei demoni. L'idea di un regno di Dio in cui tutti sono solidali e il merito di alcuni si estende a tutti i fedeli è di Zoroastro. Dalla piccola città di Ur, dove fio- riva una delle scuole teologiche di Zoroastro uscì Abramo, capostipite degli Ebrei che conservarono il dualismo iranico, di angeli e demoni. Il riformatore dell'India si limitò a predicare l' eguaglianza, la grazia eguale per tutti, anche per le donne, gli schiavi, i criminali, abbattendo le Caste. Secondo Badda la convinzione di essere peccatori ed il pentimento rigenerano, e si prova col lenire i dolori degli uomini e degli animali, liberandosi dalla Maya o illusione del mondo. Il riformatore della Palestina Gesù fu il maggior genio del sentimento e rese la religione un affrancamento dalla necessità, una viva fiducia nell'Essere trascendente, una speranza di vita celestiale, che contrasta coi bassi ideali di ric- chezza e di potenza dei sacerdoti del suo tempo e di quelli del nostro. I suoi discepoli avrebbero dovuto essere focolari di rinnovamento della coscienza morale, centri degli assetati di giustizia, intenti a diffondere luce ed amore; quindi non potevano abbracciar mai la universalità di un popolo. Il Cristianesimo non si limita, come il Buddismo, a svincolare da ciò che è illusione, interesse, va- nità e superbia; ma contempla il sole della vita nella sua unità ed onnipotenza. Consiste essenzialmente nella comunicazione dei sentimenti di amore, di abnegazione, di fede, spe- ranza, che aveva Gesù. E stupido quindi l'abbassare Gesù a livello di profeti volgari. Per operare il bene, per muovere gli uomini all'altruismo, alla solidarietà, si esige un centro, un faro, un modello, il maggior genio del sentimento. Risuscitò l'Italia, da Arnaldo di Brescia a Dante (Vedi Gebhart, «L'Italie mystique», 1890), dandole il sentimento profondo che i preti non conoscevano. Risuscitò l' Europa, per mezzo della Riforma e della Rivoluzione francese, che rovesciò quella che Voltaire chiamava l' Infame, dando al popolo per lievito: Liberté, Egalité, Fraternité. E sempre sarà necessario, più dei geni della scienza, delle arti belle, della politica, il genio del sentimento, centro motore dell' umanità buona, perchè i sentimenti non s'insegnano, non s'imparano da pochi, ma si comunicano a tutti.  La Unità Numerante nella Volontà Se il Sentimento è il Governo di ogni Collet- tivismo organico animale, la Volontà è il suo ministro esecutore ed ha per ufficiali i nervi motori e per soldati i muscoli. Nell'uomo, dal sostrato frontale parte l'ordine, e per il fascio piramidale va alle circonvoluzioni motrici e per il centro ovale arriva alla capsula interna che penetra nel corpo striato. I corpi striati (sul dinanzi del cervello basso, nel corno maggiore), sono grossi come due uova 12 di tacchino e rossi, formati di cellule grandi grigie poligone. Ogni corpo striato dirige i movimenti del lato opposto. Al corpo striato seguono il peduncolo cerebrale ed il bulbo, e nel midollo spinale fa agire i nervi motori ed i muscoli. L'esercizio muscolare volontario è sempre preceduto dalla attività del cervello e del cervelletto, posto in azione dalla Volontà: Questo fattore psichico è il yero motore dei muscoli (1). I moti riflessi sono effetto della Volontà degli antenati diventata meccanismo. I più invariabili dipendono dalla spina dorsale. I riflessi cerebrali si adattano a complicate reazioni. I sensori motori vengono dal bulbo, dai corpi striati e dagli strati ottici. Ferrier (The functions of the Brain), vide che i centri inibitori impediscono la distra- zione. Il moto inibito si disperde in gesti a metà, ed in disturbi viscerali. Se un moto riflesso non si compie, è sempre segno che venne contrariato per inibizione, voluta dai lobi frontali. Un ragazzo che impara a scrivere muove la faccia, le gambe, finche poco a poco si riduce a muovere solamente gli occhi e la mano. Sempre gli animali sostituiscono alla diffusione illimitata inutile, una diffusione ristretta e limi- tata al movimento che serve al loro scopo, e fin qui è Natura che si fa con attenzione. In seguito, La Volontà non può essere Elettricità: come di- cemmo sopra, perchè va infinitamente più lenta; è tutta psichica, e può così bene contrarre, come rilasciare i vari muscoli. Essa spende la forza nervosa accumulata e chiama sangue arterioso a vivificare i muscoli che lavorano. quanto più si ripete, tanto più si moltiplicano le fibrille, i vasi capillari, e si consolida in moto riflesso, ossia in meccanismo di Natura fatta. Abbiamo esposto la graduale formazione del meccanismo nei Capitoli XI sul sistema nervoso, XII sul sistema muscolare, XIII sulla Psiche generatrice, e altrove sotto diversi punti di vista, perchè la Natura che si fa va sempre distinta dalla Natura fatta che è necessitata. Non manca, anche ai più semplici animali, la libertà di volere nella Natura che si fa. La Necessità regna in tutta la Natura fatta, che è la parte massima, mentre la Natura che si fa è la parte minima, ma è libera. Gli atti volontari liberi sono assai pochi al paragone degli atti che si fanno per abitudine e per moti riflessi, anche nell'uomo educato. Un moto che si fa per abitudine esige ancora l'imagine: mentre un moto riflesso, che è ereditato, non ha più bisogno della imagine, e si compie macchinalmente. Ogni organismo esprime quello che gli antenati hanno voluto per il proprio bene, e l'istinto è una combinazione di processi appetitivi e di atti riflessi. Maudsley (Body and Will) dice che l'energia volontaria registra le sue esperienze modificando la struttura nervosa, acquistando nuova potenzialità, tanto nell' operare certi atti, quanto nello inibire quelli che sarebbero abituali. Nella proporzione che si arresta la tendenza a diffondere il movimento delle membra, la co- scienza si va concentrando in un modo specialmente voluto. Tutte le specie animali si sono svi- luppate coordinando e subordinando i moti secondo che erano utili e piacevoli. E quanto più questi movimenti venivano ripetuti, tanto più diventavano facili, finche si resero moti riflessi irresi- Questa genesi della Natura che si fa e della Natura fatta è di grande luce nella scienza e nella vita pratica. Ma nelle filosofie dialettiche dello Hegelismo e dell1 Ardigoismo che negano l'indivi- duo e riducono la coscienza ad un'astrazione, ri- sultato del processo di antitesi dei concetti per l'uno, e risultato delle forze incidenti dell'ambiente per l'altro, è ignorata. Anzi YArdigò confonde insieme sentire, volere e pensare negando sempre il soggetto che pensa e vuole. Nelle sue Opere, Voi. I, p. 141 a 185 egli scrive che il soggetto è un concetto astratto. « La coscienza non è altro, egli dice, che l' insieme delle rappresentazioni o esterne (dalle quali si astrae il il concetto di materia) o interne (dalle quali si astrae il concetto di spirito o di anima). Il riferimento delle sensazioni al soggetto pensante ed agli oggetti esteriori, non ha luogo per intui- zione immediata: ma è un puro effetto di esperienza, per la quale ne facciamo poco a poco l'abitudine. Dunque non vi sono schemi a priori dell'intelligenza: non vi sono elementi primitivi; ma sono tutti, anche il Me, prodotti da abitudine empirica (pag. 150). La coscienza è un risultato delle forze incidenti. Non è vero che il fenomeno non si possa pensare senza il soggetto relativo. Il Soggetto è un concetto al quale si può arrivare, ma non un dato, dal quale si debba partire. Il Soggetto dei fenomeni psicologici non è altro che un astratto che si chiama Anima, è in- stabile, e segue le variazioni logiche per le quali passa l' induzione, dopo lo esame dei fatti » (pagina 163). « Non vi è differenza radicale fra Sentìmento, Volontà e Pensiero: Gli atti volontari altro non sono che sensazioni e sono riferiti all'anima per errore (pag. 180). Le facoltà rappresentative, affet- tive e volitive, sono solamente combinazioni variate dei medesimi elementi di sensazione, come altret- tante parole formate col medesimo alfabeto (pagina 181). Le cognizioni, gli affetti, i sentimenti, i voleri, sono tutte sensazioni o ricordanze di sen- sazioni, e dipendono dall'organismo ». Così l' Italia non si faceva dal di dentro al di fuori, da un eroe ai suoi compagni garibaldini e alle masse: no, erano gli effetti inconsci dell'ambiente che spingevano Garibaldi a Calalafìmi a rispondere a Bixio: « Non ci ritiriamo: qui si fa l' Italia o si muore ». E dall'ambiente che i martiri e gli eroi antichi e moderni attinsero il coraggio e l' entusiasmo: risultati delle forze incidenti, sentire, pensare, volere: tutto è uguale per Ardigò, ò]xbu xà Travia. Ogni uomo ha i suoi doveri: e se li segue è come una nave che va al porto, per forza propria, avendo buon capitano, buona bussola, buona macchina, buone vele, e questo è l'uomo pitagorico bruniano. Mentre, se non li segue, somiglia ad una nave che non sa andare in porto se non per caso, e che, quando i venti sono contrari, ed i marosi minacciano, si lascia travolgere dalle forze inci- denti, come un trastullo. E questo è l' uomo Ardigotico. Ardigò ha negato la Coscienza, il Soggetto, e la Natura che si fa. Ed in questo egli non ha fatto altro che seguire il Positivismo anglo-fran cese e contraddire al suo pensiero fondamentale dello Indistinto che sta sotto ad ogni distinto e che somiglia allo Inconscio di Schelling. L'armonia fra la filosofia di Schelling e quella di Feuerbach e di Spencer non è stata trovata à&WArdigò: né poteva trovarla. Il disaccordo è evidente nella teoria della Volontà. Chi è che vuole quello che fac- ciamo noi? Se è l'ambiente non siamo noi. Se noi andiamo contro l'ambiente (e lo fanno tutti gli animali) siamo snaturati, delinquenti che vanno contro il loro papà l'Indistinto. Così il Signor Ardigò non è più Ardigò: e una eco della gente che lo circonda. Il prof. Giuseppe Sergi poi, nella sua « Psychologie physiologique » 1888, fa derivare gli atti volontari dai moti riflessi/ e tratta della prima differenza tra la volizione e l'atto riflesso, nel sospendere dopo l'eccitamento il moto, per cer- care una via nuova e arrivare così all'atto spontaneo, il quale, deriverebbe dall'attività automatica (sic) degli elementi nervosi e muscolari. È inutile proseguire. Intelligenti pauca. Il confusionismo è madornale. Gli atti riflessi non si sa- rebbero mai formati, se non fossero stati voluti e ripetutamente voluti dagli antenati degli ani- mali che oggi ne sono forniti. Se la Volontà uscisse dai moti inflessi, sarebbe perfettamente inutile, essendo meccanismi che vanno per necessità. Grazie a queste false ed assurde teorie, oggi nell'antica patria del diritto (che era tutto fondato sulla libertà), si crede che l'uomo sia schiavo delle proprie passioni: e la scuola Lombrosiana, attribuendo i delitti, le malattie mentali e anche il genio alla epilessia larvata, è ^esagerata a tal punto che il Morselli scrisse nella Cronaca d'arte di Milano che, con tali teorie, si può giungere a chiamare l'uomo un animale epilettico. La nostra dottrina della Natura che si fa e della Natura fatta fu, non solo adottata da valenti professori Italiani di filosofia del diritto, ma approvata anche all'estero e specialmente dallo eminente magistrato e pensatore francese Tarde, il quale la segnalò nella Reme Philosophique come «profonde et habituelle distinction ». Essa concilia in modo strettamente scientifico il sentimento della libertà, i bisogni della giurisprudenza, della politica, della morale, con le esigenze del Determinismo; ed è tutta fondata sui fatti. Altri due illustri filosofi francesi più del Tarde espliciti amici della nostra Nuova scienza cioè B. Perez, «Le caractère de l'Enfant à l'homme», 1892, e Fr. Paulhan, « Les caractères », 1894, opposero egregiamente i padroni di se stessi, ossia gli uo- mini riflessivi, che sanno sistematicamente inibire i movimenti superflui o dannosi, agi' incoerenti, agl'impulsivi, ai suggestionabili, ai deboli, ai di- stratti, agli storditi, ai frivoli, insomma a coloro che si lasciano imporre dalla società e trastullare dalle forze incidenti (agli uomini ardigotici). Sono questi i mezzi caratteri o i senza carattere, assai numerosi nelle grandi agglomerazioni umane. Però i veri caratteri si possono ridurre a tre, cioè quelli in cui predomina V intelligenza, che sono pochissimi, calcolatori, i quali nulla lasciano al caso; i sentimentali che vivono sopratutto nella loro intimità, suscettibili, meditativi; e i volitivi che vivono molto all'esterno, nell'azione, audaci ed ottimisti. Tutti sanno che gli antichi Greci distinguevano quattro temperamenti e li dicevano base di quattro ca- ratteri: il sanguigno leggero, versatile, corrisponde ai 1 veri caratteri sono unificati e stabili, durevoli, cambiano poco e difficilmente (1). Le divisioni fon- damentali dei caratteri sono date adunque nella distinzione delle tre facoltà psichiche: sentimento, pensiero e volontà. Se fosse lecito trovare qualche analogia nel mondo fisico si potrebbe osservare che gli uomini nei quali prevale il sentimento corrispondono al Carbonio (elemento accentratoro); quelli nei quali è maggiore la volontà all' Ossigeno, (elemento che si combina cogli altri più facilmente); quelli senza carattere o di semicarattere all' Azoto (elemento in- differente ed inerte); quelli finalmente che pen- sano più di tutti, non hanno naturalmente corri- spondenza nella natura bruta; corrispondenze che forse hanno poco valore. I grandi capitani, come Napoleone, i grandi uomini di Stato, i maggiori industriali sanno mezzi caratteri, tipi misti; il melanconico che Lotze chiamò sentimentale, esitante e profondo; il collerico che ha molta imaginazione e passioni intense, corrisponde ai volitivi; e il flemmatico o linfatico molle, di poca imaginazione, freddo, agisce lentamente, corrisponde ai senza carattere. Cabanis vi aggiunse il nervoso, che è una varietà del sentimentale, e il muscolare che è una varietà del volitivo. B. Perez classifica, osservando i moti, in vivi, lenti, ardenti, e tipi misti. F. Paulhan osservando la legge di associazione delle idee, ossia l'attitudine di ogni ele- mento, desiderio, idea a suscitarne altri, per uno scopo comune. Veggasi pure Janet, « Des caractères dans la sante et dans la maladie. Le conversioni sincere come quella di S. Paolo, di Lutero, Agostino ecc. lasciavano stare il fondo del carattere, mutandone solamente l' indirizzo e gli scopi. I can- giamenti di carattere dovuti a malattie od a ferite della testa non sono conversioni ma caratteri nuovi, dipendenti da organismo modificato. combinare questi caratteri, in modo da trarne il maggior frutto per la guerra, la politica e gli affari: e se mancano il carbonio o l'ossigeno, Velemento indifferente mette in equilibrio instabile alcune società, alcune burocrazie, alcuni organismi, che guidati da mano più sapiente prospererebbero. Il Volere fa tutti i moti. La volontà è la finalità resa causale, giacche al sentimento ed al giudizio fa seguire l'atto di difesa e di sviluppo. Maine de Biran vide che il tipo su cui percepiamo le cause esterne è la nostra volontà, poiché essere vuol dire sentire, volere, agire, ed infatti Schopenhauer concepì il mondo come fatto da Volontà cieca. Ed il viennese professore Stricker, che meglio degli altri pensatori lo interpreta, os- serva che la Volontà è la vera causa (Ursache, Urquelle), che essa è il tipo della forza universale. Con l'esperimento si provoca, a nostro piacere, un fenomeno, e si riconosce il modo di agire delle energie cimentate: assimilando le forze della natura alla volontà nostra. iSTon è tanto il succedersi co- stante dei fenomeni, che ci assicura sulla vera causa, quanto il cooperarvi col nostro senso muscolare e con la nostra Volontà. Siamo costretti a considerare ogni moto come causato e trasferito da una Volontà, da una forza simile alla nostra Volontà. Huxley e Dubois Reymond credevano che ci fosse un abisso fra la volontà e il moto, fra la psicosi e la neurosi. Però l'abisso non vi è punto,se si pensa che l'Intensivo continuo della coscienza volente è il centro attivo del moto centrifugo. E la Volontà è misurante in tutto quello che si fa, anche in una carezza ad un bimbo: se non misurasse, invece di fare una carezza darebbe uno schiaffo e per farsi la barba si taglierebbe la pelle: ne cucire, ne scrivere, ne disegnare, né lottare e tirar di scherma, ne eseguire qualsiasi lavoro si potrebbe se la Volontà col senso muscolare non fosse misurante e non sapesse continuamente proporzionare i movimenti. La volontà che misura senza numero concettuale è sopratutto evidente nelle partite di boxe, dove la direzione e la veemenza dei colpi sono calcolate ad ogni istante con colpo d'occhio si- curo nei minimi atteggiamenti. Spettacolo interessante la ginnastica; e specialmente una partita di boxe. Johnson campione della razza negra del Texas e Jeffries campione della razza bianca dell'Ohio, nel luglio 1910 presso la Università di Reno, città universitaria del Nevada, mostrarono tutte le risorse della Volontà più esercitata a forza di pugni: e vinse il Negro, benché meno alto e meno robusto. La Volontà non sta punto in proporzione della intelligenza. I Batraci sono meno intelligenti dei Rettili, ma non meno risoluti. Fra i Mammiferi, che superano per intelletto gli altri Vertebrati, la Volontà è sovente inferiore a quella dei Rettili, e gli Uccelli spesso fra i tropici si lasciano affascinare. Certi serpenti affascinano uccelli, scimmie, conigli, col solo guardarli concentrando la loro Volontà. Mentre i piccoli animali che vor- rebbero divorare stanno sugli alberi, il serpente che sta per terra, li aspetta, li attrae: ed essi si sentono paralizzati, e mezzi morti di paura: fin- che vanno nella bocca del tiranno, per un ipnotismo che li conquide a far loro rinunciare alla propria volontà, alla distanza di alcuni metri, e mentre potrebbero ancora scappare volando o sal- tando altrove (1). Torneremo sulla fascinazione nel Voi. II: L'uomo secondo Pitagora, Spesso un uomo d' ingegno ha volontà mediocre \ ma viceversa grandi passioni, desideri violenti sor- gono non di rado in uomini di cervello debole. Oltre ai mille modi di esercitare la Volontà nel lavoro e nella lotta per la vita, vi è la scarica leggiera e piacevole del Riso, che non ha alcuno scopo di utilità conoscitiva, ne economica, ne estetica, ma si fa spontaneamente, come esplosione di libertà, quando ci colpisce qualche contrasto improvviso di idee che si escludono, o qualche notizia gradita che promette lo sviluppo del be- nessere nostro o dei nostri cari o quando si fa un giuoco ginnastico divertente, o quando ci minaccia chi non può misurarsi con noi. Si comincia col sorriso, che increspa le labbra e mostra i dentini delle Delle donne; si accresce facendo brillare gli occhi e mostrando (come disse il Fiorenzuola), l'anima nel suo splendore, si arriva a scuotere piacevolmente il petto e il diaframma^ ad abbracciare i vicini ed a saltare. Il giudizio muove il riso: ma è la volontà che scarica la forza nervosa. Un giovanetto che studia Tlnglese, p. es., e pronuncia Shakespeare ora come Schiacciaspie, ora come l' immortale Scappavia, desta l' ilarità irresistibile; ridono anche le scimmie. (1) Per suicidarsi ci vuole, oltre ad una forte volontà, un giudizio sentimentale sul minore dei mali inevitabili: giudizio che in generale manca agli animali. Però gli scorpioni, se messi vicino al fuoco, si suicidano, alzando la coda e cacciando il loro dardo avvelenato nel mezzo della testa. Il riso è sempre giovevole: allarga il torace, fa emettere il gas acido carbonico, ed aspirare os- sigeno, vivifica il sangue, abbassa il diafragma, dilata i polmoni ed i vasomotori, rischiara le idee, dà innervazione a tutto il corpo. È una esplosione di libertà, di superiorità, di vittoria, ed è probabile che nella civiltà possa generalizzarsi. Certo negli uomini poco civili è più raro, e negli ani- mali inferiori ai quadrumeni manca. Schopenhauer scrisse che gli uomini volgari si annoiano stando soli, perchè non hanno la potenza di ridere da sé. La umanità nel ridere dimostra che è libera, e gode ogni qualvolta s'innalza sopra l'ambiente, e si svincola da ogni ostacolo, da ogni ceppo, da ogni meschinità.Cenni storici su Pitagora e la sua Scuola.. La prima estrinsecazione del- l'Essere Divino (Spazio e Tempo) »  La seconda estrinsecazione del- l'Essere Primo (Atomi eterei e ponderali) » 29 Id. III. - La solidarietà degli Atomi in generale » 47 Id. IV. - La solidarietà geometrica cri- stallina » 58 Id. V. - L'ascesa alle chimiche combinazioni » L'Unità assimilatrice cellu- lare » Come le Unità cellulari si ac- centrano nelle Piante per godere l'amore »Origine psichica delle specie animali » 101 Id. IX. - Come la Psiche fa la vita in- terna sana »Come la Psiche fa le guarigioni Pag. 134 Id. XI. - Come la Psiche fa il Sistema Nervoso » Come la Psiche fa il Sistema Muscolare »  La Psiche generatrice... » La Unità intima nel Senti- mento » La Unità Numerante nella Volontà. » 181 ^  LBOL'20 SAN TOMASO D'AQUINO Della Pietra filosofale e dell'Arte dell'Alchimia, con una Introduzione L. 3,- SAUNIER La Leggenda dei Simboli filosofici, religiosi e massonici.... L. 6,- ERMETE TRIMEGISTO Il Pimandro e altri Scritti Ermetici, tradotti dal greco per il D.r Bonanni, con una Introduzione L. 3,- CIRO ALVI L'Arcobaleno L. 3,50 Frate Elia » 2,— Vangelo (II) di Cagliostro, con una Introduzione di Pericle Maruzzi L. 3, — Prossimamente: Gr. Uebini - Arte Umbra. L. Fumi - Eretici e ribelli nell'Umbria. Dr. Keller - Le basi spirituali della Massoneria e la yita pubblica. La filosofia di Pitagora che è generalmente conosciuta  appena in alcuni dei suoi punti fondamentali come la  metempsicosi, l’armonia delle sfere, la scienza dei numeri, l'astensione dai cibi carnei e dalle fave, e in  realtà un complesso assai vasto e profondo di dottrine, un ve?v e propìzio sistema di speculazione e di morale,  la cui conoscenza ci è tuttavia possibile soltanto in piccola parte sì per la scarsità dei documenti scritti originali, dovuta alla nota tradizione della segretezza che i più dei suoi cultori osservarono scrupolosamente, sì  per le amplificazioni, le falsificazioni, e le invenzioni  che partorirono le fantasie di tardi seguaci di pseudo-eruditi e di mistificatori. E però indubbio che tale filosofia e non dilettantismo di mistici fanatici, ma vera  e ragionata speculazione a cui si accompagna, parallela,  ima conseguente e logica ragione di vita, sì che, mentre da un lato potè attrarre, seducendole col fascino  delle verità da essa chiarite e coll’armonica bellezza dei suoi insegnamenti. le anime di molti cui pungeva  r assillante aculeo della conoscenza., incontrò daW altro ostacoli e derisioni da parie di aristocrazie interessate  o di volghi ignobili e sciocchi.   Divulgata. se non creata interamente ex novo, per opera di Pitagora, del quale, come  di Omero, alcuni misero perfino in dubbio Vesistenxa e coltivata prima che altrove, sulle rive dell' Ionio nella  Magna Grecia e in Sicilia., di dove si diffuse, sebbene  osteggiata., nella Grecia ed in Roma. Ricca., com'essa  era., di principii che oggi si direbbero idealistici e tra-  sceridentali., ed accompagnandosi., come ho detto., a una  sua particolare armonica concezione della vita individuale e collettiva teorica insomma e pratica nello stesso  tempo., essa era ben atta ad informare di se religione  e scienza., politica e morale. consuetudini e leggi. Essa w da molti connessa non pure con anteriori antichissime dottriìie della Grecia, dell’Egitto, dell’ India  e per fin della Cina, dalle quali sarebbe in tutto o in  parte derivata e con le quali ebbe non dubbi punti di  somiglianza, ma altresì con la posteriore filosofia di Platone, in molte parti ricalcata sulle sue orme. Conservata  poi per lungo tempo immune da elementi estranei, e tramandata, senza il sussidio della scrittura, nel segreto  delle scuole, essa ebbe nuovo rigoglio per opera dei filosofi, quando, inalveatesi nel suo letto altre correditi di pensiero, alimenta le speculazioni della teosofia neoplatonica e nieopitagorica di Plotino, di Porfirio e di altri molti, e diede origine a molteplici scritture, quali più quali meno profonde ed attendibili, intorno alla vita ed ai primi insegnamenti dell’antico  maestro. Da essa infine trassero ispirazione alcuni filosofi della rinascenza, e qualche sua derivazione può  dirsi non del tutto spenta anche oggi.  Importantissimo e utilissimo sarebbe dunque massime  per noi italiani, lo studiare la storia di questa dottrina e il ricercarne e ìiarrarne le vicende nei vari tempi  e nei vari paesi: poiché sebbene molti abbiano fatto studi e ricerche in proposito — basta ricordare fra tanti, i lavori di Bitter, Zeller, Gomperz, Chaignet e Mullach, e, in Italia, di Capellina, Centofanti, Gognetti, Martiis, Ferrari e Ferri  -- e benché da tutti Ritter, Oeschichte der Pythagor. Philosopkie, Hamburg, Zellbe, Pythagoras und die Pythagorassage, in Vortràge und Abhandlungen geschichtlichen Inhalts^ Leipzig, 1865 e  Die Philosopkie der Oriechen ecc.., voi. P  Gomperz. Les penseurs de la Grece, trad. de la 2*  ed. alleni, par A. Raymond, Paris, Alcan, Chaignet, Pythagoi^e et la philosopkie pythagor., Paris, Mullach, De Pythagora eiusque dìseipulis et suc-  cessoribus, in Fragmenta philosoph.. graecor. Paris, Capellina, “Delle dottrine dell'antica scuola pitagorica contenute nei Versi d'oro, in Memorie della R. Aecad. di  Scienxe di Torino -- Centofanti, Studi sopra Pitagora, in La letteratura greca, Firenze, Le Monnier -- CoGNETTi De Martiis, L'Istituto Pitagorico, in Atti della R.  Accad. delle Scienxe di Torino, Socialismo antico, Torino, Bocca -- Ferrari, La scuola e la filosofia pitagorica, in Rivista ital. di Ulosofia, Ferri, Sguardo retrospettivo alle opinioni degl'Italiani  intorno alle origini del pitagorismo, in Atti della R. Accademia  dei Lincei, Rendiconti, -- questi e da altri studiosi non solo si siano raccolte molte  notizie ma si siano anche esaminate e discusse quistioni importaìitissiìne pure troppe cose ancora rimangono  da chiarire e da risolvere della storia ch'io chiamerò esterna del Pitagorismo. E fors'anche^ riprendendone i?i  esame il contenuto, ossia tenendo l’occhio alla sua storia interna, che è poi, per la filosofia, la sola importante, qualche verità, io penso, già acquisita e insegnata  dall'antico saggio, potrebbe dimostrarsi anche oggi validamente fondata e tale da poter resistere agli assalti del  nostro più acuto criticismo.   Gli studi raccolti in questo volume furono già da me  in gran parte pubblicati in Riviste; ma poiché ho dovuto, ìiel corso delle mie  ricerche, modificare alcune delle conclusioni alle quali  ero giunto, e nuovi fatti ho potuto chiarire, mi sono  indotto, anche per aderire al desiderio e alle sollecitazioni di be7ievoli amici, a ristamparli tutti insieme.   Spero che il tenue contributo chHo porto alla storia  che or ora dissi esterna del Pitagorismo varrà almeno  a dimostrare che intorìio a queste importantissime dot-  trine non si è detto ancora tutto e che inolio ancora si  può indagare e scoprire. Da diverse tradizioni furono connessi i piiì antichi istituti  religiosi e politici di molte città dell'Italia meridionale con il Pitagorismo. Ne fa meraviglia che alle dottrine di  Pitagora si fa risalire anche le prime istituzioni e  le più antiche leggi di Roma. Numa, il sacro legislatore  della città capitolina, e ritenuto scolaro di Pitagora, e le  stesse leggi di Le XII Tavole, copiate dalle legislazioni  della Magna Grecia e della Sicilia, che alla loro volta  traevano ispirazione, se non origine, dal Pitagorismo, sono altresì ricongiunte con questo. Sarebbe indubbiamente assai utile e interessante poter  determinare in che consistessero questi legami di dipendenza e stabilire con precisione quali furono gl'influssi  dell'antica sapienza italica sulla formazione delle credenze  e degli istituti religiosi e della fondamentale legislazione  Seneca, per esempio, (Epist. ad Lucilium) sull'autorità  di Posìdonio, dice, parlando dei grandi legislatori dell'Italia. Hi  non in foro, nec in consultorum atrio, sed in Pythagorae ilio sanctoque secessu didicerunt jura, quae fiorenti lune Siciliae et  per Italiani Oraeciae ponerent --  romana; ma purtroppo, sebbene qualche lieve tentativo si  sia fatto in proposito, non è, per ora, possibile una determinazione neppure approssimativa. Ma insieme con questa azione, da alcuni ritenuta soltanto leggendaria, su ciò che costituì l'anima della vita  civile di Roma, esercitò il Pitagorismo un ulteriore influsso, determinando attraverso le  vicende della sua storia vasta e complessa, una corrente  di filosofia sua propria, continua o interrotta, palese o  recondita? Di vera e propria tradizione scritta non ci restano tracce, se non frammentarie; di una tradizione orale abbiamo  invece meno scarsi indizi e con certezza sappiamo di non pochi seguaci che la dottrina pitagorica ha in Roma. Anzi noi possiamo rilevare fin d'ora, anticipando in parte  le conclusioni di queste nostre ricerche, che questi innamorati cultori di una così riposta e difficile sapienza non  furono già uomini oscuri nè poeti o scrittori di second’ordine, ma cittadini illustri, grandi poeti e celebri letterati,  pensatori insigni e grandi uomini politici. Cosicché la filosofia pitagorica, non morta nella scrittura o negli insegnamenti orali, ma viva e operante nelle menti di magistrati  famosi, come APPIO CLAUDIO e il maggiore SCIPIONE, nelle  fantasie di autori eccellenti, come ENNIO e VIRGILIO, nei  cuori di cittadini nobilissimi, come FIGULO, VARRONE e i  SESTII, accompagna in certo modo passo per passo il progredire della potenza e della grandezza di Roma; finché  poi, sopra la sua efficienza pratica e la sua virtù fattiva prevalendo l'elemento speculativo, che, data la naiura e  l'indole dei romani, e il meno idoneo ad allettarli, e  all'antica razionalità delle dottrine sovrapponendosi da un  lato fantasticherie e aberrazioni come quelle di un ApolIonio di Tiana, e dall'altro frammischiaudosi elementi eterogenei di origine greca, orientale e forse anche cristiana,  essa si ritira di nuovo nel silenzio e nella segretezza di  qualche scuola, illumina appena la vita e lo spirito di  qualche solitario amante della verità e del sapere, e finì  per disperdersi e dileguare nelle acque torbide delle speculazioni di un Macrobio o di un Eulogio. Se io mi sono indotto pertanto a raccogliere con la maggior diligenza possìbile i ricordi, le testimonianze, le tracce, o. palesi o recondite, o tenui o larghe, che di sé  lascia il pensiero pitagorico nella storia e nella letteratura dell'antica Roma, gli è che altri lavori e studi esaurienti intorno al mio tema non mi è accaduto di trovare. Brevi cenni riassuntivi si trovano bensì nelle opere di Zeller, Chaignet, Mullach, nella “Storia di  Roma” del Pais, e in storie generali e particolari della  letteratura romana; ma in sostanza io ho dovuto fare lunghe e pazienti indagini, per mettere insieme notizie sparse  qua e là un po' dappertutto. L'importanza e il valore delle  mie ricerche non consistono dunque nella novità dei risultati, ma piuttosto nello svolgimento dato a un tema fin  qui appena malamente sfiorato da qualche erudito, nella  quantità delle notizie raccolte e nell'ordinamento che ne  ho fatto, seguendo l'ordine cronologico; e qualche questione spero anche di avere maggiormente chiarita, sebbene, per la scarsità dei dati sui quali era concesso costruire, non sempre abbia potuto giungere a conclusioni  definitive. Che molte delle antiche istituzioni di Roma sono derivate dalla filosofia pitagorica e riconosciuto ed ammesso esplicitamente da CICERONE, il quale nelle Tusculane scrive: “Pythagorae doctrina cum longe lateque flueret, pernianavisse mihi videtur in hanc civitatem, idqtce cum coniectura probabile est, tum quibusdam etiam vestigiis indicator.” A conforto dunque della sua opinione CICERONE adduce  due argomenti, uno congetturale e uno di fatto. “Quis  enim est qui putet cum fiorerei in  Italia Graecia potentissimis et maximis urbibus, ea quas Magna dieta est, in eisque primum ipsius Pythagorae,  deinde postea Pythagoreorum tantum nomen esset, nostrorum hominum ad eorum doctissimas voces aures olausas  fuisee f Quin etiam arhitror propter Pythagoreorum admistrationem NUMAM quoque regem pytagoreum a posterioribus existimatum. Nam cum Pythagorae dìsciplinam et  instituta cognoscerent regisque eius aequitatem et sapientìam a maiorihus suis accepisseut aetates autem et tempora ignorarent propter vetustatenii eum, qui sapientia  excelleret, Pythagorae auditorem crediderunt fuisse.” E  questa è la congettura. L constatazione di fatto poi è,  che nelle istituzioni romane e in alcune antiche scritture  vi sono molte non indubbie tracce di pitagorismo. Quanto  alle istituzioni, CICERONE trova materia di raffronto nell'uso dei  canti e della musica. “Vestigia autem Pythagoreorum,  quamquam multa colligi possunt, paucis tamen utemur. Nam cum carminibus soliti illi esse dicantur et praecepta quaedam occultius tradere et mentes suas a cogitationum  intentione eantu fidibusque ad tranquillitatem traducere,  gravissimus auctor in Originibus dixit CAIO morem apud  maiores hunc epuìarum fuisse ut deinceps qui accubarent,  canerent ad tibiam clarorum virorum laudes atque virtutes. Ex quo perspicuum est et cantus tum fuisse discriptos  vocum sonls et carmina. Quamquam id quidem etiam XII TABULAE declarant, condi iam tum solltum esse carmen, quod ne licer et fieri ad alter ius iniuriam lege sanxerunt.  Sec vero illud non eruditorum temporum argumentum est,  quod et deorum puloinaribus et epulis magistratuum fides  praecinunt, quod proprium eius fuit, de qua loquor, disciplinae.” E quanto alle antiche scritture CICERONE ricorda un  carme di APPIO CIECO, che a lui pare pitagoreo. “Mihi  quidem etiam APII CACCI  carmen, quod valde PANAETIVS  laudat epistula quadam, quae est ad Q. TVBERONEM, Pythagoreum videtur.” CICERONE conclude: “Multa etiam  sunt in nostris institutis ducta ab illis; quae praetereo,  ne ea, quae repperisse ipsi putamur aliunde didicisse vi-deamur.” È davvero un peccato che Cicerone, per sentimento d’orgoglio nazionale — che non doveva peraltro  essere soltanto suo — e forse anche per ragioni, se non  di stato, come oggi si direbbe, almeno di prudenza e di  utilità pubblica, *tace* intorno  a queste molte altre derivazioni d'istituti romani dal pitagorismo, alle quali, come si è visto accenna per ben due  volte; tanto piii che CICERONE e per le cariche da lui coperte,  e per la conoscenza che aveva della scienza augurale e  sacerdotale, e, in genere, per la sua larga e profonda  cultura storica, letteraria e FILOSOFICA, e bene in grado  di fornirci in proposito notizie, documenti e prove certo  assai interessanti. Ci è forza dunque accontentarci di questa sua affermazione categorica, per quanto generica, e  vedere, anzitutto, se e quanto i suoi argomenti siano validi e, in secondo luogo, se ci si offrano altri indizi prò contro la sua tesi.  Che in verità il pitagorismo importato nella Magna  Grecia “temporihiis isdem”  — come dice lo Cicerone — “quibus L. Brutus patriam liberavit” -- e propagatosi in tutta l'Italia meridionale, dove si conserva, non dove rimanere ignoto ai romani e dove esercitare su di loro,  presto tardi, qualche influsso notevole, è ovvio, e le  presenti ricerche dimostrano appunto la cosa alla luce dei  fatti. Ma, la questione è ora di vedere se tale influsso si  possa far risalire veramente ai tempi di Pitagora e dei    --  [E detto che Pitagora venne in  Italia “superbo regnante” -- suoi primi seguaci, come Cicerone crede, oppure, come  crede LIVIO, se esso si fa sentire soltanto, per opera di neo-pitagòrici, dopo la  conquista della Campania e della Magna Grecia --  e, d' altra parte, se  questa azione sia stata così larga e profonda da dover  lasciare molte tracce di sé negli istituti politici e religiosi  di Roma, o se si sia esercitata solo sulle prime manifestazioni dell'arte musicale e letteraria e sulle prime speculazioni filosofico-religiose.   Due fatti, piccoli ma significativi, pare a me che dimostrino, anzitutto, come già parecchie generazioni prima  dell'Arpinate, e precisamente PRIMA della conquista dell'Italia meridionale, dove  essere convinzione di molti in Roma che a Pitagora, alla  sua dottrina e alle sue leggi e debitrice di molto Roma. Il primo di questi fatti è che durante la guerra sannitica e innalzata a Pitagora ai lati del comizio in  Roma, per volere di Apollo, una statua, che vi rimase  poi sino ai tempi di Siila. Ora la guerra contro i San-niti si combattè in tre periodi. Pais crede che la cosa si debba  ritenere avvenuta appunto in questi ultimini anni. Ma in realtà  non vi sono ragioni che ci vietino di farla risalire anche ad uno dei due periodi precedenti. L'altro fatto, un  poco posteriore, è che dopo la presa di Turis, di Eraclea     -- La cosa ci è attestata da Plinio, il quale però non cita la  fonte da cui ha attinto la notizia. Dice PLINIO infatti. “Invento et Pythagorae et Alcibiadi in eornibus Comitii positas statuas, cum, bello Samniti Apollo Pythius iussisset fortissimo Oraiae gentìs et alteri sapientissimo simulacra celebri loco dicari.” Cfr. Plutarco, Numa.  -- e di Taranto e con l'arrivo nella città di Livio  Andronico, che ne divenne il poeta sacro ed ufficiale,  sono dichiarati cittadini romani, Pitagora e il suo alunno  Zaleuco. Ora perche mai sono stati concessi a Pitagora due onori così distinti e di carattere pubblico, se  non si sono riconosciute le sue benemerenze verso Roma? Evidentemente, in quei tempi più antichi, l'orgoglio  nazionale non ha ancora oscurato, come più tardi, il  senso della verità storica! Ciò premesso, veniamo ad esaminare la possibilità degl'influssi pitagorici sulla più antica civiltà capitolina, secondo le prove che ce ne dà CICERONE. I carmina convivalia che, ormai disusati nell'età  ciceroniana, sono invece ancora in uso al tempo della  seconda guerra punica e che risalivano,  come afferma CATONE, a molte generazioni prima di lui,  sono certamente anteriori alla legislazione decemvirale. Cicerone, infatti, per  dimostrare l'esistenza di canti accompagnati da strumenti  musicali, e quindi di una civiltà abbastanza evoluta nei  tempi più antichi di Roma, ricorda nel passo citato, insieme con la testimonianza di CATONE, il fatto che le leggi  di Le XII TABULAE comminavano gravi pene a chi avesse usato quei canti “ad alterius inkiriam.” Senonchè  Cicerone, come appare da un altro passo dei suoi scritti -- Vedasi il framm. nei Fragni. Hist. Graec. e  Symm. ep. X, 25.   -- Cfr. De rep. IV, fr, 12. “Nostrae XII tabulae quuni  perpaueas res capite sanxissent, in his hane quoque saneiendam pukiverunt, si quis occentavisset sive earmen condidisset quod infamiam faeeret fìagitiumve alteri” --  e vedi auche Plinio, Nat. Hist.   -- audò anche più oltre, ritenendoli già esistenti a tempo  del re NUMA. Se così è, non avrebbe dunque dovuto valere anche per essi l'obiezione che l'Arpinate moveva, come si è veduto, alla leggenda che il re Numa e stato scolaro di Pitagora? Neppure di questi antichissimi  canti egli puo logicamente ammettere la derivazione  dall'analoga costumanza dei Pitagorici, se Numa che Ji  istituì visse, secondo la cronologia ufficiale, a cui il nostro  autore credeva, piti di cento anni innanzi la venuta del  filosofo di Samo. Cosicché o il raffronto istituito da Cicerone e la analogia da lui messa in rilievo non ha alcun  valore storico — e così dovrebbe ritenersi senz'altro, se  fosse indiscutibilmente fondata la cronologia della più antica storia di Roma — , oppure, come è più probabile,  in conformità dei risultati generali e particolari a cui è  giunta la critica storica nell'esame delle primitive leggende  romane — l'ipotesi della derivazione dei canti dal pitagorismo ha un fondamento di vero, e in tal caso è da ritenere che fosse errata la tradizione cronologica, in quanto  fa risalire all’antico un'usanza che dovette essere piu nuova. Quanto poi all'analogia considerata in se, in che consisteva essa? Semplicemente   --  (De orai. “Nikil est autem tam eognatum mentibus  nostris quam, numeri atque voces; qtiibus et excitamicr et ineendimur et lenìmur et languescimus et ad hilaritatem et ad tristitiam  saepe deducimur; quorum Ula sumnia vis carminibus est aptior  et eantibus, non neglecta ut mihi videtur, a NUMA rege doctissimo  maioribusque ìiostri ut epularum sollemnium fides ac tibiae Saliorumque versus Indicarli ; maxime autem a Graecìa vetere celebrate.” Di questi canti poi Cicerone parla anche altrove, e cioè  nel Brutus e nelle Tusculane. Si vedano anche TACITO, Ann. Ili, 5, Val. Massimo, Nonio ad assa voce  ed ivi Yabbone, de vita pop. rom.^ fi. II, 20, Kettner.  nell'uso comune del canto e della musica in occasione di  feste religiose e di banchetti pubblici, non già nel contenuto dei canti stessi, che gli uni. -- cioè i Pitagorici, adoperarono come mezzo terapeutico e di insegnamento esoterico, e gli altri invece, cioè i Komani, per esaltare la  memoria degli antichi eroi; come i Pitagorici erano soliti  tramandare sotto il vincolo della segretezza certi insegnamenti in forma di canzoni e riposare per mezzo di canti  accompagnati dalla lira le menti affaticate dalla lunga  meditazione, così gl’antichi Romani soleno, al principio  dei banchetti, cantare al suono delle tibie le lodi e le virtù  degli eroi, ed hanno anche l'usanza di far precedere tanto  alle mense in onore del divino, quanto ai banchetti dei magistrati, il suono delle lire, il che fu pure caratteristico dei Pitagorici. Insomma, le piu antiche manifestazioni dell'arte musicale in Roma si ha per l'influsso diretto  del Pitagorismo. A quel modo che si è dimostrata la possibilità che sono derivate dal pitagorismo queste antichissime manifestazioni dell'arte musicale, si puo anche riconoscere  come verisimile — contrariamente a ciò che ne pensa Cicerone — la notizia dei rapporti fra Numa e Pitagora.   La notizia che il re Numa e stato scolaro di Pitagora  è probabilmente vecchia. Anzi il  Pais afferma che essa si deve forse far risalire ad Aristosseno. Ma in tal caso e necessario credere che Aristosseno conosce una cronologia della storia romana diversa da quella che fu poi consacrata dalla storiografia  ufficiale, secondo i computi della quale l'esistenza di Nu-     [Storia di Roma] ma e anteriore a quella di Pitagora.  Tanto è vero che quasi tutti i filosofi presso i quali  troviamo ricordata tale notizia — Cicerone, Dionigi d'Alicarnasso, Diodoro Siculo, Livio, Ovidio, Plutarco, Plinio —  notano e discutono variamente questa inconciliabilità cronologica, concludendo tutti press'a poco come fa Manilio  nel De re publica di Cicerone, che dice la storia di queste  relazioni non sufficientemente provata dai pubblici annali  e quindi da ritenersi un errore inveterate. Ora che  dal punto di vista romano o di scrittori romanizzanti così  dovesse concludersi, è troppo naturale. Data la indiscutibile verità della tradizione e della relativa cronologia, non puo esservi dubbio per loro sulla impossibilità per parte  di Numa di essere alunno di Pitagora. Ma tale impossibilità non esiste per noi, che sappiamo come la storia  delle origini di Roma sia di formazione relativamente assai  tarda, come i computi cronologici che a quella si riferiscono siano il risultato di una lunga elaborazione tradizionale, quasi interamente destituita d'ogni fondamento di  verità, e infine come molte figure della leggenda siano soltanto dei simboli rappresentativi di un complesso di  fatti di istituzioni appartenenti talvolta a tempi successivi e diversi. Tolto dunque l'ostacolo cronologico che, se  e validissimo per i contemporanei di Cicerone, non sussiste più oggi che la critica storica ha demolito l'antichissima cronologia di Roma, non rimane altra obiezione che     [De re publ.: «Inveteratus ho77tinum errore.  Cfr. DioN. Halic. II, 59 ; Diod. Sic.{.Exc. de vlrt. et vii.; Livio; Plut. iVwma;  Plinio, Nat. Hist. quella sollevata da LIVIO, il quale ritenne impossibile ogni  rapporto fra Numa e Pitagora anche per ragioni di distanza e DI LINGUA. Dice Livio infatti. “Auctorem doctrinae  Numae quia non exstat alius, falso Samium  Pythagoram edunt, quem Servio Tullio regnante Romae,  centum amplius post annos, in ultima Italiae ora circa METAPONTUM HERACLEAMQUE ET CROTONA iuvenum aemulantium studia coetus habuisse constai. Ex quibus locis, etsi eiusdem aetatis fuisset quae fama in Sabinos e aut quo LINGVAE commercio quemquam ad cupiditatem discendi excivisset e quove praesidio unus per tot gentes dissonas sermone moribusque pervenisset e suopte igitur  ingenuo temperatum animum virtutibus fuisse opinor magis instructumque non tam peregrinis artibus quam disciplina tetrica ac tristi veterum Sabinorum quo genere nullmn quondam incorruptius fuit.” Ma nel  campo della storia, come giustamente osserva De Marchi, è forse detta l'ultima parola sui rapporti che legarono in antico la civiltà della Magna Grecia con le più barbare popolazioni italiche del centro? E d' altra parte la esistenza ammessa da Livio di una “disciplina tetrica ac tristis” presso i sabini non è  cosa molto più problematica di quello che non sia probabile l'andata di qualche sabino o romano nella Magna Grecia nel secolo sesto? La leggenda dei rapporti fra  Numa e Pitagora dovd dunque, a parer nostro, accettarsi come rispondente a verisimiglianza, e il regno di  Numa, se questi è realmente esistito, o, in ogni modo,   -- “Passi'scelti da Livio ad illustrare le istituzioni religiose, politiche e militari di Roma antica” (Milano, Vallardi il formarsi di tutti quegli istituti di carattere religioso che  la tradizione riporta a Numa, dovd ritenersi posteriore  almeno al tempo di Pitagora, appunto perchè dalla tradizione e tenuto in stretto  rapporto di dipendenza dal pitagorismo. In tal modo non  e più necessario, come fa il Pais, di ritenere inventata d’Aristosseno l'altra notizia, che risale appunto a  questo filosofo che parla genericamente  di Romani accorsi ad ascoltar Pitagora, e piu facilmente si comprendeno alcuni dati della leggenda di Numa, la scoperta dei famosi libri pitagorici di questo re, e il fatto che qualche scrittore, per esempio Ovidio, ammetta la realtà dei rapporti, senza neppure discuterla. Racconta ancora la tradizione che Numa ha tanta  venerazione per il suo maestro Pitagora, che volle dare  a un proprio figlio il nome di “Mamerco”, in onore dell'omonimo figlio del filosofo. Che significato può avere questo  nuovo particolare? Alcuni hanno creduto di scorgere in  esso un tentativo da parte degl’Emili Mamertini di far  risalire in tal modo le proprie origini al tempo di Numa.  Se così e, noi doviamo allora ammettere che quando  il particolare e inserito nella leggenda, la cronologia di  questa non e ancora quella ufficiale. Altrimenti il tentativo e puerile. Ma così non è, come  e giustamente osservato da Mtille. Probabilmente il     (lì npoo'^X'9'Ov S'aùxcp -- cioè Pitagora --  &<; cpvjoiv 'Apiaxógsvog, xal  Asuxavol xal MsooàTiiot xal Hsuxéxioi xal 'Ptojjtalot. Così dice Porfirio nella sua Vita di Pitagora; e il medesimo affermano,  senza citare Aristosseno, Diogene Laerzio e Giamblico (Vita Pythag.). Quanto a Pais, vedasi St. di Roma -- Plutarco, Numa -- Emilio -- Q. Ennius, Pietrob. -- particolare non ha altro ufficio che di avvalorare con  un indizio di piu la leggenda. Un'altra notizia, a proposito della quale non è veramente fatta menzione alcuna di Pitagora, è quella che si riferisce alla Musa Tacita, per  la quale Numa ha particolare venerazione. Allude  forse essa alla pratica del silenzio e della segretezza, di  cui parla costantemente la tradizione pitagorica? È possibile. E il miracolo della mensa carica di ricco vasellame,  che il re avrebbe fatto apparire dinanzi agli occhi di coloro che dubitano delle sue facoltà soprannaturali,  non ricorda le analoghe facoltà magiche attribuite a Pitagora dalla tradizione? Veramente queste due notizie, per  il loro carattere favoloso, pouo indurci a credere  l'austera e quasi mistica figura di Numa una proiezione  storica immaginaria, plasmata, in parte, a immagine del  saggio di Samo. Ma un altro fatto, sulla cui verità storica  non è possibile il dubbio, sembra indurci a conclusione  diversa. Voglio alludere al fatto della scoperta dei famosi  libri di Numa, avvenuta in occasione di  uno scavo sul Gianicolo. Ora data la realtà della scoperta  e la inverosimiglianza di una falsificazione, noi dobbiamo ammettere, con la tradizione, che questi libri sono antichi. Siano  poi essi stati opera del saggio Numa — la cui esistenza,  come s'è già detto, dove necessariamente porsi in  un'epoca posteriore  — o di qualche altro  sapiente imbevuto di sapienza italica, essi starebbero  sempre a dimostrare che effettivamente il pitagorismo esercita una qualche azione sull'antica civiltà di Roma. Plutarco, Numa -- DioN. Hauc. Dal complesso di queste notizie e di questi fatti noi  possiamo dunque inferire che non solo la leggenda dei rapporti fra i due legislatori dove essere assai diffusa  ed antica, ma che altresì essa ha un certo fondamento di vero. Di guisa che se Cicerone la disce “inveteratus hominum error” noi possiamo senz'altro accettarne la vetustà. E,  quanto all'erroneità, essa e probabilmente soltanto  un desiderio di uomini di stato e di eruditi animati da un eccessivo orgoglio nazionale. Per la qual cosa Ovidio, che pure scrive dopo che diversi filosofi hanno mosso  alla leggenda le critiche accennate, puo ben accettarla  senza discuterla affatto come una cosa ovvia e risaputa e fare in certo modo dipendere le istituzioni religiose attribuite a Numa, persino la sua riforma del calendario – gennaio, febbraio --, dalla educazione pitagorica da lui ricevuta.  Anche alcune disposizioni legislative di Le XII TABVULAE sono messe in relazione col Pitagorismo. Cosa ben naturale, se si pensi alla loro origine. Non sono esse infatti  ricalcate sulle orme delle legislazioni della Magna Grecia,  che, alla lor volta, com'è ben noto, si informano ai principii di quella dottrina? Ora questa, che sarebbe, per dirla  con CICERONE, semplice coniectura, ha poi la sua riprova  nel contenuto delle leggi stesse, quale può desumersi dai  frammenti che ce ne rimangono. Infatti il diritto punitivo  in esse sancito s'ispira al principio del taglione: « Si     [Metam., Fast., Pont.]. e.  membrum rup{s)it^ ni cum eo pacit^ TALLO està », dice il  secondo frammento della XVIII TABVLA, e questo principio,  che, come attesta Demostene, ha largo svolgimento nelle  leggi di Zaleuco, e indubitatamente tolto dai pitagorici, i quali lo ricollegavano alla dottrina dei numeri. Dice  infatti Aristotile che la giustizia e da loro consideata come ràvTi7i;£7cov'9'ó(;, perchè consisteva in una proporzione — non inversa, ma diretta, come notò bene Zeller  — fra l'offeso, l'offensore e il Giudice. Nel che essi applicarono, secondo la critica aristotelica, i criteri della giustizia commutativa ad un ordine in cui non può aver luogo che la distributiva. Ora, dice Chiappelli -- in qual modo si determinasse dal pitagorismo e quali applicazioni avesse questa teorica del taglione non possiamo dire, né possiamo quiudi sapere quali elementi di essa penetrassero in le XII TABVLAE e  a quali trasformazioni anda soggetta in Roma. Un punto  tuttavia è possibile stabilire, sebbene solo in modo negativo. Alla legge generale, in le XII TABVLAE segueno  le leggi speciali: la prima di esse riguardava la diversa     Timocr.  « ò'^xoz yàp aòxó^t vó|i.oo, èdtv tig òcp'S-aXiJLÒv  è%xó4>ì|7, àvTsxxócIjat itapaaxsiv xòv éauxoQ xal oò XP'^M-*''^^^ xt|i7j-  oswg oòSs|Jtiac, àTceiÀTjaat xtg Xéyexat èy^d-pòg è/.'^-pcp Iva Ixovxt òcpS-aX-  jjiòv Sxt aòxoù èxxóc|^st zoùzo'* xòv §va ». Le medesime parole si  ritrovano in quello che 1' autore della Grande Morale ci riferisce  dei pitagorici, il ohe è una riprova del rapporto storico fra questi  e Zaleuco.  -- Eth. Nic.-- xst 5s xtat  xal xò àvxt7C£7iov'9'òc slvat ànXGòq dCxatov còaicep oi nuO-ayópsiot  Icpaaav. è^pL^o'^xo yàp àuXwc '^à SCxaiov xò dcvxtTCSTtovO'òc dcXXcp ».  Sopra alcuni frammenti di le XII TABVULAE nelle loro relazioni  con Eraclito e Pitagora, in Areh. Giuria 00 misura della pena per l'ingiuria recata a un libero o ad  uno schiavo. Ora i Pitagorici non pare che avessero  fatta questa distinzione, se l'autore della Grande Morale  combatte la dottrina pitagorica del taglione, come quella  che non si può applicare incondizionatamente al servo o  al libero, poiché di quanto quello cede a questo, di tanto,  se gli abbia fatto ingiuria, deve accrescersi la pena corrispondente. E in verità siffatta distinzione e bensì  impossibile nel sistema dei pitagorici, per i quali il corpo  e come il carcere dell'anima, che vaga in una perenne  trasmigrazione, e il più alto precetto etico e l'imitazione  del divino per via della virtù, l'osservanza della legge e il  rispetto verso tutti gl’uomini. Ma e invece possibilissima, anzi necessaria, nella legislazione di Roma, dove così  netto e il distacco fra cittadini liberi e schiavi.  Abbiamo anche veduto come a Cicerone paresse  ispirato ai principii della filosofia pitagorica il poemetto di APPIO CLAUDIO CIECO, che, censore e console, e indubbiamente uno dei personaggi  storici più importanti e, se non il primo, certo uno dei  primi rappresentanti di una larga cultura. Orbene, che il  giudizio di Cicerone non e errato parrebbero dimostrare  a sufficienza i pochi frammenti che di quella poesia ci sono  rimasti. E in verità la famosa sentenza “fabrum esse suae  quemque fortunae” non puo esprimere meglio il fondamento della dottrina morale di Pitagora. L’altra, altis-     [Si veda il fr. 3 della stessa tav. Vili ; « Manu fustive si os  fregit libero CCC, si servo GL poenani subito.” Magn. Mar.  « xò Si^ TotoaTov o5x èaxt  Tipòg &7iavxag* oò yàp laxi Stxaiov olxéx^ Tcpòg èXsud-spóv xaOxóv »] sima, come dice Pascoli, se fosse certa la lezione e  l’interpretazione – “amicum cum vides obliscere miserias;  inimicus sies; commentus nec libens aeque idem tamen  teneto” -- «tu dimentichi  la tua miseria quando vedi un amico; ora sia tuo nemico  "quello che tu vedi: ebbene, pensatamente, e non volentieri come con l'amico, tieni lo stesso contegno, tuttavia” ,  è pure strettamente conforme alla dottrina pitagorica, che  insegna amore e fratellanza. Il terzo infine « sui quemque oportet animi coìnpotem esse semper nequid fraudis  stuprique ferocia pariat” non e certo disforme dalle pratiche e dagl’esercizi spirituali degli adepti al pitagorismo,  che dovevano acquistare padronanza assoluta non pure del  proprio corpo, ma anche delle proprie attività interiori,  per dirigerle al bene. Non si apponeva dunque male Cicerone. Senonchè anche intorno all'autenticità di questo antico poema, che e una delle prime manifestazioni letterarie di Roma,  si sono sollevati dei dubbi. Il fatto che la notizia di esso  e data da Panezio in una sua lettera a Quinto Tuberone  ha indotto per esempio Pais a pensare che si tratti  di una falsificazione posteriore, da collegarsi con le altre  falsità che andavano sotto il nome di Aristosseno intorno  ai romani scolari di Pitagora e su Pitagora cittadino di  Roma. Ma come è ciò possibile, se Aristosseno e Appio  furono contemporanei? E se Appio visse, come è certo,  nel tempo in cui furono sottomesse la Campania e la Lucania che ragione c'è per negare che Appio conosce quelle dottrine e da esse trarre ispirazione per    [Lyra romana, Livorno,St. di Roma] il suo poemetto? E poi come dubitare con qualche fondamento dell'autenticità dell'opera che un Panezio e un Cicerone, a distanza di tempo relativamente breve, attribuirono ad Appio stesso, tanto più che il medesimo Pais riconosce che l'efficacia della filosofìa tarentina si esercita sopra gli uomini di stato romani dal tempo di Appio e  di Pirro? L' ipotesi di una falsificazione, della quale poi  non si vedrebbe neppur chiaramente la ragione, non ci  sembra dunque per nulla fondata. Sì che noi possiamo  con chiudere che la dottrina del filosofo di Samo, in conformità dei dati tradizionali, esercita una qualche azione  tanto sulla più antica civiltà di Roma, quanto sui primi prodotti del pensiero e  dell' arte -- Chi, più d'ogni altro, contribuì a diffondere in Roma  la conoscenza delle dottrine di Pitagora e senza dubbio ENNIO, il padre della filosofia romana. Nativo di Rudie, paese  fortemente ellenizzato fra Brindisi e Taranto, Ennio studiato a Taranto, che era il centro italico, in  cui si conservavano più pure le tradizioni pitagoriche.  Versato nell'osco, nel latino, e nel greco, Ennio diceva scherzando di avere tre cuori. Si trova a militare  in Sardegna fra gl’ausiliari che Taranto manda -- Gellio, N. A. --  ai Romani, e quivi da Catone e invitato a recarsi a Roma.  Come si spiega tale invito? Quali vincoli si stabilirono fra  questi due uomini, destinati a sì grandi cose, che si incontrarono fra gli orrori di una guerra di conquista? Sono vincoli di simpatia e di amicizia creati dalla comune grandezza d'animo e da comuni aspirazioni? Si sono essi  già conosciuti prima, quando Catone e in Taranto ospito del pitagorico Nearco? Questo mi sembra più probabile. D'altra parte la profonda  scienza e il forte intelletto del rudino dovettero certo  colpire l'animo eletto e la mente aperta di Catone, che  alle qualità pratiche dell’uomo di stato une l’attitudine del filosofo. In virtù della sua sapienza Ennio dove apparire  al nobile cittadino di Roma come assai atto a cantare le  antiche gesta di Roma; ed è forse per questo che Catone, ragionando con lui delle istorie primitive della patria  e delle relazioni che essa ebbe con la Magna Grecia, dove  suggerirgli l'idea del poema, che quegli poi realmente  scrive, e per la composizione di esso ojffrirsi di agevolargli la conoscenza dei documenti e dei materiali storici e  promettergli tutto il suo aiuto -- il quale, e per la condizione e per l'ingegno dell'offerente, non poteva non apparire ad Ennio prezioso e inestimabile. Ad ENNIO d'altro  lato, piena l'anima dell'antica sapienza della sua terra, di  quella sapienza che nessuno   in somnis vidit priu' quam sam discere coepit -- Plutarco, Gaio maior, — Cicerone, Caio maior -- Annalee, (Yalmagoi)] dovette balenare come in uno splendore radioso l'idea di  illustrare col suo canto le antiche imprese di Roma e, al  tempo stesso, di farsi banditore di una sapienza sconosciuta alla città che forse il suo spirito veggente presagiva  sarebbe stata nuova fucina di cultura e di sapere e maestra  di nuova civiltà alle più lontane generazioni! Venuto in Roma, Ennio vi si dedica totalmente a diffondere fra i romani colti l'amore del sapere. Ennio chiama intorno a sé,  a formare un circolo di studiosi, i piti influenti e noti  cittadini e da essi seppe farsi amare ed onorare per le  cognizioni vaste e profonde, per la nobiltà dell'animo e  l'integrità del carattere, per la modestia della vita e dei  costumi, per la dolcezza dei modi e del parlare. Ad ascoltarlo accorsero fra gli altri SCIPIONE Africano, Scipione  Nasica, Aulo Postumio Albino, Marco e Quinto Fulvio  Nobiliore, e con tali amicizie Ennio sa vivere sempre sereno, mostrando così con l'efficacia dell'esempio, che le verità da lui insegnate e praticate sono le più atte a dare la felicità e la  pace. Se vogliamo credere a Gelilo, il grammatico Lucio  Elio Stilone sole dire che Ennio fa il ritratto di sé  medesimo nei seguenti versi degli Annali, che descrivono  il vero amico – “Haece locutus vocat, quocum bene saepe libenter  mensam sermonesque suos rerumque suarum  comiter inpartit, magnam cum lassus diei  partem trivisset de summis rebus regundis    -- E « decemvir sacrorum » (Livio).  Consilio indù foro lato sanctoque senatu;   quo res audacter magnas parvasque iocumque  eloqueretur cuncta simul malaque et bona dictu  evomeretj si qui vellet, tutoque locaret;  quocum multa volup et gaudia clamque palamque, ingenium quoi nulla malum sententia suadet   ut faceret facinus levis aut malus ; doctus, fidelis,  suavis homo, facundus, suo contentus, beatus,  scitus, secunda loquens in tempore, commodus, verbum  paucum, multa tenens antiqua sepulta, vetustas quem facit et mores veteresque novosque tenentem  multorum veterum leges divomque hominumque,  prudenter qui dieta loquive tacereve posset.” In questo ritratto tu vedi l'immagine del vero sapiente  pitagorico, che sa trattare le faccende pubbliche e raccor  gliersi nella meditazione, che sa parlare con piacevolezza  e con facondia e tacere a tempo opportuno, che non commette mai il male, neppure per leggerezza, fedele nell'amicizia e servizievole contento del suo, felice, che infine  sa molte cose profonde e recondite, ma le tiene ermeticamente chiuse nel fondo della sua anima, per non darle  in balìa di inetti, e le svela soltanto a chi si mostri atto  ad intenderle.  E anche possibile, come osserva acutamente Pascal, che in questi versi Ennio vuole altresì rappresentare i suoi rapporti col grande SCIPIONE, del quale si puo dire assai piu convenientemente quello che Macrobio scrive d’'Emiliano, che cioè e “vir non minus     [Gellio – “L. Aelium Stilonem dicere solitum  ferunt, Q. Ennium de semet ipso haec scripsisse picturamque istam  morum et ingenii ipsius Q. ENNI factam esse.” I versi sono secondo il testo dato da Valmaggi (Mìjller, Baehrens).  Antologia latina, Milano] philosopMa quam virtute praecellens -- e l'ipotesi tanto  pili è accettabile se pensiamo che Scipione e forse il migliore dei discepoli d’ENNIO, il quale lo ha in tanta  considerazione da comporre intorno a lui un poemetto  — Scipione — e da fargli dire – “A Sole exoriente supra Maeotis paludes nemo est qui factis me aequiperare queat. Si fas endo plagas caelestum ascendere cuiquam est, mi soli caeli maxima porta patet.” Cicerone stesso, appunto per la sua sapienza, oltre  che per la fama delle sue imprese, non lo scolge come  protagonista del Sogno famoso col quale terminava il De  Repuhlica  [Di Ennio e notissimo ai Romani il sogno col quale  incominciavano gl’Annales e di cui ci sono rimasti appena alcuni frammenti insieme con le testimonianze di  Lucrezio, Cicerone, Orazio, di Persio e altri -- In Somnium Seipionis^ I, 3.   (2) Cicerone, Tusc., Seneca, e/),, 108 e altri. Seneca poi,  nell'ep. 86, dice, parlando appunto di Scipione – “animus eius in  eaelum ex quo erat rediisse persuadeo rtiihi.” Vedili in V. J. Vahlen Enn. poes. rei., Lipsiae, ediz. MuELLEE, Q. Enni carm. rei., Petrop. e nei Frag. poet. rovn. coli. Baehrens, Lipsiae, Vedi  anche le osservazioni del Mueller, Q. Ennius, Pietroburgo, e lo studio di Valmaggi pubblicato nel Bollettino di  filai, classica – Lucrezio -- Cicerone, Somn. Scip., -- Aead, -- Orazio, Ep.  -- Persio, -- Schol. in Pers. Sehol. Cruq. in  Orazio, Ep. Il, 1, 52; Frontone, ep.12, p. 74 Nab.; Sergio,  ad Aen. Questo sogno che leva grande rumore nel mondo romano e di cui spesso si parla, ora con serietà filosofica,  ora per ischerzo, tanto che divenne quasi proverbiale -- dove essere abbastanza lungo. Al poeta addormentato  sarebbe apparso sul monte Parnasso il fantasma piangente di Omero a dargli lunghe spiegazioni intorno  all'ordine dell'universo, alle trasmigrazioni di ogni anima umana attraverso un proprio ciclo di vite e alla  sopravvivenza nelle caverne d'Acheronte di una forma  intermedia fra l'anima e il corpo e a ricordargli le  mutazioni della propria anima, trasformatasi, dopo la morte  del corpo, in un pavone e rinata appunto in lui, il   -- Pasdera, Il sogno di Scipione, Torino, Loescher, -- Persio, Prol. “Nec fonte labra prolui eaballino Nee in  bicipiti sommasse Parnasso Memim., ut repente sic poeta prodirem », e Schol. ad V. 21 « tangit Ennium qui dicit se vidisse  sommando in Parnaso Homerum sibi dicent em quod eius anima  in suo esset eorpore. La ragione di questo pianto non è detta. Era forse pianto di  gioia per il momentaneo ritorno a contatto con un essere terreno?   -- Lucrezio, “rerum naturam expandere dictis”   -- Lucrezio, “an contra nascentibus insinuetur anima” “ pecudes alias insinuet se ».  Lucrezio,  « Etsi praeterea tamen esse Acherusia  tempia Eìinius asternis exponit versibus eidem Quo ncque permaneant aniìnae ncque corpora nostra, Sed quaedam simulacro modis  palleniia miris » .  Persio, Sat. « Cor iubet hoc Enni, postquam  destertuit esse Maeonides Quintus pavone ex pythagoreo. Tertulliano, de an., “pavum se meminit Homerus Ennio sommante » ; Hbid.  « perinde in pavo retunderetur Homerus, sieut in Pythagora Euphorbus » ; cfr. eiusd. de resurrectione I,  G. 1, e AcRON, in carm. I, 28, 10; Persio, YI, 9, e schol. ; Lattanzio in Theb. Ili, 484.  discendente del re Messapo, il poeta rudino. Tale,  press'a poco, il contenuto di questo sogno, notevolissimo  non solo per l'esposizione delle dottrine filosofiche, ma  altresì per l' accenno alle trasformazioni e incarnazioni  dell' anima di Omero, e per 1' affermata parentela spirituale dei due poeti.   Che il pavone poi, importato dall' Oriente in Samo, la patria di Pitagora,  ha nella filosofia mistica di questo iniziato un'importanza considerevole, è certo (2): e poiché era anche —  per la colorazione delle penne - simbolo del cielo stellato, al quale salivano dopo ogni morte corporea le anime  umane -- onde l'espressione per me simbolica del fieri pavom usata da Ennio) -- opportunamente fu scelto dal  poeta e dalla tradizione che egli seguì, per accogliere l'anima di Omero, già ritenuto per samio, come Pitagora.  Il fatto che il grande poema storico degli Annales,  il quale hada par te dei Romani un culto analogo a  quello che noi tributiamo alla Divina Commedia, incomincia con tale sogno, ha grande importanza per la diffusione e conoscenza del pensiero pitagorico in Roma. Poiché, appunto per lo studio che del poema si fa, fin     [Servio, ad Aen. VII. 691 ; Silio Italico, XII, 393.  MuELLER, Q. Ennius Cfr. Hehn, Kulturpflanxen  und Hausthiere. Dall'interpretazione letterale data a tale espressione o ad altre  consimili nacque forse presso gli antichi — uno dei primi e Senofane, contemporaneo di Pitagora, nei versi citati da Diogene Laerzio i quali peraltro hanno un' intonazione scherzosa, se  non satirica — l'opinione che Pitagora crede nella metempsicosi  anche animale.    nelle scuole di grammatica e di  rettorica (e per le pubbliche letture di esso, ancora in  uso nelle città di provincia ai tempi d'Aulo Gelilo, si  dovette necessariamente mantenere viva in Roma stessa e in Italia la conoscenza di quella parte della dottrina di  Pitagora, che nel sogno si ricorda e che era poi una  delle principali di detto sistema. Difatti sono assai frequenti nella letteratura posteriore le allusioni alla teoria della metempsicosi; la quale del  resto e forse introdotta in Roma anche per altro tramite,  sia cioè per mezzo dei misteri, nei quali si insegnano  appunto dottrine per molti rispetti somiglianti alle pitagoriche, sia per mezzo della filosofia platonica e quella del PORTICO,  che, secondo una tradizione abbastanza diffusa e anteriore  air apparire del neo-pitagorismo, e derivata almeno in  qualche parte fondamentale, dalle dottrine pitagoriche  stesse.  Se nel poema di Ennio vi e altri accenni  alla filosofia pitagorica non ci è dato conoscere dagli scarsi  e slegati frammenti che ce ne restano. Ma non è improbabile che, a proposito di NUMA, e non solo notate  incidentalmente, ma fors'anche illustrate con una certa  ampiezza le somiglianze fra la sua legge ed istituzioni e  quelle del filosofo di Samo. In tal caso da Ennio per la  prima volta e stata inserita in un'opera filosofica latina la notizia desunta dalla tradizione orale anteriore, che il gran re Numa ha  a maestro Pitagora -- SvETONio, de gramm.  Noctes Atticae, MuELLBB, Q. Ennius.   In altro scritto invece noi sappiamo con certezza che  Ennio tratta ancora delle dottrine pitagoriche: e precisamente ìieìVUpicharmuSy un poemetto così intitolato dal nome del filosofo siciliano, che era tenuto per uno dei più  valenti seguaci della scuola italica. Anche in questo  lavoro, il nostro scrittore finse un sogno. Nam videbar somniare med ego esse morluum” e che il filosofo Epicarmo gli comunicasse, nelle  regioni infernali, dottrine di filosofia naturale sull’origine  e sulla natura delle cose. Notevole, fra gli altri, è il verso  nel quale si identifica il corpo alla terra e, secondo il  noto simbolismo mistico, l'anima al fuoco – “terra corpus est, et mentis ignis est.” Al qual proposito Yarrone, citando, un altro verso dello  stesso Ennio, scrive – “animalium semen ignis qui anima  ac mens: qui caldor e caelo quod Mnc innumerahiles et  immortales ignes. Itaque Epicharmus de mente umana dicit:   istic est de sole sumptus isque totus mentis est.: Yahlen, 0. e, p. XCII-XCIII e cfr. L. Y. Schmidt, Quaest.  epich.  Yedasi anche lo studio del Pascal, Le opere spurie  di Epicarmo e l'Epieharmus di Ennio in Biv. di fìlol. e di istrux.  classica^ a.-- Cicerone, Aead. pr.^ II, 16, 51.   -- Prisciano, YII, p. 764 P. (I, p. 335 K.). Cfr. gli scolii all'Eneide, YI, -- De lingua latina^ Y, 39. Cfr. Mueller, op. cit., p. Ili sg.  -- Un'altra sentenza pitagorica è quella che ricorda Cicerone (“de divin.”) a proposito dei sogni : « aliquot somnia vera inquit Ennius sed omnia  noenum necesse est.”  Ma oltre che alle opere filosofiche, le quali, hanno tarda efficacia, Ennio rivolge l'attività dell' ingegno, trasfondendovi  i tesori della sua sapienza, all'insegnamento orale. Senza  dire poi che l'esempio della sua vita intemerata sprona  all' esercizio costante della virtù tutti quelli fra i nobili  cittadini di Roma che accostandolo l'amarono. Ennio si studia di volgere le loro menti ad una libertà di pensiero e  ad una concezione individuale delle cose, alla quale non  sono certo avvezzi i romani, educati sotto una disciplina  ferrea. Abituando le loro intelligenze alle bellezze ed alle  sottigliezze della filosofia, insegnando in privato le  dottrine di Pitagora, combattendo nel nome di Evemero  le superstiziose credenze popolari, e deridendo i sacerdoti  ignoranti, predicando infine che l'uomo ha da trovare in  se stesso, nelle profondità dell'anima, il fondamento del  proprio valore, della propria libertà e della propria felicità, da impulso a una vera rivoluzione razionalistica  nello spirito romano. Sì che fra quei valorosi soldati  e pratici legislatori comincia ad essere tenuta in conto la filosofia, ad esercitarsi la libera attività del pensiero anche  in fatto di fede, e a formarsi un'aristocrazia vera e legittima, fondata su ciò che l' uomo ha di più sostanziale e  di proprio, cioè su l'intelligenza e sullo spirito. Non è improbabile che appunto per questo CATONE, il  quale, sopra tutto e innanzi tutto, vede l'interesse e il  bene dello stato romano, osteggiasse il movimento a cui ha  dato egli stesso involontario impulso e perseguitasse l'A-    [ (1) GiussANi, Letterat. romana^ Milano, Yallardi, Si veda  anche su Ennio il saggio critico del Lenchantin De Gubernatis (Torino, Bocca).     - Bl -   fricano (1); tanto che questi, avendo suscitato contro di sé  molte ire violente e molte accuse politiche, si ritira sdegnosamente nella sua villa di Literno, nella Campania. Proprio in questi anni, facendosi uno scavo, sono scoperti i famosi libri di Numa, i quali, per un caso assai  strano, venneno molto opportunamente a confermare gli  insegnamenti pitagorici di Ennio. La notizia della scoperta risale, per quel che ci è noto, all'annalista Cassio Emina, il quale, secondo ci riferisce Plinio narrava  come un impiegato di nome Cneo Terenzio, facendo dei  lavori in un suo podere sul Gianicolo, ha scoperta e   [Livio, -- Sull'esilio e sulla morte di Scipione Africano Maggiore vedi  C. Pascal, Fatti e leggende di Roma antica -- Si veda, intorno a questi libri, lo studio del Lasaulx, “Ueber  die Bueeher des Numa”, negli Atti dell' Accademia di Monaco -- Nat. Eist. XIII, 84 = Hist. Rom. rell. I, p. 106-107 Peter:  “Cassius B. Emina vetustissimus auctor annalium, quarto eorum,  libro prodidit Cn. Terentium, scribam agrum suum, in laniculo  repastinantem offendisse arcani in qua NVMA qui Romae regnavii situs fuisset. In eadem libros eìus repertos P. Cornelio L. f.  Gethego^ M. Bebio Q. f. Pamphilo coss. ad quos a regno NVMAE colliguntur anni DXXXV, et hos fuisse a charta maiore etiam num mir acuto quod tot infossi duraverunt annis. Quapropter in  re tanta ipsius Heminae verba ponam; mirabantur alii quomodo  ìlli libri durare potuissent^ ille ita rationem reddebat : « Lapidem  fuisse quadratum cireiter in medio arde vinctum, candelis quoque versus. In eo lapide insuper libros inpositos fuisse propterea arbitrarier tineas non tetigisse: IN HIS LIBRIS SCRIPTA ERANT PHILOSOPHIAE PYTHAGORICAE – EOSQUE COMBVSTOS A Q. PETILIO PRAETORE QVIA PHILOSOPHIA SCRIPTA ESSENT.” --  scavata la tomba del re Numa, che conteneva i libri di  lui ; e, cosa di cui molti si meravigliarono, cotesti libri di  carta s'erano perfettamente conservati. Ma, come spiega Terenzio, tale conservazione era dovuta al fatto  che, essendo posti sopra una pietra quadrata che si trova quasi nel mezzo della tomba, erano rimasti immuni dall'umidità, ed essendo spalmati di cedro, le tignole non li avevano rosi. I libri stessi poi contenevano scritti di filosofìa pitagorica, per la qual ragione furono poco dopo bruciati dal pretore Quinto Petillio. Lo stesso racconto fa pure l'annalista X. Calpurnio Pisone Censorio Frugi, secondo il quale però detti libri erano VII di diritto pontificio e altrettanti pitagorici. XIV ano  pure, secondo 1' annalista C, Sempronio Tuditano e  contenenti i decreti di Numa. Secondo Valerio Anziate  infine essi sono invece XXIV, XII pontificali e XII di filosofia, e non  si sarebbero trovati proprio nella tomba di Numa, ma in un'arca adiacente. Se il racconto è vario nei particolari, tuttavia questi     [Plinio, /. e. = H. R. rell. I, p. 122-123, P. : “Hoc idem tradii O. Piso censorius primo commentari or um, sed libros VII  iuris pontifìcii totidemque Pythagoricos fuisse.” (2) Plinio l. e. = H. R. rell. I, p, 142-143 P : “Tuditanus  decimo tertio Numae decretorum fuisse”   Plinio /. e. : « Libros XII fuisse ipse Varro Humanarum  antiquitatum septimo. Antias secundo libros fuisse XII pontificales totidem praecepta philosophiae continents. Cfr. Plutarco, Numa, 22 ; Livio, XL, 29, ^ =z H. R. rell. I,  p. 240-241 P. Si noti però che Peter crede (/. e. p. CC.) che  Livio cita per errore Valerio Anziate invece di Calpurnio  Pisone] ed altri autori (1) sono concordi nell'affermare sia la scoperta dei libri, durante il consolato di P. Cornelio Cetego  e di M. Bebio Panfilo sia la loro pronta distruzione per opera del pretore Petillio. Cosicché non è  possibile dubitare che il fatto e avvenuto. Senonchè la  critica piu recente si è affrettata ad affermare che essi  dovettero essere un'abile falsificazione di qualche scrittore,  fanatico dell’idee pitagoriche, in quegli anni appunto diffuse in Roma dal grande Ennio, e accettate da  Scipione Africano e da altri illustri cittadini. Ma ad una  grossolana falsificazione fatta in quei tempi medesimi noi non vogliamo credere. Non ci racconta costantemente la  tradizione pitagorica che base dell' insegnamento di questa  dottrina era la segretezza e il mistero? E proprio un  pitagorico divulga le dottrine della sua scuola,  in un'opera così voluminosa, ricorrendo a uno stratagemma  così poco serio, ed anche così inutile, dal momento che già  la tradizione ammette la filiazione degli istituti e delle  leggi religiose di Numa dal pitagorismo? Ed è poi possibile che fra i senatori romani, i quali decretarono, su parere del pretore, l'abbruciamento dei libri così miracolosamente scoperti, non vi e alcuno in grado di comprendere una così grossolana mistificazione? Poiché non c'è dubbio che i libri furono bruciati con la convinzione che essi sono quelli del re sapiente e perchè contenneno,     [V. ancora le testimonianze di Yarrone, conservataci da Agostino (De civ. dei), di Livio (XL, 29, da cui ha desunto  la sua narrazione Lattanzio, Inst. I, 22), di Valerio Massimo (I, 1,  12), di Festo (p. 173 M. = p. 182 Thewr.), di Plutarco {Numa,  22) e del de vir. ili. 3.  Livio osserva che questa convinzione deriva dall' opinione  diffusa che Numa e discepolo di Pitagora, opinione che   [secondo la testimonianza di Varrone la spiegazione degli  stituiti religiosi di Numa (“cur quidque in sacris fuerlt  institutum”) fondati, come quelli di tutte le religioni, su  ragioni fisiche e filosofiche e sopra una concezione particolare della natura.   Ora, dice assai giustamente  Chaignet, questa interpretazione razionale ed umana delle credenze e delle istituzioni religiose, togliendo ad esse un' origine e un fondamento sovrannaturale, ha certo, divulgandosi, tolta  ogni consistenza a quella religione di stato che, come  tutte le religioni dogmatiche, si esauriva per i più nelle  pratiche del culto (le « religiones » di cui parla Livio)  esigendo, come condizione della propria esistenza, la fede  cieca e l'ignoranza superstiziosa. E proprio a questo pensarono il pretore urbano e il senato, che si affrettarono a far scomparire sul rogo i pericolosi libri, nei quali e filosoficamente provata ed attestata 1' origine del diritto  pontificale romano, cardine e fondamento primo dello stato,  dall'occultismo pitagorico. Se pure il motivo di tale distruzione non fu quello stesso per il quale Cicerone non volle troppo approfondire la ricerca e la dimostrazione dei rapporti fra il Pitagorismo e  i piu antichi istituti di Roma. Stando al racconto di Plu-     [egli, certo per ragioni cronologiche, chiama un « mendacio »  (XL, 29).   (1) Pythag. et la philos. pytkag.^ Parigi, Didier, [È interessantissimo a questo proposito il passo d’Agostino (De civit. dei), il quale spiega per quali ragioni demoniache Numa compone i suoi libri e poi li fece seppellire  nella sua tomba, e il Senato li fa abbruciare. Né meno interessante è il capitolo seguente in cui si parla delle arti « idromantiche » e delle evocazioni di Numa.]  arco, infine, questi libri erano stati scritti da Numa stesso  e per ordine suo sepolti con lui. E ciò perchè, secondo  la massima pitagorica, non era bene affidare la conservazione d'una dottrina segreta a caratteri senza vita, anziché alla sola memoria di quelli che ne sono degni. E,  forse, per questa medesima ragione i pitagorici romani  non dovettero fare molta opposizione alla proposta di  distruggere i libri stessi, gelosi come sono delle loro  dottrine, allora, come sempre, facilmente suscettibili di  scherno e di riso, se male interpretate o fraintese. Nel tempo in cui Ennio si adopera così efficacemente per introdurre in Roma l' antica sapienza della  Magna Grecia, di qui si diffondevano per l' Italia e penetrano nella grande metropoli anche i culti bacchici  e le sette orfiche, intimamente legate con le pitagoriche  per gli stretti rapporti che vi sono fra le due dottrine  segrete. Contro gli uni e le altre si pubblicano II senato-consulti e si istituirono tribunali (quaestiones de Bacchanalibus sacrisque noeturnis extra ordinem), che ne di-     [Sklden, nell'intro-  duzione dell'opera De jure naturali et gentium iuxta diseìplìnam, volendo sostenere ch.e  ogni sapienza viene dall’Oriente tre  volte rinnovata, di cui gli orientali erano i depositari, afferma invece  che Numa Pompilio e in segreto un adoratore del vero divino, che  i libri da lui lasciati e scoperti solo parecchi secoli dopo la sua  morte sono la giustificazione della sua fede e la glorificazione del  divino d’Oriente, e che appunto per questo il Senato ne ordina la  distruzione, perchè racchiudevano la condanna della religione di stato.    Ne pubblicò per tutta l'Italia uno (scoperto in Calabria) che ordina, fra le altre cose: Bacas vir ne-  quis adiese velet eeivis romanus neve nominus latini » .   mostrano la diffusione e la forza: e Livio ci riferisce il  violento discorso che il pretore Lucio Postumio Tempsano  pronunciò nell'anno 186 a. C. contro i seguaci dei mal-  vagi culti forestieri : « contra pravìs et externis religionidus captas mentes » (1). E ben vero che queste associazioni misteriose — “clandestinae conmrationes” come dice  Livio  — e questi culti sempre perseguitati dall' ortodossia romana venneno in parte dall' Etruria e dalla Campania, ma le ricerche giudiziarie ne fa scoprire diversi focolari nell'Apulia, in tutta l'Italia meridionale, e specialmente a Taranto, uno dei  centri d'origine del Pitagorismo. Così delle tavolette d' oro, scoperte recentemente in  tombe dell'Italia meridionale, presso l'antica Thiirium ci conservano l'eco di versi orfici che  sino ad ora non si conoscevano per altro che per una citazione di Proclo, neo-pitagorico. « lo     “L. Postumius praetor, cui Tarentum provincia evenerat reliquias Bacchanalium quaestionis cum omni  exsecutus est cura” – “L. Duronio praetori cui provincia Apulia evenera adiecta de Bacchanalibus quaestio est :  cuius residua quaedam velut semina ex prioribus malis iam priore  anno adparuerant. Cfr. Kaibel, Inscr, graecae Siciliae et Italiaè. Alcuni testi da lui omessi si trovano in Comparetti, Notixie degli  scavi^ e nel Journal of Hellenic Studies. Cfr. anche Comparetti Laminette orfiche edite ed illustrate^ Firenze. Framm. 224 Abel: «ótctcóte S'Sv^pcDTtog izpoXinx) ^àog "^sXCoio »  quasi uguale al fr. n. 642, 1 : « àXX' Ó7ióxa|j, ^^ux^ KpaXin-Q cpàog   sono sfuggita al cerchio delle pene e delle tristezze»,  grida in uno slancio di speranza l'anima che ha « subita  tutta intera la pena delle sue azioni inique » e che ora  « implorando il suo soccorso », s'avanza verso la regina  dei luoghi sotterranei, la santa Persefone, e verso le altre  divinità dell'Ade; essa si vanta di appartenere alla loro  «razza felice», e domanda ad esse che la mandino ora  nelle « dimore degl'innocenti » e attende da esse la parola di salvezza : « Tu sarai dea e non piìi mortale! »  In questi brani, dice Gomperz, bisogna vedere  redazioni diverse d'un testo comune piti antico. Parecchie  altre tavole, che risalgono in parte alla stessa epoca, trovate nelle stesse località. Altre sono state scoperte  nell'isola di Creta e datano dall'epoca romana posterior. Tutte prescrivono all'anima la sua strada nel mondo  sotterraneo. Ora è notevole il fatto che un cap. del  « Libro dei Morti » egiziano contiene una confessione negativa dei peccati, che sembra 1' amplificazione di quello  che le tre tavole di Turio condensavano in poche parole. In queste, come in quello, l'anima del defunto proclama  con enfasi la sua « purezza » e solo su questa purezza     YieXloio*. Il Kern (Aus der Anomia^ Berlino, richiama 1' attenzione su queste ed altre coincidenze. Y. anche  H. DiELS, nella raccolta dedicata al Gomperz, Vienna, -- Cioè alla serie delle rinascite e delle esistenze terrestri.  Gomperz, Les penseurs de la Qrèce^ Paris, Alcan, Y. JouBiN, Inscription crétoise relative à l'Orphisme, Bull.  de corr. héll.Y. qualche parallelo buddico in Rhys Davids, Suddhism,  Cfr. Maspéro, Bibl. Egyptol. e Brttgsoh, Steinin-schrift und Bibelwort. Y. anche Maspero, Hist. ancienne -- fonda la sua speranza in una felice immortalità. Se l' anima dell'orfico pretende di avere espiato « le azioni  inique » e quindi si sa liberata dalla sozzura che ne deriva, l'anima dell' Egiziano enumera tutte le colpe che ha  saputo evitare nel suo pellegrinaggio terrestre. Pochi fatti,  dice Gomperz, nella storia della religione e dei costumi sono tali da meravigliarci piii del contenuto di quest'antica confessione, in cui si vedono accanto alle colpe  rituali, e ai precetti di morale civile accolte da tutte le  comunità incivilite, l'espressione d'un sentimento morale  non comune e che ci può persino sorprendere per la sua  squisita delicatezza: « Io non ho oppresso la vedova! Non  ho allontanato il latte dalla bocca del lattante ! Non ho  reso il povero più povero! Non ho trattenuto, l'operaio  ai suo lavoro più del tempo stabilito nel contratto ! Non  sono stato negligente! Non sono stato fiacco! Non ho  messo lo schiavo in cattivo aspetto presso il suo padrone! Non ho fatto versare lacrime a nessuno!» Ma  la morale che scaturisce da questa confessione non si è  contentata di proibire il male; ha anche prescritto degli  atti di beneficenza positiva : « Dappertutto, grida il morto,  ho sparso la gioia! Ho cibato chi aveva fame, dissetato  chi aveva sete, vestito chi era nudo! Ho dato una barca  al viaggiatore in pericolo di arrivar tardi !» ET anima  giusta, dopo aver subito iiyiumerevoli prove, arriva finalmente nel coro del divino. « La mia impurità, grida piena  di gioia, mi è tolta, e il peccato che mi stava addosso  l'ho gettato. Giungo in questa regione degli eletti gloriosi.... » « Yoi che mi state dinanzi aggiunge rivolta agli  dei già nominati, tendetemi le braccia...., sono anch' io  uno dei vostri ! »  Nessuna meraviglia quindi che i filosofi del tempo  di ENNIO, quasi tutti venuti a Roma dal mezzogiorno,  fossero più o meno imbevuti di così fatte dottrine.   Di Stazio Cecilio, che fa parte del collegium poetarum dell'Aventino  e abita in Roma nella stessa casa con Ennio, ci restano  troppo scarsi frammenti perchè possiamo dir nulla del  contenuto morale e filosofico dell'opera sua. Certo però  r intimità sua col filosofo di Rudie dove esercitare un  qualche influsso sulla formazione del suo gusto e della  sua arte.   Con Ennio visse pure in Roma, frequentando anch'egli il circolo degli Scipioni, il nipote  Marco Pacuvio, che, nato a Brindisi, si ritirò poi  a Taranto. Che egli  dipendesse spiritualmente da Ennio, ne fanno fede, oltre  che l'esplicita dichiarazione di Pompilio: “Pacvi diseipulus dieor ; porro is fuit Enni^  Emiius Musar um^ Pompilius clueor   -- i due frammenti del suo Ghryses^ nel primo dei quali  mostra la stessa libertà di spirito e di parola, rispetto ai  falsi sacerdoti, che anche notata Ennio: nam istis qui linguam avium intellegunt,  plusque ex alieno iecorc sapiunt^ quam ex suo,  magis audiendum quam ausoultandum eenseo; pr. Cic. de div. I, 57, 181 ; il terzo verso anche pr. Nonio  246, 9. -- Si confrontino i versi di Ennio : Sed superstitiosi vates  impudentesque arioli, Aut inertes aut insani aut quibus egestas  imperai, Qui sibi semitam non sapiunt^ alteri monstrant viam. Quibus divitias pollicentur, ab eis draeumam ipsi petunt’, e gli   e nel secondo esprime intorno all'etere un concetto affatto,  pitagorico, che troveremo anche in Virgilio: v   hoc vide circum supraque quod complexu continet   terram....   solisque exortu capessit candorem, oecasu nigret, id quod nostri eaelum memorante Orai perhiheni àethera:   quidquid est hoe^ omnia animai format alit\ auget^ creai,   sepelit recipitque in sese omnia omniumque idem est pater,   indidemque eadem aeque oriuntur de integro atque eodem occidunt.  mater est terra; ea parit corpus^ animam aether adiugat. Istic est is lupiter' quem dìco quem Or acci vocant  a'érem: qui ventus est et nuhes; Ì7nber postea,  atque ex imhre frigus : ventus post fit, aer denuo,  kaece propter luppiter sunt ista quae dico tibi,  quia mortalis aeque turhas beluasque omnes iuvat.   Il passo, dice il Pascal {Antol. latina^ Milano.)  era libera traduzione del Crisippo euripideo, del quale è rimasto il  fr. 836 Nauck'; e trovò altro traduttore in Lucrezio. Se il pensiero esposto da Euripide del Cielo o Giove nostro padre  e della Terra madre risale al suo maestro Anassagora e peraltro indubbiamente abbastanza comune fra i mistici.    Questi versi ed alcuni altri, se sono per sé poca  cosa, tuttavia, tenuto conto della scarsità dei frammenti  superstiti di questi primi filosofi di Roma, mostrano una  certa continuità di pensiero, che non può sfuggire neppure  ad un esame superficiale. Così, per lasciare in disparte i     altri : « Qui sui quaestus causa fìctas suscitant sententias » e  « Omnes dant consilium vànum atque ad voluptatem omnia ».   (1) Congiunse così questi versi (citati in diversi luoghi da Varrone, Cicerone e Nonio) lo Scaligero. Questo concetto dell'aria poi  ricorda i versi dell' Epickarmus di Ennio :   (2) Y. per es. i fr. 46 e 52 del Pascal (p. 30 e 35).   versi di Accio, che ritornano sullo stesso concetto, e che  si possono anche spiegare con la dipendenza dai tragici  greci, nonché il suo concetto della virtu, come non  pensare alle dottrine pitagoriche — diretto o indiretto ne  sia stato r influsso — quando leggiamo sentenze come  queste di Sesto Turpili, l’una che  ci afferma la felicità consistere nella limitazione dei desiderii. “Profecto ut quisque minimo contentus fuit ita fortunatam vitam vixit maxime ut philosopki aiunt isti^ quibus quidvis sat est -- e l'altra che così definisce la difficoltà del sapere :   Ita est: verum haut facile est venire ilio uhi sita est sapientia.  Spissum est iter: ajnsci haut possis nisi cum magna miseria? E se i grammatici che ci hanno conservato i frammenti  di questo poeta (200 versi appena), avessero badato piu  al pensiero che alla forma e quindi ci avessero dato una  raccolta di sentenze, piuttosto che un catalogo di arcaismi     [V. i fr. 60 e 61 del Pascal (p. 41) e le note.   (2) Pascal (p. 42) : “nam si a me regnum Fortuna atque  opes Eripere quivit^ at virtutem non quìit » e « Scin ut quem-  eumque tribuit fortuna ordinem^ Numquam ulta humilitas ingenium infirmai bonum ?    (3) pr. Pbisciano III, 425 Keil. Il Pascal (p. 67) sl pkilosophi...  isti annota : « i Cinici ? » Io credo piuttosto che qui il filosofo, imitatore di Monandro, ha alluso ai Pitagorici, dei quaU sappiamo  quanto si siano burlati i comici ateniesi della commedia di mezzo,  di cui Gellio {N. a. IV, il) puo scrivere: mediae comoediae proprium argumentum fuit Fythagoreorum exagitatio ».   (4) pr. Nonio 392, 26 (Pascal, p. 67). Si notilo spissum iter.,  che forse può intendersi in senso proprio, non traslato.   e di idiotismi, potremmo forse citare altri passi ugualmente notevoli e significativi.   Così veramente notevoli sono le sentenze di comici  ignoti citate dal Pascal, che certo non sarebbero fuor  di luogo nei carmina aurea pitagorici e che riprendono  motivi etici, già da noi accennati, proprii tanto del Pitagorismo quanto di altri sistemi posteriori. Sui quique mores fingunt fortunam hominihus. Non est beatus esse se qui non putat. Is minimo egei mortalis, qui minimum cupit.  Quod vult habet qui velie quod satis est potest. In nullum avarus bonus est in se pessimus. Ab alio expectes alteri quod feceris. Beneficia in volgus eum largiri institueris  perdenda sunt multa^ ut semel ponas bene. Quid ? tu non intellegis   tantum te adimere gratiae quantum morae  adicis ? (S)     (1) pag. 68 sg.   (2) pr. Cic, Farad. 5, 35, che lo riferisce ad un sapiens poeta;  esso ricorda la sentenza di A. Claudio su citata. Secondo alcuni si  tratterebbe di un altro verso, che Lachmann ricompone così :  “suis fingitur fortuna cuique moribus. V. anche pr. Nepote, Vita  Att. Il, 6 ed altri, di cui Ribbeck, Gom. Fragm.^ p. 147.   (3) pr, Seneca, epist. 9, 21. Che la felicità e 1' infelicità, come  dice questa sentenza, siano proiezioni subbiettive dello spirito o non  l'effetto di cause esterne, è verità che i Pitagorici affermano ripetutamente Cfr. PuBL. Siro I, 56, Q, 7 Meyer.  Questa e la precedente pr. Seneca, epist. 108, 11. Cfr. la  prima sentenza di Turpilio su citata.   (5) pr. Seneca, ejìist. 108, 9.   (6) pr. Lattanzio, div. inst. I, 16, lO. Cfr. pr. Lampeid. Alex.  Sever. 51 : « quod tibi fieri non vis., alteri ne feceris » e nei Garm.  epigr. lat. 192, 3 Buecheler: «^ab alio speres, alteri quod feceris».   (7) pr. Seneca, de benef. I, 2 ; cfr. Ennio pr. Cic. de off. 18, 62:  « benefacta male locata malefacta arbitror » .   pr. Seneca, de benef. II, 5, 2. Così pare degni di nota sono i seguenti frammenti:   Felicitas est quam vocant sapientiam. Tutare amici eausam, potis es, suscipe.  Obicitur erimen eapitis^ purga fortiter.   In amici causa es, imm,o certe potior es. Iniuriarum remedium, est oblivio. Ma queste sono quisquilie, che, se pur dimostrano una  certa diffusione del pensiero pitagorico in Roma, non possono tuttavia essere prese per se come indizi di una vera  e propria tradizione locale. Poiché per le dipendenze della filosofia latina dalla ellenica è da credere  che anche gli accenni, spesso accidentali, a quelle dottrine  filosofiche, fossero presi di sana pianta dalle opere che i filosofi latini imitano o traduceno. Il fatto tuttavia di trovarli frequenti anche in opere  prettamente romane dimostra che le dottrine stesse avevano un contenuto ideale — morale specialmente — con-  sono allo spirito e ai bisogni del popolo romano, il quale,  sopra ogni cosa, ha un profondo senso del giusto, che  poi attuò nel suo mirabile sistema di leggi. Infine, anche dalle poesie satiriche di Caio Lucn.10  noi potremmo certo aver notizia del Pitagorismo, quale egli potè osservarlo praticato e seguito in  Roma al tempo suo, se ci restassero, dei suoi trenta libri  di satire, i libri XXVIII e XXIX, nei quali pare che si  occupasse principalmente di mettere in parodia e in derisione, ed anche di sottoporre a critica seria, sì pel conte-     [QuiNTiL. YI, 3, 97.   (2) Charis. V, p. 253 P.   (3) Seneca, epist.^ 94, 28.] nuto che per la forma, i filosofi, le loro opere e i loro  sistemi. Ma disgraziatamente anche di questo filosofo poco  o nulla ci resta. Anch'egli, bensì, come Ennio, ebbe mente  libera dai pregiudizi volgari. Ut pueri infantes credunt signa omnia ahena   vivere et esse homines^ sic ist soinnia fèda   vera putant credunt signis cor inesse in ahenis sono versi del 1. XV delle Satire. E un altro bellissimo  frammento, forse del libro IV, ci dimostra quanto alto e  nobile fosse il concetto ch'egli ebbe della virtu. Virtus, Albine, est pretium persolvere rerum quis in versatnm quis vivimus rebus potesse,   virtus est homini seire id quod quaeque valet res. Virtus seire homini rectum utile quid sit honestum quae bona, quae mala item, quid inutile, turpe, inhonestum ;   virtus quaerendae fène^n rei seire modumque ;   virtus divitiis pretium persolvere posse ;   virtus' id dare^ quod re ipsa debètur honori ;   hostem esse atque inimicum hominum morumque malo rum,   contra defensorem hominum morumque bonorum,   magnifècare hos, his bene velle his vivere amicum ;   commoda praeterea patriai prima putare deinde parentum^ tertia iam postremaque nostra. (1)     (1) fr. 354 del Bàhrens = Latta.nzto. I, 22, 13.  (1) fr. 119 del Bàhr. = Latt. VI, 5, 2.    D’Agostino (ci è stato conservato, dell'opera Yarroniana De gente populi romani un passo per  noi importantissimo: « Genethliaci quidam scripserunt esse  in renascendis Jiominibus quam appellant TraXtyysveatav  Graeci ; hanc scripserunt confici in annis numero CDXL ut idem corpus et eadem anima j quae fuerint coniuncta  in cor por e aliquando, eadem rursus redeant in coniunetionem » . Chi erano mai questi scrittori, i quali credevano  nella risurrezione dell'anima e della carne e ne fissavano  persino il compimento nello spazio di quattrocento e quaranta anni? Essi erano studiosi di discipline magiche ed  astrologiche, a cui si davano anche i nomi di magi di  caldei e di matematici. Abbastanza numerosi in Roma col decadere dei culti ufficiali e l'in-     [De civitaie dei, XXII, 28.] filtrarsi di riti stranieri, massimamente dall'Egitto e dall'Asia, divennero a grado a grado così potenti da trovarsi persino ad essere qualche volta arbitri delle sorti dello  stato. Poiché, come dice Pascal in un suo geniale e  interessante studio, svolgendo in particolare la dottrina  della resurrezione dei morti (filiazione diretta della metempsicosi pitagorica) la fecero entrare in un sistema di loro  particolari teorie, la congiunsero con predizioni contenute  nei sacri oracoli della Sibilla, e presunsero anche di conoscere dall'osservazione delle stelle il corso degli eventi  umani. Essi non partivano, come gli aruspici e gl'indovini,  dal concetto che gli dei manifestassero la volontà loro per  mezzo di segni particolari, ma dal concetto, razionalmente  svolto, « che tutto fosse armonico e regolato da leggi e da  rapporti immutabili nell'universo e che quindi, all'apparire  di determinati fatti o fenomeni dovesse normalmente seguire l'avverarsi di determinati eventi umani » . Era dunque,  aggiunge Pascal, « un tentativo di giustificazione scientifica, tratta dal fondo della dottrina pitagorica e platonica,  della credenza popolare che la vita di ciascun uomo fosse  regolata dall' astro che lo aveva visto nascere. Strani  davvero questi filosofi che si sforzano di ribadire  con argomenti razionali e di ridurre a ragioni scientifiche  le superstiziose credenze del volgo! e che riescono tanto  bene nel loro proposito da far sentire a Favorino il bisogno di abbattere con una confutazione sistematica il loro edifizio logico, ancora saldo sulle sue basi   [La resurrezione della carne nel mondo pagano, in Atene e  Roma, e in Fatti e leggende di Roma antica, Firenze, -- AULO Gellio, Noct. Att. XVI, 1, riporta quasi testualmente  il discorso di Favorino a più di due secoli di distanza! Io in verità non posso acconsentire col Pascal che quest'idea di un ciclo mondano computato a quattro secoli di 110 anni ciascuno venisse ai Genetliaci dalla tradizione popolare: gli argomenti che Pascal porta a sostegno della sua affermazione  mi inducono piuttosto a credere il contrario e cioè che  l'idea stessa fosse comune alla filosofia mistica greco-italico-romana e da, questa passasse poi al volgo per  mezzo dei responsi sibillini e dei poeti che l'accolsero  e la diffusero per il popolo. Di più, un'altra credenza  notevolissima fu propria e del Sibillismo e dei Genetliaci:  la credenza cioè che ultimo dio del ciclo mondano dovesse  essere il Sole od Apollo che avrebbe bruciato l'universo e riportata l'età dell'oro, con gli antichi uomini  rinnovati alla vita; quell'Apollo che pure Orazio (Carm.  I, 2) invoca perchè venisse a redimere l'umanità dal  peccato. Tandem venias precamur^  ISube candentes umeros amictus  Augur Apollo.  Così Cicerone ci parla nel De divin. II, 46, 97 di un' altra  scuola di astrologi per la quale 1'estensione di tempo era molto  maggiore, e cioè di 470000 anni !   (2) pr. Probo a Yirg. Ed. IV, 4 : « La Sibilla cumana ha pre-  detto che dopo quattro secoli sarebbe avvenuta la palingenesi ».   Orazio, I, 2, v. 29 e sg. ; Virgilio, Ed. IV, lO ; Aen. VI,  748-751; Ovidio, Melavi. I, 89 sgg.; Persio, Sat. V, 47 sg.   Servio nel commento al v. 10 della IV ecl. di Virgilio riporta  il seguente passo del quarto libro de diis di P. Nigidio Figulo :  “Quidam deos et eoì'um genera temporibus et aetatibus fdistin-  guunt)., inter quos et Orpheus; prim,um, regnum, Saturni^ deinde  lovis^ tum Neptuni^ inde Plutonis ; nonnuUi etiam^ ut magi, aiunt  Apollinis fore regnum,, in quo videndum est., ne ardorem sive illa  ecpyrosis adpellanda est., dieant » . Vedasi anche il Lobeck, Aglaophamus^ pag. 791 sgg.   La rigenerazione degli uomini e la conflagrazione dell'universo per virtù di Apollo — conflagrazione probabilmente simbolica e che tuttavia potè essere aspettata da  alcuno come reale ed effettiva — furono dunque due  concetti paralleli ed uniti anche nel dogma pagano, e più  precisamente in quelle dottrine mistiche, nelle quali sappiamo quanta parte e che profonda significazione avesse  il mito apollineo e solare, E come può tutto questo essere  stato creazione popolare? Veramente forse un po' troppo,  e non solo in fatto di mitologia e di credenze, si vuole  attribuire al popolo, a questo essere impersonale, così immaginoso e così balordo, così ricco di fantasia e così credenzone! Non è assai più verosimile pensare a una genesi  più elevata e razionale, a una creazione veramente intellettuale e FILOSOFICA, che, passando dai dotti agli indotti,  dai sapienti agi' ignoranti, si materializza e degenera dall'essenza primitiva, o, meglio ancora, acquista con moto  parallelo e continuo, nuovi aspetti e nuove significazioni  realistiche e concrete?  In ogni modo siamo così arrivati alle più grossolane  deformazioni che il pensiero pitagorico dovette subire in Roma, uscendo dal segreto sacrario delle scuole dei saggi  e mescolandosi, in mezzo al popolo, a credenze d'altra derivazione. Non è quindi meraviglia che siffatte credenze,  aberrazioni d'un pensiero originariamente profondo, fossero,  come vedremo più innanzi; oggetto di riso nel teatro popolare, e d'altra parte si spiega assai bene come i seguaci  del Pitagorismo dell'antica maniera, per sottrarre le loro     [Y. il passo dei Garm. Sih.JN^ 175 sgg., forso dell'Sl od 82  d. C, citato dal Pascal e che questi crede composto da qualche  terapeuta od esseno.  dottrine al ridicolo cui venivano esposte nei loro contatti  col popolo, sentissero il bisogno di raccogliersi nuovamente  in segreto, nel silenzio delle loro case e delle loro scuole,  per meditare, lontano dal profanum vulgus, V antica sapienza loro tramandata attraverso tante generazioni.   Chi sopra ogni altro si curò di far rivivere la filosofìa di Pitagora, che, in un certo senso, poteva dirsi ormai  estinta come complesso di teorie e d'insegnamenti pratici  ben distinti da quelli di altre scuole, fu un grande sapiente,  del quale in verità ben poco sappiamo, contemporaneo e  amicissimo di CICERONE. Il quale appunto nel proemio del  Timaeus seu de Universo lasciò scritto parlando di P.  Nigidio FIGULO: « Fuit vir ille cum ceteris artihus, quae  « quidem dignae libero essente ornatus omnibus^ tum acer  « investigator et diUgens earum rerum quae a natura invo-  « lutae videntur » . E poi continuava: « Deniqiie sic ludico  « post illos nobiles Pythagoreos^ quorum disciplina exstincta  « est quodam modo^ ìiunc extitisse qui illam renovaret » .   Senatore, pretoro, legato in Asia, e infine esiliato da C.  Griulio Cesare, forse non soltanto,mper  aver seguita la causa di Pompeo. (2).     (1) Cicerone nel Timeo ir. 1, t. Vili p. 131 Bait. ci dà notizia  di questa sua legazione con le parole : « Nigidius, eum. me  in Gilieiatn profieiscentem Ephesi expectavisset, Romam, ex legatìone ipse decedens.” SvETONio fr. 85 = Hieron. ad Euseb. ckron. olimp. 183,4 = 45  a. C. : « Nigidius Figulus Pythagoricus et MAGVS in exsilio moritur ». Si noti che ancora una volta vediamo qui congiunti, come  nella tradizione che si riferisce a Numa e come, del resto, sempre,  il Pitagorismo e la magia. S. Agostino (De civ. dei) parlando  di Nigidio, lo chiama « mathematicus ».   Per il suo sapere fu giudicato secondo ai solo Yarrone,  e benché non ci restino che pochi e scuciti frammenti  dei suoi scritti, pure sappiamo che FIGULO scrive molto e  con profondità di ricerche « che arrivava fino all'astruseria », come dice il Giussani, cioè oltrepassava quel limite  al di là del quale gli equilibrati uomini comuni non vedono che nebbie e fantasmi, immaginazioni e utopie. Sam-  MONico, come ci riferisce Macrobio (II, 12) lo disse « maximus rerum naturaUum indagator », e lo stesso Macrobio  [Sat. YI, 8) lo dice « homo omnium bonàrum artlum di-  scipUnis egregius » , e così pure Cicerone, come s'è visto,  lo giudica acuto e diligente studioso dei più involuti fenomeni naturali, e precisamente di quelle ricerche e di quegli  studi, che furono la cura di pochi solitari d' ogni tempo,  quasi sempre, forse a torto, misconosciuti dai più. AGOSTINO lo disse * matematico ' e Svetonio ' pitagorico e  mago '. Ora, che Nigidio fosse, o almeno tosse ritenuto  mago, dimostrano anche altre testimonianze e dello stesso  SvETONio e di Apuleio e di Dione Cassio. Il primo racconta  come cosa nota a tutti che il giorno in cui Ottaviano nacque, discutendosi in Senato intorno alla congiura di Catilina, ed Ottavio, per causa appunto della moglie partoriente,  essendo arrivato un po' in ritardo, Publio Mgidio, conosciuta la causa dell'indugio e l'ora precisa del parto, afferma  che era nato uno che sarebbe stato signore di tutta la terra. Una predizione, dunque, dovuta, secondo il racconto     [Cfr. NiGiDii FiGULi operum reliquiae collegit A. Swoboda, 1889.   (2) Storia della Ietterai, romana^ Vallardi, 1902, p. 230.   (3) SvETON., Aug. 94: “a quo natus est die, cuni de Catilinae coniuratione ageretur iti Curia et Octavius ab uxDris puerperium  serius adfuisset, nota ac vulgata est res P. Nigidium comperta     — si-  che di essa fa, con qualche leggera variante, Dionb Cassio  (1. XLY, cap. T), alle elucubrazioni astrologiche di Nigidio. Apuleio a sua volta riferisce di aver letto in  Varrone che un certo Fabio, avendo smarrito una forte  somma di denaro, anda da Nìgidio per consultarlo e questi,  per mezzo di fanciulli eccitati (instinctosj con sortilegi ed  incantesimi (Carmine) ossia, coma oggi si direbbe, ipnotizzati con parole o formule magiche, gli seppe dire dov'era  stata sepolta la borsa con una parte delle monete, che le  altre erano state distribuite, e che una ne aveva anche il filosofo Catone; ciò che fu pienamente confermato dai  fatti. E dove mai aveva acquistate il nostro filosofo siffatte  conoscenze magiche ed astrologiche? Forse durante un  viaggio in oriente? Non sappiamo, sebbene d'altro lato sappiamo che appunto in oriente o nella  Grecia impara che la terra si muove con la velocità della  ruota di un vasaio (2).     – “morae causa, ut horam quoque partus acceperit, adflrmasse domù  num terrarum orbi natum.” (1) De magia 42, p. 53, 9 Krueg. « Mernini me ajìud Varronem philosophum, virum accuratissime doctum atque eruditum,  eum alia eiusm,odi, tum, hoc etiam, legere... item,que Fabium,^ cum  quingenios denarium perdidisset ad Nigidium consultum, venisse;  ab eo pueros cannine instinctos indicavisse ubi locorum defossa  esset crumena cum, parte eorum, celeri ut forent distribuii^ unum  etiam denarium^ ex eo numero habere CATONEM philosophum^ quem  se a pedissequo in stipem Apollinis accepisse Caio confessus est ».   Ciò si desume da una nota del Commentum a Lucano dove è detto che Nigidio ha il soprannome di Figulo perchè « regressus a Oraecia dixii se didicisse orbem ad celeritaiem rotae  figuli torqueri.” Del soprannome altri davano una ragione un po'  diversa, in rapporto con la famosa obiezione dei due gemelli così  spesso fatta agli astrologi e di cui fanno ricordo, fra gli altri, lo     [Quanto alle opere di Nigidio, del quale sappiamo ancora  che usava una dieta assai parca, possiamo dire che  furono molte e di varia natura. Nigidio scrive di filosofia,  di astrologia e anche di filologia. Di lui si ricorda  un'opera intorno agli dei in almeno XIX libri, nel quarto  dei quali, per esempio, trattava dei vari regni ed età degli  dei, secondo Orfeo e i Magi, e nel sesto e nel decimo  accennava alla teoria etrusca delle quattro specie di dei  penati : quelli di Giove, quelli di Nettuno, quelli degl'Inferi e quelli degli uomini, cioè, probabilmente, gli spiriti celesti, acquatici, terrestri (gli elementari dell' occultismo) ed umani. Perchè di quest'opera ci  restino così pochi frammenti, appena dieci, lo dice il grammatico Sp:rvio in una nota slU.^ Eneide (X, 175): <i^ N'igidius  solus est post Varronem ; licet Varrò praecellat in theologia^ Me in eommunihus litteriSy nam uterque utrumque  scripserunt » . La luce di Varrone dunque oscura quella  di Nìgidio, i cui libri intorno agli dei erano letti soltanto,  come dice lo Swoboda, dagli investigatori della dottrina stoico Diogene presso Cicerone (De divinai. II, 43, 90), Gellio,  N. A. XIV, 1, 26, lo PsEUDO Quintiliano {Deelam. Vili, 12) e S.  Agostino 1. e.   (1) IsiDOR., Origin. XX, 2, 10: Nigìdius : nos ìpsi ieiunìa ientaeulis levibus solvimus.   Egli sostenne, come ci attesta Gellio N. J.., X, 4, CHE IL LINGUAGGIO E D’ORIGINE NATURALE E NON CONVENZIONALE. Arnob. adv. nat. Ili, 40, p. 138, 5 seg. Reiff : « idem (Ni-  gidius) rursus in libro VI exponit et X, disciplinas etruseas sequens, genera esse Penatium quattuor et esse lovis ex his alios^  alios Neptuni.^ inferorutn tertios, mortalium hominum quartos.,  inexplicable nescio quid dieens » .   (4) P. NiGiDU FiGULi operum reliquiae coli, emend. enarr. quaestiones nigidianas praemisit Ant, Swoboda, Vindob., 1889, p. 25, ] più recondita, come, ad esempio, quel Cornelio Labeone,  uomo assai dotto. Di  Nigidio sono ricordati anche tre scritti intorno alla divinazione per mezzo delle viscere e intorno ai sogni,  una Sphaera graecanica e una Sphaera barbarica,  un libro intorno agli animali ed altri, interamente o quasi interamente perduti.  Un'altra causa di questa perdita è spiegata in parte da  Gellio (N. a.) il quale ci fa sapere precisamente che mentre le opere di Varrone erano lette e conosciute da tutti « Nigidianae commentationes non proinde  in vulgus exibant et obscuritas subUlitasque earum tamquam parum utilis derelicta est » . Dunque gli scritti di  Nigidio hanno un carattere piuttosto riservato e segreto,  sono poco intellegibili ai piìi per la loro sottigliezza. E  che significa cotesta oscurità e sottigliezza che è poi ab-  bandonata perchè poco utile? e da chi fu abbandonata?  dai lettori o dagli scrittori in genere o dai cultori di quelle  stesse dottrine filosofiche ? Se noi pensiamo alla diffusione  delle conoscenze pitagoriche, sempre maggiore dal tempo  della morte di Figulo a quello in cui Gellio scriveva e all'infinito numero di profezie, di predizioni, di oracoli che sempre piìi chiaramente annunziavano  l'avvento di un'età nuova e di uomini migliori ; se pen-  siamo che fu questa appunto l'età nella quale,     (1) Si veda, intorno a lui, Kettner, Cornelius Labeo, Progr. Port,  dell'anno 1877.   (2) Gellio, N. A. XVI, 6, 12.   (3) Giov. LoR. Lido, de ostentìs e. 45 p. 95, 14 — 96, 3 Wachsm.   (4) Serv. ad Georg. I, 43 e I, 2l8.   (5) Serv. ad Qeory. I, 19.    [in Roma fece la sua apparizione  la strana figura di Apollonio di Tjana, il Pitagora redivivo, che ebbe immagini e culto divino da parte degl'imperatori, non può esservi alcun dubbio. Se Figulo e costretto ad insegnare in segreto e a pochi fedeli amici  le conoscenze che aveva, avvolgendole in oscure sottigliezze  nei suoi scritti (e, non ostante tale precauzione, ha molte  noie) ; se lo stesso dovettero fare, dopo di lui, i Sestii, che sono ugualmente perseguitati; le  vecchie dottrine di Pitagora andano tuttavia sempre più  diffondendosi, sì che fu permessa via via maggior libertà  di parola e d'azione ai loro seguaci, che poterono finalmente abbandonare in gran parte la segretezza e il mistero in cui si chiudevano e il simbolismo oscuro di cui  si servivano prima. LUCANO nella sua “Farsaglia” riferisce una  oscura predizione di Nigidio, che com'egli dice, si studia di conoscere il divino e i segreti del cielo e in queste conoscenze astrologiche e superiore ai sapienti dell'Egizia  Menfi – “At Figulus, cui cura deos secret ac/ue caeli  nosse fuit quem non stellarum Aegyptia Memphis  acquar et visu numerisque moventibus astra aut hic errata ait, ulla sine lege per aevum  mundus et incerto discurrunt sidera motu :  aut, si fata 7novent, orbi generique paratur  humano maturalues  Nigidio predice dunque alla terra e agli uomini un vicino  flagello, proprio come, prima di lui, avevano fatto e con  lui facevano i Genetliaci. Ora, dobbiamo noi veramente  pensare, a proposito di siffatte predizioni, che si tratti di semplici manifestazioni sentimentali del desiderio di tempi  migliori? Certo le condizioni dei cittadini romani e del  mondo, su cui l'aquila di Roma anda stendendo e allargando sempre più le sue ali insanguinate, erano assai tristi. Ma d'altra parte le predizioni sono troppe e troppo precise  talvolta per non dover pensare a qualche relazione, misteriosa  senza dubbio e in parte inesplicabile, ma pure innegabilmente certa.   Comunque sic^, poiché, secondo le parole surriferite di  Cicerone, con Nigidio Figulo si inizia in Roma un vero  e proprio risveglio delle dottrine pitagoriche, vediamo ora  in qual guisa egli tentasse questo rinnovamento dell'antica disciplina italica.   Noi possiamo desumerlo da altre testimonianze, le quali  non solamente accennano a una vera e propria scuola, a  un sodaliciumy a una factiOy ma vi accennano in modo,  che possiamo anche comprendere quale fine il sodalizio  stesso abbia avuto, o almeno in quale considerazione fosse  tenuto da chi, forse troppo tenero e non disinteressato  amico del nuovo ordine di cose creato in Roma dal trionfo  di Cesare, accoglieva, senza approfondirle uè vagliarle troppo, accuse vaghe e imprecise formulate contro i fautori  dell'antico regime repubblicano. Si leggono infatti negli  scolii bobbiensi all'orazione di Cicerone contro Vatinio  queste notevolissime notizie. “Fuit autem illis temporibus NIGIDIUS quidam vir doctrina et eruditione studiorum praestantissimus, ad quem plurimi conveiiiebant. Haec ab obtrectatoribus velati factio ininus probabili s iactiabatnr, qaamvis ipsi Pythagorae sectatores existimari vellent.”    l(1) V. tomo V, part. 2, p. 317 delI'Orelli.   -- A altrove si dice di un tale che € ablit  “in sodalicium sacrilegii Nigidiani.” In casa sua dunqae  Nigidio radunava molte persone, che vi si iniziavano ai  misteri della filosofia pitagorica e forse anche vi si dedicano a pratiche mistiche, come ci persuade la ciarlataneria di quel Vatinio, che, volendo farsi credere pitagorico  e dottissimo, fa evocazioni di morti e si abbandona  a nefandità d'ogni genere. E questi convegni finirono  col suscitar dicerie, maldicenze, sospetti, calunnie, e vi  furono degli ohtrectatoreSy i quali andavano sussurrando  qua e là che quella era una setta riprovevole e sacrilega;  le quali calunnie, credute tanto più facilmente quanto minore era il numero degli onesti in quei tempi così torbidi,  furono forse un ottimo pretesto per legittimare l'allontanamento da Roma e l'esilio di un uomo d'antica tempra  repubblicana. Che poi il tentativo di NIGIDIO ha un  carattere anche politico e che egli vagheggiasse, nella rico-  stituzione del sodalizio pitagorico e quindi nella eguaglianza  sociale e nella comunanza dei beni, il sogno della nuova  felicità umana, è cosa più che probabile, ma non certissima. E così il sapientissimo mago, il maestro pitago-    [PsEUD. CicER. in Sali.]   – “Tu qui te Pythagoriaum soles dieere et hominis doctissitni  nomen tuis immanibus et barbar is moribus praetendere cum  inaudita ac nefaria saera susceperis eum infernrum animas elicere, Gum puerorum extis Deos manes rnaetare soleas » Cicesone,  in Vatinium. Dal che si può vedere, sia detto incidentalmente, che lo spiritismo non è un'invenzione moderna!   V. quanto afferma a proposito di lui e dei Sestii Pascal. Il rinnovamento umano negli scrittori di Roma antica (Riv. d'I-  talia, Fatti e leggende, Firenze,  Le Monnier).  rico, il matematico P. Nigidio muore nell'esilio, nel tempo stesso che ìp Roma intercedeva per lui, allo scopo di ottenerne il richiamo in patria, l'amico Cicerone. Ma dove  essere davvero tenuto per uomo assai pericoloso il sacrilego Figulo, se, non ostante che i famigliari di Cesare e  quelli ch'egli ha più cari ne parlassero con ammirazione  e ne avessero alta stima, il divo lulio non si lascia troppo  commuovere, a favore del fiero repubblicano ! Gli è che  in verità in quel momento di trapasso dalla repubblica  (o meglio dall'anarchia) all'assolutismo l'interesse dello  Stato e della giustizia aveva assai piccolo valore, di fronte  agli interessi e alle ambizioni dei singoli competitori.  Tutto questo si rileva da una lettera, fortunatamente conservataci, nella quale Cicerone, dando notizia all' esiliato  delle pratiche ch'egli fa indirettamente presso Giulio Cesare  e delle speranze che aveva di poter presto riuscire a ottenergli il perdono, dice cose così interessanti e adopera  espressioni di così alta stima, che metterebbe conto davvero  che la riferissimo per intero. Basti accennare tut-  tavia che egli si rivolge a lui come ad uomo « uni  omnium doctissimo et sanctissimo et maxima quondam  gratta e suo amicissimo, e che accingendosi a conso-     [È la lettera 13* del quarto libro Ad familiars. In essa dice bensì Cicerone : « Videor mihi prospicere primum ipsius animuìn, qui plurimufn potest, propensum ad salutem  tuam », ma questa era la semplice illusione, creata in lui dall' amicizia che aveva per Figulo e dal desiderio che sentiva del suo  ritorno ; poiché in realtà il filosofo e lasciato morire in  esilio. E sì che — come aggiunge ancora Cicerone — « familiares  eius (cioè di Cesare), et ii quidein, qui UH iucundissimi sunt,  mirabiliter de te et loquuntur et sentiunt » e di piii « accedit eodem  vulgi voluntas vel potius consensus omnium » !]  larlo crede opportuno di premettere : « at ea quidem facultas vel tui vel alterius consolandi in te summa est si  umquam in ullo fuit.” Cosicché, “eam partem quae ab exquisita quadam ratione et doctrina proficiscitur, non  attingam: tibi totani relinquam -- e concliiudendo termina  col pregarlo “animo ut maximo sis nec ea solum memineris, quae ab aliis magnis virls accepistij sed illa etiam,  quae ipse ingenio studiisque peperisti. Quae si colliges et  sperabis omnia optime et quae aecident, qualiacamque erunt,  sapienter feres. Sed haec tu melius vel optime omnium.” Ora se insieme con queste eloquenti e perspicue parole  si ricordano i versi citati della “Farsaglia”, e se si pensa  ancora al contenuto dei frammenti che di questo sapiente  ci sono rimasti e ai titoli delle opere ch'egli scrisse, possiamo formarci un'idea approssimativa del genere di dottrina e di conoscenze che ha e di cui si fa maestro:  il misticismo pitagorico, la dottrina dei numeri, la divinazione (quella che oggi si dice chiaroveggenza) in tutte  le sue forme, l'astrologia; il tutto espresso e significato in  un modo oscuro e involuto, forse per via di simboli, che  fu poi una delle cause maggiori, se non la maggiore di  tutte, per la quale le opere di lui furono poco lette e a  poco a poco caddero nell'oblio.  E dopo la morte del maestro, che ne fu dei suoi  seguaci? Probabilmente non si dispersero e continuarono  a riunirsi. Tanto piu che non manca certo fra loro chi  potesse indirizzarli e illuminarli con la sua autorità e la  sua dottrina. In quegli stessi anni infatti, o poco dopo,  ci fu in Roma un'ALTRA setta, ch'io non dubito punto fosse  continuazione di quella di Nigidio, o certo frutto dei suoi  insegnamenti: voglio alludere alla “Sextiorum nova et  romani rohoris seda » la quale però « Inter initia sua,  quum magno impetu coepisset, extincta est » Decisamente i tempi non erano favorevoli alla filosofìa, anzi a  certa filosofia! E in verità non potevano essere molti quelli  che, in Roma, desiderassero di attendere sul serio alle  speculazioni filosofiche: le ricchezze e la potenza della  nuova Roma imperiale offrivano troppi svaghi, troppi divertimenti, troppe orgie, perchè vi fosse tempo e voglia  di dedicarsi a meditazioni gravi ed ingrate! Cosicché gli sforzi di quei pochi, i quali avrebbero pur voluto richiamare i concittadini alla serietà d'una vita meno fatua e  più dignitosa, dovevano riuscire vani o sortire effetti poco  duraturi.   Chi furono cotesti Sestii, ai quali accenna Seneca? Le  notizie che ce ne sono rimaste sono assai scarse, ma sufficienti tuttavia a farceli ammirare, in tempi di tanta corruzione, come uomini desiderosi piu delle gioie del pensiero che di quelle dei sensi, amanti più della verità e della  scienza che delle ricchezze e degli onori; come uomini  infine, nei quali tanto più risplende l'onesta virtù, quanto  maggiori intorno si addensano le tenebre del vizio. Del primo di essi, di nome Quinto, parla specialmente,  e sempre con parole di profonda e sentita ammirazione,  il più grande dei moralisti romani, SENECA, in quelle sue  mirabili Lettere a Lucilio piene di tanta filosofica sapienza  e così degne d'essere studiate e meditate più che non  siano! In una di queste, la novantottesima, volendo Seneca provare al suo alunno Lucilio che spesso molti disprezzarono quei  beni che i più desiderano come fonti di felicità, cita gli  esempi di Fabrizio e di Tuberone, e poi aggiunge che il     [ Seneca, Quaest. nat. cap. ultimo.] padre Sestio, pur essendo nato in tali condizioni da dovere  un giorno governare la cosa pubblica, rifiuta persino la  carioa di senatore, offertagli da Giulio Cesare. Poiché egli  non annette alcuna importanza ai pubblici onori, ritenendoli, come sono, troppo incerti e transitory. Una  rinunzia di questo genere non e certamente cosa che  tutti sapessero e volessero fare in quei tempi di sfrenate  ambizioni ; e tanto meno poi per ragioni filosofiche! Ma  tanfo: il nostro Sestio ambiva per la sua persona altro ornamento che non fosse il laticlavio : ornamento meno  visibile e meno ricercato, ma più dignitoso e più vero,  che fosse conquista della sua intelligenza e della sua virtù,  che nessuno potesse riprendergli e che egli potesse liberamente trasmettere senza pericolo di manomissioni o di  latrocinii, l'ornamento insomma della sapienza; per la quale e acceso di tanto amore, che non facendo, in sul principio,  progressi sufficienti a soddisfare appieno il suo vivo desiderio, fu sul punto, un giorno, di suicidarsi. Come degli onori, ei non fu avido neppure dolle ricchezze; anzi si racconta di lui che, trovandosi in Atene,  ripete quanto fa il filosofo Democrito, il quale,  avendo previsto da certi segni astrologici una carestia d'olio,  prima dell'epoca del raccolto — che la bellezza delle olive  faceva sperare sarebbe stato abbondante — comperò a buon     [€ Honores repulit pater Sextius, qui, ita natus ut rempuhlicam deberet capessere, latum clavum, divo lulio dante, non recepii; intelligehat enim, quod dari posset, et eripi posse.” Plutarco, « Del modo di conoscere i propri progressi nella  virtù », § 5: « KaGànep cpaol Ségxtóv xs xòv 'Pa)|iaIov àcpetxóxa xàg  èv x-^ TióXst xtjjiàg xal ipxàg 5ià cpiXoaocpiav èv òè xqi cptXoaocpsIv  aB TiàXiv 5uo7ia'9-oQvxa xal xp(tà\),e>foy xtp Xóyt}) x^^®'^"^? "^^ np{bzo)t,  dXtyow Ssyjaat xaxa3aX«tv éaoxòv ix xivog Sti^poug ». mercato tutto l'olio del paese, e poi, sopravvenuta realmente la carestia, restituì ai primi proprietarii la merce  acquistata, appagandosi d'aver provato così che gli sarebbe  stato facile arricchirsi quando lo avesse coluto. Ma che uomo era Sestio! Che scrittore vigoroso e ardito,  e come diverso da tanti filosofi che scrivendo siedono in  cattedra, discutono, cavillano, e non danno all'anima alcun  vigore perchè non ne hanno! A leggere Sestio — son parole di Seneca - si sente ch'è pieno di vita e di vigore,  uno spirito libero e superiore, uno che ha virtù d'ispirarti  sempre una gran fiducia in te stesso ! In qualunque stato  d'animo, quando si legge il suo libro, si sfiderebbe la  fortuna e si avrebbe la forza di lottare contro qualsiasi ostacolo! Poiché Quinto Sestio ha questo grande merito, che, pur  mostrandoti tutta la grandezza della felicità suprema, non  ti fa disperare di raggiungerla. Quinto Sestio la mette bensì molto  in alto, ma in luogo accessibile a chi la voglia conquistare, sì che ammirandola tu speri. Quale più alta lode     [Plinio, Naturalts Historia: “Ferun  Demoeritum, qui primus intellexit ostenditque curri terris caeli  societatem, spernentibus hanc curam eius opulentissimis civium,  praevista ohi cavitate ex futuro Vergiliarum or tu.... magna tum  vìlitate propter spem olivae, coemisse in toto tractu ornne oleum,  mirantibus qui paupertatem, et quietem doctrinarum ei sciebant  in primis cordi esse. Atque ut apparuit causa, et ingens divitia-  rum cursus, restituisse mercem anxiae et avidae dominorum, poe-  nitentiae, contentwm ita probasse opes sibi in facili, quum vellet,  fore. Hoc postea Sextius e romanis sapientiae adsectatoribus Atkenis  fecit eadem ratione.”   (2) Seneca, Epistola – “Lectus est deinde liber Quinti  Sextii patris; magni, si quid miài credis, viri, et, licet neget.  Stoici. Quantus in ilio, Dii boni, vigor est, quantum anim,i! Hoc  non in omnibus philosophis invenies. Quorumdam, scripta clarum] per un uomo, di questa entusiastica esaltazione fatta da  Seneca ?   E i suoi insegnamenti poi quanto erano sentiti e pro-  fondi, altrettanto erano semplici ed eificaci. Vuoi tu persuadere un uomo della bruttezza dell'ira? egli ammaestrava:  portalo, mentr'è adirato, innanzia uno specchio e fa che  vi si veda riflesso ; poi fagli intendere che s'ei vedesse a  quel modo anche l'orridezza dell'anima sua sconvolta ed  agitata ne sarebbe atterrito. Della onestà e della virtù  egli ebbe così alto e giusto concetto che sostenne l'uomo   habent tantum nomen, cetera exsanguia sunt. Instìtuu7it, dìspu-  tant, cavillantur : non faciunt animum, quia non habent. Quuni  legeris Sextium, dices: Vivit, viget, liber est, supra hominem est,  dimittit tne plenum ingentis fiduciae. In quacumque positione  mentis sim; quum hune lego, fatebor tibi, libet omnes casus pro-  vocare, libet exelamare : Quid eessas, Fortuna? congredere! para-  tum vides. Illius animum induo, qui quaerit ubi se experiaiuT,  ubi virtutem suam ostendat,   Spumantemque davi pecora inter inertia votis  Optai aprum, aut fulvum descendere monte leonem.   Libet aliquid habere, quod vincam, cuius patientia exereear.  Nam hoc quoque egregium Sextius habet, quod et ostendet Ubi  beatae vitae ìuagnitudinem, et desperationem eius non faciet. Seies  illam, esse in excelsOy sed volenti penetrabilem. Hoc idetn virtus  tibi ipsa praestabit, ut illam admireris, et tamen speres.” Seneca, De ira^ lib. II, oap. 36 : « Quibusdam, ut ait  Sextius iratis profuit aspexisse speculum; perturbavit illos tanta  mutatio sui: velut in rem praesentem adducti non agnoverunt se,  et quantulum ex vera deformitate imago illa speculo repercussa  reddebat ? animus si ostendi^ et si in ulta materia perlueere pos-  set., intuentes nos confunderet, aier maculosusqite, aestuans., et  distortus, et tumidus. Nunc quoque tanta deformitas eius est per  ossa carnesque, et tot impedimenta., effiuentis : quid si nudus o-  stenderetur ? et e. onesto non per altro essere inferiore al sommo Giove, che  per avere una virtù meno stabile e duratura ; ma per tutto  il tempo in cui si conservi onesto essere altrettanto felice  quanto Giove, non essendovi tra la perfezione e quindi  la felicità umana e la divina differenza se non di durata.  Ond'è che egji potè veramente additare ai volonterosi il  bel cammino della virtù ed esclamare : « Di qui si monta  alle stelle! di qui: seguendo frugalità, temperanza^ for-  tezza » — e non già (par quasi sottintendere) per decreto di  popolo di senato ! — e potè confortare anche all'ascesa,  persuadendo che gli dei aiutano i buoni stendendo ad essi  la mano. . . . (1).     (1) Seneca, Epistola LXXIII: “Solebat Sextìus dicere^ « lovem  plus non posse ^ quam honum virum,^. Plura lupiter habet^ guae '  praestet hominibus; sed inter duos honos non est melior, qui lo-  cupletior : non magis^ quam inter duosj quibus par saientia re-  gendi gubernaeulum est^ meliorem dixeris, cui maius speciosiusque  navigium est. lupiter quo antecedit virum bonum! Diutius bonus  est. Sapiens nihilo se minoris aestimat.^ quod virtutes eius spatio  breviore clauduntur. Queniadmodum ex duobus sapientibus^ qui  senior decessiti non est beatior <?o, euius intra pauciores annos  terminata virtus est : sìe Deus non vincit sapiente ut felicitate^  etiam, si vincit aetate. Non est virtus maior^ quae longior. lupi-  ter omnia habei; sea nempe aliis tradidit habenda. Ad ipsum hie  unus usus pertinet.^ quod utendi omnibus causa est: sapiens tam  aequo omnia apud alias videi contemnitque^ quam lupiter., et hoc  se magis suspicit., quod lupiter uti illlis non poteste sapiens non  vult. Credamus itaque Sextio monstranti pulcherrimum iter et  clamanti : * Hac itur ad astra ! hae, secundum frugalitatem:, hac,  secu7idum fortitudineyn ! » Non sunt Dii fastidiosi, non invidi ;  admittunt, et ascendentibus manum porrigunt. Miraris hominem  ad deos ire? Deus ad homines venit\ immo., quod propius est., in  hom.'ines venit. Nulla sine Beo mens bona est. Semina in corpo-  ribus kumanis divina dispersa sunt; quae si bonus cultor excipit.” Questa sicura fede, questa virile forza di pensiero suscitatrice di virtù, era la nota caratteristica di  Sestio, di quest'uomo profondo, che filosofa scrivendo con gravità romana, e che paragona l'uomo  sapiente, cinto di tutte le buone energie del suo animo,  a un esercito che, in paese nemico, marcia compatto e  pronto alla battaglia. Ed esercitando sui migliori uomini di Roma, come per  esempio quel Lucio Grassizio di cui parla Svetonio,   simìlia origini prodeunt; et paria his, ex quibus erta sunt^ sur-  gunt: si malus^ non aliter quam humus sterilis ac palustris^ ne-  cat, ac deinde creai purganienta prò frugihus » .   (1) Seneca, Epistola – “Sextium ecce quam maxiìne lego^  virum acrem^ graecis verbis^ romanis moribus philosophantem.  Movit me imago ab ilio posila : ire quadrato agmine exercitum^  ubi hostis ab omni parte suspectus est, pugnae paratum. Idem^  inquit^ sapiens facere debet; omnes virtutes suas undique expan-  dat^ ut ubicumque infesti aliquid orietur, illic parata praesidia  sint^ et ad nutum regentis sine tumultu respondeant. Qitod in  exercitibus his^ quos imperatores magni ordinant, fieri videmus^  ut imperium ducis simul omnes copiae sentiant^ sic dispositae,  ut signum ab uno datum, peditem simul equitemque percurrat ;  hoc aliquanto magis necessarium esse nobis Sextius ait. UH enim  saepe hostem timuere sine causa ; tutissimumque illi iter, quod  suspeetissimum fuit. Nihil siultitia pacatum habet ; tam superne  UH meius est, quam infra ; utrumque trepidai latus ; sequuntur  pericula^ et occurrunt\ ad omnia pavet ; imparata est^ et ipsis  terretur auxìliis. Sapiens autem^ ad omnem incursum munitus  est et intentus: non si paupertas^ non si luctus, non si ignomi-  nia^ non si dolor impetu?n faciat^ pedem referet. Interritus et  contra illa ibii^ et inter illa. Nos multa alligante multa debilitante  diu in istis vitiis iacuimus ; elui difficile est : non enim inquinati  sumus, sed infecti ».   (2) Nel De illustr. grammat., § 18, rammenta di lui che « ad  Q. Sextii philosophi sectam transiisse dicitur ^ . Alcuni codici  però invece di Q. Sextii leggono Q. Septimii.] questa sua efficace robustezza di pensiero, e affascinandoli  col vigore della sua persuasione e con la nobiltà della sua  vita, sdegnosa d'ogni viltà e d'ogni bassezza, potè far sorgere quella « romani rohoris seda » , di cui abbiamo fatto  già cenno e che, se fu subito soffocata, ebbe tuttavia dei  seguaci e prosecutori isolati, come lozione di Alessandria,  che fu maestro anche di Seneca, Cornelio Gelso,    [Dì lui parla Lattanzio, Divin. institui. lib. VI, § 24.  Vedi anche Gellio, èi. A., I, 8. Nella interessante epistola, Seneca, parlando di se al suo Lucilio, gii dice come oltre all'avere imparato ad astenersi per sempre dalle ostriche, dai funghi, dai profumi, dal vino, dai bagni, e ad usar materassi duri,  aveva anche incominciato, da giovane, ad astenersi dalla carne, e  ciò per gli insegnamenti di Soxione che dimostrava la inutilità e  i danni di questo cibo, valendosi, oltre che degli argomenti di Pitagora e di QUINTO SESTIO, anche di ragioni proprie. Riporto quasi per intero il passo di Seneca, che suona così : « Quonìam coepi Ubi ex-  ponere quantum maior impetu ad philosophiam iuvenis aeeesse-  rhn, quam senex pergam^ ?ion pudebit fatevi^ quem mihi amorem  Pytkagorae iniecerit Sotion. Docebat^ quare ille animalibus ab-  siinuisset^ quae postea Sextius. Dissimilis utrique causa erat^ sed   uirique magnifica. Rie etc... At Pythagoras Haee quum ex-   posuisset Sotton et implesset argumentis suis: Non credis^ inquit,  aììimas in alia corpora atque alia describi., et migrationem esse  quam dicimus mortem? Non credis in his pecudibus ferisve aut  aqua m,ersis illum quondam hominis animum morari? Non cre-  dis nihil perire in hoc mundo, sed anulare regionem? nec tantum  caelestia per eertos circuitus verti, sed ammalia quoque per vices  ire., et animos per orbem agi ? Magtii ista crediderunt viri. Ita-  que iudicium quidetn tuum sustine: ceterum omnia tibi integra  serva. Si vera sunt ista., abstinuisse animalibus innoeentia est.,  si falsa frugalUas est. Quod istic credulitatis tuae àamnum est ?  Alimenta tibi leonum et vulturum. eripio. His instinstus abstinere  animalibus coepi., et anno peracio non tantum facilis erat m,ihi  consuetudo., sed dulcis... »   [Quintiliano, Lib. X, 1, 124: « Scripsit non parum multa  Cornelius Celsus., Sextios secutus., non sine cultu ae nitore.”]   Papirio Fabiano, Moderato di Cadice, ed altri.   I Sestii dei quali abbiamo notizia furono due. Il primo  quello di cui si è parlato finora, che sarebbe vissuto al  tempo di Ottaviano e anche di Cesare, se, come dice Seneca^ rifiutò il laticlavio « divo lulio dante », e avrebbe  pure, secondo il surriferito passo di Plinio dimorato,  non sappiamo quando né per quanto tempo, in Atene. L’altro QUINTO SESTIO, suo figlio, anch'esso di prenome Quinto, che prosegue l'insegnamento paterno, che fu ritenuto, sebbene a  torto, autore delle sentenze filosofiche note sotto il nome  di Sesto pitagorico, della cui vita infine non sappiamo  assolutamente nulla.   Ora, di qual dottrina furono maestri questi filosofi, ricercatori di verità in un mondo di gaudenti e di tristi?     [Seneca, Epist. C; cf. Seneca il retore al lib> II delle Controversie^ prefaz.   Questo filosofo pitagorico visse al tempo di Nerone, e famoso per i suoi insegnamenti intorno alla scienza simbolica dei numeri, e maestro di Lucio Etrusco (v. Plutarco, Quaest. Gonviv.  Vili, 7) e scrive un'opera voluminosa intorno alla dottrina pitagorica (V. Porfirio, Vita di Pitag. p. 33 ed. Nauck; Stefano Bizantino e Suida, sotto la voce Fàdeipa). Cfr. pure Porfirio, Vita di  Plotino e. 20 e S. Gerolamo, Adv. Ruflnum III.   (3) Epist. XCVIII già citata. Di un Sestio, filosofo pitagorico.,  che fiorì ai tempi d'Ottaviano, parla Eusebio [Chron., all' olimpiade  195. 1 = 1 d. C). (4) Natur. Eist., XVIII, 68, 10.   (5) Vedile nella collezione del Mìjllach, Fragmenta philosophorum graecorum, Parigi, Firmin-Didot, voi. I (1875) p. 522 e  voi. II (1881) pp. 116-117, e leggi, a proposito della paternità di  esse, oltre a ciò che ne dice lo stesso Mullach v. II, pp. XXXI sg.),  anche l'esauriente discussione che fa lo Zeller, Die Philosophie  der Qriechen^ voi. IV, III ediz. (Leipzg]  Essi ebbero intanto una propria dottrina psicologica, se,  come riferisce Claudiano Mamerte spiegarono che l'a-nima è una certa forza incorporea, ilìocale e inafferrabile, che, essendo capace senza spazio, assorbe e contiene il corpo. Ma questo evidentemente è troppo poco per  determinare a che scuola essi appartennero. E ben vero  che Seneca, come abbiamo già veduto riferisce (nella Epistola LXIY) che « volere o no » (licei neget), il padre Sestio era un filosofo del PORTICO; ma quel « volere o no » ci fa comprendere che in realtà Sestio non si professa un filosofo del PORTICO. E infatti  qualche altra testimonianza lo dice pitagorico, e tale lo  proverebbero non solo le sue conoscenze astrologiche, dimostrate dalla famosa esperienza dell'olio, ma altresì alcune  abitudini della sua vita, come quella di fare alla fine di ogni  giorno l'esame di coscienza e quella di astenersi dai  cibi carnei, l'una e l'altra, com'è ben noto, proprie dei  seguaci del Pitagorismo. Senonchè, riguardo a quest'ultima  è da notare che Sestio non la giustificava, come Pitagora,     [De statu anirnae, II, 8 : « ... Eomanos etiam eosdemque  philosophos testes citamus^ apud quos Sextius pater^ Sextius fìlius  propenso in exercitium sapientiae studio apprime philosophati  sufzt, atque hane super omni anima attulere sententiatft . Incor-  poralis, inquilini^ omnis est anima et lUocalis atque indeprehensa  vis quaedam \ quae sine spatio capax corpus haurit et continet-» .   Y. pag. preced., nota 3. .   Seneca, De ira^ lib. Ili, e. XXXVI, 2: « Faciebat hoc  Sextius ut consuniTnato die^ quum se ad noeturnam qutetem. re-  cepisset^ interrogaret animum suum : Quod hodie malum tuum  sanasti ? cui vitio obstitisti ? qua parte ntelior es? » .   A questo proposito, oltre alla Up. CVIII di Seneca riportata  nella nota seguente, si suol citare il passo, conservatoci da Origene, « (contra Celsum », lib. YIII, p. 397 ed. di Cambridge), che  suona: « Il cibarsi di carni è indifferente, ma l'astenersene è più  conforme a ragione ». Tale sentenza però è di Sesto pitagorico, non  già del nostro Sestio.     — escori la dottrina della metempsicosi, ma con argomenti che ai Romani dovettero parer più ragionevoli, perchè meno astrusi. “Gli uomini, egli infatti insegnava, hanno altri  «alimenti, senza bisogno di nutrirsi di sangue; e poi ci si abitua alla crudeltà provando piacere nel divorar della carne; si deve dunque ridurre al minimo ciò che può alimentar la lussuria e conclude dicendo che la  varietà dei cibi è contraria alla salute e innaturale per  i nostri corpi. Ci sembra quindi lecito di poter affermare che i Sestii  non furono ne filosofi del PORTICO ne pitagorici, ma ebbero un proprio  sistema, eclettico quasi senza dubbio, con prevalenza di  elementi pitagorici ; e che questo loro sistema non e ne  inorganico, né dubitoso (come quello degli accademici dell'ultima maniera) né materialista -- come i filosofi del Giardino --, sibbene  avvivato da una profonda fede, illuminato da una chiara  luce spirituale e fondato su convinzioni ben salde e su  opinioni precise e indubitabili; un sistema d'ideo insomma,  che non era una piìi o meno piacevole distrazione o un'oziosa occupazione dell' intelletto, ma una vera e propria  forza organizzatrice e ordinatrice della vita, e per ciò appunto destinato a raccogliere pochi seguaci e a vivere per  tempo assai breve, in quella sentina di ambizioni, di corruzioni, di violenze, di immoralità, che era divenuta la  grande Roma nel trapasso dalla repubblica al principato.     [Seneca, Epist. CVIII : « hie {Sextius) homini satis alimentorum eitra sanguinem esse eredebat. et criiclelitatis eonsuetudi-  nem fieri^ ubi in voluptatem esset addueta laceratio. Adiciebat  contrahendam materiam esse luxuriae^ eolligebat bonae valetudini  contraria esse alimenta varia et nostris aliena eorporibus ».    Poiché si è visto come, dopo NIGIDIO, i Sestii cercano di restaurare in Roma il culto del Pitagorismo, non  sarà certo inutile indagare quali tracce esso lascia di  sé nella filosofia romana,  siano esse vere e proprie trattazioni sistematiche o semplici notizie incidentali. Così infatti potremo non solo farci  un'idea del giudizio che ne fecero gli scrittori di quel   tempo, ma ci si offrirà anche il modo di esporne e chiarirne qualcuno dei punti più importanti o di metterne in  luce gli aspetti più notevoli.   Certo, in un'età nella quale le più svariate credenze  religiose e i più diversi sistemi di filosofìa affluendo in  Roma da ogni parte del mondo, e specialmente dalla Grecia  e dall'Asia, vennero a pocoJiniformandosi per vicendevole  influsso, non è facile sceverare e seguire uno per  uno i vari indirizzi di pensiero; massime poi quelli che,  come la filosofia pitagorica, essendo molto antichi e avendo  avuto larga diffusione e gran numero di seguaci, trasmisero parte dei loro principii alle speculazioni filosofiche  posteriori. Ma un poco di diligenza e di pazienza ci permette almeno di raccogliere tutti quei passi di scrittori  latini dell'ultimo periodo repubblicano nei quali si fa esplicita menzione di Pitagora, e di esaminare altresì quei  luoghi in cui, senza nominarlo, si accenna però a dottrine  e a pratiche di vita che appartennero indubbiamente, per  concorde consenso dell'antichità, al sistema del filosofo di  Samo.   Incominceremo pertanto dal poema di LUCREZIO, che  e, come tutti sanno, il più mirabile tentativo di elaborazione poetica in lingua latina di un sistema filosofico precisamente del sistema epicureo. Altri felici tentativi  di esporre in versi dottrine di filosofi  sono bensì  stati fatti da APPIO Claudio, da ENNIO, da qualche altro,  ma per brevi trattazioni. Sì che Lucrezio — pur conscio  della grandezza del cantore degli Annales — puo ben affermare con legittimo orgoglio di essere il primo a tentare  di esprimere poeticamente, nella lingua del Lazio e dell’Italia romana, non ancora assueta alle sottigliezze, alla  profondità, alla precisione del linguaggio filosofico, la speculazione.  Il “Della Natura” infatti non solo espone con  ordine sistematico la complessa dottrina de la filosofia dell’Orto intorno air essere delle cose in generale, all' infinità dell'universo, ai moti e alle forme atomiche, alla natura, composizione e mortalità dell' anima, alle cause delle sensazioni e delle funzioni fisiologiche, alle origini del mondo  e della vita vegetale e animale, alle cause dei fenomeni  meteorici e tellurici, ma discute anche, perchè abbiano  piti sicuro fondamento i principii della dottrina epicurea,  le opposte e diverse dottrine di altre scuole filosofiche, e  combatte le argomentazioni contrarie e le obiezioni possibili degli avversari.   Di questa opera dunque, costruttiva in quanto elabora  su fondamenti nuovi, e polemica in quanto combatte e  distrugge principii vecchi o diversi, è ben naturale che  noi dobbiamo tener presente soprattutto la parte polemica,  per vedere se e quanto in essa il filosofo – come rappresentante dell’Orto -- h tenuto conto delle dottrine di Pitagora.  Ora, su due punti essenzialmente LUCREZIO discute  e lotta ad oltranza contro indirizzi di pensiero diversi dal  suo. Sulla teoria atomica e sulla teoria dell' anima. E a  proposito della prima combatte e confuta esplicitamente,  nominandoli, Eraclito, Empedocle, Anassagora. Del filosofo  di Samo invece non fa il nome neppure una volta, né  qui ne in altra parte dei poema. Ma ciò non toglie che  un attento esame del “De rerum natura” stesso non ci permetta di  scoprire dove e quando, pur senza dirlo, LUCREZIO pensi  a combattere i principii della filosofia pitagorica,  È ben nota, in verità, la disistima che la filosofia dell’ORTO ha  per la matematica; il che parrebbe che dovesse farci escludere senza altro qualsiasi considerazione, da parte diluì,  per un sistema che studia e rappresenta sotto  l'aspetto numerico il mondo, e nel quale le ricerche matematico-musicali avevano tanta parte. In realtà però possiamo escludere a priori soltanto questo: che i filosofi dell’orto tenesse presenti in qualche modo le dottrine della scuola  italica nella parte fisica del suo sistema. E infatti lo studio del “De rerum natura” di Lucrezio conferma senz' altro questa  induzione; tanto nella parte teorica che in quella polemica  dei primi due canti, che contengono 1' esposizione e lo  svolgimento dei principii intorno al mondo e alla  materia, e la teoria atomica, manca aJffatto qualsiasi accenno, anche indiretto e lontano, alle dottrine pitagoriche.   Ma queste, oltre al mondo fisico, governato dal numero  e dall' armonia, abbracciavano anche il metafisico (anima  e il dividno), e quanto all'anima, pur considerando anche di  questa l' aspetto numerico e musicale, sviluppavano soprattutto il concetto della sua eternità. Non mai nata,  perchè esistente ab aeterno^ essa vive, perenne e immortale, attraverso un ciclo indefinito di vite terrene (metempsicosi). Sotto questo aspetto pertanto la filosofia di  Pitagora dove pure essere tenuta in qualche considerazione dall’Orto, se scopo fondamentale della sua speculazione fu di combattere i due grandi timori onde nasce  r intelicità umana, cioè il timore della morte e quello  del divino, e se, per vincere il primo, difese con tutte le  armi della logica il principio della materialità e della  mortalità dell'anima. Non risalivano forse in gran parte  alla filosofia pitagorica la dottrina platonica e le speculazioni del PORTICO intorno alla origine divina e all'immortalità dell' anima? E la filosofia pitagorica non si uniforma forse, spiegandole e chiarendole, alle più inveterate superstizioni, alle più profonde convinzioni, alle più diffuse  credenze religiose degli uomini?   Se Epicuro avesse avuto solo lo scopo della costruzione  teorica dei suo sistema, sarebbe stato sufficipnte che, accettata da Democrito la teoria atomica e fattane 1' appli  cazione al mondo fisico, l’estendesse, come fece realmente,  al mondo psichico (per lui i' anima constava infatti d' un  aggregato d'atomi sensiferi), per trarne la conseguenza  della mortalità dell' anima o, più precisamente, del necessario dissolversi dei suoi atomi alla morte del corpo.  Ma, giova ripeterlo, egli volle anche soprattutto combat-  tere il timore della morte, il quale nasce, secondo lui,  dal pensiero — alimentato dalle superstizioni religiose, e  dalle favole dei poeti e dei vati — che, morto il corpo,  l'anima sopravviva. Ora, fra le varie forme di tale cre-  denza una ve n' era — largamente diffusa dalla religione,  dai misteri, da oscure predizioni sibilline, da filosofi e da  poeti — secondo la quale 1' anima non solo continuava  ad esistere, ma poteva, ad intervalli, rivivere in nuovi  corpi e ritessere più d' una volta la trama della vita ter-  rena : insomma l'antichissima credenza nella metempsicosi. E per di più questa credenza, anche nei termini  strettamente epicurei, poteva in un certo senso apparire ammissibile, in quanto cioè, nell' infinità  del tempo e nel perpetuo dissolversi e ricomporsi degli  atomi materiali, era ben lecito ammettere come possibile  il ricostituirsi dell' identico conglomerato atomico che ricreasse di nuovo il medesimo corpo e la medesima anima. Data dunque questa possibilità teorica, si comprende  che l’Orto dovessero esaminarla anche al lume della logica interna del loro sistema, per dedarne  le loro conseguenze in rapporto alle due questioni dell'eternità dell'anima e del timore della morte.   Tanto ciò è vero, che Lucrezio svolge appunto in modo ampio ed esaurientissimo tale ipotesi e tale discussione  polemica, là dove vuol dimostrare la mortalità dell'anima  e la vanità del temere la morte. Ma prima di esaminare ed analizzare questa parte  del poema che si riallaccia così strettamente con la dottrina pitagorica, è necessario premettere che già al principio del primo libro, in quel mirabile e tormentato proemio dove il poeta espone le ragioni, l' ordine e la materia  della sua trattazione, è fatto cenno delle varie credenze  e opinioni intorno all' anima e dell' importanza capitale  che la soluzione del problema psicologico ha, nel sistema  epicureo, in ordine alla necessità di sradicare dall' animo  umano il timore della morte.   E questo cenno, sia in se stesso, sia per il ricordo che  ad esso si collega del famoso sogno di ENNIO, ha pure  importanza per il nostro tema.   Per rassicurare infatti MEMMIO — al quale Lucrezio dedica “De rerum natura”  — che potrebbe dubitare, accettando la dottrina  epicurea, di commettere atto di scellerata empietà, Lucrezio dimostra che anzi la religione fu causa che gli  uomini commettessero delitti nefandi, come il sacrificio  d’Ifigenia in Aulide. E poi soggiunge che,  vinto anche il timore degli dei, può tuttavia rimaner  sempre quell' altro timore, che è alimentato dalle spaventose favole dei poeti sulla vita d' oltretomba, da sogni e  da apparizioni, e trova la sua ragion d' essere nell' igno-  ranza umana intorno alla vera natura dell' anima. Di qui pertanto la necessità di studiare — insieme  con la natura delle cose celesti, degli dei e della materia — anche il problema dell' essenza dell' anima e della  natura dei sogni e delle visioni. E precisamente nei questi versi si accenna in par-  ticolare alle varie dottrine intorno all'origine dell'anima e  intorno alla sorte che le tocca quando muore il corpo:  Ignoratur enim quae sii natura animai,   nata sit^ an cantra nascentihus insinuetur^  et simul intereat nobiscum morte dir empia, an tenehras Orci visat vastasque lacunas^  an pecudes alias divinitus insinuet se,  Ennius ut noster ceeinit, qui priìnus amoeno  detulit ex Helicone perenni fronde coronam,  per gentis Italas kominuìu quae darà clueret\   120 etsi praeterea tamen esse Acherusia tempia  Ennius aeternis exponit versibus edens^  quo ncque permanentanimae ncque corpora nostra^  sed quaedam simulacra modis pallentia miris;  unde sibi exortam semper fiorentis Homeri   125 commemorai speciem lacrimas effundere salsas  coepisse et rerum naturam expandere diciis. Quanto all' origine dell' anima, l’Orto sostene che  essa era nativa (nata)-^ ma altri invece la credeva entrata  già fatta nel corpo al momento della nascita (an contra     [Mi pare qui perfettamente accettabile la lezione già proposta  dal Gobel (permanent è coug. pres. da pcrmanare)^ che è la più  ragionevole correzione del permaneant dato dai codici. Ne so vedere in qual modo tale correzione urti, come dice Giussani, con-  tro il senso di permanare. In questi versi, come in quelli che citerò più innanzi, mi  attengo alla lezione e alla grafìa data dal Giussani (De rerum na-  tura, Torino, Loescher,     nascentibus insinuetur). Quanto alla sorte che 1' aspettava  al morire del corpo le opinioni invece erano tre: l'epicu-  rea, che r anima si dissolvesse col dissolversi degli atomi  corporei [simili intereat nobiscum morte dirempta) ; la  popolare, che scendesse all'Orco, o Ade o Averne [te-  nebras Orci visat vastasque ìacunos) ; la pitagorica, che  passasse per virtù divina nel corpo di altri animali (pecudes alias divinitus insinuet se ). Le due ultime però  non erano in contraddizione fra loro ; tanto è vero ap-  punto che Ennio, nel sogno famoso degli Annali, pur  esponendo la teoria pitagorica, ammise altresì 1' esistenza  dell'Ade e dei templi Acherontei^ ai quali però discen-  deva non già l'anima (questa passava — subito? — in  altri corpi), ma un' ombra, come a dire un doppio, del-  l'anima stessa, di mirabile pallore: come quella precisamente che egli narrava gli fosse apparsa nel sogno —  doppio dell' anima del divino Omero — che, piangendo a-  mare lagrime, gli svelò l'essere delle cose.   E dunque evidente, per questo accenno alla dottrina  psicologica epicurea in contrapposizione con quella di altri  filosofi ed anche di Pitagora, che nel terzo libro di  Lucrezio dobbiamo trovare discussa in qualche modo — e  lo è infatti esaurientemente — la teoria pitagorica della  metempsicosi. Ma non v' è forse cenno d' un' altra concezione che  fu propria di Pitagora e dei suoi seguaci ; voglio dire  della concezione dell' anima- armonia?     La cosa, del resto, è tanto più evidente se si pensi clie Lucrezio compose verosimilmente questa parte del proemio del primo  libro, quando già aveva composto il terxo. Si veda in proposito  la paziente e lucida analisi del Giussani voi. II, pag. 4-5). È un fatto che il poeta, nel terzo canto, prima di ac-  cingersi a determinare la natura materiale - atomica dell' anima nelle sue due distinzioni dì animus od anima.,  confuta una dottrina • — certo ancor diffusa ai suoi gior-  ni — che negava 1' esistenza dell' anima, o meglio le ne-  gava una consistenza sua propria, non pure extracorporea,  ma nel corpo stesso, concependola soltanto come una spe-  cie di armonia delle funzioni organiche :   98 sensum aniìni certa non esse in parte lo^atuìn^   vermn habitum quendam vitalem corporis esse^   100 karmoniam Orai quam dieunt^ quod faciat nus  vivere eum sensu^ nulla curn in parte siet ìuens :  ut bona saepe valetudo eum dicitur esse  corporis, et non est tamen haec pars ulta valentis,  sic animi sensum non certa parte reponunt.   Ora chi, prima di Epicuro, aveva svolto cosiffatta dot-  trina, che anche ai tempi di Platone e di Aristotile era  tanto diffusa da far sentire all' uno e air altro (1) la ne-  cessità di confutarla ? Pitagora e i suoi seguaci, e spe-  cialmente, fra questi, Filolao (2), avevano bensì accettato  e svolto il concetto dell' anima-armonia; ma che però tale  concetto non potesse avere pei Pitagorici il senso datogli     (1) Platone, Fedone e. XXXVI e XLI - XLY; Aristotile, Del-  Vanima^ I, 4. Dopo Aristotile la svolsero ancora, accettandola e  difendendola, Aristosseno talentino (Cicerone, Tuseulane., I, l9)" e  DiCEARCo di Messina (Cicerone, ibidem^ I, 20).   La si fa risalire veramente a Parmenide e a Zenone d' Elea  (Diog. Laerzio): ma che debba riconoscersi anche come  propria di Pitagora e di Filolao dimostrò già il Boeckh nel suo  Philolaos., (p. 177); tanto è ciò vero che nel dialogo platonico chi  la espone è Simmia, discepolo d,l Filolao, ed Echecrate pitagoreo  la riconosce per propria dottrina {Fedone., e. XXXVIII).   qui da Lucrezio e neppure quello datogli da Simmia nel  dialogo di Platone, è appena necessario di dire, se esso  si accordava — nel sistema di quella scuola — con l'altro  della metempsicosi, ossia con il concetto della preesistenza  e immortalità dell' anima stessa. L' ironia lucreziana dun-  que dei versi 131-135:   ... recide harmoniai  fìomen^ ad organicos alto delatum Heliconi  — sive aliunde ipsi porro traxere et in illam  trastulerunt^ proprio quae tum res nomine egehat -  quid quid id est habeant. .   — come le argomentazioni di Socrate nel Fedone — era-  no volte non contro la teoria di Pitagora, ma contro  quella interpretazione e limitazione materialistica di essa,  per cui r anima era ridotta a semplice funzione del corpo.  Ed è ben naturale che — così limitata e interpretata — la  combattessero, insieme con gl'idealisti platonici, anche i  materialisti epicurei : poiché per gli uni rappresentava la  negazione della essenza individuale e quindi della immor-  talità dello spirito, e per gli altri, significava l' inesisten-  za di quella quarta sostanza atomica (la sostanza senso-  riale) onde essi concepivano costituita (insieme con le altre  tre sostanze elementari aria, freddo e caldo) 1' anima u-  mana (1). Si comprende quindi che Lucrezio, prima di     [Pell’Orto, 1' anima è bensì nativa e mortale, ma è però,  fin che vive il corpo, sostanziata di materia atomica ed è parte  dell' essere umano — ne più ne meno di quel che ne siano parte  le mani, i piedi, gli occhi, ecc. (Luce. Ili, 94-97) — e localizzata  nel petto, di dove si diffonde per tutto il corpo, è adibita alla re-  cezione dei moti e delle immagini sensoriali e alle funzioni intel-  lettuali : sì che ammettendo la teoria dell'anima-armonia veniva a  cadere tutta la teoria psicologica degli atomi sensiferi, delle imaccingersi alla esposizione della teoria psicologica, confu-  tasse questa dottrina, che non solo negava all' anima una  sua localizzazione nel corpo, ma veniva in ultima analisi  a negarne 1' esistenza (1).   Dimostrata la materialità dell'animo, Lucrezio passa a dar le prove — ventotto in tutto — della  sua mortalità. Ora vi è un gruppo di queste che combat-  tono il concetto della immortalità sotto l'aspetto non già  del persistere dell' anima dopo la morte, ma del suo pree-  sistere alla nascita del corpo e della possibile pluralità  delle sue esistenze terrene (vv. 668-710, 711-738, 739-766,  774-781).   Qui siamo evidentemente nel campo della metempsicosi,  e occorrerà quindi esaminare quest' altro centinaio di versi.   Veramente non soltanto i Pitagorici — con la dottrina  della metempsicosi — ammisero, fra gli antichi, un' esi-  stenza pre-terrena dell' anima, ma anche Platone e gli  Stoici; e inoltre, come ho già osservato più volte, tale  dottrina non fu che la elaborazione filosofica d' una cre-  denza largamente diffusa nelle leggende popolari, nella  poesia, neir arte, e rafi'orzata se non derivata, dagli in-     magini, dei sogni, delle visioni, delle allucinazioni (anche queste  vere immagini materiali) che V anima riceve dal di fuori, ma non  produce essa stessa.   (1) Cicerone infatti, parlando di Aristosseno e di Dicearco, dice  appunto che essi con la loro teoria venivano a dimostrare « nihil  esse omnino animum^ et hoc esse nomen totum inane^ frustraque  ammalia et animantes appellari, neque in homine inesse animum  vel animam nec in bestia.” {Ttcsc.^ I, 21), e più esplicitamente  più sotto (31 1: « Dicearehus quidem et Aristoxenus. ... nullum  omnino animum esse dixerunt ».  segnamenti religiosi che s' impartivano nei Misteri. Sì che  gli argomenti di Lucrezio — possiamo affermarlo con si-  curezza — non sono esclusivamente contro i Pitagorici.  Ma poiché Pitagora, se anche trovò già nei Misteri e fra  il popolo tale credenza, e se pure la derivò, c?ome vo-  gliono, dall' Egitto, fu veramente il primo che le diede  veste filosofica, e su di essa fondò 41 suo sistema dottrinario, dal quale mossero, dopo di lui, e Platone e gli  altri, così dobbiamo pur esaminare le ragioni del poeta  epicureo, che venivano, in sostanza, a battere in breccia  ed a scalzare uno dei capisaldi della filosofia pitagorica.  Gli argomenti che Lucrezio adduce contro 1' opinione  della preesistenza dell'anima sono quattro, svolti in quattro  successivi e continui gruppi di versi, e rincalzati poi —  dopo conchiusa questa parte fondamentale della sua trat-  tazione — nella meravigliosa invettiva contro il timore  della morte.   a) Il primo argomento è desunto dalla  mancanza in noi di ogni ricordo dell' esistenza anteriore  alla nascita (1): se la nostra anima è esistita un'altra volta  e quindi è entrata nel corpo al momento della nascita (2),  perche non siamo assolutamente in grado di ricordarci  del tempo trascorso e non serbiamo in noi qualche ri-     [C è bisogno di rammentare che appunto ctalla realtà di tale  ricordanza — rappresentata non già dalla reminiscenza di parti-  colari di una anteriore vita terrena, ma dalla inoppugnabile e in-  controvertibile esistenza delle ideo innato nella mente di ciascun  uomo — Platone deduceva la necessità d'un'anteriore esistenza  dell' anima e quindi della sua immortalità ? (Yedunsi nel Fedone  ì capitoli l8-22ì.   2) E, come si vede, io svolgiiuento di quel che ha accennato  nel proemio al primo canto. membranza delle nostre azioni passate ? Dunque l'anima  ha mutato così da potere perdere interamente la facoltà  di ricordare le proprie vicende ? Se così è, questo non  differisce molto dalla morte ; bisogna quindi concludere  che r anima di prima è morta e che quella che abbiamo  in questa vita è stata creata proprio in questa vita (1).  Ora si noti che il poeta non trae, dalla mancanza della  memoria del passato, la conclusione che sembrerebbe le-  gittima : « dunque 1' anima non è preesistita » ; ma dice  soltanto che — dato pure che potesse essere material-  mente esistita — il fatto di non serbar coscienza del  passato dimostra che ora essa ha cambiato personalità  (personalità infatti non è altro che persistere di una me-  desima coscienza), cioè che è morta da quella che era, per  diventare un'altra.   Praeterea si immortalis natura animai  constai et in corpus nascentibus insinuatur,   670 cur super ante actam aetatem meminisse nequimus   nec vestigia gestarum rerum ulla tenem^us ?  nani si tanto operest animi mutata potestas,  omnis ut actarum exciderit retinentia rerum,  non, ut opinor, id a lete iam longiter errai;   675 quajjropter fateare necessest quae fuii ante   interasse, et quae nune est nunc esse creaiam.   Insomma in questi versi non si nega la possibilità che  siano preesistiti, e quindi che esistano in eterno i com-  ponenti materiali dell' anima, ma bensì si nega il persi-     fl) Su questo argomeDto della mancanza di ogni ricordo, come  vedremo fra poco, Lucrezio ritorna ancora, prima con un semplice  cenno (al v. 766) e poi più innanzi (vv. 845 e seguenti) accennan-  do alla possibilità della rinascita dell'anima e del corpo.  stere in eterno della coscienza, che, per Epicuro, deriva  dai moti atomici dei quattro componenti dell'anima.   D'altra parte, continua il poeta, se 1' energia vitale del-  l'anima entra in noi quando, formato il corpo, usciamo  alla luce del mondo, essa dovrebbe vivere non come fa —  che si vede che è cresciuta col corpo e con le membra  immedesimandosi nel sangue, — ma dovrebbe, non fusa  col corpo, vivere a sé come in una prigione. Ora, poiché  avviene proprio il contrario — e cioè 1' anima é diffusa  per tutto il corpo, sì che ogni parte di esso sente, e cre-  sce e si sviluppa col corpo stesso — segno é che non é  entrata in esso perfetta, e che, partecipando delle vicende  del corpo, nasce (e quindi anche muore) con esso. E am-  messo pure che, • perfetta e in sé raccolta all'atto di en-  trare nel corpo, si diffondesse poi subito in ogni sua parte  appena entrata, questo equivarrebbe a uno scomporsi e  dissolversi per cambiar natura: insomma equivarrebbe a  un morire per rinascere tosto altra da quella di prima.   b) Un altro argomento pare a Lucrezio di poter trarre  dal fatto del formarsi dei vermi onde pullula il cadavere  in putrefazione. Se l'anima che li avviva non è costitui-  ta, come pensava Epicuro, da residui frammentari dell'ani-  ma primitiva, (il che dimostra che l'anima stessa, potendo  frazionarsi, é peritura e mortale) bisognerebbe ammette-  re — ed eccoci ancora alla metempsicosi — che nei vermi  si incarnino anime preesistenti; nel qual caso, lasciando  pure a parte la stranezza che mille subentrino là di dove  una è partita, o esse stesse si formano il proprio corpo  dalla materia putrescente, o lo trovano già fatto e vi en-  trano ; ma nella prima ipotesi non si capirebbe perchè,  piuttosto che restar libere, dovessero affaticarsi spontaneamente a rinchiudersi in un carcere corporeo, dove neces-  sariamente dovranno soffrire; nella seconda varrebbe il  ragionamento fatto precedentemente che un' anima non  può entrare, intrecciarsi ed espandersi in un corpo già  formato senza snaturarsi.   720 quod si forte animus extrinsecus insinuari   vermibus et privas in corpora posse venire  eredis, nec reputas cur milia multa animarum  conveniant unde una recesserit, hoc tamen est ut  quaerendum, videatur et in discrimen agendum, utrum tandem animae venentur semina quaeque   vermiculorum ipsaeque sibi fabricentur ubi sint,  an quasi corporibus perfectis insinuentur .  at neque cur faciant ipsae quareve laborent  dicere suppeditat, neque enim, sine corpore cum sunt,   730 sollicitae volitant morbis alguque fameque:   corpus enim magis his vitiis adfine laborat,  et mala multa animus contage fungitur eius.  sed tamen his esto quamvis facere utile corpus  cui subeant: at qua possint via nulla videtur.   735 haut igitur faciunt animae sibi corpora et artus,   nec tamen est uiqui perfectis insinuentur  corporibus: neque enim poterunt suptiliter esse  conexae, neque consensus contagia fient.   c) In terzo luogo, se veramente ci fosse la metem-  psicosi, perchè non dovrebbe, nelle sue peregrinazioni,  un'anima di leone, per esempio, capitare in un cervo o  quella d'un avoltoio in una colomba, e viceversa, per  modo che ne nascessero leoni e avoltoi timidi, cervi e  colombe feroci ? Invece i caratteri psichici delle singole  specie si ereditano e sono costanti in esse al pari dei  caratteri fisici. Se l'anima immortale mutasse solo i corpi,  questa costanza non vi sarebbe o, almeno, soffrirebbe  molte eccezioni. E se, d'altra parte è 1' anima che, mutando corpo, muta carattere, allora vuol dire che essa non  rimane la stessa, che cambia natura, insomma che muore  per rinascere un'altra: Dejiiqiie cur acris violentia triste leonum  740 seminium sequitur, volpes dolus, et fuga cervi»   a patribus datur et patribus pavor incitai artus^  et iam cetera de genere hoc, cur omnia membris  ex ineunte aevo, generascunt ingenìoque,  si non, certa suo quia serrane seminioque vis aniìiti pariter crescit cum corpore toto ?   quod si immortalis foret et mutare soler et  corpora, permixtis anirnantes moribus essent,  eff'ugeret canis Hyrcano de semine saepe  cornigeri incursum cervi, tremeretque per auras  750 aeris accipiter fugiens veniente columba,   desiperentque homines, saperent fera saecla ferarum.  illud enini falsa fertur ratione, quod aiunt  immortalem animam mutato corpore flecti :  quod m^utatur enim dissolvitur, interit ergo.   Se poi si volesse invece sostenere la metempsicosi solo  entro i limiti di ciascuna specie, e dire che un' anima  umana non s'incarna successivamente in altro che in uomi-  ni (1), allora si potrebbe sempre chiedere: perchè può, di  [Così, a mio avviso, svolse il concetto delle trasmigrazioni  deli' anima la scuola pitagorica: limitandolo cioè entro i confini  della specie umana, die se quasi tutte le testimonianze attribui-  scono ai seguaci di Pitagora 1' interpretazione più lata a cui Lu-  crezio accenna nei versi or ora citati, tali testimonianze si può  dimostrare che o sono esagerate per amor di polemica o di satira,  sono errate per confusione della metempsicosi pitagorica con  quella egiziana od orientale in genere, o, in qualche caso, possono  spiegarsi dando un signifiv,ato simbolico al passaggio dell'ani-  ma nel corpo di un animale. In tale categoria rientra, per me, la  testimonianza di Ennio che, nel sogno già citato degli Annali, fasaggia che era, diventare sciocca, dal momento che non  s' è mai visto un fanciullo assennato né un piccolo pu-  ledro esperto come un robusto cavallo ? Forse che la men-  te in un corpo tenero, si fa tenera anch' essa ? Allora  dunque non è immortale se, trasmutando corpo, perde in  tal modo la vita e il sentimento di prima:   Sin animas hominum dicent in corpora sem,per  ire humana, tamen quaerain cur e sapienti  760 stulta qiieat fieri, nec prudens sit puer ullus,   762 nec tam doctus equae pullus quam fortis el^ui vis ?   scilicet, iìi tenero tenerascere eorpore ìnentem  confugient, quod si iavi fìt, fateare necesscst  765 mortalem esse animam, quoniam mutata per artus   tcmto opere amittit vitam sensumque priorem.   d) Infine — e siamo così alla chiusa, di sapore  umoristico, di questa serie di argomentazioni contro la  preesistenza e la metempsicosi — non è cosa oltremodo  ridicola, dice il poeta, che ad ogni accoppiamento e ad  ogni parto di animali stiano lì pronte delle anime, e, in  numero innumerevole, immortali aspettino membra mor-  tali, e lottino e gareggino a chi prima e di preferenza  riesca a penetrare ? Se pure non e' è fra le anime il patto  che chi prima arriva a volo entri per prima e cosi non  ci sia fra loro nessuna lotta violenta:   Denique conubia ad Veneris partusque ferarum  llb esse animas praesto deridieulum esse videtur,   expeetare immortalis niortalia membra  innumero numero, ceriareque praeproperanter     cendo esporre dall' anima di Omero la dottrina di Pitagora, lo fa  anche dire d'essere divenuta un pavone (« pavone » qui significa  « cielo »). Perciò credo prettamente pitagorica, e non stoica, la  dottrina della metempsicosi che svolge Virgilio nel sesto dell'Eneide.  inter se quae prima potissimaque insinuetur ;  si non forte ita sunt animarum foedera pacta,  780 ut, quae prima volans advenerit, insinuetur   prima, neque inter se contendant virihus hilum.   Qui terminano gli accenni che Lucrezio fa alle credenze e dottrine pitagoriche : ma poiché subito dopo, in  quella parte di questo stesso terzo canto in cui si dimo-  stra la vanità del timore della morte, è formulata l' ipo-  tesi della resurrezione delia medesima anima nel mede-  simo corpo, e tale ipotesi -è stata da qualcuno identificata  con l’analoga dottrina pitagorico-stoica della palingenesi,  dobbiamo esaminare anche questo passo.   Continuata e compiuta dunque la dimostrazione della  mortalità dell'anima, il poeta ne trae subito la legittima  conseguenza che la morte non ci riguarda per nulla. Come non abbiamo sentito niente di ciò che è acca-  duto prima della nostra nascita (perchè l' anima nostra  non esisteva), così non sentiremo nulla dopo morti, per-  chè una volta avvenuto il distacco fra corpo ed anima  (e la conseguente dissoluzione di questa) noi, che esistia-  mo solo per l'intima unione di entrambi, non esisteremo  e quindi non sentiremo più. E giunto a  questo punto conclusivo il poeta avrebbe potuto fermarsi,  come infatti, sembra, si fermò in una prima redazione  del poema, nella quale seguivano a questa dimostrazione  i versi 860-867 che la rincalzano. Senonchè piti tardi,  tornandovi sopra fece un'aggiunta in cui è formulata la  suddetta ipotesi, che dobbiamo appunto esaminare. Accetto senz' altro le conclusioni di Giussani, sì per l' interpretazione, sì per la composizione di tutto que-  sto interessante brano. Rimando perciò il lettore all'opera già ci-  tata, voi. Ili, pp. 106-107.   Poiché in essa è detto anzitutto che se pura, dopo  avvenuta la separazione, l'aDima avesse facoltà di sentire,  anche in tal caso la cosa non riguarderebbe punto noi,  che siamo solo in quanto anima e corpo sono stretti in  un'esistenza unica (vv. 841-844).   La quale ipotesi peraltro (che 1' anima senta staccata  dal corpo) s'intende bene da tutto quel che il poeta ha  detto precedentemente, che non era assolutamente ammis-  sibile (1), perchè fuori del corpo l'anima neppure esiste,  consistendo la morte, per lui, nel rompersi del legame  tra corpo ed anima e nell'immediato dissiparsi degli ato-  mi di questa, appena rimasta priva del suo coibente.   Ma vi era però un'altra ipotesi, la quale per di più  poteva apparire ad alcuno non del tutto in contrasto —  come la precedente — con la dottrina epicurea ; l'ipotesi  cioè di un possibile ricrearsi materialmente identico del  nostro essere, anima e corpo. Anche in -questo caso però  la morte non ci riguarderebbe affatto per l' interruzione  della coscienza personale fra le due esistenze. E tale ipo-  tesi appunto il poeta svolge nei versi 845 e seguenti, in  questo modo :  [Giussani crede di poter sostenere che l'ipotesi,  per quanto strana, non è però in contraddizione assoluta — in astratto — con la teoria epicurea. Ora a me le sue ragioni non  sembrano buone, e perciò credo piuttosto che qui Lucrezio abbia  formulata un' ipotesi che è interamente al di fuori della dottrina  d' Epicuro : come poteva infatti pensare che una qualsiasi persi-  stenza del sentire dell' anima fosse possibile, dopo il distacco dal  corpo, se per lui l'anima non poteva assolutamente esistere fuori  del corpo che la tiene unita ? Perchè dunque Lucrezio ha formulata  l'inverosimile ipotesi ? Forse unicamente come ipotesi di transizio-  ne alla successiva; se pure non si tratta qui di un'argomentazione  per absurdum.   845 iVec, si materiem nostram collegerit aetas   post ohitum rursumque redegerit ut sita nunc est,  atque iterum nobis fuerint data lumina vitac,  pertineat quiequam tamen ad nos id quoque factum,  interrupta semel cum, sit repetentia nostri;   850 et nune nil ad nos de nobis attinet, ante   qui fuimus, neque iain de illis nos adficit angor,  nam cum respicias immensi temporis omne  praeteritum spatium,, tum. motus m,ateriai  multimodis quam sint, facile hoc adcredere possis,   855 semina saepe in eodem, ut nunc sunt, ordine posta   haee eadem, quibus e nunc nos sumus, ante fuisse :  nee m,emori tamen id quimus reprehendere mente :  inter enim iectast vitai pausa, vageque  deerrarunt passim m,otus ab sensibus omnes.   Ora a prima . vista questa ipotesi potrebbe apparire  identica a quella già formulata nei versi 668-676, dove  si fa pur cenno della interruzione della coscienza. Tanto  che si è voluto da alcuno vedere in questi versi un'allu-  sione alla dottrina dei Genetliaci, i quali credevano che  nello spazio di 440 anni il medesimo corpo e la medesima anima rivivessero insieme (1) e ciò dipendentemente  dalla dottrina della palingenesi universale che era propria  dei Pitagorici e degli Stoici. Ma in verità qui non si  tratta punto di questo, poiché mentre in quei versi si  parla del rinascere della medesima anima in nuovi corpi,  e nella dottrina dei Genetliaci si parla del ricongiungersi  dell'identica anima e dell'identico corpo (nell' un caso e  neir altro però 1' anima non ha mai perduto la sua perso-  nalità), qui invece si considera il caso di una duplice     (1) Il primo a pensar questo è stato l'editore inglese di Lucre-  zio, il Munro, il quale cita il passo di S. Agostino {De civ. Dei  XXII, 28) che ho già riportato al principio del Gap. III.  creazione ex novo per accozzamento degli stessi atomi,  cioè si considera la possibilità della rinascita d' un iden-  tico aggregato atomico corporeo-psichico nel rispetto della  teoria epicurea. Che poi ciò fosse legittimo e logico è  un'altra quistione (1); ma sta di fatto che Lucrezio for-  mula r ipotesi secondo la logica del sistema di Epicuro.   7. Cosicché, per riassumere e concludere, abbiamo ve-  duto che il nostro poeta accenna a quattro diverse opi-  nioni intorno all'anima: 1*) che essa non esiste a so, ma  risulta dall' armonia delle funzioni organiche (teoria di  Aristosseno e Dicearco); 2*) che essa nasce e si distrug-  ge col corpo, ma ha una propria ubicazione nell'organi-  smo umano (nel petto) e risulta di quattro elementi (moto,  caldo, freddo, sostanza atomica sensoriale) (teoria epicu-  rea); 3*) che essa sopravvive al corpo e scende nell'Ade,  donde può uscire per apparire agli uomini (credenza  popolare); 4^) che essa, non solo sopravvive al corpo, ma  è preesistita ad esso e può incarnarsi più volte. E abbia-  mo veduto come quest'ultima dottrina, della quale abbia-  mo fatto particolare esame, fu intesa e interpretata in  modi diversi: a) l'anima immortale passa attraverso mol-  teplici esistenze, cambiando specie animale (teoria egiziana);  h) l'anima immortale passa attraverso molteplici esistenze,  ma entro i limiti della propria specie e conservando la  propria identità personale (teoria pitagorica-platonica-stoica);  e) l'anima può bensì rinascere, magari nell'identico corpo.     [L'ha posta con molta sottigliezza Giussani. Ma si veda anche quello che osserva in prop9SÌto Pascal nel suo saggio “Morte e resurrezione in Lucrezio” Riv. di Filologia classica, ristam-  pato nel volume Oraecia capta, pag. 67 e seguenti.  senza però conservare la propria identità personale (ipo-  tesi (1) epicurea-lucreziana).   La teoria b poi alla sua volta fu diversamente svilup-  pata, poiché vi era chi sosteneva che l' anima potesse  bensì reincarnarsi, ma in corpi sempre nuovi; chi invece  che si reincarnasse nel medesimo corpo, e ciò in atti-  nenza a una dottrina più generale, anzi universale, se-  condo la quale non pur l' anima e il corpo umano anda-  vano soggetti a periodici ritorni alla vita, ma tutto l'uni-  verso si distruggeva e si ricreava perfettamente identico  (pitagorici, stoici e genetliaci).   Con questa teoria però non veniva distrutta la credenza  nell'Ade o Averne come luogo di espiazione, poiché, se  anche l'anima riviveva, scendeva all' Ade un suo doppio  (eidolon, simulacrum) che poteva anche riuscirne (e ve-  rosimilmente si distruggeva nell'atto che l'anima tornava  a nuova vita terrena) (Ennio).   Quanto alla teoria pitagorica in particolare, abbiamo  veduto che Lucrezio ne parla, in sostanza, in due luoghi:  1**) nel proemio del primo libro (vv. 112-126) ; 2") nella  confutazione dell'ipotesi della preesistenza dell'anima nel  terzo libro; e che non debbono ritenersi affatto come riferi-  menti a Pitagora né il cenno alla dottrina dell' anima-  armonia (e. Ili, vv. 98-135) né l'ipotesi della rinascita,  come è formulata nei vv. 845-859 dello stesso libro.     (1) Ipotesi la credo, e non vera teoria di Epicuro ; che, in so-  stanza, Lucrezio la formula come tale, per potere opporre l' argo-  mento per lui capitale della interruzione della coscienza anche a  coloro che, dal punto di vista della sua stessa dottrina, avessero  potuto pensare ad una eventuale rinascita dell' anima col medesi-  mo corpo.  Veri e propri trattati d' indole pitagorica sappiamo con certezza che compose VARRONE, di Rieti. Eruditissimo in ogni campo della filosofia, e, appunto per questo, incaricato da Giulio Cesare  di mettere insieme ed ordinare in Roma una grande biblioteca, specialmente di opere latine. Ciò che  gli diede agio di allargare e approfondire ancor più le  sue conoscenze enciclopediche, delle quali si valse per comporre innumerevoli opere, trattando dei più svariati  argomenti, occupandosi d' ogni genere di ricerche, raccogliendo con cura particolare tutte le tradizioni sacre e  profane della patria, e dettando pure a quel che ci ha  lasciato scritto Quintiliano, un' opera filosofica in versi  {praecepta sapientiae versibus tradidit). Della sua  prodigiosa attività e di una ricchissima messe di opere  letterarie, storiche, filosofiche, scientifiche — si ricordano  di lui non meno di 74 opere in CCCCCCXX libri — non ci restano purtroppo che scarsi avanzi (poco più di IX libri) e numerose citazioni che  da Varrone attinsero largamente notizie d' ogni sorta. Sì  che siamo quasi all'oscuro sul contenuto della maggior  parte dei suoi scritti, di molti dei quali ci resta appena  appena il titolo. Così dei suoi famosi “Logistorici” che sono in LXXVI libri, e contenevano discussioni di argomento  filosofico con miscela di notizie storiche, conosciamo i titoli di alcuni, nei quali si doveva trattare più o meno  largamente di filosofia pitagorica. Tali sono: “Atticus sive de numeris”, “Tubero sive de origine humana,” “Gallus de admirandis,” “De saeculis” ed altro de philosophia; ma quale ne fosse precisamente il contenuto non sappiamo. Così, d' altra parte,  ci è rimasta notizia d' un' opera in IX libri “de principiis numerorum”, la quale,  messa accanto sìi Attico già citato e alla testimonianza     [intorno a Varrone si veda l'opera di Boissier, Etude  sur la vie et les ouvrages de Varron. Per i libri Antiquitatum  rerum divinarum pubblicati nel 47 av. Cr. si consulti lo studio  dall' Agahd nei JahrhUcher f. class. Philologie^ 24*©^ Supplement-  band I Heft, Leipzig, 1di Gellio (Notti Attiche), che riferisce come Varrone  tratta in maniera oltremodo compiuta del numero settenario – “Varrò de numero septenario scripsit admodum  conquisite” -- prova che il grande reatino dovette conoscere  profondamente la teoria pitagorica e specialmente la dottrina fondamentale dei numeri. È veramente un peccato che di tali opere non  resti quasi nulla, giacché da esse, avremmo forse potuto  trarre molta luce a chiarimento di questa famosa dottrina,  che era il pernio della speculazione metafisica e simbolica  di Pitagora. Qualche passo tuttavia che ce ne è rimasto,  vale a dimostrarci che larghe e geniali applicazioni potè  avere per opera del Maestro e dei suoi seguaci la teoria  stessa, che fu feconda di eccellenti e mirabili scoperte  nel campo delle scienze sperimentali.   Poiché le investigazioni matematiche dei Pitagorici non furono soltanto rivolte alla ricerca delle proprietà dei numeri, ma anche fuori dei campi dell' aritmetica  e della geometria, trovarono le più nuove e piìi larghe  applicazioni nel vasto e infinito campo dei fenomeni naturali.   Una delle prime e forse la più importante scoperta di  Pitagora fu dovuta a una di quelle felici intuizioni che,  in ogni tempo, sono state il privilegio del genio; intendo  parlare della determinazione matematica degli accordi, che  poi dalla musica, applicata a particolari fatti della natura,     [Kathgeber (“Grossgriechenland und Pythagoras” (Gotha)  scrive. “Dem M. Terentius VARRO AUSS REATO, der  aufgeklàrt iiber Pyihagoras war, bot sein Werk hobdomades Gelegenheit zur Erwàhnung dar.” portò a molte curiose osservazioni come quelle che riguardano le due diverse specie di parto (a termine e  settimino), e, applicata all' astronomia, portò alla teorica  dell' armonia delle sfere e alla concezione dell' universo  come di un tutto perfettamente armonico (kósmos).   h) Fu un caso che fece volgere la mente speculativa  di Pitagora alla ricerca della teoria matematica degli accordi musicali, la cui determinazione, prima di lui, era  affidata semplicemente all'orecchio degl'intenditori. Passando un giorno per istrada accanìo a due fabbri che  martellavano alternatamente un ferro sopra l' incudine,  Varrone e colpito dai suoni cadenzati e armonici dei martelli : quelli acuti dell' uno rispondevano così giustamente  a quelli gravi dell' altro, che, entrando ritmicamente nel  suo cervello, di vari colpi ne nasceva un solo accordo. Varrone ha così la sensazione materiale di un fenomeno, intorno  al quale già da qualche tempo lavora col pensiero, e  non si lascia sfuggire 1' occasione per chiarirlo. Avvicinatosi ai fabbri, osserva più da presso il loro lavoro e  nota i suoni che sono prodotti dai colpi di ciascuno.  Credendo che la loro diversità di tono dipende dalla  diversa forza degli operai, fa che essi si scambino i martelli e si accorge che invece essa dipende da questi.  Allora volge tutta la sua attenzione a determinare con  esattezza i due pesi e la loro differenza, poi fa fare altri  martelli più o meno pesanti di quei due. Ma dai loro colpi  nasceno suoni diversi da quei primi e per di più non  intonati. In tal modo, capì che l'accordo dei suoni nasce da un determinato rapporto matematico dei pesi,  che cerca subito di calcolare. Trovati che ha tutti i numeri che corrispondeno ai pesi dai quali nasceno suoni intonati, passa dai martelli alle corde musicali. Prende  alcune budello di pecora o nervi di bue di eguale grossezza e lunghezza, facendole tendere per mezzo di pesi  proporzionati a quelli di cui fa il computo e determinato il rapporto coi martelli. Fattele risuonare per  mezzo della percussione, non solo trova che le corde tese  da pesi uguali vibrano all'unisono al vibrare di una sola  di esse, ma ottenne altresì suoni armonici precisamente  dalle corde i cui pesi stavano in rapporto di III:IV 3:4 ( 5tà  xeaaàptóv o èrul xpiTov o supe?^ tertium), di 2 : 3  II:III (5tà Tcévxe)  e di 2:4 II:IV (5tà Traawv). Per averne poi un'altra riprova,  ripetè r esperienza con alcuni flauti. In questo modo: ne  fa preparare quattro di calibro uguale, ma di lunghezza  diversa, il I, poniamo, lungo VI pollici, il II, VIII  il III, IX e il IV, XII. Poi facendoli sonare a due a  due trova che il primo e il secondo armonizzavano in  accordo diatessdron (6 : 8 =: 3 : 4) – VI:VII::III:IV; il primo e il terzo in  accordo diapènte (6 : 9 = 2 : 3) – VI:IX::II:III e il primo e il quarto in  accordo diapason ( 6 : 12 ^=i 2:4) – VI:XII::II:IV. In tal modo Varrone  riusce molto genialmente alla determinazione matematica degl’accordi, ciò che permise in seguito di estendere e  perfezionare la teoria della musica. E il caso che lo conduce alla scoperta non è molto dissimile da quello per  il quale il Galilei, dall'osservazione dei movimenti d'una  lampada in chiesa, fu tratto a investigare e scoprire le  leggi della oscillazione del pendolo o da quello in virtù  del quale Newton, per la caduta di un pomo, arrivò a  scoprire le leggi della gravitazione universale. Tanto è     [Vedasi la narrazione, desunta da scritti varroniani, in Ma-  cROBio, Gomm. ad Somnium Scipionis, II, 1, 9 e Censorino, de  die natali 10,7.  vero che il genio in ogni tempo e in ogni luogo sa trarre  partito dalle cose e dai fatti più semplici !   -- E una volta messosi su questa via, che mirabile  serie di investigazioni non seppe escogitare quella profonda mente speculativa, che, dall'osservazione dì due fabbri all'incudine arriva non pure alle leggi dell'armonia  musicale, ma a scoprire 1' armonia dei cieli e di tutto l’universo! Poiché applicando i suoi calcoli al corso e  alle distanze degli astri e dei pianeti vaganti fra il cielo  e la terra — dai quali, secondo lui, era regolato il corso  della vita e degli eventi umani — trova che essi avevano  un moto euritmico, e intervalli coi rispondenti ai toni, e  suoni, proporzionatamente alla loro tonalità, in tale accordo, da formare una dolcissima armonia, non però percepibile da orecchio umano, per la sua forza che supera la  facoltà del nostro udito.   Calcolate infatti le distanze dalla terra a ciascun pianeta in stadi italici di 625 – CCCCCCXXV piedi, trovò che dalla terra  alla luna ci sono circa 126000 stadi ; e questo rappresenta per lui r intervallo di un tono. Dalla Luna a Mercurio (Stilbon) calcola una distanza uguale alla metà, ossia  un semitone. Di qui a Venere, altrettanto; da Venere fino  al Sole, tre volte tanto, come a dire un tono e mezzo. Il  sole quindi distava, secondo Varrone, dalla terra tre toni e  mezzo, formando così con essa un accordo diapente e  dalla luna due toni e mezzo, formando un accordo diatessdron. Dal sole poi a Marte (Pyrois) stima esserci eguale distanza che dalla terra alla luna, ossia un tono. Di qui a Giove (Phaeton), la metà, ossia un semitone. Da  Giove a Saturno, altrettanto, cioè ancora un semitone. Di  qui finalmente al cielo delle stelle fisse, press' a poco un  mezzo tono. E però da questo cielo al sole pone un     [FIRMAMENTO     Orbita di Orbita Saturno Giove Marte  e-  3 Q. ooII» HK> •Wi■O-SOLE Venehe  Mercurio Luna     ©   •0   Wi   TJSKBà,     d>>3   Q.  •«  O   o  tt)      •0  u      cs  i)    >  »3  o  8  ti    •0  u    ^  7.  —] intervallo diatessdron (di due toni e mezzo), e dallo stesso  cielo alla Terra un intervallo in accordo diapason (di sei  toni)   [Per queste osservazioni e scoperte è ben naturale  che Pitagora dove convincersi che nell' universo tutto  è regolato dal numero, ossia che nulla vi è di casuale, di  fortuito, di tumultuario, ma tutto procede da leggi divine  e da una determinata e determinabile proporzione. Sicché dalla musica e dall' astronomia passando, per esempio, '  alla tisiologia, trova nel decórso del puerperio ancora  una riprova della regolarità matematica dei fenomeni naturali. Orbene, la curiosa applicazione che Pitagora fa della dottrina dei numeri al più complesso e meraviglioso  dei processi fisiologici, cioè alla generazione, e appunto  spiegata in una delle opere varroniane ricordate (“Tubero seu de origine humana”). Queir acuto e profondo osservatore infatti avendo studiato accuratamente il decorso delle due diverse specie di  parto, l'uno di sette – settimino) e Y altro di dieci mesi  lunari (a termine) che avvengono rispettivamente 210 e  274 giorni dopo la concezione, e avendo determinato i.  numeri corrispondenti ai giorni nei quali, per ognuno dei  due parti, si compiono i mutamenti più importanti — del  seme in sangue, del sangue in carne, della carne in forma umana — trova che il parto settimino è in rapporto  col numero VI e quello a termine col numero VII; non solo,  ma che i nùmeri suddetti, tanto nell' uno quanto nell'altro, si trovano nello stesso rapporto degli accordi musicali. Ed ecco in qual modo.     [Censorino, de die natali, cap. 13.   (2) Maorobio, Oomm. in Somnium Soip. Il, U, 7 e 4, 14.  Nel parto di VII mesi, per i primi sei giorni dopo la  fecondazione, l’umore che è contenuto nell' utero è di  aspetto lattiginoso. Nei successivi VIII giorni è di aspetto  sanguigno. Il rapporto fra VI e VIII è, come abbiamo veduto  più volte, quello precisamente che forma accordo diatessd-  ron (6:8 = 3:4). – VI:VIII::III:IV -- Nel terzo stadio si hanno IX giorni,  in cui comincia la trasformazione dell' umore sanguigno  in carne : e il IX col VI forma il secondo accordo diapènte  (6:9 = 2: 3) – VI:IX::II:III ; finalmente nei XII giorni seguenti si ottiene il corpo già formato : e il rapporto di XII con VI  forma il terzo accordo diapason (6 : 12 .^r: 1 : 2). VI:XII::I:II. Questi  quattro numeri 6, 8, 9, 12 – VI VII IX XII sommati insieme formano 35  XXXV giorni, i quali moltiplicati per 6 VI danno appunto il nu-  mero totale dei giorni, di durata della gestazione, ossia  210. CCX -- Nel parto a termine invece, con analogo ragionamento, il calcolo era basato sui numeri 7, 9 1/3, 10 1/2,  14, -- VII IX XII X XII XIV che sommati insieme danno 40 XL e una frazione; 40  XL moltiplicato per 7 VI dà 280 CCLXXX, da cui detraendo 6 VI si ha 274 CCLXXIV.  Vale a dire che nel parto di dieci X mesi iL mutamento  del seme in umore latteo avviene in sette VII giorni anziché  in sei VI, e la formazione del corpo è già avvenuta dopo  40 XC giorni interi, che moltiplicati per 7 VII danno 280 CCLXXX, cioè  quaranta XL settimane ; ma poiché il parto avviene nel primo I giorno dell'ultima settimana, così bisogna detrarre sei XV  giorni, onde ne restano 274 CCLXXIV Tanto il 210 CCX che il 274 CCLXXIV sono veramente due numeri pari, laddove Pitagora dava  speciale importanza al numero dispari, tanto da ritenere —  in virtii delle sue molteplici osservazioni — che tutto è  regolato da esso (1) : ciò non pertanto, osserva Censorino     (1) Macrobio, Saturnal. I, 13, 5 ; Solino, I, 39 ; Servio, ad  Bmol. Vili, 75.   che riporta tutto questo passo Varroniano, egli non era  qui in contraddizione con se stesso, perchè i due dispari  209  CCIX e 273 CCLXXIII sono bensì compiuti, ma non si compie ne il  210 CCX né il 274 CCLXXIV giorno in cui il parto avviene; in conformità precisamente di quanto ha fatto la natura sia riguardo alla durata dell' anno (365 CCCLXV giorni più una frazione)  che a quella del mese (29 XXIX giorni più una frazione.   Non è il caso di entrare qui in merito al valore intrinseco e alla veracità di siffatte osservazioni. Poiché  anche se errori vi sono, bisogna naturalmente tener  conto da un lato della diversità dei mezzi d'indagine e di  esperimento da oggi al tempo di Varrone, e pensare  dall' altro che molte delle applicazioni della teoria dei numeri non dovettero neppure essere l' opera diretta di Pitagora, ma il prodotto delle speculazioni dei suoi seguaci.  In ogni modo però risulta chiaro dal poco che si è ve-  duto sin qui che le speculazióni stesse non rimanevano  campate nell'aria e nelle nebulosità della metafisica, ma  trovavano la loro base e la loro ragion d' essere nell' os-  servazione scientifica dei fatti naturali; sì che fu indub-  biamente merito di Pitagora e dei suoi discepoli quello di  aver dato un nuovo impulso alla scienza; e, fatta ragione  dei tempi, non fu merito piccolo.   f) Se la teoria dei numeri trovava così mirabili ri-  scontri nella natura e nei suoi fenomeni, è ben naturale  che ad essa dovesse pure conformarsi la vita pratica  degli uomini, almeno di quelli che si iniziavano ai mi-  steri e alle profonde verità del Pitagorismo. Ond' é, per  esempio, che un'altra testimonianza varroniana ci ricorda     (l) Censorino, de die natali 9 e 11. Si confronti con questo il  passo di Gellio, Notti attiche, III, 10, 7.   la particolare considerazione in cui erano tenuti i così  detti numeri cubici, ai punto che persino nello scrivere  i Pitagorici ne tenevano conto scrupolosamente badan-  do di comporre in una sola volta 216 righe o versi  (216i=r 6 X 6 X 6) e non mai piìi di tre volte tanto! Ora questo è uno di quei particolari che, presi a se,  prestano facilmente il fianco al riso e alla satira; ma in  verità se noi non possiamo spiegarci la cosa in modo ra-  gionevole, ciò può dipendere dal fatto che non conosciamo  tutto il complesso della dottrina e della vita pitagorica ;  poiché è ben possibile che pratiche di questo genere rientrassero nell' ambito del sistema per puro amor dell' ordi-  ne e doll'euritmia, al solo scopo di far sottostare a una  certa regola anche gli atti minimi e più insignificanti  della vita ; se pure non si tratta, qui e in altri casi, di  esagerazioni dei seguaci o di degenerazioni dei primitivi  insegnamenti del Maestro.   Ma senza soffermarci troppo su cosiffatte quisquilie, è  ben noto d'altra parte — ed è ancora Varrone che parla —  quanta parte avesse la musica nel sistema educativo di  Pitagora, e come egli medesimo se ne dilettasse al punto,  che ogni sera prima di addormentarsi e ogni mattina al  suo svegliarsi cantava, accompagnandosi con la cetra, per  meglio disporre 1' animo ai suoi pensieri divini. Oltre a queste notizie, che io, valendomi delle  indagini già fatte da altri (3), ho cercato di esporre si-   [ViTRirvio, De arehiteetura V pr. p. 104, 1.   (2) Censorino, de die natali 12, 4.   (3) Si veda nell' opuscolo di A. Schmekel, De Ovidiana Pytha-  goreae doctrinae adumbratione (Giyphiswadensiae)  l'appendice a pagina 76 « Varronis Pythagoreae doctrinae frag-menta continens ».]  stematicamente raggruppandole intorno alla dottrina dei  numeri, altre se ne trovavano nelle opere di Varrone,  intorno alla vita di Pitagora, intorno alla sua scuola e ai  suoi seguaci e intorno ai principii del suo sistema.   Così Varrone pone 1' esistenza di Pitagora al tempo  di Tarquinio Prisco e quindi implicitamente non accetta la tradizione che Numa e suo scolaro a  Crotone. Anch'egli attribuiva a Pitagora il merito di  essersi chiamato per primo filosofo, cioè amante del sapere, e ricordandone il maestro Ferecide faceva risalire :  già a questo 1' uso di pratiche magiche per indovinare il futuro ; come pure accennava altrove alla sua andata a  Turio (Sibari) nella Calabria. E Agostino ci ha  conservato un altro passo nel quale Varrone, da vero  romano, esprime la sua ammirazione perchè 1' ultima  cosa che Pitagora insegna ai suoi discepoli, quando già  fossero perfetti, sapienti e felici, era quella del governare  la cosa pubblica. Appartiene al libro quinto dell' opera intorno alla lingua latina un brano in cui Varrone afferma che Pitagora  insegnava « due essere i principii d' ogni cosa, come finito e infinito, bene e male, vita e morte, giorno e  notte. E quindi parimenti due i modi di essere : stato e moto; ciò che sta fermo o si muove, corpo; il dove si muove, spazio; il quando si muove, tempo ; ciò che  « vi è nel movimento, azione; e avvenire appunto perciò  « che quasi tutte le cose siano quadripartite ed eterne,  poiché ne paò mai esservi stato tempo se non prece-     [S. Agostino, de civitate dei XYIII, 25.   (2) Ibidem, XYIII, 37 e YIII, 4; Tertulliano, dean. 28; Apol. 46.   (3) S. ìlggstino, de ordine II, 20, 54.   « duto da moto, — se tempo è appunto l' intervallo fra  « un moto e l' altro — ; né moto senza spazio e senza  « corpo, perchè l'uno (il corpo) è ciò che si muove e  <^ r altro (lo spazio) il dove; né può mancare l'azione dove  « e' è movimento; onde le due coppie di principii : spazio  « e corpo, tempo e azione ». Altrove ci ricorda Varrone un altro pensiero fondamentale di Pitagora, assunto  poi pili tardi da Aristotile, quello cioè che l'esistenza degli animali e però anche dell'uomo non ha mai avuto  principio nel tempo, perchè sono sempre esistiti. E  parimenti faceva risalire a lui quella teoria dei quattro  elementi (terra, acqua, aria ed etere o fuoco) che comu-  nemente si suole invece attribuire ad Empedocle di Gir-  genti, vissuto un secolo dopo. Non manca neppure  nelle opere varroniane qualche accenno alla teoria pita-     [Varrone, de Lingua Latina, --  Pythagoras Samius ait  omnium rerum initia esse hina ut finitum et infinitum^ honum  et malum^ vitam et mortem., diem et noctem. Quare item duo,  status et m,otus : quod stat aut agitatur, corpus ; uhi agitatur  locus; dum. agitatur, tempus; quod est in agitatu, aetio; quare  fit^ ut ideo fere omnia sint quadripartita et ea aeterna, quod nc-  que unquam tempus quin fuerit motus, eius enim intervallum  tempus; ncque motus ubi non locus et corpus, quod alter um est  quod moveiur, alterum uhi; ncque uhi agitatur, non actio ihi;  igitur initiorutn quadrigae : locus et corpus, tempus et actio ».   Varrone, de re rustica, Sive enim aliquod fuit prin-  cipium generandi animalium, ut putavii Thales Milesius et Zeno Gittieus ; sive cantra principium horum exstitit nullum, ut credidii Pythagoras Samius et Aristoteles Stagirites\ necesse est humanae vitae a summa memoria gradatine descendisse » . Cfr. CenSORINO, de die natali, IV, 3.   ViTRUVio, de architectitra, V, 1 ; Servio, ad Aeneid. VI,  724; ad Geòrgie IV, 2l9; Ovidio, Metamorfosi, XV, 237 e seg.  E cfr. Diogene Laerzio, VIII, 25.   gorica deir eternità dell' anima e alla sua dottrina della  metempsicosi, a conferma della quale ricorda persino le sue vite anteriori, essendo stato prima un certo  Etalide, poi Euforbo, poi il pescatore Pirro e finalmente  Ermotimo. Altrove ancora Varrone accenna alle pratiche di evocazioni dei morti, che del resto erano largamente usate neir antichità, come dimostra, fra le altre, la  rappresentazione di una scena di necromanzia dipinta in  un monumento cretese, scoperto da poco, che risale ai  tempo pre-omerico della così detta  civiltà micenea o minoica. È finalmente quasi superfluo dire che Varrone non  manca di parlare del famoso divieto pitagorico di mangiar fave, connesso con la credenza nella metempsicosi  e con la concezione che Pitagora ebbe della vita post-mortale   Symmaghus, Ep. I, 4.   (2) Vabro, Sat. Menipp.^ ed. B framm. 127 (= Nonio Marcello,  p. 121, 26); Tertulliano, de mi. 27 e 34; ad nat. I, 19; Ago-  stino, de cìv. dei 18, 45; Scholia in Lucan. p. 289, 11 e 304, 13.   (3) Tertulliano, de an. 28, 31 e 34; Sant'A&ostino, Trinit. XII,  24.   (4) Sant'Agostino, de civ. dei VII, 35 « Quod genus divinatiònis idem Varrò e Persis dicit allatum, quo et ipsum Numam, et  postea Pythagoram philosophum usum fuisse commemorai ; ubi  adhihito sanguine etìam inferos perhibet sciseitari et nekyoman-  teian graeee dicit vocari » . Quanto alle rappresentazioni di scene  di necromanzia si veda, per esempio, Drerup, Omero (Bergamo  I9l0) a p. 176 e relativa tavola a colori; e si ricordi la famosa  Nekuia omerica del libro XI dell'Odissea.   (5) Tertulliano, Apol. 47 ; de anima, 33 ; Plinio, Nat. Hist.  XVIII, 118, XXXV, 160.  Tali a un di presso le notizie di contenuto pitagorico, che si possono far risalire a Varrone. Data l'esiguità  delle opere superstiti e la varietà degli autori da cui sono raccolte, esse sono slegate e frammentarie, ma tali  però da farci ancora una volta rimpiangere la perdita  quasi totale dell' enciclopedia varroniana, con la quale si  è certo perduto per sempre un ricco tesoro di notizie  utili e importanti per la storia del Pitagorismo nell'antichità classica.   Ma poiché dei materiale già sistematicamente raccolto  da Varrone, come delle sue speculazioni e delle sue ricerche storico-filosofiche debbono essersi serviti non poco  i filosofi contemporanei o che vissero poco dopo di lui,  così, continuando a cercare le tracce di Pitagorismo rimane nelle opere di altri filosofi di questo tempo, potremo ricostruire e svolgere qualche altro punto della  dottrina di Pitagora e compiere così il quadro della conoscenza che ne ebbero i contemporanei di Giulio Cesare e d’Ottaviano.  Fra gli amici dVarrone è degno  di essere ricordato queir APPIO CLAUDIO FULCRO, del quale  sappiamo che e augure, pretore, console, censore, governatore della Cilicia e legato in rapporti di amicizia anche con Cicerone, di cui ci restano  diverse lettere a lui indirizzate.   Convinto che la scienza augurale avesse il suo fondamento non già nel desiderio o nel bisogno di giovare  anche con 1' ausilio potentissimo della religione agii interessi dello stato romano — come la pensa l' altro grande  augure GAIO CLAUDIO MARCELLO — ma che realmente e  un dono concesso dal divino agli uomini, perchè questi sono in grado di meglio intendere la loro volontà e di  regolare, uniformandosi a questa, la propria condotta, era solito far sortilegi, oroscopi, evocazioni di morti. Ne più né meno di quello che, secondo  la tradizione fa  Numa, il filosofo Ferecide di Siro, il suo  discepolo Pitagora, e Platone. Questa convinzione ,  suffragata dalle dette pratiche della divinazione artificiale  cui era dedito, dove appunto indurre Appio a scrivere  quei suo “Liber auguralis,” forse di carattere polemico,  che dedica all' amico Cicerone, lì quale fra l’interpretazione utilitaria e razionalistica di quelli che la pensa come Marcello, e la fede ortodossa di coloro che la pensano come Appio Claudio, ha un'opinione intermedia,  in questo senso : che cioè una vera e propria scienza e  arte augurale e già esistita in antico, ma che di essa  però non e più depositario, al tempo suo, il collegio  degli auguri, poiché, per il lungo tempo trascorso e per  l’abbandono e la negligenza in cui s' era lasciata, era,     (1) CicEBONE, de divìnatione, L. II, 13, 32 : « sed est in conlegio  vestro inter Marcellum et Appiutn, optimos augures, ynagna dissensio fnam eorum ego in libros incidi, quom alteri plaeeat  auspieia ista ad utilitatem esse reipublicae composita, alteri disciplina vestra quasi divinare mdeatur posse » .   (2) CiCEE., Tusculane, 1. I, 16, 37 : < inde ea, quae meus amicus  Appius nekyomanteia faciebat ». Cfr. de divinat. I, 10, 30 ; 58,  132.   (3) Si cedano in S. Agostino, Città di Dio, l. VII, i capitoli  34 e 35.   (4) CioEE., Tuscul, I, 16, 38 j 17, 39.   (5) CicER., Ad familiares, 3, 4, 1 ; 9, 3, 11, 4 ; Varrone, R.  R. 3, 2f 2.]  secondo lui, svanita. Dichiarazione questa, che per  essere fatta da un augure di tanta autorità, non è certo  di lieve momento. Sarebbe in verità molto interessante addentrarsi nella  ricerca di quel che e proprio questa ra antica, come  la chiamavano i greci, o aruspicina, che tanta parte ha nella vita degl’Elioni e degli antichi  Italici. Ma questa trattazione mi porterebbe troppo lontano dal tema di cui ora sto occupandomi. E del resto  ricerche abbastanza ampie, se non proprio in tutto soddisfacenti ed esaurienti, sono già state fatte in proposito.  Basti dire pertanto che la mantica o arte divinatoria si  esercita in forme e modi diversi — con l’osservazione  del volo degli uccelli in un punto determinato del cielo detto “templum” -- onde trasse origine la parola “contemplazione”), con 1' esame dei visceri (cuore, polmone, fegato)  di animali sacrificati a questo scopo (“hostiae consultatoriae”) con la interpretazione o ermeneutica dei sogni, con  la considerazione dei fenomeni celesti (tuono, lampo, fulmine, ecc.), cogli oracoli, coi pubblici e privati carmi  profetici - ; e che era pure praticata da Pitagora, il  quale vi annette anzi un particolarissimo valore, tanto  da voler essere ritenuto egli stesso augure (3) : il che     (1) CicER., de legìbus 1. II, 13, 33 ; « Sed dubium non est,  quin haec disciplina et ars auguruni evanuerit jam et vetustate  et neglegentia. Ita neque illi (cioè Marcello) adsentior, qui negai  unquam in nostro conlegio fuisse, neque UH ;cioè Appio) qui esse  etiam nunc putat ». Cfr. de divinai. 11^ 33, 70.   (2) Si vedano, fra gli altri, i due importanti lavori del Bochsenschììtz, Sogni e cabala nelV antichità, Berlinoe del Cak-  TANi-LovATELLi, Sogni e ipnotismo nelV antichità, Roma 1889.   (3i CiCEBONE, de divinatione, L. I, 3, 5 « .... huic rei (cioè  alla divinazione) magnani auctoritatem Pythagoras,.. tribuit, qui     no     naturalmente non poteva pretendere senza dare qualche  prova di virtù profetica ; e, secondo la tradizione, egli  ne diede infatti non poche.   Altro amicissimo di Varrone e, come è noto, Cicerone. Negli scritti che in gran numero ci restano di CICERONE frequentissimi sono gli accenni a Pitagora, alla sua scuola  e alla sua filosofia ; non però tali da farci pensare a una  elaborazione personale e originale, o all' approfondimento  di qualche parte delle dottrine pitagoriche. Seguace come e di un eclettismo che sta fra l’Accademia e il Portico, iniziato ai misteri religiosi,  augure anch' esso, appassionato se non profondo cultore  della filosofia, della quale si fece divulgatore, creando quasi ex novo per essi, dopo il mirabile  tentativo poetico di Lucrezio, la lingua filosofica, autore  anche di molte opere, nelle quali, con squisito senso di  arte, tratta dei più svariati argomenti sì metasifici che  morali, Cicerone ha senza dubbio una conoscenza abbastanza larga dell'antica filosofia italica, l'unica forse  che ha già avuto in Roma insigni divulgatori e seguaci, come Appio Claudio Cieco ed Ennio, e rinnovatori  come Nigidio. È anche indubitato che molto gli giovarono per tale conoscenza — oltre che 1' assiduo studio dei filosofi l’amicizia di Varrone e dello stesso Nigidio Figulo,  e la lettura dei loro scritti. Ma non per     etiam ipse augur vellet esse ». Cfr. I, 39, 87 ed anche 45, 102 :  « Neq^ue solum deorum voces Pythagoreì observitaverunt, sed etiam  hominum, quae vocant omina » . questo possiamo dire che i'Arpinate fa particolari studi intorno a quel sistema di dottrine, che, se  collimavano in parecchi punti con le sue convinzioni per-  sonali, tuttavia^ per il simbolismo onde erano involute,  si prestavano assai meno delle posteriori e piìi note filo-  sofie ad essere facilmente comprese dai profani e divulgate  artisticamente.   3. — In ogni modo, volendo raccogliere dalle sue opere  le notizie che si riferiscono a Pitagora e alla sua scuola,  dovrei prendere le mosse da quel passo delle Tuscolane in cui Cicerone parla delle dottrine pitagoriche, della loro diffusione in Italia e delle tracce che  esse lasciarono nelle istituzioni e nella LEGGE dì Roma. Di Pitagora Cicerone dice in due luoghi che e discepolo di Ferecide, specialmente per la sua dottrina  suir eternità dell' anima, in quanto egli insegna l’esistenza di un' anima universale, compenetrante tutta la  natura e ciascuna delle sue manifestazioni, e la derivazione da essa di ogni anima umana. E per ciò che  riguarda la natura di questa, Cicerone stesso accetta la  distinzione - fatta prima da Pitagora e poi da Platone —     (1) De divinatione, I, 50, 112 ; Tusculane I, 16, 38: « Pherecides  Syrius primuìn dixit anìmos esse hominum sempiternos. .. Rane  opìnionem discipulus Pytkagoras ìnaxime confirmavit ».   (2) De natura deorum, I, 11, 27 : « Pytkagoras censuìt ani-  mum esse per naturatn rerum omnem intentum et eonmeantem,  ex quo nostri animi earperentur ». De seneetute 21, 78 : « Au-   dieham, Pythagoram Pythagoreosque numquam dubitasse, quin   ex universa mente divina delibatos animos haberemus ».] dell' anima in due parti, l’una ragionevole, in cui questi  filosofi poneno la tranquillità, cioè una placida immutabile costanza, e l’altra irragionevole, onde traevano  origine i moti torbidi sì dell' ira come del desiderio. Per la quale credenza l’uno e l'altro ammisero la possibilità di accrescere le forze conoscitive dello spirito,  specialmente nel sonno, quando a questo l' uomo si fosse  disposto opportunamente con particolare dieta e con una  meditazione preparatoria; e credettero nella divinazione,  al punto che Pitagora pretende di essere egli stesso profeta. Cicerone seppe anche dei  viaggi di quest' ultimo nelle terre più lontane (3), del suo  colloquio con Leonte, il capo dei Fliasii, in cui per la  prima volta si chiamò filosofo (4), della successiva venuta  in Italia, dei suoi studi di geometria e del sacrificio d'un     (1 ) Tusculane, IV, 5, lO : « Veterem illarti equidem Pytkagorae  pri/num, dein Platonis diseriptionem sequar, qui anlìnum in  duas partes dividunty alter ani rationis participem f aduni y alte-  rani expertem ; in participe rationis ponunt tranquillitatemy id  est placidam quietarnque constantiam, in illa altera 'ruotus turbi-  dos cum irae, twìn cupiditatis, conirarios ìnimicosque rat ioni ».  Cfr. libro I, 17, 39.   (2) De divinatione, II, 58, 119: « Pythagoras et Plato,., quo  in somnis certiora videamus, praeparatos quodam eultu atque  victu proficisci ad dormiendum jubent ; faba quidem Pythagorei  utiqus abstinere, quasi vero eo cibo mens, non venter infletur ».  Sulle meditazioni serotino, ma di altro genere, vedasi De senectule  11, 38 : Pythagorii quid quoque die dixissent, audissent, egissent,  eommemorabant vesperì » ; e sulla astinenza dalle fave si con-  fronti de divinatione I, 30, 62 e II, 58, 119.   (3) TuseuL, IV, 19, 44; 25, 55; de fìnibus V, 19, 50; 29, 87.   (4) TuseuL, V, 3, 8 e segg. Cfr. sopra e vedi Diogene Laerzio,  Proemio, 12, che desume la notizia da un libro di Eraclide pontioo.  bue alle Muse per aver trovata la soluzione d'un teorema,  della sua dimora a Crotone e a Taormina in Sicilia,  della sua operosa vecchiezza, e infine della sua dimora  e della morte a Metaponto. Quanto alla dottrina e alla scuola, oltre al noto prin-  cipio autoritario dell' ipse dixit^ che biasima (6), e a quello  che ho accennato or ora della natura dell' anima, Cicerone  ricorda la teoria dei numeri (7), 1' armonia del mondo e  il culto della musica (8), l'astinenza dai sacrifìcii cruenti  e il rispetto per gli animali, naturale e logica conseguenza  del concetto pitagorico della vita, il divieto del suicidio e infine la bella concezione dell' amicizia, vera  comunanza di spiriti e di vita, che diede fra gli altri  il mirabile e notissimo esempio di Damone e Finzia;  oltre ai quali il nostro scrittore ricorda altri pitagorici.     (1) De nat. deorum, III, 36, 88. La cosa per altro non par cre-  dibile a Cicerone, perchè Pitagora si sa che non volle sacrificare  una vittima neppure ad Apollo delio, per non bagnare di sangue  un altare. E non ha torto.   (2) De re publica II, 15, 28; ad Atticum IX, 19, 3.   (3) De consul. 3. Cfr. Giamblico, Vita Pythag . 122.   (4) De senectute 7, 23.   (5) De finibus V, 2, 4.   (6) De nat. deor., I, 5, 10. Per la critica ed il valore di questo  principio autoritario si veda nell'Appendice « Il sodalizio pitago-  rico di Crotone » .   (7) Tuscul., I, 10, 20 ; Acad. pr. II, 37, 118 e Somnium Sei-  pionis, 12 e 18.   (8) De nat. deor., Ili, 11, 28 ; Tuscul., Y, 39, 113.  (,9) ibid.. Ili, 36, 88: de re pubi., Ili, 11, 19.   (10) De senect., 20, 73 ; prò Scauro, 4, 5.   (11) De officiis, I, 17, 56; de legibus, I, 12, 34; Tuscul., Y, 23, 66.  a2) Tuscul. Y, 22, 63; de officiis, III, 10, 45; de finibus, II,   24-79; Cfr. Porfirio, V. P. 59.]   e cioè Filolao di Crotone e il suo discepolo Archita di Taranto, Echecrate di Locri, Timeo ed Acrione contemporanei di Platone.   Di quest'ultimo poi egli dice esplicitamente che, dopo  la morte di Socrate, prima si reca in Egitto e poi in Italia  e in Sicilia per conoscere da vicino le verità scoperte da  Pitagora, e che stette molto con Archita e Timeo e potè  procurarsi i commentarli di Filolao (che esponeno per  iscritto per la prima volta le dottrine del maestro, fino  allora trasmesse solo oralmente e sotto il vincolo della  segretezza) ; e poiché allora appunto era più che mai celebre nella Magna Grecia il nome di Pitagora, pratica  con Pitagorici e si dedicò ai loro studi. Tanto che, prediligendo egli Socrate sopra ogni altro e volendo rappresentarlo adorno di ogni virtù e sapienza, fuse insieme la  piacevolezza e la sottigliezza socratica con 1' oscurità del  simbolismo pitagorico e nei suoi dialoghi fece parlare il  maestro in modo che, anche quando discuteva di morale  e di politica, si studia di mescolarvi i numeri, la geometria  e r armonia, alla guisa di Pitagora. Dal quale poi     (1) De finibus, V, 29, 87.   (2) De re pubi., I, 10, 16 : < In Platonis libris multis locis  ita loquitur Socrates, ut etiam cum de moribus, de virtutibus  denique de republica disputet, numeros tamen et geometriam et  harmoniam studeat Pythagorae more eoniungere. Tum Scipio :  Sunt ista, ut dtcis, sed audisse te credo, Tubero^ Platonem, So-  crate mortuo, primum in Aegyptum discendi causa, post in Ita-  liam et in Siciliani contendisse, ut Pythagorae inventa perdisceret,  eumque et cwrn Arehyta Tarentino et cum Timaeo Locro multum,  fuisse et Philolai commentarios esse nanctum, quunique eo tem-  pore in his locis Pythagorae nomen vigerci, illum se et hominibus  Pythagoreis et studiis illis dedisse. Itaque cum Socratem uniee  dilexisset eique omnia tribuere voluisset , leporem Socraticum  tolse di peso la dottrina ferecidea sull'eternità dell'anima,  aggiungendovi però di suo una spiegazione razionale. Un complesso dunque di notizie, o meglio di accenni,  superficiali e sconnessi, che rappresentano press'a poco  il grado di conoscenza che del Pitagorismo hanno gli  uomini colti dell'età di Cicerone. Ma vi è un' opera di questo secondo scrittore,  anzi un frammento della sua opera "più importante, sul  quale dobbiamo fermare un poco più particolarmente la  nostra attenzione, per la molteplicità degli elementi pitagorici che contiene: voglio dire il Sogno di Scipione  così famoso e di tanta importanza per la storia della mistica, sia considerato in se stesso sia per i commenti che  ha; poiché intorno ad esso si affaticarono molti ingegni,  da Macrobio e da Eulogio, che ne fecero amplissima analisi, all'inglese Wynn Westcott, che     su Milìtatemque sermonis cum obscuritate Pythagorae et cum illa  flurimarum artium gravitate contexuit » .   (1) TuscuL, I, 17, 39 : « Platonem ferunt, ut Pythagoreos cogno-  sceret, in Italiam venisse et didleisse Pythagorea omnia primumque  de animorum aeternitate non solum sensisse idem quod Pytha-  goram sed rationem etiam attutisse » . Cfr. De amicitia, IV, 13 :  « Neque enim adsentior iis, qui nuper haec disserere coeperunt,  cum corporibus simul animos interire atque omnia m>orte deieri.  Plus apud me antiquorum auctoritas valet, vel nostrorum m>ajo-  Tum.... vel eoriim, qui in hac terra fuerunt magnamque Orae-  ciam, quae nunc quidem deleta est, tum florebat, institutis et  praeceptis suis erudierunt, vel eius, qui Apollinis oraeulo sapien-  tissimus est iudieatus, qui non tum hoc, tum illud, ut in plerisque,  sed idem semper, animos hominuvi esse divinos, iisque, cum ex  corpore excessissent, reditum in eoelum patere optimoque et iu~  stissimo cuique expeditissimum. Quod idem Scipioni videbatur »   (2) AuRELii Maceobii Ambrosii Theodosii V. ci. et inlustris Gom-  Quentarius ex Cicerone in Somnium Scipionis libri duo. - - Favonii  EuLoan oratoris almae Karthaginis Disputatio de somnio Scipionis, scripta Superio y. e. cos. Provinciae Bizacenae. non molti anni addietro ne pubblicò una traduzione dicendolo senz' altro, (non so però con quale fondamento  che non sia una semplice presunzione ipotetica) un fram-  mento dei Misteri (1).   Mi preme tuttavia di mettere subito in chiaro che,  affermando pitagorico il contenuto di questo sogno, non  voglio con ciò asserire né che Cicerone e un seguace  di quella filosofia, né che desumesse direttamente le idee  informative del sogno stesso da scritti pitagorici : poiché  so bene che studi fatti recentemente da valentissimi critici come Gylden, Corssen, Pascal, hanno  messo in chiaro che fonti ciceroniane per la materia di  esso furono o poterono essere Platone, Posidonio ed Eratostene. Ma sta di fatto che noi troviamo raccolti in esso  tutti quasi i concetti suesposti, che Cicerone stesso attribuiva a Pitagora e ai suoi seguaci ; il che dimostra  ancora una volta, se pur ve ne fosse bisogno, che i filo-  sofi posteriori fecero proprie e tramandarono l'uno all'altro  molte delle idee e degli insegnamenti della scuola croto-  niate. L' idea poi di valersi d' un sogno per fare un'esposizione di principi filosofici già era venuta, agli albori  della filosofia romana, a un grande scrittore e poeta,  pitagorico per giunta: voglio dire ENNIO.     (1) Somnium Seipionis. The vision of Scipio considered as a  fragment of the Mysteries, London, 1899.   (2) Vestigia Platonis in Gieeronis Somnio Scipioìiis, 1848.   (3) De Posidonio Rhodio M. T. Gieeronis in l. I Tuscul. disp.  et in Somnio Seipionis auctore. Bonnae, 1878.   (4) Di una fonte greca del « Somnium Seipionis » di Cicerone,  nei rendiconti della R. Accademia di Archeologia, Lettere e belle  Arti di Napoli, 1902. Ripubblicato in « Oraecia Capta », Firenze,  Le Monnier. Sicché possiamo ben dire pitagorica l' ispirazione di  questo bellissimo frammento ciceroniano: tanto più che  abbiamo sentito or ora, per bocca dello stesso Cicerone,  che opinione Pitagora e i suoi avessero intorno al sonno  e alle forze conoscitive dello spirito nel riposo e nella  quiete del corpo.   Questo sogno, poi, secondo le osservazioni di Macrobio,  partecipa contemporaneamente di tutte e tre le forme  principali o profetiche dei fenomeni del sonno, oracolo,  visione e sogno: oracolo (oraculum =^ xpr^pta-ctafió?), in  quanto apparvero a Scipione addormentato il padre Lucio  Emilio Paolo e il padre adottivo Scipione Africano Maggiore, uomini venerandi, che avevano anche coperto cariche sacerdotali, e gli predissero quello che egli avrebbe  fatto come generale e come magistrato e la sua morte; visione (visio = Spajjta), in quanto durante il  sonno parve all' Emiliano di essere trasportato in cielo e  più precisamente nella via lattea, dove avrebbe poi  dovuto tornare dopo morto a godervi la felicità concessa  dal divino ai buoni reggitori degli Stati — e di lassù contemplare r universo e i pianeti e la terra stessa divisa  nelle sue cinque zone ; sogno propriamente detto {som-  nium 3= ovetpo?), perchè la profonda verità delle cose a  lui dette dalla grande anima di Scipione non puo essere  svelata e chiarita senza il lume dell' ermeneutica.  Tanto è vero che il commento interpretativo di Macrobio  è di gran lunga più esteso che tutti i sei libri della Repubblica, e non meno lunga è la dissertazione di Eulogio,  che verte specialmente intorno alle qualità mistiche dei  numeri e alla musica delle stelle.  (1) Macbobio, 1. I, e. 3.  Volendo dunque Cicerone esaltare i grandi uomini  che -si resero benemeriti della patria e mostrare quale  premio, dopo la morte, fosse dato alle loro virtù, quello  cioè di ritornare alla loro patria celeste, immaginò che  uno degli interlocutori dei dialoghi intorno alla Repubblica, Publio Cornelio Scipione Emiliano, narra agli  altri interlocutori un sogno da lui fatto quando, essendo  tribuno in Africa, e ospite del re Massinissa, grande  amico di Scipione il Maggiore.   Uscita dal corpo durante il sonno, l’anima dell' Emiliano si trova trasportata, a un tratto, nella via lattea,  dove, giusta le credenze dei Pitagorici, avevano loro sede  le anime degl’eroi, tanto prima di scendere in terra a  vestirsi d' umana carne, come dopo aver fatto il loro pellegrinaggio quaggiù.   Ascoltata dall'Africano la predizione delle sue imprese  e della sua morte, che sarebbe avvenuta quando la sua     (1) Somnium 5, 13 : « Omnibus qui patriani conservaverint,  adiuverinty auxerint, certuni esse in caelo defìnitum locum, ubi   beati aevo sempiterno fruantur Harum rectores et conservatores   hinc profeeti huc revertuntur ». Al qual proposito osserva il Cors-  SEN (op. cit. p. 46) che l' idea è forse presa dai Pitagorici. Infatti  a proposito dei versi 12-13 del 1. XXIV della Odissea, in cui è  detto che le anime dei Proci guidate da Hermes « andavano alle  porte del Sole e al popolo dei Sogni e poi giunsero nel prato degli  asfodeli, dove abitano le anime, ombre dei trapassati » scrisse Porfirio (àe antro ISiympharum, e. 28) che il popolo dei sogni non  sono altro che, secondo Pitagora, le anime che dicono raccogliersi  nel cerchio della via lattea. Poiché il prato degli asfodeli i Pitago-  rici appunto lo immaginarono in quel cerchio. Anche Plutarco (de  faeie in orbe lun., p. 943 G.) scrisse che le anime dei buoni si  indugiavano per un certo tempo nella parte più tranquilla del cielo  che chiamavano prati dell' Ade.  età avesse percorso « uno spazio di otto volte sette giri  e rivoluzioni del sole e questi due numeri (ognuno dei  quali, per ragioni proprie a ciascuno di essi, era ritenuto  perfetto) avessero compiuto col naturale succedersi degli  anni la somma a lui predestinata », e saputo — quasi  a conforto del suo triste destino — che egli pure sarebbe  salito lassù, dove si trovava anche suo padre Paolo,  « dunque, chiede, siete vivi tu e mio padre e gli altri  che crediamo estinti ?» « E come ! gli risponde Scipione,  anzi noi che siamo volati quassù liberandoci dai legami  corporei come da un carcere siamo veramente vivi; la  vostra, che si chiama vita, è morte ». E riveduta, con  intensa commozione, 1'anima del padre, chiede ad essa:  « Perchè dunque, se questa è la vera vita, debbo indugiarmi e vivere ancora sulla terra ? » « Perchè, gli  viene risposto, se quel Dio a cui appartiene tutto l'uni-  verso non ti ha prima liberato dal carcere corporeo, non  ti può essere aperto l'adito a queste sedi beate. Gli uomini  sono stati creati per dimorare sulla terra, che occupa  il centro del creato, ed è stato dato ad essi l'animo,  originario di quei fuochi eterni che chiamate costellazioni  e stelle e che, di forma sferica e circolare, animati da  menti divine, fanno i loro giri e descrivono le orbite loro  con prestezza mirabile. Perciò tu e tutti gl’uomini pii  dovete trattenere l'animo vostro nei legami corporei e  non disertare, contro la volontà di chi ve l'ha data,  dalla vita d' uomini, perchè non sembri che voi vogliate     [Somnium 4, 12. Della pienezza o perfezione dei due nume-  ri 8 e 7 parla a lungo Macrobio nei capitoli Y e VI, adducendone  partitamente le ragioni ; e ciò, naturalmente, secondo le teorie e  le speculazioni pitagoriche. Altrettanto dicasi di Eulogio.\   sottrarvi al compito umano assegnatovi da Dio  » . Perciò  il padre lo esorta ad essere giusto ed a coltivare la pietà,  perchè così vivendo si aprirà la via per ritornare al cielo  fra quel santo stuolo di anime che, già vive ed ora separate dalla materia corporea, abitano la via lattea.  Dalla quale poi l' Emiliano contempla estatico lo spettacolo  dell' universo stellato e il roteare dei nove cerchi o meglio  globi, di cui il pili esterno, che abbraccia gli altri, è  quello delle stelle fisse, o firmamento, lo stesso divino supremo che tiene uniti e racchiude in sé tutti gli altri,  cioè i cieli di Saturno, di Giove, di Marte, del Sole, di  Venere, di Mercurio, della Luna, nel mezzo dei quali sta,  immobile, la Terra. E mentre osserva i cieli roteanti,  ecco lo colpisce un' armonia solenne e dolce, quella cioè  che è prodotta dal movimento delle sfere e dal loro percuotere neir aria, onde si producono suoni acuti e gravi,  che insieme formano i sette accordi della lira: proprio  secondo la dottrina pitagorica. L' ammirazione per la grandezza e  la novità delle cose che vede e ode non fa però che  Scipione distolga gli occhi dalla terra, sì che l'Africano     [Somnium, 7, 15. Cfr. il luogo già ricordato del De seneetute  (20, 73) dove è detto esplicitamente che questo concetto è di Pi-  tagora : « vetat Pythagoras iniussu imperatoris, id est dei, de  praesidio et statione vitae decedere ».   (2) Somnium, 8, 16.   (3) Tutta questa concezione della terra immobile nel centro di  un ambiente sferico, intorno al quale s'aggirano col firmamento i  sette cieli planetarii, è prettamente pitagorica ; e tale fu pure, se-  condo il Martini, la scoperta della direzione del corso dei pianeti  e della eclittica. Vedasi il Gìjnther, Oeschichte der antiken Natur-  wissenschaft in Miiller's Handbuch V, 1.   (4) Somnium 10, 18-19. Cfr. Quintiliano, Insite, oratoria, I, 10, 12.]  gliene mostra parte a parte i circoli, le zone, le acque  e conclude che essa è campo ben ristretto per la gloria  degli uomini : onde la vanità della gloria stessa, la quale  non può neppur durare lo spazio di uno solo dei grandi  anni mondani. « Se tu dunque, conchiude la grande  anima, vorrai mirare in alto e tenere volto lo sguardo a  questa dimora eterna, non curarti dei discorsi del volgo  né porre la speranza delle tue azioni nei premi degli  uomini: bisogna che la virtù per sé stessa con le sue  blandizie ti tragga alla vera gloria » Esaltato dallo  spettacolo delle cose viste e dalle promesse, dalle predizioni, dai consigli uditi, Emiliano promette di adoperarsi con tutta r anima per il bene della patria e 1'avo  lo conferma nel suo proposito dichiarandogli l’immortalità dell' anima. « Ricordati che non tu, ma il tuo corpo  è mortale ; e che tu non sei quello che codesta forma  corporea fa apparire. Ciascuno é ciò che é l'anima sua,  non quella parvenza che può mostrarsi a dito. Sappi che  tu sei divino; se divina è quella forza che anima, che sente,  che ricorda, che prevede, che regge e modera e muove  questo corpo, a cui è preposta, così come il sommo divino  regge, modera, muove il mondo ; e come lo stesso divino  eterno muove il mondo per qualche rispetto mortale, così  il fragile corpo è mosso dall' animo sempiterno »    Della durata di circa 12000 anni' comuni, secondo le dottrine  dei Genetliaci, dei quali ho accennato nel capitolo terzo.   (2) Somnium, 17, 25.   (3) Somnium, 18, 26 : «^ Tu vero enìtere et sic haheto, non esse  te mortalem sed corpus hoc; nee enini tu is es, quem forma ista  declarat : sed mens cuiusque is est quisque, non ea figura, quae  digito demonstrari potest. Deum te igitur scito esse, siquidem est  deus, qui viget, qui sentit, qui meminit, qui providet, qui tam  « Tu esercita questo nelle più nobili cure: e nobilissime  sono le cure spese per il bene della patria (1); onde  l'animo che in esse si adopera e si esercita volerà piti  velocemente in questa sede e dimora sua. Anzi tanto più  presto vi verrà se, fin da quanto è chiuso nel corpo saprà  uscirne e, contemplando quel che è fuori di esso, staccarsene il più possibile. Perchè gli animi di quelli che  si abbandonano ai piaceri del corpo e si rendouo quasi  schiavi di essi e, sotto l'impulso dei desideri obbedienti  ai piaceri, violano i diritti divini e umani, usciti dal corpo  vanno svolazzando intorno alla terra e non ritornano a  questo luogo se non dopo aver trascorso in perenne agitazione molti secoli » (2). E con 1' enunciazione di questi  concetti pitagorico-platonici il magnifico sogno finisce.     regit et tnoderatur et movet id corpus, cui praepositus est quam  kune mundum ille princeps deus ; et ut mundum ex quadam  parte mortaleni ipse deus aeternus, sic fragile corpus animus  senipiternus movet ».   [Anche questo, è bene ricordarlo, era un concetto pitagorico;  tanto è vero che Pitagora, serbava come insegnamento ultimo ai  suoi discepoli quello relativo all' esercizio dei pubblici poteri. V.  S. Agostino, de ordine II, 24, 54.   (2) Somnium, 21, 29 : « Hanc tu exerce optimis in rebus : sunt  autem optimae curae de salute patriae, quibus agitatus et exer-  citatus animus velocius in hanc sedem et domum suam pervolabit.  Idque ocius faeiet, si jam tum, cum erit inclusus in corpore,  eminebit foras et ea, quae extra erunt, contemplans quam maxime  se a corpore abstrahet. Namque eorum animi, qui se corporis  voluptatibus dediderunt earumque se quasi ministros praebuerunt  impulsuque libidinum voluptatibus oboedientium deorum et homi-  num iura vìolaverunt, eorporibus elapsi circum terram ipsam  volutantur nec hunc in locum nisi multis exagitati saeculis rever-  tuntur ».  Nel tempo del quale ci stiamo occupando non  è a credere che la conoscenza del Pitagorismo avesse i  suoi riflessi soltanto negli scritti di prosa e di poesia del  genere di quelli che abbiamo già visti, destinati a un  pubblico eletto e relativamente limitato ; che anzi l' insegnamento fondamentale della dottrina di Pitagora, cioè  la metempsicosi, e il precetto dietetico dell'astinenza dalle  fave erano così entrati, come oggi si direbbe, nel dominio pubblico, da essere oggetto di satira e di riso nel  teatro popolare. Fra quelle specie di farse infatti che sono i mimi è ricordata una Nekyomanthia (Evocazione  di morti) di Decimo Laberio, che fu contemporaneo di  Cicerone e del quale Tertulliano ricorda  una satirica interpretazione della metempsicosi : « Insomma, se qualche filosofo affermasse, come dice Laberio  secondo 1' opinione di Pitagora, che 1' uomo si fa dal mulo  e la serpe dalla donna, e in tavore di questa opinione  volgesse, con parola efficace, tutti gli argomenti possibili,  non incontrerebbe 1' approvazione di tutti e non indurrebbe forse anche a credere che ci si debba perciò astenere dalle carni animali? Chi potrebbe esser sicuro di  non comperare eventualmente del manzo di qualche suo  antenato ? » Laberio dunque avrà tirato scherzosamente in ballo in qualche farsa, della quale nulla peraltro  sappiamo, la teoria di Pitagora ; e non è neppur difficile  pensare che gliene abbia data occasione una situazione  comica in cui fossero in contrasto 1' ostinata cocciutaggine d' un uomo e la velenosa malizia d' una donna. Il  commento e le deduzioni ironiche circa l'astensione dalle  carni che aggiunge Tertulliano ricordano quella che è  forse la prima testimonianza, in ordine di tempo, che ci  rimanga intorno alla metempsicosi pitagorica; voglio dire  i noti versi di un'elegia di Senofane, contemporaneo di  Pitagora:   E dicon eh' egli un giorno, vedendo un cagnuol maltrattato,   Ebbe di lui pietà, poscia in tal guisa parlò :  € Cessa, ne bastonarlo, poiché vive in lui d' un amico   r anima, che ravvisai, quando 1' ho udita guair » Tertulliano, Apologia, 48: « Age jam, si qui philosophus  adfirmet, ut ait Laherius de sententia Pythagorae, hominem fieri  ex m,ulOy colubram, ex muliere, et in eam, opinionem, omnia argu-  m,enta eloquii virtute distorserit, nonne consensum movebit et fìdem,  infiget etiam ah animalibus abstinendi propterea ? persuasum, quis  habeat, ne forte bubulam de aliquo proavo suo obsonet ? »   (2) I versi ci furono conservati da Diogene Laeezio (Vili, 36)  Anche in questi versi infatti, come nel commento di  Tertulliano, attribuendosi a Pitagora la metempsicosi anche animale (per una falsa estensione però, come ho già  detto), se ne mette scherzosamente in mostra il lato ridicolo.   Di un altro mimo dello stesso autore, intitolato Cancer,  è rimasto uno spunto di verso, in c«i si accenna a un  « dogma pitagorico », che molto probabilmente possiamo  ritenere che fosse la stessa metempsicosi. Finalmente  Cicerone e Seneca ci hanno conservato il ricordo di un  terzo mimo, di autore sconosciuto, intitolato Faba,  del quale sarà forse stato argomento la satira dello stesso  dogma di Pitagora e dei precetti riguardanti il vitto e  1' astensione dalle fave. Né è davvero il caso di me-     e prendendoli da lui, li ha citati anche Suida (sotto la voce Xeno-  phanes). Si veda a proposito di essi e delle altre antiche testimo-  nianze pitagoriche che risalgono ad Eraclito, Empedocle, Ione, ecc.  ciò che ha scritto lo Zeller nei Siizungsber. d. preuss. Akad.  1889, n. 45, pag. 985. Si è recentemente messo in dubbio che  questi versi si riferiscano a Pitagora ; ma tali dubbi sembrano al  GoMPERz (Penseurs de la Orèce, p. 135 nota) infondati. Ed ha per-  fettamente ragione.   (1) Prisoiano. vi, 2, pag. 679 P. e Anon. Bern. negli Anal.  Helvet. dell' Hagen, pag. 98, 33 e 109, 3 : « nec pythagoream  dogmam docius ».   (2) Cicerone, ad AH. XVI, 13 : « videsne consulatum illum no-  strum, quem Curio antea apotheosin vocabat, si hic factus erit,  fabam mimum futurum ? » e Seneca Apocoloc. 9 : o olim magna  res erat deum fieri, iam fabam mimum fecistis ». Debbo tuttavia  notare che da qualcuno si è proposto di leggere 8-aù[jia in luogo  del primo fabam, e famam in luogo del secondo. V. in proposito  la Eiv. di filol. class, del gennaio 1913, pag. 75-76.   (3) D. Capocasale in un suo breve lavoro {Il mimo romano,  Monteleone, 1903, pag. 49) pensa che « forse vi si dovea mettere ] ravigliarsene, solo che si consideri con che argomenti  piccini e con che sciocche ragioni si cercava di persuadere della necessità di tale astensione. Del resto anche ORAZOP si prende  amabilmente gioco di questi due stessi punti della dottrina pitagorica. Che se in una delle sue satire rievocava  con vivo senso di nostalgia le parche cenette di campagna fatte di fave e di erbaggi conditi col lardo, è evidente che egli — da buon epicureo — si infischiava del  precetto del filosofo; non solo, ma lo prendeva anche un  po' in giro, facendo addirittura la fava « consaguinea di  Pitagora ».   E la prima parte della famosa ode d' Archita non pare,  per dirla col Pascoli, « un attacco ai sistemi filosofici     in azione la parentela che esiste — secondo Pitagora — tra la fava  e l’uomo, ed il passaggio dell' anima in una fava ». Ora queste,  più che opinioni del severo filosofo, sono certo stramberie di  begli spiriti, che gliele attribuirono per burlarsi meglio di lui e  delle suo idee, come fa ORAZIO, per esempio. Si veda, per esempio, il. capitolo 43 della vita di Poefirionk.   (2) Orazio. Sat. II, 6, 63-64:   quando faba Pythagorae cognata siwiulque  XJneta satis 'pingui ponentur oluscula lardo ?   Un' altra scherzosa allusione vogliono vedere i più degli inter-  preti d' Orazio nel v. 21 della XII Epist. del libro I {veruni seu  pisces seu porrun et caepe trucidas)^ dove riferendosi il verbo trucidare non solo ai pesci, ma anche ai porri e alle cipolle {quasi  che anche in queste, come nella fava, si trovassero anime dei  morti) verrebbe a prendersi un po' in giro 1' amico Iccio — che  s' occupa di filosofia — e con lui la dottrina pitagorica della  metempsicosi, alla quale verrebbe data una ben larga estensione.  Qualcuno peraltro (per es. Ritter) nega ogni allusione.   che ammettono la sopravvivenza dello spirito, sistemi  quasi personificati in Archytas, per opera del quale il  Pythagorismo entrò nelle dottrine di Platone ? » Dice  infatti il poeta : « Te, o Archita, che misuravi il mare e  la terra e l' innumerabile arena, tiene ora fermo presso  il lido di Matinata lo scarso dono di poca sabbia, e nulla  ti giova aver esplorato 1' aria, dove altri che l'uomo abita,  e aver corso per la volta del cielo con Tanimo destinato  a morire. È morto anche il padre di Pelope, che pur  banchettava con gli dei, e Titone, che fu tolto alla terra  e sollevato neir aria, e Minosse, che fu ammesso agli ar-  cani di Giove, e il regno dei morti tiene anche il figlio  di Panto (Euforbo), che scese alF Orco un' altra volta  (dopo la sua nuova incarnazione in Pitagora), sebbene,  con lo scudo che fece staccare (dalla parete del tempio  di Giunone argiva in Micene) data testimonianza del  tempo della guerra trojana, non avesse concesso alla nera  morte (così affermava lui) niente più che i nervi e la  pelle (2); e tu (che eri un grande pitagoreo), splendido  mallevadore della verace scienza del tutto lo sai bene.-  Ma tutti ne attende un' uguale notte senza fine e tutti  dobbiamo calcare una volta sola (e non più, come tu credi)  la via che conduce sotterra. Le furie offrono alcuno gra-     [Pascoli, Lyra romana, Livorno, Giusti. Per  altri modi d' intendere quest' ode, che è la 28* del lib. I, si veda  il commento dell' Ussani, Le liriche di Orazio, Torino, Loescher,  1900, voi. I, pag. 119-L22, e in particolare 1' opuscolo dello stesso  autore Uode d' Archita. Roma, 1893.   (2) habentque   Tartara Panthoiden iterum Orco  Demissurn, quamvis clipeo Trojana refixo   Tempora testatus nihil ultra  Nervos atque cutem morti concesserat atrae.   dita vista al bieco Marte ; il mare insaziabile è ministro  di morte ai naviganti ; si susseguono senza posa i funerali sì dei vecchi che dei giovani, l'implacabile Proserpina  non ebbe mai rispetto ad alcun capo ».   E. evidente che qui Orazio, affermando recisamente che  tutti, senza distinzione, subiremo un egual destino mor-  tale, e contrapponendo in particolare la sua affermazione  al ricordo « di Pitagora redivivo » , come lo chiama altra  volta (1), fa doli' ironia bella e buona alle spese del « fi-  gliuolo di Panto ».   E VIRGILIO -- in qual  conto tenne le dottrine pitagoriche? Esercitarono esse  qualche influsso sul suo pensiero e lasciarono traccio visibili neir opera sua, dal momento che sappiamo — per  quello che ce ne dice egli stesso e per quello che ci  hanno tramandato i suoi biografi e commentatori — che  egli ebbe grande inclinazione agli studi filosofici e che  desiderio di tutta la sua vita fu quello di potervisi dedicare di proposito?   Nel tempo in cui Figulo e i Sestii tentarono di far  rivivere in Roma la filosofia pitagorica, è possibile pensare che uno spirito come quello di VIRGILIO, colto, curioso e naturalmente portato alle speculazioni filosofiche,  non ne abbia avuto conoscenza? Per me non solo non  v' è argomento di dubbio, ma credo di poter dire anche     [In uno degli Epodi (XV, 21) Orazio accenna ancora alle  varie vite di Pitagora nel verso « nee te Pythagorae fallant  arcana renati », dove è da notare anclie 1' allusione al carat-  tere segreto e misterioso della dottrina (arcana) Nelle Satire no-  mina una volta (II, 4, 3) Pitagora con Socrate e con Platone e  nelle Epistole ricorda il sogno pitagorico di Ennio (II, 1, 52).   a; ì^i1^ Dicerone, come ho già mo strato nelle precedenti  credette di ravvisare nelle pratiche e nei prin-  [Pitagorismo Torigine di molte delle più antiche  L romane, e con Cicerone lo avranno creduto na-  ;e anche altri. Orbene Virgilio, che con 1' opera  giore mirò a rappresentare in un meraviglioso  r insieme le origini e lo svolgersi della potenza e che perciò fece lunghi studi intorno alle  ) e alle antichità romane, dovette proprio in modo  re rivolgere la sua attenzione alla filosofia pita-  a quale per di più aveva già ispirato anche il  Ennio^ la cui opera degli Annali fu uno dei mo-  i quali fu condotta 1' Eneide. Questo mi par che  i affermare con certezza, anche indipendentemente  3same analitico dell' opera poetica di Virgilio ; che  procediamo a questo esame — ancorché molto  rio — non solo sarà confermata a posteriori la  induzione, ma dovremo senz'altro assentire al giu-  )he di lui fece il Fontano, quanda lo disse esplici-  te « poeta augurale e profondo conoscitore della  la di Pitagora » (2).   ne tutti sanno, agli studi filosofici Virgilio attese alla prima giovinezza e fu avviato in essi da un   ;ro epicureo, dal gran Sirene, com'egli lo chiama.   r amore dei « docta dieta » di lui egli avrebbe     [Servio, ad Aen. VI, 752: « Qui bene consideret inveniet  omnem romanam historiarti ab Aeneae adventu usque ad sua  tempora summatim celebrasse Virgilium, quod ideo latet quia  eonfusus est ordo, etc. ».   (2) « Poeta auguralis pythagoricaeque doctrinae peritissimus » ,  come è detto in una nota al Commento di Macrobìo al Somnium  Seipionis, nella edizione di Lione del 1670, pag. 66.   9.  anche rinunziato in gran parte alle « dolci Muse ^ !  Yano proposito ! che queste tennero sotto la loro amabile  tirannia 1' animo suo, e Virgilio fu poeta prima che filosofo. Filosofia e in Virgilio solo in potenza : i germi latenti  nel suo pensiero — che pur si delinea abbastanza chiaramente a chi ne mediti l' opera poetica — sarebbero  certo cresciuti in fioritura d' arte, se fosse vissuto più a  lungo, sì che, condotta a perfezione 1' “Eneide”, egli ha  potuto finalmente appagare il desiderio — lungamente  maturato e più volte espresso — di poter attendere alla  FILOSOFIA : così noi avremmo forse, accanto al poerna  di Lucrezio, alta e mirabile esposizione del materialismo  epicureo, un poema virgiliano informato ai principi dell' idealismo pitagorico-stoico.   L' avviamento epicureo eh' egli ebbe da Sirone, e l'animirazione che sentì per la grande arte di Lucrezio la-  sciarono bensì qualche traccia, e non soltanto formale,  neir opera sua giovanile, nei poemetti bucolici e nelle  Georgiche ; ma in queste stesse poesie già si manifesta  abbastanza chiaramente un indirizzo filosofico affatto op-  posto. Sulla concezione epicurea, ma con molta libertà e  larghezza di movenze, è foggiata quella specie di teoria  sull'origine del mondo che Sileno espone nella sesta ecloga ; ma dobbiamo ben guardarci dal darle  un' importanza maggiore di quella che essa ha realmente,  col trasferirla da Sileno a Virgilio e col dedurne perciò  che questi fosse epicureo ; poiché nel campo dell' arte e  della poesia sono possibili ben altre finzioni, e 1' artista  fa parlare i personaggi che sono figli della sua fantasia  secondo criteri e leggi lor proprie. Non solo, ma alla  stessa stregua allora altri potrebbe ritenere specchio delle  idee e concezioni virgiliane la quarta ecloga, che fu scritta  poco prima della sesta ; anzi lo potrebbe a maggior ra-  gione, anzitutto perchè in essa il poeta canta in persona  propria, in secondo luogo perchè il concetto che l' informa  tornerà insistente e sempre più preciso negli scritti posteriori. Ma in verità il pensiero di Virgilio non doveva  in quegli anni essere ancora definitivamente orientato e  formato.  La quarta ecloga fu composta quando il poeta  aveva ventinove anni, e precisamente alla fine del 41 a.  C, allorché stava per entrare in carica Asinio Pollione,  console designato per 1' anno successivo. Sulla inter-  pretazione di questo carene, così stranamente suggestivo,  s' è tanto discusso, che non si sente davvero il bisogno  d' una nuova discussione. Basti quindi accennare che dai  commentatori cristiani si credette di poter vedere in quest' ecloga, scritta in tempi così vicini all' apparizione del  Cristo, qualche accenno alla imminente venuta del Messia;  anzi il fanciullo di cui si celebra la nascita fu addirittura  identificato col Nazareno, e non con Ottaviano, come Virgilio affirma. Non e' è da meravigliarsene,  che r intuizione artistica — nei grandi — giunge tal-  volta a tali profondità e 1' espressione poetica acquista  tal forza di significazione e un tale carattere "di univer-  salità, che essa par quasi attingere inesauribilmente, dalle    [Generalraente si ritiene composta al principio del 40, anziché  alla fine del 41; ma essendo la pace di Brindisi stata conchiusa  sul finire del 41, ed essendo avvenuta pure in quello scorcio di  anno la nascita del figlio di Pollione, Asinio Gallo (che, secondo  Servio, nacque appunto Pollione eonsule designato), mi pare che  non possa esservi ragione di incertezza ; tanto più che in tal modo  meglio s' intende il futuro inibii che accompagna il te eonsule del  y. 11.    disposizioni dell'animo e dagli atteggiamenti del pensiero  di chi legge, aspetti e valori sempre nuovi. Ma che poi  proprio Virgilio ha consapevolmente ‘profettizato’ ex post fato la nacita d’Ottaviano per conoscenza che avesse delle predi-  zioni messianiche, questa è un' altra quistione, risoluta  dai critici in senso non del tutto negative. Certo è che, in occasione della nascita d' un fanciullo  — che si ritiene generalmente e, se non Ottaviano, Asinio Gallo, figlio  di Pollione, a cui è dedicata l' ecloga — Virgilio afferma  ormai venuta 1' ultima età (quella di Apollo) predetta dall' oracolo in versi della Sibilla di Cuma, e sul punto di  iniziarsi da capo, incominciando dall' anno del CONSOLATO  di Pollione, una nuova serie di generazioni  umane, un nuovo anno mondano, col quale sarebbe tornata sulla terra la vergine Astrea (la giustizia) e sarebbero tornati i beati tempi del regno di Saturno (ossia  l’età dell' oro) e « dall' alto cielo sarebbe fatta scendere     (1) Mancini p. es., nel suo commento alle Bucoliche (Sandron) scrive: (p. 48/ : « Non si può appunto escludere assolu-  « tamente (sebbene io non lo creda necessario) che Virgilio avesse  « in qualche modo conoscenza delle profezie messianiche certo  « pervenuta a Roma, e che ne traesse qualcosa per tratteggiare  « il suo puer, che di questa conoscenza sentisse insomma gli ef-  « fotti l'economia del carme ». Per la rinomanza che Virgilio si  acquistò con questa ecloga dedocata a Asinio Gallo, per ha quale fu sollevato  alla dignità dei profeti, si veda  il CoMPAEETTi, Virgilio nel Medio Evo (Firenze.) e gli scritti ivi citati. L' interpretazione  di questa  eclog a Asinio Gallo era già molto in voga presso i filosofi. Si vedano anche i lavori di C. Pascal, “Il culto d’Apollo in Roma  nel secolo d’Ottaviano e La questione dellEcloga IV di Virgilio  (Torino), ristampati nel volume Commentationes vergilianae  (Palermo, R. Sandron,).   una nuova progenie d' uomini » (v. 7 : jaw, nova pro-  genies caelo demittitur alto). Sì che il fanciullo, Asinio Gallo, figlio del console Pollione, allora  nascente, avrebbe visto scomparire del tutto la « gens  ferrea » e crescere insieme con lui la « gens aurea »  e « ricevendo la vita degli dei » avrebbe veduto sulla  terra dei ed eroi e anch' egli si sarebbe mescolato con  loro: nella giovinezza avrebbe veduto ancora — residui  delle colpe delle età trascorse (e in pari tempo condizione  necessaria al ripetersi delle vicende umane) — nuove  spedizioni marittime, come quella d' Argo, e nuove guerre,  come la trojana, finche poi nella maturità avrebbe goduto  a pieno la felice pace della nuova età, della quale già  si allietavano e cielo e terra e mare.   Come si vede da questo accenno, siamo lontani le  mille miglia da Epicuro ! E che cos' è poi questa concezione d' una palingenesi che Virgilio tratta con sì profondo entusiasmo poetico? Pura finzione del suo spirito?  No, senza dubbio. Una predizione dei carmi sibillini prometteva certo con l’ età d' Apollo — 1' ultimo dei grandi  periodi della vita universale — il rinnovamento del mondo  e il ritorno dell'età dell'oro; non solo, ma teorie filosofiche allora correnti e che ho già avuto occasione di ricordare, ammettevano anch' esse il rinnovarsi periodico  dell' universo e il ripetersi perfettamente identico dei medesimi eventi e il ritorno alla vita degli stessi corpi e  delle stesse anime (teoria pitagorico-stoica e dei genetliaci).  Pensa dunque Virgilio, nel fingere che proprio col cominciare dell'anno colla nascita del figlio del console si iniziasse l'ultima età mondana  designata dai carmi sibillini, a queste teorie ? A me pare  che non se ne possa dubitare. Solo ci si potrà chiedere  se queir < altro Tifi » , quell' « altra nave Argo che tra-  sporterà ancora gli eroici compagni », « le altre guerre »   che si rinnoveranno e « il grande Achille », che ancora  « sarà mandato a Troja», indichino l'identico ripetersi  di tali eventi, il ritorno al medesimo punto della vita  universale, oppure indichino soltanto una generica legge  dei ricorsi storici. Il vecchio Servio infatti, pur così vi-  cino ai tempi del poeta, non seppe decidere: potendo  quei nomi simboleggiare genericamente il ritorno di eventi  simili, ma non proprio gli stessi. "Certo però che, assegnando Virgilio alla seconda età dell' oro già imminente  quei medesimi, identici caratteri che la tradizione dotta  e popolare assegnava alla prima, si sarebbe piuttosto in-  dotti ad ammettere 1' ipotesi che il poeta abbia raffigurato  e rappresentato in atto, coi colori smaglianti della sua  arte divina, l' avverarsi della teoria pitagorico-stoica della  palingenesi. E ancora : parlando della <^ nova progenies »,  la quale « eaelo demittitur alto » , a che cosa ebbe pre-  cisamente il pensiero il poeta ? Ebbe innanzi alla sua  immaginazione come un flusso di anime emananti dal-  l'anima universale all' inizio del nuovo anno o periodo  mondano posto sotto 1' egida di Apollo ? (1).   L' anima del fanciullo — nel pensiero del poeta — non  v'ha dubbio che appartenesse a questa nuova progenie  spirtale: ora, poiché il fanciullo è chiamato « cara deum  suboles, magnum lovis mcrementum » (v. 49), non par-  rebbe che si dovesse intendere altrimenti che la sua anima  è emanata pura e semplice direttamente da Giove, e  Giove starebbe qui a indicare, più che il supremo dio  dell'Olimpo pagano, quel principio divino che è l' anima]  Mi pare, non ostante il diverso parere di qualche commen-  tatore (p, es. di Pestalozza), che si debba precisamente dare all' espressione il suo senso proprio e letterale.    dell'universo, secondo la teoria che "Virgilio doveva an-  cora riprendere piìi tardi, nel secondo delle Georgiche, e  che doveva svolgere più compiutamente là dove, dall'ani-  ma di Auchise, fa esporre ad Enea, giù negli Elisii, la  famosa « storia dell' anima ».   Vero è che, come ho già rilevato, bisogna andar molto  cauti nella interpretazione di siffatti motivi poetici e nel-  r inferire da essi il pensiero filosofico animatore operante  neir artista; che questi può, indipendentemente dai pro-  cessi logici normali, assurgere per pura intuizione alla  visione totale o parziale di grandi verità. Nel caso nostro  il poeta, prendendo bensì lo spunto da un fatto reale  com'era la predizione sibillina, ha forse raccolto intorno  ad essa reminiscenze d'altra origine ed aggiunti elementi  nuovi di pura elaborazione fantastica; ed espressioni poe-  tiche di tale natura sono per sé indeterminate e male si  prestano ad essere analizzate e misurate con le rigide  seste della logica. Non potevamo però non tenerne conto,  almeno come indice di quella tendenza mistico-idealistica,  che ancora e meglio doveva rivelarsi più tardi, in suc-  cessivi momenti dell' attività poetica del nostro autore. Da ispirazioni così diverse e lontane come quelle  della sesta e quarta ecloga appar probabile dunque che  prima dei trent'anni Virgilio non avesse ancora definiti-  vamente orientato e fermato il suo pensiero ; e forse non  lo aveva neppure orientato definitivamente quando compose le Georgiche ; poiché in queste si  osservano ancora da un lato somiglianze di pensiero e  di forma con il poema lucreziano, e dall'altro si incontrano  immagini e concetti stoico-pitagorici. Mi basti ricordare,  per questi ultimi, i bellissimi versi del quarto libro nei quali VIRGILIO accenna, senza ancora accettarla  come propria, ma con evidente simpatia, la concezione  panteistica (che fu prima di Pitagora e poi di Platone e  degli stoici) secondo la quale 1' anima di tutti gli esseri  viventi non è che una parte, più o meno grande, dello  spirito divino che, suscitando in mille forme la vita, per-  vade e penetra tutto 1' universo, e a cui tutto ritorna.   His quidam signis atque kaec exempla secuti  220 esse apibus partem divinae mentis et haustus   aetherios dixere : deum namque ire per omnia,  terrasque traefusque maris eaelumque profundum.  Hine peeudes, armenta, viros, genus omne ferarum^  quemque sibì tenues naseentem arcessere vitas ;  seilieet hue reddi deinde ae resoluta referri   omnia, nec morti esse locum, sed viva volare \  sideris in numerum atque alto succedere eaelo.   Il filosofo, esponendo il pensiero come di altri (quidam...  dixere)^ fa ancora le sue riserve; ma il poeta evidente-  mente vi aderisce, e l'altezza dell'arte ci dice la profon-  dità dell' adesione sentimentale. Non solo ; ma il fatto  che uno di questi versi mirabili non è nuovo,  ma Virgilio lo ha ripreso tal quale dalla quarta ecloga, lega idealmente questa col passo delle Georgiche.   L' animo di Virgilio ha dunque ondeggiato certo a  lungo prima di aderire a quelle idee contro le quali ave-  vano combattuto la dottrina di Sirone e 1' arte di Lucrezio;  ma il suo temperamento prima e poi le convinzioni che  via via si vennero elaborando in lui col maturare degli  anni e degli studi dovettero riportarvelo fatalmente ; sic-  ché quando, iniziati gli studi per 1' Eneide, immergendosi  tutto nelle ricerche intorno alle origini e alle antichità  romane, si trovò di fronte al Pitagorismo, che la leggenda collegava colla sacra figura del re Numa, che  aveva ispirato anche l' arte di Ennio e che aveva in que-  gli anni cultori come Nigidio e come i Sestii, egli do-  vette sentirsi preso tutto quanto da quelle idee e assimi-  larle ancora più profondamente, tanto che ad esse volle  poi dare anche più precisa e più degna espressione là pro-  prio dove il poema attinge la più alta romanità e acquista  nel medesimo tempo carattere di universalità.  Al principio del libro VI dell'”Eneide”, che si  ritene generalmente dagli antichi contenesse la più profonda dottrina virgiliana, Servio credette di dover premettere queste parole: « Tutto Virgilio è pieno di scienza,  nella quale tiene il primo luogo questo libro, di cui la  parte principale è tolta da Omero (cioè dalla Nékyia del  canto XI dell' Odissea). Alcune cose sono dette semplicemente (cioè senza allegoria), molte sono prese dalla storia,  molte provengono dall'alta sapienza dei filosofi. Talché parecchi hanno scritto interi trattati su ciascuna di tali cose che trovansi in questo libro». Di questi trattati peraltro a noi non ne è giunto alcuno, nemmeno  quello, certo assai interessante dal punto di vista del  nostro tema, che scrive Macrobio, 1' erudito grammatico; poiché dei suoi Saturnali, che pure  ci restano in buona parte, è andata perduta proprio quella  parte in cui si conteneva l' esame del valore filosofico  dell' opera virgiliana (1). E un peccato, perchè Macrobio,     (1) Il compito di tale esame se 1' era assunto, nei dialoghi dei  Saturnaii, Eustaxio, filosofo per i suoi tempi assai erudito, come  ci fa sapere Macrobio stesso l'I. I, e. V). Anzi, per la superiorità  della filosofia sopra ogni altro ordine di cognizioni, 1' esposizione  di Eustazio e la prima di tutte, come appare da ciò che è detto come neo-platonico, avrà certo messi in rilievo gii elementi pitagorico-platonici del pensiero di Virgilio, del  quale, per esempio, ricordando nel commento al Somnium  Scipionis il terque quaterque beati, riconosce  neir espressione la dottrina pitagorica dei numeri.   Non è certo il caso di andar cercando, come qualche  antico ha fatto, in ogni espressione, in ogni parola  di questo mirabile libro, al quale doveva ispirarsi Alighieri, i sensi più reconditi, le piti astruse allegorie,  e di immaginare le intenzioni più riposte del poeta nel  comporlo. Ma sopra un punto in particolare, che è come  la chiave di volta di questo canto e che indubbiamente  è di quelli che Servio ha detto provenire dall'alta sapienza dei filosofi, noi fermeremo la nostra  attenzione. ENEA, con la scorta della Sibilla di Cu ma è sceso all'Inferno. Passata la palude Stigia sulla barca di Caronte,  attraversato 1' anti-inferno o limbo (dove sono le anime  dei neo-nati, dei condannati a morte ingiustamente, dei  suicidi) e ai campi dolorosi (dove sono i morti per causa  d' amore e famosi guerrieri), lasciato a sinistra il Tartaro nel e. XXIV dello stesso 1. I. Senonchè il libro seguente è mutilo ; e la mutilazione è forse dovuta allo zelo degli scrittori, e si deve far risalire al tempo in cui questi tendevano ad  accentuare il carattere profetico di Virgilio.   [Por Maorobio, Virgilio non solo è dotto in ogni genere di  sapere, ma è decisamente infallibile. Nel commento al Somnntm  lo dice nullius disciplinae expers (I, 6, 44) e diseiplinarum om-  nium perìHssimus (I, 15, 12) ; così nei Saturnali (I, 16, 12) :  omnium diseiplinarum peritus.   (2j Per esempio Elio Donato, il quale attribuiv a Virgilio un  sapere straordinario e cercò nei suoi versi dottrine risposte e scopi  filosofici ai quali certamente non aveva pensato mai.   (dove subiscouo. le pene più orribili le anime di tutti co-  loro che in qualche modo hanno violato le leggi umane  e divine) è giunto nell' ampio Elisio, liete pianure che  sono il felicissimo regno dei beati   locos laetos et amoena mrecta   630 fortunatorum nemorum sedesque heatas.   Quivi, in una luce perpetuamente serena e fiammante,  le anime dei beati (eroi morti per la patria, sacerdoti,  poeti, filosofi ed artisti, benemeriti della umanità) trascor-  rono la vita su colli ameni e per valli, in prati ed in bo-  schetti, sulle rive di ameni ruscelli, continuando le loro  abitudini ed occupazioni terrene : fra esse è Museo, al  quale Enea chiede notizie d' Anchise e che gli si offre  per guida. Il padre d'ENEA sta in quel momento ad  osservare con attenzione le anime che si trovavano chiuse nel fondo di una valle verdeggiante, destinate a ritornare  alla vita terrena, passando in rassegna fra esse quelle  che dovevano rincarnarsi nei suoi discendenti, per conoscerne il destino, le vicende, il carattere, le opere future.  At pater Anchises penitus eonvalle virenti  680 inclusas animas superumque ad lumen ituras   lustrabat studio recolens omnemque suorum  forte recensebai numeruni carosque nepotes  fataque fortunasque virum 7noresque manusque.   Avviene fra padre e figlio un commoventissimo incon-  tro, dopo il quale Enea vede da un lato della valle un  bosco appartato e cespugli pieni di suoni e il fiume Lete  (il fiume dell' oblio) che lambisce quelle placide sedi e  intorno a questo una infinita moltitudine di anime svo-  lazzanti e che riempiono tutta la pianura del loro sussurro, simile al ronzio che fanno pei prati, nei sereni  meriggi estivi, le api, quando si posano su ogni sorta di  fiori e si addensano intorno ai candidi gigli. L' eroe,  stupito, ne chiede al padre la ragione, e che fiume sia  quello, e che uomini quelli che si affollano così numerosi sulle sue rive. E il padre subito gli risponde : « Le  anime alle quali è dovuto per destino un altro corpo,  bevono alle onde del fiume Lete le acque che sigilleranno  in loro per lungo tempo il ricordo degli affanni e della  vita trascorsa »:   animae, quibus altera fato  corpora debentur, Lethaei ad fluminis unda'm  715 seeuros latices et longa oblivia potant.   Queste anime appunto egli si accinge a mostrargli,  enumerandogli e indicandogli fra esse tutti i suoi di-  scendenti (i re Albani e gli eroi gloriosi di Roma da  Silvio a Marcello il giovane) perchè s' allieti con lui di  essere finalmente giunto alle spiaggie d' Italia. Ed Enea  subito gli chiede : « padre, si deve dunque credere  che alcune anime di qui tornino alla luce del cielo e ri-  tornino una seconda volta nell' impaccio del corpo ? qual  mai assurdo desiderio della vita terrena hanno le infe-  lici ? » :   pater, anne aliquas ad caelum hinc ire puiandum est  720 sublimis animas iterumque ad tarda reverti corpora ? quae lueis miseris iam dira cupido ?     [Nella concezione orfica pare che le anime destinate alla pa-  lingenesi fossero chiamate api ; donde la ragione della similitudine  (Sabbadini). Ed ecco subito Anchise esporgli quella eh io ho chia-  mata la storia dell'anima :   « Anzitutto un' interiore forza spirituale anima il cielo,  la terra, i mari, la luna, il sole, le stelle, e un' intelli-  genza infusa per tutte le sue parti agita e compenetra  la gran mole dell' universo. Di qui gli uomini e gli ani-  mali che vivono sulla terra, che volano per 1' aria^ che  si muovono negli abissi del mare : essi, particelle dell'a-  nima universale disseminate nello spazio, hanno vigore  etereo e origine celeste ; ma, più o meno, li inceppa la  lue corporea e le membra terrene e periture li ottun-  dono. Oud' è che essi vanno soggetti a timori e desideri,  a gioie e dolori e, chiuse nelle tenebre e in cieco car-  cere, le anime disconoscono il cielo onde derivano. Tanto  che, anche quando nel dì del trapasso le abbandona la  vita, non si stacca tuttavia dalle infelici ogni male né  le lasciano interamente le sozzure corporee ; molte delle  quali anzi; avendole profondamente intaccate, devono necessariamente crescere nel loro intimo per lungo tempo  in modi meravigliosi. Perciò sono sottoposte a pene e  pagano con supplizi il fio delle passate colpe : delle cui  infezioni alcune si purificano rimanendo sospese ed espo-  ste all' azione dei venti, altre immerse in un profondo  abisso d' acqua (negli abissi oceanici ?), altre bruciando  nel fuoco. Tutti subiamo da morti la nostra espiazione,  dopo la quale passiamo nell' ampio Elisio ; e pochi soltanto restiamo nelle sue liete pianure, finche un lungo  volgere d'anni, compiuto il tempo prescritto, cancella le  traccio d'ogni sozzura contratta nel corpo e lascia puro  il senso etereo e il fuoco della semplice aura. Tutte  queste invece, quando son volti mille anni, sono chiamate  da Dio in gran numero al fiume Lete, perchè, immemori  del passato, rivedano la volta del cielo e comincino a  sentire di nuo^vo la volontà di rincarnarsi nei corpi v.   « Principio caelum ac terras camposque liquentis  725 lucentemque globum lunae Titanìaque astra   spiritus intus alit totamque infusa per artus   mens agitai molem et magno se corpore miscet.   inde hominum pecudumque genus vitaeque volantum   et quae marmoreo feri monstra sub aequore pontus.  730 igneus est oUis vigor et caelestis origo   seminibus, quantum non noxia corpora tardant   terrenique liebetant artus moribundaque membra.   hinc metuunt cupiuntque, dolent gaudentque, neque auras   dispiciunt clausae tenebris et carcere caeco. quin et supremo cum lumino vita reliquit,   non tamen omne malum miseris nec funditus omnes   corporeae excedunt pestes, penitusque necesse est   multa diu concreta modis inolescere miris.   ergo exercentur poenis veterumque malorum supplicia expendunt. aliae panduntur inanes   suspensae ad ventos, aliis sub gurgite vasto   infectum elicitur scelus aut exuritur igni ;   quisque suos patimur manis ; exinde per amplum   mittimur Elysium ; et pauci laeta arva tenemus, donec longa dies, perfecto temporis orbo,   concretam exemit labem purumque relinquit   aetherìum sensum atque aurai simpliois ignem.   has omnis, iibi mille rotam volvere per annos,   Lethaeum ad fluvium deus evocai agmine magno, scilicet immemores supera ut convexa revisant   rursus et incipiant in corpora velie reverti ».   Qui non siamo più di fronte evidentemente a concetti  vaghi e imprecisi, ma all' esposizione alta e solenne di  una teoria, nella quale è riaffermato anzitutto il concetto di uno spirito immanente nell' universo,  di carattere divino e intelligente, di cui tutti gli esseri  animati — uomini e bruti — sono delle manifestazioni ;  cioè il medesimo concetto che abbiamo già veduto nel  quarto delle G-eorgiche, e perfettamente identico a quello  che Cicerone, come s' è visto, attribuiva a Ferecide, mae-  stro di Pitagora. Di piti la forza spirituale, di origine  divina ed eterea, che è nell' uomo e negli animali, e  concepita in perfetta antitesi con la materia del loro  corpo, che è per l'anima un carcere, un peso, un impe-  dimento, e che è la causa degli errori, delle passioni,  delle colpe, dei traviamenti. Sicché la vita è un male  (vv. 730-734). Anche questo concetto di un dualismo o  antagonismo fra spirito e materia non ò nuovo ed ap-  partenne già anch' esso all' antica filosofia pitagorica, come  s' è pure veduto (2). Ma se la vita è un male per tutti,  per i malvagi e per i buoni, tutti, dopo la morte, deb-  bono purificarsi delle infezioni corporee. La purificazione  infatti avviene per mezzo di pene e di tormenti, non  però eterni, che debbono subirsi per il tempo necessario  all' espiazione perfetta.   Ne sono mezzi i tre elementi dell' aria, dell' acqua e  del fuoco (quelli stessi che si adoperavano appunto nelle  cerimonie simboliche dei misteri). Dopo 1' espiazione pu-  rificatrice tutte le anime passano nell' Elisio, luogo di  beatitudine, dove alcune poche, quelle degli eletti che  furono in terra i migliori, rimangono a godere una serena  felicità, anche questa non eterna, ma che dura fintantoché  non sia compiuto il tempo prescritto — tempo assai  lungo, quanto è necessario perchè si esaurisca e scom-  paia da sé il loro attaccamento alla vita terrena e il ri-     Ci i De Natura Deorum 1, li, 27 e De Senectute 21, 78.  (2) Cicerone, Somnium Seipìonis, ?, 15 e altrove.   cordo delle belle opere umane (1) — per riprendere poi  la primitiva natura eterea e spirituale e di nuovo dis-  solversi in seno all' anima universale. Le altre invece, e  sono la gran maggioranza, trascorsi mille anni in una  delle convalli confinanti con 1' Elisio, vengono chiamate  da Dio a bere nelle acpue purificatrici del fiume Lete  r oblio della vita trascorsa e si incarnano in nuovi corpi.  Non s' intende peraltro, poiché Anchise non lo dice, se  queste ultime anime, destinate a nuova vita, quando ritorneranno poi ancora, dopo la seconda morte e conse-  guente espiazione negli elementi, all' Elisio, vi resteranno  tutte in attesa di convertirsi in puro etere e spirito, o  se parte di esse dovrà ritornare nuovamente sulla terra.  Nel primo caso il numero delle esistenze terrene sarebbe  limitato ad un massimo di due — una con prevalenza  del male e una del bene — , nel secondo sarebbe inde-  finito. Ma in un modo o nell' altro la teoria della resurrezione è assai chiara e il ciclo dell' esistenza, dal mo-  mento in cui r anima si stacca dallo spirito universale  fino al momento in cui si ricongiunge ad esso, è perfet-  tamente conchiuso ; il concetto panteistico e il processo  di involuzione ed evoluzione dello spirito, appena accen-  nati nel quarto delle Georgiche, sono qui svolti compiu-  tamente. Né si può dubitare che anche 1' ultima parte  che si riferisce alle pene e ai premi d'oltretomba e che espone la dottrina della metempsicosi (vv. 748-  751), sia, come le prime, foggiata secondo i principi del-  l' Orficismo e del Pitagorismo.  Appunto per tale attaccarne nto, esse continuano nell' Elisio  le occupazioni a cui attendevano sulla terra.  Sarebbe certo oltremodo interessante svolgere  questi principii fino alle ultime conseguenze logiche, e  chiederci, per esempio, se in tale concezione il processo  di emanazione delle anime dallo spirito universale avve-  nisse una volta tanto, o ad intervalli, o ininterrottamente.  Si vedrebbe allora che, non potendo avvenire ne una  volta tanto (perchè in tal caso, col ritornare continuo  delle anime individuali in seno all' anima universa, ne  sarebbe seguita in un determinato momento la scom-  parsa della vita dalla terra), né ininterrottamente (parche  in tal caso, essendo sempre infinitamente maggiore il  numero dei cattivi che non quello dei buoni, a un certo  punto sarebbe prevalso irrimediabilmente sulla terra il  male), ma dovendo considerarsi come avverantesi ad in-  tervalli, r idea di tale processo d' emanazione si ricolle-  gherebbe alla teoria già accennata dei grandi anni mon-  dani (1). Così ancora, poiché dall' anima universale ema-  nano non solo quelle degli uomini, ma anche quelle dei  bruti, ci si potrebbe chiedere che cosa dovesse avvenire  di queste, alla morte dei loro corpi. E si vedrebbe come,  dal modo in cui dovette esser risolto questo problema da  qualcuno, potrebbe esser nata appunto l'ipotesi —- quasi     (1) Ognuno di questi anni o periodi della vita universale era  diviso in dieci mesi (di mille anni ciascuno) e ogni mese era sotto  il particolare influsso d' una delle divinità maggiori, concepita forse,  filosoficamente, come aspetto, manifestazione, atteggiamento, ema-  nazione particolare del dio universale. La durata però degli anni  stessi era computata anche altrimenti, ma sempre di parecchi se-  coli ; e in ciascun anno, che si iniziava con un processo sempre  identico di emanazione, ritornavano sulla terra le stesse anime e  si ripetevano gli stessi eventi. Si ricordi quel che abbiamo visto  più su (§ 4) parlando della quarta ecloga.   10.    unanimemente attribuita a Pitagora — d' una metempsi-  cosi anche animale (1).   Ma prescindendo da queste considerazioni, che ci por-  terebbero al di là di quello che Virgilio ci ha voluto o  potuto dire, come si concilia questa storia dell' anima  con tutta la rappresentazione precedente dell' anti-inferno  e del Tartaro ? È evidente che una contraddizione fon-  damentale esiste : che 1' esistenza delle anime nel prein-  feruo e le punizioni evidentemente eterne che subiscono  quelle dei malvagi nel Tartaro non si possono accordare  con le pene temporanee per mezzo dei tre elementi. Sic-  ché noi siamo indotti a pensare che nella rappresentazione  virgiliana dell' oltre tomba si debba forse vedere un ten-  tativo mal riuscito — per la mancata elaborazione ultima  del poema, impedita dalla immatura morte di Virgilio —  di fondere insieme quella che era rappresentazione po-  polare e il concetto o rappresentazione filosofica del poeta.   E poiché, considerata in sé stessa, questa storia sug-  gestiva e profonda ha un senso compiuto e perfetto, e  d' altra parte sappiamo che Virgilio compose 1' Eneide a  pezzi staccati, che poi collegava insieme, non vorrebbe  la voglia di credere che essa sia stata scritta a parte,  fors' anche indipendentemente e in tempo anteriore a  quello della composizione del poema, e poi opportuna-  mente inserita in questo, allorché il poeta — artista, fi-     [Qualcuno cioè potrebbe aver pensato che le incarnazioni del-  l' anima fossero non tutte necessariamente in corpo umano, ma  anche in corpi d'animali, terrestri, acquatici od aerei, secondo che  le colpe precedenti fossero da espiare nell'uno piuttosto che nel-  r altro elemento : e la vita animale avrebbe perciò rappresentato  uno stato di vita intermedio fra due vite umane.    losofo, cittadino nello stesso tempo — concepì l'idea di  valersi, per esaltare la grandezza della Patria e per la  rappresentazione dei grandi spiriti di Roma, della dot-  trina della metempsicosi, antichissima e largamente dif-  fusa e conforme alle credenze religiose dei suoi concit-  tadini e già consacrata dall' arte di Ennio ? Anzi non mi  parrebbe neppure arrischiato il pensare che si dovesse  proprio vedere in essa un brano di quel poema della  Natura al quale Virgilio già pensava quando finì il se-  condo canto delle Georgiche (vv, 475-494), e forse ad-  dirittura il principio del poema stesso o 1' idea madre  eh' esso avrebbe svolta : principio ed idea eh' egli certo  prese e imitò da Ennio, i cui Annali, come abbiamo ve-  duto, si iniziavano appunto con 1' esposizione della dot-  trina della metempsicosi (1). In tale, ipotesi dunque la  teoria messa in bocca ad Anchise non sarebbe soltanto  una finzione poetica, un mezzo artisticamente perfetto  per ottenere una grande e suggestiva efficacia di rappre-  sentazione, ma esprimerebbe la genuina e schietta con-  cezione di Virgilio, il risultato ultimo di quel contra^^to     (1) Molti raffronti fra Ennio e Virgilio fa Macrobio nel l. VI  dei Saturnali; ma, per dire la verità, non vi è cenno alcuno di  rapporti formali o sostanziali fra 1' esposizione di Anchise ad Enea  e quella di Omero ad Ennio. Potrebbe darsi tuttavia che se ne  parlasse in quella parte dei Saturnali che è andata perduta e nella  quale appunto si conteneva 1' esame del valore filosofico dell'opera  virgiliana fatto da Eustazio. D' altra parte però è indubitabile una  effettiva somiglianza di contenuto fra i due squarci poetici, come  sono indubbie alcune analogie di pensiero fra i due poeti. E gli  arcaismi che si trovano in Virgilio {ollis, aurai) potrebbero essere  un altro indizio d' imitazione enniana. — Anche il Pascal (Gom-  mentat. vergilianae, p. 143 sgg.) ha dimostrato che Virgilio ha  derivato la sua esposizione dottrinale dal proemio degli Annales.    a cui abbiamo accennato fra l' idealismo pitagorico-stoico  e il materialismo epicureo, sarebbe insomma il suo testa-  mento filosofico. Mirabile testamento davvero, che la-  sciava in eredità alle più lontane generazioni l' alta e  sublime espressione artistica d'una teoria che, sorta agii  albori del pensiero nelle più remote età dell' uomo, tra-  smessa di generazione in generazione da una civiltà al-  l' altra, dall' Oriente all' Occidente, custodita con cura  gelosa nel mistero dei santuari, insegnata come la verità  più sacra e più recondita, s' illuminò ancora una volta,  come già nei miti immortali di Platone, alla luce della  poesia e dell' arte.     Ho già parlato nel cap. I della tradizione, se-  condo la quale il re Numa Pompilio sarebbe stato sco-  laro di Pitagora. Raccogliendo là tutte le testimonianze  di questa tradizione, ho anche accennato a quella che ne  fa Ovidio nelle Metamorfosi. Essa ha una  importanza specialissima e merita di essere studiata sepa-  ratamente dalle altre anche per questo, che della tradi-  zione stessa il poeta si vale per fare un'esposizione, se  non profonda, tuttavia molto estesa — la più estesa e la  pili organica che ci rimanga nella letteratura romana —     della tìlosofia pitagorica, specialmente in attinenza a due  punti fondamentali di essa: l'astensione dai cibi carnei e  la metempsicosi.   Dice dunque Ovidio (vv. 1S\ che, scomparso Romolo,  si cercò subito chi potesse addossarsi un peso tanto grave  com'era il governo di Roma, succedendo a un tal re, e  che una fama non menzognera designò all'impero Numa, già famoso per la sua giustizia, per la sua pietà, e, so-  pratutto, per la sua sapienza: che, non solo conosceva a  perfezione i riti della sua gente, la gente Sabina, ma,  abbracciando con la vasta anima più larghi concepimenti  ed essendo avido di scrutare i più ardui problemi della  natura, aveva abbandonato la nativa Curi e si era recato  a Crotone:   Quaeritur interea qui tantae pondera niolis  Sustineat, tantoque queat succedere regi.  Destinai imperio elarum praenuntia veri  Fama Numam. Non ille satis cognosse Sabinae  5 Oentis habet ritus : animo maiora capaci   Goncipit, et quae sit rerum naiura requirit.  Iluius amor curae, patria Guribusque relictis,  Fecit, ut Herculei penetraret ad hospitis urbem.   Quivi insegnava Pitagora — e segue appunto nei versi  60-478, l'esposizione delle dottrine di questo filosofo, che  or ora esamineremo — e Numa ne ascoltò le lezioni; dopo  di che ritornò in paCria e prese le redini del governo di  Roma, insegnando al popolo del Lazio i riti sacrificali e  le arti della pace:   Talibus atque aliis instructo pectore dictis tn patriam remeasse ferunt., ultroque petitum   Acoepisse Numam> populi Latiaris kabenas:  Goniuge qui felix nym^pha ducibusque Gamenis  Sacrificos docuit ritus, gentemque feroci  Adsuetam bello pacis traduxit ad artes.   Come si vede — e l'ho già rilevato, — Ovidio non  solo accetta senza discuterla, come cosa ovvia e risaputa^  la tradizione che faceva di Numa un discepolo di Pita-  gora, ma vien pure in certo modo a mettere in connes-  sione di dipendenza le istituzioni religiose attribuite a  Numa e l' educazione pitagorica da lui ricevuta ; per  quanto con l'accennata collaborazione della ninfa Egeria  e delle Camene la leggenda abbia certamente voluto rap-  presentare la parte che ebbe l'elemento indigeno nella  creazione degl'istituti religiosi romani del piìi antico pe-  riodo regio (1). Il poeta pertanto, non tenendo conto dei  dubbi e delle critiche messe innanzi da qualche erudito,  preferì seguire senz'altro la tradizione leggendaria, che  pur Cicerone aveva chiamata inveteratus hominum ei-ror;  e ciò non tanto perchè siffatta tradizione gli offriva mi-  rabilmente il modo di esporre quella dottrina della me-  tempsicosi ch'era la piìi naturale conclusione d'un poe-  ma come le Metamorfosi, quanto perchè, molto probabil-  mente, la tradizione era più che mai viva nella coscienza  dei contemporanei, per i quali il poeta scriveva, massime dopo la recente rinascita del Pitagorismo in Roma.     [Lo stesso Ovidio, in altro luogo {Fast.) accenna  alla possibilità che la riforma del calendario sia stata ispirata a   Numa dal filosofo di Samo : « Primus Pompilius menses sen-   sit abesse duos Sive hoc a Samio doctus, qui posse renasci Nos  putat, Egeria sive monente sua ».   (2) Un ultimo accenno alla medesima tradizione si legge nella  terza elegia dei terzo libro delle Pontiche, dove il poeta, immagi-  nando di parlare in sogno all' Amore di cui si professa maestro,  lo rimprovera di essersi comportato verso di lui ben altrimenti da  quello che fecero altri discepoli verso i loro maestri : Eumolpo  verso Orfeo, Achille verso Chiroue, Numa verso Pitagora., ecc. :   In Crotone teneva dunque scuola Pitagora; il  quale, nativo dell'isola di Samo, aveva abbandonato spon-  taneamente la patria, mal sopportando la tirannide onde  era governata, e s'eia dato a profondi studi di filosofia.  Per virtù di questi « egli potè elevarsi con la mente,  per quanto fossero lontani nella immensità dello spazio  celeste, fino agli dei e scrutare con gli occhi dell'intel-  letto ciò che la natura ha negato alla vista degli uomini»:   60 Vir fuit hic, ortu Satnius ; sed fugcrat una   Et Samon et dominos^ odioque tyrannidis eocul  Sponte erat. Isque^ licet caeli regione remotos^  Mente deos adiit et quae natura nogabat  Visihus humanis^ oculis ea pectoris hausit.   Ecco subito, in questi magnifici versi, messo in evi-  denza Pitagora, e determinata con molta precisione e con  grande efiìcacia rappresentativa la natura del suo misti-  cismo, fondato sopra l'esercizio assiduo dell'intelletto e  la profonda intensità del meditare, per giungere alla vi-  sione e alla comprensione delle più alte verità.   Cumque animo et vigili perspexerat oinnia cura   In medium discenda dahat, coetusque silentum  Dictaque mirantum magni primordia mundi  Et rerum causas et, quid natura, docebat :  Quid deus, unde nives^ quae fulminis esset origo,  luppiter an venti discussa nube tonarent^   Quid quateret terras, qua sidera lege fnearent,  Ed quodcumque latet.     At non Chionides Eumolpus in Orphea talis ;   In Phryga nee satyrum talis Olympus erat ;  Praemia nec Chiron ab Achilli talia eepit,   Pythagor aeque ferunt noti nocuisse Numam.  Nomina neu referam longutn collecta per aevum,   Discipulo perii solus ab ipse meo.  E in questi altri versi ecco parimenti accennata con  grande chiarezza la vastità e larghezza degl'insegnamenti,  che il filosofo impartiva all'attonita e silenziosa schiera  dei discepoli e che abbracciavano « le origini primordiali  dell'universo, Je cause della materia e l'essenza della na-  tura e della divinità, l'origine delle nevi e del fulmine,  del tuono e del terremoto e le leggi onde è regolato il  corso degli astri: insomma, tutti i problemi più reconditi  della filosofia naturale e della scienza » Egli 'per primo, aggiunge ancora il poeta, vietò di ci-  barsi di carne, sconsigliando bensì tale astensione con  molta dottrina, ma senza riscuotere la meritata approva-  zione :   Primusque anitnalia mensis  Arguii imponi : primus quuni talibus ora  Docta quidem solvit, sed non et eredita, verbis.   Ed ecco appunto il filosofo combattere, in prima per-  sona, l'uso delle carni (vv. 75-95) e descrivere l'età dell'oro, quando gli uomini non conoscevano ancora tale  uso; e poi, ispirato dalLi divinità, eccolo ac-  cingersi, con più alto afilato poetico, a trattare questioni  più ardue e a svelare più riposti misteri :   Et quoniam deus ora movet, sequar ora moventem  Rite deum, Delphosque meos ipsumque recludarn  145 Aethera et augustae reserabo or acuta mentis.   Magna, nee ingeniis evestigata priorum,  Quaeque diu latuere, canam. luvat ire per alta     il) I vv. 67-71, cke riassumono la supposta fisica pitagorica,  sono manifestamente ispirati da Lucrezio, dice il Lafaye, Les mé-  tamorphoses d' Ovide et leurs modèles grecs, Paris, Alcan, 1904,  p. 197; masi accordano pure benissimo coi principii dello stoicismo.   Astra \ iuoat terris et inerti sede relieta  Nube vehi, validique umeris insistere Atlantis^  150 Palantesque homines passim ac rationis egentes   Despectare procul^ trepidosque obitur/ique timentes  Sic exhortari, seriemque evoltere fati.   « E poiché sento di parlarvi per ispirazione divina,  seguirò gl'impulsi del dio che mi fa parlare secondo il  rito, e vi svelerò i miei arcani e lo stesso etere e vi  schiuderò gli oracoli fin qui nascosti nel profondo della  mia mente. Vi canterò cose grandi, né mai scrutate dalle  menti dei padri, e che per lungo tempo restarono occulte.  Mi piace andare tra le sublimi stelle ; mi piace abban-  donata la terra e questa inerte dimora, lasciarmi traspor-  tare da una nube e poggiare sulle spalle del vigoroso  Atlante e guardare da lontano gli uomini sparsi qua e  là e ancora irragionevoli, e ad essi, che aspettano con  trepido timore la morte, infondere coraggio e schiudere  la visione del loro destino con queste parole... »   Siamo alla rivelazione della metempsicosi, la cui cono-  scenza appunto deve distruggere negli uomini il timore  della morte :   genus attonitu7n gelidae formidine ìnortis !  Quid Styga, quid tenebras et nonnina vana timetis, Materieni vatum^ falsique perieula mundi? (1)   Corpora, sive rogus fiamma, seu tabe vetustas  Abstulerit^ mala posse pati non ulla putetis, ^   Morte careni animae; semperque priore relieta  Sede novis domibus vivunt habitantque reeeptae.   (1) Cade ovvio a questo punto il raffronto coi famosi versi delie  Georgiche (II, 490-492) :   Felix, qui potuit rerum eognoscere caussas,  Atque metus omnis et inexorabile fatum  Subiecit pedibus strepitumque Acherontis avari,    « schiatta attonita per lo spavento della fredda morte !  Che temete lo Stige, la tenebra e i suoi nomi vani, fan-  tasie di poeti e pericoli d'un mondo inesistente? Non  crediate che i corpi, o li abbia distrutti il rogo con la  sua fiamma, o il tempo con la putredine, possano soffrire  mali di sorta, E quanto alle anime, esse non muoiono ; e  sempre, abbandonata una sede, vivono e abitano in di-  more che nuovamente le accolgono ».   E in prova di ciò Pitagora ricord d'es-  sere vissuto ancora, al tempo della guerra troiana, nel  corpo d' Euforbo. Poi segue, piìi specificatamente chiarita  ed espressa, la dottrina della metempsicosi animale, vol-  garmente attribuita a Pitagora :   Omnia mutantur, nìhil interit : errai et illìne   Hue venit^ hine illuc, et quoslibet occupai artus  Spiritus: eque feris humana in corpora transita  Inque feras noster, nec tempore deperii ullo,   Utque novis facilis signatur cera figuris,   Nec manet ut fuerat^ nec formas servai easdem,   Sed iarnen ipsa eadeni est; animam sic semper eandem  Esse^ sed in varias doceo migrare fèguras.   « Tutto si trasmuta, niente muore. Lo spirito va er-  rando e si muove di là a qui, di qui a là, e s'incarna  nel corpo che si presceglie; e dalle fiere passa nei cor-  pi umani e viceversa, né mai vien meno. E come la molle     che si sogliono riferire ad Epicuro. Entrambi i filosofi dunque giun-  gevano alla medesima conseguenza pratica (inanità del timore della  morte) partendo da premesse assolutamente opposte : 1' uno, cioè  Pitagora, dimostrando che il morire è soltanto trasformazione, o  passaggio dell' anima d'una in altra forma di vita corporea; l'al-  tro, cioè Epicuro, dimostrando che il morire è annientamento to-  tale e definitivo della personalità per il disgregamento degli atomi  onde l'anima si compone.    cera si foggia in nuove figure, sì che, pur non restando  quale era prima e non conservando le stesse forme, tut-  tavia è sempre la stessa, così vi dico che l'anima ò sem-  pre la medesima, senonchò passa sotto varii aspetti » (1).   Da ciò un nuovo argomento per astenersi dall'usar  carne. A questo punto la trattazione di Pitagora si allarga, e  il filosofo passa a dimostrare 1' evoluzione perpetua e il  divenire incessante di tutto il creato :   Et quoniam magno feror aequore plenaque ventis  Vela dedi : nihil est tato, quod perstet, in orbe.  Cuncta fluuni, omnisque vagans formatur imago.   « E poiché, aperte le vele al vento, navigo in alto  mare, sappiate che non vi è nulla di immobile in tutto  l'universo. Tutto fluisce, e si foggia incessantemente ogni  mutevole aspetto ».   E questa nuova proposizione illustra con una lunga  serie di esempi, tratti dai fenomeni celesti, dall' avvicen-  darsi delle stagioni, dalla vita dell'uomo e dalle vicissi-  tudini degli elementi (vv. 179-251).   Ma la natura non ci offre solo lo spettacolo di muta-  menti regolari, determinati da leggi immutabili ed uni-  versali ; si compiono anche intorno a noi, nei corpi inor-  ganici e negli organici trasformazioni impreviste, che i  saggi osservano con curiosità, ma di cui essi ignorano  le cause : questi fenomeni straordinari — spesso elencati  e descritti nel periodo alessandrino, in opere intitolate     (1) Questa, prima parte deiresposizione ovidiana è molto proba-  bilmente modellata sul « Sogno » degli Annali di Ennio di cui si  è già visto.     Paradoxa — Ovidio li fa esporre da Pitagora, non sen-  za qualche anacronismo, nei vv. 252-417 (i vv. 307-336  riguardano le proprietà di certi corsi d'acqua^ mirabiiia  fontium et fiuminum)^ a cui fanno seguito altri (vv. 418-  452), che descrivono le rivoluzioni avvenute nelle società  umane, sino al glorioso principaio d'Augusto, predetto  già da un oracolo fin dal tempo della caduta di Troia :   Nune quoqiie Dardaniam fama est eonsurgere Rotnam^  Appenninigenae quae proxiyna Thybridis undis  Mole sub ingenti rerum fundamina pomi.  Haec igitur forviam crescendo mutata et olim   435 Immensi caput orbis erit. Sic dicere vates   Vaticinasque ferunt sortes : quantumque recordor,  Dixerat Aeneae^ cum res Troia?ia labaret^  Prìamides Helenus /lenti dubioque salutis : (1)  « Nate dea^ si nota satis praesagia nostrae   440 Mentis habes^ non tota cadet te sospite Troia.   fiamma libi ferrumque dabunt iter: ibis, et una  Pergama rapta feres, donec Troiaeque tibique  Externum patria contingat am,ieius arvum,  Urbem etiam cerno Phrygios debere nepotes,   445 Quanta nec est nec erit nec visa prioribus annis.   Hanc aia proceres per saecula longa potentem^  Sed doininam rerum de sanguine natus Tuli  Efficiet. Quo cum tellus erit u>sa, fruentur  Aetheriae sedes^ caelumque erit exitus illi ».  Raec Helenum eecinisse penatigero Aeneae  Mente mem,or refero, cognataque moenia laetor  Crescer e, et utiliter Phry gibus vieisse Pelasgos.   Così Pitagora è fatto profeta della divina e fatale po-  tenza d'Augusto, come con analogo procedimento, nel     (1) La sola predizione che troviamo accennata, a proposito di  Enea, nei poemi omerici, si legge nel e. XX &q\V Iliade (vv. 302,  306-308), e fu riprodotta da Virgilio {Aen., IH, 97-98).   poema virgiliano la dottrina pitagorica della metempsicosi  è assunta quale mezzo artistico per la predizione della  futura grandezza di Rom3.   Nei pochi versi che seguono (453-478) Pitagora finalmente ritorna al punto di partenza e conchiude : « Poi-  ché tutto cambia, poiché al termine della vita la nostra  anima passa in nuovi corpi, anche animali, non uccidia-  mo le bestie; chi può sapere se, uccidendole non faccia-  mo scorrere il sangue di nostri congiunti ? » . Analizzato così il contenuto della esposizione  ovidiana, vien fatto naturalmente di chiedersi quale sia  stato r atteggiamento del poeta di fronte al Pitagorismo.   Ne fu egli per avventura un seguace ? A questa domanda noi possiamo rispondere negativamente senz' om-  bra di esitazione : la vita e l'operosità poetica di Ovidio,  anche nel periodo posteriore alla composizione delle Me-  tamorfosi, furono in antitesi troppo stridente con gl'inse-  gnamenti e la pratica pitagorica, per poter immaginare  pensare che egli fosse dedito con qualche fervore a  quelle dottrine ; d' altra parte Ovidio non ebbe certo tem-  pra di filosofo né eccessivo amore per le ricerche e spe-  culazioni astruse. Che però una certa simpatia, o almeno  una certa insistenza del suo pensiero su quella filosofia  ci sia stata, pare evidente, se non solo nell' opera sua  maggiore le ha fatto così larga parte, con una esposizio-  ne quasi sistematica, ma altre volte ancora accenna ad  essa, come nel citato luogo dei Fasti e in alcuni versi  delle Tristezze (1).     (1) ìrist,, III, .3, 59-64:   Atque utinam pereant anhnae cum eorpore hostrae^  Effugiatque avido» pars mihi nulla rogos. E quasi certamente poi questa predilezione del poeta  si deve ritenere l'effetto della rinascita del Pitagorismo,  che era stata operata in Roma da Nigidio nella prima  metà del secolo (onde abbiamo già visto quan te e quali  traccie se ne riscontrino nella letteratura dell' età di Ci-  cerone e di Yarrone), e che al tempo stesso del poeta  fece sorgere la scuola dei Sestii : sì che Ovidio potè averne  notizia sia dalle opere degli scrittori che appartenevano  alla generazione precedente alla sua, sia dalla viva voce  e dagli scritti di qualcuno dei nuovi seguaci.  Gli studiosi infatti che, proponendosi la questio-  ne delle fonti di quest'ampia trattazione ovidiana del Pitagorismo, hanno cercato di risolverla, per poter quindi  determinare il valore storico della trattazione stessa, hanno  riconosciuto in sostanza che tali fonti debbono essere  state le opere varroniane (le Antiquitates rerum divi-  narum e sopratutto il dialogo Gallus^ de admirandis)     Nam si morte carens vacua volai altus in aura  Spiritus, et Samii sunt rata dieta senis,   Inter Sarmaiicas Romana vagabitur umbras^  Ferque feros manes kospita semper erit.   Il poeta si augura che abbiano ragione coloro che « 1' anima col  corpo morta fanno » e che nessuna parte del suo essere sfugga  alle fiamme del rogo, poiché diversamente, egli dice, « se lo spi-  rito, immortale, vola alto nelle vuote regioni dell' aria e sono veri  gì' insegnamenti del vecchio di Samo, 1' ombra di un Romano sarà  costretta a vagare fra le ombre dei Sarmati e sarà sempre un'e-  stranea tra feroci anime di morti ». Il passo è importante, perchè  mostra che, di fronte al pensiero della morte, il poeta era in so-  stanza ancora incerto fra coloro che negavano e quelli che affer-  mavano la immortalità dell'anima.  oppure gli scritti di Nigidio, o dei Sestii, od anche dei  loro discepoli Papirio Fabiano e Sozione (1).   Sicché, qualunque si accetti delle ipotesi messe innanzi,  sta di fatto che le fonti a cui Ovidio ha attinto non sono  moìto anteriori a lui.   D'altra parte, anche tenendo conto del fatto che Ovidio,  più poeta che filosofo, non intese certo di trattar l'argo-  mento con rigore di metodo scientifico e filosofico, atte-  nendosi scrupolosamente a questo o a quell'autore ; ma  che avrà usato di una certa libertà e indipendenza, e che  (pur valendosi, se si vuole di uno o più modelli, oltre  che dei ricordi e delle cognizioni sue personali) avrà se-  guito soprattutto il suo sentimento artistico, giovandosi  della materia dogmatica nella forma genuina soltanto  nei limiti atti a recare efficacia estetica all' opera sua e  non poco forse aggiungendo, sopprimendo o modificando  di sua propria intenzione; si è riusciti tuttavia a mo-  strare, per esempio, che certe intrusioni nel sistema pi-  tagorico di principii appartenenti ad altri sistemi — come  a quelli di Eraclito e di Empedocle — non sono affatto  imputabili ad Ovidio, ma dovevano già essere avvenute  negli scrittori dai quali egli attinse (2). La sua esposi-     (1) Si vedano in proposito le opere seguenti : Hottingee, De  Pythagora omdiano \ìn Opuseula philologica, Leipzig 1817, pag.  100-107); A. ScHMEKKL, De omdiana Pythagoreae doctrinae adum-  hratione, Gryphiswad, 1885 e Die Philosophie der mìttleren Stoa,  Berlin, 1892, pag. 434, 451, ecc. (dove sono modificate in parte le  conclusioni dell'opera precedente); G. Lafaye, op. cit., cap. X.   (2) Per Eraclito si veda C Pascal, La dottrina pitagorica e la  eraclitea nelle Metamorfosi ovidiane^ Mantova, 1909 ripubblicato  nel volume Scritti varii di Letteratura Latina, 1920, p. 207; e  per Empedocle il volume dello stesso autore Graecia capta ^ Firen-  ze, Le Mounier, 1904, pag. 129-15]. zione del sistema di Pitagora acquista pertanto il valore  di documento storico, in quanto che, supplendo in parte  alla deficienza delle nostre cognizioni m proposito, dovuta  alla perdita delle opere di Yarrone, di Nigidio, dei Sestii,^  ci mostra molto approssimativamente in che consistesse  il neo-pitagorismo romano. L'esame che abbiamo così compiuto della filosofia latina dalle origini fino a tutto il secolo della sua  maggior fioritura ci ha dimostrato non solo che il Pitaorismo e nelle varie età di Roma abbastanza largamente  conosciuto, ma che d'ispirazione pitagorica sono alcune  delle pili eloquenti pagine che quei tempi ci hanno tramandate, come il sogno di Ennio, il sogno di Scipione  e il Canto VI dell' Eneide : sicché dobbiamo concludere  che nelle idee che quel sistema svolse era implicita una  grande e mirabile virtìi di esaltazione poetica ed artistica.  Se riflettiamo d'altra parte che quelle idee esercitarono  notevole influsso nel sorgere delle più antiche istituzioni  romane, e che contro di esse mossero guerra invano l'arte  titanica di Lucrezio, la satira maliziosa di Orazio, la forza  politica di Cesare e di Augusto (nella lotta contro il sodalizio di Nigidio Figulo e la scuola dei Sestii), dobbiamo  tenere per certo che in esse fosse insita una grande forza  di resistenza e quella specie di malìa fascinatrice che suscita le pili alte energie morali. Se le idee tanto piii valgono quanto maggiore è il sentimento che le accompagna  e che le trasforma in forze vive cioè operanti nella vita  degli individui e dei popoli, le concezioni pitagoriche,  venute da sì lontane scaturigini e assurte a così varie,  molteplici, alte manifestazioni d'arte, di pensiero, di moralità nel periodo della civiltà romana, ebbero certo valore  altissimo.   Che se poi, uscendo fuori dai limiti del nostro tema,  pensiamo, alla forza di resistenza che esse mostrarono, al  loro persistere attraverso i secoli e attraverso tante vicis-  situdini del pensiero, ai loro successivo e alterno rina-  scere con sempre rinnovato vigore nei momenti di più  intensa attività spirituale — nella Magna Grecia con Pitagora, in Atene con Platone, in Alessandria coi teosofi  neo-platonici, in Roma con Ennio e con Virgilio, in Costantinopoli con l'imperatore Giuliano, nell'Italia dell'ultimo rinascimento con Giordano Bruno — e se riflettiamo  che oggi ancora esse vivono nell' Oriente asiatico, ope-  ranti con la forza della fede in milioni di coscienze, e  che accennano per diversi segni, in questa nuova prima-  vera dell'idealismo, a risorgere anche nel mondo occidentale, noi possiamo con sicurezza affermare che esse  non furono apparizione fugace ed effimera d'un pensiero  individuale, ma parole di quel linguaggio eterno che sgorga  perenne dalle più profonde radici dell'anima umana.     (1) Si veda, per esempio, tanto per citare un magnifico libro di  scienza, V opera di W. Mackenzie Alle fonti della vita (Genova,  Formiggini, 1912) e la recensione che io ne feci nel Giornale del  Mattino di Bologna.    p: U P H O R B o s.     Rivista Ligure di Scienze , Lettere ed Arti^  a. XXXIX, fase. 2 (marzo-aprile 1912) Genova. La figura di Eùphorbos nell' Iliade. Pitagora rincaraazione  di Eùphorbos. — 3. Altre incarnazioni di Pitagora.     1. — Y'è forse alcuno per il quale, meglio che per  Eùphorbos figlio di Panto, possa ripetersi il famoso ver-  so dell'antico commediografo, che il Leopardi tradusse  « muor giovane colui ch'ai cielo è caro » ? Poiché ve-  ramente fu caro agli dei, se, morto nel fior degli anni  sotto le mura della sua Troja per mano del divino Me-  nelao, dopo aver ferito, primo fra i Trojani, il fortissimo  Patroclo, Eùphorbos ebbe la ventura non solo di una  spiritual vita immortale ne la immortalità dell'Iliade, ma  di lasciare altresì il suo nome, come ora vedremo, legato  per sempre al ricordo di un grande pensiero e di una  più grande vita : al pensiero e alla vi+a di Pitagora.   Fusa nel vivo indistruttibile metallo della poesia d' 0-  mero, la figura dei giovinetto eroe appare, nel racconto  dell' antica gesta, nel momento più acuto dell' azione guer-  resca. Quando, per l' ostinato disdegno di Achille , più  grave è per i Greci il pericolo nella memoranda giornata  del combattimento presso alle navi, Patroclo, indossate le  armi dell'amico e ricondotti i Mirmidoni alla battaglia,   verso l'ora del tramonto si trova coi suoi di fronte ad  Ettore, che Apollo protegge : in tre assalti egli ha uccisi  « tre volte nove » nemici, ma al quarto assalto un colpo  del dio gli ha tolto l'elmo, infranta la lancia, fatto cadere  lo scudo, slacciata la corazza:   II. XVI, 805 Smarrito il cor, fiaccate le valide membra, fermossi  e titubò. Di dietro allor con la punta de l'asta  infra le spalle, al dosso, Io colse da presso un trojano,  il Pantoide Euforbo, che tutti vinceva gli eguali  con la lancia e sul cocchio e al muover degli agili piedi,   810 ed anche allor, venuto appena sul carro, sbalzati  venti nemici avea, di guerra già prode campione.  Primo ei vibrò con 1' asta un colpo su Patroclo auriga ;  ne lo scrollò ; poi corse indietro e tornò ne la mischia,  tratta fuor da le carni la lancia di frassino; incontro   815 Patroclo, ancor che ignudo, ei già non attese a l'assalto (1).  Patroclo allor, stordito dall'urto di Febo e da l'asta,  anco a 1' amiche schiere traeva, fuggendo la morte.  Ma com' Ettore vide dal ferro piagato ritrarsi  Patroclo generoso, il varco s' aprì tra la mischia,   820 presso gli venne e, d'asta vibratogli un colpo, lo giunse  sotto a r addome : fuori n' uscì da l'opposto la punta.  Quei con fragor giù cadde, e grave fu il lutto de' Danai.     (1) I versi 814-815 trovo segnati come spurii nella quinta edi-  zione del DiNDORF, curata dallo Hentze" (Lipsia, 1890), sulla quale  è stata condotta la presente traduzione. Ma non mi pare ohe sia  proprio necessario inquadrare fra parentesi i due versi, così ome-  rici pur nell'apparente disordine dei particolari accennati : prima  la pronta ritirata del giovinetto trojano, poi il trarre dalle carni  di Patroclo 1' asta ; l' idea preponderante per il poeta (cantore in-  nanzi a un pubblico di ascoltatori), dopo accennato 1' ardito colpo  del giovine, è quella del suo rapido sottrarsi alla vendetta di Pa-  troclo ; fermata questa, il poeta si riprende p3r aggiungere an-  cora un particolare descrittivo (lo sforzo dello strappare dalla fe-  rita la lancia) e per rincalzare l'idea della fuga di fronte a Patroclo, Suir eroe atterrato Ettore si vanta e lo schernisce, ma  il caduto ne rintuzza 1' orgoglio, affermando che la vitto-  ria non è stata merito suo, sì degli dei: che lo hanno  ucciso la Moira e il figlio di Latona « e, degli uomini,  Eùphorbos »; e predettagli la fine imminente per mano  d'Achille, muore e rimane supino in mezzo al campo di  battaglia, mentre Ettore insegue Automedonte, che cerca  di portare in salvo il cocchio d'Achille.   A guardia del cadavere di Patroclo si fa innanzi l'A-  tride Menelao, armato di lucido bronzo, tenendo davanti  al morto, in sua difesa, la lancia e il rotondo scudo, fer-  mo d'uccidere chiuncfue osi accostarsi. Ed ecco ancora  Eùphorbos, il cui intervento dà luogo ad uno dei piìi  begli episodi della battaglia :   II. XVII, 9 Pronto di Panto il figlio, esperto nel' asta (1), s'avvide  ch'era atterrato Patroclo, e fattosi subito innanzi     che, pur ferito e spoglio della difesa delle armi, era sempre un  troppo temibile nemico, anche per un più esperto guerriero che  non fosse Eùphorbos. Poiché Omero non ha voluto certo rappresen-  tare questa fuga come atto di viltà ! È tutt'altro che vile il figlio  di Panto, come dimostrerà fra poco nell' impari duello con Mene-  lao. Sicché non mi pare corrispondente né allo spirito né alle pa-  role del testo omerico la traduzione che dà il Monti di questo passo:   Anzi dal corpo ricovrando il ferro   Si fuggi pauroso, e nella turba   Si confuse il fellon, che di Patroclo   Benché piagato e già dell'armi ignudo   Non sostenne la vista. {IL XVI, 1146-1150)   (1) L'epiteto (eummelies) non é certo ozioso : infatti già il poeta  ha detto che Eùphorbos primeggiava fra i coetanei « con la lancia »  (XVI, 809), e che « con l'asta acuta » ha ferito Patroclo (XVI, 806  e XVII, lo), come con l'asta dà un colpo J' ultimo !) nello scudo  di Menelao (XVIi, 43-45).  disse al figlio d'Atreo, al prode guerrier Menelao :  « Menelao, divino germoglio, signor di gran genti,  vanne, abbandona il morto, qui lascia le spoglie cruento (1).  Prima di me nessuno, fra' Teucri o gì' illustri alleati,   15 giunse con 1' asta Patroclo, in mezzo al furor de la mischia:  lascia eh' io m' abbia dunque quest'inclito onor fra' Trojani,  che la dolce vita dal petto ti strappi il mio ferro ».  Bieco d'ira rispose il biondo figliuolo d'Atreo :  « Bello davver, gran Giove, con tanta insolenza vantarsi !   20 Certo mai fu sì grande '1 furor di pantera o leone  di cignal feroce, a cui nel fiorissimo petto  gonfiasi il cor superbo, alter di sua grande possanza,  qual de' figli di Pauto, esperti ne l'asta, è la boria !  Ne ad Iperènor tuo, rettor di cavalli, già valse   25 di giovinezza il fiore, allor che sprezzante affrontommi  e disse me fra' Danai il più dispregevol guerriero !  Or ei non più, te '1 dico, da' suoi propri piedi portato,  ad allietar ritorna la cara consorte e i parenti !  Così la tua baldanza, se pur d'affrontarmi tu ardisci,   30 rintuzzerò. Ma io ancor ti consiglio a ritrarti   dov'è folta la turba. Chi è saggio prevede l'evento ».  Disse così, ma quello ne pur gli die retta e rispose :  « Or, Menelao divino, trar dunque dovrò gran vendetta  pel fratel eh' uccidesti - e ancor tu me '1 dici vantando -   35 e nel segreto talamo tu n'hai vedovata la sposa,  e i genitor nel lutto e in muto cordoglio gittasti !  Oh ! che per me dei miseri avrebbe il cordoglio una tregua,  se la tua testa io stesso e l'armi portandomi in Troja,  fra le man lo gittassi a Panto e a la diva Frontide!   40 Ma non più a lungo, ornai, s' indugi a far prova con l'armi  s' io m' abbia saldo il core o pieno di vile paura ».  Detto così, die un colpo nel tondo perfetto suo scudo,  ma non lo franse il ferro ; bensì gli si torse la punta  nel poderoso usbergo. S' avventa secondo con 1' asta     (1) Le armi di Patroclo, sciolte e fatte cadere dal colpo d'Apollo,  giacevano in terra poco lungi dal cadavere.  l'Atride Menelao, pregato in suo cor Giove padre,   e, mentre quei s' arretra, il coglie a la fossa del collo;  dentro spinge con forza calcando la mano pesante,  e dall'opposto n' esce pel tenero collo la punta.  Cadde, die un tonfo e V armi su lui con fragor risonare ;   50 s' insanguinar le chiome, che simili aveva a le Grazie, (1)  i capelli ricciuti, eh' avvinti eran d'oro e d' argento.  Come talora un florido arbusto d'ulivo si nutre  in solitario loco, allor che molt' acqua vi sgorghi,  bello, pien di rigoglio, e poi, come l' agita il soffio   55 di tutti i venti, un velo di candidi fior lo ricopre, (2;  ma piombando improvviso un vento con turbine grande  dalla fossa lo schianta e a terra disteso lo abbatte;  tale di Panto il figlio, esperto ne l' asta, Eiiforbo  l'Atride Menelao uccise e spogliava de l'armi,   60 Come — allor eh' un robusto leone cresciuto fra' monti *  da pascolante gregge rapì la giovenca più bella,   Cioè ricciute, come dice nel verso seguente, e non bionde^ co-  me ha interpretato alcuno, per es. il Koppen, forse ricordando Pin-  daro Nem>. 5 fine. Le Grazie furono sempre rappresentate con lun-  ghi ricci spioventi sì nelle arti plastiche e figurative, sì nella let-  teratura dei Greci (cfr. Omero, Inno ad Apollo, 194 sg. e Stesicoro,  fr. XIII neìV Antol. della melica greca di A. Taccone). — Si veda  in proposito quello -che scherzosamente Luciano, noi Sogno, fa dire  a Micillo : questi, fra le altre cose dice al suo gallo-Pitagora: « e  « mi sembra che Omero per questo abbia detto le tue chiome si-  « mili alle Grazie, perchè « avvinte eran d'oro e d' argento »: in-  « trecciate infatti con 1' oro e rilucendo con esso apparivano, evi-  « dentemente, molto piiì pregevoli e desiderabili » (XIII).   (2) Accenna forse il poeta coi « soffi di tutti i venti » la sta-  gione di primavera, quando — fra il marzo e 1' aprile — le piante  s' incurvano bensì sotto i venti, ma si rivestono anche della loro  fioritura annuale ; anzi parmi che accenni qui proprio alla prima  fioritura* del bell'arboscello d'ulivo, che poi il primo turbine schian-  ta, cosi come l'asta di Menelao, troncando la vita del giovinet-  to forte ed ardimentoso, fa cadere il serto di fiVite speranze che  già s' intesseva intorno al suo capo. ]  cui la cervice infranse tenendola forte co' denti,  poi, facendola a brani, le viscere ingolla col sangue —  intorno a lui, da lunge, si nnuovon con grande frastuono  65 cani, villan, pastori, ma farglisi presso ad alcuno  non regge il cor, che tutti li fa scolorir la paura;  così Jiessun de' Teucri ha l'alma nel petto sì ardita,  eh' osi affrontar da presso la forza del gran Menelao,   E questi agevolmente porterebbe via le splendide armi  di Eùphorbos, se non glielo impedisse Febo Apollo, il  quale, presentatosi ad Ettore sotto 1' aspetto di Mente, lo  consiglia a desistere dall' inutile inseguimento dei cavalli  d'Achille e ad accorrere invece là dove   or Menelao frattanto, il figlio pugnace d'Atreo,  89 corso a difender Patroclo, uccise il miglior de' Trojani,  il Pantoìde Euforbo e spento n' ha il valido ardire.   Ettore infatti, pronto, si fa largo tra le schiere, vede  r uno che toglie le magnifiche armi, 1' altro disteso in  terra e il sangue che sgorga dalla ferita, irrompe fulmi-  neo con orribili grida, e Menelao, riconosciutolo subito,  non osando da solo tenergli testa, lascia a malincuore il  corpo di Patroclo e si ritira verso i suoi, per chiamare  qualcuno in soccorso. Così egli non ha potuto neppure  portar via con sé sul suo cocchio la preziosa armatura;  della quale tuttavia dovette certo impadronirsi più tardi,  quando i Trojani sconfitti furono costretti a rinchiudersi  entro le mura. E non sarà stato quello il meno glorioso  trofeo di guerra che avrà riportato con se a Micene.   Ma Eùphorbos, morto di così bella morte e glo-  rificato già dalla divina arte d' Omero, non rinacque per  avventura, dopo quattro secoli, a nuova vita e ad opere  non meno belle e gloriose? Poiché alcune antiche testimonianze ci hanno traman-  dato che Pitagora, il celeberrimo fondatore della scuola  italica, l'assertore più famoso della dottrina della metempsi-  cosi, « nel tempio di Hera Argiva, veduto uno scudo di  « bronzo, disse che quello portava e gli era stat^ tolto  « da Menelao quando era Eùphorbos. E degli Argivi,  « staccato lo scudo, vi videro realmente inciso il nome  « d'Eùphorbos ». Così afferma uno scoliaste d'Omero  (//. XVII, 28) e così altri, fra gli antichi scrittori, ricor-  dano accennano la cosa. Chi non rammenta infatti, tanto  per citare i piìi noti, quella famosa ode d'Archita, dove  Orazio afferma appunto, non senza una sottile ironia, che  « il regno dei morti tiene anche il figlio di Panto, sceso  « all'Orco un'altra volta, sebbene, con lo scudo, che fece  « staccare, data testimonianza dei tempi della guerra troja-  « na, non avesse concesso alla nera morte niente più che  « i nervi e la pelle? » (1) Il buon Orazio, tra scettico  ed epicureo, non ebbe evidentemente molta fede nella me-  tempsicosi e si burlò un poco di « Pitagora redivivo! » (2)  Anche Ovidio, che nell' ultimo canto delle Metamorfosi  fa esporre da Pitagora stesso le sue dottrine, lasciò espli-  cito ricordo della tradizione, facendo dire al filosofo :   Ben io — sì lo rammento — nei dì della guerra di Troja  ero il figliuol di Panto, Euforbo, cui stette nel petto     (1) Orazio, Garm. I, 28 vv. 9-13 :   habentque   Tartara Panthoiden iterum Orco  Demissum, quamvis clipeo Trojana refixo   Tempora testatus, nihil ultra  Nervos atque cutem morti concesserat atrae.   (2J Id. Epod. VI, 21: « nec te Pythagorae fallant arcana renati » ]    la grave lancia infissa, per man .del più giovine Atride,   Riconobbi lo scudo, che già la sinistra mia tenne,   or non è molto in Argo nel tempio sacrato di Giuno ». (1)   E ancora due secoli dopo il filosofo neo-platonico Por-  firio^ raccogliendo in una breve biografia molte notizie  intorno a Pitagora, lasciò scritto che questi « ricordava  « a molti di quelli che si recavano da lui la precedente  « vita che 1' anima loro aveva vissuto già un tempo pri-  « ma di essere legata nel corpo d' allora. E di sé stesso  « rivelò con prove indubitabili d'essere stato Euphorbos  « figlio di Panto. E dei versi omerici cantava, accompa-  « gnandosi mirabilmente con la lira, quelli di preferenza:   50 s' insaguinàr le chiome, che simili aveva a le Grazie,  i caj)elli ricciuti, eh' avvinti eran d'oro e d'argento.  Come talora iTn florido arbusto d'ulivo si nutre  in solitario loco, allor che molt' acqua vi sgorghi,  bello, pien di rigoglio, e poi, come 1' agita il soffio   55 di tutti i venti, un velo di candidi fior lo ricopre,   ma piombando improvviso un vento con turbine grand®  dalla fossa lo schianta e a terra disteso lo abbatte ;  tale di Panto il figlio, esperto ne 1' asta, Eiiforbo  r Atride Menelao uccise e spogliava de l'armi.   < Poiché quel che si racconta dello scudo di questo  « Euphorbos frigio, che si trovava in Micene, nel bottino     (1) Ovidio, Metamorph. XV, vv. 160-164:   Ipse ego — nam memini — Trojani tempore belli  Panthoìdes Euphorbus eram, cui pectore quondam  Haesit in adverso gravis basta minoris Atridae.  Cognovi clipeum, laevae gestamina nostrae,  Nuper Abanteis tempio lunonis in Argis,  « trojano dedicato a Giunone Argiva, lo passo sotto si-  « lenzio come cosa ben nota » (1).   La tradizione dunque era assai diffusa Tra gli antichi.  Ora quale ne sarà stata 1' origine? Un'invenzione pura e  semplice ? Potrebbe anche essere; nel qual caso dovrem-  mo evidentemente pensare a qualche discepolo o seguace  del Maestro, il quale, per confermarne meglio la dottrina  della metempsicosi, avesse immaginato di sana pianta la  storiella, cercando poi di accrescerle autorità col farne  autore lo stesso Pitagora. l' invenzione sarebbe nata da  quel che abbiamo udito or ora narrare da Porfirio, che  il filosofo, appassionato lettore d' Omero, recitava e can-  tava spesso i delicati e soavi versi della morte d' Eùphor-  bos ? Anche questo è possibile. Ma a me pare molto più  semplice e forse più ovvio — senza andare vanamente fan-  tasticando in ipotesi — credere senz'altro alla concorde  testimonianza degli antichi. Vi è forse nella cosa alcun-  ché che trascenda i limiti della credibilità e della vero-  simiglianza? Pitagora non credeva davvero alla metempsi-  cosi, e non era anzi questo il pernio della sua psicologia  e della sua morale, e convinzione (non pura ipotesi spe-  culativa) profonda, certa, inoppugnabile sua e dei suoi  seguaci ? Dunque e ben possibile che egli, il quale aveva  virtù taumaturgiche (tanto che nella sua vita il meravi-  glioso, anzi il miracoloso, ebbe gran parte)^ egli, che tante  profonde e misteriose cose aveva imparato nei suoi viaggi  in Egitto e nell' Oriente, esercitando quelle sue pratiche  magiche ai vita, profondando lo spirito in quelle sue me-     (1) PoRPHTRii, Vita Pythagorae^ 26, 27. Così presso Luciano nei  Dialoghi dei morti (20), quando Eaoo presenta Pitagora a Menippo,  questi si rivolge subito a lui con le parole: «Salve, o Eùphorbos ».   ditazioni — così intense, che erano quasi astrazioni dal  corpo ed estasi vere e proprie — , credesse di leggere  nel suo passato la storia della propria anima e ne desse  notizia ~ se non proprio alle turbe — agi' iniziati della  sua scuola, . agi' intimi, ai più perfetti, da qualcuno dei  quali poi la cosa sarà stata divulgata. Insomma per me  r attribuire a Pitagora stesso, anziché allo spirito inven-  tivo di qualche zelante discepolo, 1' accenno alle sue vite  anteriori non ha nulla di inammissibile e di men che  credibile : lo zelo dei seguaci avrà forse potuto aggiunge-  re qualcosa, inventare qualche nuovo particolare o ma-  gari immaginare qualche nuova esistenza, ma l' origine  prima di siffatti racconti si può proprio far risalire allo  stesso Maestro. Il quale dunque potè realmente dire e  naturalmente anche credere — poiché non é ammissibile  la malafede in un uomo di tanta autorità, la cui vita fu  tutta un apostolato di verità e di bene — di essere stato  Eùphorbos.   Ma in tal modo — si potrebbe osservare — se noi  accettiamo per vero quello che 1' antichità concorde ci ha  tramandato, che cioè Pitagora credette e diede a credere di  essere stato il giovinetto figlio di Panto, ne verrebbe di  conseguenza che egli avrebbe anche creduto nella realtà  storica d' Eùphorbos, non già iato dalla feconda fantasia  d' Omero, ma vissuto in carne ed ossa. E che per que-  sto ? Chi mai dei Greci del sesto secolo avanti Cristo —  per non dire di quelli dei secoli posteriori - - non credette  nella realtà della guerra trojana, e dubitò della esistenza  di Agamennone, di Achille, di Menelao, di Ulisse, di  Ettore, di tutta la bella schiera degli eroi dell' Iliade e  dell' Odissea? Né la critica storica demolitrice, né la qui-  stione omerica erano nate ancora, e Federico Augusto Wolf doveva tardare ancora ventiquattro secoli a nascere  e a lanciare pel mondo la stupefacente teutonica mostruo-  sità dei suoi Prolegomeni ad Omero ! Di Pitagora gli ''antichi conobbero anche altre  incarnazioni, anteriori e posteriori. Soggiunge infatti Por-  firio, un poco più innanzi : « Affermava di essere già vis-  « suto precedentemente, dicendo d' essere stato prima Eù-  « phorbos, poi Etàlide, in terzo luogo Ermótimo, poi Pirro  « e allora Pitagora. Con che dimostrava che 1' anima è  « immortale e riesce, in chi sia purificato, a ricordarsi  « dell'antica sua vita » (2). Ma Diogene Laerzio ci ha  conservato in proposito una testimonianza — che risali-  rebbe ad Eraclide Pontico (discepolo di Platone, Speu-  sippo ed Aristotile) — la quale differisce da quella di  Porfirio non solo perchè fa di Eùphorbos la seconda in-  carnazione, essendo stata la prima quella di Etalide, ma  anche perchè riferisce ad Ermótimo (terza incarnazione),  anziché a Pitagora, 1' episodio dello scudo, che sarebbe     (1) Veramente si é incominciato già da qualche tempo ~ anche  in Germania — ad essere un po' meno radicali in fatto di nega-  zioni. E a quel modo che il Beloch, per esempio, ammise come  possibile che « fra gì' innumerevoli eroi venerati nelle diverse parti  del mondo greco ve ne fosse qualcuno che in realtà una volta si  mosse sulla terra in carne ed ossa » (I, p. 121), così il Drerup  {Ornerò^ Bergamo, 1910) afferma d'esser « disposto a vedere in  Agamennone, Menelao, Nestore, Ajace, forse anche in Priamo e  in altre figure dell' epopea, reali persone storiche » (p. 226). Gli  rimangono però gravi dubbi sulla realtà storica della spedizione  contro Troja (p. 231 e seg.).   (2) l. e, 45. Della cosa discussero anche gli scrittori cristiani,  come Tertulliano (de anima 28, 31, 34), Lattanzio {Epit. Instit.  dio. 36), Sant'Agostino {Irinit. XII, 24).   inoltre stato appeso nel tempio di Apollo a Branchidas,  e non a Micene. Ma ecco senz' altro le parole di Laerzio :  « Dice Eraclide Pontico che egli (Pitagora) afPermava di  « se d' esser già stato Etalide e ritenuto figlio di Her-  « raes (1). E che Hermes gli disse di scegliere quel che  « volesse, tranne F immortalità : onde egli chiese il dono  « di conservare da vìvo e da morto il ricordo di tutti  « gli eventi. Che pertanto in vita si ricordava di tutto,  « e dopo che fu morto conservò egualmente la memoria.  « Che in seguito rinacque Euphorbos e fu ferito da Me-  te nelao ; ed Euphorbos diceva d' essere stato un tempo  « Etalide e di aver avuto da Hermes quel dono e ricor-  « dava le trasformazioni dell'anima com'erano avvenute,  « e attraverso quali piante ed animali fosse passata, e  « che cosa l'anima avesse sofferto nell'Ade, e qual sorte  « attenda le altre anime. E che quando Euphorbos morì  « la sua anima passò in Ermòtimo, che alla sua volta,  « volendo dare una prova dell'esser suo, andò a Bran-  « chidas ed entrato nlel tempio d' Apollo mostrò lo scudo  « che Menelao vi aveva appeso, ormai imputridito, re-  « stando solo la parte esterna d'avorio (2). E che quan-     ti) Dobbiamo forse in questa ipotetica discendenza da Hermes,  il dio dei misteri, vedere significata la iniziazione di Pitagora alle  dottrine ermetiche? Mi par probabile; se pure non dobbiamo vedere  in ciò, come noli' altra comune tradizione che faceva di Pitagora  un « figlio d'Apollo », delle espressioni del linguaggio mistico  fraintese.   (2) Pausania, nella descrizione che ci ha lasciata dell' Heraion  di Micene, dice ben chiaro che nel pronao del tempio, a destra,  dov' era la statua della dea, vi era « anche appeso in voto uno  scudo, quello che Menelao già tolse ad Euphorbos in Ilio ». (De-  scriptio Graeciae II, 17, 3). Ora, poiché sappiamo che Pausania  descrive nell' opera sua proprio quel che ha visto coi suoi occhi    « do Erraótimo morì, rinacque Pirro pescatore di Delo ;  « e di nuovo si ricordava tutto : come fosse stato prima  « Etalide, poi Eùpborbos, poi Ermótimo, poi Pirro. E  « che quando Pirro morì, rinacque Pitagora e si ricorda-  « va di tutto quel che s' è detto » (1). Non solo, ma a  sentir Gelilo anzi i due filosofi Clearco e Dicearco — vis-  suti fra il quarto e il terzo secolo avanti Cristo — avreb-  bero lasciato scritto che Pitagora rivisse ancora altre tre  volte, come Pirandro, come Calliclea e finalmente come  una bella etera chiamata Alce (2).   E così r anima d' Eùphorbos, essendo vissuta otto volte-  e avendo sperimentato, chiusa nel carcere corporeo, le  più varie condizioni d' esistenza, sarà essa — dopo aver  compiuto il ciclo assegnatole dal suo proprio destino -—  tornata a dissolversi nel gran mare dell' anima univer-  sale ? (3) o non avrà continuato ancora a vestirsi d'uma-  na carne, indefinitamente, secondo la favola di Luciano?     (tanto che una sua indicazione guidò lo Schhemann alla scoperta  delle famose tombe dei re nel foro di Micene), avrà egli veduto  quell'antichissimo logoro avanzo, o una copia in bronzo fattane  fare di poi, o addirittura un qualunque scudo che i sacerdoti del  tempio vi abbiano appeso in tempi tardivi a ricordo e testimonianza  dell'antica notissima tradizione? Pausania in ogni modo visse  nella 2^ metà del secondo secolo dopo Cristo.   (1) Diogene Laerzio, Vili, 4-5.   (2) Gellio, Noctes Attieae, IV, 11 : «... . Pythagoram vero  « ipsum, sicut celebre est, Euphorbum primum fuisse, dictitasse; ita  « haec remotiora sunt bis, quae Glearchus et Dicaearchus memo-  « riae tradiderunt, fuisse eum postea Pyrandrum, deinde Callicleam,  « deinde feminam pulchra facie meretricem, cui nomen fuerat  « Alce ».   (3) Se, come è probabile, Platone ha desunto dal Pitagorismo i  principii a cui informa la teoria delle pene d' oltretomba nel De  republica (X, 615) — secondo la quale chi aveva commesso ingiu-    « Lungo sarebbe a dire — così parla il suo gallo fìlo-  « sofo (Pitagora redivivo anche questo!) — in qual forma  « r anima mia venisse via da Apollo volando, ed entrasse  « in corpo di uomo, e qual pena sofferisse in tal guisa...  « Mentre eh' io era Eùphorbos combattei a Troja, e quivi  « ucciso da Menelao, dopo qualche tempo ne venni a stare  « in Pitagora ; ma fra 1' un tempo e V altro non ebbi  « casa, aspettando che Mnesarco (1) mi apparecchiasse  « r abitazione.... — Ma quando ti spogliasti di Pitagora  « (domanda Micillo al suo gallo) di che ti vestisti? — Di  « Aspasia, femmina di mondo, di Mileto — . . . — E dopo  « Aspasia qual uomo o qual nuova donna diventasti? —  « Grate, cinico. — figliuolo di Giove, qual differenza!  « Di femmina di mondo, filosofo ! — Poi re, poi un po-  « verello, poi satrapo, poi cavallo, poi gazzera, poi ranoc-  « chio, e mille altre cose che non finirei mai a dirle tutte.  « Ma sopra tutto fui gallo spesso (vita da me sopra le     stizia verso un altro doveva subire dieci volte quella medesima  ingiustizia e occorreva quindi lo spazio di dieci vite per scontare  le colpe della prima — bisognerebbe veramente ammettere (s' in  tende bene, dal punto di vista di Pitagora e della sua dottrina)  almeno altre due vite. — - Per il luogo platonico e le relazioni che  esso può avere avuto con il dogma cristiano della resurrezione si  veda ciò che ha scritto il Pascal nella Rassegna Contemporanea  del dicembre 1911 (ripubblicato in Credenze d'oltretomba^ II, pa-  gina 199).   (1) Padre di Pitagora. Si noti poi che qui Luciano sorvola sul-  le altre note incarnazioni del filosofo. Ma altrove {Vera Historia^  II, 21) egli dice: « In quel tempo appunto ci venne (nella città di  « Soveria nell' isola dei Beati) Pitagora di Samo, che allora aveva  « finita la settima mutazione, vissuto le sette vite, compiuti i sette  « periodi dell'anima, ed aveva d'oro tutto il lato destro. Fu de-  « ciso d' ammetterlo con gli altri beati, ma non si sapeva se chia-  « marlo Pitagora od Euforbo ».  « altre amatissima) servendo ad altri molti, a re, a pove-  « relli, a ricchi uomini; e finalmente vivo in tua compa-  « gnia, facendomi beffe cotidianamente di te, che ti que-  « reli della tua povertà, e piangi e ammiri i ricchi perchè  « non sai i mali che comportano... » (1).   E con l'amabile arguzia lucianea possiamo ben chiu-  dere questa singolare istoria d' Eùphorbos figlio di Panto,  il quale fu veramente molto caro ai celesti.     (1) Luciano, Il Sogno o il Gallo (secondo la traduzione di Ga-  sparo Gozzi). Si legga tutto questo piacevolissimo dialogo. Il no-  stro autore del resto scherza in parecchi altri luoghi su Eùphor-  bos; mi sembra inutile riferirli; basterà vedere un qualunque indice  delle opere di Luciano.  IL SODALIZIO PITAGORICO  DI CROTONE.     Edito dalla ditta Nicola Zanichelli di Bologna. Tradotto  e pubblicato in The Theosophieal Review (Londra) voi. XXXVII,  n. 219-20 (nov.-dic. 1905).     Oggetto del presente studio. -- 2. Origiiae o formazione del So-  dalizio pitagorico. — 3. Carattere e scopi di esso. — 4. Sua du-  rata. — 5. Suo ordinamento. — 6, Natura degl'insegnamenti  che vi si impartivano. — 7. Conclusione.     L — Una tradizione che fu diffusa e concorde nel-  r antichità anche prima dell' apparizione del neo-pitagori-  smo, narra che il filosofo di Samo, dopo aver viaggiato  nelle regioni d' Oriente — in Fenicia, nella Babilonia, in  Caldea, nella Persia, nell' India e in particolare nell' E-  gitto — e ^ver presa quivi conoscenza delle dottrine se-  grete che i saggi ed i sacerdoti vi professavano, proprio  nello stesso tempo in cui fiorivano nella Cina Lao-Tse  (604-520 a. C.) e nell'India Gotamo Buddho (560-480) (1)  venne a Crotone, una delle più fiorenti fra le città della  Magna Grecia, dove, acquistato subito largo seguito di  ammiratori, istituì un celebre Sodalizio. Di questo ap-  punto intendo ora di esporre le origini, la durata e la  costituzione, valendomi delle notizie abbastanza numerose  e particolareggiate, perchè possiamo farcene un' idea esatta.     (1) Cfr. le osservazioni contenute nel cap. I dello studio di G.  De Lorenzo suU' Bidia e il Buddhismo antico (Bari, Laterza, 1904,  22 ediz. 1919).  che ce ne hanflo lasciato, fra gli altri, Diogene Laerzio (1),  Porfirio (2), GiambJico (3), Clemente Alessandrino (4),  nonché, incidentalmente, gli scrittori classici maggiori,  delle quali poi si servirono, in misura piii o meno larga,  con criteri più o meno discutibili, gli storici moderni del-  la filosofia greca in generale e del movimento pitagorico  in particolare, come il Krische (5), lo Chaignet, il Cen-  tofanti, lo Zeller, il Cognetti de Martiis, lo Schuré (6)  ed altri.   2. — Quanto SiìVorigme dell' Istituto, la tradizione con-  corde narra che verso la LXIP Olimpiade (530 a. C.) o  poco dopo (7) Pitagora, giunto a Crotone, forse accom-  pagnato da numerosi discepoli che ve lo seguirono da  Samo (8), cominciò a tenere in pubblico discorsi tali da  conquistare subito la simpatia degli uditori, accorrenti in  gran numero ad ascoltare la sua parola ispirata (9), che     (1) Vitae et placìta clarorum philosophorum 1. YIII e. I.   (2) De vita Pythagorae.   (3) De pythagorica vita.   (4) Stromat. libri, passim.   (5) De soeietatis a Pythagora in urbe Orotoniatarum conditae  scopo politico commentano^ Gotting, 1831.   (6) Les Qrands Initiès, Paris 1902, pp. 267 sgg. Ed. ital. (Bari,  Laterza, 1905). Per gli altri autori v. note a p. 186 e 192.   (7) Variano dal 529 al 540 le date proposte relativamente all' anno  della sua partenza da Samo; la prima data è ammessa dall' Ueberweg,  Qrundr. I, 16, 1' altra è in Bernhardy, Orundr. d. gr. Liti. p.  I, pag. 755. Il Lenormant {La Grande Orèee) sta pel 532. Quanto  all' arrivo in Crotone, il Bernhardy crede che nel 540 Pitagora vi  si trovasse già.   (8) GlAMBL. 29.   (9) V. Porfirio /. e. 20, che riferisce la notizia da Nicomaco e  Cfr. GlAMBL. l. e. 30.  predicava verità non mai udite prima d'allora in quella  regione e da quegli uomini. Accolto con molta deferenza  tanto dal popolo quanto dalla parte aristocratica, che al-  lora aveva nelle mani il governo, per V entusiasmo su-  scitato dalla sua predicazione, fu eretto dai suoi ammira-  tori un ampio edificio in marmo bianco — homakoeion  od uditorio comune (1) — nel quale egli potesse inse-  gnare comodamente le sue dottrine ed essi ridursi a vi-  vere sotto la sua guida. La tradizione, quale la troviamo  presso Giamblìco e presso Porfirio, aggiunge altri parti-  colari: Pitagora, entrato nel ginnasio, avrebbe parlato ai  giovani che vi si trovavano suscitandone l' ammirazione (2),  del che venuti a conoscenza i magistrati e i senatori  avrebbero manifestato il desiderio di sentirlo anch' essi ;  ed egli, venuto dinanzi al Consiglio dei Mille, vi ottenne  tale approvazione da essere invitato a rendere pubblico  il suo insegnamento^ al quale infatti molti accorsero pron-  tamente, mossi dalla fama, subito dilBFusa per tutto il  paese, della grande austerità d' aspetto, della dolce soavità  d'eloquio, della profonda novità di ragionamenti del fo-  restiero. Via via, la sua autorità crebbe in modo che egli  potè esercitare nella città una vera dittatura morale; poi     (1) Si noti che Clemente (Strom. I, lo) lo identifica con quella  che al suo tempo chiamavasi Ecclesia, cioè alla Chiesa cristiana.   (2) V. in Giamblìco op. cit. 37-57 un largo sunto di questo di-  scorso, che ci dà un' idea di quello che fosse l' insegnamento esso-  terico di Pitagora. La diversità notata a questo proposito dallo  Zeller fra il racconto di Giainblico e quello di Porfirio non mi pare  sufficiente per trarne, com' egli fa, l' induzione che il discorso ri-  ferito dal primo non può essere stato preso da Dicearco, citato dal  secondo ; ad ogni modo è fuori di dubbio che Dicearco stesso lo co-  nosceva, se potè dire che conteneva « molte belle cose ».  si allargò, diffondendosi nei paesi vicini della Magna Gre-  cia e nella Sicilia, a Sibari, a Taranto, a Reggio, a Ca-  tania, ad Imera, a Girgenti; dalle colonie greche, dalle  tribù italiche dei Lucani, dei Peucezi, dei Messapii ed  anche da Roma (1) vennero a lui discepoli di ambo' i  sessi ; e piìi celebri legislatori di quelle regioni, Zaleuco,  Caronda, Numa ed altri, l' avrebbero avuto per maestro (2),  sì che per merito suo si sarebbero ristabiliti dovunque  r ordine, la libertà, i costumi e le leggi (3). In questo  modo, dice il Lenormaiit (4), « egli potò giungere a rea-  lizzare l'ideale d'una Magna Grecia composta in unione  nazionale^ sotto l' egemonia di Crotone, non ostante la  diffeirenza di razze degli Elleni italioti » ; il che peraltro  ò inesatto, poiché, come vedremo, l'intendimento di Pi-  tagora nella sua azione e nella sua predicazione non fu  politico nazionale, ma essenzialmente umano. Forse, ag-  giunge un altro scrittore (5), non fu estranea all'acco-  glienza avuta dal filosofo ed al successo da lui riportato,  una persona con la quale egli doveva essersi trovato in  rapporto quand'era a Samo, cioè il celebre medico ero-  tonese Democede. Ma senza dubbio, più che a conoscenze  personali, l'approvazione ottenuta da Pitagora in Crotone  e l'entusiasmo da lui suscitato in tutta la Magna Grecia     (1) DiOG. VITI, 15; PoEF. 22 ecc.   (2) V. Seneca, 90, 6 che cita Posidonio ; Diog. Vili, 16; Forf.  21 ; GiAMBL. 33, 104, 130, 172; Eliano, Var. Hist. Ili, 17 ; Diod.  XII, 20.   (3) V. DioG. Vili, 3; Porf. 21 sg , 54; Giambl. 33, 50, 132,  214; Cic. Tusc. V, 4, 10; Diod, ìragm. p. 554; Giustino XX, 4;  Dione Crisost. or. 49, p. 249 ; Plut. c. princ. philos. I, 11, p. 776.   (4) Op. ciL, V. I, p. 75,   (5) Cognetti De Martiis, Socialismo antico^ (Torino, 1889Ì p. 465.  furono piuttosto l'effetto da un lato delle virtù intrinse-  che delle sue dottrine e del suo insegnamento, e dall' al-  tro della disposizione e attitudine di quelle genti a in-  tenderlo ed apprezzarlo. Poiché il misticismo ed ogni  moto idealistico trovò sempre fra loro un generale e pron-  to assenso e un gran numero di seguaci, sia nei tempi  più antichi, sia durante il medio evo e nell' età moder-  na (1). In queste attitudini dei popoli del mezzogiorno  sta la ragione del rapido diffondersi delle dottrine pita-  goriche, che furono accettate quasi universalmente : tanto  che molti (2), i migliori per intelligenza e per elevatezza  morale, presi d'ammirazione per la profonda scienza del  Maestro, si accostarono a lui, e, desiderosi di penetrare  più addentro nella conoscenza del suo sistema filosofico,  di cui intravvidero ed intuirono la vastità e la compren-  sione, si ridussero a poco a poco a vivere con lui, atti-  rati nella sua orbita d'azione e di pensiero da quella  spontanea simpatia che hanno sempre esercitato sugli al-  tri tutti i grandi apostoli dell' umanità.   Così fu formato il Sodalizio, del quale fu poi aperto     (1) Così p. es. l'idea religiosa di cui si fece poi paladino e ca-  valiere S. Francesco, partì appunto dalla Calabria, con l'abate Gioac-  chino da Fiore (V. Tocco L'Eresia nel M. E.^ lib. li, eie II).  Del resto il Pitagorismo si mantenne sempre vivo nell' Italia Me-  ridionale, (di dove penetrò in Roma con Ennio) e vi sorse a nuovo splendore nei sec. XYI e XVII con la Scuola di Bernardino  Telesio, dalla quale uscirono, fra gli altri, il Campanella e il Bru-  no— Cfr. David Levi, Giordano Bruno^ Torino, 1888 pp. 124 sgg.   (2) Porfirio op. cit.^ 20 sgg., racconta che più di duemila cit-  tadini con le mogli e i figli si raccolsero nell' Homakoeion e vis-  sero mettendo in comune i loro beni e reggendosi con statuti dati  loro dal filosofo, che veneravano come un Dio.   l'accesso a tutti i buoni — uomini e donne (1) — : e alla  sua filosofica famiglia il Maestro diede quel medesimo or-  dinamento che aveva forse visto attuato nelle scuole del-  l' Oriente e dell' Egitto, nelle quali come s' è accennato,  egli aveva probabilmente preso conoscenza dei Misteri.  L'istituto divenne ad un tempo un collegio d'educazione,  un'accademia scientifica e una piccola città modello, sot-  to la direzione d' un grande iniziato ; e per mezzo della  teoria accompagnata dalla pratica, delle sciq^ze unite alle  arti, vi si giungeva lentamente a quella scienza delle  scienze, a queir armonia magica dell' anima e dell' intel-  letto con l'universo, che i Pitagorici consideravano come  l'arcano della filosofia e della religione. La scuola pita-  gorica ha perciò un'importanza assai grande, perchè fu  il piti notevole tentativo d' iniziazione laica : sintesi an-  ticipata dell' ellenismo e del cristianesimo, essa innestò il  frutto della scienza sull'albero della vita, e conobbe quin-  di quell'attuazione interna e viva della verità che sola  può dare la fede profonda; attuazione efiìmera, ma d'im-  portanza capitale, perchè ebbe la fecondità dell' esempio (2).   3. — Secondo che fu data maggiore importanza all'uno  all'altro degli elementi costitutivi della dottrina pita-  gorica alle forme e agli effetti esteriori di essa, diverso     (1) Sulle donne pitagoriche sarebbe opportuno e desiderabile uno  studio, che darebbe certo gran luce su molti fatti. Ad esse era  impartito un insegnamento particolare ed avevano iniziazioni pa-  rallele, adattate ai doveri del loro sesso. Giamblioo, op. eit. 267,  dà i nomi di 17, tutte chiarissime— -Cìt. ihid. 30, 54, 132; Dioo.  Vili, 41 sg. ; PoRF. i9 sg. ecc. —V. anche Schure, op. cit. pa-  gine 379 sgg.   (2) ScHURÈ op. cit. p. 314.  e il criterio che gli studiosi portarono nel giudicare per  quali intendimenti il filosofo avesse voluto creare questo  Sodalizio.   Alcuni non ne videro che l'intento politico; così, se-  condo il Krische, « la società ebbe meramente lo scopo  di restaurare, consolidare e. accrescere il potere decaduto  degli ottimati e, subordinati a questo, due altri scopi, uno  morale e l'altro di coltura: di rendere cioè i suoi mem-  bri buoni ed onesti, affinchè, se fossero chiamati al reg-  gimento della cosa pubblica, non abusassero del loro po-  tere con l'opprimere la plebe, e questa comprendendo  che si provvedeva al suo benessere, stesse contenta al  suo stato ; e di far studiare la filosofia a coloro che si  accingessero al governo dello Stato, perchè non si può  aspettare un governo buono e sapiente se non da chi sia  colto ed erudito » (1). Ora quanto sia incompiuta ed im-  perfetta questa opinione del Krische apparirà dal seguito  del nostro studio. Gli intenti del riformatore non furono  politici soltanto, ma anche morali, filosofici e religiosi ;  né il suo insegnamento voleva mirare solo a Crotone, o  alla Magna Grecia, sibbene ^Wuomo in generale ; il con-  tenuto politico che esso poteva avere era quindi appena una  parte, e neppure la principale, di un larghissimo sistema  scientifico e filosofico, che abbracciava tutto lo scibile.  Altrimenti, nota giustamente lo Zeller, non si spieghe-     (1) l. e. p 101 — Cfr. il giudizio del Meinees, Hist. d. scienc.  etc. V. II, p. ]85 e quello molto strano del Mommsen, St. di Roma  antica^ Roma-Torino 1903, v. I, p. 124 sg. : « Siffatte tendenze  « oligarchiche informavano la lega solidaria degli « Amici » (?),  « fregiata del nome di Pitagora ; essa ingiungeva di venerare la  « classe dominatrice come divina, di trattare come bestie quei  « della classe servile ecc. » !  rebbe l' indirizzo fisico e matematico della scienza pitago-  rica, e il fatto che le testimonianze piti antiche intorno  a Pitagora ci mostrano in lui più che l'uomo di Stato,  il teurgo, il profeta, il sapiente e il riformatore morale (1).  In realtà egli mirava ad elevare nello spirito e nei costu-  mi i suoi discepoli, sia impartendo loro una cultura e  una scienza univ ersale, sia facendo ad essi praticare la  più rigorosa disciplina dell'animo e delle passioni. Con  questo egli otteneva anche lo scopo, eminentemente civile  e umanitario, di migliorare via via sempre più facilmente  e largamente i cittadini e gli uomini tutti, poiché ogni  discepolo portava poi necessariamente fuori della scuola,  nella sua vita domestica € pubblica, la moralità e la dot-  trina in quella acquistata, diffondendola con la parola e  con l'esempio tra i famigliari, i parenti, gli amici. E in  conseguenza di ciò dovette compiersi a poco a poco un  mutamento anche nel governo della città, per il fatto  che i primi ad approfittare e a .far tesoro delle nuove  dottrine essendo stati probabilmente gli ottimati, questi  direttamente, se ne facevano parte, o indirettamente,  se erano privati cittadini, dovettero portare nel governo  un nuovo indirizzo razionale e una più rigorosa moralità.  L' alleanza quindi fra il Pitagorismo e l'aristocrazia, come  osserva ancora lo Zeller, fu non la ragione, ma l'effetto  dell'indirizzo generale della scuola che chiamava a sé i  migliori ; e se la tradizione ci rappresenta il Sodalizio co-  me un' associazione politica, ciò è vero a patto che non  vogliamo anche affermare che il suo indirizzo religioso,  etico e scientifico sia stato una conseguenza della posi-     ci) V. Eraclito pr. Dioc. Vili, 6; Erodoto IV, 95 — Zeller, D.  PhiL d, Oriech. P p. 328.  zione che i pitagorici presero nel campo politico ; perchè  invece fu proprio il contrario.   Assai diversamente giudicò la natura della società pi-  tagorica il Grote (1), che la disse di carattere religioso  ed esclusivo, e ad un tempo attivo e spadroneggiante,  poiché i suoi membri attivi avevano appunto 1' ufficio di  influire nel governo e sul governo, mentre i contempla-  tivi attendevano agli studi; proprio come nella organizza-  zione dei Gesuiti coi quali, dice, i Pitagorici presentano  una notevole somiglianza. Secondo lui insomma i seguaci  del filosofo non furono che « un privato e scelto nucleo  d'uomini, di fratelli^ che abbracciarono le fantasie reli-  giose del Maestro, il suo canone etico, i suoi germi (? !)  d' una idea scientifica e manifestarono la loro adesione  con particolari osservanze e riti ». In tutto questo vi è  appena qualche ombra di vero; 1' esagerazione ha tolto la  mano all'autore. Il concetto religioso ci fu senza dubbio  in Pitagora, esso costituiva anzi il pernio di tutto l' in-  segnamento esoterico, e il punto di partenza della mera-  vigliosa dottrina dei numeri che lo simboleggiava; ma non  si trattò punto di fantasie più o meno strane e irrazio-  nali ch'egli volesse dare ad ii\ tendere ai suoi seguaci, sì  bene di quella stessa dottrina religiosa che in Egitto, in  Oriente e in Grecia si insegnava nei Misteri e nelle scuole  filosofiche, unica nella sua sostanza — benché diversa  nelle forme e nei simboli esteriori — perché dovunque  derivata dalla stessa tradizione, e, per quanto mistica,  fondata tuttavia saldamente sopra una verace e controlla-  bile esperienza. Il paragonare poi il sodalizio stesso alla     (] ) Hist. of. Oreeee^ T. IV, p. 544; cfr. Ritter, Oeseh. d, Phi-  los, I, p. 365 sgg.     192     setta gesuitica, è un errore, che dimostra in chi ha po-  tuto fare simile raffronto ben poca penetrazione nello spi-  rito che informava quell' antichissimo istituto ; è un giu-  dicarlo dalle sole apparenze esteriori, un disconoscerne  gì' intenti non settarii, ma plrofondamente umani, uno svi-  sare infine l'opera di uno dei pili grandi pensatori e apo-  stoli che r umanità abbia avuto.   Più vicino al vero è il giudizio del Lenormant, in quan-  to egli seppe vedere sotto le fo'^m^ della religione l' in-  tendimento morale di Pitagora (1); ma ancora più giusto  e compiuto, perchè rispondente a tutti i dati di fatto la-  sciatici dalla tradizione, è quello che del Sodalizio diede  uno storico italiano, il Centofanti, col definirlo una So-  « ci età modello, la quale, se intendeva a migliorare le  « condizioni della civiltà comune e aspirava ad occupare  « una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa  « pubblica, coltivava ancora le scienze, aveva uno scopo  « morale e religioso e promoveva ogni buona arte a per-  « fezionamento del vivere secondo un' idea tanto larga  « quanto è la virtualità delV umana natura » (2). Con  lui si accordarono press' a poco lo Chaignet (3) e lo Zel-  ler (4), per il quale la scuola si distingueva da tutte le  associazioni analoghe « per il suo indirizzo morale » pog-  giato su motivi religiosi or guidato da sani metodi d'edu-  cazione e di istruzione scientifica. Il Duncker quindi scris-  se con molta verità che Pitagora fu « non solo il Maestro  « d' una nuova sapienza, ma altresì il predicatore di una     (1) Op. Git. l, p. 83.   (2) Studi sopra Pitagora, nel voi. La Letteratura greca (Fi-  renze, Le Monnier), Opere^ p. 401 sg.   (3) Pythagore et la philos. pythag. I, p. 98.   (4) Die Philos. der Orieehen V" p. 328.    « nuova vita, il fondatore di un culto nuovo e il bandi-  « tore d' una nuova fede » (1). Soltanto tale novità , va  intesa come relativa ai luoghi e ai tempi ; poiché, come  ho detto sopra, il fondo esoterico della dottrina aveva ori-  gini assai remote.   Se tale era dunque l' intento della Società pita-  gorica, se al di sopra di ogni altra considerazione il grande  di Samo pose quella di riformare interiormente gli uomini  e con ciò di modificare anche — necessariamente — le  condizioni esterne della vita individuale e sociale, se egli  mirò a costituire una religione fondata sul sentimento in-  teriore e non sulle pratiche esterne del culto, alle quali  ben raramente ed in pochi corrisponde un'adeguata cono-  scenza e persuasione, e che perciò acquistano un valore  di mera superstizione e di vuoto formalismo dogmatico,  era troppo naturale che la nuova istituzione dovesse su-  scitare i timori degli elementi conservatori della società  crotouese ed italiota, e sopra tutto le ire di quegli ari-  stocratici ignoranti che ne erano stati esclusi per deficien-  za intellettuale e morale, e dei sacerdoti che vedevano  allontanarsi dalla religione tradizionale e quindi sfuggire  al loro dominio tanta parte — la parte migliore — della  gioventìi. E le calunnie che tutti costoro seppero sparge-  re, dovevano purtroppo trovare, come sempre, facile cre-  dulità nel volgo e pronto aiuto in tutti coloro che dalle  nuove idee vedevano lesi o minacciati i loro interessi per-  sonali; tanto pili che — come accade in ogni nuovo mo-  vimento d'idee che tocchi e trasformi l'assetto politi-  co e sociale, — delle incertezze, degli errori, delle de-     (5) Qeseh. d, Alter. VI, p. 636.   13.   bolezze, della violenza partigiana di qualcuno fra gli adepti  e fautori della Società avranno ben tosto cercato di trarre  partito, mettendole in rilievo, gli avversari delle nuove  dottrine. Ma di questo noTi è fatto ricordo da nessun au-  tore. È fatto invoce espresso ricordo di un tal Cilene,  aristocratico, che per la sua crassa ignoranza e per la sua  inettitudine non potè essere ammesso a far parte del So-  dalizio interno, e che « pien d' ira e di corruccio » co-  minciò a brigare fra i malcontenti, a spargere voci calun-  niose, a mettere in cattiva luce le cerimonie e 1' azione  segreta della Società, continuando la lotta con quell'a-  sprezza e quella tenacia che gli veniva dall'orgoglio gra-  vemente offeso e dalla certezza di essere spalleggiato da  molti. Egli in questo modo, favorito com' era anche dalla  sua elevata condizione sociale e dalle idee democratiche,  allora penetrate nella Magna Gi'ecia da cui seppe abil-  mente trarre vantaggio, potò creare nel Consiglio Sovrano  dei Mille una forte opposizione, che, allargandosi e diffon-  dendosi fra il popolo, facilmente ingannato dalle apparen-  ze esteriori sotto alle quali non vedeva altro che mistero,  dette poi luogo ad una vera e propria sommossa contro  il filosofo ed i suoi seguaci. Così che, se  il moto fu effettivamente moto di popolo contro il reggi-  mento arivStocratico, l'ispirazione tuttavia venne dalla parte  meno buona dell' aristocrazia e dal sacerdozio ufficiale (1).  Un decreto di proscrizione bandì senz' altro Pitagora, die,  dopo aver cercato invano ospitalità a Caulonia ed a Locri,  fu accolto in Metaponto, dove morì non molto tempo do-  po ; ed una fiera persecuzione fu iniziata contro i pitago- V. in proposito ciò che dice con molta verità il Centofanti,  op. cit. p. 4l6 sgg.   rici, parte uccisi e parte cacciati anch' essi in bando e  profughi nelle terre vicine.   La durata del Sodalizio fu dunque assai breve, di non  pili che quarant' anni ; tuttavia 1' efficacia dell' insegna-  mento pitagorico durò per lungo tempo attraverso i se-  coli (1) e la sua fiamma non si spense mai, conservata  religiosamente e religiosamente trasmessa di generazione  in generazione dagli eletti a cui fu affidato via via il sa-  cro deposito (2) ; cosicché il fondo delle dottrine esoteri-  che si mantenne, e i tempi successivi in grande o in pic-  cola parte poterono conoscerle. Nel sodalizio si distinguevano due classi di adepti;  quella degli ammessi ad un grado di iniziazione (disce-  poli genuini o famigliari) e quella dei novizi o semplici  uditori (acustici o pitagoristi); ai primi, distinti alla loro  volta in varie classi, forse in corrispondenza coi diversi  gradi, (pitagorici, pitagorei, fisici, matematici, sebastici) e  discepoli diretti del Maestro, era fatto l'insegnamento eso-  terico segreto; gli altri potevano assistere solo alle le-  ziorìi esoteriche, di contenuto esr^enzialmente morale (3), e     (1) AmsTOTiLE ci fa sapere (Polii. V, lO) che \q sissitie italiche,  anteriori a tutte le altre, duravano tuttavia nel suo secolo; certo  per la congiunzione loro coi posteriori istituti pitagorici. V. Cen-  TOFANTi, op. ni. p. 383 e cfr. Cognetti De Martiis, op. cit. p. 466.   (2.) Il Pitagorismo appare nel mondo romano e noli' Italia me-  dioevalo e moderna in tutti i periodi di risorgimento filosofico. La  repubblica utopistica di Platone come quella del Campanella ripro-  ducono molto da vicino l' ideale di vita che fu realmente praticato  neir istituto Crotonese.   !3; V. Clem. Stromat. V. 575 D ; Ippol. Eefut. I, 2, p. 8, 14 ;  PoRF. 37 ; GiAMBL. 72, 80 sg., 87 sg.; Gell. I, 9, Cfr. anche Yil-  LOisoN, Anecd. II, 216. - Secondo uno scrittore dal quale attinse     19t)     non erano ammessi alla presenza di Pitagora, ma, come  dice la tradizione, lo sentivano, talvolta, parlare da die-  tro un velario che lo nascondeva ai loro occhi.   Prima di ottenere l'ammissione non solo ai gradi d'i-  niziazione, ma anche al noviziato, bisognava subire prove  ed esami rigorosissimi, poiché, diceva Pitagora, « non  ogni legno era adatto per farne un Mercurio »; anzitut-  to, come ci narra Aulo Gelilo (1), un esame fisionomico  che attestasse della buona disposizione morale e delle  attitudini intellettuali del candidato (2); se questo esame  era favorevole e se le informazioni procurate intorno alla  moralità e vita anteriore erano soddisfacenti, egli era  ammesso senz'altro e gli era prescritto un determinato  periodo di silenzio (echemythia), che variava, secondo gli  individui, dai due ai cinque anni, durante i quali non  gli era lecito che di ascoltare ciò che era detto da altri,  senza mai chiedere spiegazioni nò fare osservazioni. In  questo come nel lungo meditare e nella piìi rigorosa e  severa disciplina delle passioni e dei desideri praticata  per mezzo di prove assai difficili, prese dall'iniziazione  egiziana, consisteva il noviziato (parashevé). a cui erano     Fozio (Cod. 349), gh adepti erano distinti in Sebastici, politici,  matematici, Pitagorici, Pitagorei e pitagoristi ;. e lo stesso scrittore  aggiunge che i discepoli diretti di Pitagora erano chiamati pitago-  rici, i discepoli di questi pitagorei e i discepoh essoterici o novizi  pitagoristi. Dal che il Roeth (II, pag. 455 sg., 756 sg., 823 sg.,  966; b 104) deduce che i membri della piccola scuola pitagorica  erano chiamati pitagorici e quelli della grande pitagorei ; ed a ra-  gione, purché non si identifichino questi ultimi con i pitagoristi o  discepoli essoterici, ma bensì si considerino come gh iniziati di pri-  mo grado.   (1) Noci. Att. I, 9.   (2) OmaiNE fa Pitagora inventore della « fisionomica ».  sottoposti gli acustici. Costoro appena avevano imparato,  col lungo tirocinio, le due cose piti difficili, cioè l'ascol-  tare e il tacer e, erano ammessi fra i matematici (1) e  allora soltanto potevano parlare e domandare, ed anche  scrivere su ciò che avevano udito, esprimendo liberamen-  te la loro opinione. Nel tempo stesso che imparavano ad  accrescere la potenza delle loro facoltà psichiche, la loro  sapienza si faceva a grado a grado più elevata e più va-  sta, sino a giungere all'intelligenza deìV Essere assoluto,  immanente neil' universo e nell' uomo : chi arrivava a  questa che era la più alta cima della speculazione filo-  sofica, e che segnava la fine di tutto l' insegnamento eso-  terico, otteneva il titolo corrispondente a questa inizia-  zione epoptica, cioè il titolo di perfetto (teleìos) e di ve  nerahile (sehastikós) ; oppure chiamavasi per eccellenza  nomo.   L' obbligo essenziale che si imponeva agli adepti era  quello del silenzio (2) e della segretezza verso gli altri,  senza eccezione per parenti o per amici. Tanto che per-  sino i già iniziati, se avessero lasciato trapelare qualche  cosa agli estranei, erano espulsi come indegni di appar-  tenere alla Società e considerati come morti dagli altri  confratelli, che innalzavano ad essi nell' interno dell' isti-     (Ij Così chiamati dalle discipline che professavano, cioè la geo-  tnetria^ la gnomonica, la medicina^ la musica ed altre d' ordine  superiore, per mezzo delle quali si elevavano alle più sublimi ed  eccelse vette della scienza umana e divina. - Sulla medicina v. E-  LiANO, Var. Hist. IX, 22.   (2) V. Tauro pr. Gellio, L e; Diog. Vili, 10; Apul. Fior. II,  15; Clem. Strom. V, 580 A; Ippol. Refut. I, 2, p. 8, 14; Giamel.  71 sg., 94; cfr. 21 sg.; Filop. De an. D 5 b; Luciano, Vii. auct.  3; Plut, De curios. p. 309.  tuto un cenoiafio (1). È rimasta famosa e proverbiale  quindi la fermezza con la quale i Pitagorici sapevano cu-  stodire il segreto su tutto ciò che riguardava la scuola (2).  Allo stesso modo era considerato come morto chi, pur  avendo dato buone speranze di sé e della sua elevatezza  spirituale, finiva col mostrarsi inferiore al concetto che  aveva fatto nascere dalla sua capacità. Tali casi però, ò  bene notarlo, dovettero essere assai rari, poiché la lun-  ghezza del tempo di prova che precedeva il passaggio da  un grado a un altro aveva appunto lo scopo di rendere  impossibili o di limitare al minimo gl'inganni e le de-  lusioni.   L'essere stato accolto fra i novizi ed anche la ricevuta  iniziazione non obbliga^^a per nulla alla vita cenobitica.  Molti anzi, o per la loro condizione sociale o perchè non  sapessero rinunziare interamente al mondo o per altre     (1) A questo proposito sappiamo da Clemente (^S^row. V, 574 D),  che riferisce una tradizione ben nota, come Ipparco, a causa ap-  punto dell' avere fatto conoscere la dottrina segreta del Maestro  con un suo famoso scritto in tre libri, del quale ci parlano anche  Diogene Laerzio (VITI, lo) e Giamblico (199), fu cacciato dalla  Scuola. Cfr. Oeigune, Cantra Celsurn III, p. 142 e II, p. 67 Can-  tab,; GiAMBL. 17; Th. Canterus, Var. Leet. I, 2.   (2) V. Plut. Numa^ 22; Aristocle p. Edseb. pr. ev. XI, 3, 1;  PSEUDO Liside pr. GiAMBL. 75 sg. e Diog. VIII 42; Giambl. 226 sg.,  246 sg. (ViLLOisoN, Aneed. II, p. 216); Porf. 58; un anonimo pr.  Menagio in DioG. VIII, 50. Cfr. Platon., jS'p. II, 314, l'afferma-  zione di Neante su Empedocle e Filolao, e il racconto dello stesso  scrittore e di Ippoboto (pr. Giambl. 189 sg.) secondo il quale Myl-  lia e Timycha sopportarono i più crudeli tormenti e 1' ultima si  tagliò la lingua, piuttosto che rivelare a Dionigi il vecchio la ra-  gione dell'astinenza dallo fave. Così Timeo (pr. Diog. Vili, 54) af-  ferma che Empedocle e Platone furono esclusi dall' insegnamento  pitagorico, perchè accusati di « logoklopia ».   ragioni, continuavano la loro vita ordinaria, che natural-  mente informavano ai principii morali e alle conoscenze  acquisite, diffondendo così con la pratica e con la parola  il bene a cui l'insegnamento appunto mirava. Erano  questi i membri attivi^ di cui ci parlano alcune testimo-  nianze; gli altri invece, gli speculativi^ vivevano sempre  nell'Istituto, dove, in perfetto accordo con tutte le altre  pratiche e leggi dell'Istituto stesso, le quali miravano so-  pratutto a far scomparire ogni forma di egoismo e di  orgoglio individuale, era praticata un'assoluta comunione  di beni. E non è poi così strano da doversene negare la  verità (1), che uomini dati a speculazioni filosofiche e re-  ligiose e a pratiche morali, e che vivevano insieme' per  uno scopo unico, mettessero in comune i loro beni, per  il vantaggio dell'insegnamento e per la diffusione delle  loro idee. Che cosa poteva trattenere i discepoli interni^  non legati più dai vincoli del mondo, da questa comu-  nione di beni ? E quanto agli esterni, non è naturale  pensare che, per la virtù della fratellanza e dell'amore  acquistata nel comune insegnamento, ciascuno mettesse  spontaneamente tutte le sue sostanze, anzi tutto se me-     (1) Secondo lo Zeller lo testimonianze di Epicuro (o Diocle) pr.  Diog. X, Il e di TiMKO di Taurom. ibid.^ Vili, 10) che fu anche,  secondo Fozio (Lex. y. v. Koinà) introdurre da Pitagora la comu-  nità dei beni fra gli abitanti della Magna Grecia sono troppo re-  centi. Ma cfr. anche gli Schol. in Fiat. Phaedr. p. 312 Bekk., e  le testimonianze che troviamo in Dioo. VILI, IO; Gell. I, 9; Ippol.  Refut. I, 2 p. 12; Porf. 20; Giamrl. 30, 72, 168, 257 ecc. — Il  Krische {l. e. p. 27) crede che fonte di questa tradizione sia stata  una falsa (?) interpretazione della nota massima « le cose degli  amici sono comuni »; il che mi pare ben poco fondato, se si pensi  che non è neppur corto che questa massima appartenesse in modo  particolare ai pitagorici (Aristot. FAh. Nic. IX, 8, 1168 b 0).   desimo a disposizione dei suoi confratelli ? (1). Ed infatti  noi sappiamo che i Pitagorici usavano particolari segni  di riconoscimento (2) ~ come il pentagono (3) e lo gno-  mone (4), incisi sulle loro tessere, e la forma caratteri-  stica del saluto (5) — dei quali dovevano servirsi sia per  conoscersi ed aiutarsi subito a vicenda nei loro bisogni  sia per essere accolti, fuori di Crotone, dagli adepti di  altre scuole consimili, numerose così nella Magna Grecia  come nella Grecia e nell'Oriente (6).   La vita che si conduceva nell' istituto da quei disce-  poli che vi rimanevano in permanenza ci e sufficiente-  mente nota per le narrazioni dei neo-pitagorici e per le  notizie sparse qua e là nelle opere dei più antichi autori.  Tutto era ordinato con norme precise che nessuno tra-  sgrediva mai (7); il che si intende facilmente, se si pen-  si che ognuna di esse aveva la sua giustificazione razionale e che, salvo alcune rigorosamente prescritte, erano     (1) V. DioD. Siculo Exeerpt. Val. Wess. p. 554; Diog. Vili, 21.   (2) GiAMBL. 238.   ^3) V. gU Sckol, alle Nuvole di Aristofane 611, I, 249 Dind.   (4) Krische l. e. p. 44.   (5) Luciano, De Salut.^ e. 5.   (6) Per questo, e forse per altre analogie (come quella delle a-  dunanze notturne di cui ci parla Diog. VIII, 15) si è paragonato  da alcuno l' Istituto pitagorico con altre società segrete dei nostri  tempi. V. su questo proposito un cenno fuggevole nel Dici, de  biogr. génér.^ Firmin-Didot, Paris, 1862, t. 41, col. 243-244: « Les  souvenirs de collège formaient sans doute pour les pythagoriciens  ce lien sacre qu' on a depuis voulu assimiler à je ne sais quelle  société de Roseeroix ou de Francs-ma^ons ».   (7) PoBF. 20, 22 sg. che cita Nicomaco e Diogene (autore d' un  libro sui prodigi); Giambl. 68 sg., 96 sg., 165, 256.   date più in forma di redola o di consiglio, che di vero  e proprio comando (1).   Di buon mattino, dopo Ja levata del sole, i cenobiti  si alzavano e passeggiavano per luoghi tranquilli e silen-  ziosi, fra templi e boschetti, senza parlare ad alcuno pri-  ma di avere ben disposto il loro animo con la medita-  zione ed il raccoglimento. Poi si adunavano nei templi  in luoghi simili, ad imparare e ad insegnare — poi-  ché ciascuno era e maestro e discepolo (2) — e pratica-  vano continuamente particolari esercizi per acquistare la  padronanza delle passioni e il dominio dei sensi, svilup-  pando in modo speciale la volontà e la memoria e le fa-  coltà superiori e più riposte dello spirito. Non si trat-  tava peraltro né di mortificazione della carne e rinun-  zia forzata ed obbligatoria ai piaceri normali delia vita,  ne di altre simili aberrazioni fratesche e conventuali: Pi-  tagora voleva soltanto che ognuno si mettesse in grado  di assoggettare il corpo allo spirito, per modo che que-  sto fosse libero nelle sue operazioni e nel suo svolgi-  mento interiore : ma il corpo doveva essere mantenuto  sano e bello, perchè in esso lo spirito avesse uno stru-  mento perfetto quant' er : possibile : onde gli esercizi gin-  nastici d' ogni genere fatti ali' aria aperta, e le prescri-  zioni minuziose intorno all' igiene e specialmente ai cibi  e alle bevande. In generale i pasti erano assai parchi,    Il rispetto alia libertà individuale era una delle caratteristi-  che, e forse la più bella del metodo pedagogico pitagoreo. V. su  tale metodo F. Cramek, Pythag. quomodo educaverit atque insti-  siuerit (1833).   Anche questa era una sapiente e razionale disposizione, abi-  tuando i discepoli alla virtù attiva. ridotti al puro necessario, eJiminaudo tutto ciò che potes-  se offuscare la serena funzione dello spirito ed aggravare  inutiluiente lo stomaco. Pane e miele al mattino, erbe  cotte e crude, poca carne e solo di determinate qualità  ed animali, raramente il pesce e pochissimo vino la sera  durantB il secondo pasto (1), il quale doveva essere ter-  minato prima del tramonto, ed era preceduto da passeg-  giate, non pili solitarie, ma a gruppi di due o tre,  e dal  bagno. Terminato il pranzo, i commensali, riuniti intorno  alle tavole in numero di dieci o meno, si trattenevano a  discorrere piacevolmente, a leggere ciò che il più anzia-  no prescriveva, di poesia e di prosa, e ad ascoltare della  buona musica che disponeva gli animi alla gioia e ad  una dolce armonia interiore. Poiché « la musica, onde  tutte le parti del corpo sono composte a costante unità  di vigore, è anche un metodo' d'igiene intellettuale e mo-  rale, e però compieva i suoi effetti nell'anima perfetta-     I     (1) La tradizione più diffusa ci parla di assoIui;a astinenza dalle  carni, dal vino e dalle fave. Pitagora forse era un puro vegetaria-  no, come ci attestano Eunosso pr, Porf. 7 ed Onesicreto (sec. IV  a. C.) pr. Strab. XV. 1, 65 p. 716 Gas. Ma non possiamo affer-  mare che tale dieta fosse assolutamente obbhgatoria per tutti : al-  trimenti non potremmo spiegarci come mai alcune testimonianze  parlino di certe qualità di carne rigorosamente proibite. Probabil-  mente P astinenza dalle carni e dal vino ( quella delle fave pare  fosse prescritta nel modo più formale e categorico) fu un semplice  uso, derivante dal. bisogno o dal desiderio di manteaer sempre sve-  glio lo spirito e di rendere meno tirannico — pur conservandolo  sano — il corpo e meno forti le sue esigenze. La dottrina della  trasmigrazione delle anime non entrava per nulla in tale divieto ;  poiché essa aveva un significato e un valore assai diverso da quel-  lo normalmente attribuitole, secondo la comune credenza della sua  derivazione dall' Egitto.  mente disciplinata di ciascun pitagorico » (1). Non man-  cavano iiifìno, durante la giornata, alcune semplici ceri-  monie religiose, piii precisamente simboliche, che servi-  vano a mantenere sempre vivo e presente in ognuno il  culto ed il rispetto di quell'Essenza da cui emanava e a  cui doveva tornare — secondo la dottrina mistica del  Maestro — il principio animico e sostanziale di ciascun  individuo umano.   Altre testimonianze ci parlano di astensione dalla cac-  cia, dell'uso di vesti bianche !2) e di capelli lunghi (3).  Quanto slìV obblUjo del celibato di cui parla lo Zeller,  non solo non ò dato da alcuna testimonianza (4), ma è  contrario anzi a quelle molte che ci parlano di Teano,  moglie di Pitagora, dalla quale questi avrebbe avuto piìi  figli (5) ed alle altre ove sono determinate le norme ri-     (1) Cento FANTI, op. cit. p. 390.   i2) GiAMBL. 100, 149 che desunse forse la notizia da Nicomaco  cfr. RoHDE, Rh, Mas. XXVI, 3 5 sg., 47). Aristosseno, da cui è  forse presa — mediatamente — la notizia contenuta nel § lOO, non  parlava che dei Pitagorici del suo teuipo. V. Apul. De Magia e 56;  Filostb. Apollo??.. I, 32, 2; Elian(., V. (Iht. XTI. 32.   (3) FlLOSTR. l. C.   (4) Egli cita veramente Clem. Strom. IH, 435 C. e Diog. Vili,  19 ; ma nel primo di questi luoghi è detto solo . che da alcuni si  affermava i^he i Pitagorci « si tenevano lontani dall'amore carna-  le »; ciò che non significa punto che l'amore stesso fosse loro  proibito : anche qui probabilmente si trattava di una semplice pra-  tica liberamente voluta dai più degli adepti. Nel secondo luogo ci-  tato è detto semplicemente che Pitagora « non si seppe mai che si  abbandonasse a pratiche sessuali » .   (5) Ermesianatte pr. Ateneo XllI, 599 a; Diog. Vili, 42; Porf.  19 ; GiAMBL. 132, 146, 265; Clem. Paedag. Il, e. 0, p. 204;  Strom. I, 309, IV, 522 D.; Plut. Coniug. praec. 31, p. 142 ; Stob.  Eel. I, 302; Fiorii. 74, 32, 53, 55; Fiorii. Monac. 268-270 (Stob.  Fior. ed. Mein. IV, 289 sg.); Teodoreto, Semi. 12.  guardo al tempo più opportuno per dedicarsi all'amore (1);  e contrario poi — ciò che è piìi importante — allo spirito  della dottrina del filosofo, per il quale la famiglia era sa-  cra, e i doveri ad essa inerenti erano indicati con molta  precisione ed accuratezza, massime nell'insegnamento fatto  alle donne. Anche il celibato insomma non dovette essere  che una pratica dei piìi ferventi discepoli, i quali, dediti  interamente alle speculazioni filosofiche ed agli studi, cre-  dettero forse di trovare nei vincoli di famiglia un osta-  colo alla libertà dei loro studi e delle loro meditazioni.   6. — Queste, in breve le notizie che ci restano della  storia esterna dell' Istituto e del suo ordinamento interno.  Per quello che riguarda in particolare l'insegnamento, ab-  biamo dunque veduto che esso era duplice e che per  essere ammessi a quello chiuso o segreto era necessario  aver dimostrato, con lunghi anni di prova, di esserne de-  gni e di avere tutte le attitudini necessarie a riceverlo.  Chi non dava tali garanzie poteva usufruire soltanto del-  l' insegnamento esoterico o comune, privo di ogni sim-  bolismo e alla portata di tutti, di carattere essenzialmente  morale. Abbiamo anche accennato che i discepoli esote-  rici erano iniziati gradatamente a forme sempre piìi ele-  vate di conoscenze — teoriche e pratiche — , nascoste  sotto il velo di particolari formule simboliche, facili da  ricordare e schematiche, le quali avevano il vantaggio  che, conosciute dai profani, non rivelavano per nulla il  loro senso riposto e metaforico (2). Con ciò si voleva evi-     I     (1) DioG. vili, 9.   (2) L' Arte Mnemonica di Eaimondo Lullo, uno  dei precursori del Beuno e maestro di Gioacchino da. Fiore, di Cortare il pericolo che conoscenze d'ordine superiore fossero  date in balia a menti inette a comprenderle, le quali,  appunto per questo, le divulgassero poi con restrizioni,  limitazioni e imperfezioni derivanti dalla loro intelligenza  inadeguata e così nascesse il discredito e il ridicolo sulle  dottrine fondamentali e su tutto l'insegnamento. Il cri-  terio usato neir impartirle era dunque che « non si do-  vesse dir tutto a tutti » e tale criterio — aristocratico  nel senso più ampio e più bello della parola — del pro-  porzionare le conoscenze alla capacità individuale, non  può certo reputarsi illogico o segno di vana superbia e  di orgoglio intellettuale : anzitutto ò accaduto in ogni  tempo che dottrine intrinsecamente buone abbiano via via  perduto, col troppo diffondersi, gran parte della loro per-  fezione primitiva ed abbiano finito o con V andare sog-  gette ad ogni sorta di travestimenti e di inquinamenti od  anche col perdere affatto il loro contenuto sostanziale,  pur conservando le manifestazioni esterne e i segni for-  mali di esso ; in secondo luogo non essendo mai chiesto  all'individuo più di quello che le sue facoltà naturali e  le sue conoscenze effettive potessero comportare, e lo svol-  gimento delle facoltà stesse procedendo secondo quella  progressione che la natura pone nell' esplicarle e secondo  i gradi della superiorità loro nell' ordinata ed armonica  conformazione della persona umana, non veniva ad esse-  re turbato in nessun momento quell' equilibrio, nel quale  sì conteniperano in armonia perfetta le varie attitudini di  ciascuno, e ne nasceva per l' individuo stesso una pace  indisturbata e una fiducia in se medesimo, che non dava     NELio Agrippa, del Paracelso ecc., ebbe lo stesso carattere di una.  simbolica universale, intelligibile ai soli iniziaci. mai luogo allo scoraggiamento e allo sconforto. Tutta la  vita era quindi sottoposta alla legge d'un' educazione si-  stematica e c(mtiuua, e delle attitudini individuali face-  vano uno studio diligente, coscienzioso ed incessante quelli  che erano piti in alto nell' ascesa verso la perfezione.   Nei rapporti degli adepti fra loro e con gli altri uomi-  ni era legge suprema l' amore, e questo infatti regnava  sovrano tra quelle anime, avide soltanto di ben© e desi-  derose di attuare quant' ò possibile in questa vita quel-  l'ideale di giustizia che è, attraverso i secoli, la perenne  aspirazione di tutti i buoni. Nella scuola e nell' insegna-  mento invece era il principio autoritario che prevaleva ;  principio razionale e giusto quando corrisponda a una  vera gradazione di merito e di valore individuale, e per  nulla insopportabile, quando l'insegnamento sia animato  vivificato dall' amore reciproco fra discepoli e maestri,  e quelli abbiano in questi fiducia e stima illimitata. Chi  si avvia per la stiada del sapere e vuole arrivare all'ac-  quisto di un qualsiasi sistema di conoscenze ha sempre  nozione imperfetta e inadeguata delle verità che impara,  finche non sia giunto a comprenderne per intero l'ordine  necessario ; e le verità stesse, imparate che siano, non  sono mai sufficienti a costituire il sapere, se non vi si  unisca l'esperienza positiva della loro realtà. Ma poiché  non tutte le nozioni, come si è già detto, potevano es-  sere intese da tutti pienamente e ciò non di meno era  necessaria la loro conoscenza, anteriore a quella delle lo-  ro ragioni intrinseche ed ideali, non era possibile l'inse-  gnamento di esse senza il principio d'autorità. E d'altro  lato, non potendo questa medesima autorità essere tolle-  rata a lungo dai discepoli, se alla simpatia non si fosse  accompagnata anche la persuasione, nata dal riconoscimento sperimentale di altre verità prima soltanto apprese,  era giustissimo il priocipio di coordinare l'insegnamento  teorico ed il pratico. Oud' è che gli adepti accettavano  volentieri e senza discutere le dottrine che gli iniziati  superiori insegnavano in forma di precetti brevi, sempli-  ci, facili, simbolici, sìa perchè erano rafforzate dall'auto-  rità suprema del Maestro da cui derivavano, sia perchè  gradatamente era anche insegnato a ciascuno il metodo  per verificarle praticamente da se medesimo. Uipse dixit  era pertanto, come dice benissimo il Centofanti (1), « la  parola dell'autorità razionale verso la classe non ancora  condizionata alla visione delle verità più alte e non par-  tecipante al sacramento della Società », mentre poi il  vedere in ?>7/r> Pitagora «valeva appunto la meritata ini-  ziazione all'arcano della Società e della scienza ». Resterebbe ora da dire in che cosa consisteva  l'insegnamento impartito con un metodo così rigoroso e  prudente, quale era la nuova parola che Pitagora portò  fra quelle popolazioni, così piena di fascino da persuadere  tante nobili intelligenze ed ammaliare tanti cuori, e a  quale spirito era informato un. sistema educativo, che non  solo sui giovani, ma anche sugli uomini aveva tanto po-  tere da trasformarne la natura morale e tutta la costitu-  zione psichica. Ma poiché questa esposizione della dottri-  na pitagorica è già stata fatta da molti), basti qui il  dire che eèsa, riprendendo ed ampliando il pensiero reli-  [Puoi vederla esposta assai bone nei citati lavori di Centofanti e ScHURÈ; per quanto a quost' ultimo manchi in parte  il necessario corredo di prove e di testimonianze.   gioso che la tradizione leggendaria personificò in Orfeo, coordinava le ispirazioni orfiche in un sistema vasto e  compiuto, e che, essendo fondata su un sapere sperimentale e accompagnata da un ordinamento razionale di tutta  la vita, mirava a perfezionare gli individui, non solo con  l'approfondirne e l'estenderne le conoscenze teoriche, ma  anche essenzialmente con l'accrescerne a grado a grado  la ricchezza delle forze interiori, per lo sviluppo — ottenuto con lunghe e pazienti pratiche delle facoltà  latenti del riposto ego divino, principio sostanziale di ogni  attività dell* uomo. Erano pratiche magiche che si usavano del resto in tutte le  scuole mistiche e che non eccedevano, se non apparentemente e solo per i profani, i limiti della natura; e chi abbia una conoscenza anche superficiale di questi studi sa bene che la magia non  era altro che un'arte, che si acquistava con cognizioni ed esercizi  particolari e s.egreti. Per le testimonianze sull' uso di queste pra-  tiche V. Plut. Numa, Apul. De Magia; Porf.; GiAMBL., dove sì parla di « antichi scrittori  degni di fede ». Cfr. anche Ippol. Refut., Euseb. pr.  ev.; Aristot. p. Eliano, ecc. Inizii leggendarii e storici. Quinto Ennio e i suoi tempi. Sette e scuole pitagoriciie in Roma. Pitagora e le sue dottrine nei filosofi latini. Lucrezio e il poema « Della Natura ». Frammenti della dottrina di Pitagora desunti dalle opere di Varrone. Appio Claudio Pulcro. CICERONE e il Somnium Scipionis. Mimi. Orazio.Virgilio. Pitagora e le sue dottrine nella poesia di Ovidio. Eitphorhos. Il Sodalizio pitagorico di Crotone rigs pytagoreum pythagoreum Turis Turio fatto fatta persino e persino permaneant permanont stituiti istituti Queste righe sono rimaste inter nel testo, mentre andavano in i pie di pagina ist  isti per fra intellegibili    intelligibili    »ultima  Geory. Georg. ferun    ferunt   prae vista    praevisa   aequo  aeque   ilUis  illis  maior maiore Mullach Mullach ultima    Leipzg    Leipzig  (Centra   Centra  a poco    a poco a poco senza altro senz'altro Gianola.  La fortuna de Pitagora presso i Romani dalle origini fino al tempo di Augusto. Enrico Caporali. Keywords: l’implicatura di Pitagora – pitagorismo – neo-pitagorismo – epigrafe sulla lapide di Caporali a Todi – Caporali – il mito di pitagora – la mistica di pitagora – scuola di mistica pitagorica – reincarnazione – concetto di metempsicosi – filosofia italica – pitagorismo nella Roma antica – Pitagora e Platone – Pitagora ed Aristotele -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caporali” – The Swimming-Pool Library. Caporali.

 

Grice e Cappelletti: l’implicatura conversazionale dell’entellechia – izzing and hazzing -- all’origine della filosofia antropologica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I like Cappelletti – and so does he! He is into what he calls, in Latin, to show off, ‘philosophia anthropologica,’ which is MY thing – I mean, one can explore the philosophy of ‘life’ (bios) per se, and Aristotle on the ‘entelechia’ of a vegetable, but vegetable implicatures are boring (to us); the idea of ‘psychology’ features large, and also ‘vita.’ When Cicero dealt with Aristotle’s philosophy of life (zoe, bios, psyche) he found himself in trouble: vita, anima – And then came Ficino and Pico! Cappelletti knows it all, and it shows!” --  Vincenzo Cappelletti (Roma ), filosofo.  Dopo gli studi liceali classici, si laurea prima in medicina poi in filosofia. Consegue la libera docenza in storia della scienza che insegna, per incarico, all'Perugia, quindi, all'Roma La Sapienza dove consegue l'ordinariato; ha successivamente insegnato la stessa disciplina all'Università Roma Tre fino a quando è andato in quiescenza. Collabora con l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana di Roma, fino a diventarne vicedirettore generale, quindi, l'anno successivo, direttore generale. Questo periodo, vedrà una progressiva affermazione sia in campo nazionale che internazionale dell'Istituto, con un forte incremento nella produzione delle opere nonché l'apertura di nuovi ed innovativi progetti editoriali. Vicepresidente e direttore scientifico dell'Enciclopedia Italiana, carica rivestita negli anni trenta da Giovanni Gentile, poi da Gaetano De Sanctis, quindi da Aldo Ferrabino di cui C. sarà appunto collaboratore. Già condirettore della rivista di storia della scienza Physis e degli Archives Internationales d'Histoire des Sciences, dirige Il Veltro. Rivista della civiltà italiana (da lui fondata assieme a Ferrabino), nonché presiede la casa editrice Studium. È anche socio storico dei "Martedì Letterari". Presidente della Domus Galilaeana di Pisa e dell'Académie Internationale d'Histoire des Sciences. Presidente della Società Italiana di Storia della Scienza (presidente onorario dal ) e dell'Istituto Accademico di Roma. Inoltre, commissario straordinario dell'Istituto Italiano di Studi Germanici, quindi presidente, promuovendone il passaggio da istituzione culturale a ente di ricerca. Presiede inoltre la Società Europea di Cultura,il Centro Italiano di Sessuologia, la Fondazione Nazionale "C. Collodi", il Consorzio BAICR-Sistema Cultura (Biblioteche e Archivi Istituti Culturali di Roma), la Fondazione FUCI. Dottore honoris causa dell'El Salvador e di Moron-Buenos Aires, è stato socio straniero dell’Accademia delle Scienze di Bucarest. Riceve il Premio internazionale Montaigne per le scienze umane. Medaglia d'oro al merito accademico, è insignito della medaglia Koiré dell'Académie Internationale d'Histoire des Sciences e, per due volte, della medaglia d'oro al merito della cultura italiana, sia per gli sviluppi dell'Enciclopedia Italiana che per la promozione degli studi di storia della scienza.  La sua attività scientifica ha riguardato inizialmente la storia e l'epistemologia delle scienze biologiche nella Germania dell'Ottocento, quindi le teorie psicoanalitiche, in particolare la psicoanalisi freudiana e la psicologia analitica, nei loro rapporti con le altre discipline socio-umanistiche, fra cui l'antropologia, la politica e la filosofia. Ha anche curato collectanee su aspetti del pensiero nonché le opere di alcuni scienziati del Settecento e dell'Ottocento, fra cui Morgagni, Emil Du Bois-Reymond, Virchow, Helmholtz. Quindi, dopo aver ulteriormente approfondito gli aspetti storiografici e metodologici delle scienze esatte e naturali, i suoi interessi di ricerca si sono rivolti verso la filosofia e la sociologia delle scienze, analizzando, sia dal punto di vista storiografico che epistemologico, i rapporti storico-dialettici fra scienza e società, con particolare riguardo alle scienze umane. Emil Du Bois-ReymondI sette enigmi del mondo, Firenze, Tip. L'impronta,; Atomi e vita, Bologna, Cappelli; Entelechìa. Saggi sulle dottrine biologiche; Firenze, G.C. Sansoni; Opere di Helmholtz, Torino, POMBA; Virchow Vecchio e nuovo vitalismo, Roma-Bari, Editori Laterza; L'interpretazione dei fenomeni della vita, Bologna, Società editrice il Mulino; Emil Du Bois-ReymondI confini della conoscenza della natura, Milano, Giangiacomo Feltrinelli; Freud. Struttura della metapsicologia, Roma-Bari, Editori Laterza; Epistemologia, metodologia clinica e storia della scienza medica, curati da C. e Antiseri; Roma, Arti grafiche E. Cossidente; La scienza tra storia e società, Roma, Edizioni Studium; Saggi di storia del pensiero scientifico dedicati a Valerio Tonini, Roma, Casa Editrice Jouvence; Antropologia dei valori e critica del marxismo, Roma, PWPA-Edizioni dell'Accademia; Alle origini della "philosophia anthropologica", Napoli, Guida; De sedibus, et causis. Morgagni nel centenario (curato assieme a Federico Di Trocchio), Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana; L'Enciclopedia Italiana per l'Europa: le nuove opere Treccani, Roma, Quaderni de Il Veltro; Le scienze umane nella cultura e nella società odierne, Edizioni Studium; Etnia e Stato, localismo e universalismo, Roma, Edizioni Studium; Introduzione a Freud, Roma, Laterza; Filosofia come scienza rigorosa. Edmund Husserl a centocinquant'anni dalla nascita (con Renato Cristin), Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, L'Università e la sua riforma (curato assieme a Giuseppe Bertagna), Roma, Edizioni Studium,. Natura e pensiero. Percorsi storico-filosofici, Roma, Aracne Editrice,. Onorificenze Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'artenastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte, Roma; Notizie bio-bibliografiche sull'autore si trovano in C., Natura e pensiero. Percorsi storico-filosofici, Aracne Editrice, Roma,, Introduzione di G. Cimino; Appendice; Cfr. C. "Attualità della storiografia scientifica", in:  La storiografia della scienza: metodi e prospettive, Quaderni di storia e critica della scienza, Domus Galilaeana (Pisa), CLUEB, Bologna. La maggior parte delle notizie biografiche qui riportate, sono tratte dalla biografia dell'autore scritta da Cimino per l'Enciclopedia Italiana; Istituto Italiano di Studi germaniciHome page  Società europea di Cultura; Cimino, C., Enciclopedia Italiana, Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. C., Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.   italiana di Vincenzo Cappelletti, su Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza  Registrazioni di Vincenzo Cappelletti, su RadioRadicale, Radio Radicale. C. La nascita della Psicoanalisi. Aforismi, storia del termine inconscio, documento video, Rai Scuola. Filosofia Filosofo Storici della scienza italiani  Roma Roma.  Il termine entelechia (entelechìa, dal greco ἐντελέχεια) è stato coniato da Aristotele per designare la sua particolare concezione filosofica di una realtà che ha iscritta in se stessa la meta finale verso cui tende ad evolversi. La crescita di una pianta, con cui essa tende a realizzare la propria entelechia. È infatti composto dai vocaboli en + telos, che in greco significano «dentro» e «scopo», a significare una sorta di «finalità interiore».  Aristotele parla di entelechia in contrapposizione alla teoria platonica delle idee, per sostenere come ogni ente si sviluppi a partire da una causa finale interna ad esso, e non da ragioni ideali esterne come affermava invece Platone che le situava nel cielo iperuranio. Entelechia è quindi la tensione di un organismo a realizzare se stesso secondo leggi proprie, passando dalla potenza all'atto. È noto infatti come, secondo Aristotele, il divenire si possa considerare pienamente spiegato quando se ne individuino le sue quattro cause: Causa Materiale, Causa Formale, Causa Efficiente e Causa Finale. Per designare il compimento del fine Aristotele usò appunto il termine entelechia che indica lo stato di perfezione, di qualcosa che ha raggiunto il suo fine. I neoplatonici si avvicinarono in parte alla concezione aristotelica secondo cui la forma di un corpo doveva essere anche immanente ad esso e non solo platonicamente trascendente, tuttavia trovarono riduttiva l'identificazione dell'anima con l'entelechia, essendo l'anima per costoro qualcosa di anteriore al corpo e comunque autonomo rispetto ad esso. Una sintesi tra la concezione aristotelica e quella neoplatonica si trova in Campanella, per il quale la natura è un complesso di realtà viventi, ognuna animata e tendente al proprio fine, ma d'altra parte tutte unificate e armoniosamente dirette verso una meta comune da una stessa universale Anima del mondo.  Anche Leibniz conciliò l'entelechia aristotelica con la visione neoplatonica, facendone una proprietà essenziale della monade, cioè di ogni "centro di energia", capace di svilupparsi autonomamente verso la propria meta o destino: ogni monade non riceve alcun impulso dall'esterno, ma tutte insieme formano un complesso unitario, retto al suo interno da un'armonia prestabilita da Dio, Monade suprema. Esse sono infatti coordinate al pari di tanti orologi, funzionanti per conto proprio ma sincronizzati tra di loro.  Goethe in seguito designò come entelechia l'archetipo della pianta, cioè il modello ideale di ogni tipo vegetale che si estrinseca in maniera tangibile nelle sue fasi di sviluppo esteriore, adattandosi di volta in volta alle differenti condizioni ambientali in cui si imbatte. Nel Novecento il termine entelechia è stato riproposto dal filosofo e biologo Hans Driesch per designare la forza vitale da lui ritenuta immanente agli embrioni e responsabile del loro sviluppo, in opposizione alle teorie meccaniciste che li consideravano alla stregua di «macchine». Aristotele ne parlava infatti come di qualcosa che ha la «vita in potenza» (De Anima); Così Plotino in Enneadi; Goethe, La metamorfosi delle piante; Sul concetto di entelechia in Goethe, cfr. il saggio di Giorgio Dolfini, L'entelechia di Faust, Olschki; Dizionario di filosofia Treccani. Voci correlate Aristotele Monade Entelechia, Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Entelechia, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company.Filosofia Portale Filosofia: filosofia Categorie: AristoteleConcetti filosofici greciNeoplatonismoStoria della scienza. entelechia Termine usato da Aristotele in contrapposto a potenza (δύναμις), per designare la realtà che ha raggiunto il pieno grado del suo sviluppo. Il termine fu ripreso da Leibniz per indicare la monade, in quanto ha in sé il perfetto fine organico del suo sviluppo.  Nel campo delle scienze biologiche il termine è stato usato per definire il principio dirigente dello sviluppo di ogni organismo. In questa accezione il termine e. fu ripreso da Driesch, che nella sua dottrina neovitalistica ammise l’esistenza di un principio organico individuale avente in sé l’idea della realtà perfetta, cioè dell’organismo completamente sviluppato. Energeia and Entelecheia. Entelecheia possible to transfer this meaning to the opposite extreme, so something can be “completely ruined”  or destroyed: “even death is by a transference of meaning called an end, because both are extremes, and the end for the sake of which something is is an extreme” (Met.). Thus,  telos  is not determined by its being opposed to something. It is not logically or ontologically dependent on its opposite. Rather, the opposite is borrows its meaning from the telos. It is not defined as the end-point of a sequence. Rather, the sequence is derived from it by positing an opposite. Aristotle argues for the primacy of an ongoing condition of  telos over telos as endpoint in his discussion of happiness in a complete life (Eth. Nich.). The primacy of the completion-related use of “telos” (fine, end) over its sequence-related usage is reinforced by  Aristotle’s use of telos to mean source (archē). The completion-related use is evident in the phrase, “hoi en telei,” which refers to a governor or magistrate. Telos thus suggests “origin (archē)”, a source of  action, events, or being that directs or structures what arises from it. Aristotle argues for the identification of telos with archē in Met. To be a  telos  is primarily to be that for the sake of which, which is different from (though not exclusive of) being an end-point of change (Met.).  When we speak of teleology, we may not necessarily mean Aristotle’s concept of  telos. We seem to mean the Scholastic idea of teleology, that is, an assimilation of the Aristotelian idea to the historical concept of divine providence (il fatum). It thus takes on the usage, for us, of a kind of goal set for a creature in advance, external to it, and toward which it is confined to strive. By contrast, at minimum, telos in Aristotle means the inherent completeness or wholeness of a thing, a completeness that may coincide with, and be  the thing itself. “ Telos ,”  for Aristotle, does not  primarily mean “ended,” or “ finished .” It means  “complete,” “fully there ,”whole,”   “entire ;” and here it means “having its complete sense.”  Its finality is akin to what makes us say  “at last ,” as  in “at last we find water.” Echein. The word  echein   means “to have” or “to hold on” to something. The “grip” of having, as it were, is “being in charge of, keeping,” or even “holding in guard, keeping safe,” and in a related sense, “holding fast, supporting, sustaining, or staying.” The infinitive can mean “to be able.” When a location is specified, it can mean “to dwell” there.  The relationship of  telos  to being is the reason the word  echei  , “have,” is im portant to  entelecheia.  Aristotle uses  echein  to say: “Those things are said to be complete [ teleia ]   for which a good  telos  initiates activity from within [ huparchei ], since it is by having the  telos  that they are complete ”  (Met.). A thing is complete (teleia) by having or holding onto  telos . “Having,” then, stands in for the term “initiate from within” (huparchei ), a word often translated as “belong to” or “be present.”  Echein,  then, is another way to express the inherence of the  telos . The most revelatory sense of  echein  for our current context, perhaps, is that in ordinary Greek  the verb can substitute for “be”: in response to a greeting,   kalōs echei   means “it is well.” 29  Now3: Energeia and Entelecheia Energeia and Entelecheia in the Proof of Change 10  “having,” “holding on,” and “sustaining” are ongoing conditions or activities. Using  echein  as a synonym for being, then suggests that being is not static or passive, but a continual accomplishment. Based on these considerations, it seems clear that the standard practice, which translates  both  energeia  and  entelecheia  with the word “actuality,” should be abandoned. Energeia  should be  rendered “being-at-work” or “activity,” but could also be translated “being insofar as it works.”  Entelecheia  can only be rendered by a range of nearly-equivalent renderings. “en-“  literally  makes the word mean ‘being in the  telos,’  ‘telos’ is not conceived horizontally as “at the end of a sequence” or “finished off,” but vertically, as fulfillment, completion, or accomplishment, while  echein  means ongoing activity, but also is a word for being. In general, entelecheia  should be rendered   by “being-complete,” with the word “being” a translation of “having” (echein), and understood as an  ongoing accomplishment. Less versatile translations are “staying-fulfilled,” “holding o nto  completion,” “holding itself in completion,” “holding its completion in itself,” “in active completion,” and other such formulae.   Energeia   and  Entelecheia  in the Proof of Change  Now that we have examined the words  energeia  and  entelecheia  themselves in general, we  need to see how they are used in Aristotle’s account of change, and to resolve an apparent self -contradiction in the use of being-complete (entelecheia)  to define incomplete motion. I shall argue that energeia  applies to individuals, while entelecheia applies to composites, a broader class of things that includes individuals. In the proof for the existence of change, energeia and entelecheia  are used differently: being- built (oikodomeitai)  is the being-at-work (energeia) of what is built (oikodomēton ), while building (oikodomēsis) is change (kinēsis) and the being-in-completion (entelecheia) of what is built as built:  being-complete (entelecheia) change  building  being-at-work ( energeia ) of agent being-at-work ( energeia ) of what is worked-on  builder / agent ( oikodomikon ) buildable / patient ( oikodomēton ) requires buildable requires builder  Energeia  as being-built ( oikodomeitai ) means theVincenzo Cappelletti. Keywords: alle origini della filosofia antropologica, entelechia – vita – filosofia della vita – Grice, “Philosophy of Life” – Aristotle on entelechia – storia della scienza – storia dela psicologia filosofica --. Il concetto di entelechia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cappelletti” – The Swimming-Pool Library. Cappelletti.

 

Grice e Capra: l’implicatura conversazionale del del corpo animato – delo l’isola di delo, apollo delio – il chiaro – principio di perspicuita [sic] -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Nicosia). Filosofo italiano. Grice: “Plato, who never fought, thought the soul was in the brain; Aristotle, who taught Alexander, and knew of Alcebiades, a warrior, was aware of the sinews of the body; he thinks the ‘anima’ was in the heart – ‘enthymema’ – Ryle laughed at them all, stupidly. The issue is VERY subtle – And Marcello Capra explores the conceptual intricacies of applying a spatial concept (like ‘sedis,’ the most general spatial concept, actually) to ‘anima’ – And the good thing is that he philosophised with his companion while they did peripatetics along the valley of the river in Nicosia!” “Why is it that philosophers always have to self-segregate; people spoke derogatorily of the Oxford School of Ordinary Language Philosophy, but there were THREE schools: mine, Witters’s followers’s, and Ryleans – and each could not stand the other! Well, Capra, bored of Palermo, founds in Nicosia his own academy – At Oxford we had unfortunately to SHARE the town, if not the gown!” – Studia a Padova sotto Montano e Falloppio – un ginecologo. Tornato a Nicosia, fonda una scuola, societa, gruppo di gioco, o club di filosofia. In seguito, si trasferì prima a Palermo e poi a Messina. Divenne assistente di Giovanni D'Austria e medico della flotta del suo 'Impero per cui partecipa alla battaglia di Lepanto. Tornato in Sicilia, su incarica del vice-ré Don Diego Enriquez de Gusman studia l'epidemia di peste   e descrisse i risultati dei suoi studi in un volume dal titolo De morbi pandemici causis, symptomatibus et curatione, pubblicato a Messina. Scrisse anche un volume sulle proprietà mediche della scorzonera. Pubblica a Palermo saggi filosofichi. Un saggio filosofico e di dedicato alla sede corporea dell'anima e considera i principi di Aristotele e i quesiti di Galeno. Per Aristotele, contro Platone, la sede corporea dell’animo e nel cuore; per Platone alla testa!Altro saggio tratta dell'immortalità dell'animo alla luce della psicologia filosofica funzionalista di Pitagora, Aristotele, Pitagora, ed Epicuro. Di C. non si conoscono esattamente il luogo e la data precisa della morte.  Uomini illustri della Sicilia. Dizionario biografico degli italiani. l'immortalità dell ' animo umano è considerata come incerta. Ma ciò sia detro di passaggio; che noi non vogliamo, ne dobbiam difendere l'Immortalità dell? animo Umano con tanto pericolo. E a chi domandi, l'immortalità dell'animo è vita futura? rispondiamo, esser futura la sanzione. ftante la lor confufione coll'anima universale diffusa in tutta la mole corporea Onde opponendo quegli Antichi l'immortalità dell'animo alla mortalità del corpo, mostravano, che questa immortalità intendeano, come una permanenza eterna. La sola immortalità, dunque, alla quale si possa pen​sare, e alla quale effettivamente si è sempre pensato, affermando l'immortalità dello spirito, è la immortalità dell'Io trascendentale; non quella, in cui si è fantasti​camente irretita la mitica. L'uomo adunque, come egli è creato in mezzo fra l’Angelo, e la bestia, cosi alcuna cosa comunica con gli Angeli, cioè l'immortalità dello spirito, e in alcune cose comunica con le beftie, cioè la. mortalità della carne insino, che la carne. Sulla sede dell’anima e della mente. De Sede Animae et Mentis ad Aristotelis praecepta adversus Galenum. Primò igicur notandum, quando de Sede Animæ rationalis disputamus, per Sedem strictè nos non intelligere firum, qui exigit distinctionem seu divisionem partium in loco, folisque competit corporibus, sed, ut Scholastici nuncupant... Dialogus de instrumento philosophiae. Publication: Messanae: ex typographia Fausti Bufalini, C., de Immortalitate rationalis animae juxta principia Aristot. adversus Epicurum, Lucretium et Pithagoricos quaesitum. Panormi, apud J. F. De Immortalitate rationalis animae juxta principia Aristot. adversus Epicurum, Lucretium et Pithagoricos quaesitum  C., nicosioto, il quale inandava fuori due Quesili, l'uno De sede animae et mentis ad Ari stotelis praecepta, adversus Galenum, l'altro De Immortalitate A nimae rationalis, justa principia Aristotelis, adversus Epicurum, LUCREZIO et Pythagoricos; C., nicosiensis, De sede animae et mentis ad Aristoteles praecepta, adversus Galenum, Quaesitum. Panormi in 4. De immortalitate animae rationalis, iuxta principia Aristotelis, adversus Epicurum, Lucretium, et Pythagoricos, Quae situm. Ibi in 4. Qualche relazione con quest'Istituto devono aver avuto le opere pubblicate dal C. in quel torno di tempo, come: De sede animae et mentis ad Aristotelis praecepta, adversum Galenum. Quaesitum (Panor.); De immortalitate. C., filosofo siciliano originario di Nicosia, può essere considerato un altro esponente non secondario della quaestio che interessa la sede dell’anima (o animo) razionale. Studia a Padova sotto Monte e Falloppia, esperienza questa da cui aveva mutuato l’interesse, tutto padovano, per i problemi di fisiologia generale e psicologia. Per un’introduzione alla non vasta biografia di C., si vedano PITRÉ e GARIN, GLIOZZI e DOLLO. Nel “De sede animae et mentis ad Aristotelis principia adversus Galenum (Palermo) dedicato al viceré don Diego Enriquez de Guzmán, conte d’Alvadeliste. Infatti, C. dà ampio saggio delle sue attitudini filosofiche in campo medico, prende le difese della psicologia aristotelica. Per C. la quaestio de sede animae si presenta immediatamente duplice. In un senso, infatti, la questione riguarda l’anima come principio di fisiologia generale e soggetto quindi a generazione e corruzione (quaesitum de sede animae). Dall’altro, invece, riguarda un principio immateriale, immortale ed eterno (quaesitum de sede mentis). Disputaturus (ut ad peripateticum pertinet) de animae sede. quoniam una aeterna, ut in nostro quaesito demonstravimus: altera mortalis. Quibus non eodem modo sedes convenit. Propterea ut lucidior sit explicatio agam primo de sede animae quae interitui est obnoxia. Mox agam de sede mentis: hoc est illius partis quae venit deforis, et post corporis dissolutionem remanet superstes. Quanto all’impostazione, il saggio si presenta come una serrata fila di quaestiones e responsiones secondo l’uso scolastico, mentre l’obiettivo polemico è rappresentato dalla tesi galenica dell’estensione e dislocazione reale dei principi psichici nel corpo. C. distingue anzitutto tra “principato” (principatum) ed “estensione” (extensio) dell’anima. Il principato riguarda l’organo che per primo si attiva, si modifica o cessa di funzionare in determinate condizioni. L’estensione, invece, ha a che fare con la reale presenza dell’anima nelle strutture materiali. In quest’ultimo senso si hanno due alternative: o l’anima si trova ad essere suddivisa in più parti del corpo, oppure si trova tutta insieme in una sola di esse. Entrambe le opzioni vengono però respinte, anche con argomentazioni tratte da esperimenti anatomici. In generale l’estensione dell’anima viene negata poiché, in ossequio al dettato aristotelico che vuole l’anima forma del corpo organico, la sede dell’anima deve essere considerata il corpo nella sua interezza -- principatum consideramus; cum obtinet in aliqua corporis particula. At si consideramus extensionem, ea est ubique. Obiectio Et quoniam ad huc quispiam instare posset per ea quae retuli in praecedenti quaesito. Nam per ligamenta conspicimus privari membra sensu et motu. Quod non contingeret si anima per totum corpus esset extensa. Hinc Aristotelem aliquando videtur asserere animam esse in spiritu. Responsio Dicendum est quod solum ex eis colligimus principatum, et insuper colligimus spiritum esse id principium, per quod anima iungitur corpori, et obit munera sua. Non autem accipimus eam non esse extensam, quia reiicienda est sententia Galeni qui cum censeat animam mortalem esse temperamentum; cum inquit, septimo de placitis Hyppocratis, et Platonis vegetalem esse temperamentum epatis. Vitalem vero temperamentum cordis. Nam si id esset, tunc non ubi vitalis esset anima, ibi reperiretur vegetalis. Nec essent extensae per universum corpus. Cum itaque animae non conveniat sedes ut corpori, nec ita si una corporis parte et non alia. Est enim in toto corpore: et dum quaerimus sedem animae tamquam formae, dicere debemus totum corpus esse animae sedem. Quanto all’estensione del principato in cui essa si manifesta, invece, si tratta di un’estensione per accidens, che spetta realmente forse solamente ai vegetali e ad alcune specie di insetti. Per questa via, distingue quindi l’estensione spaziale dalla divisione concettuale. La prima compete all’anima in quanto soggetta alle forme materiali di cui si serve. La seconda rappresenta la molteplicità delle sue funzioni come espressioni di un'unica attività. Gli esperimenti sulla legatura dei nervi dimostrerebbero in tal senso che qualsiasi organo, separato dalla sua connessione con il cuore, diviene torpido o mal funzionante. Et authoritatibus, et rationibus confirmare possumus. Et primo nos conspiciamus quod si a corde ad reliquas particulas claudatur iter, aliae partes vitae privantur: nam et motu et sensu distincte conspiciuntur. Ut in obstructionibus, in epilepsia, in ligationibus servare licet. Id minime eveniret si anima esset tota in quavis parte. Ma essi, secondo C., evidenziano anche come l’anima abbia la tendenza a ricostituire spontaneamente quella totalità che viene interrotta o sopressa con le operazioni di legamento o incisione, in ciò dimostrando la sua dipendenza da un principio unico. L’anima, benché estesa nella sua totalità in tutto il corpo ed ogni sua parte in ogni parte di quello, differisce in questo dalle altre forme materiali che, quando viene divisa, essa recupera la totalità che tuttavia non è una totalità di estensione. E ciò avviene in quanto essa possiede un principio dal quale dipende. E per questo Aristotele afferma che l’anima è una in atto, e molteplice in potenza. Inoltre è estesa in modo tale da interessare allo stesso modo ogni parte del corpo e da adattarsi alle forme inferiori, ma in modo consequenziale e seguendo un certo ordine, poiché tali forme si osservano nel cuore, e poi negli altri organi, o in ciò che fa le veci del cuore. Tutte queste cose sono note per il fatto che dimostrano come l’anima sia forma necessariamente estesa e divisibile. Così, dunque, l’anima è estesa in relazione all’estensione del corpo, ed è divisibile, dipendendo tuttavia dal cuore quanto a sviluppo e conservazione, tramite gli spiriti e le parti più sottili del sangue. Qui si può separare l’anima in motore e mobile a motivo delle diverse parti, e lo stesso si può fare distinguendo gli spiriti e le specie dell’anima in rapporto al corpo misto. In primo luogo, dunque, l’anima dipende dagli spiriti e dalle parti più sottili del sangue che traggono origine dal cuore, il quale si dice essere la sede dell’anima. Anima ut extensa est tota in toto, et pars in parte. In hoc differt ab aliis formis materialibus. Quod quando dividitur post divisionem recipit totalitatem. Non tamen totalitatem extensionis. Et id evenit. Quoniam habet unum principium a quo pendet. Et ideo Aristoteles inquit, quod est una actu, plures potestate. Insuper ita extensa quod aeque Item respicit omnem corporis partem et convenit formis infra animam, sed cum dependentia, et ordine aliquo. Quia Item considerantur in corde, mox in aliis, vel in eo quod cordis gerit vicem. Haec omnia ex eo sunt nota, quod ostendunt animam esse formam tunc necessario extensam, et divisibilem. Sic itaque anima extensa ad extensionem corporis, et divisibilis, pendens tamen infieri, et inconservari a corde, mediantibus spiritibus, et subtilioribus partibus sanguinis. Hinc animam secari in motorem, et mobile ob varias partes: et spiritus distinctionem, et animae diversitatem ad formam misti. Primum itaque anima innititur spiritibus, et tenuioribus partibus, et a corde originem ducunt, quod dicitur esse sedes animae. L’estensione corporea compete dunque all’anima in virtù di un organo principale, il cuore, e quindi di organi secondari dei quali per accidens condivide la corporeità, mentre substantialiter l’anima si comporta come la fiamma che, seppure divisa in molte parti, resta sempre ed essenzialmente una. In questo senso la sede dell’anima è l’organo mediante il quale l’anima si unisce primariamente al corpo ed è dunque l’organo che per primo nasce e per ultimo cessa di vivere. Rispetto ad esso il cervello si presenta quasi excrementum et pondus iners. Per rintracciare l’origine del principio fisiologico e la sua sede, C. fa affidamento alla dinamica del calore innato -- Ea est censenda animae sedes quae origo, et principium est huius caloris. Sine quo anima nec esse, nec operari valet. Sed huiuscemodi est cor: ut experientia docet, et omnes affirmant. Immo Hyppocrates ait animam spirituum seu calorem esse -- laddove infatti ha origine il calore naturale – egli argomenta – ha origine anche l’anima quae educitur primo de potentia materiae. Ma, calore e vita hanno origine dal cuore e si diffondono attraverso gli spiriti ed il sangue a tutto il corpo: a quanti dicono che gli spiriti siano sede dell’anima si deve rispondere che è necessario considerare il calore come sede. Infatti gli spiriti sono necessari in quanto il calore naturale è un certo tipo di spirito, giacché nello spirito si conserva il calore, la cui origine non è né il fegato né il cervello, ma il cuore, che è la sua origine precipua. E se anche alcuni anatomisti hanno attribuito l’origine degli spiriti alla pulsazione, si sono sbagliati ed hanno fatto affidamento su di una falsa esperienza. Infatti, il cuore è l’origine del calore e lì, nelle parti più sottili del sangue, debbono avere origine gli spiriti; non certo dall’aria che viene attratta. Perciò si deve ritenere che la sede dell’anima sia quella che possa adattarsi a ciascun singolo vivente. Ma ciò che si adatta ad ogni singolo vivente è il cuore. Ad id quod dicunt de spiritibus occurrendum est: quia nos calore considerare debemus. Nam spiritus necessarii sunt: quoniam calor naturalis quidam spiritus est. Cum in spiritu servatur calor. Non epar non cerebrum est origo. origo itaque praecipua cor est. Et si Anatomici nonnulli pulsui. Id tribuerunt. Falluntur, et falsitate experientia nituntur. Nam caloris origo cor est, et ibi spiritus extenuissimis partibus sanguinis gigni debent: non autem ex attracto aere. Propterea ea est censenda animae sedes. Quae singulis viventibus convenire valeat. At singulis convenit cor. Stabilendo dunque il cuore quale sede dell’anima, prosegue C., si riuscirà facilmente a giustificare i fenomeni di accrescimento, moto, ostruzione o legatura dei nervi. A questo punto, però, l’autore è costretto a fare i conti con la tradizione prettamente medica che si richiamava a Galeno ed agli esperimenti relativi alla separazione dei principi fisiologici nel corpo, ad iniziare dal movimento dimostrato dal cervello relativamente alla sistole ed alla diastole, affermato dai medici ed accettato con grande riluttanza da C.. Et cum cor primo movetur vere potest esse principium motus aliorum: nam et si moveatur per sistolem et diastolem: cerebrum a nullo movetur motu, et anima per motum maxime diiudicatur. Non enim censendum est ut falso putant nonnulli Anatomici medici, quod cerebrum quoque movetur per sistolem et diastolem: quoniam si id conspicitur in cerebro id convenit ob arterias per cerebrum distributes. Nel ritenere che il cervello sia importante tanto quanto il cuore medici falluntur, scrive il medico siciliano, ribadendo le classiche motivazioni aristoteliche, esposte da noi nel capitolo secondo, per cui il cervello è di per se stesso insensibile, freddo ed immobile. Ma ciò ancora non basta. Poiché, come già visto, gli esperimenti di legatura ed ostruzione delle arterie hanno secondo Capra il solo scopo di dimostrare che, separati dall’attività di infusione di calore e vita propria del cuore, tutti gli altri organi vengono privati delle proprie funzioni, non può far altro che dichiarare false la maggior parte delle dimostrazioni anatomiche ottenute mediante legamento: Gl’anatomisti inoltre legano un cane, e danno ordine di tagliare velocissimamente il torace. Quindi legano quattro vasi del cuore e lo asportano, dopo di che sciolgono il cane, che grida e corre. Questo genere di scappatoie non hanno alcun valore: ed in primo luogo perché le esperienze che costoro riferiscono sono decisamente incerte, e forse in gran parte false. Talvolta, infatti, gli uomini vivono anche dopo che sia stata asportata loro una parte di cervello, e si sono visti spesso animali camminare anche senza testa. Inoltre, una volta formato il cuore, le forme che plasmano l’embrione esistono prima che il cervello sia formato e l’embrione già sente, e se lo si punge si contrae, cosa questa, invece, che ancora non accade al cervello. Insuper Anatomici quidam canem ligant, et secare iubent citissime toracem. Mox ligant quatuor vasa cordis. Et cor eximunt, deinde solvunt canem qui vociferat, et currit. Evasiones hae nullae sunt: et primo quae ab eis referuntur valde sunt dubia, et fortasse magna ex parte falsa. Vivunt enim nonnunquam homines quibus aliquid cerebri detractum fuit. Et avulso capite saepe progredi conspecta sunt animalia. Insuper informationes embrionis genito corde ante quam sit cerebrum productum, sentit embrio et si pungitur contrahitur. Non tamen adhuc cerebrum habet. Dunque, in sede fisiologica, l’instrumentum commune communi sedi resta il cuore, da cui hanno origine tutte le concoctiones e quindi tutti i temperamenti; attraverso di esso, inoltre, un’anima immateriale si unisce (copulatur) con le funzioni vitali dell’organismo attivando in successione tutte le altre: secondo C., infatti, gli esperimenti di legamento indicano che ciascun organo, interrotta la via che lo collega agli spiriti prodotti dal cuore, cessa pian piano la propria attività peculiar. Questa strenua difesa del cardiocentrismo aristotelico in pieno Cinquecento può sembrare arretrata rispetto al clima costituitosi sul finire del secolo intorno all’intepretazione anatomica del Quod animi mores, e soprattutto del De placitis, ma si ricollega di fatto anche a sviluppi successivi, quali quelli di Rudio e Cremonini, in cui il primato del cuore non necessariamente implica una svalutazione delle funzioni del cervello. Ed, in effetti, l’importanza del cervello come sede del pensiero verrà in parte recuperata nella sezione conclusiva dell’opuscolo, De sede mentis. Se la concezione galenica relativa alla localizzazione delle funzioni psichiche si è rivelata fallace sia in generale -- l’essenza dell’anima è infatti indivisibile --, sia nello specifico -- la sede da cui si sviluppa la totalità delle funzioni organiche è il cuore, non il cervello -- non può tuttavia negare che gli esperimenti galenici dimostrano come il cervello debba essere considerato sede almeno di alcune delle operazioni dell’anima razionale. Anche in questo caso, tuttavia, parlare di sede è improprio, poiché la mente è, in quanto tale, immateriale e ad essa non conviene quindi alcuna sede. In ogni caso, prove a favore della localizzazione cerebrale esistono anche secondo C. e possono essere articolate almeno secondo quattro ordini di ragioni: 1. il pensiero richiede l’ausilio di phantasmata che si producono nel cervello; il ribollire o fervor degli spiriti nel cuore non sempre è causa di un processo analogo nel cervello; accade invece che, se si è preoccupati o agitati – pur restando inalterata la fisiologia cerebrale – gli spiriti fervano nel cuore a motivo della preoccupazione. De sede animae et mentis (Palermo)   negli accessi febbrili non si verificano danni alla ragione, a meno che il calore non raggiunga la sede del capo (ovvero l’interno di esso); le funzioni dell’intelletto subiscono mutamenti in relazione alle lesioni del capo o alla corretta conformazione dello stesso. Per le ragioni esposte, dunque, la soluzione fornita da C. è quella di postulare una duplice unione tra anima e corpo; una secondo natura (coppulatio et sede naturalis), la cui sede interessa il cuore in qualità di organo principale dell’organismo; l’altra secondo la natura dell’operazione (“coppulatio et sede operationis”), che avviene in un organo di per sé secondario come il cervello, nel quale hanno sede tuttavia le operazioni della phantasia e dunque, metonimicamente, dell’intelletto: Ma avviandomi alla soluzione della questione, si deve considerare che chiunque dei Peripatetici ritenga l’anima soggetta nella sua interezza a nascita e morte, come Alessandro di Afrodisia, dovrebbe affermare in modo assoluto che la sede dell’intera anima sia il cuore. E perciò Alessandro, fondandosi sulle proprie premesse, asserì proprio questo. Coloro che, al contrario, affermano che la mente è eterna, ritengono che essa si unisca a noi in modo duplice (duplici coppulatione): una per natura, l’altra per operazione e che quest’ultima avviene nel cervello, dato che il cervello è sede della mente. Se dunque affermiamo che all’anima si addice una duplice unione con il corpo, resta provato anche che, in duplice modo, all’anima spetta una sede, l’una per natura, l’altra per operazione. Per natura la mente si unisce all’anima soprattutto in quel luogo in cui vengono portate a compimento le azioni <che sono proprie di essa>, ed in questo senso saranno vere queste conclusioni,vale a dire:  conclusione. Alla mente non spetta una sede. Questa conclusione risulta vera per la ragione già esposta che la mente non dipende dal corpo o da una sua parte, né richiede un organo particolare. conclusione. Il cervello è sede della mente. Questa conclusione risulta vera non in ragione della dipendenza, ma in ragione dell’operazione: nel cervello infatti vengono portate a termine le operazioni dell’immaginazione, facoltà che è ministra dell’intelletto. conclusione. Il cuore è sede della mente. Questa conclusion risulta verà in ragione dell’unione dell’intelletto con noi stessi, che si chiama unione per natura. 4. conclusione. Il cuore è la sede principale dell’anima. Sede cioè della facoltà animale. Il cervello è sede dell’anima in quanto operante e delle sue operazioni. 6. conclusione. Sede dell’anima sono gli spiriti, dal momento che essi sono come il veicolo delle facoltà ed il loro strumento comune. conclusione. L’intera specie umana è sede della mente, in particolare, però, l’uomo in quanto sapiente. 8. conclusione. Sede della mente è la facoltà immaginativa. conclusione. Il cuore è essenzialmente ed intrinsecamente membro più importante del cervello. conclusione. Il cervello è membro divinissimo in modo accidentale ed estrinseco. conclusione. Ma poiché ciò che è eterno ha necessità di unirsi a ciò che è eterno, si deve dire che Dio è sede della mente, perché solamente in lui troviamo il riposo ed il fine ultimo sovrannaturale. Sed me conferens ad quaesiti dissolutionem considerandum. Quod quicunque ex Peripateticis animam omnem ortui atque interitui obnoxiam esse afferunt, veluti censuit Alexander. Absolute dicere deberent totius animae sedem esse cor. Et ideo Alexander innixus suis fundamentis id asseruit. Qui vero contra. Aeternam dicunt esse Mentem. Isti censent. Quod ut duplici coppulatione nobis iungitur. Una per naturam. Altera per operationem nobis coppularetur. Quoniam ea efficitur in cerebro tunc dicendum. Quod cererbum est sedes Mentis. Si vero ei duplicem asserimus convenire coppulationem; tunc duplici quoque modo probatum est ei sedem convenire. Unam per naturam. Alteram per operationem. Per naturam iungitur animae. Eo praesertim loco ubi opera perficiuntur, et ad hunc sensum erunt istae conclusiones verae, Videlicet. Menti non convenit sedes. Haec vera est ea ratione qua diximus. quod mens a corpore, vel corporis partibus non dependet, nec organo particulari eget. Conclusio. Cerebrum est sedes mentis. Haec est vera non ratione dependentiae sed ratione operationis. Nam in cerebro perficiuntur opera imaginativae. Haec autem est ministra intellectus. Cor est sedes mentis. Haec est vera ratione coppulationis intellectus nobiscum quae nuncupatur coppulatio per naturam. Cor est praecipua animae sedes. Sedes inquam virtutis. Cererbum est sede. Operantis animae, et operationum. Conclusio. Animae sedes sunt spiritus. Cum sint quasi vehiculum facultatum, eiusque commune instrumentum. Tota humana species est sedes mentis. Proprie tamen homo sapiens. Imaginativa est sedes mentis. Cor essentialiter, et intrinsece est praestantius membrum quam cererbum. Cerebrum accidentaliter, et extrinsece est divinissimum membrum. Conclusio. Sed cum aeternum aeterno coppulari debeat dicendum. Deum esse sedem mentis. Quoniam in eo solo conquiescimus et in ultimo fine supernaturali. Per infinita saecula saeculorum. Nella serie di conclusioni che chiudono l’opuscolo, alcuni storiografi ottocenteschi hanno voluto scorgere una dichiarazione di averroismo. Sembra tuttavia difficile distinguere la presunta influenza averroistica da una sincera e piena dichiarazione di fede. Con il “De sede animae et mentis” C. si assiste al tentativo di riportare il problema della localizzazione psichica ad un unico centro funzionale, il cuore, di contro al poli-centrismo galenico. Ma l’operazione – di per sé condotta in osservanza del più rigido aristotelismo – sembra destinata a fallire, poiché la duplice unione con il corpo (“duplex coppulatio”) cui va soggetta l’anima ripropone in realtà il dual-ismo galenico tra funzioni che si svolgono al di sotto e al di sopra della rete mirabile, quasi posta, quest’ultima, a suggello visibile della differenza che intercorre tra operazioni puramente mentali o psicichee ed operazioni lato sensu “fisiologiche”. Il suo contributo è interessante, semmai, dal punto di vista dell’interpretazione che egli fornisce agli esperimenti galenici circa la legatura di nervi e vasi, come pure delle contro-prove empiriche che adduce a sostegno della propria tesi. In effetti, in Capra è soprattutto l’idea che il principio psichico, inteso quale principio basilare della “vita”, debba avere un centro a tenere banco nella discussione, discussione che pure non può fare a meno di costanti appelli agli Anatomici, e quindi alla tradizione medica del proprio tempo. È comunque sullo stesso piano – l’intepretazione di esperimenti che nel loro orizzonte osservativo si coordinano tutti intorno alla lettura del De placitis Hippocratis et Platonis, e quindi del Quod animi mores – che si muove anche la critica antigalenica mossa da Telesio nel Quod animal universum.  Con Aristotele vengono a inaugurarsi nella storia del se­ gno alcuni fatti nuovi, destinati ad avere una notevole du­ revolezza. Il primo di questi riguarda l'ampia e profonda opera di normalizzazione teorica che Aristotele compie nei confronti del lessico delle scienze e delle pratiche professio­ nali che avevano fatto riferimento ai segni e al sapere con­ getturale in genere. Il vasto alone semantico, l'alternanza di usi forti, o pregnanti, e di usi deboli che aveva caratteriz­ zato per tutto il V secolo termini quali smefon, tekmirion, aitia, pr6phasis, eik6s negli scritti medici, nella storiogra­ fia, nella stessa letteratura filosofica, viene piegato alle esi­ genze di una definizione categoriale, che fissa gli usi esatti dei termini e ne delimita e separa i campi nozionali. L'operazione, come rileva Lanza, non ha che un successo parziale nella pratica linguistica, in quanto è solo sul piano teorico che Aristotele riesce a rendere rigoro­ se e rigide le distinzioni, proposte in due passi paralleli dei Primi analitici e della Retorica; 1 ma, nella stessa prosa del­ la Retorica e in generale nelle opere che trattano di argo­mento scientifico, come ha fatto rilevare Le Blond, l'uso dei vari termini del lessico semiotico­ gnoseologico resta fluido e i termini spesso vengono impie­ gati senza speciali sfumature di significato. Ciò non con­ traddice, tuttavia, il fatto che la revisione terminologica, da un punto di vista teorico, sia stata profonda e abbia inaugurato una solida tradizione, che continua nella trattati­ stica successiva, fin nella retorica romana. Del resto le esigenze di distinzione teorica non si limite­ranno a intervenire con un'operazione normalizzatrice sul lessico, ma entreranno anche nel vivo delle concezioni pro­fonde coinvolte dal sapere congetturale. Abbiamo infatti visto come il dominio del tempo fosse centrale tanto nel sapere ascientifico della mantica quanto in quello protoscientifico della medicina. La conoscenza contemporanea del passato, del presente e del futuro e un elemento essenziale, sebbene secondo modalità diverse, in entrambi questi ambiti di sapere. Aristotele riprende, concettualizza e piega alle esigenze della classificazione teorica anche tale aspetto. Infatti, nella classificazione dei tipi di discorso proposta nella “Retorica,” Aristotele individua in primo luogo due ca­tegorie di destinatari dei discorsi: colui che osserva (“theo­ros”) e colui che decide (“krits”). Il primo agisce nella dimen­sione del presente ed è il tipo di pubblico che assiste al di­scorso epidittico o celebrativo. Il secondo, invece, può agi­re nelle altre due dimensioni del tempo proprie degli altri due generi di discorso: il giudice (dikasts) decide sul passa­to. Il membro dell'assemblea (ekklsiasts) sul futuro. Co­me osserva giustamente Lanza, la classificazione è totalmente estrinseca ali'oggetto considerato, ma è chiaro l'intento aristotelico di congiungere la ripartizione canonica dei tipi di discorso con le tre dimensioni del tem­po che fin dall'epoca d’Omero appaiono associate agli am­ biti di manifestazione, esoterico o tecnico, del sapere. Altro fatto importante inaugurato dalla riflessione aristotelica è quello che riguarda la disarticolazione, e la conseguente trattazione separata, della teoria del linguaggio e della teoria del segno. Si tratta di un fatto che desta sorpresa e che appare molto rilevante proprio perché in alcune teorie semiologiche è assolutamente dato per scontato che i termini del linguaggio verbale sono dei "se­gni". Anzi, secondo un certo strutturalismo, questi termini del linguaggio sono i segni per eccellenza, e non sono stati pochi coloro che sono arri­vati ali'eccesso di pensare che essi potessero fornire il mo­dello anche per gl’altri tipi di segno. In Aristotele, invece, gl’elementi su cui si costruisce una teoria del linguaggio ricevono il nome di “simbolo”, mentre gl’altri elementi di una teoria del segno vengono denomi­nati semeia o tekmiria. La teoria del segno propriamen­te detto è articolata alla teoria del sillogismo e riveste un in­teresse sia logico sia epistemologico. Il segno è, infatti, al centro del problema delle modalità di acquisizione della co­noscenza. Il “simbolo” linguistico è connesso princi­palmente al problema dei rapporti che si instaurano tra una espressione linguistica, una astrazione concettuali ed uno stato del mondo. È nel “De interpretatione” che Aristotele espone la sua teo­ ria del *simbolo* linguistico, articolandola secondo uno sche­ma a tre termini. Un suono della voce e un "simbolo" di una affezione dell'anima, la quale, a loro volta, e l’im­magine di una cosa esterna. Ordunque, i suoni della voce, “tà en tii phoniz,” sono simboli (symbola) delle affezioni che hanno luogo nell'anima (tOn en tii psychii pathmatOn), e le lettere scritte (graphtJmena), sono simboli dei suoni della voce. Allo stesso modo, poi, che le lettere non sono le medesime per tutti, così neppure i suoni sono i me­desimi; tuttavia, suono e lettera risulta segno (semeion), anzi­ tutto, delle affezioni dell'anima, che sono le medesime per tutti e costituiscono l’immagine (homoi 6mata) di una cosa (pragma­), già identici per tutti. (Arist., De int.) Bisogna innanzitutto dire che il fatto di incontrare il ter­mine “semeion” come apparente sinonimo di “simbolo” non si­gnifica affatto che le due espressioni sono intercambiabili. In questo passo Aristotele usa il termine “semeion” in un'accezione debole (disimplicata), che ci conferma appunto la tenden­za a un “uso sfumato” di una espressione del lessico semiotico, quando non e in questione la costruzione del sistema di demarcazioni teoriche. Qui Aristotele usa “semeion” per dire che l'esistenza di un suono (o di una lettera) può essere considerata come un indizio dell’esistenza parallela di una affezio­ne dell'anima. A ogni modo, è possibile costruire, trascurando il livello grafematico, un triangolo semiotico di questo tipo. Affezione dell'anima (psthlimsts sn tlii psychliil). Penstero (nomat8)  -- rapporto o rappresentazione convenzionale o arbitrario – versus motivato o iconico rapporto o rappresentazione (  sn ti phntl (prSgmsta) suono della voce – cosa estrena. Come si può osservare, diverso è il rapporto tra le coppie di termini appartenenti alla triade. Tra un suono (“Ouch!”) e uno stato d'animo c'è un rapporto o rappresentazione finalmente immotivato e convenzionale o arbitrario. Uno stato d'animo (dolore) e identico, secondo Aristotele, per tutti gl’uomini. Ma essi vengono espressi in maniera diversa a se­conda delle varie lingue e culture (“Ouch” e volgare a Buckingham), esattamente come avvie­ne per le forme scritte. Invece tra gli stati d'animo e la cosa esterna c'è un rapporto o rappresentazione causale percettiva di motivazione iconica, che appare addirittura iconico. Il primo e l’immagine del secondo. Bi­sogna precisare che e scorretto identificare in manie­ra diretta la tesi dell’arbietrarieta o  convenzionalità degli elementi del lin­guaggio, cui adere Aristotele, con la tesi deli'arbitrarietà del segno linguistico sviluppata da Saussure. In realtà nella teoria saussuriana esiste un rapporto arbitrario tra due en­tità strettamente interne al linguaggio: il significante – segnante -- e il si­gnificato – segnato -- sono le due facce del segno, in quanto unità lin­guistica. In Aristotele, troviamo invece un rapporto conven­zionale tra *elementi* del linguaggio (il nome, il verbo, il 1ogos) ed elementi che propriamente non appartengono al lin­guaggio, in quanto sono entità *psichiche* (l’immagine acustica o percettiva di Saussure). Si deve inoltre ri­levare che la teoria linguistica elaborata da Aristotele non si esaurisce nei testi di prevalente interesse logico, quali il “De interpretatione”, ma continua anche nei testi di interesse estetico. In questi ultimi, dove prevale la funzione poetica del linguaggio, il principio della convenzionalità viene in parte attenuato (Belardi). Ciascuno dei termini posti ai vertici del triangolo presen­ta aspetti degni di nota e spesso non privi di problematicità. Per cominciare, che cosa intende Aristotele con l'espressio­ne tà en tii phonii? A questa domanda vi sono risposte di­verse. Cesare sostiene che Aristotele attribuisce all’espressione (“ton en ho phono”) lo stesso valore che Saussu­re dà al termine "significante" quando spiega la natura del segno linguistico. Belardi, invece, sostenne che tà en tii phonii si rifere non ai significanti, ma all’espres­sione linguistica intesa nella loro forma compiuta di 6no­ ma (nome), rhima (verbo), /6gos (discorso), come pure di kataphasis (affermazione – Fido is shaggy) e apophasis (negazione – Fido is not shaggy). Le ra­gioni di questa scelta si basano sul fatto che questi elemen­ti, facenti parte del programma di analisi di Aristotele, ven­gono definiti "simboli" delle affezioni dell'anima nell’Analytica Priora. Ora è indubbio che Aristotele intenda con l'espressione "suoni della voce" qualcosa che sottolinea molto chiara­mente la veste fonica e il carattere di "significante". Tuttavia si deve anche sottolineare che l'ottica con cui Aristote­le, almeno nell’ “Organon”, guarda ai fatti di linguaggio sem­bra diversa da quella saussuriana. Infatti Aristotele è qui interessato a saggiare le possibilità e la garanzia dell’'uso del linguaggio nell’analisi della realtà. Tale garanzia sembra esserci quando si dia una reciproca­bilità tra i due ambiti del linguaggio e del reale. Ora, posto che, per Aristotele, la simbolicità del linguaggio nei confron­ti del reale è sempre di secondo grado, in quanto il nome sta per un'immagine, la quale è appunto immagine di una cosa, sul vertice sinistro del triangolo deve stare qualcosa che (per gli scopi logici perseguiti nel De interpretatione) sia intercambiabile con ciò che si trova al vertice superiore. Da qui deriva l'uso della nozione di “simbolon”, che Ari­stotele riprende da una tradizione risalente fino a Democri­to (D-K). Le ragioni che permettono la specializ­zazione del termine “simbolo” per indicare una espressio­ne linguistica convenzionale sono connesse alla sua etimoogia. “Simbolo” indica ciascuna delle due metà in cui viene spezzato un oggetto -- a esempio un astragalo, una medaglia, una moneta -- in ma­niera intenzionale, affinché possano servire, in un momen­to successivo, come segno di riconoscimento, o come prova di una certa cosa (Belardi, Eco). Il fat­to che le due metà riescano a combaciare perfettamente vie­ne a indicare la presenza di un rapporto precedentemente istituito (a esempio un rapporto di ospitalità, di amicizia, di paternità), la cui documentazione è affidata appunto alla congruenza perfetta dei due sjmbola. Si viene in effetti a realizzare una situazione in cui ciascuna delle due parti può scambiarsi di posto con l'altra, senza che venga a perdersi il valore di prova. Così dal momento che ciascuna parte pre­suppone – o implica, come per consequenza logica -- l'altra, o stabilisce con l'altra una stretta corri­spondenza, “simbolo” viene ad acquisire il si­gnificato di "ciò che sta per qualcos'altro". Ma il fatto che venga preferita nel contesto della teoria linguistica aristote­lica la parola sjmbolon all'espressione smefon (che pure indica uno "stare per") induce a indagare su una possibile specificità del rinvio istituito dal simbolo. In effetti, nel ca­ so del segno, i due termini del rinvio (che, come vedremo, è una implicazione) non sono sempre reciprocabili: un primo termine può rimandare a un secondo, senza che necessaria­ mente il secondo rimandi al primo. Nel caso del simbolo, invece, i due termini sono perfettamente reciprocabili. Non è un caso che symbolon sia attestato per indicare "ricevuta", talvolta redatta in duplice copia. Le due parti hanno, per cosi dire, lo stesso valore. Questo aspetto etimologico è presente nell’uso che in particolare Aristotele fa dell'espressione sjmbolon nel De interpretatione. Un nome (‘Shaggy’) e un simbolo di uno stato d'animo (percezione di una cosa come ‘shaggy’) in tanto che si realizza, previo un accordo (synthk), un combaciare perfetto tra di loro e una perfetta intercam­biabilità, che garantisce la correttezza del nome stesso (‘shaggy’ =df. hairy-coated, Be­lardi In quanto sjmbolon, il nome non è più deoma ("rivela­ zione"), come lo era per Platone. In Aristotele il nome è "suono della voce significativo per convenzione" (phone s­emantika katà suntheke) (De int.). Questo marca il passaggio da una linguistica che conservava un carattere semiotico, come quella platonica, a una linguistica che non parla più di segni e che è intrinsecamente non semiotica. Mentre per Platone le espressioni linguistiche erano segni che "rivelano" qualcosa di non percepibile (l'essenza del­ l'oggetto o la dunamis), per Aristotele esse sono simboli che stabiliscono finalmente di modo convenzionale o arbitrario una pura relazione di equivalenza tr tra i due correlati, senza alcuna preoccupazio­ ne che l'un termine "riveli" l'altro. Del resto, l'opposizione convenzionalel/naturale permet­te di distinguere anche tra il linguaggio umano e i suoni emessi dagli animali -- questi ultimi essendo, per altro, ugualmente vocali e interpretabili. Già la nozione, se non di suono, ma di "voce" (phone) presenta alcune interessanti particolarità. Nel “De anima” si dice che un suono e definito una "voce" quando e emesso dalla bocca (con lingua) di un es­sere animato (II.); ed e dotato di significato (smantikos) (Il.). Ora, i suoni emessi dagli ani­mali, per quanto definiti ps6phoi (''rumori"), hanno tutta­ via le due precedenti caratteristiche. Ciò che li distingue dalla voce emesse dagl’uomini sono due fattori. Non e una voce convenzionale (e di conseguenza non puo essere né simbolo né nome), ma e involuntario, meramente causato "per na­ tura" (De int.). E la voce e agrammata, cioè "inarticolabili" o "non combinabili" (Pot.). La nozione di "combinabilità", del resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue è al centro stesso del carattere di semanticità del linguaggio umano. Una voce o suono semplice (adiafretos, "invisibile") puo articolarsi per il primo grado in una uni­tà più grande dotata di significato. Gli animali, invece, emettono solo suoni indivisibili (‘miao’ ‘read chimp lit.’) , ma non combinabile (Pot.). Si possono illustrare riassuntivamente i caratteri del lin­ guaggio umano in contrapposizione ai suoni emessi dagli animali, attraverso il seguente schema: linguaggio umano - per convenzione - elemento indivisibile combinabile e elemento divisibile - lettera - elemento dotato di significato - simbolo – nome – nome aggettivo (shaggy) – suono e voce degli animali - per natura – causato fisicamente – involuntario – istinto – risponsa allo stimolo --- elemento indivisibile non combinabile - non lettera - elemento che rivelano (d- loflsl) qualcosa - non simbolo - non nome. Si deve rilevare, tra l'altro, che la semanticità dei suoni emessi dagli animali è espressa dal verbo dlofìsi (''rivela­no", De int.), -- “manifestare” in Witters -- fatto che conferma l'idea che per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione o finalmente l’aribitrario, come nel caso del linguaggio o il suono o la voce di un animale non umano, torna di nuovo in pri­mo piano il carattere semiotico d'una espressione. Il suono o la voce di un animale – un ‘pirot’ – e un sintoma che rivela la loro causa fisica. We must know the character, age, sect, nation, and other peculiarities of the writer. Every human being has a character- a cer possessed their minds that they became mere automata in his hands, and pour out words and thoughts as they are poured in, like so many water-pipes of a cistern, betrays profound ignorance of the subject. Some such crude fancy was entertained in former times, and is probably not extinct. It doubtless originates in a vague notion, that the more entirely human agency is excluded from the doctrine of inspiration, the higher honour was bestowed on the divine spirit. And the etymology of the word “inspiration” has also its effect. It originally and properly signifies, a breathing in, and suggests the dark and mysterious conception of an effect produced on the thinking substance of a man , not unlike the inflation of a bladder. But inspiration has nothing in common with its etymology. Inspiration simply expresses the idea of super-natural assistance and guidance in the communication to mankind of a truth previousl unknown. He who is honoured  “magnam cui mentem animumque, Delius inspirat vates”  with it, is enabled to speak, act, and write, as a divine messengers, in perfect conformity with the will of Giove who sent him; so that nothing proceeds from him, but what is holy and true. Yet he is no puppet, acted on by a physical and compelling force from without. He is a living, personal agent – like Madame Arcati --, in full possession of all the faculties with which he has been endowed by his creator: with perception, memory, consciousness,will. And the energy of the Holy Ghost wrought no greater violence on his mind in the exercise of these powers, than is wrought by his ordinary operation on the hearts of believers in the Roman cult. It is not our business to give the philosophy of this “ pre-established harmony” between agencies so different, nor to speculate on the mode in which they were combined for the production of a single result. As interpreters, we state the fact – not explain it. And the fact certainly is, that no men are more distinguished from each other by strong mental idiosyncrasies, nor any who give more decided evidence, that their own spirits performed an important office in composition. In the author of the book of Proverbs, we see before us the grave, sententious, dignified monarch, whose profound knowledge of human nature, and sparkling gems of wisdom, made his name celebrated throughout the East. Amos is always the strong, bold ,but somewhat unpolished herdsman of Tekoah. The rough and vehement Ezekiel, standing with dishevelled hair and rolling eye, in the midst of his fantastic but expressive symbols, never suffers us to mistake him for Isaiah, the sublime, imaginative, tasteful courtier of Hezekiah. The same with the plaintive, tender Jeremiah - the contemplative John the argumentative, glowing PAUL. It is an old, but, with proper explanation, perfectly true remark, originally made by Jerome, that revelation consists in thought, not in words or external dress – “nec putemus in verbis scripturam evangelii esse, sed in sensu.” We   insult the Holy Ghost by supposing him unable to accommodate himself to the mode of thinking and phraseology of those whom he honoured with his influence — that when he "   When we read the Epistle to the Romans therefore, we must remember that we are conversing with a finished gentleman of the old school; a scholar brought up at the feet of Gamaliel, a powerful but rapid reasoner, delighting in ellipses, digressions, repetitions, bold figures, and pregnant expressions, suggesting more than meets the ear - fond of illustrating his subject by Old Testament ideas, even when he intends making no use of them in argument; and above all, that we are conversing with him, who, more than any other apostle, is deeply penetrated with the glorious catholicity and abounding grace of the gospel! In reading James, we must think of the stern, high-souled moralist, in whom the ethical element of Christianity seems to have taken the deepest root; who,while with adoring faith he beheld “the Lamb slain from the foundation of the world ,” never lost froin his view the awful form of that “ eternal law,” which spoke in thunder from Sinai, and yet speaks in milder tones, though with  made the prophet he was forced to unmake the man the same commanding authority, to every child of Adam. John, in his writings ,seems to be still clinging to his master's bosom. Love to the person of his Redeemer is evidently his engrossing sentiment. No one can doubt, apart from every argument contained in other parts of Scripture, that John believed him to be divine. His glory as the uncreated Logos — that glory which he had with the Father before the world was, a few scattered rays of which had been seen through the veil of his humiliation, is the great thought with which his soul holds constant communion, raised above every other object — likethe eagle calmly reposing in mid heaven, and gazing at the sun! He who gives no attention to these things, and does not take pains to catch the distinctive peculiarities of the sacred writers, commits the same kind of blunder with that of the man who reads Milton's Paradise Lost, and Addison's Essays in the Spectator, yet sees no difference between them except in the length of the lines. It is important also to note the different kinds of composition they employed. Some were poets, and must be interpreted according to the laws of poetry. Their bold tropes must not be turned into sober matter-of-fact realities; as is done by the Millenarians who read Isaiah nearly as they would Blackstone's Commentaries, or the British Constitution. Ezekiel is not Luke, nor is Matthew the publican, David, singing one of the sweet odes of Zion to the music of his harp. Historians are to be treated as historians, not as poets or rhetoricians. The accounts of miracles given in our four gospels must therefore be taken to the letter. No books in the world bear more decided evidence that their authors intended to give simple and perspicuous narratives of events as they actually occurred. The principle must not be tolerated for a moment, of explaining them away, by doing violence to the plain meaning of language, and to all the laws which are applied to other historical compositions. Yet it has been sanctioned by great names, especially in Germany. Grave divines are found, who insist that there is not one miracle in the gospels. The events which SEEM miraculous are entirely natural, but exaggerated and embellished by the warm fancies of the people among whom they occurred. Only strip, they say, the Evangelists of this semi-poetic drapery, and the business of exposition will go on delightfully. Moses fares, if possible, still worse. They turn him into an allegorist or reciter of mythological fables. The first ten chapters of “Genesis” contain about as large a body of real truth, as can pass with out inconvenience through the eye of a needle being made up of old stories and scraps  a — of song, which mean nothing, or anything, that a lively fancy may suggest. i authors are conceited sciolists, who, pranking Let not the Christian student take great pains to refute this wretched infidelity, which does not openly avow itself infidel, merely because its advocates earn their bread by a profession of Christianity; the most of them being either professors of Christian theology or pastors of Christian churches. In dignandum deisto; nondisputandum est. Such interpretations do not deserve the name. They are feats of jugglery and legerdemain; and their   In expounding Scripture, let there be a constant appeal to the tribunal of common sense. Language is not the invention of metaphysicians, or convocations of the wise and learned. It is the common blessing of mankind, framed for their mutual advantage in their intercourse with each other. Its laws therefore are popular, not philosophical- being founded on the general laws of thought which govern the whole mass of mind in the community. Now, however men may differ from each other,  themselves as the high-priests of philosophy, prove by their irreverence for things sacred, that they have not reached the portico of her temple. The true philosopher always trembles when he stands, or even suspects that he stands, in the presence of God! He can not trifle with such a book as the Bible! H e cannot sport with a volume, the falsehood of which, if proved, turns him over to the beasts, and deprives him of his last stake as a candidate for the glories of immortality. Marcello Capra. Keywords: del corpo animato, animo, spirito, l’immortalita dell’animo, l’immortalita dello spirito, incorporeita dell’animo, incorporeita dello spirito, Method in philosophical psychology, psychic versus psychological, functionalism, manifestation displayed, revealed, semiotics aristotele in behaviour – body/soul – corpore animo – hylemorphismo, forma e materia, una forma, una materia, due materie, una forma, realisabilita multiple, semiotica di aristotele, il comportamento che rivela l’animo, il comportamento che e simbolo dell’animo, differenza tra Platone ed Aristotele, il concetto chiave naturalista di ‘rivelazione’, manifest, delouse.  life, soul – Aristotle on soul and life – zoon, vita, anima – Galeno poli-centrismo – Aristotle monism, dualismo.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capra” – The Swimming-Pool Library. Capra.

 

Grice e Capua: l’implicatura conversazionale -- filosofia romana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bagnoli Irpino). Filosofo italiano. Grice: “I like Capua – from the middle of nowhere – Lago Laceno – he founds an “Accademia degl’Investiganti” in Capri! To philosophise!” Vestigia lustrat, i.e. even in dreams the hound follows the trace of the hare!” -- Impegnato nella ricerca e nella sperimentazione, in antitesi ai vecchi capiscuola come Aristotele, Ippocrate, Galeno ed altri, fu a capo di un'accademia dal nome gli "Investiganti".  Pubblica il "Parere", sostenendo le idee di chi opponeva la ricerca medica e scientifica al sapere della tradizione. Nacque a Villa Capua, in Via Carpine, da Cesare e Giovanna Bruno. Nonostante la famiglia fosse facoltosa, non gli venne assegnato un precettore che lo seguisse negli studi oltre le basi grammaticali. Ad ogni modo, si dedica con passione, sin da giovanissimo, all'approfondimento del latino, del greco e della retorica. Persi entrambi i genitori e dovette cominciare a provvedere da sé alla sua educazione. Trasferitosi a Napoli per seguire la sorella, frequenta la scuola dei padri della Compagnia di Gesù. Impara le Istituzioni di Giustiniano, leggendo al tempo stesso anche le osservazioni di Giacomo Cuiacio, testi che segnarono profondamente la sua formazione, come è evidente in vari passaggi del suo "Parere" e nelle sue "Lezioni intorno alla natura delle mofete". Si laurea  e fa ritorno a Bagnoli, con l’intenzione di approfondire le sue conoscenze naturali ed anatomiche, effettuando osservazioni dirette su animali vivi sezionati e con il supporto di testi reperiti a Napoli. Proprio in quegli anni prese forma il suo pensiero critico circa l'inadeguatezza del metodo della filosofia. Degli anni di ritiro a Bagnoli non abbiamo ulteriori notizie biografiche. Amenta, autore di una sua biografia, ci riferisce anche di una certa attività letteraria, collocabile in questo periodo, di cui, tuttavia, non ci è giunta testimonianza. I suoi testi furono rubati mentre era in viaggio verso Napoli.  Si trasferì definitivamente in Napoli. Probabilmente il suo trasferimento fu favorito dalla presenza a Napoli di Cornelio, suo amico, il quale vantava una lunga preparazione alla scuola galileiana e indirizza Di Capua alla ricerca scientifica nella linea segnata da Galilei e da Cartesio, protagonisti della rivoluzione che la filosofia sperimentale portava all'interno di una cultura legata al passato e in cui vigeva la legge dell'"ipse dixit". Sulla scia di questo fervore intellettuale, fonda insieme a Cornelio, e Borelli Gl’Investiganti, gruppo di gioco filosofica di neta ispirazione anti0aristotelica.  La sua casa fu spesso luogo, ad ogni modo, di incontri tra gli intellettuali napoletani che facevano capo agl’Investiganti. Ottenne il riconoscimento dal Principe Francesco Carafa, di essere iscritto all'Arcadia di Roma, con il nome di Alessi Cillenio. Tale riconoscimento scaturisce dalla fama e dall'operosità scientifica che ottenne non solo a Napoli, ma in tutta Italia. A causa del suo ruolo di spicco all'interno dell'Accademia e della pubblicazione della sua opera più celebre, il "Parere", e coinvolto nel processo agl’ateisti che fu da molti visto come un processo indetto dal tribunale dell'Inquisizione per contrastare il diffondersi delle nuove idee in ambito scientifico e filosofico. Il processo era ancora aperto quando morì. Fu un professionista scrupoloso e un illustre innovatore scientifico nello scenario culturale napoletano della seconda metà del Seicento. Egli dimostrò notevole interesse per le dispute galileiane e i processi contro lo scienziato pisano, che in quegli anni erano al centro delle cronache del mondo politico, religioso e scientifico. In quel periodo Di Capua era anche interessato al pensiero di Bruno, Campanella e Porta, ma soprattutto era affascinato dalle novità scientifiche a cui lo introdusse il suo amico Cornelio, riguardanti i libri e le pubblicazioni dei principali scienziati e filosofi italiani ed europei come Bacone, Cartesio, Harvey, Hobbes, Gassendi, Samert, Hooke, Willis, Boyle. Tra Cornelio e C. sorse una solida amicizia basata su ideali comuni: entrambi non condividevano né l'autoritarismo aristotelico né le vecchie teorie di Ippocrate e di Galeno. Dello stesso pensiero era Borelli, medico fisico e matematico, ammiratore, anche lui, del metodo di GALILEI. Infatti lo sperimentalismo galileiano, basilare nell'attività dell'Accademia del Cimento, influenzò e si congiunse con l'attivismo speculativo degli Investiganti napoletani.  L'ambiente culturale napoletano era dunque vivo e attivo e le librerie di via San Biagio dei Librai divennero centri di raduno intellettuale, in cui si discuteva sulle novità di fisica, astronomia, filosofia e medicina. C., ancora prima della fondazione dell'Accademia degli Investiganti, aveva già incominciato a contribuire al risorgere della cultura napoletana, partecipando attivamente alle riunioni e ai circoli culturali sorti a Napoli nella seconda metà del Seicento, tra cui quello fondato da Camillo Colonna. In un’ottica del tutto contrastante alla Controriforma della Chiesa cattolica che da circa cinquanta anni aveva preso piede, Napoli diventa il centro della vita letteraria e delle attività scientifico filosofiche, spostando l'attenzione da Firenze a Napoli: si passa dal Cimento e dai Lincei agli Investiganti, dalle Accademie fiorentine e romane a quella napoletana.  Si forma quindi in questa “nuova” Napoli, sotto lo stimolo, l'esempio e l'amicizia di Cornelio e Borelli, i quali, durante i loro viaggi, erano stati illuminati dall’ “Accademie des Sciences” di Parigi e la “Royal Society” di Londra. È in questo contesto culturale che ‘Il Parere” richiama l’attenzione di Redi. Lui e Redi erano entrambi scienziati, intellettuali, accaniti osservatori della natura; tutti e due seguivano il metodo sperimentale secondo lo spirito galileiano. Redi scrisse a C. una lettera dopo aver letto le sue "Lezioni sulla natura delle mofete", in cui gli manifesta tutta la sua stima e ammirazione. Redi fu il primo ad effettuare ricerche sul cancro e sulla parassitologia. L’ammirazione che provava nei confronti del C. era la dimostrazione che quest’ultimo era inserito nell'élite culturale italiana del tempo, anche al di fuori del circuito napoletano, fino al punto che la Regina Maria Cristina di Svezia si interessò vivamente a lui e alle sue idee, comunicandogli il desiderio di conoscere con maggiore chiarezza ed approfondimenti il suo parere sullo stato dell’incertezza della medicina. Scrisse allora i “Tre Ragionamenti sull'Incertezza dei Medicamenti”.  Nelle sue pubblicazioni non fa menzione di Vico, suo devoto alunno, probabilmente in quanto al momento della sua morte il Vico aveva soltanto 25 anni. Quindi non aveva avuto modo di intuire le capacità intellettuali di VICO, il suo genio raziocinante di storico e di filosofo. Certamente Vico fu influenzato dalle idee e dalle teorie di C., che affiorano in alcune orazioni giovanili vichiane (il concetto della divinità presente in tutta la natura). Vico, di natura solitaria, fu molto sensibile alle novità scientifiche e filosofiche del tempo, partecipa al movimento culturale napoletano e frequenta la casa C., che considerava il suo ideale maestro. C., Cornelio, Andrea, e Borelli fondano a Napoli “Gli’Investiganti”insieme ad altre illustri personalità del mondo scientifico filosofico napoletano. Gl’Investiganti sorgeno in uno scenario di fervore intellettuale nuovo, dall'esigenza, quindi, di allontanarsi dalla filosofia aristotelica e dalle teorie di Ippocrate e di Galeno, per abbracciare le nuove teorie rivoluzionarie. Il motto degl’Investiganti e una citazione di LUCREZIO: "vestigia lustrat" seguito dall'immagine di un cane che segue le tracce e fiuta le impronte, rappresentando a pieno lo sforzo degl’nvestiganti nella ricerca delle cause alla base dei fenomeni naturali.  L'Accademia fu chiusa per la peste. Venne riaperta dal marchese Andrea Conclubet, spinta da una nuova energia vitale: superare l'arretratezza culturale del paese per mettersi al passo con gli altri Stati europei. Gli investiganti si riunivano ogni 20 giorni e non si limitavano alla discussione dei vari argomenti, ma anche alla sperimentazione proprio come gli accademici della Royal Society di Londra e del Cimento. Alla riapertura dell'Accademia, quindi, le prime lezioni furono tenute dal C. su argomenti di natura scientifica. Altre lezioni ebbero come argomento l'anima, la fisiologia e l'embriologia. Si eseguirono anche esperimenti di fisica, meccanica e idromeccanica in situ, cioè nei luoghi dove certi fenomeni si verificavano (per esempio nella grotta del cane di Pozzuoli, nota per i fenomeni mefitici). Le nuove teorie degli Investiganti determinarono una reazione nel mondo del conservatorismo gesuitico, che sfociò nella fondazione di un'Accademia antagonista: l'"Accademia dei Discordanti", guidata dai famosi medici Pignatari e Tozzi. Quest'ultimo fu primo medico del Regno di Napoli, professore alla Sapienza e in seguito alla morte di Malpighi gli venne affidata la carica di archiatra pontificio. Da allora i contrasti tra le due Accademie si moltiplicarono a tal punto che il viceré Pedro Antonio de Aragón dispose di chiudere entrambe le Accademie. In seguito riapre una sua scuola, dando prova della sua convinzione sulla fondatezza delle sue teorie e sul desiderio di trasmettere queste verità agli alunni. Questo periodo rappresenta un momento di massima notorietà del pensiero culturale a capo di C., tanto che, il viceré spagnolo Faiardo indisse un congresso, in cui diversi medici dovettero esprimere il proprio parere per ciò che concerne lo stato delle teorie medico scientifiche oggetto di disputa. Fu così che, in occasione del convegno, Dcompose il suo "Parere Divisato in otto ragionamenti..", che ottenne notevoli riconoscimenti oscurando il conservatorismo cattolico dei suoi detrattori. Nonostante il Seicento, secolo del barocco, avesse come personaggio di spicco a Napoli Marino, ritenuto dai suoi contemporanei un genio poetico di grandezza insuperabile, si dichiara nettamente anti-marinista, in quanto la sua mentalità era di natura critica, analitica e scientifica. Si forma nel pieno delle dispute letterarie tra marinisti e tradizionalisti di stampo petrarchista. In quell'epoca predomina il trecentismo linguistico, perorato da Bembo e codificato dalla Crusca, che Salviati detta e di cui nel solo Seicento esistevano ben 3 edizioni. La notorietà, l'autorità, il peso culturale di questo nuovo dogma della lingua italiana ebbe una notevole presa su C. grazie anche alla sua predilezione per la poesia di Petrarca. Poiché i petrarchisti sono considerati “antiquari” dai marinisti, lui stesso venne etichettato come un antiquario, in quanto purista linguistico e seguace della tradizione dei dettami della Crusca. Di fatto, tuttavia, egli sosteneva principi rivoluzionari di scienza, seppur mediati da un linguaggio ormai arcaico. Tuttavia a Napoli, nella seconda metà del Seicento, si afferma intorno a lui un movimento puristico, a tendenza arcaicizzante che esercitò il suo influsso anche su VICO. Questo sottolinea il suo aspetto conservatore, riferito esclusivamente al linguaggio da lui usato, tipico del purismo letterario petrarchesco. In contrasto con questo atteggiamento letterario antiquario, fu senza dubbio un rivoluzionario in ambito scientifico nello scenario culturale napoletano. La sua produzione filosofica è, dunque, caratterizzata nel complesso da una forte contraddizione tra il nuovo del suo pensiero scientifico ed il vecchio o antico della lingua da lui scelta.  La sua oè costituita da duemila sonetti, due tragedie ("Il martirio di Santa Tecla" e "Il martirio di Santa Caterina"), alcune commedie, una favola a sfondo idilliaco e altri scritti filosofici vari.  Di questa produzione non abbiamo testimonianza a causa del furto subito da lui in viaggio verso Napoli. I sonetti, tanto nella forma quanto nel contenuto, sono di imitazione petrarchesca. La stesura di questi ultimi, inoltre, è collocabile al periodo dell'adolescenza e, pur non potendolo affermare con certezza, è lecito intuire che la sua cosiddetta produzione non abbia potuto assurgere ad alte cime, considerata anche la sua indole disposta più allo studio dei fenomeni e al razionalismo che all'aspetto psicologico o ai fattori emotivi. Le opere drammatiche sono, al contrario, ispirate al modello di Porta. Il Parere divisato in otto ragionamenti è indubbiamente la sua opera più importante, pubblicata a Napoli, ristampata con le Lezioni intorno alle mofete. In questo testo parte dalla pretesa di dimostrare quanto vana, quanto priva di ogni salda dottrina fosse la filosofia di Aristotele, rivendicando un rinnovamento culturale, un bisogno di liberarsi dagli eccessi del potere politico ed ideologico di alcune posizioni. Proprio a causa di questo spirito di rivolta rintracciabile nel testo fu intentato un processo contro lui da parte dei Gesuiti, capitanati da Benedictis, che si svolse a Napoli. Nel Parere, tuttavia, più che negare il pensiero di Aristotele nel campo della conoscenza, intende contestare l'atteggiamento di coloro che ne avevano adottato in maniera eccessivamente pedissequa il metodo. La posizione da lui presa è tutta in favore della rivalutazione delle scienze e di un approccio nei confronti di queste che non sia statico, bensì critico anche nei confronti della tradizione. La medicina in particolare è una scienza che non può fondarsi, a suo parere, su nozioni incontestabili, ma deve piuttosto essere costantemente messa in discussione, pur mantenendosi nei limiti dell'esperienza e della debole ragione. Nell'opera, comprensiva di otto ragionamenti, viene anche delineata la figura ideale del "buon filosofo", il quale deve essere allo stesso tempo anche amante della filosofia e buon conoscitore della geometria. Agli otto ragionamenti aggiunse un'appendice al "Parere": "L’incertezza". In entrambe le opere Di Capua finisce con il constatare lo stato dubbioso tanto della conoscenza e come proprio il loro caratteristico elemento di imprevedibilità, anche in quanto soggette agli elementi umani, rendano impossibile una conoscenza del tutto obiettiva. Le Lezioni sulla natura delle mofete riprendeno i concetti già esposti nel "Parere" sull'aria, concepita come anima dell'universo. Anche nella descrizione e nello studio delle mofete, fenomeni naturali caratterizzati dall'uscita di anidride carbonica, vapore acqueo e altri gas da terreni di origine vulcanica, rivela le sue attitudini alla razionalità, alla dimostrazione obiettiva di ogni evento fisico, sostenendo come la conoscenza di un fenomeno debba essere fondata sul metodo sperimentale. Altra opera pubblicata a Napoli e una biografia del condottiero Andrea Cantelmo, il quale milita nell'esercito di Ferdinando II D'Austria e a cui veniva attribuita l'invenzione delle mine volanti e di un tipo di pistola a ripetizione con 25 colpi. La biografia diventa il pretesto per l'autore per far affiorare la sua concezione sull'individuo, sull'uomo, sui giochi della fortuna, sulla dialettica tra gli avvenimenti storici riguardanti l'uomo come personalità unica ed individuale e l'intreccio dello svolgimento degli eventi. Rogatis, Cenni biografici degli uomini illustri di Bagnoli Irpina. Carmine Jannaco Martino Capucci, Storia letteraria d'Italia (F. Vallardi, Milano, Piccin nuova libraria, Padova); Puppo, Discussioni linguistiche del Seicento, POMBA, Torino). “Parere di C. divisato in VIII ragionamenti, ne' quali partitamente narrandosi l'origine, e'l progresso della medicina, chiaramente l'incertezza della medesima si fa manifesta” (Antonio Bulifon, Napoli); Amenta, Vita di C., Venezia). Niccolò Amenta, Vita di C. detto fra gli Arcadi Alcesto Cilleneo” (Venezia). Badaloni, Introduzione a Vico, Laterza, Roma; Bari); Cotugno, La sorte di Vico e le polemiche scientifiche e letter.; R. Ospizio V. E., Giovinazzo. Salvo Mastellone, Pensiero politico e vita culturale a Napoli, D'Anna editore, Messina-Firenze); Maturi, Nicolini, La giovinezza di Vico; saggio biografico, Napoli); Minieri Riccio, Cenno storico delle Accademie fiorite nella città di Napoli, Bologna); Osbat, L'Inquisizione a Napoli. Il processo agli ateisti, Edizioni di storia e letteratura, Roma); Amedeo Quondam, "Minima dandreiana: prima ricognizione sul testo delle "risposte" di F. d'Andrea a Benedetto Aletino" in Rivista storica italiana, Napoli); Reppucci, Saggio monografico su C., scienziato-medico-filosofo bagnolese (Circolo Sociale "Leonardo di Capua", Bagnoli Irpino). Dizionario Biografico degli italiani. Vico, Autobiografia, a cura di Croce Bari (Edizioni Pauline, Milano).Capua's “parere” is just that: an opinion -- in response to a specific request by the Viceroy and the Consiglio Collaterale  put to a group of prominent Neapolitans for counsel on a legal regulatory policy. C.'s attack on Aristotelian discursive modes seems simple, ordinary Aristotle-bashing. C. maintains a theoretical investment in the anima. This is not a recuperation, or a conscious continuation, of Aristotle on Capua's part. Capua wishes to protect philosophy from a mechanical application of a logical technique, and also from a premature, reductionist applications of the beast or the machine metaphor. Aristotle offers a biological concept of the soul as the first actuality of life, the principle of life.  C., Il suo parere, divisato in otto ragionamenti, ne’ quali partitamente narrando l’origine, e'l progretto della filosofia, chiaramente l'incertezza della medesima si sta manifefta. Napoli, Bulison Columa de Superiori. 1” All'illustrissimo, ed eccellentissimo signore LCTEA CARRAFA, principe di Belvedere, marchese d'Anzi, &c. On avendo io cosa, eccellentissimo signor mio, che m'abbia in più pregio di quel che so la padronanza vostra, cerco per quanto posso di farla palese a ciascuno, sicome altri fa il possedimento delle cose più care, e preziose, ch'egli s’abbia, o per sua industria, o per fortuna acquistate. Ho pensato dunque, che a ciò fare io non potrei avere migliore opportunità di questa che mi porge il presente saggio filosofico, che per mia gran vençura essendomi capitato alle mani, ho preso a far istampa re, s'io il mettesli fuori sotto il nome vostro, La scrittura veramente a giudicio di voi medesimo, e d'ogn altr'huomo intendente è tale, che agevolmente posso da lei promettertii il fine, che m'ho proposto; im perciocchè ben tosto n'andrà ella per le mani delle persone di miglior giudicio nelle buone letiere, sì per per ta cognizione, che s'ha dell'autore di lei, doa vunque ha di quelli, che se ne dilectano, sì perch' ella il vale, per l'eloquenza, e doctrina, di che si ve de ripiena: oltre all'autorità, e fama, che le si accrescerà dall'istesso nome vostro ch'ella porta seco. Poichè possiam dire, che poche sono quelle parti d'Europa, ove non s'abbia conrezza di voi, e delle vostre egregie qualità, o per la fama, o per la presenza di voi; ma che quasi tuttele havete cerche colle lunghe, e laudevoli peregrinazioni, le quali in quella guisa, che da voi sono state fatte, sidebbono riporre fra quegli studj, con che vi siete sempre ingegnato, e v'è venuto fatto d'aprirvi la strada all’intera cognizione delle umane cose, e d'accrescere con le doti dell'animo, e dell'ingegno lo splendore ch'avete ereditato da'vostri maggiori. Oltre a ciò non doveva questa scrittura venirne fuori sotto altro nome che'l vostro: mentre, e la stima, che voi fate dell'autore di essa, e l'affezione, che gli portate, sicome fare ancora a ogn'altro huomo letterato e l'antica dimestichezza, ch'egli ha con esso voi il richiedeano. Ricevete dunque il presente dono, ch'io viso di questo saggio, o per più vero dire, della picciola parte, ch'io ho in quello, per l'opera da me polta in farlo stampare, con l'usata vostra umanità in segno dell'osservanza ch'io viporto. E pre go Iddio, ch'avanzi in bene ogni vostro desiderio; e alla buona vostra mercè umilmente mi raccomando. Di V. E, Umilissimo Servidore. Giacomo Raillar D. Carlo Buragna; a'Lettori. E Gli sono già alcuni mesi pasati, che d'ordine del Signor Vicerè fu tenuto consiglio da alcuni filosofi di metter qualche compenso agl’abusi ed errori, che tutta via si commettono nella filosofia. E dopo qualche ragionamenti intorno a cotal bisogna avuti, divisarono eglino, che per potere con piis loro acconcio esaminar le ragioni, e i pareri proposti, e da proporsi, ciascuno doveſſe mettere in iscritto il suo. Perchè convenne a C. che e uno de’chiamati a questa adunanza scrivere il parer suo intorno a cotal materia; e parendo a lui, che ciò non si potesse fare acconciamente, senza considerare innanzi tratto, e riandar con diligenza la natura della cosa, che s'aveva a trattare, cioè della filosofia. Sì il fa egli con tanta dottrina, eloquenza ed erudizione, che, ejfendo il suo scritto venuto al le mani d'alcuni huomini letterati, e altri amici di lui, par ve loro dettato più tosto per l'universalità di coloro, che fi dilettano delle bettere piie esquisite, che per haversi egli awe rimanere fra i termini d'una picciola, e privata compagnia. Comechè l'autore di quello non s'avesse nello scrivere proposto altro fine, che di soddisfare al carico da quella impostogli. Stimarono dunque coſtoro, che fosse una tale scrittura dameia ter in luce per mezzo delle stampe: e tanto fecero, che alla per fine persuaſero C. a farne loro copia, e a contentarſi, che si stampase almen queſta delle molte, e diverſe opere fue, ch' egli tieneappreffo di fe. E in ciò non pure ebbero eglino riguardo al piacere, che ſarannoper prender i doe tine i curioſi della lettura di queſto scritto, ma all'utile an che ne può riſultare a ogni forte di perſone, e spezialmente agl’avveduti, e giudiciofi ragguardatori delle cofe. Poichè, vedendo eglino la varietà delle opinioni, e delle Seite, e le diverſe, eSpelle volte contrarie guise del filosofare, che fra i filosofi di tempo in tempo fonvenute sì, anche ſenza entrar coʻfilosofanti in più sottili speculazioni, potranno age volmente accorgerſi, con quanta ragione altri Àfaccia a cre Bere D 1 grand 4 derë, o voglia dare a vedere, che una profeffione perfefef ſa cosè dubbiosa e incerta ha in se dottrina, o principi, ſu i quali altri pola porre alcuno ſtabile fondamento;e quan to fa pericoloſa coſa il vederſi nelle mani di coloro, che così fi danno ad intendere, espezialmente dove ne va la filosofia. Oltre a questo, chi non vede di quanto frutto può rium scire queſto scritto a’ filosofi, che danno opera alla filosofia? mentre dalla fola lettura di lui potranno efi per avventura apparar più di ciò, che alla cognizione della natura di lei s'appartiene, che non farebbono col rivolgere tutt'ora i volumi de'più riputati, e solenni maestri di quella: e accorger fi a un'ora qual via nell'impreſa del filosofare ſi vuol tener da colui, che laſciate andarele giunterie, e le ciance, intende Secondochè la condizined'untal mestiere comporta, faronore a fe, e giovamento agli infermialla ſua cura commeſſi. Ne meno faranno efli, e ciaſcun'altro, che attende a’migliori ljudj, per vedere apertamente quanti, e nella filosofia, e nell'altre Scienze ci sono ſtati, e fono di quelli, che fi vanno ſtillando il cervello pur dietro a quello, che o norciès o pure non ſi ritro va; e, come dile il noſtro Alighieri, Trattando l'ombre, come cosa falda. Maſenza, che Io mi diſtenda più oltre in voler dimoſtrares chente, e quale, e quanto profittevole, e dotta fi fia queſta ſcrittura, a ſufficienza il lettore ſol potrà egli vedere di ſe: e come anche non eſſendo ella fata dettata a fine d'averſe a divolgare, non per queſto rimane, ch'ella non corriſponda al la fama dell'ciutore di efsa, e all'opinione, che portanodi lui gli huomini più intendenti, e giudiciof. Sta ſano. EMINENTISSIMO SIGNORE Antonio Bulifon espone a V. Em. come deſidera darë alle ſtampe un saggio da C. intitolato “Il mio parere intorno alle cose della filosofia”, per ciò ſupplica V. Em.commetterne la reviſione a chi me glio parerà all’Enı.V.ut Deus, & c. N Congregatione habita coram Eminentiſſimo Domino Cardinali Caracciolo Archiepiſcopo Neapolitano ſub die 3. O &tobris 1679. fuit dictum, quod R.P.Franciſcus Verciulli Soc. Ieſu revideat, & in ſcriptis referat eidem Congregationis. MENATTVS VIC. GEN. Iofeph Imp. Soc. Iefu Theol.Eminentiſs. EMINENTISSIMO SIGNORE. O letto per comandamento di V. Emin. il libro del Si gnor Lionardo di Capoa: intitolato Parere intor noalla medicina, ne vi ho ritrovato coſa alcuna contraria alla dottrina della Fede, overo a' buoni coſtumi. Per queſto lo giudico degno di ſtapa, per pubblica utilità, e per ammaeſtramento degl' ingegni curioſi di recondita, e fruttuosa filosofia. HE Dell'Em. V. Antico, umilifs. Servo Franceſco Verciulli della Comp.di Giesi. N Eminentiſs. Dom. Cardinali Caracciolo Archiepiſcopo Neapolitano fuit dictum, quod ſtante relatione (upra ſcripti Reviſoris, imprimatur MEN ATTVS VI C. GEN. 1 Iofeph Imp. Soc. Ieſu Theol. Eminentifs. 1 ECCELLENTISSIMO SIGNORE A Ntonio Bulifon eſponea V. E. come deſidera dare alle ſtampe uno ſcritto intitolato Parere del sig. Lionardo diCapoa, intorno alle coſe della medicina, perciò ſupplica V.E.commetterne la reviſione a chi meglio parerà a V.E. ut Deus, & c. Magnificus Michael Biancardi videat, &inferiptis referai. CARRILLO REG. CALA REG. SORIA REG. Proviſum per Suam Excell. Neap. dic 4. Aprilis 1680. Maſtellonus. ECCELLENTISSIMO SIGNORE PA Er obedire a'comandidi V. E. ho letto il libro intitola to Parere del sig. Lionardo di Capoa,intorno alle cose della inedicina, e perchè in eſſo non ho ritrovato coſa contraddicciite alle Regie giuriſdizioni, giudico poterli dare alle ſtampe,fe cosi reſterà V.E. ſervita. In Nap. 16. Maggio 1680 DiV.E. Devotifs. Servidore ! Michele Biancardi Viſa ſupraſcripta relatione, iinprimatur, & in publicatione fervetur Regia Pragmatica CARRILLO REG. CALA REG. SORIA REG. Maſtellonus RA:  8CMA 220 GLI non hàveramente impreſa, o Signo ri, che più ragguardevole comparir faccia la maeſtà d'un prudente, e valoroso principe, quanto l'adoperar sì col ſenno, e colla mano, che i popoli alla ſua cura commeſſi non vengano da ſtraniero ferro aſſaliti, o ſenza vendetta miſeramente oltraggiati. Ma non è opera per mio avviſo men laudevole, e generoſa il render loro poi ſicuri da gl'inganni de’dimeſtici nimici;i quali al lora più gravemente nuocer ſogliono,quando ſotto il vela mo della benivolenza,edella carità aftutiffimamente ſi cuo prono; e ch’infingendoſi tutti umani, e compaſſionevoli al l'altrui fciagure, tendon poi loro sì inſidioſilacciuoli, che rade volte,o non mai ſenza mortale offeſa ſchifar ſi poſſo no. E nel vero, che monterebbe eglimai l'uſcir talvo, e ſicuro da' manifeſti riſchi della guerra ad huom, che poi nella tranquillità della pace,in tanto più acerbi,quanto più naſcoſi pericoli inavvedutamente cader doveſſe? Anzi queſti di tanta maggior compalfione degno ſarebbe, quáto più gravi, e più dure, e lagrimevoli da giudicar ſono le А ſven Ragionameñto Primo ſventure di quella nave, che ſcampata da più alti mari, giunta poi in bocca del porto miſerabilmente virompe. Perchè non mai a baſtanza potrà commendarſi il pietoſo, e faggio avvedimento - del noſtro Eccellentiſſimo Signor Vicerè; il quale auendo con maraviglioſa, e incredibile felicità il primo ottimamente compiuto; e reſi vani gl'in tendimenti, e gli sforzi di quelle armate, che ſuperbe, e crudeli infeſtando i mari, e le terre, ad ogn'or di ſangue, e di fuoco ne minacciavano; e ſgombrate ſimigliantemen te le fchiere de gli sbanditi, e de gliſcherani, che le ſtrade tutte, ei contadi ſcorrendo il noftro Regno malmenavano; ora con ogni ſtudio, e diligenza và riparando, che non ſia mo aman ſalva nell'avere,e nella perſona miſerabilmente oltraggiati per lomal'uſo della filosofia. La quale per ciocchè a ciaſcun forſe abbiſogna, ſicome ove ſia infra’li miti mantenuta della ſperienza, e della noſtra comeche debil ragione, eſſer puote per avventura di qualche giova mcnto al comune: così allo incontro s'egli mai avvien, che fi torca à ſiniſtro cammino, affai più delle malattie mede fime dannofa fi ſperimenta, e nocevole al genere umano. Nè prima alla notizia di lui gl’infelici avvenimenti d'alcu ni infermi fon pervenuti, per li quali le Chimiche medici ne forte s’accagionavano, ch'eglitantoſto ne impone, che per noi con minuta diligenza li cerchi ogni modo più op portuno da potervi dar riparo: e inſieme di preſcrivere a Medici, ove faccia meſtiere, certe, ſicure, e falde regole nel loro operare. Ma io quantunque voltemeco penſando riguardo quan te, e quali ſian le malagevolezze d’un tale affare, tante fra me mcdeſimo confuſo oltre modo, e fofpeſo rimango;per ciocchè, o che ficome in tutt'altre biſogne di gran conſide razione interviene, o che natura di tal'arte nol patiſca, du ro molto, e malagevol ſembra il dar legge alle coſe a quel la appartenenti. Perchè amerci più toſto ſenz'altro fare, tacendo di non darmene briga, ſe non fapelli, ch’in sì fat ta maniera contravvcrrei a ' comandamenti di colui, icui senni,non che le richicke debbo di preſente, ſenza replica alcuna, e con ſomma venerazione ſeguire; da' quali ſol moſſo, ed anche dal giovamento, ch'alla mia patria ne po trebbe forſe avvenire, volentieri, e di grado mi vilaſcierò entrare. Ed acciocchè ogni diliberazione, o partito, ch'intorno a ciò ſia da prendere, a vano, ed inutil fine affatto non rie ſca, tutte le forze del mio deboliflimo intendimento im piegherovvi; diviſando in prima le malagevolezze, in cui di leggier s'avvengono non che Principi, o Maeſtrati; ma FILOSOFI ancora, comechè faggi, e intendentiſſimi in dare ſtabili, e certe leggi alla Medicina; eſſendo fommamente una tal'arte di ſua natura incerta, e dubbitoſa, ed incoſtan te. Indi poi pian piano, e con diſcreto avviſo più adden tro facendoci,ilmodo proporremo, col quale quanto law natura della coſa comporti, un buon Medico, ed un mi glior Chimico far ſi poſſa. Ne altro provvediméto intorno a ciò al preſente mi ſovviene, che valevole, ed a propoſito ſia per riparare alle perpetue, e quaſi fatali calamità della filosofia. E per cominciare dalle memorie più antiche, laſciando da parte ftare quanto poco duraſſe in India, in Babilonia, edin Afiria quel lor diviſo di dover allogure gl'infermi nelle più uſate contrade e della Terra, perche fuffer cura ti da’ viandanti; nell'Egitto là, dove l'arti tutte, e i più no bili ſtudj nacquero in prima, e fiorirono, ſolamente a’Rè, ed a' Sacerdoti, ed a pochi Baroni d'alto affare ilmedicar gl'infermi era conceduto; onde da Manetone fra' Medici d'altiffimo fapere annoverati furono Antotide ſecondo Rè della prima dinaſtia de'Tiniti, il quale laſciò ſcritti alquan ti libri di notomia: e Tofortro Rè della terza dinaſtia, la qual’era de'Menfitani. Ma poi tratto tratto cotal meſtiere con tutti s'accomunò, eziandio colla minuta plebe; e tan to il numero de' Medici s'accrebbe, che ben per ciaſcun male era il particolar Medico ſtabilito, che ad altro malo re non dovea por mano, come ne dà teftimonianza Erodo. to della Greca Iſtoria padre, con queſte parole:; dè intpoxaj A κατα: 1 2 I Strab. lib. 3.8. 16.  κατι δέ σφι δέδασε μιής νούσου έκασG- ιησος, και ου πλεόνων» παντού δ ' ιητών επί σλέα.οι μενεγαρ οφθαλμών Ιητοί κατεσέασι, οι δε κεφαλής, οι δε όδόντων, οι δε τών και νηδήν, οι δε των αφανέων νούσων, cioc fala Medicina appo loro divifaeflendo per ogni malore, e nongià per più il ſuo Medico: Ondetuttoilpaeſe vien da Medicin gombro,perocchè altri curano gli occhi, altri il capo, altri i denti, altri le parti del ventre, e altri i mali interni, e na Scofi. Rimaſa poi in man ſolamente delle private perſones non ſi può creder di leggieri, quanto cadendo dal ſuo pri mo ſplendore l'Egiziaca medicina cangiolli per l'infingar dia, ed ignoranza de' novelli Medici, iquali eran di così poco talento, che come dice ilteſtè mentovato Erodoto, i primi della Corte del gran Rè della Perſia, allorche a co ſtui gli ſi era dislogato ilpiè, non pur no’l ſepper guarire, ma coʻloro argomenti a peſſimo ſtato il riduſlero. Perchè ſicome ſenza fallo è da credere, fù a’Medici, come narra Diodoro, nell'Egitto per legge vietato il traviar da’coman damenti degli antichi Maeſtri, a' quali ſe alcun contrave gnendo interveniva, che piggiorato ne foſſe lo infermo, n'era perciò acerbamente punito,xq'v Teis ex tās iegãs 616nou νόμοις αναγινοσκουμένοις ακολουθήσαντες αδυνατήσωσι σώσαι τον κά. μνοντα,αθώοι παντός εγκλήματG- απολυόνται.εαν δε παρά το γεραμ μένα ποιήσωσι, θανάτου κρίσιν υπομένεσιν. Εnel vero fu non po ca fortuna di Galieno (per tacere al preſente d'Ippocrate, e d'altri) il non eſſer egli nato à que'tempi,ed in quc'paeſi; perocchè non così agevolmente n'avrebbe ſchivata la pe na, ſe quaſi ad onta della reverenda autorità di tal legge oso pur dire quette parole: ου γαρΙπποκράτης μόνον, αλακαν τοϊς άλλους παλαιούς, ουχ απλώς οίς αν είσαι τίς αυτών πυρεύω βασανίζω δε και αυτός τη τεπείρα, και ταλόγω. ciοε, πότερον αληθές εςιν, ή fèuda ö yayçá Daci, Io ciò offervo non ſolamente negli ſcritti d'Ippocrate, ma in tutt'aliri libri de gli antichi; che non così di leggieri foglio commendare ciò che ciaſcun di loro ne aveſſe laſciato ſcritto;maprima il vò ben’io ejjaminando colla Sperienza, e colla ragione,ſe vero, o falfo fifia;ſe pure egli, che valente maeſtro di loica era, per iſchermirfi non aveſſe tali chioſe fatte in su gli ſcritti de gli antichi, e tanto i lor ſentimenti ſtravolti, ed avviluppati, finche paruti fof ſer conformi a ciò che più gli era a grado. Coſtuina, che più di ogni altra han poi ſeguita, e ſeguono tuttavia i Me dici, che gli vanno appreffo, i quali in tal guiſa i ſuoi detti sformano, ed anche que’d'Ippocrate, che ſovente fan ve duta di dir tutt'altro di ciò che da prima ſi propoſero. E forſe gli Egizziaci medeſimi con iſchernire la lor legge anch'eſſi vezzatamente cotal arte operavano ſecondo il proverbio: fatta la legge, penſata lamalizia. E a tanto giunſe per avventura la lor traſcutata arditezza, che ſo vente vegnendo toſto alle purgagioni, e per lo più con in felice avveniméto per ripararvi traſandata la prima legge una nuova ne publicarono, ſecondochè ne narri ARISTOTELE con quette parole: Εν Αιγύπτω μετα την πταήμερον κινείν έξεσι τοις Ιατζούς, έαν δε πρότερον επί τω αυτε" κινδύνω, eler lecito a' Medici muovere ſolamente dopo il quarto giorno, che fe'l voglion far. prima, lo ſi facciano a lor pericolo.La qual mellonaggines non ritrovò gran fatto, ch'io mi creda, ricevitori, ſe mai avviſarono quanto di leggier poſſano avvenir que’mali, a? quali fa meſtieri d'eſtremi medicamenti anche nel primie ro giorno, e toſto che ſi fan manifeſti. Ma o quanto da nul la ſtato ſarebbe quel Medico, che procurato aveſſe l'altrui ſalute a coſto della propria vita, Eda tali ſconvenevolezze avendo per avventura riguar doi Greci, i quali come nell'arti, c nelle ſcienze, così nel la prudenza civile ogni altra nazione ſi laſciarono ſenza contraſto addietro: non mai dar vollono determinate leggi alla Medicina, ed a que', che la eſercitavano; amando me glio, che ne'liniſtri avvenimenti de gli infermiper colpa ' de’Medici n'aveſſercoſtoro in condegna pena la ſola infa mia portata: και πιο σιμον γαρ ιητικής μούνης έν τήσι πόλεσιν ουδέν 60315042 Tinio a'došíns, la quale a coloro, cui preme l'animo cu ra di vero onore, più ch'ogni altro fupplicio grave riuſcir fuole, e nojofa. La qual coſtuma ſi vede manifeſta da File, mone, ovc dice: Μόνω. 2 Ippocrate, Μόνω διατάω τούτο και συνηγόρω Εξεσιν αποκτείναν μεν, αποθνήσκαν δε μη. Cioè a dire, al Medico ſolamente, ed al giudice fi permet te uccidere a man ſalva le genti. Piacque ciò anche all'al to ingegno del divino PLATONE, laſciando egli così nella ſua Republica ordinato: Aniuna pena fia,che foggiaccia il Medicó, s'alcun infermo da lui curato contro ſua voglia fia che ne muojaιατρών δε περιπτάντων αν ο θεραπευόμενων υπ'αυτών τε arvoſi xabago's tsw na odvopov. Dal cui divilo non punto ſi di lungo LUCIANO, ove dice: L'arte della Medicina quanto di maggior pregio è degna, e più dell'altre alla vita giovevole, tanto i ſuoimaeſtri debbono più godere di libertà'; e convene volcoſa è, che goda di qualcheprivilegio, nè fia giamai liga ta, o foggiogata da potenza veruna una dottrina confecrata agl'Iddij,e diporto degli uominipiù ſcienziati,nè vegna alla dura ſervitù delle leggiſottomeffa, e al timore, e alle pene acTribunali. π δε της ιατζικής όσω σεμνότερόν έσι και τώ βίω Χρησι μώτερον τοσέτω και ελευθεριώτερον είναι προσήκει τοϊς χρωμένοις, και πνα πονομείων έχειν την τέχνην δίκαιον τηεξεσία της χρήσεως, αναγκάζεσθαι δε μηδεν, μήδε ποσάττεσθαι, πράγμα ιερον και θεών παίδευμα και ανθρώ πων.σοφών επιτήδευμα.μήδ ' υπο δελείαν γενέσθαι νόμου μήδ' υπο φόβος και auweiar dixæsnetw. E cõciofoſſecoſa, che frà Greci gli Atenieli ſolamente vietaſſero alle donne, e a'ſervi lo ſtudio del la medicina; non è però gran fatto da lodare, per non dir che molto da biaſimar ſia un cotale ſtatuto; perciocchè,co me più avanti diraſli, lo intendimento di valoroſe donne contro al loro avviſo s'è moſtro più fiate valevole a viril mente imprendere i più alti ſtudj; ed a ' ſervi ancora conce dette la natura più volte animo, e ingegno alla libertà fi loſofica acconcio: perchè a ragione non guariappreſſo fù rivocato: rapportando Igino: Obſtetricibus neceffitatis, honeſtatis gratia ufus medicina tandem ab Atheniensibus con ceffus fuit. E molto meno dovrem noi credere, che rima neſſe in piè la beſſagine di Seleuco, che tal potremoſenza fallo quella ſua legge chiamare, colla quale non altrimen te, che ſe veleno ſtato foſſe proibì il ber vino ſotto capi tal pena a tutti gli ammalati Locreſi, ſalvo ſe prima non ne aveffero da loro Medici la licenza ottenuta. Ens Aoxgüv των Επιζεφυρίων νοσών έπεν οίνον α'κρατον μη προσάξαν7G- ταθεραπεύ αντG,εί και περιεσώθη θάνατG- ή ζημία ήν άντώ, οπ μη προσαχθέν από o'Se triev. LA ROMANA REPUBLICA, che non pur nel governo militare, ma nel politico ancora avanza di gran lunga le greche tutte, e le barbare nazioni, giudica convenevol com fa il non commetter senza freno alla balia de Medici la cu sa della vita de gl’uomini; e perciò prese per partito, che AQUILIO, tribuno della plebe, non so se GALLO, o altro e' ſi fofíe,con un plebiscito, il qual fu poi annoverato infra le leggi di Roma, qualche pena a'loro fallimenti iinponesse, per la qual’accorti divenuti foſſero, e cauti nell'operare. Non per tanto dimeno è da credere che legge tale, o plebiscito, che si fosse, non mai ſi metteſſe in uso, ch'altrimen te avrebbe avuto il torto PLINIO di sclamare in sì fatta gui. fa contra’Medici. Nulla præterea lex punit inscitiam capitalem, nullum exemplum vindiétæ: indi soggiugnere: difcunt periculis nostris, experimenta per murtes agunt: ed in fin conchiudere: Medicoque tantum hominem occidiſe summa impunitas est. Ma vi ha di vantaggio secondo il me delimo Autore tranfit convitium, et intemperantia culpa tur, ultroque qui periere argauntur. E perciò immagino, ch'in compilando i Digesti per commandamento di Giusti niano a bello ſtudio traſandaffero que celebri Legiſtila sentenza troppo dura nelvero, e crudele di Paolo sopra la legge Cornelia de Sicariis. S Si ex eo medicamine, quod ad salutem homini, vel ad remedium datum erat homo perierit, is qui dederit ahoneftior fuerit, in inſulam deportatur, humi lior autem capite punitur. La quale a giudicio di quella grand'animadella civil ragione Giacomo Cujacio, alla già detta legge Cornelia non può propiamente ridurſi; peroc chè dice egli il medico sanandi, non nocendi animo dedit. Ed avvegnacchè i medeſimi Legiſti nelle Hituta, e ne’Di gefti vi rigiſtraffero non ſolamente il già detto capo di LA LEGGE AQUILIA, ma ancora le ſeguenti parole d'V Ipiano, Sicuti Medico imputari eventus mortalitatis non debet, itad quod * Elannt. lib 2.9. cap.z. lib.recept. lent. 6 Cuias. in Ang Corn de Sioar. tores quodper imperitiam commifitimputari ei debet, ebo pretextu fragilitatis humanadeliétum decipientis in periculo homines innoxium eſſe non debet. Nientedimeno o di rado, o non mai certamente fur meſſi in uſo cotali ſtatuti, avvegnachè non ſolamente Plinio, ma molti, e molti anche dopo lui le que. rele medeſime replicando con più vive doglianze l'acca gionaſſero; infra’quali il dottiſſimo Agnolo POLIZIANO in una ſua piſtola al Leoniceno così ſcrive, indolui rurſus ge neris humani vicem, quod in fegraſari tamdiu impune tri ſtem hanc inſcitiam patiatur, atque ab ijs interdum vitæ fpem pretio emat, unde mors certifima proficifcatur,e'l Vives co sì grida: Errata illius (del Medico ei favellando) impung funt:immomercede compenſantur, e Battista da Mantova: His etfi tenebraspalpant eſt facta poteſtas Excruciandi ægros, homineſqueimpune necandi. E un satirico italiano scherzando col titolo del dottor dice a queſto propoſito medeſimo del medico: Mapoichè un tal ci può donar la morte Senza punizione, e ſenzapena Forzaè, che sì gentil titol riporte E'l noſtro Accademico in quel ſuo vaghiſſimo dialogo, hoc tamen ipfo -ſecuri, dice parimente deMedici, quod nulla fit lex,quæ puniat infcitiam capitalem: immo vero cum mercede gratia referatur, ed altrove: Carnifici medicus par eſt: nam cædit vterque Impune: &merces cædis utrique datur. E un'altro Autore: Si quæcamque ſuaplectuntur crimina lege Quas Medici maneant modo veſira piacula pænas? Quiplerumque ipſo facitis medicamine morbum, Etdiro ante diem ægrotos demittitis orco.? Scilicet hoc vobis indulſit opinio rerum Vna potens. Clades inferre impune per Orbem Mercedemque alieno obitu, laudemque parare. Ed avvegnachè Maſlimino condennaſſe nella perſona tutti ſuoi Medici, perche non gli aveſſero o ſaldate affatto le piaghe, o alleggiato il dolore, nondimeno l'eſfemplo d'un tal tiranno non può dar vigore a leggeniuna; e fu queſta non men, che tutt'altre ſue crudeltà biaſimata da gli ſcrit tori del ſuo ſecolo, ſicome anche Alessandro meritevolme te riportò titolo di crudele, per haver fatto ingiuſtamente ammazzar Glaucia medico, per ſoſpetto, ch'egli aveache colui poco faggiamente aveſſe curato il ſuo cariſlino Éfc ſtione. Comeallo incontro grandemente vien commenda ta la clemenza, e umanità di Dario Iſtaſpe Redella Perſia, il quale i medici già alla morte dannati, perchèlui aveſſer malamente cnrato, volentier permiſe, che liberaci foſſero da Democide illuſtre Medico da Cotrone. Ma non però creda alcuno, aver I medici per traſcutaggine de’reggi menti una tal libertà guadagnata; anzi egli è ſomma nc ceſſità del comune, e quaſi arte di buon governo; perocchè ſarebbeli quaſi affatto ſpenta, e com’Io avviſo annullata fin la memoria del meſtier della filosofia, ſe contro aʼme dicanti con rigor di giuſtizia ſi procedefle. Ed in vero qnal huomo mai, ſe non ſe ſommainente ſciocco, e ſcimunito, o temerario aſſai avrebbe vanamente logorato il tempo, e le fatiche dietro ad un'arte (ſe pur arte poſſiamo chiamar la Medicina, non avendo quella niuna certa, e filla regola nelle ſue operazioni ) quanto a ſe ſpiacevolc,e malagevo liſſima a conſeguire, e ne gli avvenimenti dubitoſa aſſai? E dicola ſpiacevole, perocchè qualmaggior noja, e ſpiaci mento, che quel di colui, che continuo ha da bazzicar co? malati, e veder ſempre, & udire l'altrui miſerie ſenza aver talora opportuno argomento da riſanarli? Ed è anche malagevole ad imprendere, e incerta ſempre negli avve. nimenti: imperocchè nella cura delle malattie non meil dell'avvedutezza del Medico il caſo ancora, e la fortuna vi fan la lor parte '; perchè ſurſe quel volgar detto: Fa meſtieri il Medico ejjer forto benigna coſtellazion nato. Ed o quanto aſſai ſoyente avviene, che contro ad ogni avviſo umano, ficome ſcriſſe Celso, etiam Spes fruſtratur: & moritur aliquis, de quo Medicus fecurus primòfuit. Ed: Ippocrato medeſimo avvegnacchè altiſſimoMedico, & avvedutiſſimo B giu 7 Plutarcom: 11 / a? !. 10  giudicato, purconfeffa se da tal meſtiere ancor più di bia limo, che di lode aver’acquiſtato. r fywye doréw pasiove uspelo Morgíny topov xexangãoBan Thin Tégun.E quinci è, che duracoſa, o malagevoliſſima, o impoſſibile ſempre mai è'l ravviſare ſe le cattive uſcite de' mali da dapocaggine de' Medici più toſto avvengano, o da natura delmale, o da altra interna cagione, in cuiſenno alcuno, ne umano provvedimento giammai non vaglia. Incertiſſimi ſempremai, ed oſcuri gli uſcimenti delle malattie ſi ſono,maſſimamente delle acute, ſecondo il ſentimento d'Ippocrate; perchèdiceva anche Celſo: Neque ignorare oportet in acutis morbis fallacesma gis effe notas falutis,& mortis. Senza che ſoglionſi ne'cor pi degli animali ingenerare, e talvolta anche di preſente, iveleni per ſubitana, o precipitazione, o coagulazione; e può anche huomo, che non altri, ma Apollo, ed Esculapio medeſimogiudicherebber faniſſimo,aver dentro enfiature, o altri nafcofi malori, che quando egli men ſi crede ſian, valevoli ad irreparabil morte condurlo; e ciò anche nel tempo ſteſſo, che li s'appreſtano i medicamenti; perchè a torto poi i rimedjmedeſimi, e non il malore accagionatine vengono. Ed oltre a ciò poſſono alcuni medicamenti, che buoni, e giovevoli alla ſalute degli huomini ſi giudicano, tal curbamento dentro cagionare, che l'ammalato le new muoja avanti, che noi col noſtro corto intendimento pof fiamo ne pur badarvi: 8 Quæque medendi caufa repertow ſunt (comene fà teſtimonianza Celso ) nonnunquam in pejus aliquod convertuntur, neque id evitare humana imbe. cillitas in tanta varietate corporum poteft. Perchè non ſarà egli colpa de'Medici l'avertalvolta piggiorato co’ſuoi me dicaméti lo infermo; ne in ciò le leggi potranno giámai coſa del mondo determinare. Ma su concedaſi, pure, che per legge ſia a' Medici l'uſo del medicar preſcritto: come mai potrebber coloro eſſer caſtigati ſe la travalicaſſero? o co me mai potrebbe porſi in chiaro il delitto, acciocchè poi ſecondo il diritto delle leggi vi ſi procedefle? E chi baſte volmente non sa quanto i Medici tutti ſian contrarj di ſet te, s lib.z.cap.6.  IT ) te, e diſcordanti ſempre ne’loro ſentimenti? Perche oda paleſe nimiſtà, o dacoperta invidia, il che è peggio, ſempre ſtuzzicati, o tratti dall'amore e dalla benivoglienza de’lo ro parziali, traſandata la verità delle coſe rappreſentano al Giudice tutt'altro, che di giuſtizia dovrebbero,e dannoli a divedere, come ſuol dirlila Luna nel pozzo, ſecondo il lor diſiderio; ſenza che il timor della pena, in cui potrebbe di leggieri incorrer il Medico, ſempre ſoſpeſo, e inviluppa to il terrebbe in prender partito anche quando faceſſe me ſtiere dipiù efficacemente operare; ed egli timido, econ fuſo per non porre a riſchio la ſua perſona nelle piu gravi malattie ſcioperato, e colle mani penzoloni ſe ne ſtarebbe; o pure per non partirſi dal comun ſentimento del vulgo, comechè falſo, e almal contrario, talvolta vani, e perico lofi rimedi uſerebbe. Coſa, chepiù ch'altrui a'Medici de Principi, come avvisò il Cardano, avvenir ſuole; i quali per tema non pur dell'infamia, ma di mal maggiore ſi ten gono di adoperar grandi, e non uſati medicamenti. Ne ſam rà quì fuor di propoſito l'apportare un'eſemplo del meſtier della guerra,da quel della Medicina non guari in verità per l'incertezza de'ſucceſſi lontano. Compativano anzi che nò I ROMANI Maestrati gli erroride' Capitani de’loro eſer citi;e ben ſi vede a quale altezza ne montafſe perciò L’IMPERIO DI ROMA, come all'incontro sa ciaſcuno a qual miſe rabil fine ſi conduceſſero i Cartagineſi per operar ſempre mai ilcontrario. E più vicin deʼnoſtri tempi ben lo mani feſtarono i Viniziani con loro gravoſiſsimo danno, e quaſi con la caduta univerſale del lor comune, quando ingiuſta mente per la ſua tracotanza decapitarono il Carmagnuo la; perchè poi ſmagato il Liviano, e ſecondando il fenti mento de’malcauti provveditori,ne perdette la giornata di Vicenza, e miſerabilmente con tutto l'eſercito ne reſtò tagliato, e ſconfitto. E forſe la morte data al Vitelli fu an che una delle principali cagioni, onde i Fiorentini traditi dal Baglione,la libertà poi miſeramente ne perderono. E ben potrebbe qui alcuno non ſenza qualche ragione andare ſpiando,che la legge Aquilia, cometutt'altre leggi B 2 de' 12  1 ! DE’ ROMANI da noi teſtè rapportate, nõ già per li valétiMea dici oMetodici, o Empirici, o Razionali ſtare foſſer fatte, ma ſolamente pe’ſoli popoleſchi Empirici,e volgari; eſſen do comunal ufo appo coloro di non ſolamente con nome di Medico i volgari Empiricichiamare, ma quegli ancora, che di caſtrare i fanciullieran uſi;come agevolmente ſi può ne'Digeſti, e nel Codice così di Teodofio, come diGiuſti niano comprendere. E certamente in coſtoro ſolamente da credere, ch'aveſſe luogo l'ignoranza dell'arte; per cagion della quale furono IN ROMA contro a' Medici ordinate le leggi. Ma sì fatta razza di medicanti ben ne do vrebbe eſſere acerbamente punita: intramettendoſi teme rariamente in meſtier di tanta conſiderazione, quanto è il mcdicare; e ordinando alla cieca rimedi di riſchio sù la vi ta de gli ammalati. Perchè ſtimo ben fatto aſſai, ch'in mol te parti dell'Europa, venga loro ſotto graviſſime pene if medicare interdetto; avvegnacchè poi cotali divieti poco, o nulla fian melli in uſo. E ben d'eſſo loro a gran ragione dice Anneo de Roberti ciocchè degli Strolaghi diſſe in pri ma TACITO: Genus hominum potentibus infidum, Sperantibus fallax: quod in civitate noſtra vetabitur femper; & retine bitur: Se non ſe troppo fcarſo èil paragon del Roberti; che i cattivelli degli Strolaghi altro no fanno,che con lor cian cie tenere a bada le brigate de' curioſi con paſcer loro di vaniſſime ſperanze; e gli Empirici volgari co'lor vani ſegre ti, e con lor ciarle, o rattengono gli ammalati, che non prédano rimedj da'buoni Medici,ondepoi ſe ne muojano: o pure con lor nocevolifumi medicamenti eglino medeſimi gli uccidono. E giuſtamente per avventura furon prima digradati, c poi nella perſona condenvati que' viliſimi paltonieri nel reame di Francia, ch’in vece diguarireil Rè Carlo VI, preſſo a morte coʻlor medicamenti, e quaſi a perduta ſpe ranza ilcondufſero. Ma egli fu per mio avviſo poco ſag. gio, cavveduto quel valoroſo Re arriſchiando in mano di giuntatori, e pancaccieri la propia vita; e ben come da pri ma li s’offerſero di voler riparare a'ſuoi malori, così do 1 veali toſto e ſenza niuna pruova fare, o aſpettar di lor pro meſſe:del temerario, e folle ardimento punire. Se pure non fu malavoglienza, edaſtio de’maligni Medici di que’tem pi,che fe si malcapitare que'cattivelli, Ma come potevan giammaicon ſalde, e durevoli leggi ſtabilir la Medicina, oi Popoli, o i Maeſtrati, i quali po co, o nulla per la più parte di quella s'intendevano; le a tanto non poteronmaii più ſaggi, e avveduti Medici per venire, li quali per lungo ſtudio, ed eſercizio molto adden tro in quella ſentivano? Inventore per quel che fi creda, o almeno antichiſſiino ſcrittore fu della medicina Eſculapio, e come ne da teſtimonianza Ippocrate, o chiunque altro fi foſſe l'autor della piſtola a Democrito, molte re gole all'eſercizio del medicare egli preſcriffe: ma ben to fto non buone conoſcendole parecchj ſaviſſimamente diſ fenne; quròs, dice e' parlando d’Eſculapio, è moois deepcóunge καθάπες ημίν αι των ξυγκαφέων βίβλοι Perchè può dirſi col toſcano lirico, che Solchi onde, in rena fondi, e ſcriva in vento colui, che dietro lo ſtabilimento di sì fatte regole s'affati ca, e a cuic.iglia di chiarirfene cercherò per quanto io pof ſa di inoſtrargliene con ordinato diviſamento le cagioni. La medicina tanto, e tanto oggimai creſciuta, e avanza ta, che ben di maggioranza co’più illuſtri, e più nobili ſtu dj gareggiar ſi vede, e colla ſua giuridizione fin détro i più rimoſſi,ed vltimiconfinidella natura s'innoltra: pure fra gli anguſti limiti di pochiſſime piante ſi vide in prima riſtret ta, come avviſa per tacer d'altri l'antico chioſatore d'Ome ro vidpxxia inteixen év GOTÁVOLS ñ; e'l nostro Seneca: Medicina quondam paucarum fuit fcientia herbarum; anzi in quel dolce, e ſovr'ogn'altro avventuroſo tempo Quando era cibo il latte Del pargoletto Mondo, e culla il boſco. col ſolo digiuno gli huomini ſi medicavano, 9 E pur viuean que'primi huomini allora, Elefebbriſcacciar, quando l'aiuto Non 9 Ercol.Bentiv.Satir, 3.  Non davan l'erbe, ne'lfapere ancora, o perchèpoco loro abbiſognaſſe la medicina, come avviſa altresì Seneca: Firmis adhuc, folidiſquecorporibus, & facili cibo,nec per artem, voluptatemq; corrupto: o perchèficome à tutt'altre coſe di quaggiù è dato, eziandio alle più grandi, da deboliſſimi principj dovea la medicina trarre l'origine; que’medicamenti uſando gli huomini allora, che loro, o dal caſo, o da bruti animali, o dalla propia induſtria venian manifeſti. 10 Perchè ragionevolmente credeſi, che Age nore, e Chirone tenuti per alcuni ipiù antichi di tutti i Medici,coll'uſo delle ſole piāte medicaſſero. Túcsospeli Aynuo είδη,Μάγνητες δέ Χείρωνα τοϊς πρώτους ματςεύσαι λεγομένοις απαρχας κα μίζουσι.ρίζαι γάρ εισι και βόταναι δι' ών ιώντι τες κάμνον ζεις.Ε di Chi rone ritrovatore del Panace Chironio: πρώτην μεν χείρων G- επαλθέα ρίζαν ελέσθαι κενταύρου χρονίδαο φερώνυμον, ήν ποτε χώρων πολίω εν νιφόεντι κικών εφράσσατο δείρη narra 11 Euſtazio, ch'eſſendo egli nella mano ferito, oco me vuole PLINIO, nel piede ritrovaſſe la medicina dell'erbe, χείρωνα γάρ φασι σώθενζ ποπτην χώρακαι την δια βοτανών επινοήσασθαι ixreixn\v: e per tacer di Mercurio,ilquale inſegnò come can ta Omero l'uſo ad Vliſſe dell'erba Moli Ως α'eg φωνήσας πάρε φάρμακον Α'ργαφόντης Εκ γαίης έρύσαςκαι μιν φύσιν αυτού έδειξεν e ſi pare, che medicaſſero altresì non con altro, che colle fole piante Ercole, onde traſſe il nome il Panace Erculeo; e Ilide e Oſiride, e APOLLO, e Arabo, e Cadmo, e BACCO per opera del quale come dice Plutarco, si ritrova primieramente, e monta in pregio il vino, medicamen to poderoſo, e ſoave, e venne anchepaleſata al mondo la gran virtù dell'edera, la quale maraviglioſamente riparar ſuole i danni, che provenir poſſono dal vino ſtrabocche γolmète ufato, ο ΔιόνυσG- και μόνον τώ τον οίνον ευρώνιχυρόα τον φάρ μακον και η διεν,ίατρος ένομίσθη μέτσι, αλα και το τον κιτζόν ανπταπό μενον μάλισα τη δυνάμει πεος τον οίνον ας πμην προαγαγών και τεφανά. σθαι διδάξαι τα βακχένοντας, ως ήταν υπότα οϊνα ανιόντο, τα κιλά κα ποσβεννύνθG- την μέθην τη ψυχρότητ: δηλοί δε και των ονοματώ, ένια την Σ 10 Trif.appo Plur. u lib.i'lliad . Is 2 την πιο ταύ πολυπραγμοσύνην. Le fole erbe dovettero pari méte adoperarc Eſculapio inventore del Panace Aſclepio, col quale egli,comecāta Nicádro guarì lola figlio d'Ificle: a's" χει και πίνακες φλεγυήϊον όρρατε πρώτο παιήων μέλανG- ποταμε " παρg χάλG- αμερσεν αμφιτζυωνιάδαο θέρων, ΙφλίκλεG- έργG έντε συν ηρακλή κακήν έπυράκτεν ύδρην e che come avviſa il ſuo chioſatore ſolea nclle cure de gli altri fuoi inferimi anche adoperare. δ Ασκληπιον τέτω λέγεται Ιατεύσαι όσις ήν της κορωνίδα της θυγατςός τ8 φλεγύο παιήων só coxnýma. ed Amitaone, e Melampo, il quale come ſi legge in Dioſcoride dell'elleboro ſerviſſi nel curar le fi gliuole di Preto Rè de gli Argivi. Mercun Qutisaitór @ toe's Afolty Osya tegas Hayelous év ained, cioè coll'ellebero xa Jogou weó tos ĉ beeg Tolcay, e Podalirio, e Macaone non d'altro, che d'erbe fi valfer pe' feriti dell'oſte greca, e prima della guerra Trojana Medea, come narra Diodoro coller be guarì le ferite di Giaſone, di Laerte, d’Atalanta, e di Tefpiade. Ιάσονα και Λαέρτην, έπ δε Αταλάντης, και τους Θεσπιάδας προσα γορευομένους· τούτοις μεν ουν φασίν υπο της Μηδείας εν ολίγαις ημέραις Tori písars Borzívass DeexWeu Iñvou. E Trifone appo Plutarco in nalza, e loda ſommamente gli antichi nneisy xexenuefuésmo' Qurwv ixrçıxß. Quindi provati più volte, e riprovati poi i lor medicamenti, dieder la prima bozza all'arte del medicare, como cantù Manilio: Per varios caſus artem experientia fecit Exemplo monftrante viam. Macome pochi, e ſemplici erano in prima i medicamenti, poche, e ſemplici altresì eſſer dovettero allora le regole della medicina: quindi per gli errori, ne'quali puotè age volmente incorrere la ſperiêza,abbiſognò,che cotali rego le,comechè pochiſſime,pure talvolta mutafler faccia,cam biandoſi tuttavia, è migliorandofi i primi medicamenti. Così cominciò la medicina ſu'l bel principio a far manifeſta la ſua incoſtanza. Ma non guari così ella in man delle ſemplici perſone riſtette, che tratto tratto non vi poneſſer mano anche i filoſofanti; i quali è da credere, che da prima da ſola curioſità, e diſiderio d'inveſtigar la cagione de'me? dicamenti tratti vi cifoſſero; ma pian piano vie piu avan zandoviſi,ericoncentrandoviſi,giunſero poi a tale,che bia ſimando, comeincoſtante, e pericoloſa l'antica ſemplicità del medicare, le prime fondamenta gittarono della razio nal medicina; comeche Euſtazio ne faccia Podalirio il primiero inventore, ed egli ſembri per quelche ne narri Eriſimaco appo Platone, ch’un tanto onore al ſuo padre Eſculapio ſi debba attribuire: onuéte? Quiséger G Astana's (ως φασιν διδε οι ποιητα, και εγω πείθομαι )συνέςησε την ημετέραν τέχνην. ή τεν ιατζική (ώσπερ λέγω ) πάσα δια το θεε τε του κυβερνάται.Ε pri ma aveaegli detto:έπισήμη των τε' σώματG-ερωτικών προς πλησμο νην και κένωσιν, και ο διαγιγνώσκων εν τα' τους τον καλόν τε και αίρον έρω το, 8'τός εςιν ο ιατρικώτιτς- και ο μεταβάλειν ποιών ώστε αντί το ' ετέρα έρωτG- τον έτερον κτησάσθαι: και οίς μη ένεστιν έρως δει δ'εγγενέσθαι,έπισα μενG- εμποιήσαι, και εν όντα εξελεϊν, αγαθός αν είη δημιουργός: δεί γαρ δη τα έχθισα όντα εν τωσώματι, φίλα οΐόντ είναι ποιείν, και έραν αλήλων, έξι δε έχθισα, τα εναντιώτατα ψυχρoνθερμώ,πικρον γλυκεί, ξηρονυγρό πάνω τα τοιαύα τούτοις έπιςηθείς έρωτα εμποιήσω και ομόνοιαν. Ma non per tanto non ceſſarono,mavie più moltiplicarono le ſue muitazioni e le ſue incertezze: e come varj erano, e diſcordanti quei, chela cſercitayano, così varia ella ne divenne, equaſi in inille parti diviſa. Ma pur ſi manteneva intanto con iſtrettiſſimo legam alla filoſofia la razionalıncdicina congiunta; intanto che da'più ſaggi, e prudenti ſtimatori delle coſe, come Celso avviſa, parte di quella veniva concordevolmente giudic.ee ta: eral parve che ſe ne ſteſs’ella fino all'età di Erodico, detto da alcunimalamente Prodico. Or coſtui come rio traceiar ſi puote da quel che ne narr. Platone nel Ginnasio dell’ACCADEMIA, di cui egli era Maestro, cpriino ministro, cagionevole divenuto della perſona, per lo biſogno, che gliene faceva, a coltivarla medicina con tutto l'aniino, e conogni ſtudio maggiore ſi volſe; e quella alla Ginnastica congiugnendo, e prescrivendole alquante regole da lui per via della ragione, e della sperienza daprima ritrovate, li parve,ch'an zi d'ogni altro qualche forma d’arte a darle incominciaſſe. E allora venne ella pian piano a perderdella FILOSOFIA l'an tica uſata dimeſtichezza: comechè Celſo, ed altri portino opinione eſſer ciò per opera d'Ippocrate primieramente avvenuto. E da Erodico ſembra eglipoi, ch'il reſtì da noi mentovato Ippocrate ſuo ícolare, ed Eurifonte, e altri il coſtume di trattar ſeparatamente dalla FILOSOFIA le coſe alla medicina appartenenti apprelo aveſſero. Ed avvegnachè ad alcuniciò ſembraſſe ben fatto affaire digran giovamen to alla medicina; non però di menomolto manifeſto egli ſi potrà comprendere per colui, ch'alla verità delle core voglia ben profondamente guardare, cſſergliene anziche no graviſſimo nocimento ſeguito. Imperciocchè quindi i filoſofanri niuna curanon dandoſi di por mano alla media cina, e quinci i Medici delle biſogne di quella groſamen te diviſando, per poco di razional non le rimare, altro che'l nome. E giunſe a tale sì biaſımevol coſtume, ch’in di fenderlo tuttavia i lor poſteri pertinacemente s'affaticava no: e oſtinati in su la credenzi coglievan pruova da farlo a credere alle genti. E Galieno pure osò dir d'Ippocrate, aver lui certamente gran ſenno fatto in non inframetterſi giammai di volere ſicome ſi fè poi da Platone, inveſtigar la natura, e la generazione delle qualità di que'loro quat tro primi corpi, ondegiudicano ciaſcuna coſa, ela malli... turta del mondo cſſer compoſta, e ordinata; dicendo, un cotalbriga a'filoſofanti ſpezialmente, e non già a'Medici appartenerſi; i quali ogniloro uficio han baſtantemente, compiuto,toſto che a ſapere aggiungono la ſanità de'corpi dal temperamento, o dalla meſcolanza del caldo, e del freddo, e dell'umido, e del ſecco ingenerarſi,ſenza più ol tre curioſamente ſpiarne. Ma qual di queſta giammai po trebbe alla medicina coſa più offendevole, c più dannoſa immaginarſi? Così per lungo uſo ne' Medici, che razionali appellar ſi facevano l'amor della fapienza tratto tratto mancando, più fiere aflaise più crudeli le conteſe della malandata mc dicina rappiccaronſi; perciocchè ove in prima i ſentimenti gli uni de gli altri per vaghezza ſolaméte della verità con C trila traſtar ſolevano, allora affondati tutti nelle fazioni, e oſti nati ne gli appoſtamenti, non rifinarono di piatire, e riot tare, e carminarſi l'un l'altro, e proverbiare; intanto che ne meno i primi maeſtri, e ritrovatori dell'arte ne fur ſalvi, Apollo giudicato Iddio della medicina, era allora poco a capital dalla fciocca gétese volgare torma de Medici tenu to, rimproverandoli apertamente eſſer luiciarlone, e mil lantatore; e ſovra tutto d'ingratitudine anche il cacciarono; perciocchè avendo egli dall'altrui urmanità, e corteſia law medicina apprefa,tutto ſuperbo poise gonfio ſe n'andavas come s'egli, e no altri dapprima per propria induftria ritra vata l'aveffe. Anzi perchè egli in maggior pregio,e gloria formontar ne doveſſe incominciò lo ſcaltcrito,e fagace pá cacciere,avédone appreſa l'arte da Glauco, ch'era un volpā vecchio, a cicciar carore,e far l'indovinello,aprēdo la ſtra da alle frodi, e aſtuzie da trccellar le genti. Proverbiò altri Eſculapio anch'egli Dio della medicina,perchè egli bergol foſſe, è di poca fermezza in mcdicando;e non poche be ſtemmic ancora li furono ſcagliate per la ſua ingordilimizu avarizia: imperciocchè egli in priina d'ogni altro, ficome narrano, 12 l'arte ragguardevole, e ſacrosāta della medicina in profan’uſo rivolgendo, tratto da vil guadagnos2 prezzo medicando a un'infermo Principe vendèinfinito teſoro al quante poche erbe, e radici, perchè giuſtamente eglimeri tóne poi cffer fulmimato,ed arſo da Giove;e laſcionne a'pe fteri un così ſeoncio, e così abbominevole eſemplo. E ol tre a ciò dicono,ch'egli in far l'indovino, el malioſo, ci tutt'altre giunterie, e frafche il ſuo padre Apollo digran lunga avanzaſſe, perchè poi funne ſovraſtante a gli augurj, e all'arte divinatoria per ciaſcun creduto. E côtro di lui di vantaggio aggiungono aver lui con mille modi, e artifici fconvenevoli dato a divedere altrui, ficome fè ſuo pa dre, che anche i cadaveri ſapeſſe egli in bella vita riporre; e che in sì fatta gaiſa il titolo di divino fecleratamento d'accattar fi proccuraffe. Ma per recarvi le molte parole in una, e'conchiudono alla perfine, ch'Apollo poco,onul la Pindaro, Del Sig.Lionardodi Capoa: 19 la di medicina s'intendeſſe: e molto meno ne ſapeſſe il ſuo figliuolo Eſculapio; perciocchè sfidandoſi colui di poter nell'arte propia il figliuot compiutamente ammaeſtrares, fotto la diſciplina di Chirone fegliele lungamente impren dere. 13 E coſtui dopo cotanto ludio, e tempo, che logo rovvi, tanto ne venne in ſuſo, che per guarire un menomo dolor di denti fu a riſchio di perdervi il ſuo buon nome; e le ftanco alla perfine con una preſta diliberazione per torli d'addoſſo una cotal ſeccaggine a viva forza no'l cavava, fuora al malato chi sà che gliene farebbe ſeguito? E'l ſuo gran Maestro Chirone non che altri, ma ſe medeſimo cu far non valſe, allor che a caſo da Ercole ferito preſe per partito di far larga rinuncia della vita, e dell'immortalità 2 Prometeo, e così uſcir valoroſamente fuor d'ogni impac cio. 13 E ben da ciò fi può apertamente comprendere, re vere foſſero quelle tanto maraviglioſo, e tanto impareg giabili pruove, che di lor falfamente la menzoniera anti chità và millantando. Così per avventura gli aftioſi con tradittori di que'primi maeſtri favellano: c Io ancora a vo lerne dire al preſente ciò, che me ne paia, non mi ſembra gran fatto da porre in dubbio eſfer que’ primi ritrovatori della medicina appo' Greci poco in quella cercamente pro firtati; ſe nc'ſecoli appreſſo ancora, quando colletà in cia lcuno ſtudio, carte avanzavaſi ilmondo, meno ſaviamente coloro diviſandone, moſtraron'altresì d'aſſai poco ſaperne. E quantunque eglino in tanto buon nome, e pregio per tutto ne montaſſero; non però di meno non dobbiamo noi dalla noſtra credenza rimanerci; giudicando nelle prime bozze dell'arti al ſemplice, e creſcente mondo eſſer ſem brati maraviglioſi, e divini ritrovati le prime opere della medicina. E fu ciò più che a tutt'altri inventori, agevol molto a’Medici; perciocchè ogni lor grave fallimento, ed errore in medicando, eſſendo, come diſle colui, naſcoſto in fieme coʻgli ucciſi da loro forterra; e allo incontro appa rendo folaméte di quà le loro comechè menomiſſime pruo ve ne'vivi da loro riſanati, ſenza troppa invidia poteronfi C 2 age 13 Apollodoro. agevolmente acquiſtar loda, e pregio immortale. Senzaa chè nelle più ribalde, e cattive perſone certamente ciò avviene; le quali ſicome aſute, e malizioſe ſi van procac ciando per tutto favorevoli, e parteggianti; e dalla vera fapienzalontane non laſciano qualunque froda, 0 giunte ria, onde preſſo la minuta bruzzaglia delpopolo diventi no ragguardevoli. Perchè è certamente da giudicare eſſere ftati coſtoro, di cui cotanto buccinavaſi, aſtutiſſimi giunta tori, e ramanzieri. Nè Io ho in animo di recarvene qui molti eſempli,chea gran dovizia potrei ritrarre dalle anti che, e dalle moderne memorie; ſolamente non laſcerò di rapportarc,effer'antica fama,che Acrone di GIRGENTI avesse una volta damortifera peſtilenza liberata la Città d'Atene colle grandi luminarie, e fuochi, cheper entro vi fè accendere. Ma ſe ciò da fuoco avvenir poſſa, non che da altro,da gli occhi noſtri propjcertamente ce ne habbiamo potuto ricredere.Narrali il medeſimo aver fatto a’ſuoi tépi İppocrate. E Toſſare ancora dopo morte acquiſtonne e Itatue, e ſacrifici, ed altri onori divini; perciocchè, come narra LUCIANO, in tempo che Atene era più che mai dalla fogadella peſtilenza malmenatas e tutto che dipopolata, e ſgombra, diceſi eſſer apparſo colui ad Architele moglie d'un cotal huomo dell'Areopago,e averle ſicuramente det to, che ſe gli Atenicli fpargeſſero le ſtrade tutte divino, di preſente farebbcſi attutata la peltilenza; e ciò facendo co loro, dilubito, conforme colui loro promeſſo aveva,ne fur del tutto rimofti, δπι της ελάδα κατά τον λοιμον την μέγαν έδοξεν και Αρχιτέλος γυνή Αρεοπαγίτε ανδρος επιφάνια τώ λοιμώ έχόμενοι, ή τας σενωπες δίνω παλά ράνωσι τέτε συχνάκις γενόμενον (8 ' γαρ ημίλη σαν Αθηναίοι οι ακούσαντες ) έπαυσε μηκέτι λοιμώξειν αυτούς. Or qui io amereil'uſato ſuo avvedimento in LUCIANO, il quale ſcioccamente ſe'l crede, e va fantaſticando, ciò eſſer potu to avvenire da vapori del vino, i quali trameſtati all'aria Paveſſero purgata, e dilibera da gli aliti peſtilenzioſi, che l'infcrtavano.Madominc ſe coteſte peſtilenze non manca rono, fe no ſe dopo lungo ſterminio,c mortalità delle genti, allorchc ſtanco rimafeli il male; perchè dovrem noi dire eller BIBLIOTICA NA effer ciò avvenuto per opera de’vani, e poco giovevoli ar gomenti, e non più toſto per isfogamento, c periſtracce del malore? Cosi certamento è da giudicare, che gliaſtuti, e molto ſcalteriti giuntatori conofcendo il male effer già nel calo, e nel menomamento,per procacciarſi loda, e pre gio immmortale vezzatamente v'aveſſero poſto conſiglio; acciocchè poi l'opera delſalvamento foſſe più coſto a loro, che alla natura del male attribuita. Artificio,che tutto dì ſi ſperimenta ne'Medici ancora de’noſtri tempi. Ma in qual to ad Eſculapio ben può egli rimanerſene có quella gloria, che per eſſer egliſtato il primo Maeſtro del mondo in civar déti,glivien ragionevolméteattribuita dal romano Orato re, quádo che diceÆfculapius: primus dentis evulfionem in venit:concioffiecoſachè le cure per lui fatte sì rare,e si ma raviglioſe elle ci vengano in tante, e si diverſe guiſe nar rate, ch'elle come avvisò ſaggiamente Seſto Empirico ſon per ciò da dire del tutto favoloſe, wwóJeon gas éautois yolañ λαμβάνοντες οι ιπεικοί ή ορχηγών ημών και επιςήμης Ασκληπιον κεκε » egυνώ.θα λέγεσιν εκ νεκέμνοι τω ψύσματι, ενώ και ποικίλως αυτό μεG anárixa. Narra Steficoro effer Eſculapio alla ſua maggior gloria formontato per aver riſuſcitati co'fuoj inedicamenti alquanti di coloro ch'in Tebe crano trapaſſati; ma Polian to dice ellerli Eſculapio refo ragguardevole per eſsere ſta ti di ſua mano riſanati alquanti per iſdegno di Giunone impazzati. E Parraſio racconta eſser fui ſopra tutto ſtato commendato peraver da morte ricolto Tindaro. E Maſta filo vuole, chcil ſuo maggior pregio foſſe ſtato ľaver ri congiunto, e riſuſcitato Ippolito ſquarciato in cento brini da fpaurati corſieri.Ma Filarco rapporta tutto il ſuo buon nome, e onore dalla viſta ritornata a figliaoli di Fineo aver avuto dirivo. E Teleffarco finalmentcrafferma efser lui ag giunto infra ' Dij,perciocchè tentato aveva di riſuſcitar da morte Driσne. ΣτησίχορG» μεν εν Εριφύλη ειπων, όπ πινας των επι Θήβαις πεσόντων και ανισά. ΠολύανθG-δε ο Κυρηναίς, εν τω πρί των Ασκληπιαδών γενέσεως. ότι τάς Προύσε θυγατέρας κατα χόλον Ηράς εμ μανάς γενομένας ιάσατο.Παρράσιο- δε, δια το νεκρόν Τυνδάρεω ανα · τηςαι.Σλάφυλφ δε εν τω περί Αρκάδων, όπ Ιππόλνιου έτράπευσε φέ EMANUEL BLI UBIO EMANUE BOMA govca 22 Ragionamento Primo 1 γονία εκ Τροιζήνα- και καλα τις παραδεδομένας κατ' αυ78 ° έν τοϊς τραγωδε μένος φήμες. ΦύλαρχG- δε, εν τη εννάτη για το της Φινέως υους των φλωθένας απκαςήσαι χαριζόμενον αυτών τη μηρή Κλεοπάτρα τη Ερεχθέως. Τελέσαρχος δε και εν τω Αργολικώ, και ότι Ωρίωνα επεβαλέτο avasãows, Ma quali artificj e' non tcntò per eſser tenuto di ligente, e ſcorto nel medicare ancora che ſchifi, e abbomi nevoli fuſſero? Egli volle (liçome narra Cclio Rodigino, c venne in ciò Eſculapio da Ippocrate imitato sallaggiar fin le feccie degl'inferni, coinc ſe ciò necellario ancor foſse a rintraciar le cagioni delle malattie, perchè poi da Ariſtos fane nel Pluto proverbioſamente oxaloDeéy @ ne fu chiama to, e Noipiù acconciamente potremmo à lui dire col no ftro Azzio Sincero. Efe idem poteris Merdicus, &Medicus; Ma ſopra tutto giovaron lommámente ad E/culapio gl’in dovinelli, le malie,gli oracoli, i ſacrificj, gli agurj, e altre,e altre molte ſorti di ſuperſtizioni, e d'altre fraſche,e giunte rie, ch'egliuſava; ficcando carote alla ſciocca gentane, c tenendo in sù la gruccia con ſuoi cicalamenti gl'infermi. Cola la quale ſi coſtumava allora da chiunque voleva con qualche lode eſſercitar la medicina. E per tacer di Medea, c d'altri molti, Melampo con sì fatti artificj, e fanfaluche, oltre alla fama grande, che gliene ſeguì, di povero conta dino, ch'egli era, inſieme con ſuo fratello divennero ric chiſſimi Principi, e ſovrani Signori delle due parti delRe gnodiPreto, e mariti delle figliuole di lui da sè riſanaten, le quali chiamavanſi per quel che ne dica Apollodoro, Li ſippe, e lfianaſſa; ma ſecondo Eliano Elea, e Celene; e che o per lo troppo uſo del vino, o per opera della Reina di Cipri impazzare andavan paſcendo brancoloni, e muge ghiando coinc vacche per le valli della Morea, e d'altri paeſi intieme con lor ſorella Ifinoc, la qual prima di eſser medicata ſe ne morì: delle quali narra VIRGILIO nella Bucolica. “Pretides impleruntfalfis mugitibus agros; At non tamturpes pecudum tamen ulla fecuta eft Concubitus; quamvis collo timuiffe: aratrum, Et fæpè in levi quæfiffet cornuafronte.” E che per opera di Melampo poi poſeſi conſiglio al lor fu rore,e furono ricoverate a ſanità coll'elleboro nero, come vuol Dioscoride; avvegnachè Galien giudichi, e con più falda ragione,eſsere ſtatolelleboro bianco,che ciò opera to aveſse. Il qualmedicamento apparò in prima Melampo dalle pecore,come vuol Teofraſto, o più toſto dalle capre, ch'e'guardava,come scrive PLINIO; le qualicon paſcer l'el leboro ſi purgavano. Comechè alcuni portinoopinione eſser da Melampo l'impazzate donzelle guarite non già coll’elleboro, ma con latte di capre paſciute in prima di quello; e altripur vogliano eſser non già quel Melampo caprajo, che loro il ſenno ricoverato aveſse; ma un'altro Melampo detto l'indovino: E Polianto ciò ad Eſculapio attribuiſce, ſicome narra Seſto Empirico, ed Eudoilo appo Stefano antichiſſimo Geografo: Ma che che ſia di ciò, non è da dubitare, che Melampo dopo lunghe cerimo nie, e facrifici,e ſuperſtizioni volle, che imprima le impaz zate Donzelle fi lavaſſero in quella famoſa fonte d'Arca dia chiamata Clitorio; perciocchè in memoria di ciò vi ſi leggevano in un marmo que' belliſſimiverfi rapportati da Iſogono antichiſſimo Scrittore dell'acque. Αγρότα συν ποίμνεις το μεσημβρινόν ήν σε βαρύνη Δύψος αν εσχατιας κλείτορG- ερχόμενον, Της μέν από κρήνης αρύσαι πόμα, και παρα νύμφαις Υδριάσι σήσον παν το σόν αιπόλιον. Αλα συ μήτ' επί λετρα Gάλης κρόα μη σε και αύρη Πημένη θερμής εντός εάνια μέθης. Φεύγε δ' εμην πηγήν μισάμπελον ενθου μελάμπες ΛεσαμενΘ- λύασης ποιτίδας αργαλίης Távla xabaqueor fxoļev daóx gupov súr’ ár át' deyes συρεα τρηχείης ήλυθεν αρχαδίης.. Perchè poi ſurfe conteſa infra gli Scrittori di giudicar di verſamente quella cura: e altri dicono eſſere ftato il ſacri ficio ſolamente, e'l bagno: altri l'elleboro; ma certamenre per quel che per noiavviſar fi poffa, egli ſi pare, ch'amena due i medicamenti vi fuffer da Melampo adoperati; perchè Pittagora così dice appreffo Ovidio:. Clitorio quicumquefitim de fontelevarit; Vina fugit: gaudetquemerisabſtemius undis, Seavis eft in aqua calido contraria vine: Sive, quod indigena memorant, Amithaone natus, Prætidas attonitas poftquam per carmen, &herbas Eripuit furijs;purgamina mentis in illas Mifit aquas; odiumquemeri permanfitin undis. Al qual coſtuine avendo per avventura riguardo l'Omero Ferrareſe volleche Aſtolfo faceſſe lavar più volte in mare il ſuo forſennato Orlando pria che gli da se bere il licores avuto in Ciclo per guarirlo: 1.0 fà lavare Aſtolfo ſette volte, E ſette volte ſott'acqua l'attuffa Si che dal viſo, e da le membra folte Lava la brutta ruggine, e la muffa. Ma non ſi contentava già disì fatti artificj ſoli Melampo, ma a render più ragguardevoli,e famoſe le ſue cure ſi van tava anche come ſcorgerſi puote in Sinelio 14 di ſapere in terpetrare i ſogni, e ſi valca oltre a ciò degli augurj, e da va ad intendere a tutti che gli aveſſe Apollo inſegnata l'ar te dell'indovinare, e che avendoſi egli allevate in caſa al quáte bilce, quelle poi dormendoſi egli nel più alto filézio della notte gli haveſſero leccare l'orecchie, ond'egli ſubita mére p paura deſtatoſi havelle inteſo preſlo all'alba chiara mente i linguaggi tutti degli uccelli, os, parlando di Melāpo dice Apollodoro, επί των χωρίων διατελών,ε'σης πτό τε οικήσεως αυτού δρυός,έν και φωλεος όφεων υπήρχεν αποκλεινανίων των θεραπόντων τους όφας,τα μη ερπετα ξύλα συμφορήσαςέκαυσε τους και τ όφεων νερατους έθρε. ψενοι δε γενόμμoι τέλιου σειράντες αυτώ κοιμωμδύω τώμων εξ εκατέρω: ma's exca's Txis gaca sesi exclougor. o de avasara moi gerópfu were δεης των υπερπτπρίων ορνέων τις φωνας συνία. και παρ' εκείνων μανθεί vwv, niuna arte dunque gianmaiebbe, per quanto lo mi creda, tanto commercio colle menzogne, e colle frodi, e colle ſuperſtizioni, quanto il meſtier della medicina. La qual cola così manifeſta ſi pare a chiunque ſia di quella mezzanamente inteſo, che non abbiſogna al preſente, ch'io 14 lib.3. di vantaggio mi v'affacichi. Non però di meno non laſce? rò d'accennare le ſtrane, e ridevoli cerimonie, ch'adopera vano gli antichi in raccorre le piáte, acciocchè poi più ma raviglioſi, eragguardevoli dalla ſcimunita gente giudicati foſſero i lor medicamenti. Non poteaſi la Peonia coglier di giorno; perciocchè dubitavano non v'aveſſero a perder di preſente la viſta,ſe da qualche ghiandaja vi foſsero in colti. Colui, che cavar voleva la Mandragola, conveniva, che ben ſi guardaſse dal verto contrario: e prima dicavar la formavale con un coltello incorno tre cerchi: e in divel lendola poi tener ſi voleva la faccia volta verſo Occiden te: e mentre divellcvaſi faceva di meitieri, ch’un'altro le andaſse intorno faltando, e ſghignazzando, e dicendo non foquali parole ſconce, e laſcive, come racconta Teofraſto con quette parole. Περιγράφειν δε και τον μανδραγόρgν εις τάς ξίφα: τέμνειν δε πεός εσπέραν βλέπονται τον δε έτερον κύκλω περιορ - χεΐσθαι, και λέγειν ώς πλείσα πτρια φροδισίων τέτο δεόμοιον έoικε των περί τξ κυμίνε λεγομλύω κατι την βλασφημίαν όταν σπείρεσ. Le Quali poida PLINIO nel ſuo volgar cavate non fur così intiera mente rapportate. Cavent, dice egli, effofuri contrariun ventum, & tribus circulis ante gladio circumfcribunt:poftea fodiunt ad Occaſum ſpectantes. Mach afsai maggiori cerimonie cavavaſi preſso gli anti chi la Baara, la qual vogliono aicuni, che altro certamente non foſse, che la Mandragola medeſima. Eglino in prima le gittavan ſopra del ſangue metruo, o dell'urina delles donne, quindi cavandole intorno alla barba la terra liga vanla cautamente dietro un cane; il qual poi chiamato dal padrone in correndo la ſtrappava di terra, e di preſente ne moriya. Cosìda Giuſeppe Ebreo vien narrato a dágay γος δε και κατά την άρκτου περιεχέσης την πόλιν βαάρας ονομάζεται τόπος φία σε ρίζαν ομωνύμως λεγομένην αυτώ αύτη φλογί μεν την χροιαν έoικε, περί δε τοις εσπέρας σέλας απασρέπτεσα τους δε επιεσε και βε λομένοις λαβείν αυτήν εκ έσιν ευχείρώτος αλ' υποφεύγει και επόπρον ί' Edi quell'altro delmedeſimo Ariſtotile, che il tralaſciar da parte i ſenfi per laſciarne cie camente alla ragione guidare, d'aſſai debolezza d'ingegno ar gomento ſia? O forſe non fu egli del medelimo ſentimento anche Galieno? ecco le ſue parole: coloro tutti da giudicar fono, anzi forſennati, che ſavj, i qaali potendo le coſe pie namente comprendere, ed apparar da' ſenſi, voglion pures che da apprender fieno dalle ſoledimoſtrazioni. Ealtrove il medeſimo autore: è dottrina da tiranno, e piena di confu fioni, e di contefe quella di coloro, che ſolamente agli altrui detti s'appoggiano. E di grazia leggan pure una volta il me deſimo fentiinento nel loro Avicenna; e ſe non altro, va dano, e sì l'apparino dal Principe de' Teologi, Giovanni Scoto, ove dice, che tutti coloro, che'a' ſenſinon voglio no dar fede, degni giuſtamente ſieno delle fiamme. E ſappiano di vantaggio, che chiunque abbia qualche ſcintilluz za di ragione, diqualunquc Serta egli ſi ſia, debba pure con quel gran lume della Galienica, e dell'Ippocritica medicina Niccolò Leoniceno dire: non debemus profecto de Situere ita nosmet ipfos, ut aliorumfemper veſtigia fequentes, nihil ita per nosmet ipfos decernamus. Hoc enim verè effet alienis oculis videre, alienis auribus audire, alienis naribus odorare, aliena ſapere intelligentia: ac nibil nos aliud quam lapides effe ftatuere, fi omnia alienisaffertionibus committe remus, nihilque à nobis ipfis diſcutiendum putaremus. E queſta pertinacia medeſima un'altro parzial di Galieno oltremodo tacciādo,prende a narrare un piacevoliſ fimo avvenimento; cioè, che un pubblico lettore uſato lun, go tempo, ed invecchiato in ſu'libri d’ARISTOTELE, abbatté. doſi per avventura un giorno in una notomia, e veggendo manifeſtamente la vena cava dalle innumerabili fila, ora dici, chę ſon nel fegato la ſua originç trarre, tutto ingom, bro, e pien di maraviglia, Come chi mai avf4 incredibil vide, confeſsò, che nel vero per quel, che gliene moſtraffero i fenfi la vena cava diramar dovelle dal fegato; ma non per ciò egli credédo a' fenfi contraddir doveffe al ſuo maeſtro Ariſtotile, il quale tutte le vene nell'huomo aver principio dal cuore, coitantemente afferma; perocchè,diceva egli, più agevole allai eſſere, i noſtri ſenſi talvolta ingannarſi, che il grande, e fourano ARISTOTELE in errore alcuno giammai eſſere caduto. E più avanti cbbe di male la ſua oſtinazio ne,chę vegnendo per alcun diinoftro in brigata d'huomi ni letterari,eſſere intorno al cuore alquanta lugna, la qua le a ficvol lumicino di candela liquefacevali, con tutto ciò per difender oſtinatamente il ſuo ARISTOTELE, negante law medeſima coſa, osù pur dire, che quel dalui veduto non era miga graſcio. Maaſai per certo piacevole egli ſi è ciò, che a tal pro poſito anche narra il chiariſlimo Redi, che un ' profondo 1 1??30, Santoro.  mac ro in iſcriteura peripatetica, perchè non veniſſe egli coſtretto a confeſſar per vere le ſtelle, ed altre nuove core dal gran Galilei in Cielo ravviſato, ricusò l'ajuto dell'oc chiale; e ch’un altro più teſtereccio non volle mai degnar di vedere aprir da lui una di quelle picciole rane, che per le polveroſe ſtrade in tempo diſtato ſpicciano, per non eller altresì coſtretto a confeſſare, ch'elleno non s'ingene rino nello ſtante dell'incorporamento della gocciola con 1.2 polvere. Maove Io ferbero di narrare i piati, e le conteſe, che nella medicina del nobiliſſimo medico PROSPERO MARZIANO IN ROMA s'accrebbero? il quale di non volgare dot trina, e di faggio avvedimento fornito, quanto avea dita lento, ed'induſtria, tutto glorioſamente in iſpicgare la doc trina d'Ippocrate impiegando, diè manifeſtamente a vede re, che allai ſovente Galieno,o non aveſſe compreſo,o non avelle comprender voluto il vero ſentimento di quelgran vecchio. E ciò anche Pier Castelli narrando dice, che Ga lieno così parimente foſseſi adoperato in iſpicgar del divi no Platone i dottilimi ſentimenti: Galenus, vel non intel. kexit, vel intelligere noluit Hippocratem, & Platonem, ut ſua extarent. Quindida'rimproveri, e da’mordimenti dilui difende il laviffimo vecchio, ſpezialmente intorno alle c.2 gioni delle febbri, coſtantemente affermando, non ſola mente Ippocrate non avere a ' febbricitanti giammai pre ſcritto il lalaro, ſe non ſe ove caſo di grande infiammagio ne d'entro richieſto l'avelse: il che già prima di lui pienamente CARDANO avviſato avea; anzi per ſentimé to d'Ippocrate vudl, che la febbre una di quelle cagioni ſia, che il ſegrare affatto abborriſcono. E queſte, ed altre buone dottrine il valent:huomo di MARZIANO faggiamente manifcftando, ravvivò con eſle la caduta, c quali eftinta ferta del ſuo caro Ippocrate. Ma non ſolo come fin ora abbia dimenticato una dona na, la qual comechè tale, pur merita d'eſsere in iſchiera de' più nobili letterati annoverata. Io dico la Signoras D. Oliva Sabuco: Coſtei gl'ingegnifemminili, egli uſi Tutti Sprezzo fin da l'etade acerba: A’ lavori d'Aracne, a l'ago, a' fufi Inchinar non degnò la manſuperba: Ed eſsendo ella di valore, c d'ingegno più che maſchile abbondevolmente fornita, animoſamente fi iniſe col cere vello, e con l'animo ad inveſtigar le coſe naturali; e più ol tre avanzandoſi, ed in biſogne di maggior utile, e prò la mente rivolgendo, acciocchè le Spagne, e'l mondo tutto qualche concio ne traeſsero, ad un nuovo, ed ingegnoſif fimo diviſo dimedicina diè maraviglioſamente principio. Ella così all’Auguſtiſſimo Monarca Filippo II d'e terna,e glorioſa memoria in una lettera ſcrivédo,iſuoi pre gi manifeſta. Reſulta muy clara y evidenteměte, como reſul ta la luz del Sol, eſtar errada la medicina antigua que ſe lee yeſtudia en ſus fundamentos principales, por no aver enten dido ni alcançado los Filofofos antiguos y Medicos, ſu natu raleza propria, dondeſe funday tiene ſu origen la Medicina. Delo qual no ſolamente losſabios y Chriſtianos Medicospue den ſer juezes, pero aun tambien los de alto juyzio de otras facultades, y qualquier hombre abil yde buen juyzio. E quin di poco appreffo: y el que no la entendiere ni cumprehendie re, dexela para los orros y para los venideros, o crea a law eſperiencia, y no a ella, pues mi pericion es juſta, queſeprue ve efta miſecta un año,pueshan provadola medicina de Hippocrates y Galeno dos mil años, y enella han hallado tan poco effecto y fines tan inciertos, comoſe vee claro cada dia, y so vido enelgran catarrotavardete, viruelas, y en peftes paf Sadas, y otras muchas enfermedades donde no tiene effetto alguno, pues de mil no viven tres todo el curso de la vida basta la muerte natural: y todos los demas mueren muerte violenta de enfermedad, fin aprovechar nada su medicina antigua. E nel dialogo della vera medicina: No me podreys negar, señor Doctor, que la medicina escrita que ufays eſta incierta, varia y falta y que ju fin, y efeto fale incierto, falfu y dudoſo, como vemos claramente ellasde m34s artes iener füis 1 1 fines y efetosciertos, y verdaderos fin variacion, ni engažo, comola Aritmetica, Geometria, Musica, Astrologia, y las de mas, que a quel fin, y bien que prometen, lo cumplen, y fale cierto ſiempre y verdadero. Todo lo qualbien vers que falta en la medicina,pues eſta tanengañoſa, incierta; yva ria:luego claro eſta que eſta arte tiene algunafalta en las raga zes, y fundamentos,pues no echa el fruto, conforme a lo quc promete, que muchas vezes esperamos lindas māçanas echa eſcaramujos agallas y niſpolas:lo qual al buen juyzio pondra en duda, y dira por ventura, Eſte aunquepaſtor trae, razon, que los antiguos tambien fucron ombres como eſte. E più ſotto ſeguendoil medeſimo ſentimento ſoggiunge: No nze podeys negar,Señor Doctor, la incoſtancia, y quantas ve zes fuemudada la medicina, y que eſtuvo vedadamucho tič po en Roma, y que muchos ſabios mo le han dado credito, ni ſe han querido curar con medico por las cauſas que tengo dichas, que ſon degran eficacia. Ylos Sarracenos, y los del Reyno de la China, no admiten inedicos, j' ay mas gente que en Eſpaña. Y eſosmiſmos autores antiguos, graves le ponen gran dificultad, diziendo, que la vida esbreve, y el arte es largo, el juyzio difficultoſo, la eſperiencia engañoſa, & c. I dixo Hippocrates: que perfecta yacabada certinidad de la medicina no ſe alcanca, y no me podeys negar, Señor Do Etor que fueron hombres, cimo noſotros: y que ſus dichos, no forçaron a la naturaleza del hombre, a que ella fueffe lo quc ellos dezian, que ella ſe quedo en lo queera, y ſu dicho no la mudo, y pudieron errar como hombres,pues tantas vezes fue frrada y mudada, como lo podeys veren Plinio, donde dize que ninguna de las artes fuemasincuſtante,y mudable, que la medicina: y que cada dia ſe mude. Più oltre crapaffala signora D. Oliva, i cui fourani pre gi nou è mio diviſo al preſente raccorre, ed annoverare, che troppo a lungo ne verrei. E baſterammi accennar ſo lamente molte coſe averſi alcuni de'più rinomati autori in veſtite, inillantando falſamente, ſe eſſere ſtati i primi a mani feſtarle, come intorno all'ordimento, che tien la natura in compartire alle parti de'corpi animati il nutriinento, che H cla 58 ellämolto avanti ravvitate appieno, e glorioſamente già paleſate ne'luoi libri l'avea. Surſe dopo coſtei nella noſtra Italia un novello Siſtema di razional medicina, e fu gentil trovato diquel celebre filoſofante, e maeſtro in divinità CAMPANELLA. Non miſe egli già le mani all' opere della medicina: ma pure ſpiar volle di quella i più ripoſti arcani; e comeage vol fu al ſuo pellegrino intendimento lo ſceverar la ſua fi loſofia dalla volgare, che nelle ſcuole comunemente inſe gnavafi, così potè ancheordinar con belle dottrine un'al tro trovato dirazional medicina, e quindi ancor ne ſegui rono molti, e varj rimeſcolamenti, e conteſe nell'arte. Ma i ſegni, e le coſtoro mete, o quanto trapaſsò gene roſo a’giorni noſtri il grand'Ermete della balla Germania, Elmonte, che con più alti apparecchi, e colla mente di più nobili arredi fornitas tentò Ia grand'im preſa, onde vie più s'accrebboro i contraſti, e le miſchie. Coſtui a ſingolar acutezza d'ingegno, cãdidezza accoppia do di non volgari coſtumi, rivolto curioſamente alla Spa girica, intorno allo ſcioglimento de’naturali corpi tutto dieſſi, e ne a fatica,ne a ſpeſe giammai perdonando, tant'ol. tre avanzoſi, che laſciandoli dietro l'orme glorioſe dal Pa racelſo ſegnate s nórimai ſi riſtette', fino a tanto, che ull maraviglioſo, e non più udito liſtema di razional medicina egli giunſe felicemente a formare. E a qucſta medeſima guiſa veduto abbiamo a ' di noſtri per lo ſentiero dell'immortalità, e della gloria avviarſi a gran paſſi co'l ſuo novello ſiſtema di razional medicina il celebre Tomaſſo Vilfis; ne di leggieripuò crederſi, qua to egli con ogni ſtudio maggiore proccuraffe d'ammannar tutto ciò, ch'avvisò dovergli farluogo a sì nobil lavoro: e con qnale sforzo, con qnai ſudori, con quali vigilie egli s'adoperaſe per condurlo allo intero ſuo compimento. Ma non vi durarono minor fatica", ne minore induſtria adope rarono per fomigliante impreſa, e’l Silvio, celebre per lo innumerabile drappellode Fuoi ſeguacije'l Gliffonio,e l'El vezio, e'l Meſfonieri; e'l Travaginis, ed altri illuſtri l'ette rati rati dell'età noftra, a molti de'quali, che che ſtata ne forte la cagione, non è venuto fatto di poter mettere fuorii loro concetti. Taccio al preſente di que'valent' huomini, che tuttavia ſudano all'opera, e colla ſcorta de’moderni trova ti della notomia, e della moderna filoſofia naturale, ſpera no, quando che ſia divenire a capo de’lor generoſi diſegna menti dietro a yarj ſiſtemi di razional medicina. E taccio altresì di coloro, che ſottilmente van tutto di diviſando (i ſtemi di ſperimentale, e di metodica medicina, ma dall'an tica gran fatto varia, ediſcordante, Ma o quantoperciò più le têzoni de Medicine ſiano acceſe con porre ſottoſo pra, ed avviluppar la medicina tutta, non fa meſtierial preſente narrare, ſe tutto dì co’propj occhj apertamente il veggiamo. Perchè ſe a'dì noftri l'eloquentiſſimo PLINIO vi vo fosse, griderebbe dicerto più che mai con quelle ſue adirate parole: mutatur ars quotidie toties intarpollis, & in geniorum flatu impellimur, non già di que’della Grecia ora Icioperata, e incodardita ſotto'l giogo della barbarie; ma di que'celebratiſſimi dell'Inghilterra, e d'altre Provincie, da lui ne’tempi ſuoi barbare giudicate, Malo ormai giunto mi veggioal più copioſo ſtormo de medici,in tante ſchiere, e tazioni partita, e quaſi ſtraccia ta veggendo la medicina, che ormai per ingegno umanono fi può più avanti partire. F ſon coſtoro que'cutti,che nondi Greco, o DI LATINO, o di Barbaro, o d'altro ſtrano ſcrittone, modernoso anticoch’e'ſiaſi,ſeguirvogliono la peſta,ed a gli altrui ſentimenti ſempre ligarſi; ma liberi affatto, e ſciolti gir con iſpedito voloi valtiſſimi Regni della natura fcorré do; quindi cozzando contro i più duri, cd oftinati malori con quell'armi, ch'a coſto delle propie fatiche s'acquiſta rono,nonpreſe, o tolte da gli arſenali altrui, ed alla cic ca adoperate, fanno con glorioſe impreſe render eterni, e illuſtri i lor nomi. Così nulla altrui credendo, ſalvo ſelor non venga da propj ſenſi, o da certiſſima ſperienza appro vato, tutcoyogliono ſpiare, a tutto penetrare, e tutto ſot tilmente con occhio curioſo eſaminare;ne per iſmaltire hā no altre ragioni, che quelle ſolamente,ch'all'avvedutezza H 2 del 80 Ragionamento Primo delloro intendimento confannoſi. Ed eſſendo a tutte ſet te contrari, e a niun de'ſertegiantiaffatto nimici, giurano che in queſta guiſa,più che altri oftinataméte fi faccia, l'or me d'Ippocrate, e di Galieno vengano ſopratutto a ſegui tare. E perciocchèlo giudico, che aſſai monti al noſtro intendimento il vedere, ſe una tal libertà, debba loro eſa fere permeſfa: priegovi o Signori, poichè a baſtanza par mi d'aver ragionato, nella vegnenteaſsemblea ad udir loro ragioni. RA EBBO per ſoddisfare all'obbligazion del la mia promeſsa diviſarvi oggi,o Signori, le ragioni di quei filoſofanti, che alla li bertà de'loro ingegni alcun freno di fer vitù generoſamente ſdegnando, voglion gir liberi a lor talento fpaziando pe' vaſti, e ſiniſurati campi della Natura. Ma conciosſiecofachè el le fien molte, e molte, e tutte di gran lieva,io non ſo qual prima mi debba dire, quafdopo; ſenzachè a me non fu conceſſa in ſorte larga vena diben parfare, perchè con purgato ſtile ſpianandole (e quale alla lor dignità per av ventura ſi converrebbe) la for ſaldezza, e valore veniffer per voi più chiaramente compreſi. Ma forſe hanno elle an cora ciòdi vantaggio, che rôzzamente accennatc poffano, e pregio, e commendazione non ordinaria da voi merite volmente ricevere. E per venirne omaia capo, parmi che alcuno autor di quelle a queſta guiſa d'eſſo loro parlamen, tando potrebbe imprenderne il filo. Egli non alzò certamente natura con ſingolar vantaggio fovra tutt'altri animali all'huomo inverlo il Ciclo la fronte; di sì 68 Ragionamento Secondo di sì generoſi, e ſublimi, e liberi ſpiriti abbondantemente fregiandolo, perchè egli poi qual paluſtre mergo, raden do lempre maiil ſuolo, non avelle ardimento di battere generoſamente in alto le penne, per potere da ſe medeſi mo ſpiare, e inveſtigare quelle si varie, e sì ſtrane apparen ze, onde bello ſi rende, ed ammirabile l’Vniverlo; ma acciocchè largamente per tutto ſpaziandoli, il tutto e'cer chi, il tutto e'ravviſi,il tutto e' pienamente comprenda, non già nelle copie incerte, e ragionevolmente d'error ſo ſpette, manel primo, c vero loro originale. Così quell' Aquila de Greci filosofanti glorioſamente adoperando, con felice., e ſpeditiffimo volo Proceſſit longè flammantia mænia mundi, Atque omneimmenfum peragravit mente,animoque. E pure ad onta d'una sì provveduta madre, v'hà chi a dáni, ed a rovina diſe, e de gli altri Segnò le mete, e'n troppo brevi chioſtri L'ardir riſtrinfe de l'ingegno umano, facendo sì, che i troppo creduli, e ſciocchi poſteri ad altro non badaffero, ch'a leggere, c rileggere, e tutto dì di chio ſe, e di coinenti gli arzigogolise le fanfaiuche d'un mondo tutto fantaſtico caricare. Quicfto non volle già,che faceſſe in modo alcuno il giovinetto Lidia, quel gran maeſtro della greca filoſofia Antiltene: quando di nuovo libro, di nuoyo ſtile, ditavolette nuove a doverſi fornir gl’impoſe ', fe filoſofar con ello lui voleſſe; e ciò, perchè egli compré deſfe, che le coſe,che per lui, da regiſtrar foſfero, eſfer quelle non doveano, che già da altrui ſcritte in prima, diviſate ſi erano.. Eciò anche molto innanzi ad Antiſtene inſegnò quell'antichiſſimo Savio, che primadi tutt'altri, Filoſofia chiamò con nome degno, quando a ' luoiſcolari diceva, non doverſi da loro nella, popolare ſtradaconfuſamente co'l volgo ignorante cammi nare. Equeſta libertà nelle ſcienze ciaſcun'altro de più ce lebri, e rinominaci filoſofi comunemente ancor richieſe: c da più illufri medici, e per valor d'ingegno, e per opera di mano eccel'éti faclia Grecia futta oltre modo abbracciata. La cui altezza d'animo ſaggiamente imitar volle il famoſiſſimo medico, e filoſofo Claudio Galieno, ficome in più luoghi ne da pienamente teſtimoniāza nelle ſue ope re, o quand'egli oltremodo uccella, e berteggia i tenacif ſimi ſeguaci d'Eraſiſtrato,i quali a' detti di lui, come agli oracoli d'Iddio riverenti s'acchetano,faldiſſime, ed infalli bili verità, ſempre mai giudicandole, o quando coſtante mente afferma eſſer egli d'ingegno rintuzzato affatto, ed abbattuto lo farſene ſcioccamente a’derti, ed alle ſenten ze, cd a'giudicj altrui, non volendo coſa alcuna bilancia re, ne punto a lor paſſare innanzi: o quando altrove iſtan cemente priega, e ſcongiura i parteggianti tutti a por giù la ſcabbia, e'l furore, e la ſtolta follia delle ſette: 0 quin do adiratamente grida effer dura, e malagevole impreſa a ridur coloro alla ſtradadella verità, i quali già ſotto il ſera vilgingo di qualche ſchiera ſottomeſſi fi fieno. Quindi la ra gion recandone ſaggiamente ſoggiugne, che le falſe opinio niingombrando gli animidegli buomini, non folamente fordi, ma ciechi ancora renderglifogliano, intanto che ſcorger affat to non posſano ciò, che altri di neceſſità rimira. O quando altrove proteſta, eſſer egli un male da non potere in verű modo guarire,la folle, e ſciocchiffima caponeria di cotali parreggianti; e di qualunque ſcabbia più dura affai, e ma ſagevole a trarre: e che cotali uccellacci non che fappian, giammai nulla di buono, anzi ne men d'appararlo ſi ſtudj no: o quando ſtizzoſamente ſclama, amarpiù toſto, coloro, cfer della patria, che della propriafetta traditori, e rubelli. Et o piaceſſe pure al Cielo, che coralidetti non ſi vedeſ fero a giornate dall’oſtinatiffima pertinacia di coſtoro av verativolendo: più toſto manifeſtamente uccidere i miſeri infermi, che ſpiccarſi punto daʼnocevoliſentimenti de’loro amati Maeſtri. Ma perchè dobbiam mai ſempre noi con follc oſtinazio ne laſciarci trarre afreverendiſlimo parer degli antichi? for ſe non ſono ſtate lor molte coſe a grado, ch'a noi ſpiace voli ora ſono, ed affatto nojofes Cosi la gente prima,chegià viſe Nel mundo ancoraſemplice, ed infante Stimò dolce bevanda, e dolce cibo L'acqua, e le ghiande, ed orl'acqua, ele ghiande Sono cibo, e bevanda d'animali, Or che s'è poſto in ufoilgrano, e l'uva, O forſe alcuna coſa, ch'al lor cortiſlino intendimento vera parve, ora falliſiima manifeftaméte p opera degli ingegnoſi moderninon ſi è ſcorta? Così ſon veriſſiine prove de’mo derni notomiſti il ritrovato dell'aggiramento dei ſangue, delle vene lattec, edel códotto del Virſungo,e del ſaccolat to, e de'vali acquoſi, e degli uſi delle glādole, e d'altre par ti, e altri infinici nuovitrovati,che crollano, c ſcovolgono,e da’fondamenti abbattono, cd atterrano ogni razional ſi Atema d'antica medicina. O forſe farà egli colpa degli in nocenti moderni l'effer' eglino nați dopo gli antichi auto rir ma ſe ciò è fallo, e colpa, certamente commiſerla in prima coloro, i quali da' ſentimenti de' loro più antichi maeſtri tralignando, e nuove ſchiere di filoſofia, c di me, dicina anmutinando, ofarono in prima novelli ſcolari ri bellarc a'loro antichi maeſtri, e darne nocevole cſemplo di si follo, e temerario ardiinento. Imperciocchè ognianți co a'tempi ſuoi fu moderno; perchè figgiamente il Princi pe CLAUDIO Ceſare apppreſſo TACITO ha a dire: quæ nunc vetuftifſima creduntur nova fuere: inveterafcet feculum no firum, & quod hodie exemplis tuemur, inter exempla erit, (1 ) cd a queita medeſima cagione avendo riguardo un mo derno Poeta contro que', che per eller egli moderno biafi mavano il Paracelſo, in ſomigliante guiſa conchiude, Qui nova damnatis, veteres damnetis oportet; Aut iſta nihil eft in novitate novi Saran dunque acerbamente da vituperar Platone, Antiſte nc, Eſchine, ed altrifamoſiſſimiingegni, i quali poſto in non cale le vecchic ſcuole, che allora nella Grecia fioriva. no, a quella di Socrate, che nuova era, per imprender fi loſofia coraggioſamente ſe'n girono? anzi ne furon perciò foin (1 ) Etienne Paſquier.  05 sómamente da cómnendare. E nuove altresi furono le ſcuole di Platone:e pure ARISTOTELE, e Senocrate,e Speuſippo,ed al tri molti cotăto tépo v’uſarono; 11e alcuno ebbe perciò giá mai ardiméto alcuno di biaſimargli. E dalla novella ſcuola nel ginnasio del lizio d'ARISTOTELE in tanta gloria mótò Teofraſto per l'uſarvicon tinuo, che uguale, e forſe al inaeſtro ſuperior ne divenne; perchè dal padredegli ſtoici filoſofanti Zenone, funne poi grandemente lodato. E nuova anche fu la scuola di Zenga ne, e nuova quella d'Ariſtippo, e quella di Fedone, equel. la di Euclide da Mogara. Così anche fur nuove le ſcuole d'Eubolide, d'Epicuro, di Menedemo, d’Arcuila, e d'al tri molti maeſtri di filoſofia, e pure per huoinini illuftri,ed egregj, alle vecchie, e famoſe ſcuole degli antichi filoſofan ti furono antipoſte, riportandone ſempre mai buon nome, e fama non ordinaria dicandidi, e veritieri ſcrittori di que tempi. E perchè nó ſarà lecito anche a noi tralaſciando le vecchie ſcuole ad una novella indirizzarci, e maſſimamen te in quelle coſe, ove già i manifeftiffimi errori degli anti chi maeſtri abbiam compreſi? E forſe ſarebbe a tanta altezza pervenuta la nobiliffima arte della pittura, ſe gli antichi maeſtri paghi ſolamente della rozžillima imitazione del vecchio Filocle, nö ſi foſſero ſtudiati di vantaggio con la loro induſtria di limarla: e col tirar ſolamente le linee dell'ombre de'corpi aveſſero così alla groffa ſchizzate ſempre le lor confuſe, e diſtinate figu re? O forſe fu egli troppo ardimentoſa tracotanza dell'in gegnoſo Cleofante, odi Parrafio, o di Polignoto, o di Zeuſi, o d'Aglaufone, o del vaghiſfimo Apelle il dar loro più vivi i colori,e più regolati i diſegni,e più ſquiſite le om bre, onde poi vive, e perfettiſlime riſaltando,n'aveffero,e gli augelli, e i deſtrieri, ei cani, ei maeſtri medeſimidell arte glorioſamente ad ingannare? così anche i noſtri avan zandoſi di mano in mano l'un l'altro a'tempi d’ALIGHIERI, Credette Cimabue ne la pittura Tener lo campo, ed or ha Giotto il grido; Si cbe la fama di colui ofcurawi I Quin 86 Ragionamento Secondo Quindi fu il famolo dipintor di Madonna Laura Mae Itro Simone cotanto commendato dal Divino PETRARCA, ed altri famoſiſſimi dipintori. Ma ſopratutti ſi tolſero il van to, ed al preſente s'ammirano comemiracoli dell'arte l'o pere maraviglioſe di SANZIO, e di Tiziano, e di quel grande Michel più che mortale Angel divino. Necertamente potrebbe la Grecia gir ſuperba, e altiera della ſonora tromba del grand'Omero,del grave coturno di Sofocle della ſublime lira di Pindaro, e de' ſouviſlimi verſi d'Anacreonte, di Teocrito, e di tant'altri illuſtri, c nobili Poeti; o ROMA de' ſuoi Lucrezj, de’ Virgilj, de’ Catulli, de' Properzj, de' Tibulli, degli Orazj. Ne la Spagna ammirerebbe l'altiſſiino canto del Camoes, e le colte rime del Garzilaflo. Ne goderebbe la Francia l'ornato ſtile del dottiſſimo Ronzardo, e del Bert: ſſo. Ne il noſtro più,che tutt'altri, dolce,vago,e bello Idioma, vātar potrebbe il divi no cato dell'incóparabile Torquato Taſſo,di Giovani della Caſa, o la maraviglioſa evidenza dell'ARIOSTO, e dell'ALIGHIERI, o la dolciſſima muſa del PETRARCA, del Bébo,dell’Ala māni, del TRISSINO, del Molza, del Guidiccione, del TASSO Pa dre, del Guarini, di Galeazzo di Tarſia, edi altri,ed altri nobili ſpiriti, che di valor colla ſuperba grecia gioſtrano,o pur la vincono, ſe coſtoro tuttida'veſtigj de'rozzi antichi non aveſſero oſato d'allontanarſi; il perchè faggiamente ebbe a dire Iſocrate:yeggiamo noi l'arti,e tute'altre coſe eſſer van taggiate, e creſciute non già per coloro, che le comunali, e uſitate ritennero, ma per coloro, che d'ammendarle, e torne via glierrori, e migliorarle preſero ardimento: ta's επιδόσεις δρώμεν γινομένας, και των τεχνών, και των άλλων απάντων, και δια της εμμένονάς τοϊς καθεξώσιν, αλα δια τηςεπανορθένας, και τολμώνας «ί τι κινείν των μη καλώς εχόντων. Ε fe cio fi vedea giornates anche in quelle arti avvenire, nelle quali pare, che omai poco, o nulla fi poffa più oltre andare, e pure non vi ha altra ſtrada d'avanzarli a maggior perfezione, che del mai ſempre nuove coſe inveſtigare: perchè non ſi dourà an che ciò alla filoſofia, ed alla medicina permettere? malli mamente, che il campo di eſſe è queſto si vafto, e grandif ſimo teatro dell'univerſo, nel quale ad ore, ed a moinenti apparir tutto dinuove, e nuove coſe fi veggiono, da te nervi i più ſublimi, e pellegrini ingegni mai ſempre img piegati. Multa dies, variufque labor mutabilis ævi Rettulit in melius; ſenzachè certiſlima coſa è, che'l mondo più ſempre mai col tempo invecchiando,dinuovi, ed utili ritrovati per la noſtra ſperienza di mano in mano i ſecoli arricchiſce. Così noi veramente ſiam da dirci vecchi, e gli antichi, i quali nel vecchio mondo ſiam nati, e non que’tali, che nelmo do infante, e giovane,men di noi ſperimentando conobbe ro. Anzi coloro, che per innanzi naſceranno, più di noi ſaran vecchj, ed antichi, e conſeguentemente d'eſſer più di noi dotti, e ſperimentati, e diquant'altri per l'addietro mai furono, auran cagione. Ed a propoſito di ciò ſovven gonmi quelle belliſſime parole del gran Baccone da Verolánio: de antiquitate autě(dice egliopinio,quam homines de ipfa fovent,negligens omnino eft, ex vix verbo ipfi congrua: Níundi enımſenium, & grandavitas pro antiquitate vere habendafunt;quæ temporibus noftris tribui debent,non junio ri ætati mundi, qualis apud antiquos fuit. Illa enim ætas re Spectu noftri antiqua, &major; reſpectu mundi ipfius,nova, minor fuit.Atque revera quemadmodum majorem rerum humanarum notitiam, á maturius judicium, ab homine fene expectamus, quam à juvene-propter experientiam, & rerü, quas vidit, & audivit, & cogitavit, varietatem, copia eodem modo, do à noftra etate (fi vires ſuas nuffet, & expe riri, &intendere vellet)majora multo, quam à prifcis tem puribus expectari par eft; utpote ætate mundi grundiore, infinitis experimentis, & obſervationibus aucta, & cumulata. E in verità, chi ha mai tante, e si diverſe maraviglie in Cielo, e in terra, e nell'acqua, e negli augelli, e ne’peſci, e ne' bruci animali, e nelle piante ſcovrir potuto, dove turto di attenti, ed intricati gli ingegni tutti de' più ſottili I 2 filoſofanti viſi aminirano, ſe non ſe la noſtra età, cioè a dire il mondo vecchin, il quale ne va nuove maraviglie di giornata in giornata rappreſentado; intanto, che ora d'ogni tempo quafi n'è lecito a dire. quod optanti divum promittere nomo Auderet, folvenda dies en attulit ultro. Oltre a ciò gli antichi ſavj, ſicome i confini delle loro co trade appena s'argomentarono di paſſare, così altii ani mali,altre piante,ed altri minerali fuori di quelle non iſpiar mai, ne conobbero, e ſe ne rimaſero alla ſemplice relazio ne de'marinari, c d'altre perſone idiote, e volgari, dalle quali ingannati,ne ſcriſſero poi tante incredibili bugie. E chi potrebbe mai tener le rila in leggendo ciò, che Erodo to favoleggiò dell'incenſo, dicendo, che gli Arabiil colga no profumando in prima l'arbore con iſtorace: iinperocchè fra irami di quello s'appiattano folti (tuoli di ſerpentelli coll'ali di variati colori: τον μέν γε λιβανωτον συλλέγεστ, την σύeακα θυμιών της. E non guari apprefio,τα γαρ δένδρεα Gύτα του λιβανωτοφόρ, όφιες υπόθεροι και μικροί τα μεγάθεα, ποικίλοι τα είδεα, Qurárrs01, Trnýber mondo, me ei sér d por exasov. E del Laudano, affer: mò eſſer quello odorifero, e dilettevole a fiutare, e pur na ſcere in luoghi puzzolenti, e ſpiacevoli; e che ritrovaſi ſu le barbe de'becchi a guiſa di muffi, che naſce da' legni pu tridi: έν γαρ δυσοδμοταίω γινόμενον,ευωδέ αλόν εσ • των γας αιγών των τζάγων εν τοίπ πώγωσε ευρίσκεται έγινόμενον, οιται γλοιός από και o'rins. Ma Rufo da Efeſo dice, alle barbe delle capre ap piccarſi il L.audano allor che le frodi del Ciſto van ghiot tamente paſcendo Αλο δε πε κατι γαίαν έρέμβων λήθανον εύροις Αιγών αμφί γένια • το γας καθύμιον αιξε Κισσε ανθήενθG- επέδμεναι άκρα πίτηλα Τον δ' από λαχνήεν7G- ανεπλήσθησαν αλοιφής Λίγες υπαί λασίασε γενίασε πλευρά τε πάνω. E forſe il medeſimo volle dire Erodoto. E ſimilniente fi pare, che credeſſe Dioſcoride colà, ove ſcriſle parlando del Ciſto: Imperocchè pafcédo le ſue frõde i becchi, e le capre lor fu la barba, e ſu'l vello dell’anche s'appiaitriccia quella tenace graffezza, onde poi pettinandola la raccolgono i Paſtori, e colata non altrimenti, che ſi faccia del miele, e ne forman paſtelli, e la ripongono. Sonyi alcri, che tirando, e sbattendo certe corde ſopra queſti arboſcelli raſchiano poi la graſſezza, chevi s’appicca, c fannone paſtelli, e a quefta guifa la riferbano:τα φύλα γας αυτού νεμόμεναι αι αίγες και οι τεάγοι ή λιπαρίαν αναλαμβάνει το πώγωνα γνωρίμως • και τους μερούς πτοσπλαήoμένην δια το τυγχάνειν ιξώδη• ην αφαιρώντες ύλίζει, και απο τίθενζι αναπλάοσοντες μαγίδας · ένιοι δε και χοινία επισύρεσι τοις θάμνοις, και το πζοσπλασθεν αυτοίς λίπG- αποξύσαν τις αναπλάσει: Il medeſimo dir vollc Plinio, ma in traslatido le parole di Dioſcoride poco bene peravventura intendendo la parola Jauvois, e l'altra unigovor ſcriſſe: Sunt qui herbam in Cypro, ex qua id fiat,ledam appellent: etenim illi ledanum vocant: hu jus pingueinfidere:itaque attractis funiculis herbam eam con volvi, atqueita offas fieri.Vidiede ancora inciera credenza Galieno, quando dice gevers auto del laudano, favellan do ) κατά τα γένεια των τάγων έν πτ χωeίοις επιγίγνεώι: e Paulo da Egina λάδανον από τον κίσε τού λάδανος λεγόμενον γίνεθαινεμόμεναι γαρ αυ τον αι αίγες, εν τοίς πώγωσι, και τοϊς μηρούς αυτών και λιπαρώτε ρον, και οπώδες πόας αφαιρούνι. Éd Eichio λάδανον το με απο των πωγώνων των αιγών, και τάγων Ma à chi cgli non ſembrerà incredibile ciò ches del Malabatro narrano Diofcoride, e PLINIO, pur troppo groſſi nell'informarſi, e nelcreder leggieri. Eftima il pri mo naſcer quello nelle lacune a guila di lente paluſtre; e'l ſecondo no’l fa punto diverſo dalle foglie del Nar do Indiano; e pur ſappiamoeſſer foglia di ben grande, co ſpazioſo albore, non già paludoſo, ma ſalvatico, emon tano. Io non farò menzione delle tante, e tante inyeriſi. mili bugie, ch'cglino medefimi, e Teofraſto della cotanto celebrata (piganardi inventarono. Ne mi fermcrò a ſpia nare i fallimenti di Dioſcoride colà ove diffe, che le radici del gégiovo fié così picciole,come quelle del Cipero; è co me ciò,che buccinavaſi appo gli antichi dell’ambra gialla moſtri anch'e' di credere, cioè,che il liquor d'amendue i pioppi preſſo le rive del Po in diſtillando da tali alberi fi rapprenda in ambra, ſeguendo in ciò la volgar fama de'ma fonieri Poeti, i quali fan che l'ambra ſia il doloroſo umore, che per gli occhj fuor verſarono le pie, e addolorate ſorel le, che dell'acerbo caſo del lor Fetonte dogliendoſi furono in quegli alberi ſtranamente converſe, onde poi Fluunt lacryme: ſtellataque fole rigefcunt De Ramis electra novis: qua lucidus amnis Excipit, du nurubus mitiit geſianda larinis. Ma non men piacevoli a udir ſono i falli del ſovraca cennato Erodoto dietro al raccoglimento della caſſia, e del cinnamomo. Credette egli con altri antichi, e la lor creden za gli Arabi, c molti de'noſtri follemente ſeguirono, que Ite effer due piante fra eſſe lordifferenti; e vuol egli, che la callia naſca in una palude non guari profonda,per entro, e d'intorno alla quale ſoggiornano alcune fierucole alate fimili a' vipiſtrelli, che mandan fuori orribili ſtrida, e ſono di gran forza, e vigore; ma gli Arabi per iſchermirli da' yelenoſi lor morſi, in cogliendola ſi cuoprono il volto, e'l corpo tutto,da gli occhi in fuora,di cuoja,e d'altre pelligec colefue parole: επταν καζδήσωνοι Βύρσησι δέρμασι άλoισι πάν το σώμα, και το πόσωπον, πλην αυτών των οφθαλμών έρχονται επί την καασίην • η δε έν λίμνη φύεται ου βαθέη, σιρι δε αυτήν, και εν αυτή αυ. λίζεται κού θηeία ερωτι, της νυκτίρια ποστίκελα μάλιστα και και τί. SUYE δεινον και ες αλκήν άλκιμα • τα δη απαμυνομένες από των ópfamutów. E quale aggiraméto di ſtrano cervello ſi pare ciò, che leggeli rapportato da Teofraſto, che i rami della caſſia P cſfer nervoſi non poffano ſcortecciarſi, ma tagliinſi in pic cioli pezzetti, i quali ſicuciono dentro a’pclli di bovi pur mo ſcorticati, perchè i vermicelli, che nel corromperſi del legno s'ingenerano,roſicchiádone la midolla, inutile laſcia no la corteccia intera, mercè l'amarezza, e l'acrimonia del fuo odore, την δε κασταν φασι τας μέν ραβδες παχυτέρας έχαν, ινώδης δε σφόδρα, και ουκ είναι τριφλοίσα, χρήσιμον δε ταύτην τον φλοι δν· αν ουν τέμνωσε πως ραδες και κατακόπαν ως διδακτυλα το μήκG-, ή μικρά μάζω ταύταδ' άς νεόδωρον βρείνον καταρραΠεαν · ατ ' εκ ταύτης, και των ξύλον σκυμένων, σκουλήκια γίνεσθαι, από μια ξύλον κατεσθίει • τα φλοιού δε ουχ απεπειι, δια την πικρότητας και δριμύτητα 7ης οσμής, 1e O 1 1 quali parole cosìtraslatò PLINIO con l'uláta eleganza:Con fecant furculos longitudinebinum cubitorum, mox præſuunt recentibus coriis quadrupedum ob id interemptarum,ut ijs pu trefcentibus vermiculi lignum erodunt, & excavent corticem tutum amaritudine. Ma che direm noi delle lunghe dice rie del Cinnamomo appo Erodoto più incredibili delle ciance del verace Turpino preſſo del Bojardo, e del l'Arioſto. Il Cinnamomo, dice Erodoto che non ci fia manifeſto ove, e'n qual modo naſca, ſe non che pro babilmente ſi crede ingenerarſi in que'paeli, ove Bacco fu nutricato, e le feſtuchedi eſſo eſſer quindi da certi grandi uccellacci traſportate in alcune ſcoſceſc, einacceſſibili mo. tagne per fabbricarvi inidi,contro a’quali han gli Arabi ritrovato un ſottil modo: cglino tagliano in pezzi, e con quidono le membra di boyi, d'aſini, e d'altri giumenti, e quelli appreſan quanto è poſſibile a’nidi, e quindi ſi dipar tono; gli uccelli intanto calan giù, e preſo della carne la ripongon entro a’lor nidi, i quali non valevoli a ſoſtener tanto peſo caggiono a terra, e gli Arabi allora ne fan race colta:όκα με γας γίνει αι, και ήτις μιν γή ή τσέφεσα έστ, έκ έχεσι - πών, πλην όπλόγω άκόπ χρεώμενοι, εν πίστ δε χωeίοισι φασί πνες αυ η φύεσθαι εν τοϊσι ο Διόνυσος εξάφη • όρνιθας δε λέγεσαι μεγάλες φορέ eaν ταύται το κάρφεα, τα ήμεϊς, απο Φοινίκων μαθόνης, κινναμωμον καλέομεν · φορέειν δε τους όρνιθας ές νεοσιας πεπλασμίνας πηλό πέος αποκρήμνοισι ούρεσι, ένθα πόσβασην ανθρώπω ουδεμίην άνοι: πεος ών δή ταύα τους Αραβίους σοφίζεσθαι τάδε · βοών π και όνων των απαγινο. μένων, και των άλλων υποζυγίων τα μέλια διαμόνας ως μέγια και κομί ζειν ες Gύτα τα χωρία και σφεα θένας άγχου των νεο Αστέων απαλάασε. « θαι έκας αυτέων• τας δε όρνιθαςκατο πετυμένος και αυτών τα μέλεια των υποζυγίων αναφορέαν επι τας νεοσπαστας δε ου δυναμίνας ίσχειν,καταρρής γνυσθαι γαρεπί γήν, τους δε επόντους συλλέγαν ούτω με πκινναμωμον. Ma fe quefto fembra fogno d'infermi, ben fola di Ro manzi ſarà, ſenza fallo, quel convenente d’Ariſtotile in torno al medeſimo fatto,dove e' narra, ch’un uccello detto in Arabia Cinnamomo (comechè appreſlo PLINIO chiami fi Cinnamologo) vada cogliendo i fuſcelli della canella, e fe · ue fabbrichi il nido ſu le cimede gli alberi, onde pofcia gl’arabi con faette di piombo lo ſcroſtano, e caduto giù in terra l'adunano φαστ δε ο κινναμωμον όρνεον είναι οι εκ των το. πων εκείνων, ¢ το καλούμενον κινναμωμον φέρων πεθέν τούτο το ορειον, και την νεολίαν εξ αυτού ποιείσθαινεολεύα δεφ' υψηλού δένδρετε εν τοις θαλ. λοϊς των δένδρων, αλλά τους εγχωρίες μόλιόδον προς τοις οισοίς πέοσαρ των τας, τοξεύοντας καζβάλειν τε ού7ω συνάγειν, έκ του φουτου το κινναμωμον: elmedefimo vien confermato da Antigono, ov ” codices λέγαν δέ τινας τε το κιννάμωμον όρνεον είναι, και αρώμα & φί. ραν, και τους νεοφίας εκ τούτου ποιείσθαινεοτεύειν δ' εφ ' υψήλων δένδρων τ' α Gάτων, 7ους δε εγχωρίες μόλιόδον τοϊς δίπϊς προτιθών ας τοξεύαν, και κα - αρρηγνύειν τας νεολίας. E non molto diffimile e cio, che ne vien creduto da molti altri antichi appo Teofraſto: néger aus δέ πς και μύθος υπέρ αυτού · φύεσθαι μεν γάρ φασιν εν φάραγξιν, εν ταύζις δ ' όφης αναι πολλές δήγμα θανάσιμον έχοντας: πεος ούς φραξάμενοι τας χώρας,και τες πόδας, καταβαίνεσι, και συλλέγεσιν,είθ' ό'ταν εξενέγκωσιδιε λόντες βίαμέρη διακληράν τει πεος τον ήλιον Ma ſe mai mi foffe in animod'annoverare gli errori tut ti, ne'quali caddero gli antichi per eſſer eglino maldelle ftraniere faccende informati:Io direi come Plinio follemé. te dica, che'l Cinnamomo naſca nell'Etiopia, ed indi aſſai più vaneggiãdo ſoggiúga,che gli Eriopi il coprano da que de'proſſimani paeli;e che giungendo poiegli al colmo del le vanezze, apertamëte contraddicendoſi, non ſi vergogni d'affermare, ch'eglino ſe'l portino per alti mari con lun ghe, e pericoloſe navigazioni, ove non giova governo de nocchieri, ne vela, o remi,inafol l'umano ardire, e la for tuna gli regga. Direi come in alcuni antichi Greci comentarj leggaſi, che'l Cinnamomo col ſolo toccaméto,l'acque bogliéti rin freſchi, e meſſo ne'bagni, i ferventi loro vapori in un bel freſco tramuti;e che tutti gli animali di putredine nati,am 2nazzi:ότι ζέοντος φασή του εν λέβητα ύδατος είπες θίγοι μόνον η κιννα. μωμον ευθυς καταψύχειν το ύδως και και λετάω έπεισενεχθέν διαπύρω μετα ποιεϊν τον εν τώ αίρι φλεγμον εις ψυχρότειν, και αφανισικήν των εκ φθο ράς πνος ζωογονουμένων την φύσινέχαν.Direi di vantaggio, co medel pepe favoleggiado Dioſcoride ne narri, naſcer quel lo in India da un coral arbuſcello, che produce un frutto lungo, ſicome baccello, il qual chiam ali pepelungo: den tro del quale dice ritrovarſi alcune granella non guari dau quelle del migliodiſſomiglianti; e che queſto ſia il perfer to pepe;imperocchè aprédoſi col tépo n'eſcon fuora i raci moli carichi di granella, ficome gli veggiamo; e queſti anzi d'effer venutia maturezza colti, fāno il pepe biaco, e'l nero poi dice egli conciosſiecofachè ſia maturo, eſſer odorifero,e dilettevole al guſto più che'l bianco; il quale perciocchè a debita maturezza non è pervenuto, non è cotanto perfetto. Πέπερ, δέρδρον 15ηρείται φύομεναι εν ενδία βραχύ καρπον δε ανίησι, κα. &ρχας με πξομήκηκα θάπερ λοβούς όπες επί μακρόν πέπερι: έχον τα ένο (λεις ) κέγχρω παραπλήσιον και το μέλι έσεσθαι και τέλειον πέ. περι. όπερκαλα τους οικείας καιρούς αναπλoύμνον βότρυς ανίησε κόκκινο φέροντας οί'ες ίσ μου και τους δε, και ομφακώδες και οι τινες εισι το λευκόν πε. περι, epoco appreffo:το δε μέλαν ήδιον και δριμύτερον του λευλου, φύσιμώτερον· και μάλλον δια 10' ναι ώριμον αρωματίζον• εύχρησότερόν τη εις τας αρτύσπις· το δε λευκών και ομφακίζον ασθενέτρον των πτοειρημέ. ng IWY, Ma troppo lūga materia da ſtancarne nell'impreſo arin farebbe il volere ad uno ad uno tutt'altri lor fallimenti annoverare. Perdoniam pure a gli antichi ogni lor negli genza, ſenulla ſeppero, over nulla curarono del muſchio, dell'ambra grigia,del zibetto, della noce moſcada,de'ga rofani e d'altri, ed altri aromati. Non fia lor colpa, ma del la fola fortuna, il non aver eſſi avuto contezza niuna della Mecciocana, della Contrerba, del Saſſafras, del Cafè, del Legno Guajacosdel Balſamo del Perù, dell'Erba Te,dellas Salſa, della China, e d'altri quaſi innumerabili ſtranieri ſemplici, che al preſente ſon così manifeſti, e conti, che van per le bocche, e per le mani d'ogn’uno. Mache più: laſciam pur, che gli antichi ordiſcan degli animali le più incredibili fole, che peravventura cader potrebbono in penſamento umano: 0 pure avendole da altrui udito, co me ſe da propj occhj ſtate foſſer vedute, sì le abbinn per vere, e le rapportino. Laſciam, che creda Anafſagora appo ARISTOTELE, che i Corvi uſin per bocca colle lor semmine, e dea cagione dicantare a colui:. CorueSalutator, quare fellator baberis. E trapaſſiam fotto ſilenzio ciò che infinſero agli antichi della Catapleba, di cui Plinio, e Solino fan parole, e Sor gona appellafi appo Ateneo, la qual vogliono,che talma lìa dal ſolo ſguardo diffonda, che immantinente l'animal rimirato, ſtupido,ed inſenſato divega,e poco ftante fi muo ja; il che vagamente deſcriſſe in quc'verli il Petrarca. Ne l'eſtremo occidente V na fera è ſoave, e queta tanto, Che nulla più. Mapianto E doglia, e morte dentro a gli occhi porta Neprendiam briga d'annoverar ciò che favoleggiarono Megaſtene, Daimaco, Nearco, Ariſtea, Onoficrito, Te fia, ed altri appo Erodoto, Strabone, Diodoro, PLINIO, e GELLIO degl’uomini, che in Oriente preſſo il Gange naſcono ſenza bocca, e ſol Gi paſcon d'odore: degli huo mini, che in India appo i Nomadi vivono ſenza naſo: de gli altri, ch’appo i Troglodici ſon ſenza capo, e collo, ed han gli occhj ſu la ſpalla:d'altri, che han faccia di cane, e latrano, e di tant'altri di fimil figura, a quei, che la ma ga Alcina in guardia al ſuo palaggio teneva. Non fu veduta mai piùſtrana torma, Più moſtruoſi volti, e peggio fatti. Alcun dal collo in giù d'huomini ban forma, Col viſo altri diſcimie, altri di gatti. Stampa no alcun co’piè caprigni l'orma: E traſandiam Platone, che verace credette quella bugiar da fama de'Poeti, che i Cigoi preſſo l'eſtreno for giorno mandin fuori più bello, e più ſoave il canto; e non ci fer miamo a ſtacciar la cagione, che di tal fatto ne arreca táto ſottile, che da per ſe la ſcavezza, cioè, che eſſi cantano pe'l gran contento, che prendono del preſto ritorno, cli’al lo ro Apollo a far hanno. E con queſto di Platone,laſciamo impunito anche il fallo d'ARISTOTELE, qualor prende licenza di dir, che nell'Africa molti ne furveduti da’marinari, che buſamente, e doloroſamente cantavano; eſſendo in verità il lor căto un'imporcuno gridare,comedioche ſalvati che,anzi che no.Ne prendiam niuna cura diripigliar Teo fraſto ſeguito da Celſo, da Solino, e da altri, perchè po co, o nulla ſagace ſcriveſſe del Cainelconte', ch'egli il 'a ria ſi viva:così d'affermarlo niuno ſcrupolo non avendone, come ſe ſtati foſſero un di quei Poeti, che coll ulata lor licenza cantarono, ſicome OVIDIO, Id quoquequod ventis Animal nutritur, & aura El'Alciato Semper hiat,ſemper tenuem qua vefcitur auram Reciprocat Cameleon. O di caffar quegli, che vollero,eſſere it Camelconto della grandezzadelCoccodrillo, ſe pure non fu queſto, crrore di Plinio;imperocchè tutto ciò che narra delCameleonte, dice d'averlo tolto di peſo a Democrito, che un libro in tiero ne fcrife, ρve dicendo και το μέγεθος ομοιον είναι τώ κροκο dergoe, ' non badò punto, che nel Ionico linguaggio, nel qual Democrito favellava,la parola xpowodeina, val quel la Lucertola, che appo gli Atenieſi, e gli altri Greci dice fi sæūgos, ficome fanno gli ſtudioſi di tal linguaggio. Elaſciamo ſtare ciò, che gli antichi, a'quali ſi parve, che deffer credenza VARRONE, PLINIO, Solino, COLUMELLA, Marziano CAPELLA, e SERVIO follemente vaneggiaro che alcune cavalle ſu'l Tago ſieno ingravidate dal vento, e moran fuori polledrivelociſſimi al corſo. Co per vero dir non men fantaſtica del Pegaſeo di Bellero fonte, o dell'Ippogrifo d'Aſtolfo, e ben degna, che ne freggino i lor Poemicoloro, cui a par de'pittori è cócedu to di poter tutro ardicainente attentare. E sì cantar puo. tè Omero de'Cavalli del fuo Achille, Εάνθαν και Βαλίον,τωάμα ποιηση πελέσθην, Tες έτεκε Ζεφύρω άνεμω άρπια Ποδάργη. E ſimilmente VIRGILIO Ore omnes verſa in Zephyrūſtant rupibus altis Exceptante; leves auras, á fæpefine ullis Conjugiis, ventogravide, mirabile dicru ! E SILIO Italico delo lociſfimo Peloro no, fa K 2 Nullus erat pater ad Zephyri nova flamina campis Vectonum eductum genitrix effuderai Harpe E dell'Aquilino il noſtro ammirabil Torquato, Queſti ſu'lTago nacque, ove talora L'avida madre del guerrero armento Quando l'almaſtagion, che n'innamora, Nel cor le inftiga il naturaltalento, Volta l'aperta bocca incontra l'ora, Raccoglie i ſemidel fecondo vento, E de'tepidi fiati(o maraviglia! ) Cupidamente ella concepe, e figlia. E finalmente perdoniamo agli antichi ciò che ſognarono de'Pigmei, della Fenice, del Centauro, dell'Aquila, del I.eone, del Coccodrillo, della Salamandra, della Pirau ſta, della Remola, del Cavallo marino, del Baſiliſco,del l'Elefante, de'Satiri, degli Ipogrifi, de'Ciclopi, delle Si rene; e tant'altri errori, ne' quali non pur degli animali, ma de’minerali altresì in trattando incorſero, i quali di bé groffi volumi, non che di brevi dicerie ſarebber lunga ma teria, ſol che a noi ſi conceda picciola,e ben dovuta rin chieſta, il poter da’lor falli ritrarci, uſcir da’lor rei inſe gnamenti, non coſto iinboccarne loro ſtrane ſentenze, e per ſeguir la verità tutti lor falſi rapporti porre in no cale; a noi, cui tutto il mondo, è già quaſi omai ſcorto, e mercè la diligenzza delle lunghe pellegrinazioni, non pur ſap piamo i luoghi, i portamenti, i coſtumi degli abitatori: ma di che animali qualche ſi ſia paeſe venga fornito, quali piante germogli, quai minerali produca. E non v'ha ge te nel vero sì barbara, e feroce, la quale, o per avventu ra, o da neceſſità coſtretta non abbia a pro del comune qualche commendevol rimedio ritrovato, il quale ad al tre più umane, e ben coſtumare nazioninon è occorſo. E ben ciò a pruova ſappiamo; imperocchè ne per lunghe vi gilie, ne per iſparti ſudori di'ſavj greci, o daʼnoſtri fi po tè ritrovar mai rimedio tanto valevole a domar la ferocia delle febbri, quanto è quella maravigliofa corteccia,inſe gnatane da' barbari abitatori del Perù e Eto quanto se quanto egli ora ammirerebbe per Dio queſta fortunata, e prodigioſa fecondità, e con qual leggiadria, ed altezza di ſtile egli anche per celebrarla ſarebbe, IL SUBLIME POETA FILOSOFANTE LUCREZIO, ſe dique' pochiſſimi trovati del ſuo ſecolo così maraviglioſamente preſe a cantare: quædam nunc artes expoliuntur: Nunc etiam augeſcunt: nunc addita navigiis funt Multa: modoorganici melicos peperere fonores. Denique natura hac rerum ratioque reperta eft Nuper, & hanc primus cumprimis ipſe repertus Nunc ego fum in patrias, qui poſſim vertere voces. Deh ſi paragonino p Dio le ſtorie della natura di quc fto noſtro ſecolo non ancor finito, con tutte l'antiche, e veggaſi ſe più fecondo di maraviglioſi trovati fia queſto poco di tempo, che itati non ſiano per addietro tanti, tanti altri ſecoli paſſati. Si paragonino pur le perſone, ci medici, e i filoſofinti antichi, emodernifi bilancino. Ma che dico Io deMedici, e filoſofanti moderni? baſta ſolo un ſol filoſofo, l'ingegnoſiſſimo GALILEI, per tacer di Renato, del Gaſſendo, dell’Obbes, del lungio, e di tant’al tri, ad oſcurare, cſommerger affatto la gloria di tutta quanta l'antichità. Orche direbbe Plinio il giovine in rimirar tanti belliſſi mi, e nuovi trovati dell'età noſtra? ſe de’tempi ſuoi, che pur ne furono affatto ſterili, ed infecondi, così ebbe a di re: Sum ex illis fateor, qui mirer antiquos; non tamen, ut quidam temporum noftrorum ingenia deſpicio. Neque enim quafilaxa, & effeta natura elt, ut nihil jam laudabile riat. Ma ſu concedaſı pure ciò, che a niun modo conce der mai certamente ſi dee, cioè a dire, che alla antichità ſolamente abbiamo a ſtarcene; come mai potrà egli ſenza guida di boſſolo il corſo della ſua nave reggere il nocchie. ro?come ravviſar l'aſtronomo le nuove ftelle ſenza il nuo vo occhialone? come abbatter le ſchiere nimiche, o rintuz zarne gli affalti il Capitano ſenza gli archibugj, e l'arti glierie, e ſenz'altri moderni ritrovati da guerra? Che farà il filoſofo, e'l medico ſenza il microſcopio? Quanto ri pa marrà a ſuper della Terra al Geografo, ſenza le novelle; tavole dell'America? in quaiviluppi, cgarbugli, e con fuſioni troverrebberſi mai gli Stronomisi quali a far prova aveſſero del Siſtema di Tolomeo infino a’di noſtri, quafi comunemente per tutti ricevuto? Non s'addofferebbero le ſghignazzate, e le riſa anche del popolo minuto, e de più ſemplicifanciulli, s'eglino mai a negare ardiſſero lo innumerabili ſtelle della via lattea? o faceſſer veduta di non iſcorger in faccia al Sole le macchie? oi compagni di Saturno,ch'alcuniorecchj, altri anella, ed altri manichi chiamano, o le nuove ſtelle Medicee, o lo ſcambiar della faccia di Venere, o'l dimorar più in là delle lunari regio nile Comece, o le montuoſità della Luna; o l'aggirarſi di Venere, di Mercurio, di Giove, e di Marte intorno al So le? E con qual fronte ofercbbero i filoſofi ora difender l'incorruttibilità de'corpi celeſtiali, la faldezza de' Cieli, la sfera del fuoco, e tanti, e tant'altri ſogni d'ozioſi cer velli? E come ardirebbero i medici ſenza i novelli trovati della notomia morta, e della notomia vitale ad impren der eure ſenza manifeſtiſſimo riſchio de'mileri ammalati? Ed o quanto,e quanto mal conſigliati ſarebber quegli in fermi, chenelle lormani li porrebbono; edo quanto in názi tratto ſarebbe il migliore ad arriſchiar la vita più to ſto in man d'avveduto, e ſaggio Empirico, il cui meſtiere, comechè manchevole, tuttavia a pericolo d'errare aſſai men ſoggiacer ſi vede, che la falſa razional medicina daw Galieno in guiſa tale abborrira, e biaſimata, che ezian dio contro le regole dialettiche egligiudica eſfer coſa iin poſſibile poterfi mai da’ falli principjdi quella altre con cluſioni, cheſempre falſe, cavarc. Ma laſciando ciò al preſente, che troppo larga materia da diſcorrer ſarebbe, dico, che un talmio diviſo di dover ſi ſemprcmai al miglior di ciaſcuno, o antico, o moderno autorch'egli diafi, appigliare, ne a ' ſentimenti d'alcuno tenacemente ligarli, ſenzachèè egli ragionevole aſſai, e conveniéte, fù di vataggio da tutti gli ſcrittori di maggior lieva abbracciato, e da' più ſavj filoſofancije da ſacriTeo. 1 logi comunemente leguito, e fommamente da ciaſcun commendato. Odafi di grazia fra’primi quel Principe de Lirici, e de'Satirici POETI LATINI, checol ſuaviſſimo ſuo me. tro i rigidiprecetti dell'Epicurea, c della Stoica filoſofia addolcendo, così ne canta Quod verü,atque decens,curo, di rogo &omnis in hoc să. Condo, &compono,quod mox deprumere poffim. Ac ne forte roges quo me duce, quo lare tuter: Nullius addictus jurare in verba magiftri, Quo me cunque rapit tempeſtas, deferor hofpes; Nunc agilis fio, & verfor civilibusundis; Virtutis vere cuſtos, rigiduſque ſatelles: Nunc in Ariſtippi furtim præcepta relabor's Et mihi res, non me rebus ſubmittcre conur. Equel, ch'altrove eglimedeſimamente va diviſando..., Quodfitam Gracisnovitas inviſa fuiſſet Quameſt nobis, quid nunc effet vetus? aut quid habcret. Quod legeretztereretque viciſim publicusuſus? Odafi QUINTILIANO: neque id ftatim legenti perſuaſum fit, omnia, quæmagni autoresdixerunt, utique efleperfecta; e recando « gli di ciò la ragione, ſoggiunge: nam, & labun tur aliquando, & oneri cedunt, & indulgent ingeniorum, fuorum voluptati: nec intendunt animum: Odali il Romano Oratore: non tam autores in diſputando, quam rationis momenta quærenda funt,quin etiam abeft iis qui dicere van lunt, plerumque eorum autoritas, quife docere profitentur: definunt enim fuum judicium adhibere, atque id habent ra tum quod ab eo, quem probant judicatum vident. Indi tra paſſando a condennare il vituperevole coſtume de' Pittagorici, a'quali per certa, ed infallibil ragione l'autorità fo Jamente del Reverendo lor maeſtro baſtava: conchiude: tantum opinio præjudicata poterat, ut etiam fine ratione va leret authoritas. Odali oltre a' già rapportati autori più fiace il medeſimo avviſo dalla ſaggia mente di Platone, ac comandatone ſpecialmente nel Critone, ove diffe: 10 ſon di sì fatta natura, che a niun'altro mai mi ſon condot to a preſtar fede, ſalvo, che a quella ragione, che più vol te da go Ragionamento Primo te da me diligentemente ſtacciata, e diflaminarā alla fine ho ritrovato eſſer l'ottima: as iywa õ jóvov vũ, anc ' wy de Tolos 1G-, οΐG τωνεμών μηδενί άλω πάθεσθαι, ή τώ λόγω, δς αν μοι λογιζα Hér w Gea Tigos Paívntou, Odaſi il famoſo Ariſtotile, ilquale, avendo a trattar certa quiſtione, ove le faceva uopo per la verità d'impugnar le determinazioni de'ſuoi amici,veg gendoſi quaſi allo ſtrettojo, pur ſaggiamente diliberando, cbbe a dire,più umana coſa eſſere il preporre la verità agli amici αμφοίν γαρ όνπιν φίλων, όστον πτοπμαν την αλήθειαν, e pri ma auea egli detro a pro della verità, far meſtiere, maffi mamente al filoſofo, diſtrugger le ſue proprie credenze; ma odaſi quella maraviglioſa, e divina ſentenza ch'egli medeſimodal Fedone del ſuo maeſtro apprefe, e pur da tut ti coloro, che Ariſtotelici, o Ippocratici, o Galieniſti in torto chiamar ſi fanno, vien comunemente traſandata,an zi affitto ſpregiata: Amico Socrate, Amico Platone, ma più amnica la verità; la qual diviſando, esfigurando queſti Iciocconi indegniſſimi del nome di vero filoſofante, foven temente dir ſogliono: eſſi amar meglio di ſcioccheggiar con ARISTOTELE, Ippocrate, e Galieno che con altri laggia mente diſcorrere. E ben di quella più amico ſoventemo ftroſli il medeſimo lor ARISTOTELE, ſe migliaja di yolte ripre ſe,e biaſimòTalete, PITTAGORA DI CROTONE, PARMENIDE DI VELIA, Anafſiman dro, Anaſlimene, Meliſſo, Democrito, Anaffagora, cd altri molti, che prima di luieran lodevolmente feduti fra filoſofica famiglia; e ne meno per riverenza talor ſi ritena ne, chea'medeſimi ſuoi maeſtri Socrate, e Platone il fi inigliante non faceſſe, i quali manifeſtamente alle volte bialima, e riprende; e forſe ſe ſua malavoglienza, ed ill vidia non foſſe, potrebbeſi ancor credere, che egli per ſo lo zelo della verità così loro villaneggiaſſe, e carminaſſe, chiamandogli talora, e ſcempiati, ed ebbri, e farnetici, e ſciocconi, e ſtolti, e ſcimuniti, e non farebbe per avven tura gran ſenno, che ſon pur coloro gran maeſtri in filoſo fia, e danon così gravemente mordere. Ma queſta cotai ſentenza ebbero in bocca poi tutti i ſuoi più celebri diſcepoli, e ſeguaci, Licome ſcorger.age. 2 vol volmente e'ſi puote, in Teofraſto, in Ermia, in Iſtracone, iu Ariſtoſſeno, in Ipparco, ed in altri molti, i quali ſi vide ro mai ſempre antiporre la verità, ſe mai lor ſi parve d'a verla rinvenuta, almedeſimolor maeſtro, e duce ARISTOTELE, non che ad altri filoſofanti; e'l ripigliano liberamente e ſenza ritegno,qualora in qualche fàllo il tolgono; e queſta medeſima ſentenza, dipoi han comunemente avvuta fiffa inmente tuttii moderni riformatori della filoſofia, a’quali tanto, e sì fattamente piacque ad ogn'orapreporre la veri tà ad ARISTOTELE, che allora con ſignoria da tiranno in tutte le ſcuole del mondo regnava, ed a guiſa di celeſtial nume per ciaſcun riverivali, checon eroica fortezza, e con in vincibile, e veramente filoſofica coſtanza, nulla curanda che perciò ne foſſero eglino mai ſempre, e proverbiati, e deriſi,il ripreſero ſoventemente, e lo dimentirono di non, pochi ſuoi falli. Ma odaſi omaiquell'altra non men famoſa ſentenza, la ) quale à Socrate ſuo maeſtro è da Platone attribuita rávws γαρ και 1ειο σκεπτέον ός τις αυτο είπεν, αλα πότερον αληθές λέγεται η ου, Non già chi abbia detta la coſa, ma s’eidica, o non dica il vero,doverſi conſiderare. Ne in ciò punto è da tralaſciare il celebre latino Stoico; il quale al ſuo LUCILIO in una piſtola, così favella: Epicurus, inquis, dixit: quid tibi cum alieno? quod verum eſt, meum eft: indi egli foggiugne con quelle veramente memorabili parole: Perfeverabo Epicurum tibi ingerere, utifti qui in e verba jurant, nec quid dicatur æftimant, fed à quo fciant, quæ optima ſunt eſſe communia. Ne meno è da notare as noſtro propoſito ciò che altrove parimenteegli dice contro i miſerevoli parteggianti: qui alium fequitur, nihil inve nit, immonequequerit; e ciò, che altrove ancora: Non ergo fequor priores? faciofed; permitto mihi, bu invenire ali quid, mutare, nec fervio illis fed, aſſentior, e ciò, che un' altra fiata egli così proteſta: Qui ante nos ifta noverunt,non domini noftri, fed duces funt. Ne è da paſſar ſotto filézio quel belliſſimo detto di Por frio το αληθεύειν και μόνον δύναταιτους ανθρώσες ποιάν Θεό Παραλεσίες, L. cavato nel ſuo volgare dal beato Girolaino con queſte vo ci. Poft Deum,veritatem colendam, quæ fola bomines Deo proximos facit. E ſe tanto può far la verità, dove più riporrem noi l'a nimo, a qual'altro fine indirizzerem noi i noſtri ſtudj,dure rem noſtre fatiche, ſpargerem noftri ſudori, vegghierem le gelide, e ſerene notti, ſe non perla verità? Eccovi, ecco vi o Signori il vero ſentiero dell'immortalità, e della glo ria. Ecco quel ſentiero, che ſegnarono i barbari daprima, indi i Greci, ed ultimamente i moderni noſtri filoſófanti, che in tanto pregio,e tanta fama glorioſamente falirono; e perchè crederem noi, che l'antica età aveſſe, e Talete, e Anaffimenc, e Senofane, e Anafſimandro, e PITTAGORA DI CROTONE, ed EMPEDOCLE DI GIRGENTI, e Leucippo, e Democrito, ed Eraclito, ed Anaſlagora, e Socrate, e Platone, ed ARISTOTELE, ed Epicuro, e Zenone, e tanti, e tant'altri filoſofi d'immortal fa ma degni: e ſi pregin parimente, e lidian yanto i noſtri ſex coli d'aver recati almondo il Cardinal Cusano, e' Copernico, el Patrici, e'l TELESIO, el Ramo, e'l Donio, e Ticone, e'l Cheplero, e'l BRUNI, e'l Gilberti, e'l Montagna, e'l Merſenni, e'l Baſſoni, e'l GALILEI, e lo Sti gliola, e'lCAMPANELLA, e'l Verulamio, e Renato, e'l Gassendi, e'l lungio, e'lConte Digbi, e'l Oggelandio, e'l Boile, e’l Borrelli, e'l Maignano, e'l Robervallio, e'l Mal pighi, e'l Redi, e lo Stenone, e'l Ricci,e l'Vliva, e'l Por zio, e ' Bellini, e'l Marchetti, e'l Montanari, e queſti,che ſommamente fregian la noſtra patria Tomaſſo Cornelio Gio: Battiſta Capucci, e D. Carlo Buragna, dicui ben to ſto s'ammireranno gl'ingegnoſi filoſofici trovamenti, ed al tri incomparabili eroi, che con gloriofiffima gara lundcl l'altro fe'n vanno per le vaſtiſſime regioni della natura, fu perbi,e alti voli lpiegando: fe non perchè tutti coltoro va ghilimioltremodo di ſpiar la ſola verità,non vollero giá mai ſtarſene a niuno, ne a' derti di niuno traportar cieca mente ſi laſciarono. E viuran ſeipremai pe'l contrario ſenza fama, e ſenza lode appo i faggi, e prudenti ſtimato ri delle coſc tutticoloro, che toglier non vogliono una sì 1 commendevole, e neceflaria libertà; anzi ſovente in tai fal. limenti dalla lor cieca oſtinazione ſon tratti, che ne ſenza riſa rimembrare, ne ſenza nota d'obbrobrio, e di vitupero nominar unque ſi poſſono. E io comechè ſopra ciò diviſar lungamente potrei, e di sì fatti errori quaſi infinito numero rapportarvene,purnon dimeno rimarrommene per modeſtia; c fie baſtante il ri duryi amemoria, ſol ciò, che d'un ' oſtinato, e duriſſimo Peripatetico LIZIO narra il Sagredi appreſſo quell'altiſſimo filo ſofante,ch'oggi l'Italia tutta onora più che altri già non fe la ſua Grecia. Mi troyai, dic'egliga caſa un Medico molto „ ſtimato in Vinegia, dove alcuni p loro ſtudio,e altri per » curioſità convenivano talvolta a vederqualche taglio di „ notomia per mano d'uno, non men dotto, che diligen te, e pratico notomiſta; ed accadde quel giorno, chę ſi andava ritrovando l'origine, e naſcimento de'ner » vi, ſopra di che è famoſa controverſia infra' medici „ Galienifti, e Peripatetici LIZIO; c moſtrando il notomiſta, co » me partendoſi dal cervello, e paſſando per la nuca il gra » diſſimo ceppo de' nervi, s'andava poi diftendendo per es la ſpinalc, diramandoſi per tutto il corpo: eche ſolo un fil ſottiliflimo, come di refe n'arrivava alcuore: voltofi 5 ad un gentil'huomo, ch'egli conoſceva per filoſofo Perripatetico LIZIO, e per la preſenza del quale egli avea cons iftraordinaria diligenza ſcoverto, e moſtrato il tutto,gli „ addomandò, s'egli reſtava ben pago, e ſicuro, l'origine de'nervi venir dalcervello, e non dal cuore: al quale il „, filoſofo dopo eſſere ſtato alquanto ſopra diſc, riſpoſe: voi m'avete fatto veder queſta coſa talmente aperta, e ſenſata, the quando il teſto d'ARISTOTELE non foſſe in chiaro, ch'apertamente dice i nervi naſcere dal cuore, biſognerebbe per forza confeſſarla per vera. Ragione. volmente adunque potè cantando eſclamar colui. Sæpe graves, magnoſque viros, famaqueverendos, Errare, & labi contingit, plurima fecum Ingenia in tenebras cunfuerunt nominis alti Autores, uticonnivent, deducere eajdım, 1. Tantum exemplavalent, adeo eſt imitabilis error. Fin quìha potuto trarmi con convenevol diſdegno dive dere in tanti errori i miſerelli parteggianti vitupcrofamen ce cadere. Ma vegnamo a moſtrar ora, ſicome già propo nevam di fare,quanto i Sacri Teologi la libertà, che noi commendiamo, eglino altresì, ed approvino, e lodino. E chi baſtantemente mai rapportarpotrebbe,con quan co fervore s'attraverſi a coloro che la libertà degli Scritto ri intendonodi riſtrignere, quel ſottiliſſimo fra gli Scolaſti ci Teologi Durando? Egli con chiare, ed efficaci ragioni manifeftaméte il ci va dimoſtrado con dire che ſe mai noi dovremo agli altrui detti acchetare (il che non ſi deca niú modo concedere ) chi così temerario, e così folle farà,the più toſto a’Pagani, e perfidi gentili fede preftar vorrà, che a’ facri, e piiſcrittori, e Padri di Chieſa Santa da divin lu me illuftratis e pure Agoſtino proteſta di non voler'egli già, ch'a'ſuoi detti dar s'abbia ferma credenza: ma che ciaſcuno in prima ben bene gli diſamini, & abburatti, e ſe veri non gli pajano ſenz'altro alcun riguardo gli rifiuti to Ito, e rigetti;indi le parole medeſime di AGOSTINO recate avendo così fieramento ſcagliandoſi contro alcuni barbaf fori, che vogliono impor meta alla libertà degli altrui in gegni, e ridurli al durofervaggio di qualche fi fia ſcrittore, e che altro, eſclama egli, è ciò per Dio, ſe non che un vo lere quel tale ſcrittore antipurre a'Dottori di Santa Chieſa? fe non che un chiudere il varco a color,che vanno in traccia della verità?Se non che un far argine a quei, che s'inviano pe'lſentiero della ſapienza: ſe non cheun'ammorzar violen temente, non che oſcurare il chiariſſimolume della ragione. Così quel gran Dottor della Chieſa, non men d'ammira bil ſantità, che di profonda ſcienza dotato, ſcrivendo al Gran GIROLAMO, lume maggiore della Criſtiana Religio ne, dopo avergli detto, ch'egli dava intera, e ferma credenza a'libri ſolamente della ſacra Scrittura, ed agli autori di quella, degli altri in sì fatta guiſa egli favella: Alios autem omnes ita lego, ut quantalibet San &titate do Etrinaqueprecellant, non ideo verum putem, quia ipfi itas Jenſe is fenferint,fed quia mibi, vel per illos authenticos autores,vel probabili ratione, quod à vero non devient perſuadcre po tuerunt. Ma prima di S. AGOSTINO quel criſtiano Tullio, Lattanzio Firiniano, avendo iſentimenti medeſimi con eloquenza; ed efficacia non ordinaria manifeſtati,ſiegue a dir poi, ch' ogni ſapienza da ſe caccian via coloro,che ſenza diſcreto giudicio,i trovati degliantichiapprovano, e a guiſa di pe corelle dietro a quelli ſi laſciano ciecamente trarre; per ciocchè: ficome egli ſoggiugne: Hoc eos fallit, quod maa jorum nomine pofito non putant fieripulje, utaut ipſi plus fa piant, quia minores vocantur, aut illi deſipuerint, quia majores nominantur: cd alla fine così gridando ei conchiu de: Quid ergo impedit, quin ab ipfis fumamus exemplum, at quomodo illi, quifalſa inveneruntpofteris tradiderunt, fic nos, qui verum invenimus poſteris meliora tradamus. Or dunque, fe tanta libertà ſi tolgono i Sacri Teologi, che talor dove ragion ripugna contraſtano ferventemente a'lo ro maeſtri, ed a’Dottori medelimidi Chieſa Santa, ere tāta libertà richiedeſi a'filoſofanti a poter ſaggiamente in veſtigar la natura delle coſe; quanta crederem noi ch’ab. biſognardebbaaʼmedici. Anzi coſtoro di tutt'altri certa mente maggior la debbon godere ſenza alcun paragone; imperocchè ſei filoſofi volendo pur ſtrettamente appiccar ſi ad alcuno, altro per avventura non fanno, che con in gannar ſe medeſimitrarli alcun'altro dietro ſenza nocimé to alcuno, che all'altrui vita ſeguir ne poſſa: i Medici per lo contrario, con laſciarſi a'lormaeſtri ingannare, non di naſconder ſolamente altrui le verità naturali,non di ficcar carote al baſſo vulgo ſolamente ſi ſtudiano, ma oltre a ciò da'vani,e ſtoltiloro aggiramenti,offeles c per lo più mor talijanzi ſterminje rovinc cagionarſitutto di crudeliſſima mente veggiamo. E pure i mediciduri, e oſtinati dietro al lor Galieno le veſtigie di lui, nõ già la verità,vā ricercă do; e come ſaggiamente notò l'avveduciſſimo Signor di Montagna: On ne demande pas fiGalien a rien diet qui vail le:mais s'il a diet ainſin,ou autrement. Esì gli antichi am,. 1 maeſtramenti, anzi gli antichierrori ſempremai ſeguir vom gliono; e mi ricorda a tal propoſito, che ritrovandomi in brigata di curioſi, e dotti amici a caſa il noſtro Severino quivi da un diligente notomiſta Daueſe ne fur moſtre le vene acquoſe in un cane da lui aperto; ma immantinente levolli ſuſo un teſtereccio Galieniſta (il qualeſimili trova ti prendendo a gabbo poc'anzi avea detto effer eglino ar zigogoli di moderni ingegni per far contraſto al for ſaggio Galieno ) e contro al buon notomiſta in ceffo rabbuffato, c adattandoſi gli occhiali al naſo ſtizzoſamente ſcaglioſli con un preſto argumenter contra: ne era inai egli per rifi pare, ſe oltre alle riſa de'circo tantichetamente, e in vo ce piena di carità, e di modeſtia, non gli aveſſe il prudente Notomiſta replicato, ſe non valere ſtar su le difeſe, mu eſſer pienamente pagodi ciò, che gliocchi, e le man pro pie le facevan chiaramente vedere. O ſtrana, o incredi bil pertinacia de parteggianiMedici, voler eſſere anzi cic chi, e ſordi, e tradir ſe medeſimi, ei malati, che ponen do giù la dura, e pertinace loro oſtinazione ricrederſi de' manifeſti errori de’loro macſori: anzi porre in oblio l'uma nità, e'lnatural conoſcimento, e lume, per gire così loro inconſideratamente appreſſo, Come le pecurelleeſcon del chiuso Ad una, a due, a tre: e l'altrefanno Timidetteatt errandol'occhio, e'l muſo; E ciò che fa la prima, e l'altre fanno, Addo andoſi a lei s’ella s'arreſta, Semplici, e quete, e lo perchè non ſanno Ma chczben ſo lo, che per la più parte ciò fanno coſto ro, non peraltro, ſe non ſe ſolamente per torſi da doſo la troppo nel vero gravoſa, e malagevolc briga d'inveſtigar con iſtenti, e ſudori la naſcoſa, ed a’lor m.cítri non cono ſciuta verità; e perciò fan veduta d'eſſer ſaggia elczione di ragionevole genio, quella, che certamentealtro non è, che dapocaggined'intelletto groſſo, e tondo; e sì la loro ignoranza, e la loro pecoraggine cercan di ricoprire, onde poi d'aſtio, c d'invidia fremēdo, per dar quanto (torpo per loro ſi poſſa alla gloria de moderni ſcrittori, quella degli antichi mai sëpre d'innalzar fi argomentano; del quale ma ligno, e biafimevole artificio, forte lagnádoſi Marziale col ſuo Regolo così canta: Eifequid hoc dicam vivis, quod fama negatur Et ſua quod rarus tempora leltor amet. Hifuntinvidia nimirum Regule mores Præferat antiquos ſemper,utilla nuvis. Nono Signori, che non ſon già queſti i veri ſentieri,per cuine’tempiantichi s'avvivono, ed Ippocrate, e Diocle, e Plistonico, e Praſlagora, ed Erofilo, e Filotimo, e Cri fippo, ed Eraſiſtrato, ed Aſclepiade, per tacer d'altri, es d'altri famoſi razionali medici antichi. Così anche a'tem pi noſtri ſi ſon vedutimontar feliceméte al titolo de'ſaggi, e'l Valentino, c'l Paracelſo, e'l Quercetano,e l'Elmonte, e'l Villis, e'l Silvio, e tant'altri avvedutiffimi medici moderni. Non è giàtale crederemio Galienifti, non è già tale il ſentiero del voſtro Galieno; (gannatevi pure una volta, e ſe non altrui, credetelo a lui medeſimo, che oltre a quel, che n’abbiam di ſopra rapportato, egli più ch'altrove af faichiaramente quivi l'afferma, ove diſe medeſimo narra, che egliavea per coſtumedi chiamar ſervi tutti coloro, i qualidaIppocrate, e da Praffagora, o da chiunque altro fi foſſe predevano il nome, e che da tutti egli uſava di mai fempre fcegliere il migliore: ήρετο πνα των εμών φίλων από ποί και έην αιρέσεως • ακούσας δ'όπ δούλες ονομάζω τους εαυτός αναγο ρεύσανας ιπποκρατείας, και πραξαγορίες, η όλως από πνος άνδρας, εκ λίγοιμι δε τα παρ' εκάσες καλά, δεύτερον ήρετο, ίνα μάλιση των πα hasūv in aivoso: ma che? un'altra fiata lo ſteſſo voftro Galie no non dice, che a manifestiſſimo riſchio d'incorrer in nons pochi erroricoluis'eſpone, che fermamente ſecondar ſem premai vuole i ſentimenti, che il maeſtro della ſua fettan come falde, ed infallibili verità gli diviſa? conciosſiecofa chèſecconc una certiMima ragione di ini medeſimo colle ſue propie parole ) Χαλεπόν γαρ ανθρωπιν όν % μη διαμαρτάνειν εν πολ. λοίς: τα μεν όλως αγνοήσαν τα, τα δε κακώς κρίναντα, τα δε αμελί segov ypay ar to,cioè: egli è malagevol molto, o pure impoſſibile cheunoseſſendo buomo,in tante, e si diverſe coſe ialor non s'aggiri, alcune affatto non ſappiendo,enon conoſcendo,e d'al tre malgiudicando, e d' altre alla fine con poca cura, ed avo vedutezza favellando. Fin quì Galieno, il cui faggio av viſo non ſolocome mai pofla per Galieniſta alcun traſan darſi, o manifeſtamente diſpregiarli; e pure egliè tale, che più, che a tutt'altri, dovrebbe eſſer a cuore a'Galieniſti, i quali lodovrebbon prontamente ſeguire, ſe non mai per altro, almeno per darne a divedere, ch'elli veramente há bo in quel pregio, ed in quella ſtima, che tutto dì millan tano, il lormaeſtro, il lor principe Galieno; altrimente vero dirà Paganino Gaudenzio, il quale queſto graviſſimo fallo loro rimproverando, prorompe in queſte parole, Ga Lenum voce tenus extollunt, re ipſa autem deferunt, atque contemnunt. Tanto dice o Signoriilſaggio, e ben conſigliato rino vatore della vera filoſofia, e medicina, e con ragioni, e con teſtimonianze forſe di maggior lieva più oltre proce derebbe, s'egli non avviſaffe, che il rimanente ben pote te voi, come ſavj,per voi medeſimi pienamente compren dere; onde con quelle divine parole, le quali già lo inge gnoſiſlimo TELESIO ſotto l'effigie della Verità giuſtamente (culſe Móva pod pina, cioè a dire Sola coſtei a me amica; e con quelle parole, che replicar così ſovente il Paracelſo folea: Alterius non fis, qui ſuuseffe poteft, ê ſe ne rimane Ma io aggiugnerò di vantaggio, coſa, che per avven tura a primafaccia ella creduta nó mifie, e pur ella è vera, e pur ella è certa: ne loolerei dirla, ſe non ilperaſli farve la toccar con mani, cioè, che poco men, che tutti i più celebri, e più ſtimati parteggianti di Galieno da chiarore di verità talvolta illuminatihan fatto come propj i medeſi miſentimenti, e quaſi tutti tanto nel filoſofare, quanto al fatto del medicare foglion ſovente dall'orme di Galieno, e d'Ippocrate medeſimo partirſi, alcuni liberamente ciò có deſfando, altri poidiſimulando la coſa, e'l contrario tutto con fatti adoperando, di ciò,che ſempremai con parole proteſtar ſogliono. E percominciar dalle Spagne, acciocchè per noi in si lungo narramento con qualche ordine ſi proceda, Tomaſo Rodrigo Viega,infra gli altri Spagnuoli nobiliſſimo inter petre di Galieno, ſcuſandoſi una volta di aver contra a’sé. timenti del ſuo maeſtro diviſato, di cui allora appunto egli ſtava il libro delle differenze delle febbri comentando,co si ebbe a dire: Eſſer egli da credere, che noi non pur fiam nati ad interpetrare gli altrui detti, ma altresì a diſami nargli ben bene, più pregiandola forza della ragione, che l'autorità de'maeſtri; ed ove ſiam da neceſſità coſtretti, li beramente da lor ci dipartiamo, perchè dalla verità non venghiamo a dilungarne; e quindi a poco paſſando a di ſaminar le ſue dottrine, il toglie in non pochi falli,de'qua li ſuoi avviſi ſommamente egli pregiandoſi, alla fine con chiude: quæ animadverſiones liberum animum oftendunt,com uni veritati vacantem. Nequi rapporterò lo altre ſue parole intorno al mede fimno ſentimento, che troppo lungo ne verrebbe il mio di. ſcorſo; ma non laſcerò lo già di dire, come forte per lui ſi ripigli, l'haver Galieno la reſpirazione al cervello aterie buita,ſognandoviſi per ſoſtener sì folle opinione, unamé brana non mai per niun Notomiſta ravviſata. Ne men ta cerò, come chioſando egli quel luogo, ove Galien con feſla apertamenteeſſerſi eglimededelimo ingannato in giudicandod'un ſuo propio male, contro luiprorompa in queſte parole: Galenus qui in propriis malis cæcutivit, quid in alienis faceret? Ma chi potrebbe mai il famofiffiino Galieniſta Frances ſco Vallelio séza taccia di traſcuraggine intorno a ciò tra laſciare? cgli avvedutiffimo ne'luoilentimenti, non pure il ſuo maeſtro Galieno, e'l ſuo divino Ippocrate nelle co ſe di maggior confiderazione arditamente abbandona, fi come nelpurgare, e nel cavar ſangue, quantunque quafi con argani, e con lieve, co tutte ſue forze a ſentimentiluoi di traſcinargli ſi affatichi; ma in un particolar luo libbri M cino alcuni detti del ſuo Galieno rapportar volle, coranto fra ſe contrarj, e diſcordi, ch’in niun modo, ſecondo lui, difender mai, o riconciar baſtantemente fi poſſono; la qual coſa prima di luiaveaſiancor tolta a fare quell'altro dotto compilator di Galieno Andrea Laguna. Così anco ra dal giogo degli antichi due Greci maeſtri ſi ſon talvolta ſcolli,, e ſtrappati, e per altre ſtrade liberamente avviati il Lemoſio, il Mercato, il Mena, il Segarra, il Peramati, il Pereira, e'l Mattamoros. Ma ciò far ſi vide più di tutt'al tri Spagnuoli, e con maggior nerbo, l'avvedutiſſimo Pier Garlia nobiliſſimo profeſſor di medicina nell'Accademic Compluteſe; la qualcoſa così egli faggiamente proteſtā do, dice, che altri non prenda maraviglia, ſe di quelle co ſe, ch'e' rapporta, alcune n’abbia colte altrui variamen te diſaminandole, e ſe inolte ſien nuove, e nonmaidaglian tichi pria dette, ne pubblicate in alcun modo: quàm(ſog giugnendo ) in rebus ad examen revocandis non authorita tes,sed rationum momenta conſtet preponderare, indeque, vetus verbum: Amicus Plato, fed magis amica veritas, oy tum babuiſe. E per far motto intorno a sì fatta maniera, ancor de Medici di Valenza, i quali sì con Ippocrate, e con Galicno ſtar ſogliono ſtrettamente confederati, che anzi a ſommo fallo li recherebbon, che no, il dilungarſi in un ſol minuto punto dalle loro dottrine. Pure il Pereda fuo chioſatore forte fi briga diſcuſar Michel Paſcali cele bre ſcrittor di pratica Valenziano, perchè queſto poco ti? lor ſiaſi curato delparere di quegli antichi maeſtri, così dicendo; cum bic vir doctus ſcripſerit tempore quo multæ falf & barbarorum ſententiæ vigebant, veritates Galeni,quas modo multorum auctorum lectione habemuserantocculte. Ma che forſe il Pereda in quelle ſteſſe ſue chioſc, ove a fuo potcre egli crede di rimettere il Paſcali nella diritta ſtra da, non ne torce ancor'egli, e non una, o due, ma più, e più fiate? certo, che sì; imperocchè in trattando delle febbri ardenti, così ne ragiona: Cum vero in hac febre non apparent figna fanguinis, non eft neceſſaria ſanguinis miſſio, fed purgatio bilis, neque inomni putrida febri ſecandaeſt ve 14, ut 1 na, ut multi recentiores medici cum Galeno X1. Meth. vo. lunt. Or ecco, come da Galieno ribellando il ſuo giura to campione, e lotto le bandiere del barbaro, e miſcredé te Avicenna fuggendoſi,arditamente gli fà teſta, e cerca, di mandare a terra una dellebaſtie più celebridella Galie nica medicina, fondata in ſu quella univerſal ſentenza,che veruna eccezione non patiſce, cotanto replicata da Ga lieno, e celebrata da’ſeguaci di lui: xala,soy eli cw, ws dignton, φλέβα τέμνειν ου μόνον εν τοίς συνόχοις πυρετούς, αλα και τοις άλλοις απαστ τοϊς επί σήψ « χυμούς, όταν γε ήτοι τα τ ηλικίας, ή τα τ δυνά pescos pead montées: Egli è coſa falutevoliſſima, ficome io hogià detto, ilcavarſangue, non folo nelle finoche, ma eziandio in tutt'altre febbri, che daputridi umori fon cagionate, fol, che l'età, o be forzeno'l vietino. E comechè li forzi egli di ceſſare la fellonia, con dir, che Galieno non faccia men zion del falaſſo altrimenti nella terzana ſemplice, ed altri moltiſſimi eſempli vada ei rapportando: queſto però è un volere ſaldar la piaga con pannicelli caldi, direbbe lo’nfa rinato della Crusca, ed un'aggiugner colpa a colpa, fallo 2 fallo, in modotale, Che non l'avria Demoſtene difeſo; imperocchè vien'egliin sì fatta guiſa ad accufare il maeſtro di contradizione, o di poca fermezza almeno, il che affai monta in faccende di così gran rilievo.Ne men moſtra,che molto fedel ſia di Galieno il Pereda, colà ove dice: Mul ti fequuti Galenum lib.VI.derat. vict. in morb. acut. in by dropeanafarca ex fuppreſiunemenfium, d hemorrhoidibus, autalia plethoricaaffectione orto,quando incipit fecant ve nam, quod difficillimum nobis videtur,immo falfum, quia in hydrope jecur maxime refrigeratū eſt, do funguinis misfio ex accidéti refrigerat.E finalmétericordevole d'eſſer filoſofo, d'esſer medico, d'eſſer libero, a viſo aperto dice altra volta il Pereda, favellando d'un luogo d'Ippocrate malamente, ſecondo lui da Galieno ſpiegato; quem locūzignofcant mihi ejus manes, Galenusnon recte explicuit. Stefano Roderigo da Caſtello, Portogheſe,celebre lettor nella famoſilli M 2 ma ſcuola di Piſa, nei libro de Meteoris microcoſmi, ove ſommaméte proneggia d'effer medico, e filoſofante libe ro, dapoi ch'egli ha commendaro Ariſtotile, che ne ha laſciaci credi del ſuo libero filoſofare, forte ſgridando co loro, che voglion ſempremai gir carpone collo inge gno, e farti ſervi d'altrui, così favella: fed quotus quiſ que eft, qui hanclibertatem velit? Proh dolor, ingewa phi lofophia ſervos parit: ed altrove: ego vero quid antiquiores fenferint parü ſollicitus, &nulli ſedia addictus.E poco ap preſſo:Neotericorú inventa, fi qua mihi arrident, amplector, quæ difplicēt relinquo.Chiama egli più d'una fiata Galieno negligente, duro, oſtinato, caparbio, protcryo, e catti vo filoſofante; e cotanto allontanoſſi dalla dottrina di Ga lieno il Roderico nel menzionato volume, che vennnea formare un novello ſiſtema di razional medicina. Il celebre fra'GalieniſtiSpagnuoli Andrea Santacroce, quante volte, e quante all'opinion di Galieno, e d'altri an tichi, o non bada, o non cura, o talora lc fpregia? Noil dic'egli una volta: mihi fufpe &ta eft Galeni doctrina; ed al tra volta motteggia il medeſimo, perch'e'malaméte ſpiega un teſto d'Ippocrate có dire:frigida explicativ; ed altra fia ta ripigliádo có viſo d'armi Galieno,nó dice, ch'egli a tor to ofa cacciare Ippocrate, come colui, che non intera mente aveſſe aflegnate le cagioni della debolezza delles forze nelle malactie: eccone le ſue parole: Hippocrates elio modo, & forfan clariori caufas debilitatis nobis propo fuit, quamvis Galenus illumfine ullo fundamento repreben dere aggrediatur. Ma quale oggidiaperto campo, e libe ro nello Spagne tutte a' medici lia dato da potere agiata mente perciafcuna fetta ſcorrerc, affai fie manifesto a chi pon mente alle parole framezzate nell'opera del medico della Regal caſa Gaſpar Bravo, valoroſo, e forte cam pione della doctrina diGalieno: e fono le ſeguenti: liens Non eft conformatum à natura, ut fit receptaculum bumoris melancholici redeuntis è jecore, quod Galenus, & reliqui dugmarici antiqui illi ſubſcribentesfinem pracipuum quare fuerit lien à natura conformatum ignorarunt; quod Galenus in ina in infantis anatomes non potuit circulationem fanguinis, cu motum percipere. E in priina, di Galieno medeſimo avea già detto:fiabſolute velit interdicerefanguinis miſionem in pueris, non ftandum ejus doctrine. Senzachè volen tier coſtui ad alcuni novelli trovati dà piena credenza, fi come all'aggirarli del ſangue, ed alle vene latree, e ad al tri molci diviſi moderni; perchè ragionando d'Arveo, così manifeſtanente dice: quod Haruei doctrina, ſi vera,non ob ftat, quod nova, ab illo noviter dicta, quia in naturali busnon tam quis dixit, quam quid dixit examinandun. O faggia veramente, e prudentiſſima ſentenza, e degna d'un vero filoſofo, degna d'un vero medico, degna d'uns vero, ed avveduto diſcepolo d'Ippocrate, e di Galieno ! E che direm noi o Signori dell'Accademie tutte delle Spagne, da quella di Valenza in fuori, la qual ſola, eco ſtantemente di non dipartirſi giammai in coſa niuna dal ſuo Ippocrate, e Galieno ſi da vanto? Coſtoro certamen te han ſeguito ſempre, cſeguon tuttavia per ſolo titolo i medeſimi Greci maeſtri; ma in verità quanto poi da loro nell'adoperare dilunghinſi, non ſi può egli bastantemente narrare. Eben'avviſollo una volta il teſte mentovato Ga lieniſta Andrea Santacroce, il qual dopo aver due luoghi delluo Galieno recati, ove coluidice, che ne’troppo fred di, o nc'troppo caldi tépi non ſi debba a niun partito cavar ſangue, avvegnachè grave, e di riſchio ſia la malattia,e l'infermo freſco, e giovine, c ben’atante della perſonas foggiugne inanifeſtamente poi: certe qui hæc legit,quomo dotempore Eſtivo, &in ifta tam calida Matriti regione,pre cipue hoc anno, tam audacter mittit fanguinem? quid mira quod multi interierint, ut dicitGalenus? fed quid mirum fi tantum aberrent multi, ut mittantſanguinem folius refri, gerationis gratia? Malaſciādoci omai addietro le Spagne,valichiamo pu., rca ragionar della Frácia, nella quale avvegnachè la oſti natiſfiina ſcuola di Parigi aveſſe col Quercetano tutt'altri Chimiciperſeguitati, e banditi, non fù ella poi così fal dase coſtante, che non abbandonate talvolta, ed aper tamen 94 Ragionamento Secondo tamente non rintuzzaſſe la ſcuola d'Ippocrate, e di Galie no; imperciocchè da’ſentimenti di coſtoro, quanto al fat to delle purgagioni, e del ſegnare, e d'alcune altre core di lieva alla medicina appartenenti, tanto, e si fattamen te fi dipartono, e s'allontanano, che più non farebbero p avventura i medeſimi liberi, o vaghi mcdicanti; il che pienamente ſi può per ciaſcun comprenderedall'opere de più famoſi medici di coral nazione. Ne permio avviſo è da logorar punto di tempo in far parole del famoſiſſimo Rondelezj; eſlendo purtroppo manifeſta la libertà, con cui egli imprende a vagliare, ed a riprovar l'antiche opinioni, e produrre in mezzo, e ſtabilir le novelle, dal propio inge gnioritrovate. No meno è gran fatto da prender cura di porre in chiaro quanto il dottiflimo Valerioia îi moftraſſe ſempremai fido amatore, e difenſor della verità,le cuilo di di celebrare, ed innalzar fino alle ſtelle non è mai ſtan ca la ſua eloquentiffima penna; oltremodo commendan do altresì Galieno, perciocchè ancor'egli per amor della verità avelle più fiate fronteggiato il venerando macſtro Ippocrate; eſſendo egliciò ben conoſciuto a chiunque l'o pere diluiabbia rivolte. E oltre a ciò quanto il medeſi mo Valeriola ſenza alcun ritegno ove gli ſia in concio ad Ippocrate, ARISTOTELE, e Galieno faccia contraſto; palesí do ſenza riſpetto, quanto ſoventemente,l'un detto diGiz lieno l'altro annulli, ſpezialmente colà, ove ſi briga di vo lere ſpianar la facoltà dell'orzo, o dove ragiona filoſofan, do dell'amaro ſapore, e tutt'altri fallimenti di lui, qualo ra gli vengan conoſciuti, non laſcia con generoſa libertà di ſvelargli, e ripigliargli. Ma non potrei tacer'io dell'elegantiſſimo Fernelio, il quale, comeche foſſe motteggiato dall'Italico Galieno Aleflandro Maſſaria con quelle pungenti parole: fummus cum ratione hic vir ſuo libro titulum inferipfit, Ferneliime dicina; namque fi totam illius inftitutionem, omniaque dig mata diligenter animadvertas,ea majoriex parte juntite ejus propria, epeculiaria, ut prope fint nullius alierius:pur decegli, non ſolo gran lume della riſtorata cloqueaza Ro mila, 1 mana, ma ſovrano pregio dell'arte della medicina eſtimar fi; perchè credendolo proverbiare il Maſſaria, il vennes anzi a commendare, che nò; imperciocchè, fe ad altro, ch’a ricercar nuove coſe, e per alcun'altro non mai prima tocche ebbe il Fernelio l'animo tutto, e'l penſier rivolto, per certo, che egli fi fe in tal guiſa conoſcere per degno imitatore, anzi einolo d'Ippocrate, e di Galieno. Ma forſe il Maſſaria non riguardò punto a quelle parole, le qualiil Fernelio,antiveggendo,che delle ſue novità ſareb be per alcun da eſſer tacciato,nelprincipio del ſuo vaghiſ ſimo volume laſciò ſcritte; la dove egli con sì efficaci, e convincenti ragioni, econ sì maraviglioſa facondia, la fua cauſa difende, che più non farebber per avventura, o'l fottiliſſimo Demoſtene, o l'eloquentiſimo Tullio; le qua li per eſſere ſoverchiamente lunghe qui io non rapporto; ma non gia tacerò lo quell'ultime ſue parole, colle quali maravigliando egli de famoſi trovati dell'età fua, così al tamente favella:nihilvere docto illifeculo debet hæc invi dere. Dicendi ratio, fummaqueeloquentia nunc paffim flo refcit, philofophiæ genus omne excolitur:m:ufici, geometra, fabri, pictores, architecti,fculptores,aliiquc artifices innu merificmentis aciem extulerunt, ut artes quique ſuas pre claris, magnificiſque operibus exornarint, quevetuſtioribus illis uno omnium ore celebratis nihilcedant. Neque inven tis folum ornamenta, e incrementa adjunxit temporum ex curfio, fed &artes novasprotulit,ad quas priorum nunquã, velingenium, vel induſtria penetraverat. Quindi ſieguo egli a raccontar delle bombarde, delle ſtampe, delle bof fole da navigare, e d'altri maraviglioſi ritrovati de'tempi addietro; e intorno al navigare ſi vanta ſommamente d'a vervi anch'egli fatta la ſua parte. Mao quanto più il benz parlante Fernelio com menderebbe la noſtra età, fe vedeſſe a' dì noftri di nuove, e più maraviglioſe pro ve la fperienza accreſciuta, e ſempremai ritrovarſi da gli ingegnoſi moderni, o le carrette a vela, o le trombe parlanti, o le lanterne magiche, o i teleſcopj, oimicro ſcopi, o le tante, e tante, e sì maraviglioſeforti d'oriuo J ligo li, o i varj, e varj, e non mai poſti più in opera ſpecchi co cavi,che repentemente liquefanno anchei metalli più du. ri: o le Pitture, che apparir fíno a’riguardáti, Protei di mil le forme le colorite telc: o con qual arte da guerra infra brieve ſpazio di tempo in terra ſi gettino le Cittadelle, ultimo rifugio de’vinti, & ultimo ſtento de’vincitori: e co me dall'acceſe bombarde li mandi ſoccorſo alle caden ti fortezze, traendo argomento di ſalute da’medelimi ſtrumenti d'offcfe: 0 come a diſpetto quaſi della natura ſi poſla forc'acqua francamente navigare. E come egli au rebbe aggrottate per iſtupor le ciglia in avviſando altreer ranti, ed altre fille non mai più vedute Itelle, ed altri, ed aleri movimenti, oltre a quegli già per l'addietro conoſciu ti nel Ciclo dagli antichi. E che aurebbe egli detto dell' Elatere dell'Aria, de' Barometri, delle Termometre, e degli ſtrumenti del vuoto, in cui non rimane ne men pic cio iſlimoacomo d'aria? Eche de’nuovi, e maraviglioſi uſi della calamita? e che del trasfonderli del ſangue e di cotant'altre prlove, che commendevol tanto rendono, e amipirabile l'età noftra. Certainente con maggior mara viglia egli ſclimato aurebbe, e con onta pur degli inutili e pecoroni parreggianti: fi omnem laborem pofteri collocaf-, fent, ut eas folum artes, diſciplinas exædificarent, qua rum fundamenta priores jecerant, nunquam tam multa di fciplinarum copia creviſet. Si qua in veterum mentem non venerant, juniores non aperuiſſent, neque illorum induftriam fuis vigiliis excitafent: nova ingeniorum lumina minime lucefcerent. Ma e'l Fernclio, e tutt'altri autori Franceſchi prima di lui, quanto al filoſofar liberamente poſſon ceder tutti la maggioranza a Lorenzo Giuberti nobilillimo lettore nell’Academia di Mompelieri; il quale dopo ellerli oltre modo lagnato de gravioltraggj, che per opera d'Ariſtote le han villanamente molti degli antichi ſavi patiti, haven do colui si fittamente i lor ſentimenti inviluppati, e {tra yolri, che s'eglino pur ci ritornaſſero, non più, comopro pi lor parti ravviſur certamente gli potrebbero: indico 4 1 1 4 silog. sì loggiugne. Hinc res eò miferia tandem reducta fuit, ut quum maximophilofophurum damno aliorum commentaria periiſſent,in iis nullo refragante poſteritas tenaciffime inhee Jerit, ea tantum vera eſe ſibi perſuadens, quæ fine contro verſia proponerentur. Quindi egli con animo libero, e fin loſofico, dinon dover ſenza minuta conſiderazione laſciar fi trarre a gli altrui pareri,manifeſtamente proteſta: avve. gnachè ſian quelli pure diGalieno medeſimo, dicuiegli così dice. Hec dum animadverto,non poffum non illius quo que dicta exactiusperpendere, de pleriſque dubitare: ut diligentiore facta inquifitione veritastandem (abfit invidia dicto ) eluceſcat. La qual faggia libertà, dice egli, da cia ſcun doverſi ſommamente ſeguire,tra per l'utilità, che ol tremodo ſe ne ritragge, e per l'autorità de'letterati più prodi, ed in iſcienze più valoroſi, che ſempre glorioſamé te l'han ſeguita; de'quali egli fa un brieve, ma ſcelto ca talogo,arrollandovi anche in fine l'avvedutiſſimo Gugliel mo Rondelezj, e ſommamente commendandolo. Ma non ſolamente Lorenzo Giuberti nel ſoftener la fin loſofica libertà moſtrar volle la ſua maraviglioſa coſtan ża, anzi non pago di ſe medeſimo d'imprimere, e propag ginar sì nobili ſentiméti anchenegli animi de' ſuoi ſcolari ſommamente ſtudiosſi. Perchè un diloro ebbe già quell'e legantiſſima orazione, che oggidi ancora vien da'curioſi con maraviglia guardata; e nella quale dopo aver colui có forti, e valevoli prove ſaggiamente la ſua ragion difeſa, la gran forza ſpiegando della verità, dice, quella ſola la greca filoſofia a cotant'altezza aver potuta condurre,e por l'ultima mano alla latina eloquenza: e da quella ſola ani cora eſſer la Criſtiana Religione introdotta, e ſeminata in Europa: e cô la verità medeſima aver fatto capo a Socrate ache Platone; e côtro Platone poi eſſerſi armato ARISTOTELE; e nell'Italia gran tratto dagli Aſiatici aver ſeparato CICERONE. E fu opera anche della verità il replicare appreffoi Criſtiani Paolo a Pietro, e opporſi Agoſtino a Cipriano; e altri molti eſſerſi per ſola vaghezza di quella l'un l'altro perſeguitati. Quindi rivolgendo il ſuo ragionamento a’ri N gidi, e ſuperſtizioli barbafforidi quella ſcuola rancida, che più le viete anticaglie degli ſtolidi maeſtri, chela nuova, e pur mo nata verità ſcioccamente pregiano così ſoggiugne. Et paganorum quorundam (cioè a dire d'Ippocrate, e di Galieno ) memoriam ſuperſtitiosè coletis? eorum nomina tam aniliterperhorrefcetis, ut à falfifſimis quorundam decretisnon poffe quemquamfine nefario ſcelere deficere judicetis? Ma non comporta il tempo, che più avanti lo ne rapporti, comeche per tutto quel libbricino vaghiſſime, ed ingegnofiffime coſe ſparſe vi lieno: ed a cui caglia di leggerlo forſe non rincreſcerà. Di tanta, e sì valevol forza fur le perſuaſioni, e l'au corità de'due valentiffimi maeſtri, cioè del Rondelezine del Giuberti, che traendoſi dietro già tutta la ſtudioſa gioventù di Mompelieri, da indi in poi in quella famofiffi ma Accademia fempre la libertà del ben filoſofare è cam. peggiata. Ne con più ardente, e con più vigoroſo ſtile altra ſcuola di Francia armolli mai a far teſta a quella di Parigi a pro della Chimica, e del Quercetano, quanto la famofiflima ſcuola di Mompelieri: da cui ſon ſempre uſci ti, ed eſcon tuttavia valorofi germogli. Che più? egli è táto non chebiaſimevole,ma impoſſibi le a fofferire la fervitù delle Sette agli ſtudioſi ingegni Franceſchi, che non che altri, macoloro, i quali la liber tà in altrui ſommamente riprendono, come il Silvio, l'Ol Jerio, il Doreto, eiduo Riolani, lor fa meſtieri, ch'a ' giurati maeſtri, o di naſcoſto ſi ſottraggano, o manifeſta mente ribellino. Anzi (chi il crederebbe !) anche colui, ch’a difeſa di Galieno contro il Vefalio sì fieramente ar moſſi, voi m’intendete o Signori, io dico il rabbioſo An drea di Lorenzo, udite come pur ebbe a dire: Ego enim hactenus is fui,qui nullius jurare in verba magiſtri aſſuevi, multa prioribus ſeculisincognita, & diligenti noftra ubfer vatione animadverſa in apertam lucem profero. Mala Lamagna, quantunque foſſe ſtata il Teatro,ovej con Paracelſo da prima, e poſcia con gli ſcolari di lui ten zonaſſero i più oſtinati difenſori degli antichi maeſtri: es quan Del Sig.Lionardodi Capoa. 99 quantunque ſurti vi foſſero, ed in quel meſcolamentoal ſchermo del lor Galieno.v'aveſſer fatta puntaglia il Fuſio, il Platero, il Cratone, ed altri acerbiffimi,e valorofi Gas lieniſti: nonpertanto ſono ſtati i Tedeſchi, de France fchi medeſini nel filoſofar ſemprese nel medicare aſſai più liberi,licome ne dan piena teſtimonianza Giorgio Agrico la, come colui, che in trattando delle coſe minerali tante, e tante fiare va ripigliando gli antichi maeſtri, e Taddeo Duni, il quale, tutto cheGalienifta, pur contro.il mede fimo ſuo maeſtro Galieno, un libro partitamente compo ſe, ove nel procmio così apertamente dice: Galenusquis dem amicus eft, & fcriptor antiquus, & illuftris., vene randus: veritas tamen, & antiquior, & illuftrior, dve. neranda magis.. E che direm noi di Geremia Triverio,di Felice Plateri, di Corrado Geſncro, di Martin Rollando, e d'altri aſſai, ma più di tutt'altri di Mattia Vnſeri.il qua le al ſuo Galieno apertamente ribellandoſi infra l'altre una volta dice con efficaciſſime ragioni aver lui dimoſtro,andar Galieno follemente errato nel filoſofare delle cagioni del. l'Epilellia: e che de' ſuoi falli eredierano rinaſi gli oſti nati ſuoi ſeguaci, negli animi de'qualila falla dottrina del lormaeſtro così tenacemente ſi trovava radicata, ut (per dirla colle ſue propie parole ) Scirrum quamvis durum cia tius digeras, quain inveteratam hanc opinionem àpuero con ceptam, ipfis è mente eripias. Ma quel che maggiormente recar dee eglimaraviglia fiè, che imedeſiminimici,e per fecutori del Paracelſo, eziandio i più fieri, ed acerbi anch'eglino talvolta dalla loro annodata congiura mani feſtamente fi partono, come Felice Plateri, Tomaſo Era fto, Giovan Cratone, Gaſparre Ofmanno, nimico il più im placabile, che mai Chimici aveſſero ilqual tutt'altri medi ci, anche di ſua ſchiera, intinto biaſimò, e ſquarciò, che afpriſfimamente da due diſcepoli di Galieno anche funne ripreſo: l'un de'quali, che fù Daniello Orſtio, così pro verbiando il motteggia: ad Hoffmanni modum, qui inftar anys rixoſe heroes medicos paſſim fcurrilitertraducit; e l'al tro, che è Riollano il figlio, ſdegnato oltremodo, di lui N 2 ſcri Tôo ferive: Hoffmannusnimis liberè, & licentiosè caftigat omnes Medicos, utfolusſibiſapere videatur. Mainfra gli altri partiſſene ancora Rinieri Solenandri filoſofo, e medico digran pregio, il quale coll' armi, dal medeſimo Galieno un tempo adoperate, coraggioſaméte diféde la ſua ragione; e dopo d'aver acculato Galieno de' falli p lui comeſſi nel libro de’séplici medicaméti,così con tro di lui, e degli altri antichi maeſtri ſaggiamente ragio na. Si in his medicina partibus, in quibus plus externi ſon Jus, experientia valet, quam judicium, & ratio, tantū deliquerunt majores noftri, quid credere debemusfactum ef feincæteris omnibus, quæ fola ratio, & ingenii ac umen af Sequi, eperſuadere poteft? E che direbbe ora il Solenan dri, ſe vedeſſe di già fatto palele al mondo, quanto G2 lieno, e altri Antichi,della verità andaſſero lungamente er rati, in filoſofando dietro le parti tutte della medicina? Ma non v'ha infra tutti i Tedeſchi Galieniſti, che de’detti del lor maeſtro Galieno sì poco conto faccia, quanto, ſecon do, ch'io mi creda, quel tanto celebrato ſeguace di lui Daniel Sennerto;del quale perciocchè e' fa moſtra in ogni luogo d'eſſer libero, no fà meſtieri al preséte ch'io sétéza alcuna ne rechi. Tanto ſolamente apporterovvene ciò, che egli in difeſa di ſe ad Antonio Guntero ragiona. Semper novum (dice egli) Suſpectum fuit, antiquum vero lauda tum; fed an jure ſemper, dubito; nam, quod nobis antiqui, olim novum fuit: ideoque non tempore, fed rationibus opi niones affirmandæ funt, eæque veriſimehabende, quæ cum natura, qua antiquiſſima eft', confentiunt. E poco avă ti: multa adhuc in natura reſtant explicanda; & plurimas in ea ita obſcura ſunt, ut magni etiam viripleraque vix de finire aufi fint. Ma non hà egliper mio avviſo animo me no nobile, e generoſo del Sennerti, il famoſo Galienilta Ollandeſe Giovan Antonio Lindeni intorno al giudicar li beramente, e fecondo ragione,la verità delle coſe, ſenza eſfer di vaſallaggio alcuno. Coſtui infra gli altri ſuoi li beri, e memorabili conſigli, una fiata ragionando di Ga lieno, e avviſando in quante beſtemmie, cd empiezze foſſe coluinelle ſue dottrine ſtrabocchevolmente caduto così eſclama: Quid eft abnegare Deum, fi hoc non eft? fi enim iſta non poteſt, ne quidem Deus eſt? alla fine contro i parteggianti di lui ſtizzoſamente prorompe: &hic eſt illes homo,cui non aſſurrexiſe grandenefas eft? cuique contra dixiſſe mortale peccatum eft? E altra volta così del ſuo mae ftro Galieno ragionando: Galenus (diſſe ) magnus eſt, & fuit, &erit; non tantus tamen, quem patiar libertati med fibulam imponere in iis, qua meliori ratione, atqueexperiêm tia certiore habeo comprobata. Ne men del Lindeni maa gnanimo, e libero fu quell'altro Galieniſta parimente Ol landeſe Zaccaria Silvio; intanto che non laſciandoſi tra ſcinare,ma ſolamente condurre a reverendi ſentimenti del maeſtro, ritroſo, e reſtio, ſovente a quelli ricalcitra;e tra viando dagli antichi ſentieri, per nuove, e non uſate vie s'argomenta talvolta, comechè poco felicemente, d'ag giugnere alla verità. Priorum veſtigia (dice egli) omnia premere, & eaděſemper inculcare ridiculū eft.E no guari ap preſſo: Pigri eft ingenii contentum effeiis, quæfunt ab aliis inventa, fiquidem mentis acrimoni: nihilnon humanarum rerum ſubjicitur. Perciocchè ficome egli medeſimo ra giona, non è la medicina, o la filoſofia così ſtretta, così anguſta, e di sì poca ſpazioſità, che di preſente dagli an tichi primi macſtri ſi foſſe potuta ingoinbrar tutta, ſenza laſciarne ſpanna altrui; ne così manifeſta, e ſviluppata, iz ciaſcuno è la verità delle coſe chei primicri inveſtigatori di quella aveſſero avuto ventura di prenderla liberamen te ſenza gli argomenti di cotante ſperienze; e giugnendo primieri alla gloria vincerla ſolamente della mano; veri tas, fù ſentenza di lui, in multo altiorem demerfa puteum eft, quam utpaucis inde extrahi poſſit feculis. Énel mede fimo ſentimento fu certamente ciaſcun'altro medico, fi loſofante di Ollanda; c Io ne potreiquì rapportare infini te teſtimonianze, ſe non che io temo per avventura di ſo verchiamente ſtuccarvi colla mia lunghezza. Ma non poſſo perciò tralaſciare a dire dell'ingegnoſo filoſofante, e medico de'ſuoitempi Giacomo Bacchio; il qual veggens е doſi da' ſentimenti, e dalla ragione perſuaſo,anzicoſtret to, e vinto a confeſſar l'aggiramento del ſangue, niente curando,ch'una tal dottrina non l'aveſſc egli apparata da' volumi degli antichi maeſtri, sì volentieri la ricevette, e intanto l'abbracciò, che conchiuſe alla fine doverſi quella in diſpetto degli oſtinati Galieniſti tutti ſeguire,ſe ben l'or dine tutto dell'antica medicina aveffe foſſopra a ſconvol gerſi, e andarne a fondo; perciocchè ſecondo un sì nuovo diviſo in aſſai coſe fi riformerebbe la medicina, e in mi glior filo certamente ſi metterebbe. Sic contingit, oſſer vò egli, concefo, ftatutoque ſanguinis circulatorio motu,in numera veteris doctrina fiatuta inverti; unde totus docendi ordo turbatus præpoſtere, & fine certa methodo, & doétrina omnino confuſe inſtituitur, addiſcitur; quam pofitioni bus cashenatim cohærentibus, &certo ordine inſtructis ſia biliri decer. Ma che direm poi del medicar della Lamagna, il quale, da queldella Francia poco certamente s'allontana? ſe non fe i Tedeſchi aſſai più de Franceſchidi ſegnar ſi ritengo no; e intanto l'abborriſcono, e ne ſon ritrofi, che deter minatamente giudicano, i Salaſli mai ſempre eſer danne voli, e ſconcj, e ſe non altro alla per fine menomandone gli ſpiriti, raccorciarne miſerabilmente la vita. No lo mi prenderò quì punto briga in provarvi quanto i Tedeſchi ſien filoſofi, emedicidabbene, e amatori della verità, no appiccandoſi oſtinati, e provani a Setta niuna; ed egli ſiè ben manifeſto a ciaſcuno, non più fortemente altronde che dalla Lamagna eſſere ſtato dimentito, e ricreduto più fiate de'ſuoi errori Galieno. Ma non men libera dell'altre nazioni fu la gran Bretta gna in non yolermai tenacemente appiccarſi a' ſentiinenti d'Ippocrate, e di Galieno, o d'altri antichi medici, ſenza in prima lungamente abburattargli, e porgli allo ſquitti no delle ſperienze, e delle ragioni. E ciò agevolmente potrà comprendere chiunque prenderaſli briga tanto qua to di rivoltarci tarlati, e polveroſi volumi dell'antico Ric cardo, o di Giubetto, o di quelGiovanni, che ſopra tutti manifeſtò i ſuoi laudevoli, e generoſiſentimenti in quel li bro mandato fuora da lui, ſotto nome di Roſa Anglicana; e da cotant'altri antichi Inghileſi, a' quali, comeduchi,e maeſtri del filoſofare, e dell'opere di medicina, piacque anzi gli Arabi dottori, che i Greci maeſtri nelle loro ſcuo le ſeguitare. E più allor crebbe, e avanzoſſi nell'Inghil terra la libertà del medicare, quando pofta giù la ruggine di que'rozzi ſecoli, più preſſo a'tempi noſtri,per opera de gļItaliani maeſtri, rinacquero quivi le lungamente ſepolte greche, elatine lettere; perciocchè allorcertamente con maggior ſenno, e avvedimento ſi puotè per valenti lette rati gareggiar vicendevolmente per la verità; e crebbe tă to poi nella famoſa penna del Primeroſio, dell'Igmoro, e d'altri valenti Galieniſti Inghilefi la libertà delloſcrivere nella medicina, che ſoverchio ſarebbe il raccontarlo. Pu re non mi terrò di ſommamente commendar quelle famo ſe ſcuole,onde ſi moſſe da prima l'incontraſtabile difeſa a pro dellaggiramento del ſangue, la qual sì forte, e valo. roſamente Fiaccò le corna del ſoverchio orgoglio al gonfio, e folle Pariſano, che vergognato, e ontoſool tremodo divenutone, non osò il cattivello per innanzi far ne più motto. Ma chi mai pareggiar potrebbe il valore del grãde Ar veo? ilqual ſgombrate da ſe tutte paffioni di Sette, e di nimiſtà, intanto avvantaggioſſi colla ſua laudevole liber tà ne'ſentimentipiù veri delle coſe, che nelle ſue glorioſe. opere così par, che ſaggiamente ragioni: Io miſon forte fovente meco medeſimo maravigliato di coloro, anzi tal volta hogli preſo a gabbo, i quali follemente s'avviſano aver l'operc d'ARISTOTELE, o di Galieno, o d'altro più cele bre maeſtro cotanta perfezione, e compimento, che nulla certamente lor poffa aggiugnerſi più di vantaggio. Non è la natura delle coſe cotanto aprima faccia manifeſta che compiutamente per huom’poſſa prenderſi, ſenza ben cutca in prima diſtintamente ſpiarla. Ella ha i fuoi ſegreti na ſcondigli, a'quali non può certamente aggiugnerſi, ſenza la 104 Ragionamento Secondo la guida di lei medeſima: e ciò, che in alcune coſe confu ſamente, e inviluppatamente n'accenna, altrove poi reſa. ne fedeliſſima interpetre, più diſtintamente, e manifeſta mente n’eſpone. Perchè ſenza dubbio mal potrà giugnes re a diterminar coſa del mondo intorno all'uſo, o alme ftier delle parti del corpo umano, chiunque in prima non n'abbia ben preſo argomento da ciaſcun ' altro bruto ani male, e'l ſito diligentemente, e la fabbrica, eicongiunti vaſi, e altri accidenti di quelli, e delle lor parti conoſciu to, e l'uſo loro per pruova ſaputo. Et putabimus, dirolla pure colle ſue propie parole, nihil prorſus commodi ab his auxiliisfcientiarum nobis accedere; verum omnem plane fa pientiam à primis ftatimfeculis abforptam fuiſe? Ignavia profeéto hæc noftre, haud naturæ culpa eſt. Ma che non di ce egli, e quali ſaldiſſiine ragioni non apporta in concio a' ſuoi liberi ſentimenti, o nella famoſiſfima lettera dirizza ta al Collegio di Londra, o nel proemio del libro della generazion deglianimali? Pudeat, udite, come all'alta impreſa del liberamente filoſofare ne ſtuzzichi, e ne ſpro ni il magnanimo amator della verità: pudeat itaque in hoc nature campo tam ſpacioſo, tam.admirabili, promifique majora femper perſolvente,aliorum fcriptis credere; incerta indè problemata videre; &ſpinofas, captioſaſque diſputa tiunculas nectere. Natura ipſa adeunda eft; & ſemita quă nobis monſtrat infiftendum. Ma dalle nazioni ſtraniere, paſſiamo omai a narrar del. la noſtra vaghiſſima Italia, pregio delle più belle lettere, e ricovero ditutte ſcienze; la qual certamente, intorno alla medicina, oltre a gli Abbanije i Niccoli, c i Gentili, e i Dini, ei Tomalli, e i Taddei, e i Ferrari, e gli Vghi, e i Girardi, e i Platearj, e i Turiſani,e i Salvatichije i Giacomi da Forli, e i Mattei da Grado, e gli Arduini, e i Montagnani, gli Arcolani, c i Zerbi, ei Savanaroli, e cento, c millal tri avvedutiſſimi ſeguaci dell'Arabeſchedottrine: hebbe anche Aleſſandro de Benedetti, e Matteo Curzio, e Gio van Manardi, e Giovan Battiſta Montani, e Antonio Mu fa Brafavolo, c Nicolò I.coniccni, per tacer d'altri molti, a’quali più di ciaſcun'altro per avventura piacque le doe trine d'Ippocrate, e di Galieno fominamente ſeguire. E pur veggiam talvolta effer coſtoro manifeitamente, trali gnati dalle reverede dottrine de’lor carimaeſtri, e in mol te, emolte coſe, che a grado lor non furono, avvegna chè di non poca conſiderazione,loro apertamente contra-. ſtare. Ne reco Io già al preſente per teſtimonio del mio ragionaméto Gabriel Fallopio, ne il Trincavelli, ne il Mer curiale,ne Ercole di Saſſonia,ne Girolamo Capodivaccas ne Orazio degli Eugenj,ne Ceſare Magati,ne altri, e altri avvedutiſlimi medici, e filoſofi commendati ne’loro tempi, c pregiati allai. Solamente ricorderò le glorie del famo fiflimo Giovanni Argenterio, e cotant'altri loro valoroſi ſeguaci, e imitatori; i quali traſandate le leggi, e le ſtret tiifime mere degli antichi maeſtri, ſcorſero liberamente perlo gran campo della medicina, ſenza appiccarſi molto tenacemente, ad Ippocrate, o a Galicno,comechè Ippo cratici, e Galieniſti eglino li foſſero. Ma cometutt'altri, e in dottrina, cin chiarezza di fama avanza di gran lun ga queltanto valoroſo, ed eccellente ſcrittore Girolamo Cardano, così a niuno certamente egli cedede Galieniſti medici Italiani nella gloria del liberainente filoſofare.Egli a niun pregio tenendo maeſtro alcuno, ſolamente s'affa. tica, e ſi ſtudia per la verità, e non ha quaſi facciuola nel le ſue opere, ove egli non ſi vegga oftinatamente conten dere col ſuo Galieno, prendendo cagione tratto tratto d ' accoccargliela, e manifeſtamente biaſimarlo, intorno alla maniera del ſuo filoſofare, e del ſuo ſcrivere, e del porre in opera il ſuo furbeſco meſtiere; infra le quali non mi par da dover tralaſciare quel che in un de'ſuoi libri, di lui narra, dicendo eſſere ſtato colui prima Cerulico: e che in ciò pure non molto tempo, e ſtudio logorato v’aveffe,ac ciocchè al colino di tal meſtiere ne foſſe dovuto formota re. E delinedeſimoGalieno altra volta forte biaſimando ſi, dice ſoiainente eſſere ſtata cagion di cotanti ſuoi errori, e fallil'effer egli riſtato in sù gli arzigogoli dello ſpecula re, ſcnza diſcender giammai all'operare, e ſenza far prìo O va delle ſue mal credute dottrine: Caufa errorum in medi cina eft, quod quicontemplantur, non medentur, ut Galenus, Paulus, & c Princeps, & hodie omnes medicine profeſores; ideo (avvertimento ben degno da dover far faldiffima im preſſione ne’noſtri medici) loco regularum, &dogmatum fcribuntfomnia. Mayperchèa far parole del Cardano ci ſiam condotti, e'nó mipare di dover tacere, quáto nella ſchicttezza,e bo tà dell'animo, e nell'amor della verità egli lungamenteve Galieno medeſimo,non che altri ſi laſciaſſe addietro; per ciocchè biaſimando oltremodo la malvagità, e la caſtro naggine de' teſtereccj, émalandati parteggianti de' ſuci tempi,infra l'altre, cosi una volta ſtizzoſamente gli pun ge, egli beffeggia. Demiror, dice egli, credulitatem, de mentiam, & impietatem medicorum noftræ ætatis, quorum aliqui eo deveniunt, ut cbliti omnis humanitatis, maline perdere homines, utferviant pertinaciæ, quam revocari, a eosſervare. E oltre a ciò vaegli conſiderādo intanto giu gner l'oſtinazione, e l'affetto degli accieciti parteggianti, che riguardando alle dottrine de’loro cari maeſtri, non che a capital niuno la verità teneſſero, anzi l'anime loro medeſimc non curando, foventi fiate il diritto delle divi ne leggi, e delle naturali traſandano: cdeo ſectis, grida egli pictoſamente piagnendo, addicti ſunt, at nec immor talitatis aninorum,nec præceptorum philofophiæ reſpectus ul lus eos teneat. Machirccherammi amcinoria tutti gl'infelici, e com paſionevoli avvenimenti, i quali dalla mellonaggine,dalla pertinacia, dall'ambizione,dall'avarizia, e dalla malvagi tà de'cattivi parteggianti tratto tratto ſeguir ſogliono, che egli lungamente va diviſando: Eglino ſempre oſtinati ncl le loro fanciullaggini, non che foſſer giammai da tanto, che guarir ſapefiero alcuna malattia diconſiderazione;an zi fovenci volte si, e tanto operano colle loro trappole, che ne tolgono la voita aʼmedici più valoroſi. E ſon pur così ribaldi, e ſcellerati, che sfregiando colle loro opere il digniffimo nome di Criſtiano, e laſciata affatto la pietà, cla ! e la carità unico patrimonio de'ſeguaci di Criſto, tuttiaya: ri, e ambizioſi,ſi veggono,ſolamenteiricchi, ei nobili am. malati viſitare, e i poveri, e miſerabili, dalla fortuna ab. bandonati,dopoaverglilungaméte ſpolpati, o affatto non curare, o ſe pur vi vanno frettoloſi, e ſuperbi, come vili giumenti, o come altri bruti animali crudelmente trattar gli. Del quale graviſſimo misfatto certamente la cagioa ne ſi è il lor Maeſtro Galieno, da cui eglino tutto apparā doprendono ancora ad eſſer oltremodo ambizioſi, e avari. Hujus tanti mali, ſono le parole propie del Cardano, au tor fuitnofter Galenus, qui nil ubique jactat, niſi proceres, atque Imperatores; quum tam juveniseffet, ut ambitione, inani nomine potius, quamartis peritia eis innotuerit. Nc oltre a ciò tace il Cardano l'aſture frodi di que'Vol poni maeſtri, i quali a perpetuar la lor tirannia,agl’ingan ni, alle millanterie, alle beffe, all'aſtuzie, aile giglioffe rie gl’innocenti ſcolari tratto tratto avvezzavano. E di tanti misfatti, e ſcelleratezze'non laſcia d'accagionarne ſopratutto le perſone nobili, e d'alto affare, i quali per ciocche delle coſe del mondo, e della natura poco, o nulla ſi conoſcono, non laſciano a ciò porre acconcio compen ſo, ficome certamente dovrebbono; anzi intanto giugne la lor biaſimevole dappocaggine, chc in luogo di ricercar ne'medici profonda dottrina, buoni coſtumi, intendimen to di linguaggi, avvedimento grande, ſcienze alla medi cina appartenenti, pierà de gl'inferini, antivedimento del Je future cole, ſperienza delle cure malagevoli, conoſci mento delle matematiche, ripoſo di mente, amor di glo ria, che naſca dal ben operare, diſpregio d'altre coſe ſol lazzevoli, e ardente diſiderio d'apparare; vi richiedeva no orrevoli veſtimenta, aſpetto grazioſo, viſo piacevole, adulazion di parole, abbondanza d'ammalati illuſtri, e grandi,magnificenza di ricchezze, e cento, e mille altre ſo miglianti vanità. E ben gli parve, che meritevolment, coſtoro ne portaffer poi la debita penitenza, omorendo ne loro i più cari parenti, o ſtandone eglino medelimi ſem premai ſparuti, c triſtınzuoli, e cagionevoli aſſai dell i perſona: diuturno cruciatu protractorum per longumtempus morborum: per rapportarvi omai alcune altre delle ſue pa role medesime,che mi ſovvengono: preterea fiderationum, debilitatum,quæ poft fanationem illis relinquuntur; avs vegnachè affatto non ſi vedeſſe Gir del pari la pena colpeccato, mal capitandone non pur eſli,magl’innocentiloro figliuo li, e amici. Ma troppo piacevol coſa è a ſentire ciò, che finalmente egli contro i medici de'ſuoi tempi narra, i quali baldanzoſi, e tronfi liberamente ſcorrendo a lor talento per tutto, e abborrando, e malmenando la medicina, co (trignevano alla fine i cattivelli infermi, che male a lor uopo nelle lormanicapitavano, a pagare a ingordiſino prezzo i rimedj, e talora anche la morte; facendo eglino ancora forſe la lor mano negli ſtrabbocchevoli guadagni degli ſpeziali.. Ma, che direm noi di Giulio Ceſare della Scala digniſ fimo medico de'ſuoitempi. Egli comechè fieriſlimo ne mico foſſe del Cardano, e s'argomentaſſe a ſpada tratta dirimbeccarlo quaſi in ogni parola; intanto, che ne pur la loro oſtinatiſſima nimiſtà Ha diſciolto colei, ch'il tutto ſolve. Atque ut etiam nunc poſt cineres, dice coll' uſata elegan za il noſtro Severino.ſtridēt in ævum ab ipfis exaratæ chara te; non però di meno, ove ſol ſi tratta della libertà della filoſofia, e di non laſciarſi dictro gli antichi ciecamente traſcorrere, allorcertamente poſto giù lo ſdegno, e’lli vidore ſon tutti di convegna a ritrarſi di parteggiare, e far capo oſtinatamente alle ſette. Errata majorum, diſſe generoſamente una volta Giulio Ceſare della Scala, diſi mulanda non funt, ne eo ipfo pofteritati imponamus.E benſi valſe egli del ſuo avviſo, quádo cruccioſamente diile d'Ip pocrate al Cardano: Tueris, atque profiteris nefandum illud Hippocratis deliramentum, à quo non abfunt Galeni trepidationes, animam nihil aliud eſſe, quam cæleſte calidum: avvegnachè ſenza ragione alcuna aveſſe egli rimprovera to una volta a Galieno una sìfitta libertà, e ſtizzoſamé 1 te bia. te biaſimatolo d'aver egli ſovente contraſtato IL REVERENDO ARISTOTELE; come ſe graviſſimo fallo, c ſcelleratczza ciò ſi foſſe: Galenus avidiſſimus,dice egli, carpendi longe de meliorem; in quella guiſa appunto, che quel nobile Ga lieniſta Giulio Aleſſandrinovoleva, che ſolamente all'Ar genterio foſle vietato il por mano all'opere degli Antichi per ammendarne gli errori; della qual coſa, non ſenza gran ragione per avventura forte fi biaſimail Solenandri, così rimproverandogli: Verum fateris,antiquiores fcripto res erraſſe, concedifque aliis omnibus, qui funt ingenio, em judicio aliquo prediti, ut poffint ea reprehendere, quæ ma lè funtdieta, &meliora tradere: foli Argenteriohanc li centiam adimis. Ma prima delCardano, e di Giulio Ceſare della Scala, per ripigliare ilfil del noſtro ragionamento, grandiſſimali bertà ufar ſi vide, e nelfiloſofare, e nello ſcrivere un'ala tro valent'huomo nelle inatematiche, e nella filoſofia, e nella medicina aſlai bene fcorto, ed cſercitato; perchè meritonne d'eſſer'altamente pregiato, e onorato da quel generoſo favoreggiatore, e intendente delle buone lette re Lione il Decimo, Sommo Pontefice. E fu coſtuiGio vanni da Bagnuolo, il qual non mica pago nelle ſcuole d' averdato ſaggio del ſuomagnanimo, e nobile ſpirito, no curante l'altrui autorità in non poche concluſioni: e aven do fuor dell'uſo comune mandata avanti la Chimica: coſa a que’tempirariſima, maſlimamente in Italia: volle in cc minciando un capo diquel libro, ch'egli fa dell'ecliſſe del la Luna, più manifcftamente proteſarlo, portando ſenti menti veramente da filoſofo ragguardevole, e di gran lie va. Quoniam noſtri antiqui progenitores, dice egli,fcien tiarum inventores, rationibus, experimentis, comperie runt ſcientias; veriphilofophantes ipfos imitando conari de berent no perfiftere inventis,fed nova nature ſecreta venari. Maquel famofiffimo medico, e filoſofo, e pocta de Verona Girolamo FRACASTORO, avvegnachè da' ſervili fen timenti delle ſcuole ingombro troppo commendaſſe il fuo maeſtro Galieno, e molto a capitale il teneſſe; non però dimeno, reſo talvolta avveduto dalla verità, non ſi tiene, ove gli venga in concio, d'aſpramente riinbeccarlo, e qua. to al fatto de’giorni critici rinfacciargli ch'egli pur troppo ſcioccamente ponendo in non cale gl'inſegnamenti de’alo ſofi, a'vani preſtigj degli ſtrolaghi ſia ricorſo. E oltre a ciò nelmedicare,e nel filoſofare da'diviſamentidi lui ſi di lunga; come agevolmente ſi può veder ne'ſuoi libri della fimpatia, e antipatia delle coſe, e della contagione, eins altri luoghi; ma ſopratutti nel ſuo divin poema della Sifi lide, per cui huom certamente crede, lui all'altezza del gran Marone eſſer’aggiunto, e che tutt'altri poeti felice mente G laſci addietro. Nel qual poemacontro l'opinion del ſuo Galieno va egli cantando, l'aria ſola di tutte coſe eller principio, così manifeſtamente raffermando: Aër quippe pater rerum eft, &originisauctor. E prima egli così del naſcimento delle coſe avea diviſato: Principio quæque in terris, quæque æthere in alto: Atque mari in magno natura educit in auras, Cuncta quidem nec forte una, nec legibus iiſdem Proveniunt, sed enim, quorumprimordia constant Epaucis,crebro ac paſſim pars magna creantur: Rarius aſt alia apparent, non niſi certis Temporibufve, locifve, quibus violentior ortus, Et longefita principia: ac nonnulla prius, quam Erumpant tenebris, &opaco carcere noctis, Milletrahuntannos,fpatiofaque ſecula poſcunt Tanta vicoëuntgenitaliaſemina in unum. Quindi con l'uſata ſua eloquenza della cagion de'mali di viſando, cosiegli canta Ergo &morborum quoniam non omnibus una Nafcendi eft ratio, facilispars maxima viſu eft, Et faciles ortus babet, &primordia praſto. Rarius emergunt alii, poft tempore longo Difficiles cauſas, & inextricabile fatum, Et feropotuere altas ſuperare tenebras. Ne men del Fracaſtoro al ſottiliſſimo Andrea Cefalpi. ni piacque ſommamente levarſi ſuſo contro il ſuo maeſtro Galieno, e iſeguaci di lui, prendendola oſtinatamente a favor d'ARISTOTELE, e de'Peripateticiin LIZIO ciò, che da coloro dipartonſ i Galieniſti; ſenzachè egli è pur troppo mani feſto a ciaſcuno eſſere ſtato primiero il Cefalpinia ſcoprir glorioſamente al mondo l'aggiramento del ſangue:tutto, che parer poſla ciò, che moltoprima di lui aveſſe fatto Pla tone con quelle parole: Μέγιστν δε όταν α'μαι καθαρά συγκερασθείσα, το τών ινών γένος, εκ της εαυτών διαφορή τάξεως. αι διεσπάρησαν εις αίμα, να συμμέ Πρως λειότητος ίχοι και πάχους, και μήτε δια θερμότη ως υγρών εκ μανού του σώματG- εκρέσι, μήτ' αυ πυκνοτέρον δυσκίνητον ον, μόλις axaspécouto iv Cais Preti,che ſuonano in noſtra lingua: E maf. fimamente quando (la bile )col puro ſanguemeſcolata,difor dina quella ſpezie di fibre,le quali ſono ſparſe per lo ſangue, acciò ſia in eſlo una mezzanitate tra'l groſo, e'lſottile:per chè mediante ilcalore non iſcorra per lo corpo,ficome ogni li quida cofa fcurre perun corporaro, neſia troppo groſo, e difficile a ſcorrere, sì, che appena poipoteſſe andare, eritor nare per le vene. Ma non poco certamente e' ſiparc, che Santorio Santori, famoſo, e raggaardevol medico de'ſuoi tempi profittafleſi in liberamente ſcrivere, non avendo ri guardo a ſetta niuna, per aver eglicol Sarpi, e col Gali Jei un tempo ufato; i cui ſentiméti vollc cgli in molti luo ghide'ſuoi ſcritti, come ſuoi propj diviſamenti manifeſta re, e ſpezialmente in quel libro cotanto per ciaſcun com mendato, della Staticamedicina, comcchè il più delle vol te male egli apprendendo le commendevoli dottrine di que’valent'huomini, e alle ſue volgari ſconciamente me ſcolandole, fe ne faceſſero le ſcherne gli accorti lettori. Maciò da parte al preſente laſciando, non ſi può egli di leggier narrare, quanto da lui carminati, e proverbiati du ramente foſſero i parteggianti tutti medici, e filoſofi; e quantunque volte gli vien fatto loro l'accocca, rapportão do in ſuo pro varie, E MOLTE AUTORITA D’ARISTOTELE, e di Ga lieno; di cui ſeguendo la traccia arditamente ofa afferma re,alquanti Aforiſmi d'Ippocrate ritrovarſi talora dalla verità non poco lontani: e molti, e molti errori ne'moder ni, e negli antichi ſcrittori dimedicinaegli ravviſa: e non pochi anche ne ritrova in Galieno. Così eglibiaſimando, e maladicendo oltremodo la follia, ſicome e'dice, di pa recchj ſcuole dell'Europa, dice, che in quelle ſcioccamé te maggior credenza preſtar ſogliaſi a L’ORREVOLE AUTORITA D’ARISTOTELE, d'Ippocrate, o di Galieno, che a' ſentimenti noſtri medefimi; E PUR DICE EGLI ARISTOTELE MEDESIMO, Galieno di comun conſentimento più volte affermare, ef ſer anzi alla ſperienza, e a' ſentimenti, che all'altrui auto rità da dar fede. E poichè in concio al ſuo ragionamento più luoghi di Galieno egli rapporta, così alla per fine con chiude: Quare quum Galenus,neque meus fueritaffinis, confanguineus, aut majorum meorum avunculus, quod ſciã, neque in Sanctorum catalogo fit collocatus, quiafflatusdi vinitate fuerit loquutus, non video cur omnes non poffint honorificè, fi fenfibusudverſetur, eum relinquere. Neè da tralaſciare al preſente di narrare ancora del fa moſiſſimo Andrea Mattioli, il qual comeche parzialiſſimo del ſuo Galieno, purc in più luoghi, della verità reſo ay veduto, dice manifeſtamente, eſſerſi colui in leggendo Dioſcoride aggirato,e ſovente non averne parola inteſo; e una volta infra l'altre non puotè ritenerſi di non iſtizzo ſamente gridare: videtur Galenus non folum plurimum à Diofcoridis fententia,ac hiſtoria aberraſſe, fedetiam à ra tione ipfa, acveritatelongè fane abeffe. E oltre a ciò dice eſſere ſtato Galieno di poco ſenno,ein molti luoghima nifeſtamente contradirli; ed eſſer egli ſtato nato a’ Poeti, c troppo di leggieri alle loro vanillime fa vole aver preſtato fede, non altrimente, che ſe ſtate foſſe ro incontraſtabili verità da raffermar con tutti i ſacramen ti del mondo. Ma il dottiſſimo Proſpero Alpini in tutti que'ſuoi libri della metodica medicina, avvegnachè ancor egli di parte Galieniſta pur altro certamente non fa, ſe non ſe difendere i metodicida’mordimenti del ſuo Galieno, e d'altri R.2 zionali medici; e ſpezialmente ove Galieno così ſconcia mente carica di bialimi, e di maladicenze ATTALO famoſif troppo affezio fimo Timo medico metodico, dicendo, che per opera di lui for fe ftato ucciſo Teagene filoſofo cinico. Ma quanto poco capital faceſſe di Galieno, e d'altri razionali medici il narrato Attalo, ſi può agevolmente comprendere dall'acerba riſpoſta da lui data a Galieno;la qual coſtuipoſcia,come ſua sóma lode foſse, volle nell'opere ſue laſciare ſciocca mente regiſtrate. E forſe fuella più ancor pugnereccia, e di piggior talento, che egli ne racconta. Eche direm noi del valoroſo Girolamo dall'Acquape dente digniſſimomaeſtro del grand’Arveo? Quante fiate ) egli, comechè Galieniſta, pur da’ſentimentidiGalieno ra gionevolmente ſi diparte? Quante,e quante fiate grave mente il proverbia, e riprende di ſciocchezza, ed'igno ranza? Pure infra cotanti biaſimi, e rimprocci, ch'Io per brevità tralaſcio, recheronne al preſente uno, che val per cutti, lagnandoſi egli forte del tempo, ch'avendone tolte tutte le bell'opere degli antichi filoſofánti, ne abbia ſola mente laſciate quelle d'ARISTOTELE, e diGalieno, como ſchiuma de libri, e viliſfimo fondaccio di tutte le buone dottrine; eſſendo coloro in molte, e molte coſe ſempre mai fallati; e ſpezialmente taccia Galieno diquella folle ſua opinione intorno alla formazion della viſta. E intanto è vero ciò, che noi raccontiamo, eſſerſi i va lenti Galieniſti pur talvolta per vaghezza della verità al lor maeſtro Galieno ribellati, che maraviglia è a narrar come Aleſſandro Maſſaria, cotanto oſtinato, e leal parteg. giante di Galieno, pur’una fiata ponendolo in non cale, aveſſe oſato cavar ſangue nella diſſenteria, comechè cer caſſe poi a ſua poſta didarne a vedere con fievoliſſime ra gioni, eſſer ciò anche ſecondo il ſentimento del ſuo G2 lieno; e'l celebre Settala ancor' cglicotanto fedel ſegua ce del medeſimo, pure l'aveſſe fronteggiato, e ripigliato, 12, ove egli ragiona delle cagioni del color glauco degli occhj; ed ove dice, che l'acque de'pozzi non fiano,me appajano fredde l'eſtate più, che in altri tempi; percioc. che ſi toccano colle mani calde; e che l'inverno al contra rio ne pajano calde, perocchè ſi toccano colle mani food P dc..  1 1 1 de. Ma quel, ch'è più da conſiderare ſi è,ch'egli in un'in? tero libro riprova l'antico, e praticato uſo di medicar le ferite, appigliandoſi ad un nuovo modo da Ippocrate, e da Galieno non mai conoſciuto, non che adoperato. Ma troppa gran briga fermamente lo mi prenderei, ſe recar qui ora voleſsi ciò, che ad uno ad uno tutti gli ec cellenti, e famofi ſcrittori Italiani lungamente ne diviſino. Chiudaſi adunque sì nobil corona colle parole del ſotti liffimo Pier Caſtelli, il quale una fiata infra l'altre contro cotali pecoroni da greggia maggiormente ſdegnato, così proruppe: An omnia novit folus Galenus? an nihilreliquit pofteris inveſtigandum? Quo merito infudit illi uni Deus (quod alteri nulli) totam, perfectam, &integram medici nafcientiam,nihil nobis reliquens? e dopò molte graviſſime parole, che egli apporta a queſto propoſito, così alla fine conclude: Patet boc, quia poft Galenum tanta medicinefa Eta eſt additio, ut triplo auctam dicere poflimus. E si nobil costume di liberamente filoſofare in medi cina,ben da molte, e molte fcritture publicate in iftampa, apertamente ſi ſcorge, ch’abbian ſeguito a gara l'Accade mie, ond'è sì abbondevole, ctanto fi pregia tutto il bel paeſe, Ch’Appennin parte, e'l mar circonda, e l'Alpe. Ma io tralaſciando a bello fludio tutt'altre parti, ragio nerò ſolamente della nobili: lima noftra Città, delle Sirene, e delle Muſe amenillima ſtanza, che non pur nella gloria delle lettere, ma in ogni altra a niuna delle più celebri, cd illuſtridell'Vniverſo riman certamente feconda. E laſciā do di favellar del Belli, del Bozzayotra, del Tucca, e d' altri, e d'altri lettori diminor grido oſtinatiſſimi ſeguaci, e parziali d'Avicenna: come potrò mai lo pienamente nar rare co quanta maraviglia udiſfer già legger le noſtre ſcuo le il teſte da noi mentovato Argenterio; al cui ſottile in gegno, ed avveduto giudicio,non miga, come altri per av vétura coftumano,baltādo il copiare, e l'appropiarſi l'al trui viete dottrine; ma volendo egli diſaminare, e far pro va delle coſe della medicina ne’libri già ſcritte, il diſcreto, e avveduto, e giuſto Giudiceſtudiavaſi d’aſſomigliare; il qual non a tutti pienamente dà fede,maaltri approva, al tri traſanda, altri manifeſtamente rifiuta, ficome appunto ragion chiede; ficome avviſa quel ſuo difenditore. Su mus omnes in arte noſtra tanquam in fenatu conſtituti, in quo non ut pedariiftatim pedibus in aliorum fententiam ire debe mus, fed ut prudentes Senatores viderequid conveniat; at que ita ingenue proferrede rebus, quod rationi confonum ar bitramur. E ben per ciaſcuno il finiſſimo, ed eccellente giudicio dell'Argenterio intorno al noſtro propoſito potrà agevolmente da queſte parole di lui ravviſarſi. Non tam Servili, dice eglifimus, animo, ut omnia veterumplacita, oraculorum inftar indiſcriminatim veneremur, vel tam ab jecto, ut pofteris omnem, meliora excogitandi occafionem prareptam, ac præciſam effe arbitremur; quafi vero non idő nuncſit, quod olim Cælum, eadem terra, idēgenerandimo dus: eadem denique, & facilior etiam, quam aliis fueritdin cendi, inveniendique ratio. Ma certamente non men dell’Argenterio ſdegnarono con filoſofica libertà altri Na poletani lettori aſſai, di lcgarſı-a' ſentimenti d'Ippocrate, o di Galieno: avvegnachè per ceſſar forſe l'invidia della ribaldaglia del volgo, con parole alcuni di eſſi il diſfimu laſſero, facendo ſempremai veduta di abbracciar, e di ri tener tenacemente tutto ciò, che inſegnato viene per Ip pocrate, c per Galieno. Infra'quali Filippo Ingrafiagavi do oltremodo, e curioſo di conoſcer la vera fabbrica del corpo umano, ebbe ventura d'abbatterſi il primonelle veſi chette ſeminali,non più per addietro da alcun degli antichi medici ravviſate; ed infra l'altre coſe ebbe ardimento, nc d'Ippocrate, ne di Galieno punto curando, di purgare cziandio nelvigor delle malattie. Così anche gencrofa mente ſi ſottrailero alle ſchiere de parteggianti Bernardi no Longo, Paolo Monaco, e Giovanni Antonio Piſani: un diſcepolo de'quali (1) in una apologia in difeſa diſe, e de'ſuoi maeſtri compoſta,volle, che per ciaſcun ſi leggeſſe: femper licuit omnibus literarum profefforibus non folum con P 2 (1 ) Ferdinando Caſſani, t tra 116 Ragionamento Seconda tra recentiores medicos, & Philofophos, ſed etiam contra Gao lenum ipfum, &Platonem, alioſque illuſtresfcriptores dice re, fi quando ratio dictaverit. Seguiron poi con la mede fima libertà ſempre Girolamo Polverini, Quinzio Buon giovanni, e Latino Tancredi, huomo, come dice Sertorio Quattromani, di molte lettere, e di molto giudicio, e gran difenſore della dottrina del Telefio. S'allontanò altresìda gli antichi talora ſalvo Sclani, e Mario Zuccari, il qual co sì forte, e vigoroſamente riprende Galieno nel giudicio che colui diè intorno alla malattia d'Erofonte: ed altrove sì ardicamente, che nulla più, e come ſuol dirſi, a ſpada tratta prende a difender il coſtume de’Napoletani, intor no al cibar gl'infermi, contro i più valoroſi Campioni, ch' aveſſer mai le dottrine d'Ippocrate, e di Galieno ritenute. Ed a' di noſtri abbiamo pur veduto Giovan Battiſta Ma fulli, Antonio Santorelli, e Girolamo Fortunato, il qual tutto ciò, che nell'opere d'Ippocrate, e di Galien fi riſer ba, sì fattamente per le maniavci, che non v'era forſe parola, di cui improviſo domandarone non gli veniſſe to ito a memoria; e nondimeno tanto, e sì fovente ove gli pareva, cheragione il richiedeſſe, coſtumava egli a rim beccar l'antiche, e comuni opinioni, che per tanto a' Ga lieniſti tutti n'era in uggia, e crepacuiore: e ſofina, e cavil Joſo ſempre chiamavanlo. Ma ben comprendelí l'animo fuo libero, dal libro, ch'e' compoſe de’principi delle coſc naturali, ed in quello ancora de ſenſi,il quale egli ſotto nomc d'un ſuo ſcolare mandò fuora. E dietro alle ſue ver ftigie poi non guari lontano andar mirammo Onofrio del Riccio, huomo veramente per vivezza d'ingegno, e per dabbenagginc d'animo, tenuto fommamente caro dalla Città tutta. Ma perchè addietro laſcio ora Io Paolo Emilio Ferrilli della nuova, e della vecchia medicina parimente inteſo, e di ciaſcuna di effe egualmente libero profefforc?il qual da' fuoi lunghi viaggi, e pellegrinazioni tante, e sì fatte forti di nobili, e cari medicamenti alla patria riportò, che ben volentieri a pro di ciaſcuno le botteghe tutte degli ſpeziali 1 1 * corteſeméte arricchiune. E dove lo trapaſſo ſotto ſilenzio ingratamente aſcoſo il piùſovrano pregio, che aveſſer mai le noſtre ſcuole, il dottiſſimo Marco Aurelio Severino, il qual non ſolo, ſe miglior Chimico, o medico, e ſe più va lorofo in fiſica, o in cirugia, e ' li foſſe. Egli animoſamen te ſeguédo l'orme del famoſo Giulio Azzolini ſuo maeſtro: anzi oltre affai più gittandoſi, in favellando, ed in iſcrivé docon filoſofica libertà ripigliò Galieno, e gli altri anti chi, e nelle noſtre ſcuole tante fiare, e tante fè conmae ftra mano chiaramente vedere paleſi, e manifcfti agli oc chj di tutti i ſolennillimi falli, che iGreci, egli Arabi, ei Latini lor ſeguaci nel notomizare i corpi aveano in prima commeſli. A bello ſtudio poi non fò lo aleuna menzione quì di Baſtian Bartoli, non avendo huom, che non ſappia, che tra'vantaggi fuoi maggiori ei ripoſe il goder mai ſem pre, e valerſi d'una sóma libertà nel filofofare, colla quale egli conſumò l'impreſa d'un novello filtema di medicina. Ma che tanto infra i lettori Napoletani andarmipiù rav. volgendo, ſe tutti i maeſtri delle noſtre ſcuole da Diego Raguſi in fuora, che ſaldi, & interi i ſensimenti d'Ippo crate mai ſempre ſeguir volte, il qual pure, così in queſto, come in altro non ſi vide ſecondar nella ſteſſa maniera poi Popinion di Galieno, in ciaſcun tempo conformaronſi se pre con l'uſo del noſtro comun medicare il quale quanto dalla dottrina se da' ſentimenti d'Ippocrate, cdiGalieno s'allontani, avvegnachè il contrario comunemente fi giu dichi, agevolmente può da ciaſcun ravviſarſi. Ed Io,per chè di più non mipermette il tempo, daronne al preſente qualche breviſſimo ſaggio. E percominciar con qualche ordinato diviſamento, manifeſta coſa è, che gli argome ti maggiori, de'quali fornir ſi vuole la medicina, s'ella mai di giugner intende al ſuo laudevot fine d'approdare il genere umano, per comun ſentimento di tutti più ſaggiIp pocratici, e Galieniſti,a tre capi quali tutti, principalmen te fi riſtringano, nella Dieta, nella Cirugia, e in quel,ch' appreffo iGreci chiamaf; Φαρμακευσης. Intorno alla Dieta quanto da' due Greci Mae ſtri 118 Ragionamento Secondo 1 ſtri i Napoletani medici fian diſcordanti, dicalo ir mia vece quel famoſo Galieniſta Melaneſe Lodovico Set tala, (1 ) fuerunt, dice egli,quiprimis tribusfaltem diebus, aut inedia, aut tenuiffimo vietu laborantes exficcabant, pro grelu autem temporis cibos tum in forma, tum in quantita te adaugebant,quos Galenus in lib. method. med. pluribus in locis exagitabat. Hanc cibandi rationem fervare intelli go Hiſpanos medicos, Neapolitanos. Narra egli minuta mente il modo daʼnoſtri Napoletani tenuto nel cibare gľ infermi; indi poichiaramente dimoſtra eſſer ciò affatto con trario agli inſegnamenti d'Ippocrate, e di Galieno; la qual coſa aſſai già prima del Settala avea un de'famoſi maeſtri del paſſato ſecolo, Paolo Tucca avviſato,così nel la ſua pratica del medicar Napoletano dicendo,fciendum, quod longediftat modus dietandi Hippocratis, Galeni, & Avicenna, ab eo quem obſervamusdiebusnoftris. Illi enim principes voluerunt in febrium principio craſſiusfore reficien dum: in ftatu vero, aut nihil offerendum, aut tenuiſine dietandum. Nos vero quaſi oppoſitum obfervantes in ftatu reſumptive, in principio autem alternative cibamus. Ma da Paolo Tucca in poi non può di leggier crederſi quanto vie più da Ippocrate, e Galicno in cibar gl'infermi ſianli i noftri medici dilungati, e ciò fu cagione di quella famo fiffima difeſa, che ancora va per le mani de’letterati, fatta a pro di Giacomo Bonaventura medico di Clemente VIII. contro Mario Zuccaro, già in queſto noſtro ſtudio lettore per Maſſenzo Piccini da Lecce. Ma non che nella quantità, e nel tempo co'due Greci maeſtri i Napoletanimedicimanifeftamente conſentano, anzi nel modo ancora, e nella qualità de'cibi ſopratutto da color fi partono, di tutt'altrevivande nutrendo gli in fermi, che diquelle, che da’lor venerandi maeſtri ne fuz rono in prima ne’loro libri diviſate.E dove di grazia ſono ora l'acque melate, e l'orzate, e altri ſomiglianti beverag gj, cotanto da'Greci commendati, certamente in lor luogo i brodi di polli, e le peſte carnidelle galline nella noſtra Cit 1 (1) In comment. in problemat. Ariftot. ye Città ſi coſtumano.L'orzata, dice una volta Ippocrate (1) di ragion mi pare, ch’alle vivāde di fermēto ſia da antiporre, e lodo coloro, i quali l'antipongono. Iltocáva refü šv douée oefãs ποκεκείσθαι των σιτηρών γευμάτων εν τετέοισι τοϊσι νοσήμασι και εποι vÉo To's asforgivavtas. Ed altra volta dice, eſſer l'orzata oltremodo valevole ad umettare, e perciò a' febbricitanti recar grandiſſimo giovamento;a’quali ſecondo i fentimen ti di lui medeſimo, l'umettativo cibo è sépremai convene vole ed allo incótro le carni tutte nocevoli.E l'altro Greco maeſtro Galieno (2) oltremodo berteggia, c proverbia Pe trona,aſpraméte rimproverādogli, che agliammalati ſuoi có lor no poco nociimento concedeſſe le carni. Perchè ma nifeſtamente ſi comprende, i Napoletani medici irrorno al nutricar gl'infermi, anzigli ammaeſtramenti di Petronas, che que' d'Ippocrate (3) o di Galieno (4) feguire. Così è da dir, che le brodadelle galline non ſian da dare agl'in fermi di febbre, conciosſiecoſachè quelle al parer d'Ippocrate, e di Galienio abbian certamento vigor di ritenere, e di ſtrignere, dove l'orzata, ſecondo i ſentimenti di coloro, è mollificativa, e mezzanamente umoroſa,ne punto riſtri gnente, perchèqueſta, c non quelle a ' febbricitanti ra gionevolmente dar ſi vuole. Ma che direi noi del vino, che da’Napoletanimedici, non altrimente, che ſe toſſico foffe,a ' febbricitanti ſi victa? e di Galieno fir pur dato ad un'ammalato di febbre acuta, e come egli ne narra, di cal do, e ſecco temperamento; anziegli manifeſtamentene conſiglia, e ne conforta, che inzuppandovi il pane ſi dia, mangiare a'febbricitanti, anche talvolta nel comincia mento delribrezzo. Ne è già mio intendimento al preſente di dar giudicio fopra si futre quiſtioni, o ſopra tutt'altre, ch'io qui rap porti; ma ben ſolamente dico, ſembrarmi agevol molen, e piano il coſtumedel cibar Napoletano; e che null'altro, che dappoc.iggine, e vaghezza di riſparmiar fatica l'abbia in pri (1) lppocr. nel lib.i.della dieta (2) nel com. 1. fop. il 2.11b.della diesa ne'male Atw8. (3 ) nel s. della dieta. (4) nel 1.lib. della facoltà de'med.Jemplo in prima a'neghittoti Cittadiniportato, traſandandoſi co sì pian piano, ed abbandonandoſi quel d'Ippocrate, e di Galieno, che malagevole affai, ed intralciato a’beſci uc celloni medici delbarbaro ſecolo ſembrava. Iinpercioc chè, licome il primo de'Greci maeſtri dice, (1 ) e l'altro il conferma (2 ) eragione il richiede, dee il ſaggio,ed avve duto medico in prima ben avviſare quanto egli per durare il mal Gia,ed in ciò gli argomēti tutti del ſuo ſottiliſſimo in tendimento adoperare. Il che quanto ſia malagevole a certamente comprendere, ſenza reſtarne talvolta da' ſuoi avviſi ingannato, ciaſcun da per se baſtantemente, ſenza ch'io divantaggio gliele inſegni potrà ravviſare. E ciò ri chieſero ne'medicique’due maeſtri, acciocchè nelle brevi malattie debba ſempre con iſtrettiſſimo cibo nutricarſi l'a malato, e nelle men brevi non così coſto da prima gli fi menomi a ſpiluzzico, onde poi nel maggior avanzo del male ne venga debole, e ſpoſato, e ſenza poterſi con ar gomenti ajutare; ma pian piano riſtrignendogliele, poffin poi il medico nel colmo della malattia maggiormen te ſcarſeggiando, poco, o nulla concedergliene. Intorno poi alla Cirugia cgli è duro molto a credere, quanto da ſentimenti d'Ippocrite, e di Galieno, il medicar di Na poli ſia lontano. E laſciando da parte ſtare come quì ſu bitamente, e ſenza conſiderazion niuna in ciaſcuna febbre fi coſtumi cavar ſangue,contro il proponimento d'Ippocra te, anzidi tutt'altri medici del ſuo tempo, o più antichi, i quali, ficome narra il Cardano:in febribusnon folebant mit tere fanguinem,etiam ardentifimis; ora cavaſi a giorna te il ſanguenella noſtra Città, non ſolamente a’vecchi, e deboli, ma eziandio a'bambini di latte, e talora anche a' ſoſpettidileggeriſſimi mali; quando tutto il contrario di ce Ippocrate: Τα δ' οξέα πάθεα, φλεβοτομήσεις, ήν εαυρον φαί γηται το νούσημα, και οι έχοντες ακμάζωπ τη ηλικία, και ρωμη πανή aúrtorw. Ma negli acuti malori cavarſangue fi dee ove fire grande il male, e l'infermo giovane fia,e ben gagliardı, e vi goroſo. Il che richiede anco in molti, e molti luoghi Ga (1 ) ippocrate nit lib. 1.degli Aforij.nell' A or.7.8.9.10. (2 ) Gal.nel Com. * lieno DelSig.Lionardo di Capoa. IZI lieno (1) in un fra glialtri dicendo: si péya zo voonud reordea κoίημεν ειναι και η παρον ήδη θεoρoίημεν, ή αρχόμενον επισκεψάμενοι την ρώμην της δυνάμεως έξελούντος του λόγε μόνατα παιδια.. Dunque ſe noi temiamo non avvegna qualche gran malattia, oſe pre Jente quella già,o pure in ſu'l cominciar fia,avědo ben prima le forzedell'infermoconſiderate,aprirem poſcia la vena:So lamente da queſto divifamento i fanciulli riſerbădone. E po ſcia egli medeſimo l'età preſcrive., ove da prima i fanciul li ſegnare fi poſſano, dicendo (2 ), che non ſi debba no aprir le vene a' fanciulli, intin, che giungano all anno quattordiceſimo. E altrove (3 ) anche dice, che ſe le forze di colui, che ammalerà di febbre per putrefa zion d'umore,nel lor vigor dureranno, toito come coinin cierà ella a farſi vedere gli ſi converrà cavar ſangue: ſolo, che non abbia crudità nello ſtomaco, e l'età 'l conſentiſca, e le forze ſien robuſte; perciocchè altrimenti aon gli fi dee in modo alcuno aprir la vena. E quindi poco appreſſo ma nifeſtamente ſoggiugno: che ſe l'infermo farà bambino, o non giunto ancora all'anno quattordiceſimo,non gli fica coſa delmondo ſangue. Ne ſon da tralaſciare quel l'altre parole del medeſimo Galieno; le quali molto al no ſtro propoſito ſi confanno:ove ſpiegando tutto ciò, ch’al falaffo richiedefi cosi dice: (4 ) δεύτερG- σκοπός της φλεβότα μίας εςιν, ει ακμάζει καλά την ηλικίαν οκάμνων» ούτε γαρ παίς, ούτε γέ έων, φέρει την φλεβοτομίαν, ουδ ' αν μέγα νόσημα νοσώσιν. La fecd da cofaze che ſi richiedenel dover trar ſangue fiè,cheguardar fi deeſelámalato ſia giovane perciocchène i făciutli,ne i vec chiSoſtēgono ilfalaſſo,avvegnachèpur gravefase di riſchio la malattia, che loro dea noja: E tralaſciando di rapportare al triluoghi, ove ſempre il medeſimo, e'grida, e ripete, di rem ſolamente de'tempi, ch'egli giudica al ſalaiſo oppor tuni: mentre che in Napoli, ſenza alcun riguardo alle troppo freddo, o troppo calde ſtagioni avere, cavaſi co munemente in ogni tempo ſangue da Galieniſti, a' troppo.crcduli, e mal conſigliati infermi; i quali iinınaginano,an Q zi fer (1 ) Gal.della maniera del curare col falafo. (2 ) aelmed.luogo (3 ) nel mes. (4) nel.com.ſop.illib d'ippocr.della Dieta. vi per. 122 RagionamentoSecondo zi fermamente credono venir medicati ſecondo le regole di Galieno, e d'Ippocrate. E pure i noſtri medici nulla ba dano a’rigoroſi divieti di coloro, e maſſimamente di Gaa lieno (1) il qual vuole, che oltremodo ſi debba dal medi. co aver riguardo al temperamento dell'aria,ch'ella non ſia eſtremaméte calda, e ſecca, ſicome è infra'l tépo del naſci méto del cance dell'Arturo;e ravviſa egli, che tutti colo rosa'quali i medici nulla alle ſtagioni badado, traſfer fuora del ſangue, irreparabilmente morirono. Così vuol Ga lieno ancora che nelrigor del verno,ſia molto da temere il falaſſo, e dice effer manifeſta coſa, che da ciò molti, e gra vi pericoli ſeguir ne poffano. E perciocchè egli ſtima va eſſer ciò coſa di grandiſſima conſiderazione, dopo tan to, e tanto manifeſtarlaci, di nuovo con queſte parole la ci perfuade:(2 ) πτoσθήσω δε ένεκα του μηδεν λείπειν, τον από του περιέχον ημάς αέρG- σκοπών, όταν η θερμος ικανώς και ξηρος, ως διαφορεΐσθαι ταχέως υπο του που το σώμα τηνικαύζ γαρ αφισάμεθα της φλεβοτομίας 4 και μέγα το νόσημα, και ακμάζων ο άνθρωπG- άη - Ma acciochè nulla vi manchi, aggiugnerò quell'altra coſa, alla quale è di meſtieri averminutoriguardo,cioèa dire l'a ria, che ne circonda: e guardare s’ella fia sformatamente calda, e fecca, intanto, che molto ne venga a ſvaporare, ed sfalare il corpo; imperciocchè allora di ſegnar ci rimarremo: comechè graviſſima ſia la malattia, e l'huom per tofa, e robuſto. Ma no meno i Napoletani medici nel trar fangue avvifan punto ſe la compleſſion del corpo ſia fie vole, o vizzi, graffa, o ſcialba, nelle qualiſecondo il lor Galieno, avvegnachè grave infermità il richicgga,o nien te certamente, o molto poco fangue è da trarre; ma nien te in verità poi ne ſecchereccidella ſtate. Ma egli è omailuogo da tralaſciar per iſtrettezza di té po altre condizioniper Ippocrate, e per Galieno, al ſalaſ ſo richieſte, alle quali o poco, o nulla mai i Napoletani medici riguardar fogliono.Finalmente trapaſſando al ter zo ftruméto della medicina chiamato da Greci Maguáxeu ois dimoſtrerem brevemente, come ne precedenti abbiam (1 ) nel 1.lib.dell'arte curat. A Glaucone. (2 ) nel com. 4. fop. il lib. della Dieta. altro vigo manifeſtato, quanto i Napoletani medici in adoperarlo ſom gliano da Ippocrate, cda Galieno allontanarſi. Eglino in priina molti, e molti medicamenti coſtumano, che da Ippocrate, e da Galieno ne inen per nome conoſciuti già mai furono; ficome ſenza dubbio veruno son la Callia, i Tamarindi, il Riobarbaro, la Siena, la Scialappa,ilMec ciocano la Gottagomma, la China, la Salſa,ed altri aſſai, che per eſſer ben conoſciuti, e per non recarvi noja al pre fence tralaſcio. Le compoſizioni poi deʼmedicamenti nelle noſtre bot teghe introdotte, ſono il più,o dagli Arabi tratte, o da gli Ermetici filoſofanti; ina quel, ch'è di maggior conſdera zione nell'uſo de medicamenti puganti ſi è, che i noſtri medici Napoletani,laſciati da parte, ed abbandonati af fatto i due Greci maeſtri,van per diverſe tracce cammina do, ſenza ritegno, o ſcrupolo niuno di purgar audaciſfima mente in ognitempo, in ogni diſpoſizione di ſtagione, in ogni età dell'infermo, e in ogni ſtato di malattia:e purga do eziandio i corpi ſani, con far credere alla ſemplice, e credula gente, che cosìvoglia Ippocrate, e che così co mandi Galieno; imperocchè ingeneranſi continuamen re in noi vizioſi eſcrementi, da dover con gli argomenti delle purgagion continuo anche vuotare. La qual nuova coſtuma, quanto da Ippocrate, quanto da Galieno ſia ri provata ben ſi comprende da ciò, che Ippocrate una vol ta dice: φυλάσσεσθαι δε χρή μάλιστα τας μεσολας των ωρέων τας μεγίτας και μήτε φάμακον διδόναι εκόντος.Βifogna minutamire ri guardare alle grandi mutazioni de'tēpijacciocchè in quello no s'appreftino di leggieremedicamenti agl'infermi. E'l medeſi moIppocrate nó guari appreſſo, cosi parimétedice: jiti κινδυνόλαι ηλίκ τζοπαί αμφότεροι, και μάλλον θεριναί • και ισημερινα νομιζόμεναι είναι αμφόπραικαι μάλλον δε αι μετοπωριναί • δά δε και των άτρων στις επιταλας φυλάσσεσθαι, και μάλιστα τα κυνός· έπειά αρκλέρη, και επί πληϊάδων δύσει • τε γαρ νοστύμα μάλιστα εν ταύτησα τησαν ημίρηση κρίνεται και τα μου απο φθίνει, τα δε λήγα, τα δε άλα πάνω jebésalom és ÉTELOV GÒ Qu, weg,étépnu xatásamov • Pericolofifuno amē, Q.2 due iSolſtizi; eſpezialmente quel della ſtate; pericoloſo ale tresì l'uno, e l'altro equinozio; ma quel maggiormente dell' Autunno. E biſogna ancora aver riguardo al naſcimento delle ſtelle,mafimamentedella Canicola; quindi altramon. sar dell'Artaro, e delle Pleiadi; imperciocchè le malattie in queſtigiorni più, che in altriſi giudicano: altre morte recan do, ed altreſvanendo, o d'uno in altroftato facendo paſſag gio. E Galieno in altro luogovuole, che anche a ' tempi troppo caldi, o troppo freddipormente ſi debb.2; che lè'l temperamento della ſtagione, o del luogo ſarà qual'eſſer dee’del tutto ce ne terremo; ma ſe talnon è, purgheremo sì bene, ma molto meno di quel che faremmo, qualora ne l'un, ne l'altro il ci vietaffe. E del tempo della ſtate egli dice (1) confermando il detto d'Ippocrate, che ne'gior ni caniculari, cd avanti di quelli, malagevole, e danno ſo ſie l'uſo de'medicamenti purganti. E parimente in un' altro luogo (2 ) egli dice, che coloro, i quali, o per crudi tà, o per altra qualunque cagione accolgono abbondanzas di non cotto umore, oche più dell'uſato averanno gonfio, il ventre, e'l corpo tutto ingroſſato, non ſofferiſcono pur gagioni. Egli vuole altresì Galieno, che que'febbricicá ti, i quali abbondano d'umori crudi, che moleſtan loro lo ſtomaco, non ſi debban ne ſegnare ne purgare: A niun di coſtoro, ſono le ſue propie parole, e' fi fuole trar ſangue giammai, chenon gliene provengagraviſſimo danno,e come chè a lor faccia meſtieri la vacuazione, nonpoſſono nientedi meno eglino tollerare, ne le purgagioni, ne i Sala, fe fenza queſto ſincopizzanti pur fono: (3) éx' Sevd's twv Toroutwv cipecto της αφαίρεσης άνευ μεγίσης έωθε γίγνεσθε βλάβης· και τσι δέονται γε κενώσεως • αλ ' έτη φλεβοτομίαν, έτε κάθαρσιν φίρεσιν εύγε, και καρλς Tobrwv étaipuns ougróMorlar. Ed un'altra fiata egli medefimo dice, la ſoſtanza de' fanciulli infra l'altre tutte agevoliſſi mainente digerirſi, e diſliparſi; eſſendo ella ſopra tutte maggiorméte abbõdevole d'umore,comechè meno fredda ella fia: ma però men di purgagione aver biſogno, perchè da ſe medeſima ella vuotar li ſuole. Ed altrove ancora ma 1 (1) nel 14.lib. del metod. (2 )nelmetod,allib.9.(3) nel met, al lib.12. 1 nifeſtamente inſegna,che'l vuotare i ſoperchj umori, che nel corpo continuo ne s'ingenerano, non è di giovamento alcuno alla gente; anzi le alcuno per temna, che l'abbon danza degli cſcrementinon gli noccia, voleſſeſi avvezza. re a purgarſi una, o due volte il meſe, oltre al manifeſto nocimento, che gliene fiegue, prenderanne il corpo una dannevole, e peſſima uſanza. Ma ſopratutto, quanto al purgar gli umori nelle malattie, i quali abbian dicocimi to biſogno, da’ſentimenti d'Ippocrate, e di Galieno ina nifeſtamente ſi partono i noſtri medici; quantunque a tut ta lor poſſa con belle parole di dare a divedere altrui il contrario ſempre s'argomentino. Ne lo prenderom mi troppa briga di dimoſtrar ciò con lunghe, e ben’ordi nate ragioni;ma baſtcrammi ſolamente le parole d'Ippo crate, edi Galicno rapportare, acciocchè da quelle per ciaſcun comprender baſtevolmente ſi poffa, quanto nella crudità degli umori, onde cagionaſı il male,da coſtoro sé pre i medicamenti purgativi vietar fi fogliano, ſalvo,che radiſſime volte, e nel principio di quellemalattie, che có enfiamento cominciano. Ilmaeſtro di Galieno, e de' Ga lienifti, per quel ch'eglino tutto dì dicano,fipare, che ne ſuoi Aforiſmi, ne’qualibrievemente, quanto mai di buo no, o ſcritto, o oſſervato negli anni tutti della ſua vita egli mai aveſſe riſtringa, una cotal co? a con una general pro poſizionenediffiniſce; colla quale quanto altrove ne dice tutto conformaſi, anzi quindicome conſeguenza ſi cava; la qual coſa è sì chiara, e manifefta, che di vantaggio più manifeſtar non ſi può; perchè a confeſſarla per verail me deſimo Vittorio Trincavelli,non che altri funne coſtretto, oftinatiſſimo diféditore della cótraria fentéza.Egli aduque (1) così dice; ab hoc aphoriſmo cæteri omnes, qui huc fpe ctant, tanquam corollaria deducti ſunt: ed oltre a ciò ſog giugne: ita ut nullam aliam exceptionem admittat, niß eam quam ipfe expreffit: quum morbusturget. Ed è l'Afo riſmo, il qual da Galieno,oracolo fù chiamato una volta, cosi (2) Le materie cotte purgare, e muover fi debbono; mas, non (1 ) del confer.la fan.nellib. 4. (2) nell'afor. 22. dellib. 1. -non già le crude; nemica nel cominciamento; ſe nonſe allor, che turgidefono,malepiù volte turgide non ſono: Témava Pago μακεύειν, και κινέαν, μη ωμα, μηδε εν αρκήσιν, ήν μη οργά • τα δε πλά sve oux ogy: Intorno alla qual voce opgør mi par doverſi cô. fiderare, che in queſto luogo appreiſo Ippocrate altro non dinoti, che diſiderar ferventisſimamente, e con impazien za; ed avvegnachè non men dell'animate, che delle inani mate coſe dir ſi ſoglia, tuttavia più acconciamente agli animali ella conviene, ſecondo il ſentimento di Galieno,il qual forſe da ARISTOTELE (1 ) appreſo l'avea. E diceſi di quegli animali,che tratti da iinpetuoſa foga di libidine ſtā no in ſucchio, e come diſſe Virgilio In furias, ignemque ruunt: quindi preſeli la metafora degli umori nel corpo uma no, i quali avidi di fcappar fuora,ſtrabocchevolmente, e con impeto, diparte in parte ſi muovono, non laſciando aver punto di ſoſta al povero ammalato. Ma noi, avve. gnachè diſcorrimento, o foga più ſaggiamente da dir ſia, o enfiamento, o pure con nuova voce alla noſtra lingua Turgenza, o Turgidezza: dal gonfiare, o ſia enfiare,e dal turgere diciamo ad imitazione dique'valent’huomini, che nel latino linguaggio‘l'opere d'Ippocrate, e di Galieno traportando,preſero la voce turgere: onde poi novellame re ne diramaron quell'altra Turgentia, ad orecchio latino de'buonitempinon mai più per quel,che mi paja per l'ad dietro udita: gonfie, e turgide parimente chiamiamo, quelle materic, che a si fatto movimento ſoggiacciono;ed in verità gli umori, che’n tal guiſa ſi muovono, ſi formen tano, ſi rarefanno, egonfiano. Ma alla coſa ritornádo: queſto Aforiſmo appunto cófer mafi per quell'altro (2 ) Nel cominciamento delle acute ma lattie di rado lepurgative medicine da uſar ſono: e ciò con diſcreta avvedutezza ſide'fare: iv Toirov ožico maderav énezaéxus εν αρκήσι τησι φαρμακείοσι χρέεσθαι, και τούτο πξοεξευκρινήσαν τις sterkev. Per la qualcoſa avendo egli in priina avviſato, che folamente quegli ammalati da purgar fieno, ne' quali liu mate (1 ) nel lib.o dell'iſtoria degli animali: (2 ) nel 1.degl' Aforiſmi.materia, onde il mal s'ingenera, ben cotta, e digerita ſia, fe pur quella non turge, è che rade volte ciò avviene; e ritrovandoli nel cominciamento di tutte le malattie mai ſempre cruda,e non digerita la materia: fiegue di neceſſità, che rade volte in ſu'l cominciar delle malattie, fieno gl’in fermi da purgare. Ed è pur piacciuto ad Ippocrate, ſcar ſo altrove di parole, enegli aforiſmi ſenza fallo ſcarſiſsi mo, e riſtretto, oltre ad ogni ſuo coſtume quivi la mede fima coſa avvedutamente ridire,acciocchè per tutti i me dici l'importanza di sì grave precetto avviſar ſi debba, ed apprender quanto quello lor faccia di meſtieri, e di riſchio fia a travalicare. Etali Aforiſmi con avvedutezza non or dinaria chioſando poi Galieno,oltremodo ciò ne impone, e ne accomanda: e sempre, che egli di tal biſogna impren de a dire, toſto a quelli ne rimanda,comea faviſſīme nor me, che il tutto intorno a tal materia perfettamente con tengano. Ed avendo in un'altro Aforiſmo Ippocrate parimente detto; ne'mali oltremodo acutifon da purgare il medeſimo giornogli ammalati, ſe vi è gonfiamento; concioſiecofachè allora l'indugiare è dannoſo affai(1) Papuaxetes, év toñosning οξέσιν, ήν οργα, αυθημερον• χρονίζαν γαρ εν τοϊσι τοιούτοισιν, κακον Galieno però vuole, ed eſpreſſamente n'impone, che an che in queſto caſo dell'enfiamento, il che molto di rado 'avvenir fuole, vi s’abbia in prima ben bene a riguardarc, e penſare, cioè con tal riguardo,e ritegno adoperare, che nulla più: ne meno ove fia enfiamento purgando, ſe il cor po valcvol non fià a ſoſtenere il purgamento; perchè aj tal propofito Galieno dife (1 ) ώς τ' ευλόγως ολιγάκις εν τοις οξίσιν νοσήμασι κατ' αρχάς γενήσεξι ημϊν χρώα φαρμάκων, τω μήτε πολάκις οργάν εν αρχή τους λυπούνας,μήτε, ά και του υπάρχει και του κοσουνίG- αν επιληδεία προς την κάθαρσιν όντG-, αλα μηδέ καιρών ημίν παρέχοντG- επιτήδειον παρασκευάσαι. Per la qual cofa nelle acute malattie ragionevolmente operando, di rado, nel prin cipio impiegheremo noi purgative medicine; concioffiecoſachè gli afflittivi umori, nel principio le più volte, ſtuzzicati non fieno, (1 ) nel lib.di que'che convien purgare.fieno, e potrebbe intervenire altresì, che ove eglino fienosi fattamente ſtuzzicati, allor non foſelo infering a fojtener la purgagione adatto. E più addietro, de' medelimi umo. ri favellando avendetto: τους ούν τοιούτος εκκενούν πξοσήκες, τε τέσι τους εν κινήσει, και φορά, και ρύσι • τους δε καθ' έν πμόριονεσηεγμέ νς,ούτ' άλω πνι βοηθήματα χρή κινείν, ούτε φαρμακεύειν, πζίν εφθή. ναι: τηνικαύτα γας και την φύσιν έξομεν βοηθούσαν. Αdunque con venevol coſa è, che cotali umuri ſtando in continuo moto, e diſcorrimento, e fluffo, fi vuotino; ma que', che in qual che luogo del corpo giä ſi ſon fermati, ne con argomento alcu no, ne con purgativa medicina damuoverfono, anzi che fieno ben digeriti; imperocchè allora anche la natura dello infermoalla purgagione fauorevole auremo. Ma il principio delmale, ficome ne inſegna Galieno, prendeſitalora per lo primo aſfalimento, o quando da prima comincia a chiocciar l'ammalato; altre volte anche inſino a’tre primi giorni; e aſſai ſovente per tutto quello ſpazio di tempo,nel quale niuno affatto, o troppo debi le, e oſcuro ſegnal di cocimento ſi pare. E'l gravamento, o accreſcimento del male liè, quando manifeſtamente il cociinento, o pur ſegnia ciù contrarj ſi ſcorgono; e dura finattanto, che alla dovuta perfezione il cocimento ridu caſi; per la qual cofa allora maggiormente le moleſtie, e le noje degli ammalatiad accreſcer ſi vengono. Ma il gó fiamento avviene, o toſto, che alcuno ad ammalar comin cia, o non molto indiappreſſo, cioè nel primo, o nel ſeco do giorno, ſicomc par, che in più d'un luogo avviſi Ga licno. Ma ritornando al tempo delle purgagioni: ſo ben’In, non eſſer paruto ſaggio a Galieno il diviſo di colui, che volle,non doverſi porger giammai le purgagioni, anzi de' primi tre giorni: ma ſi ben dopo il quarto, a coloro, che patiſcono ſcorrimento di ventre; il qual parere egli ri provando, conchiude così dicendo: Egli adunque è di meſtiere, che non già dopo il terzo giorno fi pergano imedica menti, ma ficomediceapertamente l'aforiſmo(1) Negli acu. 11 111.1 (7) L’Aforij.24.ditlib.i. ' DelSig.Lionardo di Capoa. 129 - ti malori di rado,e nelprincipio dobbiam delle purgagioni va lerci. E perciò ci biſogna diffinir la coſa giuſta la mente de gii aforiſmi, ed inveſtigar ove abbiamo a purgare in fulprin cipio, ed ove abbiamo ad attendere il cocimento del males. Imperocchè fe alcun determinerà ſolamente nel principio, o non iſtabilirà alcuna delle parti, rimarràſenza fallo ingan κato. πτοσήκεν ουν ούχ ως πανώ μεία τας ταϊς, αλ' ώσπερ ο αφορισ μός εςι τοϊος • έν τοϊς οξέσι πτέθεσιν ολιγάκις, και εν αρχίσει τησι φαρμα κίησι χρέεσθε, και χρή καλα τους αφορισμους διορίζεσθαί τε και σκέλεσθε, πότε κατ' αρχάς έξι χρησέον τη φαρμακείη, και πότετην πέψιν αναμείναν. τιτε νοσήματος. έαν δε πς ήτοι κατ' αρχάς είπoι απλώς, και μη διορισάμε. ν ©·, εκάτερον σφάλετε: Adunque per Imanifefto fentimento d'Ippocrate, c di Galieno, di rado nel cominciamento delle acute malattie da inuover ſono gli umori, e nell'avā zo non mai, ma ſolamente,facendo di meſtiere, nello ſce mo del male. E ben ſaggiamente troppo, ſecondo che ad huom paja, in tal biſogno ſpeſe più lunghe parole l'av vedutiſſimo Ippocrate più, e più volte i medeſimi ſen timenti divilaudonc; imperocchè egli avviſava graviſ ſimno danno dal muover gli umori crudi dover certamente ſeguire. Perchè altrove favellando egli di que', che pur gano nel principio dell'infiammagioni: il che Galieno nel comento vuol, ciic s'intenda anche, di que' tutt'altri mali, chedagli umori procedono:dice, che per coſtoro nulla dal luogo offeſo certamente ſi vuota, non mai cedé do alla forza del medicamento, ciò che ancora è crudo ma per lo medicamento debilitanſi, e ſciolgonſi più coſto quelle coſe, che ſane eſſendo, al inal contraſtano, per chè infievolitone il corpo, agevolmente farà dal mal ſo verchiato, ed abbattuto: ne potràricoverarſi più mai per argomento alcuno » ο κόστ δε τα φλεγμαίνον εν αρχή νόσωνευ θέως επιχορέασι λύειν φαρμακη και του με ξυνεταμένου, και φλεγ μαίνοντG- έδεν αφαιρέσον • γαρ ενδιδοί ώμον εον το παθG-, τα δε αντί. χον% τω νεσήματα και υγιεινα ξυντήκασιν ασθενές- δε του σώματG- κνο μένα το νούσημα επικρα ]έι · οκόταν δε ονούσημα επικρατήση του σώ μας το τοιόνδε ανιάτως έχα. Ma ſe ciò per buona ventura dell' ammalato pur non R gliene liegue, non per tanto certiſſimi danni, ed irrepara bili avvenir gliene debbono; e ſe non altro, certamente gliene andrà alla lunga il male, e ſconvolgeraſli il giudi cio, che ſopra quello da dar era; ſicome non una, ma più fiate Ippocrate,e Galieno (1) pienamente ne dimoſtrarono. Ora quì, chi non iſcorge allai chiaro, che minorar ſecon do Ippocrate, e Galieno non mai li puote la cruda mate ria, come beſtialmente ſi perfuadono i noſtri mcdici; i qua li tentan ciò fare colle ininoranti, che lor dicono,medici. ne. Ma comechè in ciò grandiſſima arte, emalizia ado perar ſogliano coloro, che ſon di contrario ſentimento, p coprire, e naſcondere al Mondo, la manifeſta lor ribellio nca’maeſtri; pur non fanno sì fare, che da ciaſcun non li conoſca, e non ſi ſcopra la ragia, onde ne reſtin poi vergognoſamente dinnentiti, e convinti; così ſciocche ſon le chioſe, eicomenti, co' quali ſi ſtudiano a tutta lor poſſa d'inviluppare, e travolgere gli apportati Aforiſ mi, e con lor ciance far calandrini, non ſolo la volgare, e cieca gente, Cheficrede ogni coſa, che l'è detto: ma col volgo ancora que'letterati, che poco, o nulla a sì filtre coſe,avvegnachè digrandiſſima conliderazione, ſo glion badare. E certamente non poſſo non maravigliarmi forte della lor tracotanza: ſe così poco, o nulla eli riguar dando alla ſtima di sìvenerandi maeſtri, ad ogn'ora così vituperevolmente gli beffano. Perciocchè volendo coſto ro, che nella copia grande, nella malizia, e nella ſorti gliezza degli uniori, e ſomigliantemente ne'caſi di confi derazione, o per riguardo della dignità della parte offeſa, o della gravezza del male, o della grandezza delle cagio ni, o del pericolo imminente, o per altre ragioni ſia das purgar l'ammalato, tutto che la materia cruda lia, e non pur nel principio, ma nell'aumento, e nel vigore delma le: o ciechi affatto, e diflennati; e pure ſcioccamente ma lizioſi, e maligni apertamente a tutti ſi fan vedere, non ſolo, perchè vengono ad accagionar di ſoppiatto, ſe non (1) nel lib.4. della dies. p.44. di malvagità, di traſcuraggine almeno, i lor maeſtri; poi chè in materia di tanta conſiderazione, ne Ippocrate, nes Galieno di cotalicaſi han fatto menzione alcuna, comes certamente doveano; ma anco, perchè, o non avviſano, o fingono dinon avvederſi, che poco men, che ſempre; o una, o più delle coſe per lor dette, ne'mali acuti ſi trova no. Laonde, ſe tale veramente, qual per loro fi finge, li foſſe ſtata veramente opinione d'Ippocrate, e diGalicno, aurebbon elli in verità tutto il contrario dovuto dire: cioè, che no miga già di rado,come dicono, ma ſovétiſſimamen te, o poco men, che ſempre nel principio degli acuti ma li ſi debba purgare, e che nell'aumento, e nel vigore di ef fi ciò anche ſi debba eſeguire. Ma pure per iſchermirli da cotal colpo s'argomentan coſtoro di traſcinare a'lor ſentimentiqualche ſentenza de'loro maeſtri: da cui tutt'altro certamente ſi compren de, che qucl, ch'elli intendono. Ne dovea in buona veri tà Ippocrate, ſe pure frenetico, e mentecatto egli del tut to non era, in que'luoghi, ove del gonfiaincnto ſolamente fe menzione, non annoverarvi ancora quell' altre condi zioni, per le qualis’aveſſe parimente a purgar la materia, non anche al debito cocimento pervenuta. Che ſe non è da dire, lui quivi averle per balordaggine dimenticate, masſimamente negli aforiſmi, ove tutto il ſuo ſtudio,e tut ta l'avvedutezza maggiore egli logorò, perchè per ogni parte perfetta l'opera riuſcir doveſſe, biſogna di neceſlicà conchiudere,talenon eſſer mai ſtato il ſentimento di lui, cioè a dire, che gli umori non cotti, anche ove gonfiamé to non foſſe, a purgar s’aveſſero • E Galieno, che così abbondatisſimo di parole egli ſi fu, che anche in coſe di niun momento vanamente alla lunga ſcialacquolle, come poi vogliam dire, che in materia di tanto affare, oltre al ſuo natural coſtumeaveſſe affatto ri ſparmiate. E certamente non ſi dee in niun modo crede re, ch'egli così traſcurato ſi foſſe, che quivi ancor nons v'aveſſe fatta la ſua diceria, fe ftato foſſe meſtieri, diviſan done a ſuo modo quáto n’abbiſognaffe in que'caſi'la pur R 2 gage ga, e quanto ſtrabocchevoldanno, e nocimento, traſan dandola,per ſeguir ne foſſe al malato. Ma certamente no fu tale il ſuo ſentimento, ficome cotefti diffeonati ſquali modei vogliono follemente darne a divederc. E ben avvi faronlo anche molti valentisſimi Galicniſti, cosìdel paſſa to, come del preſente ſecolo; masſimaméte Giulio Ceſare Claudino, avvegnachè del purgare ainicisſimo, pur nõ po cédolo ricoprire apertisſimainete cõfeffollo,dicédo: Equia dem fic exiſtimo valdè efe probabile, mentem efe Galeni, a Hippocratis, cruda materia nunquam efſeexhibendum phare macum excepto uno turgentia caſu. E di lui molto innanzi Giovan Manardi, che per conoſcerſi bene della greca fa vella, e perciò più leal interpetre de’veri ſentimenti d'Ip pocrate eſſendo,così delle purgagioni nel principio delle malattie, ebbe a dire. Et licet Hippocrates dicat buc raro faciendum, nos rationibus adductismoti, crebrius id face re poſſumus, debemus. E de’noſtrimedici replicar po trebbe Aleſſandro Maſſaria ciò, che del Manardi e di tute' altri del ſentimento di lui già diſſe. Hippocrates ducet,ra roin morbisacutis effe medicamenta adminiſtranda: contra non defunt Manardus, &alii,ſidiis placet, Heroes, qui audent affeverare, illa effe crebrius, immo Semper admini ſtrandas. Ma omai s'è táto oltre in diſpetto di Galieno, e d'Ippo crate l'uſanza di purgar la materia cruda pian piano avan zata, che ove in prima non altri medicamenti ſi metteva no in opera, che piacevoli, e deboli, ne più, che una, o pur due volte: ora a gran dovizia grandi,ed efficaciſſime purgagioni cosìcompoſte,come ſeinplici, da'noſtri Galie niſti largamente diviſanſı; e ſe pur talvolta, o per tema, che n'abbiano gl'infermi, o per altra cagione, alquan to più lievi, e deboli loro le impongono, nondimeno, o con accreſcerne la quantità, o con meſcolarvi per entro alero in ggior medicamento, o collo ſpeſſo reiterar delle medicine coſtringono maggiormente a vuotarſi il corpo con dannograviffimo, e irreparabil riſchio degli ammala ti; fe puread Ippocrate preſtar fede noi vogliamo; il qual ficome di ſopra è detto, tante, e tante fiate manifeſtol loci: e Galicno medeſimamente, il quale oltre a ciò av vifa, che 3Gν αρχηταί η νόσημα των εκκρινομένων αδέν έκκρίνε. αι τίωικανά τα λόγω της φύσεως, αλ' έσιν άπαντα συμπτώμα των εν τω σώματι παρά φύσιν, διαθέσεων • ν ώ γας χρόνω βαρύνεται με υπό των νοσωδών αιτίων η φύσις, απεψία δ ' ες των χυμών, εν τέλω κενέσθαι τη χρησώς αδύνατον • πτοηγάσθαι μεν Κρή πέψιν, ακολα θησαι δε διάκρισιν, 49' εξής κένωσαν την αγαθή γένηται κρίσης. Cioc. quando alcun male comincia, ſe cofa maiavvien, cheppura ghi, allor certamentenon purgheraftſecondonatura, ma ciò Farafficontro le diſpoſizioni diquella; imperocchè,'quando la natura vien aggravata dalle cagioni delle malattie, ma fon crudi gli umori, allora impoſſibil coſaè, che alcuna eva cuazionefelicemente rieſca,concioffiecofachèfadi meſtieriche in prima il cucimento, quindi lo fceveramento, e finalmente l'evacuazion ſi faccia, perche ſia buono il giudicio. E fomi gliantemente in quel luogo ove dice.Per la qual coſa effen. dovi nelcominciamento delle malattie sēpremaiſegni dicru. dità, ſemprealtresi nocevol ſarà, e darnofa l'evacnazione di si fatti umori: ώς τ' εα ειδη κατα την αρχήν τα νοσήματος απε. ψίας εσιν αι σημάα, μοχθηρα δια παντός έσαι των τοιέτων χυμών ή xívwos: E quindi, per tacer altri luoghi, ſi ſcorge quan to vadano errati, così coloro, che follemente immagina no non aver vietate altrimenti quelle purgative medicine, cheminorantieſſi chiamano, no Ippocrate, ne Galieno nella crudezza degli umori: comequegli altri ancora, che ofano affermare, che Ippocrate, e Galieno, non per al tro vietafler le purgagioni, che per non eſſer note loro, ſe non che quelle purgative medicine, che violenti ſono nell'operare; il che però eſſer molto, e molto dal veroló tano chiaramente ogn’huom vede; imperocchè per tacer del latte rappreſo, dicuicosì ſovente Ippocrate ſi valles certiſſima coſa è, che gli antichi ebbero contezza della Mercorella (la quale per poco val quanto la Siena) dell'E pittiino, della Fumaria, dello Goico, del Polipodio, dell'Agarico, il quale per Galicno malamente venne ſti mato radice, comeche fungo egli veramente ſia, e d'al tre, e 1 tre,e d'altrebenigne purgative medicine. Ne è daracer qui, cheGalieno dice a Glaucone, che dar egli debba l’Aſsézio, leggeriſſimo, ſenza fallo, medicamento, nelle terzane, allo ra quando apparir ſi veggano i ſegni del cocimento. Ga lien parimente viera, cheſi deanell'infiammagioni interne la Iera di Temiſone, leggeriſſima medicina, ſe non che quando la materia ſarà al cuocimento pervenuta; ed avve gnachè alcuna delle accennate medicine lenitiva ſolamen te fia, nondimeno, come la ſperienza, ne inſegna data in quantità grande divien purgativa. In quanto all'Epit timo, ed alPolipodio, Galien dice chiaramente eſserel Jeno benigne medicine,e che moderatamente purgano (1) E quanto è a me, Io porto fermiſſima opinione, che lo pocrate, e Galieno aveſsero dalle continue, e diligenti of fervazionide'Sacerdotidell'Egitto un tal parere appreſo; e perciò eſſer'avvenuto, che così ſtabilmente poſcia l'avel fer ſempremai conſervato; eche dall'Egitto le sì fatte of ſervazioni quel gran padre della filoſofia, e medicina Ita liana,Pittagora,in prima aveſse nella Grecia recate; quel Pittagora lo dico, di cui altri ella non vide, da Democrito in fuori, che il pareggiaſse, non che con lui poteſse entra re in gaggio, o'l ſuperaſse giammai. Ma che Pittagora, foſse di tal ſentimento, egli li par manifeſto per quel che nc fia ſcritto in quel celebre Dialogo, che della natura dell'univerſo compoſe il divino Platone, la ove Timco no biliſſimo Pittagorico introduce delle purgagioni in ſimil guiſa a favellare. La terza ſpecie del commovimento ſuol riuſcir, ma non però ſempre giovevole ad huom, che da grave neceſſità vi ſia tratto; ne altrimenti da chi ſia di ſana mente è da uſare, cioè quella forte di medicina purgativa; * imperciocchè que’mali,che no ſono guari pericololi, non ſono da ſtuzzicar con purgagioni; concioffiecoſachè la di ſpoſizione di ciaſcun male fie ſomigliante alla natura degli animali: c certamente la coſtituzion dicoſtoro è talmente ordinata, che generalmente ha i termini della vita già ſta biliti, e qualunque animale ci naſce, con fatale, e deter mina (1 ) nelmerodal.lib.13.6.15. minato ſpazio ncmena egli i ſuoi giorni: trattone fuora quelle paffioni, che di neceſſità avvengono; imperocchè i triangoli dal naſcimento di ciaſcú d'eſso loro tal virtù ſor tiſcono, che ſol yale a mantenere il loro ordinamento per infino ad un certo tempo, oltre al quale a niuno è conce duto dipoter più avanti allungar la ſua vita. Lamede ſima diſpoſizione adunque è data alle malattie, e ſe altri colle purgagioni contro al fatal tempo ſconccralla, al lora di piccioli,grandi, e di pochi, molti diverranno; il perchè col regolamento del vitto le sì fatte malattie ſon da correggere, e rintuzzare, per quanto a ciaſcun veriì, ad huopo; ne il durevol male con medicamenti irritar fi dee: Πίτον δε αδG- κινήσεως και σφόδρα ποπ αναγκαζο μένω χρήσιμον, άλως δε ουδαμώς τα νούν έχοντι προσδεκτέον, το της φαρμακευτικής καθάρσεως γιγνόμενον ιατρικών • τα γαρ νοσήμα όσα μη μεγάλος έχει κινδύνες, ουκ ερεθισέον φαρμακείαις · πα σα γαρ ξύτα στις νόσων, όσον πνα τη των ζώων φύσει ποσέρικε και γαρ η τούλων ξύ. νοδG- έχασα πάγμένες του βίον γίγνει χρόνος, του ο γένες ξύμ. παν G καθ ' αυτό το ζώον ειμαρμένον έχον έκαςον, τον βίον, φύει χωρίς των εξ ανάγκης παθημάτων • το γαρ τσίγωνα ευθυς καρχας εκάσων δύναμιν έχον & ξυνίσταται μέχρι πνος χρόνε δυνατού εξαρκών, ου βίον ούκ αν ποτέ τις ας το περgν έπ βιώη» τόπος ουν αυτης και της πε και τα νοσήμα ξυάσεως ήν • όταν τις παρα την ειμαρμένην του κράνε φθείρη φαρμακίαις, άμα εκ μικρών μεγάλα, και πολλα εξ ολίγων νοσήμα τα φιλί έγνεσθαι· διο παιδαγωγών δεά διαίταις πάντα τα τοιαύται καθ, όσον αν και τα αλή » αλ ' ου φαρμακεύοντας κακον δύσκολον ερεθιστον, Ma diſcédédo a qualche particolarmalattia,egliè da ſapere che fu ſentimento diGalieno, che in quelle febbri, che portan ſeco i flulli da purgar giāmai,ne da ſegnar fia l'am malato, quantunque ben fi pareſſe, che la materia per la ſoccorrenza uſcita, non foſſe ella alla debita purgabaſtá te, o altro vi foffe da dover cacciar fuora nell'ammalato; ſoggiugnendo manifeſtamente Galieno al ſuo Glaucone, eſſervi ſtatialcuni, che ſcioccamente in sì fatto caſo ab bian condotti, preſſo che a gli ultimi sfinimenti, gl'infer mi. Mai noſtri mediciavvegnachè d'eſſer di Galien fede liſſimi ſeguaci ſommamente di pregino, pure i ſaldiſſimi ann maeſtramenti di lui affatto traſcurando, a lor talento, e purgano, e ſegnano in ſomiglianti caſi, nulla guardando a’riſchj, che, ſecondo egli avviſa, ſeguir ſovente ne pof ſono. Così ſomigliantemete Galieno nelle febbriſincopa li (p tacer della diffenteria)vieta in tutto il falaſſo, e le pur gagioni'; e pur coſtoro arditamente contro i ſentimenti * del lor maeſtro tutto dì ve l'adoperano. Così anche nel la puntura quando appajano gli ſputi del ſangue,e nel do lor delle coſtole, vieta apertamente Ippocrate l'aprir la vena, ſe pure nel dolor delle coſtole qualche manifefto ſe gno d'infiammagionenell'interiora non appaja. Ma cote iti diſcreti diviſamenti del loro Ippocrate non altrimente, che vaniſſime fuperftizioni fi foſſero diſpregiando i noſtri Ippocratici medici, baſta ſolamente loro in tali avvenime ti, che col dolor vi ravviſin la febbre, che come in prima poffono, cosìin diſpetto d'Ippocratc,e di chiunque ad Ip pocrate crede, per iſvenare i miſeri cattivelli arruotano barbaramente le lanciuole, direbbe Proſpero Marziano per avventura. Ma dove laſciato avea lo il purgar le dó ne levate appena del parto, e non paſſati ancora i termi ni fatali aſſegnati apertamente da Ippocrate a ciò conve nevolmente operare? E dove nelle lunghe malattie, nelle quali la materia ha maggiormente di cocimento biſogno, ne fegnal d'enfiamento eſſer mai vi puote, il purgar de’no Itri medici contro i manifefti divieti d'Ippocrate, e di Ga lieno:E dove il cibare a roveſcio gli ammalatise non guar dar punto all'età de'fanciulli, e de’vecchi, o alle ſtagioni dell'anno, e cento e mille altre coſe di grandiſſima confi derazione, ovemanifeſtamente da’lormaeſtri ſi partono? Troppo largo campo o Signori da valicare aurei, s’lole voleſti fil filo tutte narrare: ne per poco di venirne a capo Io ſpererei, Ma come ciò avvenuto ſia, che in tante coſe, e malli mamente nel purgare, c nel trar ſangue dal loro Ippocra te, e Galieno i noſtri Galieniſti partiti fi fiano: e che ezian dio que' che han riſtorata la lor medicina, e ſottrattala al l'arabeſca rozzezza, pure travalicando i lor diviſi abbia no in ciò manifeſtamente fallato; lo ciò giudico avvenirc, perchè gli ammalati, e i lor parenti, efamigliari ſian ſem pre deſideroſi oltremodo di rimedj, e ſpezialmente di quei, che per manifeſta vacuazione adoperar fi veggono; come fe da quelli il lor ſalvamento, e non più toſto la lor morte dependa. Perchè nelle malattie, e maſſimamente nelle più gravi, e nel vigore, e accreſcimento di quelle, ove l'intermo maggiormente languiſca, per non moſtrarſi i me dici ſcioperati ſenza ajutarli con argomento niuno, fi va gliono di cotali medicine, e talor vi ſono dagli ammalati medeſimi, o da congiuntidi coloro contro lorvoglia i me dici menati; perchè altrimenti a color non ſarebbon a grado. E quinci anche è, che alcuno de’moderni intro duttori di nuovi ſiſtemidi medicina,abbian ritenuti in par te sì fatti modi di inedicare: non perchè egli veramente crcda, che ſien valevoli conſigli, da riſtorare ammalati; ma perchè egli avviſa in tal errore eſſer già foinmerſa, ed incallita la gente, che ſe altriméti adoperaſe,niuno certa o pochiſſimi ammalati da medicar gli giugne rebbono. Adunque manifeftamente da ciò, che detto è compré der ſi puote, che purtroppo grandemente nel medicare, da Ippocrate, e daGalieno i Napoletanimedici ſi diparto no, e s'allontanano; emolto più aſſai di quel, che'l Paracelſo, e l'Elmonte ſteſſo, e altri moderni ſpargirici, o altri, ch'elli fieno, per avventura ſi facciano. Mafi laſci ad altri la briga di ciò conſiderare: baſti a noi il ſapere,co. me ancora da ciaſcun Galieniſta Napoletano ſi viene con fatti a commendar ciò, che con parole da alcuni di loro manifeſtamente ſi biaſima; e come ancor' eglino laſcia no il loro Ippocrate, ed il loro Galieno, ove lor venga in talento: e che tutti igualmente abbandonando l'an tiche ſtrade più ch'alle cieche autorità de' creduti maeſtri, alla ragion ne laſcianio guidare. E perciò per Dio ceſſino coſtoro d'abbajare addoſſo a’moderni medi canti, e di mordere, e di lacerar tutto dìla loro lode vole libertà, ne mai più per innanzicon uggia, e crepa mente > S cuore ſi ſtudjno di contradiarla, e di metterla in fondo; poichè, come per addietro ſi è fatto per noi manifeſto, da' più ſublimi ingegni,che ſtati fieno in ciaſcun tempo s'è ab bracciata, e mantenuta da' più nobili ſcrittori, edalle più illuſtri Accademic, e Scuole dell'Italia, della Lamagna, della Francia, dell'Inghilterra, della Svezia, della D2 nia, della Polonia, e da tutt'altre parti del mondo glorio famentc ſeguita. Ma riſerb.andomi di ciò favellare a miglior huopo, ri tornerò pure a'piati,ed alle conteſe deimedici; onde già mi partii. E quantunque fin'ora per me molte narrate ne ſieno, pur molte ancora, e quaſi infinite a raccontar ne rimangono; le quali poichè mi pare d'aver oggi ragionato a baſtanza, e già il ſole comincia a gir ſotto, riſerberolle. alla ſeguente aſſemblea. RA 139 j: Milli Beda Vantunque volte meco ſteſſo penſando rammento quel tranquillo, e feliciſſimo ſecolo, che meritevolmente dell'oro per ciaſcuno vien detto: tante a biaſi mar la preſente, e miſerevol noſtra età; quaſi di forza ſon tratto. Non pure, perchè a quella la terra dall'aratro non ancor tocca, tutto ciò, che al mantenimento di noſtra vita abbiſogna abbondantemente produceva; ed ora a romper zolle col Vomere, e col Raſtro, a ſveller pru ni c ſtecchi anza, e ſuda, e talora anche in darno il Bi folco; ne perchè allora, e nuvoli, e nebbie,e tempefte ', c turbini non intorbidavano, ficome or fanno, i lucidi ſereni dell'aria; ne perchè l'eſecrabil fama dell'oro, non ancor ſignoreggiava il mondo: reſo ora ſcellerato, e crude le, poichè fol vince l'oro, e regna l'oro; ne per tant'al tri privilegj, che diquella s'annoverano, de'quali altro che un'intenſo deliderio, ch'il cuore acerbamente ne pun ga a noi non n'è rimaſo; ma ſi bene perciocchè, e liti, e S 2 piati, econtefe, ed armi,eguerre non allignarono. No arruotava le zanne a mordere il cinghiale; non digrigna va i denti il maſtino;non rabbuffava il doſlo il Lionefra; l'erbe, e fiori s’appiattava ſenza veleno l'angue. Ma che è ciò? l'huomo, l'huomo di tutt'altri animali duca, e ſigno re non fabbricò nave, ch'apportaſſe guerra agli altrui li di, non forbì, non arruotòferro periſvenar l'altrui petto: non aſſordò l'orecchie con iſtrepito ditrombe, di corni, o di bellicofi tamburi; vivea ciaſcun ficuro ſenza il riparo di murate Città. Ed a'dinoftri, che più fi tenta, che più fi machina, ove più fi bada, fe non ſe a' nuovi ordigni da guerra, perchèl'un Principe, l'altro abatta; l'una Repub blica, l'altra eſpugni; l'una Signoria, l'altra atterri; l'una Città, l'altra ſtermini; l'un nimico, l'altro affondi; ſi com batte nelle campagne, ſi combatte nelle Città, s'armas contro l'un l'altro amico,'e fin dentro il nario albergo con l'un, l'altro fratello, anzi il padre co'l figlio calora conten de; va in ſomma il mondotutto in conteſe, e benchè tar dis pure è gionto agli antipodi il furore dell'armi. M2 egliè pur vero, chele diſcordie abbian per qualche tempo auuto fine, ne in ogni tempo le porte di Giano ſieno ſtate sbarrate. Ma quel, che pür troppo è da maravigliare, è ciò, che lo ne’paſſati ragionamenti v'ho detto, e debbo nel preſente ſeguire; egli cono le tante, e tanto invilup patecontefe de’medici. Queſte non han mai ſofta, quefte non han inai line; e comeche moltisſime ve n’abbia fin or diviſate, pur altre aflai a narrar ne rimangono; le qua li lo fon ora perdiviſarvibrievemente, e darvia diveder, che tutte quante dall'incertezza dell'arte abbiano origine; la quale perchè più chiaramente per voi ſi comprenda,dirò brievemente altresì,chente mi paja delle ſette de'medici. E perchè fi comprenda, quanto queſt'arte fia ſempre mai nemica naturalmente di pace: ne baſterà per avventi ra il riguardar ſolamente al cófuſiſſimo drappello de'Ga lieniſti, che co’lor diverſi, confuſi, e ritorti ſentimenti ban turbati i mari Con menti avverſe, ed intelletti vaghi, Non per ſaper, ma per contender chiari. Eper la verità delle loro ſtrane, e ſtravolte opinioni da. to brigando romoreggiano, che poco men fanno per av ventura l'onde torbide, e fonanti del noſtro Tirreno qual ora nelle più atroci tempeſte giungono furioſe a riverfar G ſu i lidi. Magna mentis admiratione diftrahor, dper surbor (dicea di loro appunto favellando Giovanni da Sa lisberia ) quod a fe ipfo tanto verborum conflictu, &collifio ne rationum defiliunt, &difcordant. Neancor paghi del le lor lunghe e, oſtinate conteſe aggiugnendo ſempre pia tiapiati, quiſtioni a quiſtioni, ne preſero anche in preſto dalla brigante filoſofia, altri più inviluppati, e nodofi, da fare ſtancar inutilmente per un'intero ſecolo i più riottoſi dicitori del mondo. Perchè riſtucco, ecrannojato l'avve durisſimo Lodovico Vives, così (clamando proruppe. Ex fcholaftica illa phyfice exercitatione ingentem, ácopiofifſimă difputandi materiam in hanc quoque artem, tanquam plar ftris invexerunt, de intentione, & remilline formarum, de raritate, & denfitate departibus proportionalibus, de inſtáribus: ea que nec funt, nec unquam evenient ventilantes fua fomnia; defertapugna cum morbis interea loci premen tibus, atque occidentibus. Ea res fecunda, e infinita non aliterquam bydra quædam diutiſſimèremurata eft ingenia, cum fructu aliis vacatura. Videre eft cavillariones a, trj. cas Iacobi Forlivienſis, nec minus fpinofas, nec minus inu tiles, quam Suiceticas: nec prolixitate, cu moleftia cedentes. E Gregorio Giraldi huom di rara, e di ſquiſita letteratu ra, così de’diſcordanti pareri,che a danno altruiportano, e mettono in campo i medici, fe vagamente parole. Nec minus quoquo medici noſtro periculo de medēdi ratione ejuſq; partibus difenſere, aliis alia fubindeapprobantibus, ut no ftra etiam hac ætate tanta fit inter medicos diſſimilitudo, ut corumaliqui vena inciſiunem omnino prohibeant, alii ad eam aperiendam potius exclamext. E per recarne brievemente un faggio, eglino intorno aº principj delle coſe naturali contender fieramente ſogliono: ne ſi può di leggier credere quante diverſe, e confuſisſime opinioni ciaſcun di loro ne porti. Dicono alcuni ritrovar fi veramente, e formalmente gli clementi ne'miſti: altri in contria opinion tratti,ſolamente in virtù, ed in potenza. Vogliono coſtoro, ſecondo ilſentimento del lor maeſtro, effer le qualità formevere degli elementi, e de'milti: co loro tutte le forme eſſerveriſſime ſoſtanze giudicano. S'ay vilan molti collor Galieno, amendue le qualità nel lor fommo grado eſler igualmente negli elementi; altri una in più alto, e altra in più baſſo grado ne allogano; quin di infra coſtoro altra nuova quiſtion forge, ſe colle più fie voli qualità degli elementi le côtrarie accoppiar ſi ſoglia no. Ma ſe le dette qualità ſien tutte, come dicon poſiti ve, e vere: 0 pure alcune di loro ſolamente privazioni di quelle, lungamente affai ſi contraſta ora eziandio in fra’ Galienifti medici. Ed oltre a ciò giudicano alcuni,in qua lunque,comechè picciolisſima particella deʼmiſti, formal mente avervi parti corriſpondenti a ciaſcuno degli elemé. ti; altri ſono dicontrario parere. Ma chi potrebbe mai intorno a ciò rapportar tutte le antiche, e le moderneopi nioni? ſenzachè non ſon minorile conteſe, s'egli ſia pur vero, che vi ſia temperamento; ſe quello veramente ſia l'anima medeſima dell'huomo, come cmpiamente avviſoſ ſi Galieno, o pure altro, che quella; ſe ſia da porre il ſo ſtanzial temperamento; e ſe quel poſto, del qualitativo in nulla differente egli ſia. Oltre a ciò quante le differen ze deil'uno, e dell'altro teinperamento ſi ſieno; ſe il qua litativo ſolamente nella proporzicn delle quattro prime qualità riſieda, o pure in altra qualità da quelle riſurtu. Ma troppo a lungo ne verrei, ſe tutte diſtintamente nar rar volesſi intorno a sì fatta materia, le zuffe, e le conte ſe de’alieniſti filoſofanti. O forſe almen, ſe in tutt'al tro ſi rodon l'un l'altro il baſto, faranno a buon concio ra nodati, e concordi in render ragione dell'eſiſtenza de’lor quattro elementi nella natura? Anzi in ciò più che altrove gareggiano in rintuzzarſi, rifiutando altri ciò, che altri ne dice, e tutti l'un l'altro oſtinatamente carminandofi; an zi fra cllo loro Vopiſco Fortunata Pemplio dopo averne molte, e molte ragioni recate,e tutte rifiutate,ultimame. te con tali parole i ſuoi propj ſentimenti ne paleſa. Sed hæc omnia quăfint imbecillia quilibet videt.Quapropter aliorum etiam qui hactenus id ipfum conati ſunt argumentis penficum latis,puto non poffe vera, & efficaci rationeprobari, ejetan tum, veleffe debuifle quatuor elementa, ſed id ita effe, nos accredere Ariſtoteli toti omnium fcientiarum fapientia lumi ni. Concluſione indegniſſima nel vero non pur di lui: ma di qualunque più cattivello ſcolaretto, che per filoſofante ſi voglia fare acredere; c ne verrebbe ſicuramente cgli dal ſuo Ariſtotele, c dal ſuo Galicno ſchernito, e forſe da lor nc torrebbe in capo del ſer Meſtola, e delgocciolone, le il ſecodo ne meno ad Ippocrate vuol dar fede ſenza il pc gno in mano delle ragioni, el primo allega l'autorità nel l'ultimo luogo dopo tutt'altre pruove, con ciò manifeſta mente inſegnando, che non miga delle autorità, ma delle ragioni lo intelletto ſolamente debba eſſer pago. Ma pu re Iddio voleſſe,che aſſai non vi foſſero a’dì uoſtri, di quel li, i quali ſecondo il ſentimento del Pemplio, non alla migliore, ma alla maggior parte degli ſcrittori voglion gir dietro,pecorum ritu,perdirlo colle parole di Seneca, non qua eundum eft, fed qua itur. Cattivelli di loro, che tratti dalla bordaglia de letterati,immaginano, che allora ſien da lor meſſi in ſu’l filo del vero ſapere, qualora da lo ro forſe più, che da ogn'altra coſa del mondo, ne fon di ſtornati, e danneggiati così, come cantò il Bembo nello ſuc diviniſſime ſtanze: Sicome nuoce al gregge ſemplicetto La ſcorta fua quandell'eſce diſtrada, Che tutto errandopoi convien,che vada. Ed’o ſe mai eglino fi riducellero alla memoria la ſentenza del teſte da noi citato filoſofo, Argumentum peſſimi turba eft. E quell'altre parole del medeſimo,non eadem hic,cioè nel filoſofare, quam in reliquis peregrinationibus condicio eft in illis comprehenfus aliquis limes, interrogati incola non patiuntur errare: at hæc tritiſima quaquevia, &celeberri ma maxime decipis: certamente infomiglianti falli ſcimu. niti, 14 Ragionamento Terzo niti, ch'elli ſono, non fi laſcerebbono traſcinare. Ma egli però giova credere, che il Pemplio non già da fenno, ma per irrifion parlaffe, ed ironia, ' fe poi ſenza al cun rimordimento, e fenza ſcrupolo averne di temerità, in trattando delle qualità,paleſemente di  LE DOTTRINE D’ARISTOTELE e di Galieno famoſtra di non curare. Malaſcian do da parte ſtare tutt'altre quiſtioni, nelle quali inveſchia ti, e impaſtojati i Galieniſti tutti ſtralciar mainon ſi poſe fono, ficome ſon quelle intorno a' principj dello ingene. rarſi dell'huomo, al caldo natio, all'umido, che dicon ra dicale, all'eſiſtenza, alla natura, e al numero degli ſpiriti; e ſomigliantemente intorno all'inviluppatiſime, e tutto che innumerabili quiſtioni della natura, del numero, del luogo, della diſtinzione delle potenze, e ſpezialmente in torno a quelle coſe, onde il chilo, e'l ſangue, e gli altri umori s'ingenerano; o pure in trattar del polſo, dell'arte rie, e del movimento del cuore: ed onde i ſentimenti nc végano, e formiſi il moto.Chimai baftevol ſarebbea por gli d'accordo intorno a quella cotanto celebre, e faniores conteſa, e di tanta conſiderazione in medicina, ſe la bi le, la flemma, ela malinconia ftian di fatto, o pure in po tenza nella maſſa, come dicono,del ſangue? Il che in buo ſentimento viene a dire, fe veramente vi lieno, o no; im perciocchè certamente nulla monta il potervi eſſere, ac ciocchè ſi dica,che vi ficno;ficome direbbeſi altresì, che nel ſangue vi ſieno in potenza, e carne, e vermini, e cene to, e mille altre coſe, chequivi ingenerar ſi poſſono. Ma a cui caglia di vedere un confuſiſſimo rimeſcolamento di diverſe, e ſtrane opinioni, riguardi digrazia a' Galienilti medici intorno al diviſar della natura, delle differenze, e delle cagioni delle materie delle febbri, e de'luoghi, ove s'ingenerano; riguardi all'opere de’loro antichi, e moder ni maeſtri: e poi, ſe potrà, ridicamiquando mai potreb be alcuno ſcalappiar dall'intralciato, e confufiffimo labi rinto di tanti, e sì fatti riboboli, e indovinelli; e guari pu re a quali debolillime fila aſſai ſovente la medicina di Galicno s'attenga, Tralaſcio pure le lunghe, ed inviluf pate quiſtioni intorno all'apopleſſia, al catarro, al letargo, alla mattezza,alla malinconia, a' capogirli, al mal caduco, alla peſtiléza,almalfrāceſco, eda täi'altre dubbioſe cotro verlie, che non ſarebbe per avventura minore impreſa il raccorle quì tutte, che l'arene del mare, e le ſtelle del Cie to minutamente annoverare. E comechè per queſto capo incerta, e confuſa, e inviluppata la medicina de' Galieni fti oltremodo ſi ſcorga, e perciò inucile, e nocevole ad adoperare:non peròdi meno non è ella intorno alle mag giori biſognedell'huomo incerta maggiormente, ed in tralciata, cioè a dire intorno alla dieta: i fini, e le condi zioni del trar fangue: la natura, la facoltà, gli effettia e'l modo dell'adoperar de’medicamcnti: quando, ed in qua’rempi del male ſien da dar le purgagioni: ed altre, ed altre infinite quiſtioni,delle quali queſte,ch'io ho quì bric vemente raccolte, una menomiſſima particella ſi fono, e certamente lo m'avviſo, ch’in leggendolei curioſi da non poca inaraviglia ſien ſoprapreſi; anzi forte ſoſpirerano, s ſdegneranſi, veggendo a quante controverſie,a quanti ſo fiſini, a quanti pericoli per lor ſi faccia foggiacere il bene ftare, e la vita deglihuomini. E chicon occhio aſciutto può rimirar il crudeliffimo ſterminio, che fan tutt'ora de gli ammalati di febbre maligna, per non ſaper di quella, cofa del mondo? Eglino piatiſcono in prima delle cagioni di fuora, chenti, e quali elle fiano, e d'onde naſcano, come operino, e muovano il male; quindi intorno a quel. le d'entro combattono, ſe fien verainente qualità: efe tali, naſcoſc più toſto, o manifeſte, o pur ſe da loverchio di putrefazione avvengano, o da tutta la ſoſtanza più to ſto gualta; e corrotta; e oltre a ciò in quali luoghi elle fi covino, diverſamente contraſtano. Così mordendoſi l'un l'altro, e piatcndo, niun l'imbrocca, e tutti a malpartito menano gli ammalati; volendo altri i falaſſi, ed altri vie tandogli, ed altri una fol volta permettendogli, chi ſcar ſamente, cchi fino a trar loro tutto il ſangue, chi dalle venc delle braccia, e chi da quello de piedi, e chi anches da quelle parti, delle quali è bello il cacere, con appic T carvi le mignatte; altri a tutti coſtoro cótraſtando voglió, che dalla buccia ſolamente per coppette fi tragga. Alcu ni vengon toſto alle purgagioni, altri aſpettan qualche de boliſſimo ſegnal di cocimento;ed altri, o nel principio pur gar logliono, ove turgide lien le materie, il che di rado. avvenir ſuole, o pure inſino allo ſcemo del male s'indugia no. Molti poi nel purgare, de’violenti medicamenti fer vir ſi fogliono,molti de'mezzani, ç moltide’deboli, e be nigni n'adoperano: e parecchi ancora con lenitivi rimedi folamente medicar s'argomentano. V'ha chi purga una ſol volta, e chi più volte in ogni tempo, e ſtato del mal lo coſtuma. V'ha alcuni, che come il mal comincia, cosi toſto con le purgagioni v'accorrono; ma dopo i trè dì af fatto le victano; e dicoſtoro altri di vomitive, alori di sé plici purgative medicine ſervir ſi fogliono. Alcuni ne'pri migiornidel male a' rimedj, che chiaman veſcicanti, gli infermi condannano; altri vuol, che in prima purgati, e ſegnati color fieno; echi in un luogo, e chi in un'altro cô -sì fatti rimedj marchiar gli vogliono, togliendo loro così manifeſtamente le forze, e crucciandogli, e dando loro vigilie, e dolori, e forſe con riſchio di gangrene,di piaghe nelle reni, e nella veſcica, di malagevolezze d'orina,e d'altri malori, che ne foguono. Ne mancano eziandio infra'Galieniſti medici alcuni più rinominati, che per be nevoglienza al lor maeſtro Galicno, cd Ippocrate, o per chè così veramente lor paja,cotal ritrovato come peſtilen zioſo; e ficriſlino, e di barbara gente, e crudele, oleremo do vituperino, e danninozil quale non a confortar vaglia, ed ajutare il cocimento, ma ſolamente a fraſtornarlo, ed indugiarlo, con accreſcer le cagioni ad un'ora, e gli effet tidel male, e con piagar, ed infiammar malamente ſpeſſo ſpeſſo le reni, e la veſcica, e far talora gli addolorati lan guenti di puro fpafimo miſerabilmente morire. E v'ha, eziandio di coloro, che non d'altri rimedi, che de ſolian sidoti nelle maligne febbri ſervir fi fogliono; ed intorno a queſti ancora diverſamente piariſcono. E forſe faran mai per riconciarſi, e porſi d'accordo infra qualche ſpazio di + tein tempo le lor conteie? e le loro incertezze appianate, fari per porſi fuora, quando che ſia un più ſtabile, e veriſimile fifteina di medicina? anzi per quanto ne poſſiam conghier turare eglivie piů a giornate s'accreſcerannoi piati, e le conteſe, e ſempre più confuſo, e incerto, e pericoloſo il lor meſtier diverráne. E nel vero,chi mai potrebbe deci derle? non le autorità, non le ragioni, non l'eſperienze; imperciocchè, così gli uni, come gli altri, di loro eſperi menci egualmente fan moſtra, e pompa; morendo vera mcnte, e guarendo così degli uni, come degli altri, i malati. Per amendue le parti poi lor ragioni ſi produco no in mezo; equinci, e quindi ogni conteſa ha ancora i fuoi parziali. Ne v'ha cagionealcuna, per la qual mag giormente attenerci dobbiamo a Giovan Manardi,ad Er cole Saſſonia, ad Orazio degli Eugenj, che d'altra parte più coſto ad Aleſſandro Maſſaria,ed a Fabio Paccio, eze Pietro Salio, o a Girolamo Cardano preſtar fede, conciofa fiecoſachè tutti egualmente ficn di pregio, e lieva nella Gia lienica medicina, ed egualmente di maggioranza gareg giar îi veggino. Perchènon ebbero certamente il torto, per quelch’lo ini creda ', a dir quc' valene' huomini:non. polje comprehendi patere ex eorum qui de his diſputarunt di fcordia; ciim de ifta re, neque inter ſapientia profeſſores, neque inter ipfos medicos conveniat. Ma poiche Io in par te vi ho diviſato a’quali tempeſtoſe procelle di litigj ediconteſe la medicina tutta ſoggiaccia, diſconveneyol coſa non farà ', ch'Io mi ſtudi per avventura, e mi argome ti di recarvene brievemente la cagione. Alcuni ſciocca. mente fi perſuadono ciò ſolamente per colpa deʼmedici avvenire, i quali oltremodo d'onor deſideroſi,ed avariſfi mi del denajo, e naturalmente ancora riottofi, e ſuperbi, ſi graffjno ſeipremai, e ſimalmenino; cercando a ſpada tratta ciaſcuno, ove a lui venga in concio, altrui travaglia re, e neinichevolmente affitto atterrare. Così vengono a partirſi in fazioni, e ſempremai a premerſi,e tenzonare, non altrimenti, che tutt'altri macftri di cialcun'altro me ſtier fi facciano; perchè faggiamente diffe Eriodo وا T 2 Και κεραμεύς κεραμά κοτέα, και τέκτονι τέκτων Και ωχός πτωχώ φθανέα, και αοιδος αοιδώ. Che in lingua noſtra riſuona Al fabbro, è'l fabbro in odia: e'l vafellajo Non puòſoffrir compagno: arde diſdegno Contro un mendico l'altro: el’un cantore Contro l'altro cantor di rabbia freme. Malo per me fermamente credo, che alcra di ciò ne ſia la cagione: e che non tanto per uggia, e mal talento deʼme dici, quanto per mancamento dell'arte medeſima così in certa,e intralciata,e dubbioſa no poſſan goder mai, ne pa ce ', ne ripoſo que', che l'eſercitano.Negià in tante, e tan te diverſità di ſentiméti ciafcun'altro meſtiere partir fi fuo le, in quante la medicina ſi parte, ſe già non foſſe, che la filoſofia, e tutte quelle ſcienze, c'han colla filoſofia qual che attacco, o dependenza, alle inedeſime tempeſte del la medeſima ſoggiacer ſi veggono; nelle quali malagevol molto, e difficile è lo inveſtigar la verità, licome confeſſa no que'filoſofi, e medici medeſimi, che d'haver preſte loa lor pruove, e dimoſtrazioni falſamente ſi pregiano, Nemailetto di ſelva allor, che priva L'arbor difoglie il venta,ha tante fronde quante, e quante diverſe, e diſcordevoli fette ha l'anti ca, e la moderna FILOSOFIA; o in ciaſcuna ſetta di quelle's quante, e quanto diverſe infra loro fian de parteggiatilo pinioni. Così de'Peripatetici ſolamente, chi non sa quam to li premano, e li rintuzzino iGreci,egli Arabi, eiLa tini Maeſtri? quorum fudium, dice un di loro, perpetuum,ut contradicant, ab aliis femperdiffentiant. Ed a cui non ſon manifeſte le continue, ed oftinate contefe delle dire Peripatetiche ſchiere ancora,che nominali chiamano, creali? E a tanto giunſe la lor riottoſa oſtinazione, che poco fallò, ch'un dì in Parigi venendo alle mani, nó iſve gliaſſero nella Francia una nuova, e fanguinofa guerra ci yile. Ed infra i Reali medefimi chi potrebbemai, co’TO miſti gli Scottiſti rappartumare? e chi co’Tomiſti i Tomi fti medelimi:econ gli Scottiſti gli Scottiſti? ma per noi 3 dipartirci della noſtra medicina, in queſta altro non è egli per certo di tante, e tante diſcordie cagione, ſe non ſe la medeſima malagevolezza del rinvenir la verità delle coſe naturali. E ciò ben’avvisò Galieno medeſimo, ove quel, le parole di Ippocrate va in prima chiosãdo xehosganemi il giudicio difficile: ο λόγG- δ'αν ηκρίσης άη, το κρίνεσθαι παρ' αυτό τα ποιητία.χαλεπος και δυσθήρατός εσιν όγε αληθής, ως δηλόι και το πλήθG- των κατα την ιατρικής τέχνης αιρέσεων •ου γαρ αν άπερ οίον τ' ήν ραδίως ευρεθήναι το αληθές, ας τοσούτον ήκον αντιλογίας αλήλοις οι ζητήσαντες αυτό τοιούτοι τε και τοσούτοι γενόμενοι. 11 giudicio, dice egli, fi è la ragion medeſima: poichèper quella le coſe, che da far fono, fon giudicate. E certamente egli è difficil molto, e malagevole, a rinvenire, Io dico il giudicio vero, il qual manifeſtamente ravvifarfo fà dalla diverfità delle fetre della medicina. Concioffiecofachè le agevol foſſe il xin venir la verità, non ſi ſarebber tanti, e tanti valent'huomi ni, che per imprenderla con ogniſudio ſi ſono affaticati, in colante ſette partiti. Fin qui l'avveduto Greco.Manoi più avanti procedendo ci avviſizmo, il rinvenir la verità effer certamente molto più malagevole, o piùardua imprefa aſſai di quel', che s'immagini, e dica Galieno. Ad inve Aigar di ciò la ragione convien ridurci amemoria, che noi non men, che gli altri animali, poveri, e mudi affatto di qualunque, comechèmenoma contezza delle coſe,naſcii mo; verità così chiara, e conoſciuta per ognuno, che non le fa d'alcuna pruova meſtiere, e molto ben ad ogniora Iz ravviſiano, e Platone ſteſſo venne coſtretto a confeſſar fa, avvegnachè altra volta faccia ſembiante di tener con truia opinione, dicendo, che'l noſtro apparare altro in vero egli non ſia, ſe non, che un rammentarci quelle co ſe appunto nredelune, che già noi prima di naſcere ſape vaino; ed imperciò tutte le notizie ſenza fallo conviene, che da noi ſteſſi l'appariamo; ma come, e da cui,non èma lagevol troppo per avventura ad inveſtigare. L'animanoſtra, alla quale, come a parte più nobile, e più principale dell'umana compoſizione, ſolamente con. viene l'apprender le coſe; ondefolea ſaggiamente Epicarmo dire: la mente vede, la mente ode, l'altre coſe tutte fon forde, e cieche; l'anima noſtra lo dico, comechè in corporca forma, ed inviſibile ella fia, in sì fatta guiſa no dimeno unita, ed avviticchiata, per così dire, ella al cor po ſi ritrova,che ſe queſto dalle ſenſibili coſe di fuora toc co, emoflo ad eſſer mai viene, varj, e varj penſamenti in effa egli è valevole a ingenerare; c ciò avvicne qualunque ora elleno toccano,e muovono le fibre de’ncryi, le quali a guiſa di fila ſottiliflime di ſeta trapunte in ricamato pan 10, {parce per tutto ilcorpo ravviſanſi, e che queſte poi avvalorate da un diſcorrente, e ſottil licore, gli avvti mo viinenti alla prima loro origine riportano nel cerebro principal ſedia dell'anima, ove quella il comprende, o per me dire ſente. E le fibre poi col venir variamen te premute da quelle parti del corpo, che ſi chiamano organide'ſenſi, ecoltorcerſi, e col piegarſi in varie, ed in varie maniere sì, e tal mutamento ricevono ne pori, enel ſito delle lor particelle, che da loro, e dalla diverſità de li ſenſibili oggetti di fuora la diverſità del comprendera, o fia de'ſenſi,ncll'animna procede. Quinci ſcorger ſi puore, chei ſenſi ſono quelli, per li quali non altrimenti, che per le fineſtre liz luce, entrano nell'anima le prime contezze delle coſe, e da queſte ella poi altre, ed altre contezze col mezo del diſcorſo tracndo, tratto tratto ſe ne viene ad arricchire; ma come, e dove ſi riſerbino l'acquiſtato notizie, e come l'anima l'abbia più, o meno pronte, quae do valer ſe ne vuole, e come per ſe ſteſſe talora all'anima firappreſentino, è malagevoliſſimo ad inveſtigare; ne queſto propoſito più che tanto appartiene forſe a noi il fa perlo. Ed al ſentir dell'anima ritornando, lo dico libera mente, e confeſſo, che i ſenſi nc ſe medelimi, ne l'anima mentir non poſſono gianmai; inperocchè i ſenſi le im preſſioni degli eſterni ſenſibili oggetti mai ſempre tali all' anima rappreſentano, quali eſſi appunto le ricevono, fen za curare, o prenderſi d'altro brigi. Verità, la quale non ſo lo come DE’PERIPATETICI LE SCUOLE COL MAESTRO ARISTOTELE LIZIO abbiano ofato negare;cocioffiecofachè ſe nella maniera, la qui Del Sig.Lionardodi Capoa. 151 quale effi fingono andaſſe la faccenda, ogni fabbrica di no Itro diſcorſo certamente a terra ne verrebbe, come faggia mente avviſa quellaltilimo filoſofante, e poeta latino:.. Vt in fabrica ſipravaſt regula prima:“ Normaque fi fallax rectis regionibus exit: Et libella aliqua fi exparte claudicat hilum: Omniamendose fieri:atque obſtipa neceſ umft: Prava: cubantia: prona: Supina: atq; obfona tecta Iam ruere ut quædam videantur velle: ruantq; Prodita judiciis fallacibusomniaprimis. E ſe i ſenſi mai poteſſero una ſol volta, o ſe, o altri ingão Nare, ſi toglierebbe via certamente dal mondo ogni con tezza, ogni giudicio, ogni fede; e non per altro in vero gli antichi Padri della Chieſa così acerbamente ripigliaro no i filoſofanti d'una sì erronica, e ſciocca dottrina: Re cita Ioannis teftimonium, dice Tertulliano, quod audivi. mus; quod vidimus oculis noſtris, quod perfpeximus, ma nus noftræ contrectaverunt de verbo vitè falfa utique teſta -tio fi oculorum, aurium, & manuum fenfusnatura mer titur. Ma a chi mai ricorrer ſi dovrebbe per conoſcer, ed ammendare i fallimenti di ciaſcun ſenſo? ad altro forſe? certamente no; imperocchè dell'uno non meno l'altro ſen ſo farà ſoſpetto difalſità, e d'errore; ſi chiederà forſe aju to agli altri ſenſi tutti: manon ſono queſt'altri ancora ſom ſpetti di falſità? o ſia una, o ſieno più le perſone, che ne deano teſtimonianza, nulla importa,fe di eſſe tutte è dub biofa, ed incerta la fede. O forſe, come Ariſtotele ſi per Snade, gli errori de'ſenſiconoſcerà la ragione? ma come potrà cio mai eſſa fare, fe per avvederti dell'error d'un ſenſo, ad ammendarlo, dineceſſità le fa meſtieri fervirſi dell'opera d'un'altro ſenſo, e di notizie, e di regole col me. zo de'ſenfi parimente avvte. A queſte, e ſimili malagevo lezze ponendo mente peravventura Ariſtotele, ne aven do altro rifugio dice, che ben può la fagione giudicare del l'error d'un ſenſo colla ſcorta d'un'altro ſenſo, il quale abbia però più ben fatto, e ſquiſito l'organo; e fi ſerve egli per ciò dimoſtrare dell'eſemplo dell'anello, il quale mello و IS2 RagionamentoTero meſlo ſenza frámettervi ſpazio notabile ditempo, or nel l'uno, or nell'altro dito della inano appare al ſenſo del tatto non uno, ma due eſſer gli anelli; il quale per error del tatto vien ſecondo lui avvertito, ed ainmendato dalla ragione col cõſeglio del ſenſo della viſta: l'organo del qua le è più eccellente di quello del tatto. Ma a chi per Dio un sì fatto riparo vano non ſembra; poichè quancunque l'eccellenza dell'organo perfetta aſſai, e compiuta ſia, nó ſarà mai valevole ad operare, che quel ſenſo non men degli alori non vada ingannato. E per valermi del medeſimo p · lui rapportato eſemplo del ſenſo della viſta, non s'inganna queſti, SECONDO CHE PORTA OPINIONE IL MEDESIMO ARISTOTELE, ne'colori dell'Iride, e delcollo della colomba; anzi ſe poteſſero mai i ſenſi ad alcuna forte d'errore ſoggiacere, fi ritroverebbe per tale, che ben ſottilmente vi badaſſe, affii più agevolmente ad errare il ſenſo della viſta, che tutt'al tri ſentimentiincorrere. Ma lo forte mi maraviglio poi, come non avviſaffe ARISTOTELE, che ſoventemente l'errore del ſenſo, che ha più eccellente l'organo, da un'altro fen fo, di cui l'organo è aſſaimeno ſquiſito conoſcaſi, e cor reggafi; comeincontrarſuole nelremo dentro dell'acqua, ove l'organo della viſta dal toccamento vien ricreduto, e ciò lo dico favellando fecondo i ſuoi medelimi ſentimenti. E alla fine domáderei ad Ariſtotele, ſe i ſenſi de'quali egli intende doverſi la ragione ſervire per riprovar altri ſenti menti, ſieno anch'eglino tali, e ſe tali pur ſono, perchè cglino ancora non potranno eſſer fall? adunque mai potrà giudicar la ragione appiccata allc lor pruove, c certamen te mal può convincer perſona di falſità quel Giudice, al quale convenga dineceſſità valerſi di teſtimoni ſoſpetti. E a ciò riguardando forſe ARISTOTELE CON LA SUA USATA POCA FERMEZZA IN ALCUN LUOGO DICE, i sensi non potere in modo alcuno errare, cche ſia debolezza d'intelletto i sensi per la ragione lasciare. Ma quantunque non poſſano iſenſi, ne ſe, ne altri in gannare, non però di meno poſſono molto bene allo in telletto, cui propianente il giudicar s'appartiene, effer 1 cagione d'errore, e d'abbagliamento; ecomechè poffafig avventura l'inganno, o l'errore ſchivare col non precipi tar coſto,e inconſiderataméte il giudicio, ma ſoſpedédolo, e ritenédolo finattanto che fiarrivi a quell'evidéza de’sē timenti, tanto, e tanto celebrata per Epicuro: tutta fia ta,perciocchè ne in tutticorpi,ne in ciaſcuna particella di quelli, tra per la lor picciolezza, e per altro impedimento egli non è a'ſenſid'internarſi, e di profondarſi conceduto, e quando ben loro ciò venga permeſſo, ne men altro egli no certamente comprender ne potráno ſe non ſecotali im preſſioni ſolaméte,che da quelliricevono, pchè no già mi ga i corpi, ma qualche operazione ſolamēte de'corpi vien loro ad eſſer manifefta; ma la ragion poiè quella chedal le varie, e varie operazioni de'corpi, varie, e varie core alla natura lor pertinenti imprende ad inveſtigare. Ma pera ciocchè dell'operazioni medeſime, che per li ſentiinenti s'avviſano, varie, e diverſe eſſer poſſono le cagioni, e nel trarne argomento vezzoſa talora, e ingannevole loro ſi fa davanti Falfa di verità ſembianza, e larvä, agevolmente la ragion vi s'inganna, giudicando fallaces mente,da tale cagione un'effetto naſcere,che da altra cer tamente avviene; e come già cantò l'Ennio noftro Ita liano: Veramentepiù volte appajon coſe, Che danno a dubitar falſa matera Per le vere cagion, che ſono afcoſe, così s’alcun dicelle, che l'oriuolo collo ſtelo, e colmare tello tratti da contrapeſi,e da ruote,n'additi l'ore del giore no, vero per avventura egli direbbe; ma non mai potreb be certaméte affermarlo,potendo altri ed altri ſtrumentila medeſimacoſa operare. Perchè ciaſcun fillogiſmo, che intorno alle coſe naturali formaſi,probabile ſolamente ef ſer può, non già dimoſtrativo, ſe pur toglier non nevo gliamo alquanti ben pochi, che da quegli effetti ſi dedu cono, i quali d'una ſola, e certa cagione poſſono avveni re; ſicome per avventura farebbe il dire, dover eſſer ne V ceſke ceſſariamente corpo ciò, che gli organi de'ſentimenti ne muove; concioſliecoſachè la coſa, che muove, a ciò fare è ben di meſtier, che tocchi; e'l toccamento, ſalvo che da corpo,non ſi può incontrare: perchè SAGGIAMENTE LUCREZIO: “Tangere, vel tangi, niſi corpus, nullapoteſt res.” Così ancora, che'l corpo mentre egli è dimenſionato poſſa in parti parimente dimenſionate eſſer diviſo. Che tra uno, &altro corpo eſſer nó pofta altro di divario,ſalvo, che nella grandezza, nella figura, nel moviinento, nel l'eſſer diviſo in parti, o non divifo, e nell'aver le parti ol tre alle già dette vario il ſito, e l'ordine tra di eflo loro;co ciofliecoſachè altro di queſto non poffa, ne al corpo, ne al le parti, nelle qualiil corpo ſia diviſo, avvenire. E però è da dire, la diverſità, che così grande eſſer noi veggia mone'corpi dell'univerſo, altronde certamente non pro cedere, che dalle coſe già dette, che'l calore, la freddez za, la ſaldezza, il diſcorrimento, icolori, ei ſapori tutti, cd altre ſomigliantiqualità, le quali a noi parc, che nc corpi dell'univerſo ſieno jaltro verainente non ſieno, ſe non ſe,o l'accennate coſe: ſe veramente elleno ne'corpi ſono: e ſe ſono in noi, cffetti di quelle, o per me' dire de' corpi per quellemodificati. Maqueiti,e ſomiglianti argomenti ſon così pochi, e generali, che per lor non ſi può al vero conoſcimento di quelle particolari cagioni pervenire, ove ſenza fallo, del 12 natural filoſofia il pregio tutto è ripoſto. E ciò sì bene fu conoſciuto al principe di tutti greci filoſofanti Demo crito, ed a molti ancorde’ſavjantichi, che perciò in ap portando le cagioni delle naturali apparenze, delle fole probabili ragioni s'appagavano; e ſaggiamente il Padre de Criſtianifiloſofi Agoſtino il Santo ebbe a dire:latet ve rit atis quærenda modus; e'l gran Galileo de GALILEI, che tanto abbiun veduto a’dì noſtri gir dentro alle ſecrete coſe delle ſcienze, che al parer del dottiſſimo Obbes: Primus aperuitvobis Phyfica univerſaportamprimam: pur dir ſo leva eſſer pochiuimicoloro, che qualche particella di filo fofia ſi ſappiano, e Iddio ſolamente ſaperla tutta, eche quanto più in perfezione monterà la filoſofia, tantomeno merà il novero di quelle concluſioni, che da quella dimo ſtrar ſi fogliono. E'l celebratiffino fondator della peripa tetica ſcuola, avvegnachè talvolta d'altro ſentir faccia veduta, pur tanta forza ha la verità, che gli potè purc al la fine una volta trar di bocca, e far apertamente confer fare, eſſer la noſtra mente alle coſe più manifeſte della na tura, qual'occhio di notturno augello a'rai delSole; e 'altrove, che diquelle coſe, che ſono a’noftri ſentimenti naſcoſe allor baſtevolmente d'aver ragionato penſar dob biamo, quandoſecondo il diritto della ragione provevol mente, come eller poffino ne ragioniamo. E quel Fio rentin filoſofo, c poeta fa, che ſecondo il ſentimento del la ſua peripatetica ſcuola la ſua Bice gli dica, e facciagli a ſapere. dietro a’ſenle Vedi, che la ragion ha corte l'ali. E innanzi parimente avcagli colei detto: Erra l'opinione de'mortali Ove chiave di ſenſo non differra. Ma non penſaron mai, licome far certamente doveano, o pure il naſcoſero, E ALIGHIERI ED ARISTOTELE le naturalico ſe eller a' ſentimenti, non perla lontananza ſolamente de gli oggetti, ma per altro ancora vietate, e che noicolsé ſo non già le coſe, ma ciò, che in noi le coſe operino ſo lamente comprendiamo. Verità aſſai ben penctrata da quegli antichi ſavj, che diſſero appo Aulo Gellio: (1)om xes omnino res, que fenfushominum movent são osis, cioè a dire, come egli ſpiega: nibil eje quicquam quod ex fefe conſtet, ncc quod habeat vim propriam naturam; fed om nia prorſum ad aliquid referri:taliaque videri effe,qualis fit. eorum ſpecies, dum videntur: qualiaque apud fenfusnoftros, quopervenerunt creantur,non apud fefe, unde profeeta sunt. Ma a che più da filoſofi,eda’Poeti mendicar teſtimonian zein coſa cotanto manifeſta, la qual dalla verità medeſi ma ne fu ſpiegata per bocca del ſapientiſſimo Re Salamo V 2 (1 ) lib.iLcap.i. ne: 0 m  !ne: Omnibus, quæ fiunt fubfole hanc occupationem pesſimam dedit Deus filiis hominum, ut occuparentur in ea. Intellexi quod omnium operumDei nullam poffit homo invenire ration nem eorum quæ fiunt ſubfole, & quanto plus laboraverit ad quærendum tantò minus inveniet. Etiam fi dixeritſapiens ſe ea noſſe,non poterit reperire. Or qual contezza dunque aver mai potrà la incdicina intorno alle coſe a ſe appartenenti,ſe quelle medeſime fo no, ove s'intralcia, e s'inviluppa maggiormente LA FILOSOFIA? Ne in ciò la medicina, dalla filoſofia è differente, re non fe quella in più largo campo forſe va ſpaziando, e nel la contemplazion ſolamente, o ſemplice diſcorſo s'acche ta: e queſta ha per ſuo fine, e berſaglio il porre in opera• Perchè ſicome la filoſofia, la medicina ancora di pochili me coſe naturali conoſcer douraſi, e quelle forſe poco, o nulla al medicar ſaranno acconce: intanto, che non ſap piendole non è gran fatto per huom da curarlene. Ma per diſcendere in qualche particolarità,e far quãto più ſi pof fa una tal verità manifeſta: non vi par’egli, o Signori, che alla medicina ſovra tutt'altre cofe farebbe di meſtierc,che gutte le parti liquidc, e ſalde del corpo umano, e l'aficio le facoltà, e la natura ne foſſero interamente manifcfte? or dove mai ne fa ſcorta la coſtruttura dello ſtomaco, degli inteſtini, del fegato, della milza, delle reni, della veſcica, del pulmone, del cuore, delle glandule, le quali ſparte per tutto il corpo poco men che innumerabili fono, ele più di effe di canta picciolezza,che fenza l'ajuto del micro fcopio non ſi poſſon raffigurare, per tacer d'altre, e d'al tre parti; e quantunque a tal ſegno di perfezione eller giunta a'dì noſtri veggiamo la notomia, che nulla più: nientedimeno non ſi è egli potuto, ne men ſi potrà giam mai camminar ſicuro, ne determinare, ſe non ſe pochiſſi me coſe intorno all'ammirabile magiſtero de' corpi degli animalized agli uficj,ed alle operazioni delle parti di quel li.Ed a dir liberaméte il vero, licome avvenir noi parimen te veggiamo, in tutt'altre partidella filoſofia, e della me dicina dopo tante induſtrie, e fatiche durate, e dopo tanti ſparti ſudori per cotanti valent’huomini,altro alla firms non ſi è arrivato a ſapere,ſe non fe altrimente in verità an dar le coſe di quel, che s'avviſavano, e davano a noia divedere gli antichi; e comechè gliocchi de’modernino tomiſti dal microcoſpio avvalorati poco men che lincei fie divenuti, eche eziandio colla ſcorta dell'avveduto Bilſio apparato abbiano a fchivare alcuni intoppi aʼnotoiniſti de' vivi animali, per l'addietro inſuperabili; impertanto non poſsono in modoalcuno nelle menomiſfime particelle pe netrare, le quali ſe non vengono ben ſottilmente avviſa te, e ad unaad una diligentemente conſiderate, Io non ſo in qual modo ſaper fi pofsa la fabbricazione,e la coſtruttu ra delle parti maggiori, che ſenza fallo di quelle compo fte, e formate ſono. Perchè egli avvien ſovente,dover noi in sì fatte bifogne camminare al bujo, attenendone ſola mente a troppo deboli, e incerte conghietture, e per cal. laje inviluppate andando. La inalagevolezza inedeſimi, anzi maggiore vienſi ad incontrar poi negli uficj e nell'o perazioni dieſſe parti; e quel configlio, che porger ne puote in sì fatte traverſie il vital notomiſta, fia pur detto con pacedel Valentino, del Paracelſo, c dell'Elmonte, quantunque grande, ofere ognicredere egli ſi paja, e che torno d'ogni briga magnificamente ne prometta, fovente ſuole, per la malagevolezza eſtremadella coſt, ſcarſo, e debole molto riuſcire, e talvolta anche in tutto inutile; il che da non altro certamente naſce, ſe non ſe dalla troppo fquiſita, e dilicata finezza del lavorio de ' corpi degli ani mali. Ma della fabbrica del cervello cotanto intralciata,e ma ravigliofa, Dio buono, che han potuto giammai, o gli an richi, oimoderni Notomiſti di certo raccorre? non è ſta ta egli ogni lor fatica inutil ſempre,e vana, facendovi ma la pruova la loro induſtria, e’l loro ſtudio? Egli ſono le fi bre, che'lcervello compongono, così minute, e ſpeſſe, e ſottili, e sì la for teſſitura, e reticulazione è dilicata, e la lor ſoſtanza molle, che a volerle ben partire fenza riſchio di romperle, o di perderle, inalagevole anzi impoſſibile: ogni impreſa rieſce. E sì, e tanto egli è ſpinoſa, ed intri cata, che'l gran Renato delle Carte reſtādovici anche egli tutto inviluppato, e preſo, ragionevolméte quell' huom, ch'egli compoſe per molti valenc'huomini vēne propiamé te idcale, e ſuo luomo appellato. Ma ſe tanto avvien del. le parti grandi del corpo perciaſcun vedute, che farà cgli da dir poi delle picciole, inolte, e inolte delle quali ha forſe la natura a nobiliffmi uficj, ed operazioni deputate? eci ha alcune di eſſe parti cotanto menome, e ſottili, che non ha mano cosìſcaltra, ed avveduta, che poſſa ſperar di venire a capo di dividerle co'l ferro giammai. E altre vi fono più ſottili aſſaile quali appena per la lor sóma piccio lezza ſi poſſono col più fino, eſottile microſcopio ravvi fare; E di queſte ancora vi ſono altreminori, e quaſime nomillime linee, nelle quali inutile ſi prova ogni arte, vano ogni ſtrumento per ravviſarle. Ma chi mai potrà le particelle del ſangue darne piena mente ad intendere, le quali ogni chimico ritrovamento per farne notomia vincono? Chiquelle del ſugo nutritivo, della linfa, del licor pancreatico, dell'orina,del fiele,del la mucilaggine, che veſte le membrane, detta dal Paracel. ſo finovia, e d'altre, e d'altre diſcorrenti ſoſtáze del cor po delle qualiinfin’ad ora nulla ſe ne fa, ne ſe ne potrà giammai per avventura per huom ſapere, comechè ſcorto, e diligente nel meſtier del far notomie egli fia. E chi finalmente aggiugnerà a capire, ſe non ſe per in certe, e fallabili conghietture, o la grandezza, o la figu ra, o'l lito, o'l movimento di quegli inviſibili corpicciuoli, che ogni inenoma particella delle falde, e delle liquide parti del corpo dell'animale compongovo? E ſe ciò all'u mano ingegno è naſcoſo, come potrà egli mai paſſar oltre a-ſpiarne le facoltà, gli uficj, e l'operazioni, e tute'altre biſogne, che di neceſſità all'economia degli animali s'ap. partengono. E come ravviſar mai potrafli, da chi, ed in qual manie ra s'ingencri il Chilo, e comc, e per chi a cambiar ſi ven ga in ſangue, e coine il ſangue ad ogni ora in tante, e tante maniere ſi muova, e mai ſempre caldo ſe ne ſtea, e ten ga in vita i membri tutti dell'animale, e come ſi faccia il ſenſo, e'l moto: e cante, e tante altre operazioni,le quali non ſappiêdoſi, ne men certamente conoſcer fi potrebbono gli ſtravolgimēti di eſſe,cioè a dire le malattie e queſte igno rādoſi,come poi ſi potranritrovar certieſicuri argomenti da riſanarle? Ma per darvi anco qualche ſaggio dell'incer rezza degli antivedimenti de'medici, ſe non ſi fa, ne può ſaperſi giammai coſa, che certa, e ſicura ſia dell'orina, e de polli,chi può indovinarmai, per Dio, non che ſalda mente ſapere, tutte quelle cagioni, per le quali eglino, malimamente ipolli, anche in un momento ſpeſſo ſpeſſo variando, così ſtranamente ſi cambjno? che direm poi de gli altri ſegnali della medicina, onde argomentar parimé. te ſogliono imedici le malattie, e le cagioni di eſſe non meno de’polſi, e dell'orina, anzi aſſai più di queſti talora incerti, e fallaci? Certamente non mai potrà compren derſi perloro la qualità del inalore, e la cagione argomé tare. Ed ebbero ſenz'altro il torto di sì fatti ſegnali cotá to millantare i greci maeſtri, ſpezialmente Galieno, come ſi può ſcorgere, per tacer d'altre ſue opere, in quellibro, ch'egli a Poftumo intorno a tal materia ne ſcriſſe; che lo per me credo, che quelle, che a forec loro ne riuſcirono, certamēte colcarbon bianco ſi ſarebbon potute ſegnare. De'cibi, e de’medicainenti, e delle loro facoltà, e valore nulla certamentenemen potrà ſaperſi, nonſolo per defimi, ma per quel, che poſſano nel corpo umano opera re. E comechè i Chimici più che tutt'altri d'aver delle già dette coſe più pieno conoſcimento giuſtamente vantar potrebbono; pure quel che ne fanno riſpetto a quel che rimarrebbea fapere è poco, anzi nulla. E ſon di vantag gio tutte le pruove non altro, che probabili, e poco ſalde conghietture; perciocchè, non ſolamente imcitrui(liami pur lecito al preſente uſar termini dell'arte ) ma l'aria an cora, e'l fuoco, e ivaſi, e tutt'altri ſtrumenti, che vi s'a doperano, ragionevolmente d'errore, e d'inganno pofſon render ſoſpetta ognilor più diligente, e accorta notomia, ſe me 1 con ne ſeco conmeſcola per entro a'corpi, che ſi dividono qualche lor particella, che magagni, emuti la lor compleſſione i E mallimamente l'aria, in cui tanti,e sì diverſi corpicciuo li diſcorrono; i quali dalla terra, e anche altronde melli fuora, e infra quelle monome particelle del corpo diviſo per avventura meſcolandoſi, agevolmente le potranno in altre cambiare. E'l fuoco d'altra parte introducendovial cune di quelle particelle, licvi, e ſottili, che rubate ad altri corpi ſuol con leco ſempreportare; o pur portando per li pori del vaſo le medelime particelle delcor po del quale ſi fa notomia, e maſsimamente le più nobili, ele più operative, che in eſſo dimorano: comechè la boca ca del vaſo ſia bene, e come dicono, ermeticainente turata; o purcolla ſua forza nel digeſtire, e nel formentare, e nel lo ſceverare,ch'egli fà le particelle del corpo, del qual li fa notomia, diſponendo altramente quelle, e altramente meſcolandole, e dando lor movimento, per nulla dirdel. la grandezza, e della figura loro per eſſo diverſamente cambiate. Perchè fe tante, e tante cagioni poſſono alla fotomia delle coſe intervenire,come potrà egli mai ilChi mico notomiſta co'ſuoi argomenti vantuti dipienamente, conoſcerle: Anzi tanto egli ne ſaprà meno, quanto mag giormente faticandovil'havrà guaſte, e ſconce. Adunque ſe vaniancora, e infruttuoſigli avviſi, e gli argomēti de'più intimifamigliaridella natura ci rieſcono; e ſe nulla approda la più diligente, e ſottil notomia delle coſe a ſpogliar dalle dubbietà, e dalle incertezze la noſtra Medicina: Io per mè non ſaprei qual conſiglio prender mi dovessi a dichiarirla dalle sue nubi. Ne è da tralasciare a questo proposito quanto agio s’a veſler presso i filosofi dall’incertezze sull’uomo a ragionar sovente, e piatir nelle scuole or d’una or d’altra parte, più per vaghezza d’ingegno che per amor della verità, difendendo tutte opinioni, ed ove lor concio viene, giudicando non altrimenti che quel sottilissimo filosofante Pittagora face a veder della filosofia de omni re pervalermi delle parole di Seneca “sin utramque partem disputari pole ex aquo”. Perchè non è da maravigliare, se DICANILIO EGEO, prendendo a difender cento contrarie opinioni in altrettanti capi partite, da a diveder manifestamente l'incertezza di cotal arte. 1. Egualmente dal padre e dalla madre si inandi fuora il seme a ingenerar gl’animali. 2. Non d’ambedue si mandi. 3. Il seme si mandi da TUTTO’L CORPO. 4. I testicoli solamente v’hanno parte. 5. Il cibo nello stomaco per opera del calor si smaltisca. 6 no. 7 iò sia per lo suo sfacimento e stritolamento. 8 no. Il capo V che sia dal nativo spirital calore. Il capo VB, che no. Il capo VI che per lo corrompimento del cibo sia. Il capo VIB, che no. Il capo VII che avvegna per propietà de' ſughi. Il capo VIIB, che no. Il capo VIII che il calor natio a qualità s'appartegna. Il capo VIIIB che no. Il capo IX che per lo calore avvegna la digestione de'cibi. Il capo IXB, che no. Il capo X che la diſtribuzion de'cibi lia per attraimento di calore. Il XB che no. Il capo XI: dagli spiriti la digestion si fa. Il XIB che no. Il XII: per opera dell'arterie si digestisca XIIB: no. XIII: ciò sia per mancamento a vuoto accompagnato. XIIIB: non per ogni mancamento eglilia. XIV: il glauco degl’occhi per mancanza d'alimento al condotto visivo s’ingeneri. XIVB: no. XV: quel nasca per discorrimento di sangue nelcondotto visivo. XVB: no. XVI: dalla graſſezza degl’umori e dalla esalazione si faccian gli’occhi glauchi. XVIB: no. XVII: La frenesia dal distendimento delle membrane del cerebro e dal corrompimento del sangue si cagioni. XVIIB: no. XVIII: Per soverchianza di calore ella non avvegna. XVIIIB: no. XIX: Per infiammagione ella sia. XIXB: no. XX: da infiammagione si cagioni il lecargo. XXB: no. XXI: Per distendimento e per corruzione egli sia. XXIB: Non già per soverchianza, ma per la qualità dell'esalazione avvegna. XXII: La fames e la feresia di tutto il corpo. XXIIB: Dallo stomaco solamente provenga. XXIIC: sia sol nel pensiero e nell'immaginazione. XXIII: La sete per disseccamento s’accenda. XXIIB: no. XIII: Nello stomaco due diverse operazioni si facciano. XXIIIB: no. XXIV: dalla pellicella dentro dal cerebro traggano il lor principio i nervi. XXIVB: Lo traggan da quella di fuora.e parganti medicine operino XXV: per lo corpo spargendosi. XXVB: Colloro scorrimento solamente, senza spargerſi vuotino. XXVI: usarsieno purganti medica nienti. XXVIB: no. XXVIC: Da ſegnar sia. XXVIC: no. XXVD: sia da dare a febbricoli il vino. XXVE: no. XXVI: Ad operar debbano il bagno. XXVIB: no. XXVII: Nell' accrescimento de’nrali sia da far il cristeo agl'infermi. XXVIIB: no. XXVII: In su’l principio delle malattie fan da usar le unzioni. XXVIIB: no. XXVIII: Nella testa possano ad operarsi i cataplasmi. XXVIIIB: no; ma solamente vi li debbano porre cose odorifere. XXIX: Esser giovevoli quelle cose che muovono a vomito. XXIXB: no. XXX: Dal cuor si dirami al corpo il sangue. XXXB: no. XXXI: Gli spiriti dal cuor si mandiitos ne dall'arterie sien tratti. XXXIB: no. XXXII: Da per se il cuor si muova. XXXIII: no. XXXIVA: L’arterie per lor natura sieno stanza del sangue. XXXVB: no. XXXVI: tutti i vali che soprastano, e gonfiano, sono semplici. XXXVIB: i ricettacoli sieno in voglie in tessure. XXXVII: Per mezzo de’ nervi facciali il sentimiento, el moto. XXXVIIB: no. XXXVIII: Il cuor e principio delle vene. XXXVIIIB: no. XXXVIIIC: E il fegato. XXXVIIID: no. E: il ventricolo. F: no. XXXIX Tutti i ricetacoli si diramino dalle pellicelle che vestono il cerebro. XXXIXB: no. 90: Il pulmore e principio dell'arterie. 91: no. 92: L’arteria, la quale sta presso alla spina, sia di tutt'altre arterie capo. 93: no. 94: dal cuor nasceno tutte l’arterie. 95: no. 96: dalla membrana del cerebro traggano i nervi origine, non già dal cuore. 97: no. 98: non nel cuore, ma nella testa la potenza ittellettuale dimori. 99: nel cuore. 100: nel ventricino del cerebro ella sia. Ma di cotante rivolture e mutamenti d'opinioni e di sentimenti certamente Dicanilio Egeo non è da maravigliare, se tanto forse ancor fa Galieno medesimo, ove in concio gli fosse venuto. E di ciò Galieno stesso ne’ suoi libri si va millantando sommamente di poter improvviso ci alcuna serta de’ medici de' suoi tempi a buona ragion difendere. Perchè se dir non vogliamo, esser egli stato Galieno un riottoso giuntatore, o berlingatore sofista, che co’ suoi fisicoſi aggiramenti per diritto, e a torto il tutto a difender togliendo, uccellar n'avesse voluto, convien di necessità affermare, ciascuna setta de’ suoi tempi anche secondo il sentimento di lui essere stata igualmente ragionevole; e conseguentemente a niuna certezza esser la filosofia appoggiata. Eccme chè Galieno ciò dimenticando vanti sovente di poter far pruova de’ suoi detti, avendo sé pre in lor concio nuove dimostrazioni. Non però di meno X 2 (il ci ta, 7 il dirò pur con buonapace di lui) le sue millanterie row vente fogliono in vanissimo vento riuscire. Anzi Galieno medesimo dimentendosi talvolta, e in più luoghi contastan dosi, ne fà della sua bessaggine, e della sua poca fermezza avvedere. Quid enim, dice di lui stizzosamente gridando il Giuberti, quid enim in Galeni scriptis frequentiusoc currit, quam ipsum plerumque videre, quod alibi multis rationibus fuerai demolitus, id constantssime afferere? ERi nieri de' Solenandriz non men del Giuberti della dottrina di Galieno intendentissimo, così parimente avvisollo. Galenus, quiuberrimo ingenio fuit, ca oratione liberali ferè prodigus, innumeros propem conscripsit libros: in quibus rerum et dogmatum multitudine plurima sunt discrepantia, nec fo bi ipsis consentientia; quasi quis attentem cum judicio legit, fi quis diligenter in unum colligit, ingens chaos agnoscit. Ma lo dirò di vantaggio (il che non mi sarebbe per avventura peralcun creduto, se con l'autorità del medeſimo Galieno io non gliene facelli certa, e ben falda pruova) che se ancor la filosofia fosse dattanto, che a saper dicer to molte, e molte di quelle cose aggiugnesse, le quali per addietro dicemmo esser di quelle, che in quistion cadono tutto'l giorno, e più altre assai: ne meno alla sicura nell’operar sarebbe; abbisognado a tale effetto, secondo Galieno, che molto bene in prima la propria natura, e complexione di colui si conoscesse, il quale sarebbe da filosofare. il che ſecondo, che egli medesimo apertamente confessa, non si può per partito alcuno bastevolmente giammairav viſare, Ma se sì poco da noi in filosofia per la sua dubbiezza è da avere a capitale la ragione, non però dimeno e'non creda alcuno, che sicura ne fia la sperienza. Anzi per maggiormente incerta, e dubbiosa più avanti per noi sarà mo Itrata. Perchè seguiranne poi sicuramente, che non purla sagione dalla sperienza accompagnata, valevol sia a render certa, elicura la medicina; concioffieco fachè verisimile a verisimile accozzando; e no certo a non certo, e per lunghi argomentise pruove che vi si aggiugono, non potrà mai, che I certa, e incontratabil fia, ſicuramente riſorgerne. Magià ſi è per queſte, e per altre coſe addietro diviſa te veduto a baſtanza, e con quanta diligenza per noi li è potuto la varietà delle ſette della medicina, e le diverſe; e ſoventi fiate contrarie inaniere del medicare, e la varieră dell'opinioni, che fra’mnedicanti di tempo in tempo ſono venute in sù, non da altro, che dalla grandiſſima incertez za dell'arte pervenire; egli forza fit, ch'al preſente fati gi per noi ſi duri in eſatninar le letto della medicina come già proponemmo, ed intorno a quelle i noſtri fenti menti ſpiegare; quantunque a chi attentamente voleſse alle parole, che fino adora di tutta la medicina breveme te abbiam fitto, riguardare, non farebbe forſe meſtieri più diſtintamente diviſargliene, potendoſi ognuno a ſuffi cienza accorgere, ſe giammai un'arte così dubbiola, in coſtante, ed incerta poſſa avere in ſe dottrina, o principi tali, che su vi poſſa huom porrealcuno ſtabile fondamen to, e ſicuro. Ma per dar cominciainento dalla volgare Empirica, chiamata imperfetta, è ella certamente la più copioſa, c abbondevol di ſeguaci, che tutt'altre ſchieredi medicina unite inſieme, e rannodate fi vantino giamnsai d'arrollare; infanto, che dir potrei, come ad altro pro polito il noſtro lirico, Non ba tanti animili il far fra l'onde, Ne lafsio fupra'lcerchio de la lung Vide mai tante ſtelle alcuna notte, Ne tanti augeili albergan per ti boſchi, Ne tant’erbe ebbe maicampo,nepiaggia. Onde ebbe ragionevol cagion di dubitare colui, ſe più coſtoro ſi foſſero, o l'infinita ſchiera degli ſciocchi; ne ba fa tutti interamente a comprendere quel volgar diſtico, Fingitfemedicumquiſquis idiota profanus, Iudæus.... hiſtrio, rafor, anns. E ben diſſe il Carlectone: Medicos ſe fingunt quoque Rizo tomi, Seplaſarii, fordidi Balneatores, triobolares Phleboto matores,fpurcidici Lenones, indo&tiparochiaram Sacrificuli, favella egli de’miniſtri della falla ſciſmatica Chieſa In 1 3 ghileſe, de'quali fa parole altresì, e forte ſi duole il Pri meroſio ) Chymiſte carboniperdes, audaculi Edentato res, impudentiſſimi V romantes, veteratores Fatidici, lj bidinoja obſtetrices 231Sádes, a pre cæteris omnibus perfi da illa, ingratifimaque impoſtorum gens, Pharmacopo le; qui ſuntin Rep. agrorum pernicies,reimedicècalamitas, & Libitin & præſides. Che più, fe toccar quaſi co’mani l'innuincrabil torina di sì farti medici al Duca Nicolò da Ferrara il motteggevol Gonnella, allor, che nel novero di coloro, oltre allamaggiorparte della Città, il medeſimo Duca arrollando ripole; ed egli era così celebre, e ftima to tanto in quella Città la volgare Empirica, che molti, e molti de'Razionali inedici oltreinodo godeano di militar ſotto le ſue inſegne. Maper Ferrara medicando quanti Veggo andar io, che barbagianni funo Ridicoli, ineſperti, ed ignoranti: Che non ftudiar d10 anni, fur a ſuono Digran campana alzati al dottorato Per amicizia o per promeſſo dono: Che ne ARISTOTELE mailejer,ne Plato, Ne Avicenna, o Galien, ma due ricette, E le regole appena del Donato. Ma ciò permio avviſo, non altronde certamentewviene, che da una tal naturale inchinazione, che ſempremai inver la medicina par che tuttiegualmente abbiamo, e del co prender quanto quella ne abbia ad ogn’or luogo tra per noi medeſimi, e per gli amici, e per tutt'altre perſone del mondo. E perciocchè ad interamente apprenderla, e ado perarla, qual veramente fi conviene, di grandiflima fiti ca, e di ſudore non ordinarione fa meſtiere, ciaſcuno, co me il meglio puote malmenandola, ed abborrandola, in pochi giorni l'appara, e ſenza troppo diſagio la mette iz opera. E in vero cotalforte di medicina è molto agevole a imprendere, e ſovente dinon poco pregio, eguadagno Suol eller cagione; perchè parecchj diigraziati,cuile robe o per nanfragj, o per fallimenti mancarono, o a giuochi, 4 o dietro a feminine diinondo, o nelle follie dell'Alchimia vanainente fcialacquaronle, ſtenchi alla fine,eigannati ri courar ſoyére al ſicuro porto d'una tal medicina ſi veggo no. Ed ora mi ſovviene di quel gran miniſtro di ſtato, il quale avédo perduti có la grazia del ſuo Principe ache tut ti gli avanzi delle ſue miſere fortune, diedeli ultimamente lo Igraziato a compor ballotte da medicina, e ſpacciarles a prezzo,qual vilisſimo pancacciere, ſoſtentando così l'in felice ſua vecchiaja. Ma non fa meſtier, che intorno a coſtoro lo troppa brin ga mi prenda in manifeſtar le lor beſsaggini, e i loro erro ri; che purtroppo chiaramente per ciaicun ti conoſce quanto eglino ſempremai ciecamente medichino, ed ari fchio, ed a ventura; non ſappiendo talora ne men groſsa mente, econfuſamente i ſegnali delle inalacrie, non che la natura di quelle; perchè convien poi loro nel diviſare, e adoperarc i medicamenti andar ſempre atatone, con af pettarne, timoroli, gli avvenimenti. Maggior fatica fen za fallo rimane in dar giudicio della perfetta Einpirica; la qual per le ſue regolate maniere di adoperare, nelle qualianifeftamente ſi ſcorge aver qualche ſcintilluzza di ragione,puofſi in certo inodło covenevolmente Razionale Empirica chiamare; conciolliecoſachè la perfetta Empi rica inedicina ſopra uma falrima baſe aver ſembri le ſue fondamenta, che è la fperienza, non folamente per la baſ. fa gente, ma per gl’ifteli medici raziunali cotanto ſtimata, e a capital tenuta: che apertamente talora, e in ifcritto, e in voce una delle due colonne della medicina chiamarla fogliono; eſſendo l'altra, fecondo lor ſentimenti la ragio ne. Anzi huomini chiarillimi diqueſta medeſima ſembra glia de'Razionali cotáto agli Empirici nemica (tra’quali fur ERACLIDE DA TARANTO medico e filosofo di sì gran sapere, e così nell'arte eſercitato, che agevolmente e' li puotè ad ogni più eccellére medico greco paragonare) abbadonādo la lor fetta Razionale e laſciate affatto le ragioni alla fola sperienza degliEmpirici ricoverati alla fine ſi rifuggirono;ed altri comechè perſeverino nella ſetta de’ razionali, pur ma niſeſtanente confeilano eſſer ſoventi volte da antiporre la sperienza alla ragione; e dicono, che ove d'una parte la ragione, e d'altra la ſperienza il contrario ne perſuadono, che allora il medico laſciar debba affatto la ragione, e la ſperienza ſolamente ſeguire. Ed infra filosofi di grido ARISTOTELE apertamente confeffa, all'arti tutte aſſai più di con cio, e d’utile la sperienza recare, che la ragione, e che'l medico maggiorinente in pregio ſormonti nel far pruova continuo degl’ammalati, che con beccarſi tutto giorno il cervello ne’libri. E quel scrittore, che col ſuo acu tilimo intendimento ſi ſeppe così addentro innoltrare ne gli affari del mondo, avvisa, la medicina non eller altro, che sperienza fatta dagl’antichi medici, fopra la quale fosi dano i medici preſenti i loro giudicj; ma prima dilui avea detto Quintiliano, medicina ex observatione salubrium, atq; his contrariorum reperta est, & ut quibufdam placet,tota co hat experimentis; nondimeno l'Empirica medicina, non che abbia giammai nulla di certo, anzi ſoventi volte in graviffimi errori traſcorrer ſuole, laſciandoſi oltre al dove. re alla ſola ſperienza ciecanente guidare; la qual come Ippocrate grandiffimo ſperimentatore avviſa, ſovente è fallace,e vana. E in vero ſe la ſperienza è ricordo di quel le coſe,le quali più d'una volta ſtate ſono oſſervate, chi oſerà mai certamente affermare, che ciò che più volte av venne, debba poi altre, cd altre volte ſomigliantemente avvenire? Certamente niuno, ſe non colui ſolamente, che inveſtigatane la cagione, onde quelle volte già que gli effetti avvennero,delle ſeguenti riuſcite ragionevoli ar gométi potrà cavarc; delle quali cagioni, ſe le medeſime ſaranno, certamente nc ſeguiranno i medeſimi effetti, ma ſe peravventura non ſaran deffe,o quanto diverſi,e varjef. ferti uſcir ne potranno; ſenzachè la medeſima cagione per la diverſità delle molte circoſtanze, che l'accompagnano, non ſempre ſuole i inedeſimi effetti produrre, ina diver ſi, ſecondo la diverſità delle perſone, de'luoghi, c d'altre coſe, che vi concorrono, Alche ficome in tutte ſcienze è ſommainente da riguardare, così non è da traſcurar punto in medicina: nella quale avviſaſi a giornate, noul ſempre i medeſimi mali dallemedeſime cagioni avvenire: non ſempre congiurar le medeſime circoſtanze in mante ner le medeſimemalattie: e finalmente non ſempre que, mali, che i medefimi eſſer ſembrano, effer veramente ta li, quali ſi pajano; concioſliecoſachè i ſegni tutti e gli in dizj, pe'qualicomprender ſi poſſono,ingannevoliſovente, e fallaci fieno, facendo veduta d'eſſer manifeſtamented un male, il qual poi tutt'altro ſarà di quel, che noi alla prima faccia argomentiamo. Ma ne meno giudicar puoſ, fi con piena certezza, ſe ſia ſtata opera del medicamento il migliorare,e'l guarirc dello infermo; imperciocchè tal volta dalla ſola natura del malato, o del male ſuole ava venire; ed altri pur follemente immaginerà, eſſere dal ſuo medicamento ſolamente ſeguito. E allora più mala gevol ciò, e intralciato ſi rende, quando all'ammalato più d'un rimedio ſi porge; perciocchè allora non può age. volmente imbroccarſi, qual di que’tanti medicamenti ab bia per avventura all'inferno approdato. Ma tacciaſi al preſente di ciò, che di leggier forſe po trebbeſi ſchivare, comealtresì è da tacer della credenza, la qual ſenza manifeſto riſchio d'errore non ſi può piena mente alle ſtorie degli ſcrittori preſtare: coſa la qual già tanto contra gli Empirici rimproverarſuole Galieno. Ne meno faticheremo in dir cola alcuna intorno al paſſag gio, che da parte a parte far fogliono gli Empirici, e dal la ben compoſta analogia di male in male; che ben ciaſ cuno a prim'occhio potrà agevolmente comprendere,quã. to ftrabocchevole, e inviluppata ſia la lor dottrina, e d'e videntiſſimi riſchj tutta ripiena. Manon fia forſe fuor di propoſito il rapportare al preſente ciò che della ſperienza un graviſſimo autore, e più, che altri per avventura in quella eſercitato ne manifeſta dicendo,eſſer la ſperienza in man del medico, non altrimenti, che il cuor di bella donna in mano di fido amante; il quale, quádo più immagi na di tenerlo ſtretto allora quello in altrui inani ſe n'è vo lato. Verità anchemolto ben conoſciuta all'avvedutiſſi. Y moje 170 Ragionamento Terzo mo, e faviſſimo ſperimentator de’noftri tempi Franceſco Redi; il quale ſcrive trovargiornalmente, che le ſperien ze più malagevoli, e più fallaci lien quelle, le quali intor no alle coſe medicinali fi fanno. Ma volete voi, ch'lo brievemente vidia a diyedere quanto vana, e fallace ſia nella medicina la ſperienza? Ella non ha mai potuto ne pur una delle famoſe quiſtioni appianare, che mai ſempre le penne de'medici tengono affaticate. Ma riguardando i maeſtri, e fondacori della Metodica medicina all'incertezza dell'Empirica: e d'altra parte av viſando quanto la Razionale in ſu le fanfaluche degli ar gomenti, e delle ſofiſticherie vanamente s'aggiri: vollero ſolamente a certe poche coſe veriffime, e manifeſte del tutto appiccarfi, e quivi l'arte tutta della lor medicina piantare. Eglino a due foli generi i mali tutti del mondo riſtringono: uno de'quali diſcorrente, e l'altro ſtretto chiamano. Naſce il diſcorrente allora, quando i pori del corpo fon ſoverchiamente allargati, e fatti maggiori aſſai di quelli, che in prima erano; o quando altri nuovamen te accreſciuti glie ne ſono; e lo ſtretto allo incontro è quż do le parti oleremodo ſtrette infra loro, e congiunte lì ſo no, perchètalora, o più abbondevolmente, o più di ra do li vuota il corpo. Quinci eglino due forme di manife fti indizj di ciò, che far li dee argomentar fogliono: una di ſtrignere, ed una di allargare: e queſte chiaman comu nità curative, e quelle paſſive; aggiugnendovi di vantag gio le comunità temporali, cioè a dire il principio, l'avā zamento, il vigore, e lo ſcemo della malattia. E percioc chè il male talvolta d'amendue le prime comunità con polto effer ſoglia, cioè diſcorrente inſieme, e ſtretto: vo gliono allora i metodici, doverſi la cura alla maggiore, e più ragguardevol parte ſolamente indirizzare. E tanto baſtial preſente aver de’loro principj accennato; chi più addentro ne vuol ſpiare,leggane più diſtintamente in Ga lieno, e Proſpero Alpini, il qualcon lunga fatica accolſe inſieme, e ragunò tutti gli avanzi dell'antica Metodica medicina, e di difender quella con cutta forza oſtinata medite i senza troppa mente ſi ſtudia; ma non puote però per fatica, che v'ado: peri far sì,che non rieſca malagevoltroppo,ed intralcia to a' curioſi l'apprenderne intera la dottrina; concioſie coſachè alcune coſe, poco forſe bene, e fedelmente egli rapporti; ed in altre faccia meſtiere andar pur tentone, ed alla cieca. Ma lo quanto è a me, voglio al preſente più di Galie no medeſimo eſſer liberale a'Signori Metodici, e conce der loro di vantaggio molte, emolte di quelle coſe, che fatica durare, agevolmente negar loro po trei. Sien pure, com'eglino s'avviſano, le comunità cut te manifeſte, e piane, e a quelle nulla mai oppor ſi poſſa: or come, e in qual modo baſterà ciò ſapere per prender aº mali conſiglio, ſenza più oltre ricercare argomenti a ciò opportuniz ma eglino nel medicare ſi laſcian pure allora ciecamente trarre alla ſperienza; adunque eglino anco ra in ſembraglia de’Razionali, e degli Empirici andando alla ventura, e facendo argomento dall' incertezza degli avvenimenti, manifeſtamente talora inceſpando traripa no. Ma ciò traſandando,ſia pur da curar malattia di ſtret tezza, come di poftema, o d'altro ſomigliante malore, che di allargamento abbia biſogno: manifeſta coſa è,che la materia ingozzata, e rattenuta in qualche luogo della perſona;cotal ſtrettezza cagioni; ed acciocchè poſſa li beramente far punta, ed uſcir fuora, conviene in primas, che la durezza liſciolga, ed ammolliſca: ed altro s'impré da con argomenti a ciò fare valevoli, & opportuni. Or come potrà mai ciò ſeguirc, ſe non ſi ravvili in prima, di qual natura ſia la materia indurata, acciocchè poi libera mente il ſuo vero, ed acconcio rimedio trovare, ed adato tar viſi poſſa: O forſe ciò, che ſcioglie una ſoſtanza,co sì ſomigliantemente tutt'altre ſcioglier puote? anzi talora in contrario da quello indurar le veggiamo, Limus, ut hic durefcit, bæc ut cera liquefcit V no, eodemque igne: Ed ecco brievemente abbattuta a terra l'evidenza de Metodici; ecco, che pur convien loro entro i confini de? 1 1 Y 2 Razionali medici alla fine ricoverare. Ne più intorno alla lor dottrina impiegherovvial preſente parola. Ma delle ſchiere Razionali degli antichi Greci così ſcarſe rimaſe ſono appreflo noile memorie, che non v'ha luogo alcuno di diviſarne, non che d'abburattarle, o per avventura riprovarle; anzi ne men ſaper certamente por ſiamo, chi mai ſtato fi foſle il primiero tra'Greci, cui foſ ſe venuto fatto di dar principio alla Razional medicina, e ciò chealtrove andato ſe n'è per noi ricercando, non li è potuto ancora così rinvenire, che foſſe valevole a to gliere ogni dubbietà. Ma non è egli però da porre in for ſe, ove ſottilmente la coſa ſia riguardata, che la Razional medicina da tempi aſſai più lõtani di quel, che per avven tura comunemente s'eſtima, tragga la ſua origine; e forſe forſe ella è sì antica, che non pur ne convien dire, ch'af fai prima della volgare Empirica ella naſceffe, ma chel Empirica volgare ſia della Razionale, anzi, che no giove nil parto, e creatura;la qual coſa in sì fatta guiſa leggier mente noitoccheremo. Quelle coſe onde diſcacciar ſi ſogliono talora da' corpi le malattie, e che rimedj comunemente ſi chiamano, con vien dineceſſità, che tutte da ſe ſteſſo l'huomo le im prenda (non avendo altri ch'inſegnar gliele poſſa ) natu ralmente, da alquante poche in fuora ſi alla medicina non fanno, le quali gli vengono da' bruti animali dimoſtre; ma può tali medicamenti l'huomo ap prendere, o a caſo in effi abbattendoſi; o col diſcorſo in veſtigandogli. E concioffiecoſachèrariſien quei rimedi, che a caſo ritrovar ſi poſſano; nc ſembri veriſimil punto, che le tante erbe, e radici, onde negli antichiſſimi tempi, non pur le ferite, ma gl'interni malori altresì medicavan ſi, veniſſero a ſorte lor conoſciute; rimane adunque, che per la più parte dalla ragione i medicamêti ftati fieno ſco verti. Ma come que'primi rozzi huomini per queſta via aveſſero potuto rinvenir le sì varie virtù de'medicamen ti, non è coſa molto malagevole per avventura ad inveſti gare,ſopratutto cui voglia pormente a'bruti, e andar mi > che nulla qua nutamente ſpiando come tutto di s'adoperino in ritrovar le medicine perloro malattie. I brutistutto che d'anima ragionevole privi, pur nondimeno oltre a' ſenſi, ſi trova no di tutto ciò, che a lor fa meſtiere a comprendere le; coſe neceſſarie al proprio mantenimento, baſtantemente provveduti,anziabbondevolmente dalla larga, e prodi ga mano della natura arricchiti. Vengono talora agli animali le medicine dal caſo di moſtre, comedel Dittamo, erba crinita, e di purpureo fiore, avvenir ſuole, eſca oltremnodo gradita, e foave al palato delle capre; onde ſoventi fiate ſavoroſamente la paſcono; e ravviſando elleno, che ſe mai ferite vengano da' cacciatori dopo haverla poc'anzi paſciuta,dalla fe. rita, allora Volontario per fe loftralſe'n eſce, ſi riſtagna di preſente il ſangue, e ractamente ſe ne fugge il dolore: ad ogni ora poi,che ferite ſi ſentono, a paſcerlo frettoloſe ſe ne corrono; e per queſta da noi menzionata ſtrada, e non già per quella del ſognato, e favoloſo iſtin > to,. maſtra natura alle montane Capre ne inſegna la virtù celata Qualor vengon percole, e lor rimane Nel fianco affilala faetta alata; e a queſto medeſimo modo fors'anche addottrinati De la Scimmia il Leon languente, ed egro Avidamente cerca il feropaſto; E beve il Pardo de la Capra il ſangue, Epafcei ramofcei d'oliva il Cervo; perocchè eſſendone cibati a caſo, allora, che infermi fi ritrovavano, giovevoli aſsai ſperimentarongli: E ſomi gliantemente altresì La teſtuggine allor, che'l fero tofco De la ſerpe l'ancide, e dentro ſerpė Il paſciuto velen falute,, e vita Dall'Origano cerca, e non indarno. Opera ſomigliantemente del caſo, e' certamente ſema bra,ſe per qualche male infaſtiditi,dalcibo aftenendoſi gli animali avviſan riuſcir cotale aſtinenza loro giovevole, c perciò per innanzi per ſimili cagioni ſi rimangono di ci barſi. Ma con più ſottil modo, e più fagacemente ven gono gli opportuni medicamenti di vantaggio lor cono ſciuti; comene'lupi,ne'gatti, e ne' cani, per tacer d'al tri, manifeſtamenie ſcorger ne lece, allora, che ſenten doſi eſſi aggravare, e moleſtar lo ſtomaco pe'l guaſto, e corrotto cibo, ed avviſando, che alcune erbe, le quali talora forſe loro punſero il muſo, poſſano, ſtuzzicando le parti interne,provocar di leggieri il vomito; di quelle op portunamente ſi vagliono. Chiunque andaſle poi con qualche minuta diligenza, e ſollecitudinc ricercando, ravviſerebbe per avventura,che ove il gran fattore della natura ha della ragionevole ani ma privi i bruti animali, abbia nondimeno lor dato forſe alcun ſentimento de’noſtri più dilicato, e perſpicace, valevole più agevolmente a comprendere ogni menoma impreſſione, che lor da ſenſibilioggetti ſi venga a fare, on de poſſano la lor vita acconciamente regolare; ma ſe tal ſentimento poi, cone ſovente avvenir egli ſuole, diritta mente non gliſcorge, elli ne argomento alcuno hanno di riparare a'lor mali, ne fanno, ne poſſono dalle mortali di ſavventure in modoniuno ſchermirſi;perchè veggiam tut to dì le capre, le pecore, le vacche, i cavalli, ed altri ani mali infermar gravemente; e ſpeſſe volte per aver palaiu to erbe nocevoli, e velenoſe; il che quando mai altra ra gion no'l dimoſtraſse, nc dà chiaramente a divedere, non ritrovarſi veramente negli animali quel maraviglioſo, ed inverifimilc iſtinto, che cosi inagnificamente lor s’attribui ſce percoloro, che non ſi avanzan più oltre nel filoſofare, che nella prima ſola corteccia delle coſe. Or ſe tanto a’ bruti animaliè conceduto, che poſſan talora con qualche dilicato ſentimento, e con rozzo, ed imperfetto modo in veſtigare, o pure rinvenir qualche ombra di Razional medicina; come non aurà potuto l'huomo, ſoura loro d'anima fpirituale, e ragionevole, e immortal dotato come 1 dico non avrà potuto ſino a’ primi tempi, e col naſcente mondo, col diſcorſo i medicamenti ricercare, e ritrovare? ſenzachè fa meſtier certamente all'huomo, ſe ſcovrir pure egli vuole la naſcoſa virtù medicinale o di pianta, o d'ani male, o di vegetabile alcuno, prender in duce, e in iſcor ta la ragione; imperocchè l'huomo non gode di quella feli cità in guatando le coſe, che grande a maraviglia aver-, fi ſcorge ne'bruti; ne'quali, coine di ſopra dicevamo, o liau per le ſvariate diſpoſizioni degli organi, o ſia pure, che'l di Icorſo rechi qualche impedimento alſentire, Dove manca ragione ilfenfu abbonda. E in confermazione di quanto lo dico, s'egli ſi riandaſſero, comechè leggiermente l'antiche memoric, ſi ravviſerebbe apertamente, che a'primi maeſtri della medicina convenne valerſi della ragione per inveſtigare, e rinvenire i medica menti. E percominciar da’ Cineſi: Popoli ſenza fallo di tutt'altri più antichi:leggeſi ne' loro annali, che'l grans, monarcaCinnungo,il quale ſuccedette a Fojo che no guari dopo il diluvio refle l'imperio della Cina, c che quivi prin cipe de' medici, e inventore della medicina vien comune mentetenuto, ritrovaſſe perpruova fatta in ſe medeſimo la virtù di molte, emolte radici, e piante, abili non ineno produrre, che a diſcacciare lemalattie; ech'egli ne compo neſſe varj, e varj libri, de'quali infino ad ora li ſon valuti, e fi vagliono anche oggidi i Cineſi medici con felicità non or dinaria nel medicare. Or non sebra mica egli credibile che a caſola prima fiata e' poteſſe Cinnungo pormano a quel la tal pianta, o radice per farne la pruova? Ma è veriſimil molto, che foſpinto e'veniſſe a ciò fare da qualche ragione; altrimenti non ne ſarebbe egli giammai potuto venir a ca po; tanto più, che Cinnúgo, ſicomeivi è furna, nell'anguſto { pazio d'un anno ſolo inveſtigò,e rinvenne ben ſeſſanta ve lenoſi ſemplici, caltrettanti falutevoli,e abili a rintuzzare, e a vincere illoro veleno;e contale, e tanto avvedimento econ ſucceſſi così fortunati egli vi ſi adoperava, che comu neinente buccinavaſi eſſere i luoi occhj vie più aſſai di que' del lupo ccrviero acuti, c penetranti. E più chiaro molto rio ciò che lo ora dico ſi ſcorgerebbe per avventura, ſe colui che ſi diè cura, e impiegò il ſuo ingegno a traslatare in la. tino idioma le croniche de'Cineſi,il medeſimo fatto aveſſe de'volumi della lormedicina. Ma più certo ſi rende, che que'primi Cineſi medici, da ragione ſcorti, aveſſer rivolto l'animo ad inveſtigare i medicamenti,daciò ch'eglino a queſt'opera fare, ancor della Chimica valuti commodamé te fi foffero. Per la qual ragione creder pariméte ſi dee, che que', che nell'Egitto la medicina trovarono, i quali altresì della chimica ſcorti furono, e inteſi:parimente ſi foſſero del diſcorſo valuri: non riſtandoſi in ciò, che dal ſolo caſo lor ſi parava davanti.E per dir qualche coſa anche della Scitia, la quale non ſoggetta allo imperio d'altra nazione, conten de d'antichità (comeper Trogo Pompeo narraſi) coll’Egit to medeſimo; tutto che da Erodoto un tal vanto alla Fri gia s'attribuiſca;della Scitia lo dico, chi mai recar potrebbe in dubbio, che i primi medici per via della ragione rinve niſſero i medicamenti: ſe in Prometeo, dal quale, ebbe il ſuo primo cominciamento la medicina degli Sciti, accom pagnata mai ſempre ſi vide la medicina, colla filoſofia; e fe non aveſſero alla ragion poſto mente, come mai que’primi medici dell'Arabia ravviſar potevano la puzza del bitume, e delle barbe de'becchi dar cõpéſo alle infermità cagiona te a que'popoli dalla ſoverchiaza degli odori ſoavi. Ne meno in verità nella Fenicia i nepoti diScdoc, i quali, co me narraſi per Sáconiato,o lia Filalete, appo Euſebio ritro varono primieraméte, qual ſorte d'erbe, oqual maniera di cã to valevol.fi foſſe adomar queſta,o quella malattia, ſenza l'ajuto d'una profodiſfına natural filoſofia ciò inveſtigar mai poterono.I Druidi poi dellaGallia, nõ meno in filoſofia, che in medicina ſcarti,che infra l'altre medicine adoperavano, quel,che dica Plinio, il fūmo della ſelaginc al mal degli oc chj.no avrebbon fenza fallo mai a caſo ardendo la ſelagine Sperimétar potuto agli occhi giovevole ilſuo fumo:ma pri ma di ciò fare cóvié dire,ch'eglino aveſſero in prima alla na tura dalla ſelagine,e del ſuo voláte ſale poſto mente. E p fa vellar della Grecia, da qualche ragione moſli furono Chirone, Eſculapio, Ercole, Melampo, ed Achille a valerli primieramente della Centaurea, dell'Aſclepio, dell'Eraclio, dell’Achillea, piante che non poteva certamente il caſo loro porle davanti, per effere elle amariſſime, e non mai per huom veruno, in cibo uſate. E ſe mai eglino vo lendole ferite turare,di qualch'erba ſi yalſero, la qual ven. ne sì factamente la ſua virtù a ſcoprire: comepotea mai ciò avvenire delle radici, malimamente, che alcune di loro convien che con zappe, o marre dalla terra a viva forza li ſuellano; e parea vana affatto una tal fatica, quando coll erbe più agevolmente, ed aflaimeglio all'aperte piaghe approdar ſi potea. Fu dunque l'eſperienza dalla ragion; preceduta; ed ebbe il corto Quintiliano affermando il contrario colà ove difle:Vulnusdeligavitaliquis, ante quam hèc ars effet, & febrem quiete, eo abftinentia, non quia rationem videbat:fed quia id valetudo coëgerat,mis tigavit. E come mai fu egli poſſibile, che Melampo, il quale parve, che nella greca medicina introduceſte l'uſo de'mi nerali,rinveniſſe a caſo effer la ruggine del ferro giovevo le alla ſterilità. Ma ſe razionali furono avvegnachè roz zi, ed imperfetti quegli antichisſimimaeſtri, ed invento. ri della medicina,convenevole certamente egli ſembra.' che qualche coſa anche di loro da dir ſia. E daremoa tal diviſamento da'Cineſi principio. Coa me, e quanto oltre nelle coſe della natura filoſofando s'a vanzaſſero i Cinefi, il grande teſtè di noi mentovata lin peradorc Cinnungo, e gli altri primi medici della Cina, Io porto per me ferma opinione, che penetrar non ſi pof ſa per huom giammai; concioſsiecorachè i libri poco mé, che tutti furono al niente dalle voraci fiamme condotti, gia ſon due mila anni traſcorſi, per ordine dell'Imperado re Cino, il quale rizzò incontro a’ Tartari quelle ma. raviglioſe mura, e delle lettere implacabil nimico maisé pre moſtrosſi; avviſando faggiamente, che'l troppo ſtudio di quelle, rendea gli animi ſnervati, ed imbelli, ediſadar tia difender la patria dagli allalti nimici; e ſe alcuni pure Z de’più antichi tuttavia per avventura ſalvınerimaſero.no vi avendo ora chi intender poſſa que’miſterioſi caratteri, ne’quali ſcritti furono, è tanto, comeſe ſmarriti anch'e glino, ed abbruciati fi foſſero. Ma da qualche veſtigio, che tuttavia ne rimane, ſi ſcorge apertamente, che i Ci neſi nella geometria, nella filoſofia, e nell'altre ſcienze molto furono addottrinati, e ſi valſero della Chimica, e conobbero,un ſolo eſſere il principio delle coſe naturali; e fer ſecondi principj le cinque ſoſtanze dette da loro me tallo, legno, acqua, fuoco, e terra; ma diverſi da que' corpi, che comunemente con tal nome ſi chiamano, e non disſimili per avventura da' principj de' noftri Chi mici. Ma ſi par certamente, che Cinnungo non molto nella filoſofia, e nella medicina avanzaffeli; mal potendo per opera d'un ſol huomo sì grand'impreſa, c di tanta lievas in un tratto naſcere, e ricevere l'ultimo ſuo compimen to; masſimamente alla medicina richiedendofi molto re po, e che molti, e niolti huomini a tal lavoro s'adoperino, acciocchè a qualche ſtato di perfezione, e di eccellenza pervenga. Ma chi no ſarà periſcorgere anco a prima viſta poi qua to fien favoloſe, ed inverilimili quelle pruove,chedi Cin nungo ſi narrano, che egli faceſſe in ſe ſteſſo lo eſperimen so delle piante nocevoli, e rift orative, e che nello ſpazio sì breved'una ſola giornata, tante ne provaſse, e ne ripro vaffc; il che fa chiaramente conoſcere, quanto la medici na, ſe acquiſtar vuole eſtimazione, in tutti i tempi, cd in ructii luoghi abbia in coſtume di porre in opera le men zogne, ele millanterie. Quáto poi valeſſero gli antichi medici Cineſi nella Chi mica, chi potrà mai indovinare fi la ſolo, che eglino s' ingegnarono di trovar medicine, non ſolo acconce agua rir le malattie: ma anche valevoli negli huomioi ad eter nar la vita; e comediRaimondo, d'Arnaldo da Villanova millantano i frati della Roſea Croce, che vivi anche oggi ſien o, che vadano ſempremaiper lo mondo vagando; co sì fin 1 ! sì fingono,e danno ora ad intenderei moderni Cineli Chi mici, eſser molti, e molti di quegli antichiſapienti, che, fattafi colla gran medicina immortali, dimorino nelle cia me degli altisſiini monti, e quindi vadano, anzi volino dove lor più ſia a grado, ed anche in Cielo, Sciolti da tutte qualitati umane, Ma più, che tutt'altri ſi laſciarono nella Cina da' Chia mici ingannare i troppo ſemplici Imperadori;e narraſi,che da lor perſuaſo l'Inperadore luoo a comporla medicinas da poter divenire immortale, faceſse fabbricar un pala gio di cedro, di cipreſso,di canfora, e d'altri legni odori feri, che'l loro odore lūgia inolte miglia facea ſentirſi.Al zò nel palagio una torre dibronzo altisſima nella cui vce ta eravi una conca parimente di bronzo, formara a guiſe d'unamano, nella quale ogni mattina avcaſi a raccorres. purisſima la celeſte rugiada: ove macerar pofcia fi dovea no le perle, ed altre peregrine, e rare coſe, delle quali compor li doveva quel prezioſo, e divino medicamento, che facea l'immortalità conſeguirea qualunque adoper2= valo. Ed anche a’giorni noftri ſi veggon per tutti i reami diquel vaſtisų moimperia, andar ad ogn'ora vagabon deggiando, in grandisſimonumero i Chimici; i quali in fingendoſi dicſer nati più e più ſecoli addietro, vendon altrui la medicina, che fà gli huomini immortali, e tra per le loro trappole, e per lo deſiderio, che è in ciaſcheduno di conſeguir l'immortalità, ritrovano, e più tra’letterati che tra gli altri, chilorpreſta credenza. Ma laſciando sì fatte memorie da parte ſare, ſi ſcorge quáto ben forniti foſſero de'rimedi efficaci gli antichi Ci ucfi, dalle maraviglioſe cure, che con eſli tuttavia fanno i moderni medici. Solamente potrebbeſilevare incontro taluno,dicendo che non ſiano giunti a ſaper quanto dilet. tevol ſia ilber freddo, ne mai habbia meſſo in uſo i ſalalli; ma tali appoſizioni recar potrebbonſi eglino a ſomma lo da; imperocchè col ber caldo ſi ſono i Cineſi ſottratti al nale della pietra, alle podagre, e ad altre atrociffime malattie, che così frequenti, ed abbondevoli ſono fra z 2 noi. E quanto al non trar ſangue, oltre al novero de’gre ei, e de’noftri medicanti, che ſeguono il medeſimo iſtitu to: la ben lunga preſcrizione di quaranta, e più ſecoli, ne? quali han potuto guarir feliciffimamente, ed in iſpazio al ſai brieve le malattie, non gli rende degni, non dico di ſcuſa, ma d'altiſſima loda? eda ciò vorrei, che poneſſer mente tutti coloro, che così di leggieri ſi laſciano a' medi ci trar ſangue. I moderni Cineſi medici non altrimenti, che gli antichi già fi faceſſero, de’ſemi, delle frondi, delle corteccie d'alcune piante ſi vagliono, e d'alcune pictre al tresì, e ſerban libri, ove ſon figurate l'immagini di tali piante, e pietre, e le loro virtù narrate ne’precetti, e nelle regolemedicinali,non guarida noi eglino ne van lontani. Preſcrivono a’loro infermi sì rigoroſe diete, che alle volte laſcian paſſar fino a venti dà fenza dar loro altro cibo, che certo ſugo dipere, tre, o quattro fiate il giorno, e ber quãto acqua richieggiono; e sì molte graviilime malattie a buonoje perfetto ſtato riducono. Immagina alcuno, che tal dieta non potrebbe fofferirſi da'noſtri huomini; ma quanto egli vada errato,ilpuò far vedere l'eſſere ſtata in uſo appo gli antichiſſimi greci, e l'eſſere i Cineſi di noi più teneri, e dilicati aſſai.Ma che che ſia di queſte,van tutto dì i Cineſi compilando libride'ſegni,delle cagioni, e degli effetti de' mali,da’quali,non avendo nella Cina ſcuole di medicina, e da' proprj lor padri i Cineſi la ſogliono apparare • Di. cono tutti, che i Cineſi medici ſono séza alcun paragone aſſai più de’noftri,valenti in guarire i mali; ma nondimeno ancora ivi colla medicina s'accompagna l'inganno, e l'ar tificio; ed eſſendo eglino intendenti molto de'polli, tutta via per parere in ciò da più affai, s'interrégono fin’a mez ' ora, fingendo d'oſſervar minutamente le lor mutazioni in toccandogli, e danno a diveder dapoi, che con una tal diligenza eſſi aggiungano a ſapere d'ogni varia, e più oc culta interna diſpoſizione, e diqualunque più ſtrana mas, lattia la natura, e la vera cagione. Ma è per mio avviſo il pregio maggiore della lor medi cina l'aver certi argomenti da poter talora porre utile cos penſo alle più gravi malattie. Vlano frequentemente la prezioſa radice, detta da loro Ginſen, dalla quale ſové te ſi veggon guarir gl'infermi, eziandio morienti, e però una libra di eſa, non val meno di tre libre d'argento. Nil la io dico dell'erba Te, percioccliè ella ſi adopera tutto dì anche ora appo noi: comcchè non ſi veggian quì d'cila que’maraviglici effetti, che narraſi ſoler nella Cina mo ſtrare, o ch'ella colla navigazion così lunga perda per lo maggior parte quel, che chiamar fogliono i Chimici vola tile Alcali, e con eſſo inſieme poco men, che tutta la ſui virtù, o qualunque altra ſiane la c.igione. Eavvegnachè alcuni de’noftri ſcrittori ſi ſieno ſtudiati di tor via altrui ogni buona opinione, che di tal erba portavano,dicendo, ch'ella ſoglia talor cagionare Apoplesſia a cui ſovente l'u fi; non però dimeno noi ben ſappiamo per pruova, cſſer ciò falſo; e ſe egli è incontrato, che alcuno avendola ado perata fia caduto in Apopleſſia, certamente non vi ha avu to ella parte niuna. Egli è vero però, che talerba ſoglia apportar qualche moleſtia, ſe ſi prenda allor, che nello ſto maco non ben digeſto il cibo ſia, e di ſoverchio acetofo: il che adoperar ſuole altresì il Cafè, ela Cicolata; alla, qual coſa riparare ottimo rimedio è il digiuno. Ma io no voglio laſciar di dire con queſta opportunità, che in luogo dell'erba Te lo ſoglio ſověte imporre a'malati qualch'er ba noftrale, cos lor giovamento non ordinario:e che gli Ollandeſi portano nella Cina le frondi della Salvia involte a guiſa della Te, e per una libra di frondi di Salvia tre tan te ne riportano di Te; cotanto le ſtraniere coſe più in pre gio delle propie dagli huomini tengonſi. Ma avvegnachènella Cina i medici, quanto alfatto del medicare fien così fortunati, comediviſato abbiamo: non dimeno avuti vi ſono in pochisſimo pregio,c ſtima. E quinci avvien poi, che tutti coloro, i quali ſien d'alto in gegno, e di ſaggio avvedimento dalla natura forniti,nul. la badandoviaila, moral filoſofia ſtudioſamente ſi volga no, onde a'primi onori del regno agevolmente poi pervé gono.E ciò permio avviſo è Itata una delle principalica, 1 { gioni 1 1 ! doti, gioni, per la quale de'buoni libri dell'antica medicina, e della natural filoſofia pochi rottami ſi trovino, e che a? di noſtri ogni ſtudio di natural filoſofia tralandiſi. Ma per trapaſſare all’Egiziaca medicina; quanto chia ri,erinominati al inondo, ſe'n viſſero già lungamente per fama, quegli avveduti, e ſapientisſimifiloſofi, i quali la medicina ritrovarono primieramente, e ſtabilirono il Egitto: altrettanto certamente ſono oggi in lunga dimé cicáza ſepolti, e ſol ſervono all'umana cupidigia per pruos va della leggerezza, e della fragiltà della gloria monda na; perciocchè eziandio di coloro, iquali ebbero già vé tura d'eſſer collocati infra’Dei immortali, non è a noine meno il vero nome pervenir potuto. Caſtigo ben douuto all'invidia,cd alla tracotanza di quei Principi, e Sacer, i quali ſotto pene gravisſime a tutti l'apparare, e l'eſercitar la medicina victarono; e per maggiormente na ſconderla, e invilupparla con cnimmi,econ caratteri da lor ſolamente compreſi,ſempremai di ricoprirne i miſteri ſommamente ſi ſtudiarono. Perchè io giudico, che po co, o nulla della medicina Egiziaca apprender certamen te poteſsero que'curioſisſimi valent'huomini Greci, i qua li tratti dal deſiderio d'appararla inſieme colla inacemati ca, e colla filoſofia naturale, e altre buone arti nell'Egit to pellegrinarono; ed in quel tempo appunto per lor di (grazia vi giunſero, che caduta ivi affatto dal ſuo ſplendo re la medicina, ed empirica volgar tutta divenuta, comun nemcnte da' medici ſcimuniti, e balordi ſi malmenava; ed i ſacerdoti l'antiche note più non intendeano, o ſe pu re qualche coſa ne penetravano,ſommamente avari delle loro dottrine, tenevanſi d'inſegnarle altrui, e masſima mente a' foreſtieri; del che manifeſtisfima tcftimonianza è il leggere ciò che della ſtrologia avvisò Luciano, quan do e' diſſe, che i Greci niente di eſsa affatto dagli Egizi n'aveano mai apparato. Eλήνες δε ούτε παρ' Αιθίοπων,ούτε παρ' Aiguntów césporogins ma ei ou fèy óxx gav. Senzachè, ſe a Greci al trôde venuta foſse la medicina,certamente ella non ſareb be tanto indugiaca ad allignarvi, e di veniryi a tanto ſtato 1 1 1 di gloria, a quanto ella poi in proceſſo di tempo creſcen do aggiunſe. E comechè per oltraggio de'ſecoli niunas certezza a noi dell’Egiziaca medicina ſia pervenuta;pur potrebbeſi ragionevolmente argomentare, eſſere ſtata quella a grandiflima altezza da' Re, e da' Sacerdoti del l'Egitto condotta, da ciò, che ne ragiona Omero colà ove narra, che la moglie di Tono Re dell'Egitto diede la can to celebrata Nepente ad Elena. Ενθ' αύτ ' αλ' ενόησ’ Ελένη Διος εκγεγαλα, Αυίκ' άρ' ας οίνον βάλε φάρμακον ένθεν έπιναν Νηπενθέςτ'αχολόν τε, κακών επίληθον απάντων. ος το καταβρόξειεν επην κρητήρι μιγείη, Ούκ άν εφημέριος γε βάλοι και δάκρυ παρειών, ουδ ' ά οι κατατεθναίη μήτης τε, πα ής τε, Ουδ' ή οι πιοπάροιθεν αδελφεόν, και φίλον τον Χαλκώ δηγόων, όδ' οφθαλμοίσιν δρώτα. Τοϊα Διός θυγάτης έχε φάρμακα μηπόενα Β'θλα ταοι Πολύδαμνα πόρην Θώνος παρξί κοιτς. Onde a la bella, e vaga Elena, figlia Del ſommo Giove, allbor nuovopenſiero Venne ne l'alma, che nel vino infuſe Ch'efibevean 'un prezioſo, alme Liquur, che toſto ogni dolor diſcaccia Da l'almaoppreſſa, e l'iraſpegne, ed indi Induce dolce, e graziojo oblio Di tutti i mali; onde ſe alcun guſtoffe Di tal bevanda nella tazza miſta Non potria mai per tutto un giorno intero Sparger dagli occhi per le guance l'onde Del pianto; o d'attriftarſi;ancorchè morti Davanti aveſſe i cari madre, e padre; Nefe con gli occhi propri anco vedele, Troncar col ferro l'infelici membra, Del frate amato, o del fuo dolce figlio. Cosifatti i liquori erano, e i ſughi De l'alma figlia del gran Giove eterno; Cb'erano utili, e buoni, a lei dati Polidanna gli avea di ToneSpoſa. Il qual medicamento, qualcertamente fi foſſe in que' te pi malagevol molto è ora ad inveſtigare; ne comporta il mio ſcarſo ragionamento, che lungamente lo ne favelli, ne che fra sì varie, e cotante opinioni inutilmente lo mº aggiri, mentre altri vogliono, non altro eſſere la Nepēte, che una ſemplice, e cruda erba infuſa nel vino; altri allo incontro medicina artificioſamente preparata, chi dice d'uno, echi di più ſemplici compoſtage lavorata. Io giu dico, ne forſe da' limiti della ragione gran tratto queſto mio ſentimento s'allontana, chela Nepente opera foffe della Chimica; imperocchè sì piacevole ed efficace,e pre zioſo medicaméro, qual ne vien dagli antichi narrato, al tro cercaméte non ſembra chedi que', che tutto dà i noſtri Chimici metton fuora nelle loro botteghe. E fu nel vero la Chimica nell'Egitto antichiſſima; pcrciocchè Vulcano figliuol di Nilo guardiano dell'Egitto,Opi, e Fia da' ter razzani anche chianato,daprima il fuoco, e l'uſo di quel lo ritrovò, e diè principio egli altresì all'arti tutte, che del fuoco ſi ſervono; il cheoltre a Zezze moderno, e ſti mato da alcuni poco veritiere ſcrittore, il qual dice. Πύρ, και τέχνας δε ύκ πυρος οπό σας tutti i Tcologi,ei Filoſofi antichi di comun ſentimento af fermano; 'e Vulcano altresì, ſecondo ARISTOTELE, e Sozione appresso Diogene Laerzio, inveſtigò da prima i prin cipj della natural filoſofia;perchè potrebbeſi danoi a buo na ragione affermare, aver lui per dover più acconciamé te farc, e rinvenir ne'corpi diſciolti, eminuzzati, i primi lor componenti, adoperato da prima il fuoco, e sì fatta niente dato alla Chimica rozzamente principio. E quin ci nacque per avventura la favola dell'adulterio di Marte, e di Venere da Vulcano a gli altri Dii paleſato; con la qualc ne vollono per mio avviſo dare a divedere quegli antichi filoſofanti, qualche gran miſtero della Chimic'arte eſſere ſtato da Vulcano primieramenre trovato, e dalui poſcia a’Re,ea Sacerdotidimoſtro.Ma laſciando a'Chimi ci tutto ciò, che dietro a tal fatto potrebbeſi più profon damente eſaminare. lo dico, che non ha dubbio veruno avere gli Egizi Sacerdoti per la lor medicina tratto gran, pro dalla Chimica; imperocchè ella venne a tale, cheti to altamente ne puotè favellare il dolciſſimo Iſocrate con queſte parole: gli Egizi Sacerdoti per guarire il corpo dalle malattie ritrovarono la medicina; non già quella, che ſi valede’ınedicamenti pericoloſi, ma ſi bene quell'al tra, che potendoſi colla medeſima ſicurtà adoperare, che gli ordinarj cibi d'ogni giorno; recar ſuole poi tanti, e ta li giovamenti, che gli fa vivere ſani lunghisſimo tempo: Ιατρικήν εξεύρον επικερίαν, και διακεκινδυνευμένοις φαρμάκοις χρω - μένην: αλα τοιέτοις, α τίω μεασφάλμαν έχ ομοίαν τη τροφή τη καθ' ημέραν: τας δε ωφελείας τηλικαύτας, ωπ εκείνες ομολογεμένως ogcevozallos ng Harga61w télys civos. Magran pezza avanti Iſo crate, e nel tempo appunto, che in Egitto fioriva la ve ra medicina, avea detto Omero, dell'Egitto favellando, Ιητςος δε έκασΘ-έπιαμενΘ-. περί πάντων Αν θρώπων. cioè, ficome volgarizza il Baccelli: Ivi ciaſcuno è melico perfetto, F più,ch'gn 'altro ajui perito, e fuggio. Poichè in verità ciò che ſconciamente dell'Egiziaca me dicina vien narraco per Diodoro, quand'e'dice: gli Egi zj non aver meſſo maialtra forte di rimedio in uſo, fe non fe criſtci folamente, purgative medicine, c digiuni, e vo mitivi: τας δε νόσους περκαταλαμβανόμενα και θεραπεύει το σώμα. τα κλυσμοϊς, και ποτίμοις τε καθαρτηρίοις και νησείαις και εμέ. τους και ενίοτε μου καθ' εκάτην ημέραν, ενίοτε δε τάς ή παρgς ημέρας dia menortes.e'debbeſi ſolaincnte di quc'tempi prendere,nc' quali la medicina da'Re, c da' Sacerdoti, in mano della più minuta bordaglia del popolo eraſi vergognoſamente invilita, eſſendo già caduta dal ſuo primo ſplendore, ed in iſtato di miſerevole ignoranza ridotta; ſicome avviſaſi da quelle leggi, da noi nel primo ragionamento recate, che il mediconon aveſſeſi giammaia dipartir dagli ammae ſtramenti degli antichi, ne foſſe lecito porger a’malati al; A a cun medicamentoprima del quarto giorno, ſe non ſe a ri ſchio della propia perſona del medico. Al che forſe po nendo mente il Corringio, e non diſtinguendo i tempi, af ſolutamente ebbe a dire, la medicina degli Egizi eſſere ſtaca rozza aſſaige materiale. Ma ſe perciò dal Borric chio egli meritevolmente ne venne biafimato, egli fareb be certamente aſſai più da biaſimar Galieno, il qual ne gar non potendo, che gli Egizi prima de Greci avefler contezza de'medicamenti, pure osò dire eſſere ſtato il lo ro conoſcimento affai groſſo, e rozzo, e che con l'agio di aprire i cadaveri p imbalſamargli ritrovato aveſſero mol te coſe alla notomia dell'huomo pertinéti. Ed era tanto in: Egitto la medicina caduta,e avvallata allor;che quel pae ſe da’Perſianiſoggiogato venne, e domato in guerra, che i ſuoimedicipiù celebri, e più valorofi, quali effer do veano ſenza fallo que", che medicavano il Re,furono vin ti agevoliſſimamente da Greci, i quali ancora erano roz zi, enovizi nell'arte. Caduto poil'Egitto ſotto l'Imperio d'Aleſſandro, l'Egi ziaca medicina, ruinà anch'ella, e tracollò sì facramente, che i medeſimi Egizi da’Grecimaeſtri poi l'apparavano.. E infino ALLA CADURA DEL ROMANO IMPERIO in Aleſſandria le ſcuole di varie ſette de' medicanti Greci in grande ſtato, edorrevole durarono; e tratto tratto poi crebbero in tanta fama di dottrina, che a Galieno, come egli me delimo ne da teſtimonianza,non increbbe d'andarvi per udir Nemeſiano, famofiflimo infra’diſcepoli di Quinto,che di Galien medeſimo era ſtaro maeſtro; e ſi mantennero le ſcuole d'Aleſſandria in ranta grandezza, e ſplendore lun go ſpazio di tempo intanto, che, come narra Ammiano Marcellino,baſtava in que'tempi, chehuomo aveſſe ftu diato in medicina in Aleſſandria per eſſer in pregio poi di valentiſſimo medico tcnuto. Narrali per Damaſcio nella vita d'Iſidoro, i fatti egregi di Giacomo medico Aleſſandrino, per li quali meritò egli, che gli ſi ergeſſero ſtatue in parecchi luoghi, e ſpezial mente in Atene. Coſtui quarant'anni continui logorò facendo eſperienze, e dopo aver tutto il mondo traverſato cſercendo ſempre la medicina, ed inſegnandola al figlio, che ſeco conduceva: pervenuto poi in Coſtantinopoli,tro vò quivi medici, che poco, o nulla di medicina ſappien. do, non con la ſperienza, come doveano, ma congli al trui detti medicavano a ritroſo, anzi (conciamente mal megavano i caccivelli infermi; maGiacomoin medican do, cosi egli, come il figlio ſervivaſi delle purgagioni, e debagni,non traendo a niuno mai ſaugue. E quanto al fatto della Cirugia, oglino ſolean molto di rado porre in opera il ferro, e'l fuoco; ma le maligne piaghe con la fola dieta curavano. Eben coſtoro amendue farebbero da ri putar degni di molta loda, ſe non foſſero ſtati ſuperſtizio fi, e idolatri, come par,che dica Fozio, comechè un an rico autore appo Suida affermi, Giacomo eſſere ſtato Criſtiano; maavviſa il dottiflimo Iſacco Cauſaboni, che Fozio ciò aveſſe derto di Giaccmo, moſſo ſolamente da coloro, che'l credeano mago,per le maraviglioſe cure, ch'ei facea. Dice di più Damaſcio, che diſcepolo di Giacomo fù Aſclepiodoto, il qual di muſico, ch'egli era in prima,li fè medico, e infra breve tempo cotanto in ſapere vantag gioſli, che in molte coſc, emolte, ſi laſciò dietro il me delimo ſuo maeſtro. Fu coſtui gran matematico, c'l più eccellente infra tutti i filoſofanti de' ſuoi tempi, comeche di coranto intendimento non foſſe, che poteſse i miſteri d'Orfco, e de’lavj Caldej penetrare. Egli de' medici de ſuoi tempi avea ſolamente in pregio Giacomo ſuo Mae ftro, e degli antichi, Ippocrate, Sorano, Cilice, e Mal leoco. Perchè ſembra, ch'egli, e Giacomo ſuo maeſtro foſſero ſtati metodici; e quinci ſi ſcorge,ch'a'que'tempi vi cran de'valenr'huomini, che in niun pregio avcano Ga lieno. Rinovò Aſclepiodoro felicemente l'uſo dell'Elleboro bianco, già lungo tempo traſandato, e ne vinſe incura bili malori. Entrò egli nella famoſa mofeta di lerapoli,e ſe ne uſcì ſalvo, ponendoſi al naſo, e alla bocca la veltes Аа 2 ripie 188 Ragionamento Terzo ripiegata sì fattamente, che racchiuder vi poteſse qual che particella d'aria, onde egli agevolmente reſpirar do veſse; quindi accoppiando inſieme varj minerali,con ma. raviglioſo artificio una ſomigliante mofeta ne compoſe. Ciò, che di vantaggio di lui narra Damaſcio per non recarvi tedio al preſente tralaſcio. Tanto vo dire,che de' medici d'Aleſsandria altro non raccontandoſi, ſi vede,che poco alla fama riſponder dovea il loro valore. Ne pur nell'Egitto la greca medicina nel ſuo buon nome lungo tempo durò; perciocchè di mano in mano piggiorando magagnoli, finche tolto al ROMANO IMPERIO per opera de' capitani d'Omare l’Egitto, e venuto in mano de Saracenia poco a poco vi fi ſpenſe la greca medicina, ed in ſuo luogo un'imperfetta volgare Empirica vi rimaſe;alla quale ſucce dette poi, e fin’ora vi regna un'ombra di Razionale, o per ine’dire, di Metodica mcdicina aſsai rozza, e ſciocca, iil una, o in duc cotali coſe appiccata, e ſtabilita, le quali ſembrano a que’maeſtri ſcimmioni, cvidenti principi, fondamenta di quella, c non altrimenti che ſe foſscro già al tempo d'Erodoto. Egli ha ora in Egitto un'infinita fchiera di medicanti barattieri, i quali per pochi bajocchi ottenuta licenza di medicare dall'Alimbali, over princi pe de'medici, deſtinato, ed eletto a quell'uficio per denaro dal Barsa del Cairo, o che ſappia egli, o non ſappia di me dicina,medicano, una o più fortidi malattie, comc più lo ro in concio viene; c giudicano eglino, due ſole eſser lo cagioni di cutti mali yil caldo, e'l freddo; ed eſsendo l’E gitto grandemente al callo ſottopoſto, immaginano qui vi follemnente, che tutte le malattie, o procedan dal cal do, o fian da ftrabocchevole caldo almeno accompa gnate; perchè giudicando, che l’un contrario ſi ſpegna per Taltro, ſeryonli mai ſempre di rimedj acconci, ſecondo la loro opinione, e valevoli a rinfreſcare. Perchè traggon · largamente ſangue in tutte le empleſſioni, in tutte l'età, in tutte le ſtagioni dell'anno, ed a tutti infermi, e dan be re acqua agghiacciata; il che «i ! anto fuor d'ogni ragione la fascia, non ha cercamente huomo di sì mezzano intendimento, che di leggieri avviſar no'l poſsa; ſenzachè i cauterj, e le ſcarificazioni, che crudelisſimamente, e fen za riguardo alcuno anche nelle più menome malattie ſo gliono adoperare, tolgono affitto loro ogni buon nome; intanto, che affatto contrarj a quegli antichi mediciſein brano, i quali avean piacevoli argomenti folamente il uſo. Ma ritornando alla medicina degli antichisſimi Egizzi, certamente lo non ſo, come iſcuſar ſi poſsa quel graviſſi mo fallo, nel quale que'Re, e Sacerdoti incorſero in te nendo cotanto a riguardo l'eſercizio della medicina; il că po della quale è così vaſto, e così malagevole, cheappe na, che più, e più persone colle lunghe eſperienze, e col le ragioui una menoma parte oggi coltivar ne poſsano. Ma no meno da biaſimar íono gli Egizi medici, per aver oglino primieramente colla vanità della divinatoria fero logia, corrotta, e magagnata la medicina, ſe pure è de preſtar credenza alle parole di Giulio Firmico: Nekepfo egli dice, Ægypri jufiifimus Imperator, a Aſtrologus val de bonus, per ipfos Decanos omnia vitia, valetudineſques collegit, oftendens quam valetudinem Decanus efficeret, quia natura alia vincitur, quia Deum frequenter alius Deus vincit, ex contrariis ideonaturis, contrariiſque pote ftatibusgumnium ægritudinum medelas divinæ rationisma gifteriis invenit. Triginta ſex itaque Decani omnem Zo diaci poffident circulum, ac per duodecim fignorum numeri ifte Deorum numerus, ideft decanurum dividitur. Se poi dagli antichi medici cra ſtato introdotta nell’E gitto quell'uſanza, che nel tempo d'Erodoto, nel quale fenza fallo la buona medicina iyi affatto era mancata, fer bavali, clic per tre giorni di ciaſcun meſe dell'anno gli huomini per conſervarli fani ſi purgavano col vomito, e ſi Ιανοvg!'inteftini τόπω δε ζόης τοιώδε διαχρέωνται: συρμαΐζεσαι σάς ημέρας επεξής μηνός εκάσg, εμέτοισι θηρώμενοι την υγίειην, και κλύσμασι, νομίζονες απο τών τξεφόνων στίων πάσας τας νούσος τοϊσι ανθρώποισι γίνεσθαι. loper me non credo,come si poſſa generalmere favellando, comeche rieſca calor peravventura giovevole, tal coſtume in tutto lodare; conciolliecoſachè coll'uſare il yomito, ei medicamenti, lo ſtomaco, e gl'inteftini a poco a poco s'indebiliſcono, e fi ſconvolgono notabilmente, e alconciano oltremodo le lor commeſſure, c li vuotano in ſieme con i cattivi umori le mucilagini, che veſtono, e difendono le loro membrane, ed altre, ed altre ſoſtanze non ſolo utili, ma ſommamente ancora all'economia, all' operazioni, ed alla vita degli animali neceſsarie, non che gioveyoli. Altro non rimane a dire dell'Egiziaca medi cina, ſe non chenon coſtumò ella ne meno allora quando era caduta dal ſuo primiero ſtato, per quel, che ſe ne ſap pia, di trarre mai ſangue: comechè comunemente credam ſi, che dall'Ippopotamo, o ſia cavallo di fiume, in Egitto da prima i medici l'apprendeſsero; perciocchè egli,come Diodoro racconta,nel fondo del Nilo quivi dimora, oco. me Ammian Marcellino, fra'canneci delle rive di quel 1o. Ma Prometeo, o pure Magog, onde ebbero la prima origine gli Sciti arricchìpreſso quelli la medicina, per ſua opera primieramente ritrovata, dinoli, e molti nobili, cgiovevoli medicaméri, co’quali ebbe egli fortuna dico si felicemente eſercitarla,ch'egli ragionevolmente ſi vanta appreſso il ſublime poera Eſchilo, ch'egli medicava me [ colando inſieme medicine acconce, ed atce a domar le malattie, con guarir tutti coloro, che così malamente ſi ritrovavano ridotti, che non ſi cran pocuti per niun riine dio in prima riſanare, e che prima, che a lui veniſse fatto di ritrovarle, e di porle in opera, non vi avea rimedio al cuno per le malattie To pelice régason, & nis vóm glori, Ουκ ήν αλεξημ’ δεν έδε Βρωμον, ρύ χρυσόν, και δε πιςον, αλα φαρμάκων Χρία κατέσκέλoντo πείν έγω σφίσιν Εδάξα κegίσεις ηπίων ακεσμάτων Αις τας απάσας εξαμάζονται νόσος, Ma di lui ancor ragionevolmente dottar ſi potrebbe, nó egli aveffe dato alla ſua medicina principio con iſcioglie re i corpi più duri, quali ſono i mecalli, per opera dei fuo co: mentre è coſtante fama appo l'ancichità, ch'egli pri ma di tutti da varie, e varie minicre ritraele i metallico me ſi può da que'verli vedere, Χαλκόν, σίδηρον, άργυρον, χρυσύνη της Φησεν αν πάροιθω εξεύρειν έμού. E conciofoffe coſa, che atanta impreſa gli faceſſe cer tamente meſtieri riguardar ſottilmente ancora al fuoco, e in diverſi gradi partirlo, e perciocchèegli peravventura, del calor del Sole ſervisſi: finſero, ch'egli affole il fuoco imbofaco aveſle. Ma tafciam di ciò, a' Chimici il penſie ro, come anche di fpiegar l'allegoria dell'effer Prometeo al raffo legato per comandamento diGiove; il che cicga remente vien nel fuo idioma da Eſchilo medeſimo narra to, ed è nel noſtro tale il ſenſo, Gia fiam giunti,o Vulcan, ne'vaflicamping E nelle folitadini deferte Per dove a Scitia valle; a te s'aſpetta i decreti adempir delGenitore; Equeſto audace all'alte eccelſe rupi Con lacci indiſolubil didiamante Legar fra i duri faffi. Eito fplendore Del foco onnipotente, onde tu altero N'andavigià, furotti, damortali Dono nefeo: dritroi, che d'un sal fallo Pagbiagli Dei la meritata pent's ondiegti a venerar l'alto potere Di Giove, e l'huomo almeno amare apprenda. lo perme immagino, che Promeceo, o che'l caſo il por: taile, o da qualche ragione ſoſpinto accendeffè il fuoco con i raggi del ſole, e che da queſto traerſe origine la fa voka accennata. Mache che fia di ciò, li diede Prome teo ad intcrpetrarc i ſogni, e diceſi, ch'ei trovaſſe gli au gurj: Teórus di nous isoleradio il che fa vedere, che in fin al ſuo primo cominciamento la f media medicina ſempremaiaccompagnoli coll’arti ſuperſtizio: ſe, e vane. Ma come poi gli Scici della medicina di Pro meteo ſi valeſſero, Io non ne ſaprei dir altro, ſalvo, cho eglino ſi ſervivano delle purgagioni, e della dieta nel cu rare le malattie, come appo Plutarco riferiſce Talete την δίαιταν αυτή & τον καθαρμον ο χρώνται Σκύθαι περί τους κάμ νοντας και αφθόνως, και προθύμως παραδέδωκε Ma trapaſſando ora alla Fenicia:ebbe ella ne'primi tem pi huomini d'acutiſſimo, e maraviglioſo intendimento, e ſopratütro aſſai vaghi d'inveſtigar le biſogne del mondo, si fattamente, che prima di ciaſcun'altra nazione ebbero ardimento di condurfi per nuovi mari (fabbricando ad ogni ora nuove Città, e popolandole di gente douunque capitavano ) a lontani, e per addietro non conoſciuti paeſi d'Africa, e d’Aſia, e d'Europa, perchè creduto venne, che i Fenici foſſero i primi, che ſolcaſſero co’legni il mare: onde diſſe Tibullo. * Prima ratem ventis credere docta Tyros. Perchègiudicar dobbiamo, eſſere ſtati i Fenici, abi. li ſoprammodo a imprender colle ſpeculazioni, e colles ſperienze la medicina, e che però ella nella Fenicii, fe condochè la natura d'un talc affare comporta, alcolmo della perfezioneaggiugneſſe. E di vero convennc, cho gni ſua parte arricchita, ed illuſtrata veniſſe dal profondo fapere di Cadino, come colui, che dopo diverſe,c glorio ſe vittorie dell'Africa avute, come canta Nonno nel poema dc'fatti dfBacco, edificò cento Città. •... Λιβυσίδι ΚαδμG- αρούρη Δομήσας πολέων εκατονταδα, δωκε δεκάτη Δύσβαζα λαϊνέοις υφούμενα τύχεα πύργοις e ſpezialmente la famoſa di Tebe, ove egli regnar poi do veva. Quindi egli ſpogliando dell'antica rozzezza, c pe coraggine la grecia, le diedeinſieme con tante, e tante doctrine molti vocaboli, e le lettere ancora, e l'umanità. Il chei medeſimi Greci apertainente confeſſano, dicendo Erodoto >, per tacer di Filoſtrato, d'Ateneo, e di Diogene Laerzio, chei Fenici, che vennero con Cadmo, con molte altre dottrine, le lettere, che prima non vi erano, in Grecia introduffero: ως δε Φοίνικες ούτοι ως συν Κάδμω απικό. μενοι, εσήγαγαν διδασκάλια είς τους Ελληνας, και δη, και γράμματα ουκ toy a aliv eranos. Conoſceſi anche manifeftamenre in ciò, che nella Fenicia la vera natural filoſofia allora regnavas la quale, come Strabone,e Poſſidonio appo Seſto Empiri co raccontano, da Moſco Fenice, Leucippo da prima apparò. Ma più che altro, l'eccellenza della medicina de Fenicj ne da manifeſtamente a divedere, l'aver ella pe netrar ſaputo, come ſi poſſa col canto domar la ferocia delle malattic; al che certamente imprendere ben ſalda, e ſottil filoſofia loro abbiſognava, eun'avvedimento non. miga ordinario, e volgare; eſſendo loro neceſſario dilige temente inveſtigare la materia del ſuono, qual veramen te ella lia, ſe l'aria, o ſe pure qualche ſpezial ſoſtanza,che nell'aria fi crovi, e le figure, e la grandezza delle parti celle, che la compongono; e come la lingua, che forma il canto per via di miſure, e di convenenza, or fortemen te, or pianamente, or velocemente, or tardamente la muova; e coine sì fatto movimento or s’uniſca, or fi di funiſca, or creſca, or manchi, or fi rifletta, or s’attuti; come intorno intorno egli così velocemete liſpáda;e co. me all'orecchio finalmente pervenuta la ſonora ſoſtanza, o penetri i poridel timpano, e per li tortuoſi ſentieri del laberinto, e della chiocciola aggitandoſi, a percooter rat ta ſe'n vada ne'nervi dell’udico, o pure le ſue particelle dieno il lor movinento al timpano, e'l timpano le com munichialle particelle dell'aria, qual falfamente inn.itu chiamaſi, e queſte poi alla membrana, che veſte la chioc ciola il compartano. Ma ſopratutto inveſtigar loro cer tamente ancora conveniva, come le fibre de nervi dell'u dito, rappreſentando fedelmente all'anima lc vare, e va rie maniere, colle quali elleno tocche, e percofie furo no, facciano sì, ch'ella la sì varia, e táta diverſità deluo ni ne venga ad imprendere; e come l'anima poi da una ſorte di ſuono noja, e da un'altra diletto tragga; e come da ciò s'ingenerino in eſſa amore, odio, ira, timore, ed Bb altre, ed altre paſſioni; e come queſte finalinente, o cre ſcendo, o ceſando il movimentodel ſangue, e dell'altre diſcorrenti ſoſtanze del corpo, o allargando, o riſtrignen do, o chiudendo i pori delle parti ſalde, fi rendan valevo li, come d'ingenerare, così anco di menomare, c di eſtin guere parecchie malattie. Mache che ſia del filoſofar, ch'eglino ſi faceſſero intor no a tal facenda, quáto giugner poſta la forza del căto tut to dì ne' bambini a noſtre caſe oggi'l veggiamo; a ' qu ali per lo ſolo canto, avvegnachè non ancora i ſentimenti del le voci pienamente comprendano, s’alleggiano i dolori,e talvolta affatto ancor fi tolgono, e ſi ſeccan ſu le pupille le lagrime,luſingādogli pianaméte alla quiere il sono;e vede ſi talora huomo pe'lcāto aſsõnare, in cui vana ache la virtù dell'oppio ſperimétata ſi era.Il che ne può far fede vero efa fer potuto ciò,che d'Aſclepiade ſi legge cioè ch'egli la rab bioſa furia del ribellante vulgo colla muſica, ecol ſuono eſtingucſse. Mapoimaggiore senza filo ſi prova la virtù del căto,ove ſia chiintéda la ſignificāza delle parole,come quelle, che ancora per ſe ſtelle fole, gli affettinell'animo, valevolia deſtar ſono. Onde non ſenza maraviglia lo lege go in Diodoro, che la muſica dagli Egiziachi, non ſolo inutile, ma nocevole anzi che no venille ſtiinata, Tu'vuge σακην νομίζεσιν, ου μόνον άχρηστν υπάρχειν, αλα, και βλαβεραν, ecio che Eforo appreſſo Polibio dice: la muſica eſſere ſtata ri trovata per ingannare gli huomini: ettes, ¿ ' atémy, aggona πία παρεισήχθαι τους ανθρώποις. Perché non eeglia mio cre dere affatto inveriſimile, che Damone co'l căto aveſſe té perar potuto, e raffrenar le menti offuſcate, ed alterate dall'ebbrezza. E ciò, che narrafi di Terpandro, e d'A rione, ch'aveſſer col canto riſanati gli abitatori di I.esbo; chc di graviſſiine malattie moleſtati, ed oppreffi langui vano; e di Pittagora ciò, che ne narra Eutimio,che a ſuon di cornamuſa aveſſe ad un giovine tutto infiammato d'a moroſo foco, l'ardentiſſime fiamme amoroſe ſmorzate, ad un'altro, che infuriato correva col ferro ignudo, lo sfre nato orgoglio arreſtato; e di Timoteo, che con furioſo canto iſtigaſſe Aleſſandro Macedone a prender l'ar: me; ma addolciando le note sì adoperaffe, che le poneſſe giù di bel nuovo; e di Aſclepiade, che le impazzate men ti, e da furor turbate, aveſſe con ſoave melodia in iſtato di ſanità ridotte; e del medeſimo, che a ſuon di tromba a’ fordi renduto aveſſe l'udito. Ma non così di leggieri pe I ) ſembra,che preſtar ſi poſſa fede a Marziano Capella, il quale afferma,eſſere ſtate guarite le piaghe perla muſi ca; ed à ciò, che diceli d'Itinenia Tebano, che col canto guariſſe la ſciatica, comechè li fien fovente vedute per im provviſo timore, e le podagre, e le quartane febbri dipre ſente fanate. Ma che Talere poi colla ſoavità della Ce tera la peſtilenza aveſſe fugar potutz, coſa ſembra affatto lontana dalla verità. · Ma il valor della muſica ben venne conoſciuto a tutte quelle nazioni, che in mezo alle battaglie vollono i ſuo ni, e l'armonie framettere; come quelle, che troppo va levoli lor lembravano a trarre gli animi de'combattenti, e colle varie note ſvolgergli, ove più l'era a grado; e talora incoraggiargli a più pericoloſe impreſe. E sìi Geti uſa rono le Cetere, e le Siringhe: i Creteſi ', le Lire: i Lidi ed i Lacedemonj gli Auli,a ſuon de'quali pria di comin ciare la miſchia, di cantare un melos qucſti eran uſi, che Embetterio appellarono. E gli Arcadi p incoraggiare la lor giovētù ad altiſſime impreſe, e per addolciar la rozzezza de’ioro animi,cagionata dall'aſprezza dell'aria,, con ogni ſtudio ferventemente alla mulica s'impiegavano; e l'eſſer ne ignoranti aurebbonſi a fommo ſcorno recato; onde diffe Polibio, che fin dalla tenera fanciullezza s’avvezavan gli Arcadi a cantar Inni, e Perni, i quali ſecondo il patrio coſtume erano indirizzati a lodare gli Eroi, e gli Dei della Patria; e altri ufici della lor inuſica va il medelimo Polibio lungamente diviſando; e ne fa anco parola Atenco.. Vennero, ma non guari feliceméte i Fenici da’mcdicanti dell'altre nazioni imitati, i quali le maraviglioſe pruove, che per coſtoro col canto facevanſi ſcorgendo, e non ſap piendone la cagione, ne per iſtudio c'huom vi mertelle Bb giammai penetrar potendola, li fecero a credere, che l'ar monia tucti mali diſcacciar poteſse; anzi vi ebbe di van taggio chi ſconciamente filoſofando immaginò, non ſo lamente ſopra gli animali, maaltresì ſopra l'infenſate co ſe quella ſignoreggiare, e fin ſopra i Cieli, e nel baſso in ferno diſtenderſi. E perciò vollono, che colà giuſo nell abiſso calando Orfeo, co'l ſuon della ſua Cetera ſtrozzal ſe ſu le fauci di Cerbero i latrati, che uſo era contro a ' paſsaggieri con crudel rabbia di mandar fuori: raffermal ſe l'orgoglio delle furie ſmanianti: e l'anime tutte perdue te, aveſler dall'acerbe lor pene alcuna triegua: ne lacera te p allor foſsero dagli Avoltoj a brano a brano le viſce re a Tizio, ne le membra a Siſifo dal grayoſo ſaſso sfra cellare; ne per ſete delle vicine acque, e per fame delle vedute poma arrabbiaſse Tantalo. E tutti quanti in ső ma l'inceſsabili torméti col ſuon della ſua lira in quel paſ ſaggio ſgombraſse; anzi colla dolce armonia sì poteſse fa re, e tanto, che dagli infernali Dei a'regni della luce law ſua cara Euridice otteneſse di riportare; il che vagamen. te deſcriſse l'ingegnoſo latino poeta. T alia dicentem, nervofque ad verba moventem, Exangues flebant animæ,nec Tantalus undam Capravit refugam: ſtupuitq; Ixionis orbis. Nec carpere jecur volucres urniſque vacarunt Belides: inque tuofedifti Siſyphe ſaxo. Tum primum lacrymis vibarum carmine, fama ef Eumenidum maduiſſe genas: nec regia conjux Suſtinet oranti, nec qui regit ima, negare: E per tal cagione altresì,ad imitazione di Teocrito, Virgi lio introduce Alfefibeo a dire Carmina, vel Calo poſuntdeducere lunam. Carminibus Circe focius mutavit V lalei Frigidus in pratis cantando rumpitur anguis: Eplamedeſima cagione pariméte quel noſtro Poeta puo tè far dire alla Ninfa, dicui narrò Ricciardetto aRu. giero: Dal Giella Luna al mio cantar difcende, S'agghiaccia il foco, e l'aria fifa dura, Ed bo talor con ſemplici parole Moffa la terra, ed ho fermato il ſole. Ma cotanto oltre portofſi la ſomma ſmcmoraggine di quegli ſciocchi imitatori de'Fenici, che non ſolamente nel canto, manelle parole ſole ancora una tanta virtù, ed ef ficacia conſiſter crederono, e di quelle in medicando fer vivanſi: onde fi legge in Omero,che colle parole ſtagnals ſero il ſangue delle ferite d’Vliſse i figli d'Autolico, Τονμάρ Αυτολύκου παίδες φίλοι αμφεπένοντο, Ω'πιλήν δ ' ο'δυσπG- αμύμονG- αναθέριο Δήσανέπιαμόνως • επαοιδη δ' αίμα κελαινόν Εχεθος: cioè, Mad' Aurolico i figli eſtrema cura si preſer del divino Vliſſe, e prima Congrand'arte legaron la ferita Tenendo ilſangue, che già fuor n'uſcia Conparole d'incanto entro le vene. Ma non ſolo i greci, maanche i noſtri poeti, per cacer de’latini, ſecondando i ſentimenti del vulgo ciò ſcriſſero, infra' quali il Taſso padre finge, che la donzella della fa ta Silvana medicaſse colle parole quell'Inghileſe Cava liere gravemente per man d'Alidoro ferito, cosìdicendo: E con la forçade'magici incanti Fe in lui tornar la virtù già ſmarrita, Se ricourati i vaghiSpirti erranti, Gli fanò in breve tempo ogni ferita. E dicono altri ſcrittori aſsai, che operino ciò anche le parole in tutt'altre malattie: infra’quali Vindiciano: Namque eft res certa Carmen ab occultis tribuens miracula verbis: e priina di lui Quinto Sereno: Multaquepræterea verborum monftrafilebo; Nam febrem vario depelli carmine polle Vana fuperftitio credit, tremuleque parentes. La qual beſſaggine è durata fempremai, edura tuttavia nel 198 Ragionamento Termo nel mondo, attenendoſi a cotali fraiche, e novelle'; non ſolo la ſcempiata plebe, maancora quei, che tra’letterati tengono qualche luogo; e nel paſſato ſecolo il Perrino,fa mofiflimo Peripatetico, per tacer d'altri di minor liéva, con vaniſſimi ſofiſmi, diſoſtener sì fatte pecoraggini fol lemente argomentoſſi, cercando di dare a divedere,che le parole naturalmente ciò poſſano operare; anzi di vantag gioancor giudicano, che le parole eziandio ſcritte, e ad doffo portate, non ſolo a guarire i mali, e le febbri, ma anche a render yani i colpi delle ſpade, e delle palle degli archibuſi ſommamenteapprodino. Onde poi prendono i noſtri Poeti a favoleggiar de’loro Cavalieri crranti, co me di Ferraù narra l'Arioſto: Ch'habbiate ſignor mio già intefo eftimo, Che Ferraùper tutto era fatato, Fuorche là dovel'alimentoprimo Piglia’lbambin nel ventre ancor ferrato. E del ſuo valorofifſimo Orlando: Era egualmente il Principe d'Anglante Tuttofatato, furrche in una parte: Ferito eller pote a fotto le piante: Ma le guardòcon ogni ſtudio sed arte. Duro era il reſto lor,come diamante (Sela famadal ver nonſi diparte ) E l'uno, e l'altro andòpiùper ornato, Che per biſogno a le battaglie armato. Ma più ridevole in vero, e ſtrana allai, èpreſſo il Bojardo, e l'Arioſto, la novella d'Orillo, il quale ingaggiato a bàttagiia con Grifone, ed Aquilante ſu le ſponde del Ni lo, non mai da que’prodi campioni potea trarſi di vita: imperocchè per virtù diparole,e d'incanto, egli era sì fattamente ciurmato, che dopo eſſere ſminuzzato, e tri tato, di nuovo, que'minuzzoli da per ſe acozzandoſi, -ri tornava, ſicomeprima a vivere, e a combattere; onde cantò il Bojardo Segli tagliafſi il collo, il petto,e l'anca Piùminuto il tritaſi, che'l panico, 6 Mainonſarà dello Spiritoprivo, Spezzato in mille parti torna vivo. Famoſa ſenza fallo, e chiara al mondo fe la medicina de Traci il valencillimo medico, e filoſofante Orfeo, come colui, che per teltimonianza di Clemente Aleſſandrino nelle ſecrete coſe della natura fi fè addétro aſſai; e fu il pri mo, checurioſamente, per quel che ſi ſappia, dell'erbé ſcriſfe: primus, dice Plinio, omnium, quos memoria novit Orpheus de herbis aliqua prodidit. Compoſe egli ancora alcuni libri della natural filoſofia, delle gemme, del ſito delle fibre, e un libro ſe'l ver dice Galieno della compoſia zione degli antidoti, e molti, e molte altri libri di coſe naturali; ſenzachè non ſi può egli di leggier credere, in quanto pregio avuto egli foſſe tra per la dolciſſimaarmo nia del ſuo canto, e per altre ſue rare dottrine, maſlima mente della politica, di cui ſecondamente che ne raccon ta Pauſania, fù egli un gran maeſtro, molte, e molte di di quelle coſe inſegnando, le quali alla vita, e al regime to degli huomini abbiſognano. E anche fu egli pregiato molto, e tenuto a capitale per le molte, e valevoli medi cine a corali malattic non men del corpo, che dell'animo dalui ne'ſuoi infermi felicemente adoperato. E comechè favoloſo affatto, e vano fia ciò, che vien narraro di ſua moglie Euridice,da luicol canto riſuſcitata: non però di meno vogliono molti antichi ſcrittori, che Orfeo la riſa naſſe, preſſo a morte ridotta dal morſo d'una ſerpc, e che poſcia ella ſe ne moriſſe per colpadel medeſimo Orfeo.Ma ſe foſſe veramente d’Orfeo quel poema dell’Argonautica, che la bugiarda Grecia ſotto il ſuo nome divulgò, dottar non ſi potrebbe, che egli non foſſe ſtato della Chimica molto, e molto avviſato, mentre ſi deſcrive in quel libro minutisſimainente ciò, che ſi richiede per lo gran magiſte ro, che deſcritto era, come ſi finge nel libro, che Orfeo con gli altri argonauti a Colco conquiſtarono. E quinci certamente ſi pare poi, che i poeti prendelſer l'occaſione di finger quel celebre favoloſo racconto del Vello dell'o ro:, il quale, come dicono lo ſcoliaſte d'Apollonio,e Suida, e Varino Favorino, altro veramente ei non era, che una pelle, nella quale l'artificiofa maniera da cambiar in oro qualunque altro demetallideſcritta leggevaſi. Ma le tante arti, e ſpezialmente la muſica,e la poeſia; nelle quali dilettavali aſſai Orteo, e l'eſſer egli ſtato, CO me Simplicio riferiſce,autore, ed inventore deltaco, e no per altro, che per iſcuſarſi, e riveſciar ſopra la di lui inevi. tabile neceſſità quelle morti, che per ſua colpa a'poveri in fermi avvenivano, mi dan per avventura giuſta cagione di dubitare, non egli foſſe ſtato nella filoſofia,e nellamedi cina da mé, che altri credevalo;ne tāta loda meritar dovel ſe, quanta in prima guadagnoli nel creſcere dell'arti ap preſſo i troppo ſemplici, enon eſperti antichi, iquali pa ghi ſolainente delle primeapparenze delle coſe, nonnes venivano troppo addétro a penetrare le cagioni;comeche Pittagora ſtudiato oltreinodo ſi foſſe delle doctrine di lui apparare, e diſcerner ſuoi librilegittimi da non veri,ſico me non pochiſcrittori teſtimoniano, e ſpezialmente Siria no, il quale di moſtrare a' fentiinenti d'Orfco que'diPi tagora, e di Platone concordevoli argomentolli. E più avanti è da dottar della ſua dottrina, e valoria; percioc chè non è egli vero ciò, che il ſemplice vulgo parimento di lui credeva, efſer le ſue azioni, ed andamenti tutti con una coral gravità di coſtumi, e lantità di vita ſempremai ſtati accompagnati; conciofoſſe coſa, che egli dimoltes malvage uſanze, c cattive vezze la Grecia cutra gualta, e corrotta aveſſe: Sacra Liberi Patris, dice Lattanzio, pri mus Orpheusinduxit in Greciam, primufque celebravit in monte Bootie Thebis, ubi Liber natus eft. E di vantaggio ſcrive di lui Ovidio: Ille etiam Tbracum populis fuitauthor amores In teneros vertiſe mares: Ma la medicina de Traciin fama,edonor maggiorinen te poi crebbe per opera di Zamolſide, non meno ſaggio, che valoroſo lor Principe, da alcuni fallamente appo Ero doto creduto ſervo, e diſcepolo di Pittagora. Ma della medicina di Zamollide altro noi non abbiano, ſe non quel poco che appo Platone ſe nelegge,cioè,nó poterſi medicar gli occhj ſenza la teſta,ne la teſta ſenza tuttoilcorpo, ne il corpo ſenza l'anima. E queſta dicca Zamolſide eſser la ra gione, perchè molte malattie de'corpi fieno naſcoſe a'me dici Greci, a’quali non è manifeſto dove primjeramente faccia meſtieri applicar la medicina, cioè al tutto, il qua le non iſtando bene, è imposſibile, che qualunque ſuas parte ſe ne ſtea bene;cócioſliecoſachè,ficomc egli dicevil ', ciaſcun noftro bene, o male dall'anima noftra ne diſcenda al corpo, e da quello conſeguentemente a ciaſcuna parte di ſe, e perciò agli occhj ſi partiſca; e però giudicava in prima eſſer l'anima ſopratutto da medicarc; acciocchè bé poi ne ſteſſc la teſta, e tutto il corpo.Mal'anima egli volc va, appo Platone,che da medicar foſsc có incanci; e queſti diceva eſserci buoni ſermoni, e indirizzamenti, i quali certamente fan pro a render l'huomo temperaro, e ſigno reggiante l'impeto de'ſenſi alla ragione rubelli; e quindi 1.2 ſanità al capo, e a tutto il rimanente del corpo agevol mente poicompartirſi: ecco le ſue parole sa's dº itu'sa's Guo ας, τες λόγες είναι τις καλές • εκ δε των τοιέτων λόγων εν αις ψυχαίς σοφροσύνην εγγίγνεσθαι,ής εγγενομένης, και παρέσης ράδιον ήδη είναι την υγίειαν, και τη κεφαλή, και το άλω σώμαπ πορίζων, Ma non facea meſtieri certamente di molto ftudio, e di molta acutezza d'intendimento a porre in aja sì fatti di viſamenti, che poſsono di leggieri cadere in mente anche alle più idiote perlone. Nevero egli ſi ritrova, che le malattie tutte del corpo, dall'anima dependano, o ſem - prc, chepatiſce una parte, debba neceſsariamente patir il tutto, o'lmal delia parte da tutto il corpo, o da qualche parte principale di quelle dependere; perciocchè ben può eſser tutto il rimanente del corpo, ſano, & una, o altra parte ſolamente magagnata. È ciò avvenir tutto dì live de,maſſimamente nelle ferite, ed epfiamenti, che colme dicar la parte offeſa ſola, ſenza badar ad altro, quella feli cemente ſi riſana; e ciò conferma l'eſemplo del fatto a'no ſtri tempi avvenuto, dicolui, che portar non potendo il troppo acerbo dolore, che per la podagra pativa in un de Сс diti del ſuo piè, venne a tanta diſperazione, che preſo un coltello, troncoſselo, ne più mai in altro luogo poi venne gli la podagra. Macon gran prontezza venne abbracciata, e con gra disſima ſuperſtizione oſservata sìfatta guiſa di medicare da'Greci medici razionali; e di quella tuttavia ſivaglio no i noſtri medici ancora, tra per far pompa di quel ſape. re, ch'effi non hanno, ed ancora per menar la cura alla lunga; ma ſopratutto per non aver rimedio opportuno al male; e di cotali ſorti di medicine ſi ſervono, le quali al la malattia punto non s'appartengono; e nondimeno egli no millantando dicono uſarle opportunamente: acciocchè prima il tutto, e le parti principali medicate ſieno; e quin di all'offeſa parte fi venga a dar riparo; e immaginando follemente ancora, che ciò far conaltro argomento non ſi poffa, i lor ſalalli, e le ſtomachevoli purgagioni, che fono i maggiori ricoveri della loro ignoranza, mettono di preſente in opera,co imporgli largamente ovunque più loro aggrada, fino a far infralir gli ſpiriti, e preffo, che amorte giugner i malati; ma ben ſovente incontrar ſuole, che da qualche femminella, o altro menomo Empirico ', cui il vero rimedio ſia conoſciuto, di sì fatte lor cianceri mangan beffati, e ricreduti. Ma per altro poi molto manifeſto fiſcorge, che in Za mollide aſſai più che'l ſapere,parte v’ebbero l'aſtuzic,ele frodi, delle quali niun forſe di lui meglio ſi ſeppe a'luoi tempi valere. Fabbricò egli un belliſſimo palagio (co me narra Erodoto, comeche Strabone altrimentijl fatto deſcriv2 ) nel quale convitava a mangiare la gente più principale, e lor perfuadeva, che ne eſſo, ne alcun di co loro, che gli tenean compagnia giammai morirebbe; ma inſieme con eſo lui dopo il trapallamento della preſentes vita, eterna beatitudine goderebbono. Edificò egli un ' altro palagio ſotto terra, la dove egli infingendoſi mor to ſtette celatamente tre anni; nel qual tempo con pieto fi ſoſpiri, ed amare lagrimc doloroſamente fu pianto da que'popoli; ed uſciione poſcia diè a diyedere, ch'egliera in vi ciò, in vita ritornato; e queſto, ed altro egli ebbe agio di fa. re, perch'era in grandiſſima gloria ſalito, tra per la medi cina, e tra per eller qnci popoli groſſi, e materiali ſoprá modo; intanto, chenon ſolo diedero intera credenza a che detto aveya: ma ancora dopo mortc in cotanta, maraviglia fu tenuto, che venne da loro per Dio adora to; ed a’teinpi di Erodoto eglino ancora avevano in co ſtume di madargli uno ambaſciadore con una nave di cin que hucmini: aʼquali era impoſto, che giunti ad un ſoli tario, ed ermo luogo,prendeſſero per lo piede il detto am baſciadore, e lo ſoſpingelſer ſu in modo tal, ch'eglive niſo a cader giù loura tre lance a tal effetto acconce; il quale fe immantenente ſe ne moriva, eran ſicuri, che Za molde favorevol farebbe ſtato alle lor dimande; ma ſe per avventura morto non foſſe, n'era accagionato, coine indegno dell'ambaſceria, e reo, e perfido huomo era ap pellato; ed un'altro ambaſciadore a queſt'opera fare eleg gevano, al quale le medeſime ambaſciate imponevano Quefta fortuna medeſima appretſo lui participarono i ſuoi fcaltriti diſcepoli, come quei, che poteron dare agevol mente a divedere a quc'ſemplici popoli, che valevoli foſ ſero coʻloro argomenti a dare altrui quella immortalitá che per ſe medeſimi conſeguir non potevano. Ma Bacco, ſapientiſſimo, e valoroſiſſimo Principe de' popoli Affirj, della medicina de' quali ora lo intendo di ragionare, avendo in pochiſſimo tempo a forza d'ar me vinta l’Iberia, e la Libia, e l'Oriente tutto, e più, e più volte calcate colle vittorioſe piante l'arene dell’O ceano, e fin l'ultime regioni della terra penetrate, e po ſtevi per eternamemoria de'ſuoi trionfi quelle due famo ſe colonne: così ragguardevole, e glorioſo in tutto'lmon do divenuto,pur ebbe in cotanto pregio la medicina, che non già monarca, e conquiſtator delmondo, ma medico ſolamente volle elles chiamato. E nel vero così magnifi che, c gloriofe furle fue impreſe, che per tacer de Fenicja ftudiaronli i Greci millantatori colle loro uſate menzogne di Cadmo al nipote, huom di loro nazione propiamente Сс 2 inveſtirle; ma ſi ben non ſeppero con loro novelle la coſa comporre, che non ſene doveſſe manifeſtamente avvede. re ciaſcun, che de'tempi di coloro faceſſe ragione; per ciocchè egli è coſa manifeſta, che molto tempo addietro a Cadmomedeſimo, non che a ſuo nipote, ci foſse Bacco vivuto, ſecondamente che s'avviſa in Euripide, introdu cente nella Bacchide Cadmo a comındare il culto di Bac co, fol perchè egli antico fi foſse: Πατος παραδοχας, άσθ' ομήλικα, χρόνων Κεκτήμεθ', έδεις αντο καβάλει λόγG-. Ed Ateneo,graviſſimo ſcrittore, ſomiglianteméte dice,far fi menzione di Bacco nella lapida del ſepolcro di Nino, il qual viſſe certamente ſeicento anni prima de'tépi di Cad mo; ſenzachè appo Filoſtrato affermano in verità gl'In diani, eſſer Bacco, non dalla Grecia, comealtri crede, ma dall’Affiria nelle loro contrade capitato. La maggior opera, che Bacco in medicina faceſse, ſem bra ſenzafallo il ritrovamento del vino. E ciò fù per av ventura, che adoperando cgli il ſugo dell'uva per cotal fua biſogna a caſoqualche parte nelvaſo avanzata ne for ſe,la qual poi bollendo,e formétandoſi in vino fi cambial fe: e diciò avvedutofi egli, a bello ſtudio poi la colaj provaſse, eriprovaſse, finchè avviſandolo alla fine così ſpiritofo, e giovevole al genere umano l'adoperaſſe in prima nelle malattie, quindi ancora agli huomini ſani lar gamente il concedeſse. Ma forſe egli, ſecondochè lo immagino, per via della Chimica ritrovollo; la qual, ficome in Egitto, così anche doveva allora in quelle con trade ſommamente adoperarſi. E veramente ſolo a'Chi miciconviene col digeſtimento, e formentazione neʼlu ghi vegetabili ſuegliar gli ſpiriti, i quali pigri in prima, e quaſi addormentari in quelli dimoravano. E potrebbe eſser’anche, che Bacco apparato l'aveſse in ciò, che lo frutte, da ſe medeſimeforinentar fi ſogliono, el ſapore e l'altre qualità convencvoli al vino acquiſtare; avvenen. do ciò per opera de'movevoli ſommamente, & acuti cor picciuoli, i quali dall'aria intorno lor communicandoſi, e ajutati da cotali atometti di quelli, onde il fuoco s’ingco nera,che continuo portan ſeco,e che in que'corpi trovano, fuiluppano tratto tratto, e ſciolgono quella nobiliſsima foſtanza, ch'anima del vino può dirſi, e da' Chimici, che colla diſtillazione ſoglion dal vino ſepararla,acquarzente, e ſpirito di vino ſi chiama. Ma comechè del ritrovamento del vino ſe ne debba veramente l'onore al noſtro comun padre Noè; impertá to è da credere, eſſer' il modo di fare il vino da lui già ri trovato,per travalicamento di tempo, ſmarrito: cche Bacco poi da capo il rinveniſſe. lo fo, che alcuni favo leggiando voglion con lor novelle darnc a divedere,eſſere ſtata una medeſima perſona Noè, e Bacco; ma ciò trala fcio, per non effer egli in modo alcuno da credere; per ciocchè per quel, che comprender ſi poſſa dalle ſagre car te, non guerreggiò giammai Noè, ne altra impreſa fece, che ſpezialmente a Bacco s'attribuiſca. E molto meno è da preſtar credenza al Voſſio padre, il quale a deboliſſime fondamenta appoggiato, giudica, non altri eſſere ſtato Bacco, che'l ſanto Moisè; perciocchè Moisè non fu mai in India a guerreggiare, non chepunto ta foggiogaſſe. Ma ciò non appartenendo punto al noſtro propoſito dico, che ciò, che ſifacefle in inedicando Bacco, e quali altrimedi camienti egli adoperaſle, e come co'l vino guariſse i mala ti, e coll'edera poi a'nocimenti del vino e' riparaffe, non; ne abbiamo al preſente,per quel ch’lo ſappia, contezza alcuna. E avvegnachè valentisſimomedicante e' li foſſe, c imperciò dall'oracolo il dator della vita chiamato, non però di meno eſſendo egli avido di loda, e vanaglorioſo aflai, pur comegli altri per maggiormente cfſer tenuto a capitale, vollemueſtrevolmente render più maraviglioſe le ſue cure, con far veduta, che qualche coſa ſopranatu rale anchev'aveſse; perchè ſerviſſi delle divinazioni e de facrifici, i quali tra per queſto, e per la ſperanza di veni re anch'egli dopo mortequal Dio dagli huomini celebra. to, nell'Alliria, e ne'paeſi dalui ſoggiogati, in primaj introduſſe.  1 Ante tuos ortus ar& fine honore fuerunt Liber, & in gelidis berba reperta focis. Te memorant Gange, totoque Oriente ſubalty Primitias magnofepofuiße lovi. Cinnama tu primus, captivaque thura dediſti, Deque triumphato viſceratoſta bove. Ma trapaſſando dalla medicina degli Affirj a quella de gli Arabi, ſe rozza veramente, e ſciocca oltremodo ne gli antichi tempiquella fi foſſe,o ſe talpur ſi pareſc,ben G ravviſa in ciò, che da Agatorchide per teſtimonianza di Strabone, e di Diodoro, che da lui tolfer di peſo ciò, chc ſcriſſer delle coſe degli Arabi, narrato ne viene. Do po aver detto Agatoichide, che nell'Arabia per la trop pa fragranzia,e acutezza, che ivi fentivaſi degli odori del le loro piante, diffolvendoſi, e dilatandoſi tratto tratto la teſſitura delle membra di quegli abitatori, divenivano i cattivelli in fierisſime cagioni, e malattie. Soggiugne egli poi, che a quelle co'l fumo, ccolla puzza delle bar bc de'becchi, e del bitume davan riparo: da#reouév8 rõrúa ματG- υπ ' ακράτε, και μη τικής δυνάμεως, και την συμμετρον πύκνω. σαν επιπλεονεξίσης, ωπάγαν ας έκλυσαν ισχύ την.Ρcrche fembra ad alcuni, che a ciò fare ſoſpinti foſſer gli Arabi medican ti da quel volgar ſentimento, che l’un contrario, per l'al tro curarſi debba. Ma che che ſia della verità di ciò,tan to, e tanto oggi meſſa in dubbio da’moderni medici: di co, che ſe rimedio pur quellera, certamente era cgli più acconcio a conſervare, e difendere da quelle malattie i pericolanti paeſani, che le già appiccate ceffare. Ne è pū. to vero ciò, che il dottiſlimo Salmafio giudica, esſere ſta ta queſta in Arabia una cotal ſorte di metodica medicina; perciocchè i Razionalimedici ancora ſi prendon guardia di non laſciar di ſoverchio turati, o ſpalancati i pori degli animali, e oltre al convencvole ſtemperati. Maccrtamē te è da dire, che eſſendo ora cosi odorifera di ſpezierie l'Arabia, quale in quegli antichissimi tempi ſi era:ne per ciò cagionandoſi quivisì fatte malattie, fieno affatto fa volore, e vane cotali no c!le di que'tcmpi; o alti vode,che dagli odori foſſe ciò avvenuto. Ne poſto in ciò della tram { curaggine di Strabonc, e di Diodoro forte non maravi gliarmi,i quali non ſi dieron mai cura di ravviſare un cotal farfallonenegli antichi, e pure nc'loro tépi affai ben cono ſciuta ſi era l'Arabia.Ma nella Grecia da chi, e in qual té po da prima ritrovata ſi foſſe la medicina, Io quanto a me confeſſo affatto non ſapere; nondimeno farei d'opiniones molto tempo avanti di quel, che comunemente ſi giudi ca, quivi eſſere ſtata quella ritrovata: e ben priina aſſai, che Cadmo le priine lettere vi recaffe; perciocchè per le gravi, e crudeli malattie, che continuo quella infeltava no, ſommaméte allora faceva la medicina alla Grecia me ſtieri. Il che fu anche cagione, perchè con tanto ſtudio, e in tanto novero i Greci tutti allora alla medicina s'impie gaſſero; e non fu egli al mondo,per quanto ſi poſſa in iſto ric avviſare, nazione alcuna, che cotanto vis'inviluppal ſe, quanto la Greca. Perchè ſembrami egli certamente imposſibile, che nelle tenebre di tanti, e tanti paſsati ſe coli, e da poche, e non ordinate memorie, che appena ai noſtra notizia fien pervenute, ſi poſſa in alcun modo inve ſtigar la verità di cotali coſe; ſenzachè fon le loro ſtories tutte ſofperte di falſità, e millantatrici, ccon l'uſate lor favole, e novelle ſempremai meſcolate;imperciocchè, co me avviſa Giuſeppe Ebreo: non avēdo avuto i Greci ſcrit ture pubbliche, nelle quali fedelmente ficonfervaſsero fe. memorie delle coſe avvenute, oguiſcrittore poteva,come più gliera a grado narrar le coſe,ſenza aver timore di po ter mai eſser colso in fallo ', e convinto di bugia. Arro ge, che i Greci, come afferma Dione, erano così avvez zi al piacere, che ſtimavan vere tutte le coſe, che narrate foffero con eleganza di ſtile; il che poi cagionava, che gli ſcrittori d'altro cura non ſi deſsero, chedivagamente, ed ornatamente ſcrivere, fenza durar fatica nell'inveſtigar la verità de' fatti; anzialcuni ſovente ſi ſtudiavano, meſco. lando a bello ſtudio menzogne coll’iſtorie, di fare altrui delle loro ſtrabocchevoli impreſe maravigliare; e altri fi adoperavano in ben comporre, e inviluppar le coſe per coglier poicagione di trarre a ſua patria ciò, che di ma. gnifico, e di pregiato andaſſe attorno. Così il comun der Greci le glorioſe geſte in medicina d'Oſiri Egizio, perta cer d'altre ſue impreſe, che non fanno al preſente a noſtro propoſito, al ſuo Apollo figliuol di Latona mentendo at tribuì; e'l figliuol di Semele reſe chiaro, e illuſtre co' fat ri di Bacco Afirio. Così ancora quanto di grande, e di glorioſo in medicina operaſle Tofortride, inſieme coʻl ſuo medeſimo ſoprannome al ſuo Eſculapio falſamente attri buì; laſciando così in tanti volumi, e confuſioni il pren. derſi cura gli ſcrittori di rapportare il tempo, in cui par citamente quegli antichi medici Greci viſſero, de'quali ancora a' noftri tempi ne ſon giunte qualche contezze,che malagevole, anzi impoſſibile egli ſembra ad huom lo ſvi lupparſene. Ma io in quanto potrò per fornire il mio di viſo, faronne una breve, comechè confuſa accolta, eſc condochè alla memoria a mano a mano mi ſovverrà, ter rò ragionamento di ciaſcuno. E prima di tutt'altri mi convien narrar di Peone tenuto in sì gran maraviglia appreſſo gli antichi per la ſua impareggiabil’arte del medicare, che ragionevolmente giudicarono, aver lui meritato d'eſſer medico diGiove, e cotanto lafsù pregiato, e tenuto a capitale, che più dicia fcun'altro Dio preſſo a quello orrevolmente ſi ſedeſſe;nar, rando di lui Omero. Παρ δε διά κρονίωνι καθέζείο κύδει γαίων, e'l medeſimo poeta nell'Odiſſea avea detto, i medici del l'Egitto eſſere eccellenti per eſſer della ſchiatta di Peone: Tlainavos dirigevédans. Il che ci può far credere, che Peone foſſe Egizio, e non Greco di nazione, ma inſieme con gli altri, che teſtè dicemmo agli Egizi da'Greci rubbato; e intanto crebbe nella Grecia la fama di Peone, che ciaſcun medico dopo di lui giudicava, ſe eſser ſommamentelti mato, e commendato, ſe col ſuo nome chiamar ſi faceſse; anzile mani inedeſime de'valenti medici da Galjeno, c da altri ſcrittori vennerdette pconie; e peonie parimente fi diſsero l'erbe più giovevoli,ed efficaci ad uſo di medicina; perchè cantò il Poeta Et fuperas Cali veniſe sub auras Peoniisrevocatum herbis, cioè a dire, come avviſa Servio, à Peone Dcorum medico Vsò Peone in medicando le ferice, piacevoli, e dolci mc dicamenti, co’quali curò egli Plutone, per le mani d'Er cole grayemente ferito: Τα δ ' επι Παιήων οδυνηφα φάρμακα πέσων, Η'κέσατ' Dalla qual cura ſi può agevolmente avviſare, eſsere ſta to Peone appreſso gli antichi in maggior pregio aſs:ri del medeſimo Apollo: comechè alcuni vanamente giudichi no, la modelima perſona eſſer Peonc, ed Apollo. Ma ciò quanto ſia lontano dal vero manifeſtamente in ciò ſi conoſce, che Omero nel ſuo maggior poema, di Peone, e d'Apollo, come di due diverſe perſone ſeinpremai farvel 1.1. Ne è punto da dar credenza al chioſator di Nicandro, che vuole,Peoneeſſere ſtato il medeſimo, ch'Eſculapio; nel quale crrore cadde poſcia Artemidoro,quando diſse: Slautwv gas ó Arxassatoo's heyeces: imperciocchè nc' tempi d' Omicro, Eſculapio non era ancora deificato; trattando Omero comc huono Eſculapio allora quando e' dice, in favellando di Macaone, che egli era figlio d'Eſculapio ec cellentiſſimo medico: Φώτ' Α ' σκληπιά υον αμύμον G- ιητήρG-, Maciò laſciando al preséte, e ritornando al noſtro pro poſito della medicina, dico, che di Peone non s'hà ine moria, ch'Iomiſappia, niuna, fuor ſolamente della Peo nia: Vetuftifima,narra Plinio, inventio paoniæ eft, no menque authoris retinet. MaIo quanto a me giudico, non cffer lui ſtato cotanto valoroſo medico, qual per avventu ra lo ci danno a credere i troppo rozzi antichi; percioc chè altro delle ſue pruqve non abbiaino, che l'aver lui una fola ferita ſaldaca. Perchèè cgli a buona ragion da crede re, che Peone per dovere a cotanta gloria, quanta egli acquiſtonne, condurſi, tutti i buoni, c malvagj contigli adoperati y’aveſe,facendoſembiante alla ſciocca, e fem, D d plice gente,con ſuefruſche,di tar lemaraviglic. E per av ventura egli ſi fu il primo, che ne fe credere cotáte ſcioc chezze della ſua peonia: dicendo,dover'huom quella in lis la notte cogliere, per non eſſer dalle ghiandaje veduto,le quali ſtandole continuo a guardia, crocchiando, e volan do accorron coſto a bezzicar gli occhi di chi la ſvelle; ſen zachè dicono correr colui manifeſto pericolo di cicpargli gl'inteſtini, ſe digiorno la coglie. Novella ſecondochè giudica Plinio, a bello ſtudio ordinata, e compoſta per dar maggiormente ammirazione alla coſa. Ma non che ciò ſia vero, anzi le virtù tante della Peonia cotanto dagli ſcrittoricommendate, e da Peone forſe da prima a quella attribuite, ora in verità tutto vane, e falſe ſperimentate fi ſono: ne ad alcun lieto finc giammai riuſcir ſi veggono. Perchè colſer cagionc alcunidi dubitare, non forſe que Ita noftra Peonia altra fi foſſe, che quella cotanto tenuta in pregio dagli antichi, e adoperata in diverſe lor malat tie. È altri giudicano effer veramente quella; ma per conſervarli nelle ſue virtù vogliono, che ſia in certi tem pi ſolamente, e ſotto cotal coſtellazione da raccoglicre. Ne è da tacere in queſto propoſito, quanto arditamente uccellar ne voglia Galieno, il quale afferma aver lui me delimo ſperimentato, che la radice della Peonia appicca ta al collo de fanciulli, c quivi da lor tenuta, non ſolaine se glidifenda dal mal caduco, ma anche quando già pre ſi ne ſono, facciagli di preſente rinvenire. Malaſciando al preſente Pconc, e trapaſſando a dir d' Apollo, creduto comunemente Dio della medicina: egli è da ſapere, che molti Apelli già furono in Grecia, e cctante, e sì diverſe, e dal vero lótane ſono quelle coſe, che per gli ſcrittoridilor ſi narrano, che ſarebbe certa mente un logorar fuor di propoſito il tempo, il venirle qui ad una ad una a raccontare. Solaméte dirò del figliuol di Latona quelle poche, e confuſe memorie alla ſua me dicina pertinenti, che per quanto lo ſappia a' noſtri tem pi pervenute ſono. E in prima, quantunque Apollo al cuna erba ritrovaſſe ad uſo di medicina, quale è quella percid detta Apollinare, che è una cotal ſpezie di Solatro; Apollo hanc berbam,dice diquella Apuleo, fertur inveniffe, da Aſclepio dediffe,&apollinaris nomen impofuiſſe; inper tanto non è perciò egli da eſſerne cotantoonorato col rag guardevol titolo di Dio della medicina, ficome dal vula go, or follemente ſi giudica; perciocchè in quel medeſi mo tempo, ch'e'fioriva, molto d'altra parte in medicina vantaggiavaſi Chirone; il qual certamente in ciò cotanto di lui fu maggiore, ch'egli inedefino conoſcendolo tale, volle, ch’Eſculapio ſuo figlio per maggiormére profittar vi, da Chircne la medicinaapparaſſe, come da maeſtro di ſe più valoroſo aflai. Senzachè narra Igino,cſſere ſtato Apollo il primicro ſolamente a ritrovar la inedicina degli occhj, non di tutt'altre malattie del corpo umano. Ele disse d’Apollo, Callımaco, che da lui primieramente gli huomini apparato avevano a cellare i pericoli della morte: Κάνε δε θυμαι και μάντιες: έκ δε νυ Φοίβε, Iyisod dedeany, ardermoor Java Toio: ſeguì in ciò certainentc egli la comun credenza della gente volgare, non badando punto alla verità del fatto. Ma ſia pur ciò, comeſi voglia: lo quanto a me immagi gino, che Apollo, o avendo egli col ſuo ſtudio, e colla ſua diligenza rinvenuta cotal medicina a’malori degli oc chi giovevole, o pur da qualche vegliarda appreſa aven dola, a quella adoperare con ogni ſuo ſtudio continua mente intendeſſe; e comechè in quella parte reſo fi foſ ſe ragguardevol molto alla gente di que'tempi, non pe rò di meno egli è da dire, nel rimanéte eſſer lui ſtato mol to rozzo, e dappoco in medicina, e'l ſaper ſuo manche vole affai; ajutandoci a ciò giudicare la comun mellonag gine di que’tempi, e maſſimamente nella Grecia nell'arti più ragguardevoli. E che cotal foſſe ſtato anch'egli Apol lo, in ciò certamente ravviſar fi potrebbe, ch'egli poco alla ſua ſcienza fidando per dovere aggiugnere a gloria di valoroſo, quella parte della medicina a imprender ſi dic de, la quale intorno agli antivedimenti s'adopera;quindi D d 2 poco in quella ancor profittando,peraltre ſtrade ſconce, e ſuperſtizioſe argomentofli di venire a capo de' ſuoi avviſi, apparando dal vecchio Pane l'arte ſcaltrita, cingannevo le del vaticinare. Quindi andato in Delfo, la dove Te. mide dava le riſpoſte, e avendo quivi la ſerpe ingannevol mento ucciſi, la quale gli vietava l'entrata nell'aperturu dell'oracolo, ingombrollo di preſente, e cominciovvi in un tratto maeſtrevolinente a profetizzare; ſcrivendo di ciò Apollodoro quette perole: Απόλλων δε την μαντικήν μαθών παρα του Πανός, του Διός Θυμάρεως ήκεν ας Δελφούς χρησμωδούσης το σε Θέμιδα • ως δε ο φρερών το μαντίον Πύθων ώρις εκώλυεν αυτόν παρελθείν εις το χάσμα και του τον ανελών, το μανλείον παραλαμβάνει. E queſto vien altresì conferinato di Strabonc, il quale meglio ſembra per mio avviſo, che abbia ſaputo la coſi. Dice egli ch'effedo ſtato Apollo ammaeſtrato nell'arte de' vaticinj da Pane, che diede le leggi agli Arcadi, ſe n'an daffela dove la Notte,e la Dea Temide davan le riſpoſte, ed ammazzato il tiranno di quel luogo chiamato Pitone, ribaldo, e terribile huomo,che per la ſua grandearroganza dicevali se zw,cioè Dragone,preſidéte allora della menſa de’ vaticinj, ſe ne impadroniſſe, e celebrar vi faceſſe gli ſpettacoli. Coſtuma poi ſeguita per tanti ſecoli da que gliempi, c fugaciſuoi facerdoti, e miniſtri, i quali imi tando in ciò il loro aſtuto maeſtro, vezzatamente davanj le riſpoſte inviluppate d’enimmi, e diriboboli, intanto, chequalunque caſo poi n'incontraſſe, ſipotea ben dire, eller quello verainente ſecondo il lor divino predicimen to ſeguito. Nc in ciò punto meno ſcaltriti, c maliziofi fi rono dopo Apollo gli altri medici, col tener macítrevol mente mai ſempre i cattivelli malati a bada, e ragionando ſemprea riguardo, c con duplicità, delle lor malattie,per dover ſempre poi indovinare, a qualunque fine il mal ne siulciffe. E quelle fi fur larti, onde in tanta fama, e pregio 2p preſo il vulgo montò Apollo, che guadagnoſsene il titolo k ! maggior medicante del mondo,anzidi Dio della me sna. Misi, e tanto non potè egli con fue afuzicado 1 perare, che di più intendenti, ed avveduti huomini non foſſe ignorante, e poco del meſtier della medicina confa pevole reputato. Ne per pruova altro che talcertamen te potevano giudicarlo, riguardando tutto giorno per mā, di lui, e di Diuna ſua ſorell.2 (la qual medica ancor ella, ritrovò, e diede ilnomeall'Artemiſia) morirſi a centina. ja i miſeri malati, ſenza mai guarirfene niuno. Infra’qua li furono i figli della ſventurata Niobe; di chic eila cotan to dolor preſe, che mancandole ad un tratto i ſentimenti, e riſtretti in ſe gli ſpiriti, ſenza alcun motto fare, chiuſei le pugna, pirò; perchè poi preſer cagione i Poetidi favo leggiare, ch'in fafso ella cambiata ſi foſſe. E quinci nac que poi, ch'eziandio dopo che furono Apollo, e Diana nel numero degli Dei allogati,credevaſi comuneméte, che tutti quegli infermi, che capitavan niale delle lor malat tie, ſe femmine follero, perman di Diana, e ſe huomini, per man d’Apollo moriſscro; perchè Omero, Ε'λθων αργυρότοξ - Απόλλων Αρτέμιδι ξυν και οίς άγανούς βελέσουτ κατέκτεινε. E’l medeſimo poeta finge, ch’Apollo mandaſſe la pe ſtilenza nel campo greco; ne per altro, al creder di Por firio furono poſtele ſaette nelle mani d'Apollo, é ne ven ne giudicato Dio infernale. Qual ſi foſſe egli poi ne'co ftumi, il taccio; eſsendo pur troppo manifeſte a ciaſcuno le ſue infamie, e ciò che avveniffe alcattivel di Giacinto, per fua mano, e a Lino. Tanto mipar, chedebba lo ac cennare ciò, che alnoſtro propofito ſi conviene, cioè, ch ' cgli avvili da prima, e profanò il ſanto meſtier della me dicina, inſegnandola ad Enone in pagamento d'averle tolta a viva forza la verginità, e l'onore; perchè ella co sì preſso Ovidio fi vanta, Me fide conſpicuus Troje muwitor amavit Ille med fpolium virginitatis habet; Id quoqueiaétando: rupi tamen ante capillos, Öraque ſuntdigitis afpera facta meis. Nec pretium ſtuprigemmas, aurumque popofcit; Turpiter ingenuum munera corpus emunt. IR. L:Ipfe ratas dignam medicas mihi tradidit artes, Admiſisque meis ad fua dona manus. Quècunque herba potens ad opem,radixque medendi Veilis in toto nafcitur orbe,mea ef. Ma trapaſsando a Melampo: grande nel vero, e non ordinario fu il pregio, che guadagnoſli oglicolla me dicina, mentre oltre alle figlie di Preto, egli guarà an cora della ſterilità, per quel, che nc narri Euſtazio, Ifi cle, colla ruggine del ferro; comechè ſecondo l'ufan za comune de'medici, maſſimamente di que' tempi, per più ragguardevole render l'opera, facefle egli veduta,do po aver ſacrificato un bue agli uccelli, con diſtribuire a ciaſcuno di eſſi la ſua parte, ch'un avoltojo alla fine croc chiando gli rivclaſſe, che la ſpada, colla quale Iflaco té tò d'uccider lficle, e da quello affiſſa ad un pero ſelvaggio, l'aveſſe reſo infecondo. Ma ben fi pare, che Melampo foſſe di non mezzano intendimento fornito, e che egli for ſe il primo, che cominciato aveſſe a medicar nella Grecia co’minerali. Perchè agevolmente porraſſi argomentare ', l'uſo di quelli eſſere ſtato antichiſſimo nel mondo: comc che per loro poca uſanza, maffimamente eſſendo ſtati ado perati ſempre da medici ſolamente diprima lieva, detto fia, che l'antica medicina nell'erbe ſolamente confiftelſe. Ma come ciò avvenir poſla, che la ruggine del ferro ab bia virtù ditor via la ſterilità dall' huomo, e di diſporlo a potere acconciamente ingenerare, egli non è certamen ce troppo malagevole, ad avviſare a chiunque ben fappia, onde provenir ſoglia cocal vizio nel corpo umano; per. ciocchè ſuol'egli naſcere talvolta dalla ſoperchievole ace toſità de'lughi: alla quale ammendare fa certamente gra diſſimo proil ferro, e maſſimamente la ſua ruggine; la quale oltre che non ſuole alle viſcere quella gran moleſtia cagionare, che la limatura diquello talvolta apporta, el la preparata dagli aliti acetoli del nitro, e del fal ma rino, che continuo per l'aria diſcorrono, i qual eſsendo più ſottili affai di quelli fpiriti, che per arte li fanno, più cfficace, e profitcevole ſi rende di quella ruggine, che per ! man de'Chimici maeſtri li lavoraziinperciocchè è più accô. ia a meſcolarſi colle ſottiliflime, e acute particelle, che travagliano le viſcere. E di ciò fenne più volte pruova quel celebre Franceſco medicante Riverio il vecchio. Ma ſoſpettar p avvétura alcú potrebbe,che o nell'Egit to, o nella Fenicia in ſicmecoll'uſo delle purgagioni una tal medicina Melampo da, priina appreſa avelle; percioc chè, focondamente chenarra Erodoto, egli dell'Egitto alla Grecia, inlieincco'ſacrifici di Bacco, molte, e molte novelle ufanze reco: Εγώ με νύν φημί Μελάμποδα γενόμενον άν δes oφoν, μαντικήντα έωυτή συσή σαι, και πυθόμμoν απ’ ΑΙ' γύπτου άλα και πολλά απηγήσασθαι Ε΄ληση, και τα περί τον Διόνυσον ολίγα αυ των πειραλάξανά. Tanto, e tanto oltre portoſli nell'arte col ſuo altiſſimo intendimento Chirone, che non ſolo all'indebolite parti del corpo, come Maſſimo Tirio racconta, con efficaci ar gomenti la ſm.rrrita ſanità egli ſi vedea tutto di rivocare's m.i agli animi ancora utiliſime medicine appreſtava. Ne ſolo fu cgli (per quel, che n'avviſi Stafilo ) eccellente in filoſofia, e in aſtronomia; ma valſe ancora affai nella mu fica, e in modo, che ſeppe, come il medeſimo Stafilo, e Boezio narrano, parecchjinfcrinità coll’arinonia della ſua cetera guarire;e fu cotanto vago di ſpiare i ſegreti del la medicina, che in volontario eſilio lungi dalle Cittàan doffene aid abitar nelle ſelve, per poter ivi a più bell'agio la natura, e le complellioni dell'erbe inveſtigare; nel che s'adoperò egli si bene, che inventor della inedicina dell' erbe ne venne comunemente tenuto: e da altri inventor di tutta quanta la micdicina fu detto; e in cotanta fama, e grido crebbe, che non iſdegnarono (come narran Filo ftrato, e Zezze) per appararnela medicina, d'abitar con e To lui entro la grotta del moute Pelio,oye egli ſtanziava, Telamone, Peleo, ed Achille, e Giaſone, ed Ariſteo, ed Ercole, c Teleo, ed altri: huomini di gran pro, eva lore; i quali, coine laſciò ſcritto Maffino Tirio, egli in continue fatiche d'ogni ſorte eſercitando, e nelle cacce, e nel corſo, facendo loro giacer nella nuda terra, e per burrari, e per aſpre vic affaticandogli, e dando lor fcrini cibi mangiare, e ber ſemplici acque di fiume, ad un perfettisſimo ſtato di ſanità riduccvagli; e doppia utiliti da tali ſuoi diviſamenti traevan quei grand'huomini; per. ciocchè non pure il modo di ſe medelimi regolare, ma di curar áltri ad un ora apparavano. Neè da tacere, che pcr più profittar egli con maggior copie di ſperienze, media car ſoleva anche i bruti animali; anzi cgli li fu il primo a ciò fare; e imperò venne Itimato figliuol d'un cavallo.Ne per mio avviſo è vero, che alla Cirugia, comealtri ſi dan no a c.edere, e ' ſolamente daſic opera; avendo egli, coine narra Apollodoro, relicuita la viſta a Fenice, il qual fu poi un de ' compagni d'Achille nella guerra Trojana: cù. το υπ του πατρός έτυφλώθη καίGψευσαμένης φθο, Κλυτίας και του πα τζος παλακίδος. Πηλεύς δε αυτον προς χείρωνα κομίσας υπ' εκείνα θε egπευβέντα τας όψεις, βασιλέα κατέςησ: Δολόπων. ΕPindaro an cora par, che voglia dire, che Chirone ogni forte d'inter mità aveſſe mcdicato;poichèdeſiderava,ch'egli tornaiſe in vita, acciocchè aveſſe potuto render la ſanità all'infermo Ierone, perciocchè egli pativa del mal della pietra, co me dice un'antico Scoliaſte di Pindaro, o di fcbbre, com' altri vogliono. Ηθελον χώρωνα κε φιλυρίδας, et Κρεαν του3 αμετέρας από γλάς - σας κοινον εύξαθαι έπες, ζώειν τον απικόμδυον, Io vorrei ch'il Filliride. Chirone, (Se tanto defiar lice a chiſpera ) Tornaſea reſpirar l'aure del giorno: cpoco appreffo,, « δε σώφρων αντιξον έναιεν έπ Χείρων, και 1ι οι φίλον εν θυμώ μελιγαρυες ύμνοι αμέτεροι τίθεν, ατήρα του κέν μιν πίθον, και νυν έσλοίππα αέάν ανδράσι θερμάν νουσών, Or ſe ne l'antro fuo foſe Chirone E che queſt'Inno mio gli foſe grato, Saria mia voglia inteſa A dirle fol tua medica arte adopragi: Onde i mali, ch'induce Eſtremo caldo, bai didomar valore. Diceſi che Chirone tanto valeſſe nella Cirugia, che'l antiche ulcerazioni, e malagevoli a guarire, da luipoichia mate foſſero chironic, o perchè lorluogo aveſſe il valor di Chirone, come vogliono Euſtazio, e Paulo da Egina, o ch'egli foſſe ſtato il primo, che sì fatte piaghe aveſſe riſa-. nate, com'eſtima Galieno. Ma io, ch'alla fama comun degli ſcrittori non così di leggierimilaſcio trarre, a cona feſſar il vero, aſſai dappoco, e rozzo parmi, chefoſſe ſta to Chirone anche in Cirugia; perciocchè egli l'uſo del ta ſto, e le maniere da faſciar le ferite affatto non ſapeva. Perchè ragionevolmente immagina alcuno, che chironic fi dican le piaghemalagevoli a guarire, perchè Chironie prima di tutti foſſe ſtato ad averle; e sì fattamente, che vano riuſcì tutto il ſuo ſtudio, e ſapere, nó che a guarirle, ma ad alleggiare almeno il dolore acerbiſsimo, che quel le gli cagionavano; intanto che a morte poi ne divenne; comeche alcuni dicano, ch'egli da ſaetta folgore ucciſo morille. Ma vengaſi ora alla medicina d'Eſculapio cotanto fa moſa, enegli antichiſecoli celebrata. Tiene Eſculapio, per comun conſentimento degli ſcrittori, il più orrevol grado in medicina, che inedico giammai aveſſe; intanto che meritonne quel famoſo Inno del maggior poeta de' Greci. Di lui varie coſe, e di gran lieva ſi narrano, le quali traſandando lo, alcune diquelle, che alla medicina s'ap partengono ſol brievemente dironne.Già dicevam di lui, eſſer fama, che primad'ogn'altro metteſſe fuora alquante regole di medicina; manon ſembrandole poi all'eſperien za, e alla ragion conformi, alcune correſlene., altre di sfenne affatto, el contrario ne preſcriſſe'; e forſe quelle ch'e'laſciò dopo morte, cancellate in tutto, ed annullate Еe avrebbe, ſe di ciò tare gli foſse avanzato tempo. Credeſi dalla più parte degli ſcrittori, ch'egli a veſse folamente inteſo alla Cirugia, ne d'altre parti di medicina fi foſse giammai intramelso.Ma ſe vogliam prcfar credenza ad Erodoto, o qual che ſiaſi colui cheſcriſsc il libro detto in troduzione, overo, il medico: egli è da dir, che di cia ſcuna parte della medicina egli pienamente ſi conoſceſse; perciocchè quivi leggeſi, ch’Eſculapio fu quello il qualow ritrovò la perfetta, e in tutte ſueparti compiuta medicina; e Pindaro parimente dice, ch'a lui accorrevano per curar (i non ſolasiente i feriti, ma i febbricitanti ancora, c que ch'entro d'altre malattie erano magagnati: τους με ών όσοι μόλον αυτοφύτων έλκέων ξυνάονες, και πολιώ χαλκώ μίλη πτωμένοι, ή χερμάδι τηλεβόλω, À Deenvã Avei nego tórefwoodśuas, και Xepewo, aurons amor, áa λοίων αχίων εξαγεν • τους με μαλακαίς επαοιδαίς αμφίπων, τους δε προσανία πί νοντας, ή γύoις περιάπων πάντοθεν * φάρμακα και τους δε τοματς έπασιν ορθούς. Quindi veniano a lui le ſchierea volo De’languenti infeliciegri mortali, O traejjero in fen fiftola,o piaga, O dapietre, odaferro aſpra ferita, O pur nafceffeil duolo, Da'diſcordi fra lor femivitali, Ogni dolor, ogni tormento appaga: Porge con molli incanti a queſti aita, Ed a quei con bevande il malor toglie Per un farmacod'erbe inſieme aduna, Per altro acque raccoglie. A chi con tagli induſtri, e Cirugia, Drie 1 1 1 Del Sig.Lionardodi Capoa. 219 Drizza le membra, e fero duol travia, E prima l'aveva chiamato difcacciatordi tutti mali Ασκλαπιών άρω παντοδαπών αλεκ' ήετανούσων. Ffculapio s'appella, Sourano Eroe diſanità perfetta, Có'ogni morbo da lbson caccia, e ſaettai Egli non ſembra veriſimile adunque ciò, che dice P12 tone, ch’Eſculapio traſcurato aveſſe quella parte della me dicina, la quale ſuole il cibo agl'infermi diviſare. Ma fo pra qualifondamenta egli appoggiato aveſe il ſiſtema del la ſua medicina, egli è malagevol molto ad inveſtigare; perciocchè nc libro alcuno dilui c'è pervenuto, ne ſenten zaveruna ſua appo altri ſcrittori ſi ritrova. Tanto ne vie ve accennato appreffo Platone,ch'egli inſegnato n'aveſse esſer.nel corponoftro molte, e molte coſe infra lor nimi. chevoli, e tenzonanti; e di loro abbiſognar,che'lmedico diſcreto ne rintuzzi, e raccheti le contele, e vadale pian piano co’ſuoiargomentirappaciando; e queſte diſcordá ti coſe vuol egli, che ficno il freddo, e'l caldo: l’amaro, e'l dolce: il fecco, e l'umido, e altre sì fatte. Ma ſe altro di ciò non ritrovò in medicina Eſculapio, certamente è da dir, che troppo ftrabocchevoli le lodi immeritevolmé te gli addoffaſſe il buon Erodoto; -e ben ne potrebbe egli a buon concio eſſercontento di meno; imperocchè, non che egli l'intero compimento aveſſe giammai dato alla medicina, come Erodoto immagina, anzine men la pri mabozza, per que, che fi ſappia, certamente le dicde.' E che mai potrà il medico ritrarre dal ſapere, che s'abbia no le diſcordanti parti ad accordare, o che queſte nel cor po umano ſi trovino, ſe poi più avanti non ſappia minuta mente, ove elle fiano allogate, ove ſia il dolce, ove lama ro ', ondeil freddo, onde il caldo -s'ingeneri, onde la lor nimiſtà provenga, in che la lor natura conſiſta, con quali argomenti poſſan porſi d'accordo, come vuotarli, qualo ra lien di foverchio rigoglioſe, e ſtrabocchevoli, o am mendarſi qualora piggiorino,o porger loro ſoccorſo qua Ee 2 lora infievoliſcano; che per altro quel, che ſappiamo averne diviſaro il grandiſſimo Eſculapio, ad ogni huom di contado agevolmente potrebbe occorrere,ed eſſer ma nifeſto. Affai rozza dunque, e imperfetta oltremodo fu ſenza fallo d'Eſculapio la medicina, ne sì grandi, e rag. guardevoli furono i ſuoi trovati,come huomdice; e ſc cgli oltre all'accennate coſeritrovò qualch'erba, anche i ruſti ci, ei bruti molte, e molte n’han ſapute ritrovare;nę grād' acutezza d'ingegno per ritrovar il taſto, oʻl modo di fa ſciar le ferite abbiſognava, o per trar fuora i denti dalla bocca, che lo perme non vo torgli queſt'altra gloria, co mechè Cicerone ad un'altro Eſculapio l'attribuiſca colà ove dice. Aeſculapiorum primus Apollinis, quem Arcades volunt,qui ſpecilluminveniſe, primuſque vulnus obligaviſ fe dicitur. SecundusſecundiMercurii frater: is fulmin percujus dicitur humatus effe Cynoſuris. Tertius Arſippine Arſinoe:qui primus purgationem alui, dentiſque evulfio nem, ut ferunt, invenit. Ne ſembra punto vero quel,che Diodoro dice d'Eſculapio,ch'egliparecchjinfermi co'ſuoi argomenti guariſse; onde fe poifavoleggiare altrui,ch'e gli aveſſe richiamati anche in vita i morti; imperocchè Strabone, graviſſimo autore, e degno ſenza fallo, che gli ficreda aſſai più che a Diodoro, chiaramente dice, che lo gni furono d'huominiozioſi, e ſcioperati, quali certame te i Greci ſi furono, le cure tutte ad Eſculapio attribuite. E Celſo in lode d'Eſculapio altro non ſeppe dire, ſe non fe, cſſer lui ſtato ricevuto nel numero degli Dei, perchè l'arte della medicina aſſai rozza,e materiale in que'tempi, aveſſe alquato dalla ſua groſſezza forbita: quoniam adhuc rudem, a vulgarem, dic'egli, parlando d’Eſculapio, banc fcientiam paulòfubtilius excoluit, in Deorum numero rece ptuseſt. Convenne adunque certamente, ch’Eſculapio có l'uſate frodide’medici la ſua grandiſſima debolezza ap piattata tenelse; imperciocchè cgli,come Pindaro dice, li valle dell'incantagioni; ma più nc ſi fa manifeſto in ciò che San Cirillo ne ſcrive, ch'egli intento oltremodo alle guadagnerie, continuó con giunterie, ed altri rei artifici andato ſe ne foſseper io inondo diſcorrendo (il che mol to ajutar ſuole i medici, ad acquiſtar fama, e pregio ) offerendo liberamente a ciaſcun, che biſogno n'avel ſe il ſuo meſtiere e dove che giugneva prometten do le maraviglie. Così egli vanagloriando per tutto, ſe non huono mortale, ma celeſtiale Dio eſser diceva, e millantaya temerariainente il ſuo valor diſtenderſi fino a riſucitare i morti. Le quali arti, e giunterie, acciocchè poteſse a fine più acconciamente condurre, ſi pensò egli, che l'iſpida, e folta barba nudrendo, e laſciandola a gui ſa dicaprone lunga ſcédergiuſo dal méto al petto avreb be più di leggieri alle ſue trappole trovato crcdito. E sì il fece egli, e con tanto vantaggio adoperovvili, che ſervì d'eſemplo a tutti i medici appreſso. Il che diede forſe cagione a Luciano di far dire da Momo ad Apollo, ch'egli non operaſse come fanciullo, ma favellaſse ani moſamente, é diceſse luo parere, ne fi vergognaſse ad ar ringare per non aver barba; perchè era ſuo figliuolo Eſcu lapio, il qual così grande, e lunga, e folta l'aveva üst menn μaegκιεύε πεος ήμας, αλα λέγε θαρρών ήδη τα δοκάνα, μη αιδε. σθεις, αγένειο» ών δημηγορήτις, και αυ% βαθυπώγωνα, και ευγέ ναον έτως τον έχων τον Ασκληπιόν Vì ha chi vuole, ch’Eſculapio a quella guiſa appunto, che a'noſtriciurm.dori veggiam fare, portaſse ſecole ſerpi: e che per riſparmio camminaſse a piedi: e che que ſta ſia la vera cagione perchè alle ſue ſtatue, o ritratti ſipo neſse in mano la ſerpe, e'l baſtone; ſopra le quali coſe poi ſognate ſi ſono tante, e tante fraſche di allegorie per gli ſcrittori, chemolto lunghe, c nojoſe farebbono a rac contare. Ma vie più dopo inorte crebbe in fama, edono re Eſculapio, tanto era folle, e cieca allor la gentilità: perchè glivénero alzati in diverſe parti delmodo,e parte, e per materia ricchiffimi tépj, co maraviglioſe,e belle ſtatue dimarino, d'avorio, d'argento, e d'oro, e medaglie infini te furon ſtampate colla ſua effigie; e sì, e tanta era la fede, che aveyano gli huomini in lui,che i ſuoi tempj ſempremai ſi vedevan pieni d'infermi, trattivi d'ogni parte; i quali # di notte, edi giorno quiviil ſuo ajuto aſpettando ſe ne gia cevano;e per tacer d'altri, abbiam di ciòmeinoria nel Cure culione di Plauto, dove del ruffiano dice Fedromo a Pa linuro: Id eo fit,quia hic leno ægrotus incubat In Aeſculapii fano; e così ſtandoimalati,venivan loro i facerdoti malizioſi, fcaltriti, facendo veduta dinulla ſaper dimedicina, o del male, che coloro avevano; quindi appreffati all'oracolo fingevan ch’Eſculapio rivelato loro aveſe il medicamento all'orecchio. Talorapareva,ch’Eſculapio medeſimo all'infer mo in ſogno additaſse il rimedio;c ciò per avventura avve niva tra per lo aver lui guatato ffaméte il giorno la ſtatua d'Eſculapio, c per li lunghi ragionamenti, che dietro a tal materia coʻminiſtri dei tempio avevan forſe tenuti, i quali avevangli per avventura le maraviglioſe cure d'E fculapio narrate vero per aver inteſo quel rimedio fterfo da'incdici,o da’altri. Ma pur v'aveva fra' Gentili huomini di ſcalcrito intendimento, chea ciò niuna credé za preſtavano, come Filoſtrato narra di Filemone;al qua le avêdo in ſogno detto Eſculapio,che s'egli voleva guari re dalla podagra, conveniva, che ſi afteneiſe dal bere fred do, egli deſto poi la vegnente inattina diſle ad Eſculapio proverbiandolo, c che altro rimedio o valent' huomo a nreſti tu dato, le medicar avelli voluto un bue? E ſe mai interveniva, che alcuno (o che'l rimedio, o ch'altro ca gioné ne foſſe ) guariſſe, oltra’doni, che coluiagli altari offeriva, toſto alle mura un'effigiata tavoletta, a perpetua memoria della ricevuta ſanità appendevaſi a gloria d'E ſculapio; perchè poi ſe ne traſcriſfero nc'libri de' medici parecchj rimedj; c delle dette già tavolette, anche a' di noſtri ſe ne vede alcuni; delle quali per eſemplo vi ridur rò a memoria quella pietra, in cui fu regiſtrato, che di ſperato da tutti Giuliano per unvomito di ſangue,eſſendo ricorſo all'oracolo, n'ebbe riſpoſta, che veniffe, e da tro altari piglialle pinocchie di quelli per tre giorni con inic le mangiaſſe; ed in tal modo liberato colui, lefe le grazie alla prefenza di tutto il popolo, αίμα αναφέροντα Ιαλιανώ, απηλπισμλύω υπο παντός ανθρώπε εχρημάτσεν ο θεός ελθών, καιεκ τα Βιβώνκαι άραι κόκκος προβύλες και φαγών μετα μέλιτG- επι της ημέ. φας, και εσώθη, και ελθών δημοσία ηυχαρίσησεν έμπροσθεν τε δήμε. Ma trapallando alla medicina d'Ercole;ſe Ercole come fu in medicina, foſſe così ſtato valoroſo Ne l'ardue impreſe del ſanguigno Marte, non avrebbe certamente ripieno il mondo delle ſue mara viglioſe prodezze, ne ſtancate di tanti, e tanti ſcrittori le penne per celebrarle. Ma ciò non ſi dee punto a neglige za attribuire, o a poco intendimento, ch'egli avuto avef ſe; perciocchè logorò egli gran tempo, egran fatica ad imprender la medicina; e fu sì profondo, ed acuto il ſuo intendiinento, ch'ei ſi fu il primiero a comprendere, che per ta fimilitudine, la quale i Chimici chiaman ſegiratu, ra, ravviſar ſi poteſſe la complesſion delle piante'; e per uſo propio ſe nevalſe allor,che preſso a morte ferito dal l'Idra, ricorſe per guarire alla Dragontea, la quale coll? Idra ha alquanta ſomiglianza; quantunque egli poiso per tener ciò altrui naſcofo, o per più ragguardevol renderli appreſso la gente, o per altra cagion, che ſi fofse, infin. geffe ciò dalla riſpoſta dell'oracolo aver apparato: il qua le l'aveſse impoſto, ch'egli ſi inetreſse in camino verſo la dove naſce il ſole; perciocchè quivi al valicar d'una rivie ra aurebbe ritrovata un'erba ſomigliante all'Idra,colla quale lc ferite da’morfi dell'Idra fatregli poi egli aurebbe ſicuramente potuto medicare, eguarire. Io non ſo, ſe collo intendimento G foſse Ercole tanto avanti portato, che foſse giunto a penetrar, che la Dragontea col ſuo fab volatile acuciſſiino, del quale eila oltremodo è abbon devole, forza aveſse di ammendare l'acetoſità, in che co filte il guarir delle piaghe; ma la medicina non era allora tanto oltre paſsata, che aveſse potuto sì fatte ſottigliez ze ſcoprire. E queſta, e non altra dovette eſsere la cagio NC, per la quale Ercole non potè nella medicina sì eccel lente divenire, e che guarir non poteſse egli le piaghe al fuo maeſtro Chirone, comechè gli veniſse fatto di guarir la moglied'Achille preſso a morte ridotta; onde poi Eu ripide finſe nell'Alceſte, averla lui da morte riſucitata: E queſto è quanto Io ho potuto raccogliere della medici na d'Ercole Tebano fra le tante,e tante varietà degli ſcrit ti, iquali così di lui confuſamente ſcrivono, che nulla più; dicendo Varrone, eſsere ſtati quarantadue famoſi huomini di tal nomé; altri dodici, altri tre, altri due, e Ci cerone ſei;ed evvi ancora, chi porta opinione, non eſser mai ſtato sì fatto huomo al mondo. Ma della medicina d'Ariſteo figliuol d'Apollo, o pur di Giove, come altri giudica, non ne vengono ſcritte, per quanto lo ſappia, ſe non certe poche, e confuſe memorie; ſolamente ſap piamo da Cicerone, e dallo Scoliaſte d’Ariſtofane, che Ariſteo aveſse ritrovato il modo di far l'olio, il miele, e'l Gifo.ΆρσαίG- δε ο Απόλλων G και Κυρήνης πτώτην την εργασίαν τα σπλ. φίον εξεύρεν, ώσπερ, και το μέλλG-. Infegno parirnente Ariteo meſcolare il vino col miele, per quel che dica Plinio: Ari Seusprimus omnium in eademgente,melmiſcuiſe vino fua vitate præcipua utriuſque natura ſponte provenientis: e non fi dee tacere ciò, che d'Ariſteo dice Giuſtino: Arifteum in Arcadia lase regnaffe, eamque primum, apum, á mellis ufum, &lactis, &coagulihominibus tradidiffe, folftitia. leſque ortus, do federum primum inveniſe. Ma quantun que il filfio, e'l miele, e l'olio, i quali Ariſteo non fola mente ritrovò, ma prima di tutti inſegnonne agli altri me dici la virtù, e la maniera, colla quale adoperar fi doveſ ſero, abbiano recato gran giovamento al mondo;non pe rò di meno s'altro di ciò non fece Ariſteo, non sò locome ei ſi poſsa infra gli altri eccellenti medici annoveraré; m2 pure fu egli di tanto avvedimento fornito, che ſeppe con l'uſate giunterie,e menzogne riparare alle diffalte del ſuo poco ſapere; e raccontaſi di lui da Teofraſto, da Apollo nio, da Cicerone, da Germanico, e da Igino, che eſſendo l'iſola di Ceo dal rabbioſo furor della canicola gravemés te percoffa, sì che feccavan le biade, e gli huomini mi ſeramenre morivano, eche avendo Ariſtco al ſuo padru Apollo domandato, come ſi poteſſe a tanta calamità ri parare, n'aveſſe rilpoita,che proccuraffè egli prima di pure garcon vittime, e ſacrificj l’Ilola, la qual era così atro ceméte punica o aver dato ella ricovero agli ucciditori d ' Icario; e quindi pregaffe Nettuno,ſicome Germanico Cé fare riferiſce, coinechè Teofraſto, ed Apollonio Rodio cd Igino dicano aver riſpoſto Apollo, che pregar egli doveſse Giove,ch’allo ſpuntar della Canicola faceſſe per quaranta giorni,ſoavi venti ſpirare, che queſti agli ardori di cotale Hella aurebber dato agevolmente compenſo; cd avendo ciò egli puntalmente cſeguito,ſpiraſſero i promeſli venti, e. ceſſalsero di preſente i danni tutti dal ſoverchiante caldo w?quell'Iſola cagionati; perchè ne venne egli poi Giove Ariſtço, ed Apollo Agreo chiamato, e frale ſtelle in Cie: { o collocato. Or chiper Dio non ravviſa, che una cotat folenne giuntcria imboccaffe Ariſtco a quel rozziſſimo po polazzo, ſappiendo di certo, che il naſcimento delle cas nicola gli ulti venti preceder fogliono, cd accomp2 guare? Venue fomimamente commendato Achille dalla ſonora cróba del greco pocta per le maraviglioſe prodezze da lui nella guerra Trojana operate;ne altro quaſi in tutta l'Ilia de raccontaſi, che l'invincibil fortezza d'un tanto Eroe; ne in quel divino pocma ſenza lunga maraviglia legger fi pofiono le ſanguinoſe battaglie, ele ragguardevoli im preſe d'Achillc.Ma doveva egliper mio avviſo da non mi nor pocta d'Omero eſſer altrettanto commendato per la contezza, e perl'eſercizio cli'egli ebbedella medicina e con tanta maggior ragione, quanto più generoſo, e più magnifico ſenza fallo è il dare, che'l torre altrui la vita. E ben'egli conobbe di quanta loda meritevole e ſe ne rés deſſe, che però appo Stazio egli vantoſfi eſſergli ſtata in fra l'altre coſe la medicina ancora da Chirone fuo Avolo inſegnata. Quin etiam ſuccos,atque auxiliantia morbis Gramina, quo nimius ftaretmedicamineſanguis: Quid faciat fomxos, quid hiantia vulnera claudat, Queferrocohibenda lues, que caderes herbis Edocuit. Ff Fu cgli tanto ſtimato nel greco campo, in medicina,ch' Euripilo gravemente ferito, volle effer ſolamente da Pa troclo medicato, perchè eglifoſse compagno d'Achille, c'l vero modo di medicar le ferite n'aveſse apparato; Νίζ υδαπ λιαρώ, επί δήπια φαρμακα πασσε Ε'εθλα, τα σπ ποπ φασίν Αχιλήφ»δεδιδάχθαι. Ma ſopratutto vien commendato Achille per aver co noſciute le cagionidella peſtilenza, che allor travagliava ſommamente il campo greco; e per aver anco ritrovato il Millefoglio,per lui detto Achilleasil quale anche a' dì no ftri molto giovevole alle ferite, e ad altri parecchj malili ſperimenta; e ſomigliantemente per aver riſanato Telefo, nella cura del quale adoperò egli la ruggine della mede fima lancia, colla quale ferito cgli prima l'aveva: Eft, rubigo ipfa, ſcrivePlinio, in remediis, cific Telephum pro diturfanaſeAchilles, five id area, fiveferrea cufpide feo cit; ed in un'altro luogo il medeſimo Plinio dice: arugi nem inveniſe, utiliſimam emplaftris, ideoque pingitur ex cuſpide decutiens eam gladio in vulnus Telephi; avvegna chè altri vogliano averlo egli con l'Achillea guarito,ed al tri, con l'Achillea, ccon la ruggine del ferro. Perchè moſtra, ch'egli fu il ſecondo, cheſi fappia infra'greci me dici, che i minerali adoperati aveſſe in medicina. Ma po trebbe per avventura alcun ſoſpettare, e con qualchera gione, non egli applicua aveſſe la ruggine del ferro alla Jancia imbagnata in fangue d'Euripilo, non già alla feri ta di lui; e che gli ſcrittori, i quali la biſogna pienamente non coinprendevano,contentati ſi foſſero ſolamente di di re, che l'atta d'Achille modelima faceva, e riſanava le feri te. Il che ſe vero foſſe, non moderno ritrovato, ma ben molto antico da dir ſarebbe la cura, che chiaman ſimpa tica nclle ferite. Dice Plutarco, che Achille intendente foſſe del modo di guarir colla dieta, e ch'egli trovaſſe con ragione, che i corpi, i quali avvezzi in prima alle fatichc, in proceſſo di tempo poi le laſciano, e li ripoſano, toſto triſtanzuoli, e cagionevoli, e languidi di compleſſione divengono; e però dice che egli ſoleva far paſcere a cavalli che avevā ma gagnati i piedi per l'intermeſſo eſercizio, l'appio rimedio grāde a tal male.Macon pace pur di Plutarco, Io non ſo, che gran coſa queſta fi ſia; ne per eſſa, ne per l'altre di lui narrate coſe ſi può dire in verità, che Achille gran medi co ſtato e’ſi foſſe. In quáto poi alla cura ſimpatica delle ferite: lo p me la ſtimo favoloſa invētione del Valentini; e forte mi maravi glio, che tanti, e tanti valent'huomini vi fi lieno oltremodo affaticati, in contendendo alcuni cheper ſopranatural po tenza doveſſe quella intervenire; e altri ciò coſtantemente negando; e cercando d'inveſtigarne altronde la vera ca gione; ma, ne queſti, ne quelli avviſano, chele ferite tal volta,eziandio più gravicpericoloſe ſenza rimedio alcuno guariſcono; perchè non ſi può trarre argomento niuno dal. la lor guarigione a pro della ſimpatica medicina. Io non ſaprei ridire ſe Palamede inventore di cotante; coſe, ch'abbiſognano alla vita degli huomini aveſſe anco ra in medicina qualche bella curioſità rinvenuta; avvegna diochè ſia molto veriſimile, ch'egli ciò facerſe, come colui, che di natura era molto acconcio a filoſofare; in tanto, che ne venne appellato noivoo PG, cioè a dire il ſavio di tutto, come leggeli in molti verſi fatti in ſua loda; quantunque Omero non faccia di Palamede menzione alcuna, o per invidia, che gli aveſſe, perchèegli era miglior poeta di ſe, o pure per renderſi grato a ſucceſſori d'Agamennone, ili tra'l quale, e Palamede fu mortal nimiſtà; impertanto li ſcorge manifeſtamente in altri ſcrittori più degni di fede aſſaidi Omero, eſſere veramente ſtato Palamede il più fa vio di guerra di tutti greci,e in prodezza non puntominor d'Achille. Madi ciò ch'operaffe in medicina Palamede', altro non ne abbiamo,ſe non ſe ciò che ne racconta Filo { trato; il quale l'introduce una volta a dire, che a chiunque voglia preſervarſi dalla pefte, faccia meſtierimangiar po co, e affaticarſi molto, e che così egli avvezzati aveſſe a viv ere i ſuoi ſoldati; perchè poi la crudel peſtilenza da Po to nella Città dell’Elleſponto, ed in Troja appiccata, aw ni un de’greci noja mai diede; comechè eglino fi foſſero in Ef 2 peſtilenzioſi luoghiaccampati. Ma quanto cotali avver. timenti lontani dal vero ſieno, non ha tra noi,chi non l'ab bia non ha guari pienamente ſperimentato; e però di più dirne al preſente mirimarrò. La medicina di Patroclo compagno d'Achillo, e di Po dalirio, e Macaone figliuoli d'Eſculapio, che ſerbaraſſi eterna, ed immortale nella memoria degli huomini mercè del ſovrano poeta greco, che ſi diè cura di cele brarla: ſembra ad alcuno, che ſolamente nelle ferite s'a doperaſſe; e veramente a riparar i dannidellapeſtilenza, che nel greco campo faceva fieramente ſentirti,non ſi leg. ge in Omero, che in coſa alcuna, o Podalirio, o Macaone, o Patrocło mai s'adoperaſſero: avvegnachè la cura de’ga voccioli, e d'altre enfiature, che ſuolo cotal morbo cagio nare, alla Cirugia dirittamente s'appartenga; la qual coſa vien raffermata ancheda Celſo, allor che facendo men zione di Podalirio, e di Macaone, dice: Homerus non in peftilentia, neque in variis generibusmorborum aliquid at tuliſe auxilii, fed vulneribus tantummodo ferro, & medi camentis mederi ſolitos elle propoſuit. Ma con pace pur di Celſo, dall'aver ciò taciuto Omero non ſi può certamente argomentare eller loro ſolamente ſtati cerufici; e fe noi medicaron la peſte,forſe ciò fecer eglino per non tracollar dal loro buon nome in medicar quel morbo, cui non v'ha rimedio alcuno, e che l'antichità credeva,che ſolamente gli Dii poteſſero riſanare; ne ha ſembianza alcuna divero, ch’Eſculapio lor padre,emaeſtro la Cirugia ſola loro infc gnaffe; ſenzachè(comeavviſa Eulazio ) Podalirio, non ſolamente curò diverſe infermità: ma prima di tutti, come egli dice, gittò le fondamenta della razional medicina. Ma a quale ſtato di perfezione la medicina per Podalirio Macaone, e per Patroclo uſata montafle, dal poema mag giore d'Omero ſi può agevolmente comprendere. Primie. ramente ſolevano in medicando ſucciartalora eglino colle labbra il ſangue delle ferite; e'a tal modo Macaone medi car ſi vide a Menelao la piaga fattagli da Pandaro, Aύ πιο επα δεν έλκG- ' έμπιστ πικρος οιτς Αίμ' εκμυζήσας επ' άρ' ήπια φάρμακα είδως Πασσα. Sem.,per Sembrare egli potrebbe per avventura ad alcımno il ciò fa re vano, ed inutile, anzi per l'umidità della ſaliva alles ferite anche nocevole ciò li pare, ſenzachè è ſtomachevol coſa, e pur troppo alla dignità de'medici ſconvenevole Nero io, comeil primo Baron dell'oſte greca, e nipote diGiovediſavanzando dal ſuo pregio, inchinar ſi poteſse ad una sì vile, e vituperevole opera. Non ſolo permet teyan poi coſtoroa'feriti mollidi fudore, edi ſangue, pu re allora uſciti dalla battaglia, lo ſtarſene giacédo all'om bra, ed al frelco ventilar de’zefiri per riſtorar dolcemente la ſtanchezza; ma lo ſteſso medicante Macaone dopo ch? egli fu ferito ciò fece: οίδε έδρώαπεψύχοντο χιτώνων Irávte ne Ti Tvorni zaregi og ános. Ma quanto polfa nuocere il vento ad huomini anchei faniqualor eglino molli di ſudore fiano,non che a’feritija? quali feoza fallo per lo minor danno inacerbir puore les piaghe, non è chi noʻl fappia. Ponevano altresi medica do alla groffa, entro le ferite,radici d'erbe crude, e ſem plici fenza eller punto confattese preparate ad uſo de’me: dicamenti: επί δε ρίζαν βαλε πικρών χερσι διατρέψας. Ma inolto più ſciocchi, e più rozzi furono i loro divi famenti intorno al regolainento del vitto degl'infermi; eglino cibavangli di groſse cipolle, e di miele κρόμμυρν ποτώ όψον, Η δε μέλι χλωρον παρ' δ' άλφιτα ιερά ακτήν. edavan loro berc il loro ufato contadineſco Ciceone; bem veraggio il qual di farina, e di cacio di capra, e di più grá di, e poderoſi vini delle Smirre componeyaſi Πινέμαι δ' εκέλευσεν επαρ' όπλισε κυκεώ. E queſte fono le care, e falucevoli vivande, e beverage gj, che la belliſſima Ecamede concubina dell'antico Nem ftore dava loro; i quali non iſcherni, ne rifiutò il medefi mo Macaone,ſenza conſiderare, ne pure un menomori ſchio d’infiammagione, che agevolméte ſeguir ne poteva Ma ben ſo lo, che di fomiglianticoſe, ed in pro, ed in contro diſputando, veriſimilmente dir ſi potrebbe, che no già eglino ſomigliantiguiſe di sì reo, eſconcio medicar praticafsero; ma che Omero a ſuo talento le finga, poco eſsendo della verità informato; che ſe ciò vero foſse, lo non ſo come infra gli altri cotanti pregj inveſtir ſi potreb be ad Omero l'eſser lui ſtato di tutte ſcienze, più di qua lunquc altro maeſtro,affai ben conoſciuto; nihil unquam. ceciniſe, dice Pier Laſena, quod nun prudenter excogita tum,ex induſtria diſpoſitum, &in alicujus rei utile dixeris documentnm. Potrebbe anche dirſi, eſsere il Ciceone di que' tempi valevole, a ſtagnar il ſangue delle ferite, o pure a ſciorlo, ove egli fia rappreſo, e corrotto; avve gnachè Platone dica eſser molto nocevole cotal beverag. gio a’malacije oltre all'infimagione,che apporta, ingene rare anche non poca flemma;e per avventura con più falda ragione potrebbeſi delle cipolle dire, che per lo lorotale aguto, oltre allo ſcioglimento del ſangue potrebber'an che difender le ferite dall'accroſità, da cui certamente la febbre, e'l dolore, e lamarcia,e l'infiammagione,e tutt' altro male a'feriti avviene. E ſe pure coloro uſava no con ſemplici radici, e crude, medicar le ferite, ciò era, perciocchè eglino ben’avviſavano eſserl'erbe cotanto più giovevoli, e vigoroſe, quanto più ſemplicemente ne ſon dalla natura ſomminiſtrate, e che col tanto confarle, e ma cerarle, e logorarle ad ufo delle noſtre medicine, manchi alla fine, e ſvaniſca ognilorvigore; fe pure nonvogliamo dire, eſsere ſtate di tanta virtù, e di si ſaldo giovamento da’ medici ſperimentate, che ſenza confettarſi punto,o sé. za contiglio dimeſcolamento niuno le più gravi ferite ma raviglioſamente ſaldavano; ne a ciò foſse itato anco me. ſtieriregolamento alcuno di mangiare, o di bere: per ciocchè egli narrafi per coſa certa,che a' tempi più a noi vicini, il Paracelſo,per lo gran valore de'ſuoi medicaméti, poco, o nulla a ciò badando laſciaſse che a lor talento fi nutricaſser gliufermi, facendogli talora ſeco a deſco lie tamente federe, mangiando in brigata; ſenzachè Platon dice, che per eſſer quegliantichi aſſai regolati nel mangia re, e pel bere, non avevan poi gl'infermi biſogno, che regola alcuna intorno a ciò la preſcrivelſe; e finalmente l'uſo di ſucciar le ferite, non eſsere fuor di ragione; impe rocchè cotal medicamento molto fa pro a riparare al gua ftamento del ſangue, traendol fuora delle ferite, e difen dendolo col fuo ſale dall'acetofità, per cui elleno marci ſcono; perchè cotal medicamento a'di noſtri ancora co munemente l'uſiano e, per pruova tutto di ſperimentia mo eſser giovevole a'feriti, e utile aſsai; ficome anche ſi può ſcorger ne'cani: da’quali per avventura Podalirio, e Macaone, oi loro più antichimacſtri ildovettero da prie ma appararc; perchè ſe veggiamo, che cotanto approda a'feriti, perchè ſarà egli da biaſimare?Maper me non cre do, che si facce difeſe loro facciā luogo; imperocchè Ome ro tutto che la incdicina ignoraſse, deſcriſse nientedime no le coſe, o coine di altri ſcrittori venivan narrate, o dal la famaerano rapportate, maſlinamente dove cgli non aveva cagione alcuna d'allòtanarſi dalla verità, o per ren der più vago, c più inır.zviglioſo il ſuo poem 1,0 per altra cagione; ne punto vale l'eſemplo del Paracelſo, imperoc che, ſe pur è vera la ſtoria, il Paracelſo fi ſerviva di bala ſamisì prezioſi, e valevoli a guarir le ferite, che non fa ceva loro d'alero meſtieri. Ma in quanto al Ciceone; egli è una bevanda in verità sì ſconcia, e mal fatta, che ſenza fallo non può ella altro inai, che nocuinentu agli huomini ſani, non che agl'infer mi apportare, che che ſi credan Plutarco, ed Ateneo, i qualinon avviſarono la ſtrana, e nocevole formentazio ne, che'l cacio, il vino, e la farina inſieme meſcolati far poſsono nelle vifcere. Vltimamente, le radici, e l'erbe non preparate, maffimamente l'Achillea, e l’Ariſtologia, colle quali molti antichi ſcrittori ſi credono, che Podali rio, Macaone, e Patroclo medicaſsero, abbondevoli ſo no d'umore acquoſo, e non ben digeſto, il quale oltre che infievoliſce il ſolfo, e l'alcaliloro volatile, in cui law virtù conſiſte, per ſc iteſso altresì egli è ſommamente alle ferite nocevole.... In quanto poi al lavar, come è già detto con l'acqua ſemplice le ferite, non è vero'ciò, che alcunidicono, che ciò eglino-faceffero per iſtagnar di preſente il ſangue;men cre ciò non ſolamente non licſprime da Omero, appo il quale ſi ſuol fermare il ſanguecon l'incantagioni; ina di ce eglichiaramente, che l'acqua, colla quale le ferite li lavavano era calda, e perù più acconcia aſſai ad aprire, che a riſtrignere; al che avendo per avventura riguardo il lati no poeta,con l'acqua allora allora tratta dal Tevere fin ge, che'l ſuo Mezenzio ſi lavaſſe le piaghe. Interea Genitor Tyberini ad fluminis undam Vulnera ficcabat lymphis, corpuſque levabat. Nove, aphyſice, dice ſu queſto il chioſatore Servio, nan cum aqua omnia infundătur,hic aitficcari vulnus ab aqua, Oratio vera eft,quia fluxussăguinis aquarü frigorecôtines Yur.Ma Servio freddamente troppo,per mio avviſo ſcuſa il ſuo Virgilio d'una sì ſtravolta maniera di favellare: ma un tal modo di mcdicar le ferite, con l'acqua lavandole, tut to che ricevuto,ed uſato anche dopo grăde ſpazio di tem po da’Latini, e da'Greci, onde dice Silio purgat vulnera lympha: anzi ſin’al paſſato ſecolo da molti Ceruſici anche coſtuma to, quáto lia nocevole ravviſar puollo facilmente ciaſche duno,che punto abbia d'incendimento;laonde con più lag gio avviſo da’moderni medicanti leferite col vino, o col l'acquarzente, ovc,lor huopo ciò lor faccia, vengon lä vate. Maquantunquc sì malamente medicaſſero Podalia rio, e Macaone, venncro non ſolo vivi, ma anco dopo morte in sì gran pregio tenuti, che furonodi ſtatuc, di té pj, e facrificionorati. Quelle coſe poi, che di Podalirio narra aver letto in al cuni antichilibri Celio Rodigino, elle fon tutte, per quel ch'io micrcda novellette da Romanzi; ciò Zono,degli avendo rotto in invar preilo la Caria, fu ſottratto al pericolo da un'avvenente paftore,e lu’l lido corteſemente accol to; e che poi; il Re di quel paeſe avendone coutezza avu ta, per luimandato aveſſe perchè medicaſſe una ſua fis gliuola, che dalla vetta d'una torre era giuſo caduta; cui egli facendo crar ſangue da amendue le braccia, e con al tri rimedi aveſſe in buona ſanità rimeſſa; di che il padre oltremodo contento magnificamente della Provincia del Cherſoneſo dotatala, data gliele aveſſe per moglie; e che Podalirio nel Cherſoneſo födate aveſſedue belle, ed egre gic Città, una col nome della moglie Cirene, e l'altra col nome di quel Paſtore chiamandone. Convenevol coſa ſtata ſarebbe, che noi ſecondo lo in cominciato aringo ordinatamente procedendo, avellimo molto addietro fatto parole di Teſco, di Giaſone, di Pe. lco, di Telamone, e del ſuo figliuolo Teucro, e d'Erobo te: ora concioſliecoſachè ſcarliflime memorie di loro fien no a noi pervenute, n'è convenuto tacergli; e perciò pal farem ſomigliantcméte ſotto filenzio,'e Nicomaco, c Gor gaſo figlidiMacaone, e d'Anticlea, i quali ſuccedettero al regno di Diocle loro Avolo materno, e come nar ra Paufania, lolevano gl'infermi corteſemente curare, e maſſimamente le dislogate oſla, o membra in buon concio rimettere; onde per grado, gran tratto ne furono come Dij da’poſteri venerati. Ne meno terrò lo ragiona mcnto diSoſtrato,di Dardano, di Cleomitide, di Teo doro, di Criſime, dc'quali oltre aʼnomni, nulla affatto noi non poſſiamo fpere. Ma prima ch'a' più baſſi, e più vicini tempi facciamo paſsaggio,n’è paruto bene il doverci alquanto intertenere a ragionare di quel ſiſtema, del quale Ippocrate fa parole nel libro della vecchia medicina;ritrovato,comepar ch'ca. gli porti opinione, da’primi inventori dell'arte. Or dice Ip pocrate,che quegli átichisſimi e ſagaci inveſtigatori della medicina,faggiamere avviſaſſero,che ne il caldo,ne il fred do, ne l'umido, nc'l fecco, ne altra ſomigliante coſa all' huomo foſſe d'alcun nocumento gianımai; ma di sì fatte coſe il fomino, o l'ecceſso, che vogliam dire, il qual per Gg ſoverchio di vigore, non poſſa eſſer dalla natura ſoprava zato, ſia agli animali d'offeſa, e didannaggio cagione; U queſto proccuravano có ogni ſtudio di reprimere,o tor via; il quale ecceſſo dicevan' eſſi avvenire, qualora l'amaro, amariſſimo: il dolce, dolciſſimo: l'acetofo, acetofilimo divenga;mentre portavano opinione, l'Amaro, il Dolce; il Salſo, l'Acetoſo, il Diſcorrente, l’Acerbo, e altre infi nite coſe di varie, e molte virtù fornite, dovere eſſere di ne ceflità nell'huomo, sì veramente, che fteano frá eſlo lor meſcolate, e confuſe, e l'una temperata dall'altra; che foj mai avvien ch'alcuna di eſſe da tutt'altre appartandoſi, così ſceveratamente ſe ne ſtca, allor fallendo al diritto or dinamento del corpo umano cominci a farſi con mole ftia ſentire, e grave offeſa recare. De' cibi buoni, ed offendevoli, eglino ſomigliantemé te diſcorrevano:dicendo cheil Pane, o altri cibi, onde 1 huom niun male non pruova,ſia dall'accennate coſe, e ſa pori acconciamente temperato, e che quegli, onde alcun danno riceve, abbiſogni ch'una delle già dette coſe ab bia ſoverchiamente d'aſſai. Più avanti volevan'effi, che il caldo, e'l freddo men di tutte le già dette coſe fieno operativi; cd ove rimeſcolici inſiemeneſteano niun danno giammai non facciano; ma quantunque volte ſi leparino,e che o riprezzo, o furiofa febbre perciò hucm ne patiſca l'altro contrario imman tinente accorrendovi, e la furia del tiranneggiante nimico affrenando, toſto venga l'infermo d'ogni affanno a liberar fi. Il che ſe pur non li vede nelle ardēti febbri,nelle infiá magion de'polmoni, ed in altre gravi malattie avvenire, dicevan'eglino, che in sì fatti cali non già dal folo caldo, ma inſieme colcaldo dall'amaro, e dall'acetoſo, o da altra fimil coſa la febbre veniffe generata. Finalmente tutto ciò, ch'Ippocrate dietro a tal materia fiegne a narrare, e come egli prenda a ripigliar coloro che dipartendoſi da queſti diviſamenti,le cagioni di tutti i ma li all'umido, al ſecco, al freddo, al caldo fi ftudiavano d ' attribuire,per eſſer molto lungo, e forſe di poco momen to, lo to, lo tralaſcio diriferire. Ma quanto al fatto del teſte da noi rapportato ſiſtema, egli ne ſembra per le parole del medeſimo Ippocrate, che Apollo, o Chirone, o Eſculapio, i quali è fama d'aver primieramente la medicina inventata, ſtati ne ſiano gli au tori. E quanto ad Eſculapio, comechè contuſamente ne faccia parole Platone, e a guiſa d'huom, che di dubbia, coſa favelli, par che dir voglia, ch'egli in tal modo fi loſofaſſe, ed è veriſimil molto, che dal ſuo maeſtro Chi, rone, o dialcun'altro egli appreſo l'aveſſe: e Chirone da alcun'altro fimilméte di lui più antico: eche poi avendolo Eſculapio altrui inſegnato tratto tratto infino a' tempi d ' Ippocrate per altri andatoſi foſſe avanzando,e a quelter mine condotto, ſicome egli il riferiſce; ma egli è nondi meno per mio avviſo, aſſai manchevole, e ſcempiato, ne Ippocrate interamente, e qualli converrebbe il rapporta; si che ne laſcia cagion di dabitare, che ne men'egli il con tenuto di tal fiſtemi capiſſe. Ne ſembra impertanto, che non già di ſoli medici; madi filoſofanti, e medici inſie me, o di ſoli filoſofanti ſia tal lavoro; e per una tal breve, e confuſa notizia, che può averſene, pur manifeſtamente ſi ſcorge, che non mai dovette cader in penſiero a que gli antichi medici, e filoſofi, che di quattro corpi, che ſon comunemente Elementi chiamati, tutto l'Vniverſo com pongali, i quali diquelle, che prime qualità le ſcuole, appellano forinati, con altre, che ſeconde nominano ac cozzati, i tanto varj corpi miſti vengano a ingenerare; m2 che quaſi infinite particelle di figura diverſe,in varie gui le ora accoppiandoſi, or ſeparandoſi,tuttele coſe faceſſe ro; o per me'dire, e più ſecondo la loro opinione, da tale accozzamento, o ſceveramento tutte le coſe ſi faceffcro in varie guiſe ſenſibili; e che, ne generazione, ne corrompi mento v'abbia in Natura giammai, ficome dice chiaramé. te nel libro della Dieta il medeſimo Ippocrate; ma che ogni coſa, che dinuovo ſimanifeſta, pureravi innázi. Il qual modo di filoſofare, ſe non è appunto il medeſimo có quel di Anaſlagora, certamente da quello non è guari di verſo. G g La maniera del medicare di quegli antichiſſimi medici autori di sì fatto ſiſtema, viene apertamente accennata da Ippocrate quando dice, ch'eglino davano.opera a tor via dall'huomo tutto ciò, ch'eſſendo della ſua natura via più valevole, e no'l potendoella vincere, offefa ne rim.z. ne; come l'amariſfimo, il dolciſſimo, e altre ſomiglianti teſtè mentovatecoſe; le medicine poi a vuotarle voleva no eglino, che ſi daſſero nel tempo opportuno a ciò fare, cioè allor,che per eſſer elleno al dovuto cocimento perve nute, era ceffato il lor impeto, e mitigato il furore; d'on de fi cava, che quegli avvedutiffimihuomini non adope ravan le purgagioni, ſalvo che nella declinazione del nia le; e chiaramente dice ſecondando i lor ſentimenti Ippo crate, che allor, che nell'huomo ſomınamente creſce la collera, in tutto quel tempo, ch'ella ſi trova ſtemperara; cruday e ſincera per arte niuna ſi poſsono, ne il dolore, ne la febbre, che da leicagionanſi mitigare, non che eſtin guere. Macon quali argomenti eglino cercato aveſsero di cuocere, e diridurre al lor primicro ftato le nocevoli materie,Ippocrate non ne tien ragionamento; folamente fi pare, per quanto raccoglier fi pofsa dagli altri ſuoi libri, e dalle parole, che reftè abbiam noi recate,che eglino in ciò non ſi valeſsero de'falasſi. Ritrovò a'noftri vicini tempi un sì facro fiftema, oltre al Paralcelſo, al Severino, ed al Quercetano altri, eal. tri doctisſimi ricevitori; i quali colle tante, e rante cu rioſe, e ſottili dottrine, che viaggiunſero ſommamente il nobilitarono, e lo fecero altro in verità parere da quel lo, che così rozzamente defcritto nel libro della vecchia medicina ſcorgeſi; ma non poterono nientedimeno que' valentisſimi huomini, per quanto mai s'affaticaſſero, e che poneſsero ancora in opera per ciò più acconciainente fare la vital notomia, ritrovar argomento giammai, che effi cacemente provar poteſſe, che nell'huomo, ed in altri corpitante, e tante varietà innumerabili ſi trovino di coſe; laonde degni certamente diſcufa mi pajono que'primi au tori del ſiſtensa,fe ne meno eglino non le vennero in quelli a dimoſtrare; ed in verità lo per me crcdo, che ne me no eglino non aveſſer potuto ciò fare giammai; imperoc chè ſe ſono, come esſi vogliono, in minutisſime particel le diviſe, e l'une coll'altre meſcolate, e confuſe, necon i ſentimenti ſi arrivano a comprendere, ne effetti poſſono produrre, da’quali argomentar ſi poſlá lor ritrovarſi at tualmente nell'huomo, ed in altri corpi, e ſe mai pure in eſso loro talvolta feorganfialcune delle dette ſoftanze di quando in quando venir ſuſo, non ſi può ſapere certa mente ſe vi erano in primanaſcoſe, o le pure elleno da' primi lor femi di nuovo fiſiono ingenerate. Orper diffalta di queſte certezze,non farà egli manche vole, e ſcépiata quella medicina, che preſupponendole, ſu vi s'appoggia? Ed oltre a ciò fe prima diligentemente non inveſtigheraſſi, e giugneraſſi a faper qualſia la natura dell' acerbo, delPacecoſo, e d'altre ſimili coſe, qual contezza de’loro effettipotrà averli, o del loro operare, e delle ma lattic, e della virtù deʼmedicamenti, e del modo d'ufar gli. E forte aggiroffi Ippocrate, ſofifti tutti que' fapien tìſliini filoſofi, emedici nominando,i quali volevan,che il medico foſſe pienamente di tutti gli affari della natura in formato, e intefo minutamente di tutto ciò, onde l'huomo compongali, e quanto al ſuo mirabiłmagiſtero concorra. E parvc al buon huono, che il conoſcimento di ciò antaa più alla pittura, che alla medicina s'apparteneſſe; e ba it are al medico ſol tanto, ch'egli conoſca l'huomo in ri guardo al mangiare, e al bere, che gli convicne. Ma quefto medelimo chi non vede, che non mai poſſa fa perfi, fe la natura dell'huomo in prima, e poi di tutti i cia bi, e beveraggi, e d'altre, e d'altre coſe e non iſcorgaſi. Io nóho preſo a vagliar ciòsche dicefi pariméte,che qua Jora popera del ſolo caldo ſeparato dal freddo fi cagionano le malattie, il freddo v'accorra a dar riparo; che ſomigliati fraſchenõ maiimmagino,che foſſero ufcite di bocca dique' valoroſi átichi;ne fo Io,comeIppocrate fe l'abbia maiim maginar potute. Aurebbono bēdovuto dire eglino, o eſſer mol altra opera, greca, molto, e molto agevolea ritrovare il rimedio, ſe le malac tie dalcaldo, o dal freddo ſolo avveniſſero, avendo noi pronti ſempre tra le mani quegli argomenti, iquali, o ſcal dare, o raffreddarne poſſono; o pure, che il loverchievol caldo, in perdendo le particelle, che fanno il moto, les quali sfumano velocemente, ove non v'abbia coſa, che vaglia a intertenerle,coſto s'ammorti,e venga meno.E ſo migliáteméte eglino ácora dir potevano delfreddo fover chievole,che tor ſi poſſa agevolméte via incótanéte ſenza che della ſola continua formentazione del ſangue. E tanto baſti del più antico ſiſtema della medicina, ficome a noi ne giova credere, al preſente aver detto; onde come d'abbondevole, e larga fonte tanti, e vari ruſcelletri poi d'altri ſiſtemi di razional medicina tratto tratto li diram irono: chenon pur la grecia tuttav, ma alere barbareſche, e più rimöte nazioni allagarono. E primieramente quel ſe ne vide uſcir fuori, di cui ſicome noi teſtè dicevamo fa Ippocrate mézione; il quale dell'u mido, del ſecco, del caldo, del freddo nel filoſofare ſi valſe; e quell'altro purdalmedeſimo Ippocrate accenna to, di coloro, i quali più ſottilmente le coſe fin da’loro primiprincipj fil filo d'inveſtigare li ſtudiavano; ed altri, ed altri Siſtemi ancor covenne,che a que'répi ſi adaffer tut tavia mettendo fuora per que' filoſofi, che in molte, e varie ſchiere eran partiti; alcuni de’quali, come addietro accennammo, ciò fecero per avventura ſol per render pa ga la lor curioſità, e per vaghezza di ſpiarei ſegretidella natura; ed altri per intendere oltre al filoſofare, anches all'opera della medicina, fino a’tempi d'Erodico, oveda prima ad alcun ſembra che dalla filoſofia indegnamente divorzio faceſſe la medicina; le pure alai molto prima, e per opera d'altri ciò non avvenne, e ben’ Ippocrate nel libro della natura dell'huomo, oltre a'già narrati,di quegli altri Siſtemi ta menzione, formati da que'medici,che volevano, o dal ſangue, o dalla collera, o dalla flemma elfer formato l'huomo, Ma tempo ſarebbe omai di patrare ad altro; más poichè non è queſt'opera da dover fornire in brieve ſpa zio di tempo: ed lo tanto oltre mi ritrovo col mio fa-. vellar traſcorſo, che già omai è l'umid'ombra della not te ſopravenuta, egli fie convenevole, che ad un'altra ada nanza l'eſaminamento degli altri ſiſtemi di medicina lo ri ſerbi. KK KE UP) RA: 240 All E quelle gravi, ed acerbe quercle, che veggiam tutto di metterſi fuora dalle pé ne di tanti, e tanti ſcrittori contro le bar bareſche armate, perchè coile più bello meinorie della famoſaGrecia abbia quel le i più prezioſi libri della medicina cru delinente malmenatic diſtrutti: vorrem noi dirittamente guardare, ritroverein per mio avviſo eſſer quelle in veri tà poco ragionevoli, cmenche giuſte doglianze; iinpe l'occhè ſe gli ſmarriti libri della greca medicina eran fimi glianti a queſti, che a noſtre mani ſon pervenuti, fideu certamente ſtimare alſai ben lieve la lor perdita, ne da do Ierſene gran fatto, anzi da non mettere in conto; mare pure quelli di maggior lieva ſi erano, e più vera, e fotril doctrina contenenti, bcn'a torto, s'io pur non vado erra to, oiGoti, o gli Alani, o gli Vnni, o iBulgari, o i Sa raceni di sì grā misfatto accagionanſi; imperchè di coſtoro certaméte niuno giunſe giamai a depre.larc,ed a ſignoreg giare la Grecia tutta; c quãdo ultimaméte il Turcheſco fu rore ſurſe ſtruggédola, ed ingiuſtaméte uſurpádola, cd occupandola inleme colla Città, ſede, e capo dell'Orientale, Imperio, allora preſſo che tuttii libri, che vi avevano della greca nazione,mercè all'induſtria degli Italiani huo mini nelle noſtre contrade vennero traſportati; ſenzachè v'han pure molte Iſole greche, ch'all'Ottomano giogono ſottomeſse dell'antica libertà anche a' di noſtri ſi godo no. La vera cagion dunque della perdita de' più beilibri non purdella medicina, ma delle più nobili arti, e delle più ſovrane ſcienze,non già alla furia dell'armi, o delle fiamme nemiche: non già alla rabbia del tempo di tutte l'umane coſe fiera divoratrice; ma recheſi ad altrettanto più cruda, quanto men furioſa, e mentemuta cagione.Diec tracollo, chi'l crederebbe ! dier tracollo dal lor primo ſplendore le lettere, non per altro, ſe non ſe per manca mento, e per colpa de'letterati medeſimi; c donde atten devan ſoftegno, e riſtoro, quindi ſterminio elleno ebbe ro, c ſtruggimento; conciofoſse coſa,che, ficome talora in bello, e ſpazioſo campo di grano ſoglion naſcer avene, logli, ed erbe ſterili, e dannoſo, e ſoffocarlo, cosìſur ſero tratto tratto nella Grecia fra quell'anime grandi, es valenti, che del vero ſapere eran ſolamente paghe, alqua ti huomini di ſtolido, ed ottuſo intendimento, i quali da vaghezza tratti divano onore, e di popoleſca fama, ogni loro ftudio ponendo in farſi tener alla minuta plebe ſapie ti ſol dieder opera; e tutti intelero a certe vane ombre di dortrine; e perciò laſciando in abbandonamento i buoni libri a conſumar dalla polvere, e a roſicchiar dalle tarme, ſol cura ſi diedero di riſerbare, e di tramandare a' po fteri que’libri, che con pompa, cd arringo di belle parole facevan veduta d'inſegnar tutto quando poco, o niente in lor v'era di pregio; e delle lodi di sì fatti volumi,aven do eſſi riempiute le carte, la troppo credula, anzi cieca, pofterità, come prezioſi teſori gli ha ricevuti, e ſempre mai venerati. Mai voſtri ingegni, o Signori,per cui veggio omai ſcorgerci da miglior lume la verità: mi danno ani mo ch’lo proſeguendo la incominciata tela de’varj ſiſtemi de'Greci medici, vi faccia ſcorgere ad un'ora per la più Hh parte falſe eſſere quelle eccelléti prerogative, che di mol ti ſcrittori va buccinando da per tutto immeritevolmente la fama. La medicina di Erodico,la quale quatūque in vitupere vol guiſa per Platoneſtata foſſe trattata: no però di meno dal gétilillimo ſuo ftilc ella vene sõmaméte nobilitata,ere ſa immortale, per fatica, che vi ſi duri, Io non ſo vede re, come ſi poſſa giammai ad eſaminazione acconciamen te ridurre,poichè d'efla sì poche, e cófuſe memorie avázate ne fono,che appena ne ſi aprirà capo da potere alcun degli argomentiond'ogli fabbricolla indovinare; impertanto a volerne dir ciò che per noi fi può, rammentomi, che Platon riferiſce, Erodico eſſere ſtato miglior maeſtro d'in ſegnare, come gl'infermi eſercitar doveſſero le membra, e ſtropicciarle, ed ugnerle, e regolatamente prendere il ci bo, chedi giovevoli, ed efficaci medicamenti a coloro preſcrivere;perchè e'ne viene dal medeſimo Platone affai Íconciamente vituperato; dicendo, ch'egliin sì fatta gui fa non diſtruggeva altrimenti le malattie, ma le complcf fioni ſolo a poter quelle lungamente foſtenere ajutava; ond' egli paſsò ad affermare la medicina d'Erodico eſſer arte da Pedagogo;imperocchè ficome da coftoro i fanciul lini, così da quella i mali reggevāli; mache di ciò Erodico la dovuru pena aveſſe meritevolmente pagata; imperoc chè della ſua inutil medicina, penofa, e cagionevolvita traſſe continuo, e ad una lunga, e ftentata morte ſempre diſpofta,perocchè da una nojofiffima, e mortal malattia preſo, egli per trovarqualche argomento da ſoftenerla, tutto nello fludio della medicina s’involſe, traſandando tutt'altre biſogne, e ſolo a ciò di forza intendendo, altro non gliene avvenne, ſe non ch'egliebbe a viver si parca mente, e regolato, che ſe mai dall'uſato cibo ſi dipartiva, toſto ritornava ad ammalare, e più che prima cagionevo le diveniva; e a queſta guiſa reſo a ſe medeſimo inutile, e grave peſo, viſſe infino all'ultima vecchiczza; ove di que favita rinereſcédogliil morirc, ſdegnofaméte fi dipartio.E alla finc Platone motteggiandolo conchiude, che una eccellente, e ragguardevol palma e' riportaſſe dall'arte ſua, e talc, qual veramente gliſi conveniva, come a colui, il qual non ſapeva, ch'Eſculapio una cotal guiſa di medica re a' pofteri non aveſſe inſegnata, non già perchè non gli foſſe aliai bé conoſciuta: ma ſi bene perocchè egli ſcorge va,che in una bé ordinata Città a ciaſcun debba eſſere l'o. pera ſua convcncvole aſſegnata, alla qual fornire doven do intendere, mal potevagli ozio lungo avanzare, du potere a ſtéto da una tal medicina attender prò, o riſtoro; coſa, la quale certamente ridevole ella ſembra ſe vien el la mai negli arteficiconfiderata. Reca Platon l'eſemplo d'un legnajuolo, il quale ſe mai, come porta la ſua diſ grazia ritrovali preſo da grave malattia, egli toſto inan dando per lo medico, da lui richiede, che diviſandoglial cuna purgativa, o pur vomichevole medicina, o col fer ro proccuri toſto di torgli ogni inale, e ogni ſeccagin da doſſo;ma ſe allora il medico ſolpreſcrivcſſoglilungadieta, e altri così fatti riguardi, certamente, che colui gli re plicherebbe, non eſſer miga ſuo intendimento di menar il can per l'aja, e foggiacere a una sì nojoſa, e miſerevol vi ta; e così datogli dipreſente il congedo coll'uſata libertà ſe ne rimarrebbe; e ſemai avveniſſe per forte, ch'egli guariffe, ſi viverebbe per innanzi felice; ma ſe il corpo no potendo al mal far contratto ſe ne moriſſe, almen verrebb’ egli ad eſſere da tante noje ſviluppato. E dopo queſti ra gionamenti Platone apertamente una tal medicina caccia via dalla ſua repubblica, come dannoſa, e tale, che i ſuoi cittadini non meno alle lor private biſogne, ch'a quelle del comune verrebbe a fraſtornare, e ritorre. D'una tal materia ſi legge una lettera dello Speroni, con la quale egli va dimoſtrado con vani ſofiſmi,la vita ſobria eſfer no cevole uzi che no; infra l'altre coſe dicendo, la vita ſo bria non poterſi appellar ſana, eſſendo la ſanità un'acci dente, che coll’inferinità, ch'è il ſuo contrario via ſi cac cia del ſuo ſoggetto; perchè ſe nella vita ſobria non può effer inferinità, non può eſſer (anità vera; c ſe tinto, e non più fi mangia, quanto baſta al vivere noi ne coin H h 2 batteremo, ne cămineremo,ne falteremo giámai, ne potre mo ciò fare, perchè non averemo le forze,mangiando fo lamente per vivere, il che ſarebbe un gran difetto nell huomo. Oltre a ciò e' dice, che come la mano ſtorpiata, non è mano, perchè no può come mano operare,così la ſo bria vita no è vita,ma meza morte, perchè no opera quan to, e come dee l'huomo operare.Dice parimente egli che il morir per riſoluzione ſia la peggior guiſa di morte, che poſſa fare l'huomo:perchè queſto è inorir di fame; della qualmorte parlando Omero in perſona de'compagni d'V Jiffe l'abborriſce infinitamente: ed elegge più coſto lo an negarſi, che'lmorir di fame į ne peraltro Dante biafi matanto i Piſani, che per aver fatto morir di fame il Con te Vgolino,benchè foſſe traditore della Patria. Con chiude egli alla fine, che chi è ſobrio nel cibo faria huopo cffer ſobrio in molt'altre coſe: peſare il vino, e'l pane, nu merare l'ore: farebbe luogo ancora pefare i peſieri, lo ſcri vere, il leggere', e ſimili cofe, che impediſcono la dige ſtione: numerare i palli, e le parole, che ajutano la dige ſtione: non dormir ſe non tante ore il dì, e tante la notte. Ma il chiariſſimo Signor Luigi Cornaro, a cui era in dirizzata la lettera; col ſuo proprio cſemplo fe veder ma nifcſtamente quanto ciò vano, e fuor di ragion fia: impe socchè egli colla rigorofa dieta lano, c vigorofo, e bene atante della perſona anche nella cadente età ſi mantenne, e viſſe oltr'a cent'annipronto ſempremai, e col ſenno, e colla mano alle biſogne tutte della ſua patria;comechè ca gionevole aſſai di compleſſione e'li foſse in prima ſtato ncl Ja ſua giovanezza, ca molti, e graviſſimimali ſoggetto; intanto, che comunemente da'medici dopo varj, e diverſi argomenti indarno adoperativi, diſperato ſovente di ſuas ſalure ſtato ne foſſe. Ma quanto vane,quanto deboli, e fanciullefche fien le ragioni, con che Platone s'argomenta d'abbatter Erodi co,e come ſcioccamente la dappocaggine d'Eſculapio, e de figliuoli di lui egli di ſcuſare s'ingegni: Io non pren derommi al preſente briga di dimoſtrarlo, potendo ciaſcũ 1da per fe a prima veduta baſtantemente comprenderlo. Macome non ſi può in modo niuno negare, che quel me dico, il quale aveſse per le mani ſicura,ed efficacemedici na, che ſenza indugio poteſse un grave male di prefence guarire, non dovrebbe certamentead altri medicamenti aſpettarſi; nondimeno non ſo lo fe Eſculapio, cotanto da Platone commendato, aveſse pronta ſempremai unas cotal medicina non che a tutti mali acconcia, ma ſola mente alle ferire; eſsendo rade molto cotali forti di me dicamenti, e radiſsimi coloro, che alcun certamente ne ſappiano; perchè lopratutto fa meſtieri, che'l medico per ogni via ſappia all'infermo ſoccorrere, eſe non può riſa, narlo,poſsa almeno tantoſto indugiar la fua morte, tem poreggiando, e ſcherinendolo a ſuo potere. Perchè fom mamente egli è da lodare il ſaggio avviſamento d'Erodi co, il quale molto bene a pruova ſcorgendo quanto poco a capitale da tener foſse l'operazion de’medicamenti, diede opera più che altro a quelle coſe, che ſe non ſono ditroppo vaglia, s'annoverano fenza fallo infra le meno incerte dellamedicina. Ecertamente per quelle uſare no fi corre pericolo niuno da’malati, e poca, e niuna fatica. s'imprende a porle in opera. MadalPaverle Erodico dalla ginnaſtica portatealla me dicina,quanta lode egli per ciò ne meriti, Galieno mede. fimo il confeſsa; il qual nondimeno una tanta lode ad Ip pocrate attribuiſce. Io per me ſtupiſco della fcimunita tricotanza di tal’huomo che avendo letto più volte i dia loghi della repubblica di Platone, e recatone nel fuo li bro pur qualche luogo, ardiſca pure d'affermare, che Platone in ciò ſolamente la cattiva ginnaſtica biaſimaſſers la quale ſi predeva cura di difpor gli Atleti ad eſser valo roſi, ed abili a loro eſercizj. E certamente ſe quellibro di Platone ſinarrito per ayventura ſi fofse, ciafcun farga mente le ſciocchezze di Galieno crederebbefi. E come voleva Platone biaſimar la ginnaſtica, che per Galien cat tiva dicefi, s'egli nella ſua Città ordina, che s'edifichiil ginnaſio, e diſegna con molte parole la contrada acconcia per i per quello, e vi ricerca in iſpezialità copia d'acquc cor renti, così per derivarla in uſo de' caldi bagni, coine per irrigare il terreno, e render vago, eadorno il luogo; ſen zachè no mai ſtanco ſi moſtra Platone in tutte le ſue ope re di celebrare il ginnaſio, e quegli eſercizi, che ivi fico ftumavano di fare: come ſommamente utilia conſervar la ſanità; e fra l'altre egli ebbe a dire una volta, eſsere ma lagevol molto il ritrovare diſciplina miglior di quella, la quale fin’alla ſua età in lunghiſſimo ſpazio di tempo s'era ritrovata; cioè della muſica, che all'animo, e della gin naſtica, che al corpo appartiene. Ma laſciando ciò da par te ſtare, egli va grandemente per mio avviſo errato Pla tone nell'affermare, che que'buoni antichi medici non cu raſsero il regolaricibi a'malati, e che ciò eglino faceſse ro, non peraltro, ſe non perchè non avevali a que’tempi di ciò punto biſogno, perchè agli antichi, i qualimaisé. pre regolaramente vivevano, non faceva poſcia inferman doſi huopo diregola alcuna di medico; concioffiecofachè le tante, e tante förti di malattie, che fra gli antichi ſové teniente ſi vedevano, faccian’aperta, e fedele teſtimonia za del contrario. Ma quantunque vero foſſe ciò,che Pla tone immagina della ſobrietà grande degli antichi huo mini, pure altri cibi a'lani,ed altri a'malati convengono; e quelmedico, il quale cibaſse l'infermo come fano, e'l ſano come infermo ugualmente nel certo all'uno, ed all l'altro nocerebbe. Egli poi non ha dubbio alcuno, che'l regolar i cibi foſse la prima coſa certamente, che s'ado peraſse in medicina; anzi da ciò venne ſuſo primieramé ce la medicina; e prima, che foſsero i medici, i medelimi infermi da per ſe il ritrovarono; e illuſtri.fimo in queſto affare è il luogo di Celſo; il quale ci giova quì tutto rec.le re, comemolto al noſtro propoſito faccente: Ægrorums, dice egli, qui fine medicis erant, alios propter aviditatem primisdiebusprotinuscibum affumpfiffe, alius propter faſti dium ahſtinuile, levatumque magis eorum morbum effe, qui abſtinuerant: itemquealios inipfa febre aliquid ediſ Te, alios paulò ante eam, alios poft remiffionem ejus, optime deinde his ceflife, quipoft finem febris id fecerint. Eadeque ratione alios inter principia protinus ufos effe cibo ple viore, alios exiguo, graviureſque eos factos qui fe imple rent. Hæc, ſimiliaque quum quotidie inciderent, diligentes homines notaje: quæ plerumquemelius refponderent,dein deægrotantibusea præcipere cæpiſſe:fic medicinam ortam-, ſubinde aliorumſalute,aliorum interitu pernicioſa diſcer nentem à ſalutaribus, Ma intorno al cibari malati, certiſſima coſa egli ſi è, che gli antichi medici gră pezza affai prima d'Ippocratemol. te coſe, e molte diviſarono, come ſi può agevolmente ve dere nel libro della vecchia medicina, ed in altre opere d ' Ippocrate medeſimo, onde parimente ravviſar fi puote quanto errato vada Galieno, il quale di ciò far yolle il buo Ippocrate autore. Ma, che che ſia di tali faccende, terri bile allai ſembrami nel vero la cenſura, con la quale Ip pocrate, non avendo veruno riguardo alla venerazion do vuta al maeſtro Erodico, fconciamente il riprende,e vitu pera; dicendo, ch'egli togliere la vita a tutti que'cattivel li febbricitanti, ch'e' medicava colle fatiche, e co' fummi. caldi, che loro imponeva; e ne reca egli di ciò la ragione, dicendo cfler a' febbricitanti il pareggiare, il correre,e gli ftrofinamenti, eifomenti oltreinodo contrari.Aggiugne Galieno a ciò che dice lppocrate, che Erodico in ciò fa re, ne anche alla ſperiéza guidar certaméte e'li faceſſe,non volendo niuna ragion delmondo, che'l male col male, la fatica colla fatica, il ſimile col liinile da medicar ſia; an zi e'dice, che gli argomenti tutti adoperati per Erodico nelle febbri, valevoli più toſto ſiano ad accreſcere sfor matamente il calore, che a toglierlo. Ma certamente no molta fatica aurebber egli durata i ſeguaci d'Erodico in rimboccare Ippocrate, e Galieno,dicendo,che Erodico, come buon medico razionale non già alle febbri, ma alla cagione di quelle riguardar doveva,alla qual togliere cer tamente quemedeſimiargomenti fi convengono, i quali egli adoperava, avvegnachè in prima ſe ne creſca talottas la febbre per qualche poco ſpazio di tempo; ma poi ſenza fallo rimoſſane la cagione del tutto ſi ſpegne; ſenza chè ben potrebbono di vantaggio aggiugnere, il medeſi mo appunto farſi da Ippocrate, e da Galieno: i quali con fregamenti, e con dare a {piluzzico, e a riguardo il cibo medicar parimente ſogliono i febbricitanti. Ne qui deb befi tacere, ſcorgerſi da ciò chiaramente eſſere antichiſ ſimo coſtume de'medici biaſimare in altri, come manche voli, e malfatte anchequelle coſe, che eglino medeſimi in ſomiglianti caſi operar tuttavia ſogliono. Ne poffo sé. za maraviglia riguardare alla gran tracotanza di Galieno, il quale così aſprainenre riprende il diviſamento d'Erodico ſenza punto penſare, che ello ancora alcune febbri linco pali co'fregamenti, e col digiuno curar foglia; perchè egli vien forte ripigliato dal Tralliano, il quale rintuzza lo, c percuotelo, e con maggior ragione per avventura, con quell'arme medeſime, che Galieno aveva contro Ero dico adoperace. Vltimamente ſe un ſomigliante coll'alcro da curar ſia, coloro ſe'l veggano, i quali comeche con parole il biaſimino, purcon fatti talvolta il ſogliono ado. perare: ſolamente lo avviſo, che Ippocrate medeſimoma nifeftaméte afferma, che'l yomito col vomito ſi cefla,e che col limile il ſimile ſi cura. Quinci ſcorger ſi puote, chcgli huomini tutti,e più che altriimedici, Togliono di leggieri nell'arti, chedi nuovo imprendono ad eſercitare, valerſi di quelle coſe, alle qua li per qualche ſpazio di tempo diedero in prima opera; e percið Erodico per mio avviſo ſi ſerviva così ſpeſſo degli Itropicciamentiin medicando gl'infermi, e d'altre opere, ch'erano in uſo nel ginnaſio, di cui egli aveva avuto la cu ra; così veggiam que',che, o d'Aſtrologi, o d'Alchimi ſti divengono medici, non preſcriver rimedio alcuno, che non ſe ne fian colle ſtelle, eco'fornelli conſigliati; ma no penſi però alcuno, che'l maeſtro, o preferto del Gimnaſio aveſſe cura di far ſtropicciare, o d’ugnere que' ch'eran deſtinati alle lutte, al corſo, e agli altri gilochi, che ſi fa cevano nel Gimnaſio; ma il ſuo uficio ſi era il comandar nel Ginnaio, e conliſteva nella ſupreina autorità di quello p li vile li varjufici a quella ſottopoſti, e per le ipeſe, che per l'e ſercitazioni facevan meſtieri; edun taluficio era in sì grá pregio,edonore tenuto,che nó foleva darſi,ſe non ſe a'più nobili, o ben’agiati huomini del paeſe; c durò lungamen te tal uſanza sì fattamente,che i medeſimi Romani Im peradori talvolta non iſdegnarono in volendo favoreggiar qualche Città amica, e qualche popolo a loro affeziona to, infra i titoli, egli onori degli altri maeſtrati, d'accet tar anche quello di prefetto, o maeſtro del Ginnaſio. Ma non men della medicina montò in grandiſſimo pre gio, e venerazion l’arte ginnaſtica, la qual fu cotanto ce lebrata a que'rempi dalle dotte penne de ſagaciflimiſcrit tori, che nulla più; d'alcun de'quali con ſomma lode fa menzion Galieno, appo il quale leggefi di vantaggio,che non ſolamente eglino contendevano co’più chiari, ed il luftri medici razionali, ma che quegli fteffi, chenel Gin naſio bazzicavano proverbiar ſolevano Ippocrate,che egli temerariamente inipreſo aveſſe ad inſegnar un'arte, dicui cgli era affatto ignorante, e digiuno. Ma ritornando ad Erodico, chc che ſi dica di lui Platone, non ſi fermò egli nelle coſe ſole della ginnaſtica ncll'eſercitar la medicina, ma ſi valſe d'altri, e d'altri rimedj, de' quali altri medici dopo lui parimente fi valſero: come ſi può vedere in Ce lio Aureliano, il quale in facendo parole della ſciatica, delle medicine d'Erodico così dicc: Herodicus igitur, ut Aſclepiades memorat, ventrisadhibet purgationem, atque pofl cenam vomitus, quifunt implebiles potius quam ficcabi les: tum vaporationibus tepidis aceti decocti exhalatione con fectis utitur, vel aqua marina, admifta thalsa herba,atq; biljopo, & his fimilibus, veficis bubulis repletis corpus va purandum probat, vel aliis quibufque majoribus inflatis tu mentia loca pulſari jubet, e tanto baſti della medicina d’E rodico avere accennato. Eurifonte celebre medicante dell'antichiſſima ſcuola di Gnido, il quale,come riferiſce Sorano inſieme con Ippo crate medicò Perdicca Rè della Macedonia, dalle poche memorie, che n'abbiamo, non ſi può ſcorgere in qual ma I i niera egli medicaffe, ene meno come egli in medicina fi loſofato aveſſe; e delle ſentenze Gnidie, dicui voglion ch ' egli li foſſe l'autore, ne reca tanto poco Ippocrate, il qua le fi diè cura di eſaminarle, ch' Io per me non ho che di viſarne. Egli vien rapportato da Ippocrate, che i compi latori di quel libro aſſai minutamente, ed a ſpiluzzico avel ſer raccolto, e diviſato tutte quelle coſe, che avvenir ſo gliono agl'infermi in ogni lor malattia; ma non è per ſuo avviſo da far gran fatto ſtiina della coſtoro induſtria, come quella, ch'aſſai leggiera, ed agevole impreſa è a chiunque neprenda cura, quantúque niente informato di medicina egli ſia: baſtado ſol,che dallo infermo della nojoſa iſtoria della propia malattia pienamente véga avviſato.Ma lo,có buona pace d'Ippocrate, ſono in contrario parere; e lem brami, che gran ſenno faccian que’medici, e fieno ſom mamente da commendare, qualora ſi danno ſomiglianti brighe; imperocchè,non di ſole ciance,madicoſe in qual chemodo rilevāti ſi vedrebbon ripiene le ſcritture de’me dici. Ma che è ciò, che ſoggiugne poſcia Ippocrate, che egli fia queſto un peſo da tutte braccia, ne v'abbiſogni in tendimento di medicina? E chi non vede quanto dalvero manifeſtamente il ſuo parer li diparta? da che a ſimili rac conti fa luogo comprender le variazioni de' polli, e altre biſogne ſola medici conoſciute; edo che vaghe novelluz ze da riftuccar la pazienza di ciaſcuno ſarebbon le imper tinenti ciuffole, ed anfanie, che talor foglion narrare a ' medici gl'inferini, fe quelle appunto aveſſero a deſcriver ſi poi ! e ſe per alcun, ſicome affai ſovente avvenir veggia mo, foffe offeſo il cervello, che domine potrà unqua ridir dirittamente giammai de'ſuoi travagli l'infermo? nondi. meno, quantunque una tal impreſa lia aſſai propia del me dico, lo giudico, che ſe altri vi ponetle mano, chemedi co non foffe,peraltro riguardo maggior utile ſe ne ritrar. rebbe; iinpcroccliè nurrerebbe egli ſemplicemente come và la biſogna ſenza giugnervi nulla di ſuo, ove da ' medici mercè dell'ufire loro aliuzie, tra per ridur'la cagion d'o gni avvenimento de'ma i alle lor concepute opinioni,o per altrid 1 alera cagione,cofa,che ſoſpetta di falſicà,cd'errore non ſia non pongono in iſcrittura giámai. Soggiugne Ippocrate, che di quelle coſe, delle quali dee aver contezza ilmedi co per propia fua induſtria, oltr'a quelle, che poſſon ſa perſi dalla bocca dello infermo, molte ne tacquero que gli ſcrittori; e ch'egli di quelle notizie, che s'acquiſtano per opera della conghicttura, e che pertinenti ſono al mo do, col quale curar fi dee ciaſcuna malattia, non s'app.2 ga affatto di ciò, che color ne dicono; e quinci ſi pare, ch ' Eurifonte medico razionalc ſtato ſi foſſe, e che, ſecondo i ſentimenti d'Ippocrate medeſimo ſuo emulo, aveſſe ſcrit to affai bene in medicina: nientedimeno, per quel che Ip pocrate parimenteriferiſca, chiaramente ſi ſcorge,che co sì Eurifonte, come que' della ſua ſcuola di Gnido ben molto poco valfero nella medicina; imperocchè nel medi car le malattie, toltene l’acute, fi valevano ſolaméte dell'e Jarerio,del latte, e del fiero; e veramente intorno a ciò IP pocrate a gran ragione ne ripiglia l'autore di quel libro ſoggiugnendo, che ſarebbe degno di gran lode l'adoperar pochi medicamenti,ſe quelli buoni li foffero e conveniffe ro veramente a que’mali, a'qualieglino gli preſcrivono; ma che altrimenti vada la biſogna. Vengono in ciò i medicanti da Gnido imitati da parec chj de'moderni medici, i quali ſi tengon le mani a cintola ne'mali lunghi, ed allo incontro poi nellacute malattica non dan mai foſta a' poveri infermi, travagliandogli ad ogn'ora con importuniffimi rimedj, la dove dovrebbono ſenza fallo il contrario operare; concioſliecofachè il ma de, il quale qualche ſpazio di tempo dur.2,renda aſſai age vole al medico il potere inveſtigarne, e rinvenirne il rime dio; il che nc'mali acuti malagevolmente riuſcir puote, i quali per ſe ſteſſi, o bene, o male finiſcono in brieve. Ma nondimeno egli è ſommo artificio di medico il medi car sì fatti mali con molti rimedj: imperocchè ſe l'infermo guariſce, il vulgo ignorante agevolméte crede eſſer ciò per opera avvenuto di alcuno di que'tanci rimedi, che gli furono dal medico preſcritti: non avviſando, che celeres, ! I i 2 & acu 1 cu acutæ pafſiones, etiam fponte folvuntur, &nunc fortuna, nuncnatura favente, come laggiamente Celio Aureliano avvila; e ſe purl'infermomai vienea capitar male, tutta via della ſua induſtria ognuno contento, ed appagato li tiene, inmaginando, che egli non abbia laſciata coſa p riſanarlo. Ma che che ſia di ciù ne'mali lunghi,ove nel vero l'imprendimento, e l'opera del buon medico maggiorme te ſi richiede, perciocchè, ficome avviſa il medeſimo Ce lio, neque natura, neque fortuna folvuntur, ſi portò pelli maméte, per avviſo d'Ippocrate,Eurifóte;maſe crediamo a Celio Aureliano, nelmedeſimo fallo incorſero parimen te con Ippocrate ſteſſo tutt'altri greci medici, che furono prima di Temilone. Ma ricornando ad Eurifonte, Io non ſo, s'egli, o pure alcri compilando la ſeconda volta il libro delle ſentenze Gnidie,maggiormente, come porta opinione Ippocrates, il perfezionaffe: parte delle coſe, che in prima vi li legge vano, come chioſa Galieno, affatto togliendo, e parte in altro cambiando; effetti, come altrove abbiamo pa rimente avviſato,che provenir ſogliono dall'incertezza della medicina; e queſto è quanto laſciò ſcritto Ippocra te della medicina d’Eurifonte. Si valſe cgli, come Ce Jio Aureliano dice, di qualche medicamento d'Erodico, e ſcriſſe per quel che narri Galieno, di notonia,e di quel le inedicine,che ſi poſſono in luogo d'altre, che mancal ſero porre in opera. Ma trapaſſando ora alla medicina d'Ippocrate, egli cer tamente oltrealcrcder di ciaſcuno malagevole mi ſembra a diviſarne ora i miei ſentimenti; perciocchè di que’libri, che ſotto il ſuo nome ſi leggono, ne pure a teinpo dell'an tico ſcrittore, che ne racconta la vita, dar fermo, e ſicu ro giudicio ſe ne poteva. Ma che unque diciò ſia,manife ſta coſa è, che parecchi dell'opere dilui per travalicamé to di tempo ſmarrironſi, ed altre manchcvoli in parte, tronche li riinaſero; ed in altre ancora molto, e molto co ſe, o da ſuoi ſcolari, o da altri aggiunte furono; noiz però di meno c'fi pare ad alcuno che, coll'efler perdute l l'opere d'Eraliſtrato, di Diocle d'Aſclepiade,e d'altri buoni medici antichi, in queſte ſolaméte, che ſotto nome d'Ippo crate ne rimaſero, oggi ſia quaſi tuttoquáto di buono v'ab bia infra'Greci di medicina,cópreſo; impertanto moſtrano manifeftaméte, che non riſpondono a quel gran nome,che da alcun medico greco in prima, e poi da altri anchenon medici ſenza troppo ben'eſaminar la coſa,egli n'ha ripor tato; ne lo ſo permevedere, come ſi poteſſer mai, nu Platone, ne Ariſtotcle approfittarli per efle tanto quanto nella filoſofia naturale, come Galieno, e altri medici ſo gliono ad ogn'ora millancare. Ma chi per Dio paſſerà sé. za riſa la beſtaggine di Macrobio, il qual poco di sì fatte coſe conoſciuto, e nõ avédo forſe mai letti i librid'Ippocra te, follemére cómendandolo, gli attribuiſce ciò che a Dio ſolamente conviene, dicendo: Hippocrates qui eam fallere, quam falli neſcius. Nulla poi dico diGalieno,il quales tutto che non ſi vegga mai pago di lodare Ippocrate, con dire una fiata infra l'altre,che le ſentenze dilui tutte ve riffime fieno, Ta' ti Ittasaxegéros dogueala mutu le árugega tab iar e che la parola d'Ippocrate fi: come la voce d'Iddio: Notip Des our nj In Toregros réžis:impertātono approva egli poi co* fatti ciò, che dicecolle parole: imperocchèmolte,emolte fiate apertamente dalla ſua dottrina s'allontana; anzi tal volta dimenticando quanto aveva detto in ſua lode, for te il proverbia, e'l biaſima, come altrove dimoſtrato ab biamo. Mai più ſapienti,cd ayveduti tra gli antichi ſcrit tori, quali furono ſenza fallo i Setteggianti, e queich'eb ber più valore, e più nome tra ’ loro ſeguaci, in pochillimo pregio tennero Ippocrate: come ſi può agevolmente ve dere in Celio Aureliano; ed Aſclepiade chiamar ſolevala medicina d'Ippocrate Meditazione della morte. Ma noi non badando a'cicalecci di niuno, diciamo primicramente, ch'egli ſi pare certamente, che Ippocra te aveſſe in qualche grado avuto quel natural talento, che alla medicina richiedeli; e che ſi foſse altresì cgli ſtato un' huomo infin da’primi anninello ſtudio, e nell'eſercizio di ella continuamente involto; e comechè non ben intelo scorgeli ſovente delle coſe, ſembra pure, ch'egli ciò che ſi conoſceva in medicina in que'rozzi tempi, ne’libri degli antichi letto, & veduto egli aveſſe; e chi ben vi affiserà la mente ravviſerà nelle ſue opere affai più manifeſte le fondamenta delle varie, e diverſe ſette della medicina, di quel, che già follemente millantando Plutarco ne ſcriſſe, d'avere i principj tutti delle ſchiere de'filoſofi ne' Poemi d'Omero pienamente rinvenuti; perchè fi dee ‘ certamente credere,o cheIppocrate impiegato tutto nell'uſo delme dicare non aveſſe avutomaitempo d'inveſtigare, e deter minare ciò chepiù vero gli foſſe paruto in medicina:o che pure avendo egli coſa per coſa minutamente ſtacciata, ed abburattata, ftanco alla finc,manifeftaméte avviſato aver ſe non eſſer più da appiccarſi ad uno, che ad un'altro fi ſtema di medicina,per la loro egual dubbietà;e quinci egli poi di varj, e tra effo loro contrarj ſentimenti da' capi di diverſe ſette appreſi i ſuoi ſcritti riempic; e per tacer d'al tro per ciaſcun ſi ravviſa aver Ippocrate nel libro della natura umana impreſo a parlare d'uno ſpezial fiſtema di medicina, ed'un altro nel libro della vecchia medicina, e d'un'altro nel libro degli fpiriti, e d'un'altro ultimamen te nel libro della dieta, comechè qucftie'confonda con gli altri ſiſtemi da lui poco ben'inteſi, e ſpezialmente con quello della vecchia medicina; il quale ultimo ad alcuno ſembra, che intorno a tal materia.e ' compoſto aveſſe; e viene ſcioccamente da molti creduto non già ď Ippocrate, ma di Democrito; ma certamente fuor d'ogni ragione; perciocchè in altra più nobile, e più ſottil ma niera quel ſublime filoſofante compoſto l'avrebbe. Ma che che di ciò ſia,per tornare a quelchereſtè dicevamo, pié d'incertezze, e tcmpellante: Ippocrate, par che talvolta alla ſperienza, ed alla ragione il tutto raſſegni; ed altre yolte ſembra, ch'egli alla ſperienza ſolamente s'attenga; e da ciò moſſi negli antichitempi alcuni, come narra Ga ļieno, ed alcuni altri della noſtra età, infra'quali è il Mon tano, preſero cagionedi piatire, fe Ippocrate in medicina da parte empirica, o da parte razionalc veramente tenuto haveſſe; ma non poteva certamente egli,comechènon foſe ſe di molto grande intendimento fornito, nel maneggiar tutto dila medicina non avvederſi della poca fermezza e della molta dubbierà di quella. Ma per altro poi, quan to Ippocratemancaffe di quell'intendimento, che a gran filoſofante, emedico, qual vien' egli comunemente te nuto appartienfi:ſcorger fi può chiaramente in tutte le ſue opere, e particolarmente nel libro della vecchia medicina; nel quale avendo egli avviſato eſſer da filoſofare in medi cina in quella guiſa appunto, che cgli quivi ſecondo i fen timenti de'più antichimaeſtri diviſa, da chiunque al vero, e perfetto conoſciinento di quella aggiugnere intenda:ed oltre a ciò, che la medicina non foſſe ella ancor tutta a ' ſuoi tempi ritrovata, ma unamenoma ſola parte di quel la, e che molto ancor ne reſtaffe per innanzi a ſcoprire; egli nondimeno, ne molto, ne poco vi s'affutico; anzi andò dietro ad altri, ed altri ſiſtemi di medicina a guiſa di cieco, che séza guida alcuna vada caſtoni, ed attenědoſi a ciò che, incontra, or per una, or per altra ſtradì errando, ſenza mai venire a capo del ſuo cammino;la qual verità ben vé ne dului me.Iclimo conoſciuta, e finceramente paleſata nella piſtola (ſe alori ſecondo i ſuoi ſentimenti in nom:) fuo, pur non la finale ) che egli ſcrive a Deinocrito; over apertimente dice ſeno eſſere ancora pervenuto a quel le gno nell'arte, che diviſato ſi aveva, avvegnachè negli an ni molto, e molto avanzato, e nell'uſo del inedicare con tinuanente logorato fi foſſe. Map far pienamérc vedere,e toccar co muni quáto po co in filoſofia avázato fi foſſe Ippocrate, egli ſi convégono ad uno ad uno elaininarle fondamenta de'varj ſuoi, e co tanto infra loro diſcordanci ſiſtemi di medicina; coinechè ciò per avventura ſoverchio giudicar ſi potrebbe; percioc chè tali, e tante ſono le dippocaggini di lui, e le ſcioco chezze de'ſuoi ſentimenti, che tolto per qualunque mez zano intendimento ſenza troppa firtica avviſar li potreb bono; il che egli ancor conoſcendo, e reſtandovi alla fine inviluppato, e contuſo, in njun di quelli riſtr fermame te fi volle, dottando, e tempellando ſempremai di ciaſcu no. E conciofoſſe coſa, che del Giſtema della vecchia me dicina altrove baſtevolmente detto ſia', cominceremo al preſenteda quello, che nel libro della dieta con lungo, e magnifico apparecchiamento di parole egli neporge. Pri mieramente in quel libro e'nedice ſecondo il ſentimento, ch'egli altrove rifiutato avea dique'valent'huomini da lui contro ogni ragionechiamati ſofiſti, che chiunque a ſcri ver imprenda della dieta all'huom pertinente, egli con venga in primain prima aver piena,e perfetta contezza della natura dell'huomo, e di qualiprincipj egli da prima compoſto foſſe: e oltre a ciò ſpiar minutamente, e com prendere quali di que'principj in lui maggiormente s'avã taggino. Sentimento quanto ſaldo, evero, e che non ha di pruova alcunabiſogno, altrettanto volgare, e agevole a penſare; perchè eglimoſtra,che Ippocrate non abbia per quello, ſe pure è ſuo, cotanto merito appo i medici dovuto acquiſtare; non peròdi meno lo ſcaltrito temen do negato non gli foſſe sì bel diviſaméto,ne vuol far pruo va, ſo giugnendo, che ciò non fi ſappiendo, mal ſi po trebbe cibo,che profittevole abbia ad eſſere, ad huom ’ ragionevolmente diviſare. Indi foggiugne convenire an cora aʼmedici la compleſſion di tutti cibi, e vivande, che noi uſiano eſſer conoſciuta;e ſopra ciò con lunga,ed inutil diceria grā pezza cgli di provar s’affatica,comcchè di pruo va niuna ciò abbia punto biſogno.E quindi il ſuo ragiona mento cominciando intorno a principj delle coſe della natura, in sì fatta gniſa ne parla. Così l'huomo, come tutt'altri animali di due principj so compoſti, i quali comechè diverſi ficno quanto alle lor facultà, all'uſo nondimeno ſon concordevoli, e acconci; ciò ſono l'acqua, e'l fuoco; i quali amendue non meno a tutt'altre coſe, che l'uno all'altro ſcambicvolmente ba fano; ina ciaſcuno per fe a ſe inedefimo, ne ad altra coſa del mondo non baſta; e la virtù, e la forza di ciaſcun di effi è tale cheper lo fuocoli muove ciaſcuna coſa qualun qne clia lia, c in qualunque luogo dimori: e per l'acqua convenevolmente ella ſi nutrica, e creſce. Ma in conti nui piati, e battaglie elliftando ſempremai fi contraſta no, e ſi vincono; non però sì fattamente, ch'alcun d'eſli cotanto abbattuto, eſpoſſato ne rimanga, che niente più di vigore,o di forza non gli avanzi; perciocchè ove il fuo co preſſo all'eſtremo dell'acqua ſtrabocchevolmēte è per venuto, toſto il debito nutrimento gli manca; perchè egli volgeli colà, ove nutricar ſi poſſa; e l'acqua d'altra parte quando all'eſtremità del fuoco è aggiunta riman priva di inovimento, e nulla vale; perchè vien toſto dallo ſcorre te fuoco in nutrimento cambiata. E imperciò nel conti nuo lor tempellaméto niun di loro sì pienamente può ſo verchiar l'altro, che affatto l'uccida; ma amendue vengo no in sì fatta guiſa ſcambievolmente a ſoſtenerſi, che egli no ſolamente baſtevoli ad ogni coſa rieſcono per doverla in qualunque modo comporre. Orchi domine cotáto ſarà di cieca paſſionc ingombro, che non iſcorga pienamente quanto vani, e ridevoli ſieno i diviſamenti d'Ippocrate intorno a ' ſuoi principj. Vn ſol principio, dice egli,non baſta; ma baſterà egli, che sì il dica? anzi vi ſarà chi vi replichi, uno eſſer ſufficientiſfi mo, ove le parti, che il compongono di diverfa figura fie no, e diverſamente fieno allogato, e infra loro compoſte, e ſi muovano: perchè poidi yarie facce le coſe tutte del mondo compor debbano; ſenzachè ſe principj delle coſe vuole egli, che ſieno il fuoco, e l'acqua, perchè egli non ne ſpiega lor natura? ne baſta in ciò ſolamente dire eller il fuoco valevole a dare il movimento; perciocchè ben do veva egli più avanti ragionando ſpiar la cagione del movi mento delfuoco, e ricercarminutamente diche egliſia compoſto, e chedifferente il faccia dall'acqua: e queſte coſe ritrovate riporle poi per principj delle coſe, come quelle, onde tuce'altre vengono ingenerate: e non già il fuoco, e l'acqua, che non ſon primieri nell'ingenerare. Ma mentre egli con l'uſata ſua traſcuraggine di ciò niuna briga ſi prende, certamente dall'acqua, e dal fuoco in quella guiſa, ch'e' ne favella, nc huomo, ne altro animal K k niu i  1 niuno coinpiuto, ne coſa altra delinondo non ſe ne potrå comporre giammai; econtraſtino pure, e ſi meſcolino quanto ſi vogliano l'acqua, e'l fuoco tra cſſo loro, che poche coſe infra lor diverſe riuſcir ne dovranno: licorne di due lole lettere dell’Abici non poſſono per rimeſcola mento comporſi, fuor ſolamente, che due fillabe: conie da A, ed L: di cui altro, che LA, ed AL non può for marfi. Macome potran mai riſtrignerſi cotanto, eammaſlarla le particelle dell'acqua, che formar ſe ne poſſano, ecar ne, e oſſa, e nervi, e cotant'altre fulde, e dure parti d'a nimali, e d'altre coſe del inondo? Ne ciò può adoperarli punto dal fuoco; perciocchè egli nell'acqua altro far non può, che le particelle diquella col ſuo movimento, che chiaman dilatante, ſempre partire, e ſceverare, licome noicontinuo incontrar veggiamo: perchè l'acqua vie più liquida, c diſcorrente, e rada ne diviene, non che s'am maſſi, e fi riſtrigna in coſe falde, e dure. E alla fine ell2 dal fuoco cotanto menoma, e faccil diventa, che ſe non, d'aria, d'un corpo all'aria ſomigliante, certamente ella prende forma; ſenzachè l'acquanon può per troppo ſpa zio di tempo ritencre il fuoco, e convien ſe calda ſi vuol mantenere, che continuo altronde quello le venga ſom miniſtrato. Ma che'l fuoco,come s'avviſa Ippocrate, dall' acqua nutrito fia, e perchè l'un l'altro vincer non poſla, ſciocco troppo lo mi terrei, ſe perder tempo lo voleli in rifiutarlo. Vuole oltre a ciò Ippocrate, che l'acqua fia fredda, ed umida,e'l fuoco caldo, c ſecco: e che'l fuoco riceva dall'ac qua l'umidità, e l'acqua vicendevolmente dal fuocolas ſecchezzaze che così eglino l'un nell'altro adoperando,le tante, e tanto varie forme, e generazioni di ſemi, eda nimali vengano a produrre: e cotanto diverſe infra loro, che ne quanto all'apparenza, ne quanto alla lor virtù hā nulla di ſomigliante; perciocchè non iſtando giámai l'ac qua, e'l fuoco nello ſtato medeſimo: e ſempreinai cam biandoli, e diſcorrendo, forza è, che le coſe, che da lor 1: fi ſeparano, eli producono,diſſimiglianti oltremodo rie? fciano. E certamente, com'e' diviſa, niuna coſa del mon do non muore, nc ſi fa quel che in prima non erazma me ſcolate inſieme, e partite ſi cambiano le coſe: come chè giudichi alcuno, che da Pluto per accreſcimento tratto venga alla luce, e ſi crii: e altro incontrario,che dal la luce per iſcemamento a Pluto giunto ſi diſtruggage dice poi,che nó ha dubbio veruno, che fia più toſto da preſtar fede agli occhi, ch’alle opinioni, o pareri degli huomini. Reca eglipoi di ciò la pruova, dicendo animali ef ſer queſtie, quelli, e non eſſer miga poſſibile, ch'uno ani mal ſi conſumi, non con tutti: conciolliecoſachè chi po tri mai diſtruggerlo? ne può ingenerarli giammai quel che non è, non avendovicofa alcuna,che non ſia, onde poſſa ingenerarſi;mabé s'accreſcono tutte coſe,e li meno mano a soma grādezza,e picciolezza in quanto egli ſi può: e quinci s'ingenera, e muore alcuna coſa. Indi egli ſpiega in grazia del Vulgo, che lo ingenerarſi, e'l corróperli del le coſe altro non ſia, che'l meſcolamento, e lo ſcevera mento. Ma più avanti facendoſi dice, che lo ingenerarſi, e'lcorromperli la medeſima coſa ſieno: e'l medeſimo pa rimente il meſcolamento, e lo ſceveramento: e che lo i13 generarſi altro che il mefcolamento non fia: el corrom perſi, e'l menomare altro non fit, che lo fceveramento: e che ciaſcınıa coſa ſia la medeſima, che l'altra: e tutte lien uno; e in queſte sì fatte coſedice egli l'uſanza eſſer con traria alla natura; ma ſpartamente ciaſcuna cofa, o ſia di vina, o umana,ſufo, e giuſo vicendevolmente, giorno, e notte, più, o meno traſcorrere. Indi fiegue egli a di se il fuoco, e l'acqua hanno avvicinamento; il Sole l'hà lunghiſſimo, e breviſſimo; di nuovo queſti, e noi qucfti; la luce a Giove, le tenebre a Pluto: la lu ce a Pluto, e le tenebre a Giove avvicinanſi, ecam ' bianſi quelle quà, e quelte là;d'ogni tempo paffano quello coſe di queſte,e queſte di quelle; ne fi lanno quel che el leno medeſime fi facciano, comeche faccian veduta di fa. perlo:ne ciò, che veggono,conoſcono, ma in tutto ciò Kk 2 ogni coſa loro per divina neceſſità avviene, così in quel le coſe, che vogliono, comein quelle, che non voglio no, perciocchè accozzandoſi, e partendofi quelle quà,e queſte là, fra eſſo loro avviluppate, e confuſe, ciaſcuna il preſcritto fato adempie. Or chi ſarà così da paſſione accięcato, e imbard.ato, che manifeftamente non ravviſi in ciò, che rapportato nº abbiamo, effer egli una ſtrania cervelliera, e poco men, che ſpiritata colui, che ſognandolo lo ſcriſſe Ė non fico prende chiaro in cotanti aggiramenti, ed arzigogoli, che Ippocrate parla aſſai di ciò,che meno intende? e che nő ſolo coll'oſcurità delle parole vuol naſcădere la ſua dap pocaggine, e ignoranza; ma anche farne cotanti Calan drini:e tenendo lo ſciocco vulgo in parole, il qual fem premai coſtuma di pregiare aſſai più ciò che non gli èma nifeſto, darne conmaraviglia a divedere ch'egli delle co ſe della natura oltremodo conoſciuto ſia. Egli è ben ve ro, che molti anche di coloro, i quali letterati ſtimanſi,há creduto, o moſtrato di credere, che in queſti riboboli, cd enimmi d'Ippocrate, e in altri ancora, che largamen te ſon ſeminati entro i libri tutti della dicta, e in quel del la vecchia medicina, edell'alimento, ch'egli tutti i più naſcoſi, e pregiati miſteri della medicina, e della filoſo fia abbia deſcritti; e non ha guari che'l Tacchenio nel ſuo Ippocrate chimico ſi è ſtudiato con queſto libro di darne a divedere eſſere ſtato Ippocrate un valentiſſimo chimi co. Ma ritornando a ciò, che diciavamo, lo m'avviſo, che Ippocrate ciò trovaſſe ſcritto in qualche libro d'alcú di quelli antichi filoſofi, i quali ſolevano cosi vezzatamé te favellare:e che poco cgli incédédoiſentiméti di coloro, così ſconcj, e guaſti l'abbia portati, in quella guiſa,che fileggono; e tanto più, chemoſtra,ch'egli confonda in ſieme, e meſcoli due ſiſtemi di medicina, e di filoſofia fra ello loro contrarj; da che egli dopo aver portati que? due primieri principj delle coſe, avvedutofi forſe, che non baſtavano, parla poi non altrimenti, che ſtabilito aveſſe in prima, che ciaſcuna coſa in ciafcuna coſa ſia, nella maniera appunto, che ſi accennò nella cenſura del libro della vecchia medicina; perciocchè e' dice, che nul la ci s'ingenera di nuovo, ma sì ſi meſcolano inſieme le parti, e compongono le coſe,e lefan grandi,ne alcuna co fa li muore al poſtutto, mà ſparpagliandoſi, e dividendo ſi vien meno. Coſa, la quale non può intenderſi in verű modo di ciò, ch'aveva egli in prima detto; perciocchè ſe l'acqua, e'l fuoco i principj ſono dell'huomo, meſcolan doſi queſti, e accozzandoli a formar l'huomo, non ſe ne potrà certamente altro naſcondere, che l'acqua, e'l fuo co medeſimo,prendendo ſembianza delle parti dell’huo mo, com'e' dice; ma non già le parti dell'huomo, ciò ſo no carne, offa, nervi, e altri membri di quello, eſſendo ci in prima, comechè appiattate, e naſcoſe, nel meſcola mento dell'acqua, e del fuoco ci ſi laſcino poi di preſen te vedere; ne partendoſi poi l'acqua dal fuoco, e guaſtā doſi il lavorio dell'huomo non diverrà ne la carne,ne l'ol fo così menoma, e tritolata, che non ſi parrà; ma tutta la carne, e tutto l'oſſo diverrà acqua, e fuoco: e queſti che in prima non apparivano, manifeitamente nelloro.ſcioglimento poi ſi vedranno. Si pare adunque,ch'e ' vo glia dire eſſer nell'acqua le particelle, chc chiaman ſimi lari, ma così menome, e ſottili, che non ſi poſſan per huom ravviſare: le quali poi rannodate, o ſciolte dal fuo co, compongano, e guaſtino le coſe. Ma ſe pur queſto cgli volle intendere, comepotrà mai il fuoco le particel le dell'acqua colla ſua forza annodare, ſe il movimento è dilatativo, come dicono, e ſempremai ſcioglie, e parte? Convenivaadunque, che Ippocrate altre, ed altre ragio ni ne recaſſe, le quali ciò poteſſer operare. Ma concedaſi ciò pure a lui: non perciò l'acqua,c’lfuoco, ma le par ticelle ſimilari ſarebbon da dir principi delle coſe. Ma cadendogli dalla memoria ciò,che poco anzi egli detto aveva, ricorre di nuovo all'acqua, eal fuoco: e in favellando dell'anima dell'huomo,non mçno ſciocco,che empio, e miſcredentc,dice quella ancora, come tutt'altre coſe, eſfer d'acqua, e difuoco compoſta. E tante, e tali sono le ſue ſcempiezze, e mellonaggini neʼlibri della die ta, che lungo ſarebbe ad una ad una narrarle. Ma trapaſſando all'altre ſueopere, contende il Vale riola, e con luianche ſi conforma il Cardano, non eſſer d'Ippocrate illibro intitolato mei quoär, overo degli ſpia riti groiſi, o vizioſi: peralcuneſciocche, e falſe dottri ne, che in quello s'avviſano, e altre ancora contrarie a quelle, che in altri ſuoi volumi egli divisò, Ma fe tale oppofizione aveſſe luogo, converrebbe certamente con dannar come non ſue l'opere tutte, che ſotto il fuo nome fi leggono; perchè è da dire, che poco ragionevolmente aveſſe perciò cotal libro ilValeriola colto a lppocrate;ma Galieno, comeche in quel libro vi ſien diviſamenti poco a' ſuoi pareri conformi, non però di meno riconoſcendo lo egli d'Ippocrate, il reca ſovente in concio di qualche ſuo ſentimento. Sembra certamente il libro miglior per avventura di tutt'altri,chc intorno a ſomigliante materia aveſſe mai compoſto l'autore; imperciocchè ha egli ordi ne, e qualche forte di chiarezza: e moſtra fovente, che l'autore intenda bene ciò, che ſi dica. Vuole egli in eſſo darne a divedere, che tutti mali, che n'avvenge:10, da una ſola cagione ſi dirivino; comeche per li diverſi luo ghidelcorpo, ove n'aggravano, diſſomiglianti affai ne ſembrino. Tutti corpi, eglidice, così dell'Iruomo,come d'altri animali,del cibo,dello fpirito, edel bere ſi loſten tano. Gli ſpiriti, che ſono entro il corpo, vengono da Ippocrate chiamati quoca: e quello, che è fuora del cor po aveõua cioè: a dire, aria. L'aria fecondo Ippocrate ha grandiſſima parte fra le coſe, che accaſcano alcorpo: ed è donna, e lignora del tutto. Indi egli lungamente fopra quella ragionando, dice delle fue gran virtù, ed opere, Itabilendo in prima qualche ſentenza; la quale preſe 2 gabbo dal Valeriola n'è moſtra a' di noſtri per ve re dalle maravigliore, c fommamente comincndevoli of fervazioni de’noftri moderni. Dice egli, che tutto ciò she fra’l Cielo, ela terra s'interponeſia, da ſpirito ingôn bro: e che lo ſpirito cagioni il verno, e la ſtate: e che'l corso della Luna, e delle Stelle per lo īpirito facciali: e che lo ſpirito alimenti ilfuoco, intanto che ſenza quello non poſſa il fuoco più vivere: c che l'aria ſottil perpe tua purimente perpetuo mantenga il corſo del Sole. E oltre a ciò avviſa Ippocrate ritrovarſi achcin mare lo ſpio rico; perciocchè ſe quelnon vi foſſe, dice egli, che i pe ſci non potrebbono in niun modo vivere; concioſliecola chè non participerebbono dello ſpirito dell'acqua traen dolo. Aggiugne di vantaggio effer la terra fondamento dell'aria,c queſta veicolo della terra: ne aver coſa niuna al mondo vuota di quella: e quella ſolamente eſſer cagione a noi della vita, e diciaſcuna malattia, che n'avviene; intanto che avendone meno infra bricve ſpazio di tempo ciaſcun ſi muore; perciocchè ben può ciaſcuno ſenza ci bo, o beveraggio alcuno viver qualche giorno: ma non già ſenza ſpirito; e ben poſſiamo poſando ceſar di tutte noſtre operazioni, comechè menome, e brievi elle ſieno; ma non già del reſpirarc. E quinci egli vuol trar conſe guenza, eſſer molto ragionevole, che ficome la morte, così anche le malattie tutte dallo ſpirito n'avvengano, e che quello calor compreſo, e putrefatto da altre cagioni diſcorrendone per lo corpo n'offenda. Quindi egli co minciando dalle febbri và diviſando, ficome ciaſcun ma le dallo ſpirito ſi formi: e tutti minutamente gli anno vera. Ma un sì fatto liſteina, perchè ingegnoſo fia, e conte gna in se qualche coſa di ragionevole, non però di meno, generalmente ragionando, falſo affatto, e inveriſimiles eſſer fi ſcorge; concioſliecoſachè quantunque grande fia il biſogno, chedell'aria abbiamo, non è perciò quel a ſo la, che ne mantiene, e ne nutrica: ma l'acqua ancora al noſtro vivere è neceſſaria, e altre molte coſe, così den tro, come fuora del corpo; le quali, o mancando, oſo verchiando, o alterandoſi, non men dell'aria medeſima cſfer poſſono a noi cagion di malattie. Nemeno al preſente è da tacere, come cotal ſiſtema di medicina s'appoggi a'divilainenti, i quali non cheda Ippocrate foſſer provati, anzi dalvero talora manifeſta mente appajon lontani. E comechèalcuni di loro ne sém brino aver qualche ſembianza divero; non però di meno fon da lui con parole non propie, e ambigue a bello ſtu dio inviluppati, e adombrati; acciocchè aggiugnendo noi con malagevolezza, e fatica a ritrovarne il coltrutto, da quelli poi prendeſimo argomento di giudicar talijan zi maggiori gli altri ſuoi ſentimenti ſciocchi, e vani, com poſtida lui per uccellarne maggiormente. Ma ſe lo ſpirito,ſecondochèIppocrate così liberamen te afferma, è colui, che ſignoreggia, e governa ciaſcuna coſa del mondo, e che la vita, e la morte ne porge: per chènon iſpiega egli poi, ficome certamente fargli con veniva, come, e con quali artificj tante maraviglie quel lo adoperi? e perchènon ragiona della natura di quello, e diquell'altre ſoſtanze, che, come e' dice, imbrattan dolo, e inſuccidandolo cotanto a noinocevole, e peſti lenzioſo il rendono? E per avventura gran ſenno egli fe a non addoſſarſi cotanta briga; perchè è da dire, che ciò egli non ſappiendo, non potrà certamente mai la natura, e la generazion delle malattie per sì fatta ſtrada incoglie re; e ſeguentemente gli argomenti ancora, come a quel le da proveder ſia non ſaprà. E quinci avvien poi, che ne men di que’mali, cheper compreſſion dell'aria vera mente n'avvengono, no mai egli coſa alcuna di ſaldo rap porta; perciocchè non ſappiendo egli la natura dique'cor picciuoli,da cui compreſso lo ſpirito quella generazion di febbre cagiona, la quale, com'eglidice, è tutta comune, e appellati peſte: ſenza dubbio non giugnerà egli giam mai a penetrare gli effetti tutti, che da quelle diverſame te provengono, e le varie maniere, colle quali ciaſcuno animale offendono. E ſe egli non cura d'inveſtigare altre si quali ſoſtanze ſieno quelle, che s'accompagnano collo ſpirito allor che racchiuſo entro noi ne muove la colica,o altri ſomiglianti mali, come ne potrà egli mai compiuta mente ragionare: o donde trarrà egli gli argomenti da porvi ragionevol conſiglio? Ma ſe le ſoſtanze, che collo ſpirito -meſcolanſi, ſon ca gion di cotante malattie, come potralli eglia buona ragić dire, che lo ſpirito medeſimo, enon più toſto quelle ciò adoperino? perchè è da dire, che ſtabilendo Ippocrate it ſuo ſiſtemà, alla prima v'abbia dato di becco, e vi ſia infe liceinente fdrucciolato, dicendo eſſer l'aria cagion del. le noſtre malattie, e non più toſto le varie, e diverſe for ſtanze, che per quella diſcorrono, e collaria inſieme en trano ne'noſtri corpi: quali ſono molti ſemi, e animaletti, chę ſovente fi ravviſano, così nelſangue, come nell'altre parti liquidedi noie, le rendono mal'acconcc ad adem piere i loro uficj: e fermandoſi talora o nel cuore, o nell? altre parti ſalde del noſtro corpo in molte, e molte manie re le moleſtano; ſenzachè ſon nell'aria varie, e varieme nomiſſime altre ſuſtáze da'vegetali, e da’ıninerali corpia quella mandate: alcune delle quali, quando di ſoverchio vi diſcorrono, fannofi anoi per opera dell'odorato ſentirez e l'avvedutiſſimo Elmonte intorno a ciò narra chente, es quali ritrovate egli n'aveſſe una volta in una tela ſtata al quanto appiccata al merlo d'un'alta torre; perchè egli for: te fi maraviglia,come noi che continuo le beviamo, lunga mente viver poſſiamo ſenza nocimento alcuno; ma non aya visò egli eſſer ancora nell'aria molte, e molt'altre ſoſtanze a noi giovevoli,le quali certamentepoſſona'dannidi quel le riparare. Ora in queſte,e in ſomigliati oſſervazioni cõveniva, che il buono Ippocrare tutto il ſuo ſtudio impiegafle,ricercan do diligentemente le vere cagioni della peſtilenza, accioc che prender vi dovelle convenevol riparo: e non fare il pancacciere con lunghe dicerie, e vane, e inutili fraſche tenendone a bada in quel ſuo fainoſiſſimo libretto,ove egli lungamente ragiona degli ſpiriti. Ma lalciãdo alpreséte ciò da parte ſtare,quáto Ippocra te manchevole, e difettoſo ſia ſtato in queſto ſuo nuovo ſi ſtema di medicina, ſi può agevolmente conoſcerc in ciò, che cgli della febbre và diviſando. Dice egli, che allor che diſoverchio empieli il corpo di cibi, ingencranfi in 1. 1 130i 266:: noi grandi ventolit, le quali non potendoper lo ventre di ſotto uſcire per ritrovarlo chiuſo, ruggiando per ic bu della diſcorrono all'altre parti del corpo, maſlimamente a quelle, ove ſerbaſi il langue, e sì l'infreddano, e'l fanno intriſire. Or come domine potrà mai dentro de' ſuoi vaſi infreddare il săgue plo ſpirito che è nelle viſcere? ma egli ingannofi forſe Ippocrate avviſando il ſanguc tratto dalle. vene, il qual per l'aria di fuora divicn freddo. Ma che che ſia di ciò, davcva ben egliconſiderare non potcrne in mo do alcuno raffreddare il ſangue dentro alle vene l'aria, in che di verno crudo, e rabbruzzata dalle nevi, comeche continuo ne circondi, e continuo da noi fi reſpiri. Erra ancora grandemente Ippocrate in dicendo, che'l ſangue dall'orrore, e dal treinore fopravegnenté intimo rito ſi rifugga alle parti più calde del corpo: ove poi ſi ri ſcaldi, e ſiraccenda per maniera tale, che anche l'aria me delima, che prima infreddato l'aveva,nc divenga calda; e sì amendue ftraboccheyolmente affocati riſcaldino cutto il corpo, e'l faccia febbricoſo. E certaméte in ciò egli ragio nando, molto ſconciamente s'ingāna;perciocchè,le, come egli confeffa, il caldo tutto al corpo dal fangue fi cagio. na,come potrà mai infreddato il ſangue niuna parte del corpo rimaner calda; anzi treinerà egli per tutto, e diver rà ghiaccio, come cantò l'antichiſſimo fiorentin Poeta. Qual'è colui, c'ha sì preſſo il riprezzo De la quartana, c'ba già l'unghiaſmarte, E triema tutto purguardando il rezzo. Ma, ſicome egli s'avviſa, rimangano pur calde l'altre parti del corpo, nedall'infreddardel ſangue fi mortifichi no; non mai tanto però faran vive, e affocate, che vale voli ſiano a raccender l'agghiacciato ſangue, e ſvegliare in quello un sì rabbioſocalore,qual ſenza fallo è quel del la febbre. Ma troppo nojolo lo nc verrei, ſe tutti minutamente raccontar voleſſi gli errori d'Ippocrate intorno a sì fatto ſia ſtema; perchè rimanendomi al preſente di più ragionarne trapaſſerò a quell'altro ſuo ſiſtema di medicina cotanto ICITU 1 1 1 eenuto in pregio, e commendaco dal luo chiòfator Galie no, che nulla più: di cui cotanti filoſofi, e medici in ragioz nando, e in iſcrivendo ſi ſon valuti, e tuttavia li vaglionoj che ſembra omai ſconvenevoliſſimo, e indicibil fallo il mu* farvi contro, non che manifeſtamente abburattarlo. E queſto ſi è il diviſamento, ch'e'fa nel libro della natura umana; il qual libro non può recarſi ir dubbio,che-d'Ip pocrate verainente non ſia, in ciò che, come faggiamente avviſa, e argomenta Gilieno della teſtinonianza di quel lo ſerviſſi più volte Platonc; e ben può per quello chiun que n’abbia talento agevolmentecomprendere,fin’a quá to d'Ippocrate ſi ſtendeſſe l'intendimenco, ela valoria, co sì nell'inveſtigar le coſe della natura, come in altre, ed ala tre coſe alla medicina pertinenti; e coincchè per Galien ſi contenda eſſere ſtato verannénre Ippocrate il pri:11 ) ittle tore, e inventore d'un sì fatto ſiſtemi; noa però dimeno per teſtimonianza delmedeſimo Ippocratc apertimento ciò eſſer fa ſo s'avviſa; concioſliecoſachè rapportandolo egli nel libro della vecchia medicina manifeſtamente na ragiona, come di dottrina da altri già prima di lui ricrova ta, einſegnata;anzi nel medeſimo libro della natura un la 112 agevolmente per ciaſcun ſi può comprendere, che Ip pocratc,non come di ſuo propio diviſamento ne ragionin. Miche che fadi ciò tralaſciandolo digiudicar noi al pre ſente, darem cominciamento dal titolo dellibro così an pio, e inagnifico, che nulla più; e certamente cilcuno abbattédoſi nella prima faccia nel libro deci puoi cvJpurs, ſcaglierebbeſi tolto a leggerlo, e a volerne imprender con ingordigia tutto ciò, ch'e defidera: giudicando, ch'un si valentemedico, e filosofantc, qual Ippocrate comuneiné te ſtimaſi, verainente trattata l'aveſic, licomealla propo fta materia ſi conveniva: cche,comegià Marco Tullio del divino Democrito, il quale nel cominciuniento d’un ſuo libro ſcritto aveir, b.ec loquarde univerſis, ebbe a dire nit excipit de quo non profiteatur, così d'aſpettar foile d'Ippo crate, chenulla già quivi tralaſciato aveſſe di quanto alla natura umana s'appartiene. Ma tolto egli del.no avviſo LI 2 folier  [ chernixo, e beffato rimarrebbeli,vedendo in quante brico vi parole fuggendo Ippocrate traſcorra tolto una così ma lagevole, e così vaſta matcria; e ciò, che è affatto impor tevole in lui, che cotanto nella brevità dilettoſli, egli è il libro più ricco aſſai di parole, che dicoſe; anzi di poco falla, che tutto parole egli non ſia: e quelle pochiſſime coſe, che vi ſono, così ſconce, e ſenza ragione ſi portanto, opure con cosi vani,e fanciulleſchi ſofiſmiintralciate, che nulla di ſaldo vi ſi può per huom giammai apprendere. Egli dice primieramente Ippocrate con lungo aggira mento di ciarlc, che alcuni giudicavano eſſer l'huomo ſo lamente una coſa; ma, che coſtoro tuttimal certainente comprendevan quello, di cui favelſavano, e che perciò di verfâmente l'andavano ſpiegando; concioſlīccofachè quá tunque ciaſcun di loro concordevolmente diceffe, tutte co ſe, che ci ſono eſſer una, e queſta medeſima effer una a tutte; non però di meno diſcordavā poi oltremodo inſieme in dando a quella nome; perciocchè altri dicevano eſſer aria, altri fuoco, altri acqua, e altri terra. Soggiugne egli poi, che ciafcun di coſtoro recava teſtimonianze, e ſe gni, ma di niuna lieva, in concio del fuo ſentimento; e che tenendo tutti la medeſima opinione, e contradiandoſi nel le parole, davan manifeſtamente a divedere, che niun di Loro ſapea veramente la coſa; e che ciò parimente ſi ſcor geva ili vedendo tutti coſtoro nel lor continuo piacire, che tratto tratto facevano, non mai per tre fiare continové riu fcir dalla battaglia i medelimi: maoruno, or altro eſfer il vincitore, ſecondamente che ben parlante egliera, edat popolo tenuto in pregio. Conchiude alla fine Ippocrate, chuom, che di coſe vere, e da ſe ben conoſciute faceſſe pa role, ſempremai dalle conteſe con vittoria uſcirebbe; o che ſembra a lui, che coſtoro piatiſfer con parole più per iſocmypiczzi, che per altro; perciocchè tutti alla per fine convenivano infra loro nel ſentimento di Mcliffo. Ma Galicno chiofando queſto luogo d'Ippocrate, con ' gran pompa di parole forte fi maraviglia, una sì fciocca credenza eller caduta nell'aniino di que'filoſofanti, i qua live Si venivano in sì fatta guiſa a coglier via la contemplazioni delle coſc naturali, mindando a fondo la vera filoſofia. Ma ftiaſene pur con pace Galieno: non ſembra per Dio, che con sì fatto cominciamento prometter ne voglia Ippocra te un trattato beir lungo della materias ch'egli imprender a ragionare, e quale appunto quella richiede? mapoinon trapaſſando oltre a divifarne, par che ne vogliamanifeſta mente uccellare, laſciandone affatto digiu ni della mate ria, ne inſegnandone coſa alcuna di lieva. Ma ſi per doni queſto pure a Ippocrate: qual ſi foſſe veramente las ſentenza di que’valent’huoinini, Io nonmidarò al prelen te curz niuna d'inveſtigare; tanto accennerò, che eglino tutti una medeſima coſa dicevano: e cheniun di loro giu dicava, che o l'acqua, o la terra, o l'arir, o'l fuoco foſſe principio delle coſe dell'Vniverſo:ne di ciò mai fu conteſa infra loro, comeſcioccamente giudicano Ippocrate, e Ga licno; ma ſolainente eglito piativano, e andavan confide rando di qual faccia veſtiſſe l'univerſo da prima, allor,che fu fatto ilmondo,ſe d’acqua, o di fuoco, o d'aria, o di terra. Ne laſcerò d'accennare quanto vana', e ridevole fia la ragioneper Ippocrate recata; concioſſiccofachè chiſa rà colui, che manifeſtamente non ſappia,che nel piatir de? letterati huomini, maſſimamente appreſſo il vulgo, non mai vincer foglia colui ', che ſa ben la coſa, e che dice vero: ma colui, che meglio con vaghe', e ben ordinate dicerie Ja fa colorare: eche il più delle volte nelle conreſe ne ha ſempre la miglior parte l'ignorante, e'l ſofiſta,come ilme deſimo Ippocrate ancor rafferma? Macome que’valent" huomini porevan mai eſſer d'accordo colla ſentēza di Me liffo, il qualnon diterminò mai il principio delle coſe nx turali, fe eglino, comc Ippocrate racconta, il ditermina vino Ma che che ſia di ciò, Io per me immagino, che te neſſer veramente eglino la ſentenza di Meliſſo, come Ip pocrate dice'; ma ſe ciò era, a torto certamente da lui fur biaſimati: dicendo egli, che coloro determinato aveſſero il principio delle coſc qualli foſſe, con chiamarlo o arias, o acqua,o fuoco, o terra; ſe pure non vogliam dire, che Ippocrate veramente non intendeſſe ciò che que’valent huomini fi diceſfero, it che fe ben li conſidera, il fue vellare, che in tutto il ſuo libro ne fa Ippocrate, ſembra nel vero più ragionevole. Fin qui e' fi pare, cheIppocra te abbia de'filoſofanci ſoli favellato: ora ſe'n viene egli a’ medici, e dice, che alcuni diloro affermavano non alira cola, che ſangue eſſer l'huomo; altri eller quello ſolamen tecollera: ed altri ſolamente flemına; perchè dice egli che coſtoro imitavaro que’hiloſofi dalui in prima raccon tati, tenendo uno eſſere il principio dell'huomo, e chia mandolo col nome, che più lor veniva a grado, o di colle ra, o diflemma, o di ſangue, e che quello dalcaldo,e dal freddo a cambiar fi venga in ſembiante, ed in virtù, e di venga, e amaro, e dolce, e bianco e nera, cd ogn'altra.com fa. Soggiugne indiappreſſo Ippocrate, che molti, emol ti così dicevano, e che altri, ed altri dicevan parimente coſe da queſto non guari lontane. Or quinci ſi vede chia ramente chenei,cqualiſi foſféro anche ne tempi d'Ippa crate infraʼmedici le conteſe; perchèmoſtra veramente, che da ſe ſteffa la medicina altro non ſia, ch'un fertiliffi mo campo, che litigj,piati, e diſcordio ad ogn'ora pro duca. Ma riprova Ippocrate si fatte opinioni con quell'argo mcnto cotanto per Galienu ammirato, e celebrato, che nulla più: ſe una coſa fola, dice egli, l'huomo ſi foſſe non verrebbe certaméte eglimzi a dolerſi:imperchè nó aureb be egli donde venir gli potefíe il dolore, per eſſer ogni coſa una ſola coſa; e fe pure l'huom mai li doleffe, convera rebbe ſenza fallo, che uno ſi forre il rimedio, coʻl quale egli guarir doveſſe; ma in farti va altrimenti la biſogna. Micomechè nella prima vista ogn’un ch’abbia punto d' intendimento avveder ſi poſa della vanità di sì fatto argn mento, pure ne farem noi qualche parola'; ma veggiani prima ſe contro coloro, a'quali par propiamente indiriz zato, coſa alcuna egli conchiuda. lo permeavviſo, che que'buoni medici nulla curar fi dovettero mai di sì tutte ciuffole, ed anfanie, imperciocchè eglino tenevano, che 1 1 1 o'l fangue, o la collera, o la flemma ſia quelprincipio prof fimo, cioè donde iminediatamente s’ingeneri l'huomo:ma che ciaſcun di eſli venga poicompoſto da quell'altro pri mo principio, del quale l'altre coſe del mondo tutto fatte ſono; e che queſto foſſe ſtato lor ſentimento ſcorger fi puo te chiaramente dalle parole, chc Ippocrate medeſimo di lor riferiſce allor ch'e'dice, che eſi volevano, che o dal ſangue, o dalla collera, o dalla flemma ſi-cagioni l'amaro, e'l dolce, e tutte altre coſe, che nell'huomo li ravviſano; or comenon può agevolmente l'huomo,tutto che di ſana gue ſolo formato e' li foffe, ayer cagione di dolore dall'a. maro, dal falſo, dall'acetoſo je da altre, e altre coſe, co mechè eſſe dal ſoloſangue ſi foſſero ingenerate?ora a que. fte tante cagioni de’dolori non fa egli meſtieri, che con più d'uno rimedio li ripari: e ſe in ſentenza di que'valent'huo mini nelle vene altro non è, ſalvo che o ſolo ſangue, o ſo la flemma, o ſola collera: potrannocertamente rondime no nelle vene ſteſſe, o dal fangue ſolo, o pur dalla flem ma; o dalla collera., ed oltre a ciò nello ſtomaco da'cibi molte, e molte coſe parimente di diverſa natura,contrarie; e moleſte all'huomoingenerarfi, che potranno ſenza fallo elfer cagioni di dolori, e di varie; e varie generazioni di malattie, le quali certamente con altrettante medicine di fcacciar ſi convengono. Egli doveva adunque provar Ippocrate primicramentes che dal ſolo ſangue, o dalla ſola flemma, o dalla collera, fola,nientealtro,che o ſangue, o flemma, o collera inge: nerar fi poffa; il chein niun modo fa egli, e ne men fare veramente il potea: concioffiecofachè favellando ſecondo i medeſimi ſentimenti d'Ippocrate aurebbon potuto dire que'medici, il ſangue, la flemma,e la collerà eſſer non ſemplici, ma compoſte coſe di que'quattro corpi, che Ip pocrate vuole, che ſiano i primi principj; e come tali ben poter eglino in varie, e varie forme cambiarſi; ed in vero fe le varie, e varie ſoſtanze onde l'huom ſi nutrica, come dovetter fenza fallo conoſcer que'valent'huomini, non ſo: no di ſangue formate, e d'eſſe nondimeno s'ingenera il sangue, convien neceffariamente dire, che varie, e varic coſe che ne meno han ſomiglianza niuna col ſangue, fi pof fan dal ſangue parimente ingenerare; e cosi ſomigliante mente della collcra, e dellaflemma aurebbon potuto co loro filoſofare, Ma aurebbe poi per avventura riſpoſto un di que'filo ſofi, che Ippocrate s'avviſa parimente colla ſua ragione di riprovare, chel'aria ſola col riſtrignerſi, e coll'allargarſi, e con altri, e altri movimenti delle ſue particelle valevole fi renda a ingenerare, e ſangue, e carne, e oſſa, e nervi, c altre, e altre parti cosìſalde, come diſcorrenti dell'huo mo, e che ſimiglianteméte coʻmedefimi ſuoi vari moviine ti cagionar poſſa mole’altre generazioni di varie altre lo ftanze, onde ricever poi debba l'huomo non una, ma più, e più cagioni di dolori, e di malattie, alle quali faccian, meſtiericotantialtri medicamenti per ſuperarle. Ma cer tamente Meliſso, e gli altri buoni filofofanti, i quali fole lemente ſi fa a credereGalieno ch'abbia Ippocrate vinti, direbbono, che non ſolo veramente uno ſia il principio.di tutte coſe, cioè il corpo: ma che ſe uno il principio non foſſe, non ci ſarebbe ne dolore, ne malattia, ne rimedio alcuno giammai, e che a fare diverſità di inali, e di rime dj altro non vi ſirichiegga, che l'eſſer quell'uno corpo di verſamente ſtritolato, e partito: lecui ſottiliflime particel le di tante, e sì varie figure compoſte, ſolamente in ciò dif feriſcano. Mimaraviglio poi oltremodo di Galieno, il qualnon s'avvede,ciò che impugna Ippocrate eſſer crede za d'Ippocrate medeſimo; ma ciò che nedee recar vcra mente più maraviglia, ſi è ch ' una tal opinione dallo ſteſ ſo Galieno vien tenuta in tutte le ſue opere, e particolar méte nelle chioſe di queſto medeſimo libro.Ma Ippocrate dopo aver recata la ſúdetta ragione folleméte dice,checo lui ilquale porta opinione, che l'buomo ſia ſolo ſangue, debba mo& rar, che'l ſangue non muti ſpezie, ne ſi cábj in varie, e varie maniere,c allegnare almeno un'ora ſola dell' anno, o qualche età dell' huomo, nella quale non altro che ſangue in eſſo lui fi ravviſi, e ſimilmente dice egli degli altri. Ma perdonifi ad Ippocrate il non oſſervar lui l'ordi nato diviſamento nel favellare, avendolo egli ſempremai per coſtume: Io l'addimando in prima, perchè ſecondo lui la collera, il ſangue, e la flemma, e la malinconia nel comporre varie, e varie parti dell'huomo, poterono sì be no cambiar natura: e cambiar non potralla ciaſcuna di lo ro ſeparatamente? e s'egli riſpondeſſe, che non già col cambiar natura, macol ſolo meſcolamento quelle parti formarono, lo gli ritorno a dire, che non mai col ſolo meſcolamento quattro corpi a far mai valevoli ſaranno tá ta, c tanta varietà dicoſe; e addurrei per eſemplo, che quattro lettere dell'alfabeto col ſolo meſcolarſi pochiſſi me ſillabe arrivano a formare. Ma ſe que’mcdici diceſſe ro eſser un di que'loro umori compoſto de quattro corpi d'Ippocrate, come potrebbe mai Ippocrate quelli impu gnare? ciò, che promette poi Ippocrate di fiar vedere, che quelle coſe, delle quali egli compone l'huomo ſi trovino mai ſempre nell'huomo medeſimo: Io per me non ſo, co me ſarà egli ciò mai per moſtrare? Contende parimento Ippocrate non poterſi farla generazione da un ſolo princi pio; recando perragione, che un ſolo principio non poſsa meſcolarſi. Ma chiaramente ſi dimoſtra ciò che in pri ma lo avviſai, Ippocrate non miga comprenderei veri se timenti di que'filoſofi; concioffiecoſachè un principio, il quale abbia particelle diverſe tra di loro per figura, per grandezza, e per movimento, con meſcolarſi clieno infra loro in varie, e varic guiſe,valevole egli è certaméte ad in gencrar tutte coſe. Per far pruova poi maggiormente della ſua ragione ſog giugne Ippocrate: ſe ne meno il caldo, il freddo,e l'umi do, e'l ſecco,fe temperati eglino non ſono,non baſtano a far la generazione, come aurà mai vigor di farla un ſol principio: Io per me non ſo, che ſorte d'argomentar ſi ſia queſta d'Ippocrate; doveva certamente egli, il che mai no adempie, provare in prima con efficaci ragioni, che di quclle quattro coſe il tutto s’ingencri; e poi addurle per elemplo. E nel certo egli non ha dubbio, che a lui avreb M m bon riſpoſto quei filoſofi, che clleno, comeche ten perate ſi fingano, non poſsano in niun modo ciò fare, un principio ſolo a tanto bene valevol' eſsere: ficomenes terra,ne acqua,ne pietra, ne aria, ne altre, e altre coſe mol te poſsono formare una ſpada, un'elmo,una corazza, e tanti, e tanti iſtrumenti da guerra, che'l ſolo ferro può fa re: imperocchè il ferro ſolo è quello, il quale ricever puo te le diſpoſizioni neceſsarie a formargli, non altrimenti il corpo, il quale in particelle, o ſia già diviſo, o divider ſi poſsa, le quali ricever poſsano parimente varie, e varie grandezze, fito,figure, eordine, può ogni coſa produrre, ne que quattro corpi d'Ippocratenel modo, che egli va filoſofando, potranno mai ne anco un menomiſlimo gra nello di ſenape giammai ingcnerare. Ma non altrimenti, che s'egliavuta già aveſse la vitto ria, faccendo gran gallorìa trionfa il buono Ippocrate di quegli antichi maeſtri, e dando a lor la ſentenzia finale co tro, determina temerariamente la quiſtione con dire, che eſſendo la natura dell'huomo, e dell'altre coſe chente, e quale egli ha diviſato, non uno ſia l'huomo: ma che ogn' una delle coſe, che lo ingenerano abbia una cal virtù, che al corpo ella ha dato. Magodaſi pure Ippocrate della ſua vittoria, e ne riceva l'applauſo da Galieno, il quale non per altro certamente fa ſembiante di farne cotanta ſtima, ſe non ſe per acquiſtar fede alle ſue opinioni; qual coſtu maegli parimente negli altri autori tener ſempremai ſcor geſi, delle teſtimonianze de'quali ſe mai egli a ſuo pro fi vale commendagli, che nulla più; ma ove poi cofa inſe gnino alle ſue opinioni contraria, non ha villania, che ſi diceſſe mai a triſto huomo, che lornon dica. Ma ripi gliando il noſtro diſcorſo, vuol egli intendere certamente per le teſtè menzionate parole, che que' quattro ſuoi corpi ritengano il calore, la fredezza, la ſiccità, e l'umidità nel corpo per loro ingenerato. Ma cotante altre, che nell’ huomo ravviſanſı donde cglino naſcono? Dirà egli dall' accénate quattro qualità;ma ſe altri ciò negaſſe,come glie le neghiamo noi, come il proverebbe mai? Ma così ſcon ciaméte diſcorre Ippocrate p no aver voluto mai volger 1. ſiad fi ad inveſtigar la natura di quelle ſue quattro qualità; il che certamente al filoſofo, e al medico far ſi conviene,mal. Gimamente ove imprenda a trattare della natura dell'huo mo: e dall'aver ciò traſandato Ippocrate, avvien, ch'egli forte aggirandoſi immagini potere il leggiero, e diſcorré te caldo quelle coſe operare,che a ſpiritual ſoſtanza ſola mente convengono. Ma laſciam noi a miglior huopo il diviſar di ſomigliante biſogna: ſoggiugne appreſſo Ippo cratc con lungo giro d'ozioſe ciance, che in diſtruggendo fi l'umancompoſto, tutti e quattro i già detti corpi ſce verandoſi, alla lor primiera natura ritornino; e ciò vuoľ anch'egli,chenel disfacimento di qualunque altra coſawa avvegna. Ma le egli ficomea caſo, in fretta, e ſenza niu no avviſo ſomiglianti coſe afferma, così foſſe andato a poco a poco con ſagace diſcernimento diſaminandole, lo porto opinione, che in cotanti errori non ſi ſarebbe lalciaa to così agevolmente traſcorrere; perciocchè oltre alla Chi mica arte,altro ancora ne rende ſicuri, che quelle ſoſtanze in cui nel lor disfacimento ſi riſolvono i corpi,ſiano non, miga ſemplici, ficomee'vuole, ma compoſte. Paffa più oltre Ippocrate coll'impreſo ordine a dir, che nel corpo umano viſia il Sangue, la Flemma, la Collera gialla, enera,iquali umori ove ſiano con quell'ordinamen to, che ſi convenga, l’huom viva in ſanità:mafe'l contrario avvenga e' toſto ammali. S'affatica egli con lunghe dice ric di moſtrar, come poffan que' quattro umori tutte le malattie ingenerare:maciò fa egli troppo groſſamente, e generalmente ne'dubbj maggiori tacitamente paſſandoſe ne; e dopo queſto torna di bel nuovo alla canzone dell' uccellino, che ſian quattro gl'umori de'corpi degli anima li, di natura, e di nome fra effo lor differenti; la qual di verſità immagina egli di ſtabilire, e poter ſaggiainente ar. gomentare dalla diverſità de'colori, e dalla diffomiglian za del tatto, che ſecondo lui vi s'avviſa. Ma s'aveſſc egli mai poſto mente a cotante coſe; ch'avendo un medeſimo colore fon di natura poi diverſiſſime, e al contrario ad al tre, ch'avendo una medeſima natura han colori aſſai di M m - 2 ver 276 Ragionamento Quarto 1 verſi, ſicome le Fraghe, le Ciriegie, le Azzaruole, le Corniuole, eľVve, e i Fichi, certamente, del ſuo ab baglio ſi ſarebbe avveduto. E più avanti dovea fomiglia temente avviſare, che v’abbian parecchi, e parecchj altre coſe, che per poco artificio variando grandeméte nel colo rela medelima natura pur ſerbano;licome della Cera, dell' Ambra gialla,dell'Inceſo,delCorallo,del corno delCervio avvenire a giornate ſperimentiamo;evidétiſlimo argomen to, che i vari colori non ſian buoni, e fedeli teſtimonjdel la varietà della natura delle coſe. Ne la ragione il con trario ne addita; imperocchè la varietà de'colori, non al tronde avviene falvo che dal variamento del ſito, o della diſpoſizione della ſuperficie de'corpi, la qual diverſamen te i luminoſi raggi riflette. Ma che domine cadde cgli in mente ad Ippocrate allor che diſſe, che dalla varietà del toccamento, poſſano iva rjumori diſcernergli E quale è mai quel divario, che mer cè della mano poſſa avviſarfi, ſe tutti egualmente caldi fi ſperimentano, tutti egualmente nelle vene, e nell'artcrie so diſcorréti. E da cotali lor vaſi uſciti eglino p la più par te e'li rapprendono, e in una maſſa s’uniſcono, nella quale, poco, oniun divario per lo toccamento può ſcorgerſi E ſe più avanti facendociconſidereremo l'altra ragion pre ſa dalla varictà del calore, dell'umidità, della ſiccità, no aurem di forza a confeffar, ch'ella più frivola aſsai, eri devol fia delle prime, e che moſtri ben’appieno quanto egli sbalcſtrato in filoſofando Ippocrate vanamente s'ag giri? concioſiecofachè, ſe negli umori non v'ha ficcità, come potrebbeſi dalla ficcità la lor differenza conoſcerſi? e ſe l'umidor del corpo altro non è, ſe non che la ſua di ſcorréza, c'l poterſi agevoliéte ad altro corpo appiccare, ficome conſentir ſi dee da chiunque voglia Tanamente fi loſofure, egli dourà concederſi, che tutti gli umori del corpo umano egualmente fian umidi, dache tutti s'ap piccano parimente alcorpo tangente, e tutti parimente ſon diſcorréti,e quanto al calore détro al corpo, tutti ſono egualmente caldi, e fuor di quello tutti fimilmente dalla circonſtante aria raffreddati vengono, o riſcaldati. Ma più avanti: ſe gli umori nel corpo umano ſognati da Ippocrate, ſicome e vuole veramente ſi foſſero, e alcun di elli, o calorc,o freddo eccitaffe, impertanto no potrebbe dirſi effer cotale umore,o freddo, o caldo: imperocchè ſe o ſpina, o chiodo, o altra pugnente, o doloroſa materia in alcuna parte del noſtro corpo violentemente ſi ficcarella ſuol poco ſtante, e freddi riprezzi, e ardenti febbri ecci tare; e pur la ſpina, il chiodonon per tanto, o freddi, o caldi potrà dirſi,chefiano. Finalmente ſi sforza Ippocrate queſta varietà d'umori di Atabilire con conghietture tratte dalle purgative medicine. Se medicina purgante la flemma, dice egli, ad huom da raſli giammai, certamente fi vuoterà la flemma, e così pa rimente ſiegue a dire dell’una,e dell'altra collera; e ſoggiu gne appreſſo: veggiam noi per ogni ſcalfittura uſcir fuora il ſangue, e ciò in qualunque tempo, o d'eſtate, o d'inver no, o digiorno, o di notte; ma ſe alcun primieramente riſpondeffe ad Ippocrate, come per tacer de’noſtri, già fe rono i più valenti, e più celebri fra gli antichi medici,non avervi medicina, che vaglia a vuotar determinato umore, che mai incontro gli ſi potrebbbc per lui replicare? E a yo ler dire il vero, lo ſtimo da non dover mettere in forſe, che Ippocrate niuna notizia aveſſe delmodo, comeoperano le purganti medicine; che ſe mai di quello ſi foſſe alquan to inteſo, forſe non gli ſarebbono dalla penna uſcite cotante fraſche, e novelluzze; ne ftillato s'aurebbe il cervello per dimoſtrar gli errori in cui credette eſſere tutti coloro chediſſero uno eſſer l'huomo,e non già dal guazza buglio di sì diverfi umori compoſto: c pur egli non giunſe mai la mente di que'valent’huomini ſanamente a compren dere, come chiaro dal medeſimo ſuo diviſamento ſi fior ge. Credettero, dice Ippocrate, coloro uno effer l'huo mo; perciocchè vedevano per le purganti medicine morir ſene alcuni con vuotarſi un ſolo umore; perchè ſtimavano altro non eſſer l'huomo, che quel folo umore; ed altresì dallo ſcorgere ſolamente ſangue nfcir a' decapitati,non esser altro l'huomo,che ſangue; e per la medeſima cagione non mancò chi diceſſe eſſere il ſangue l'anima umana. Or contro ad eſſi la vuole Ippocrate, e immagina di gettare a terra tutti i loro argomenti, e opinioni, dicendo non mai alcuno eſſer morto colla vacuazione d'un ſolo umore, ſenza tutt'altri eſsere inſiemcmente ſcappati fuora; e vuol che quantunque volte huom prendendo medicina purgante la collera ſe ne muoja, vomiti primicramente la collera, ap preſſo la flemma, indi la malinconia, e finalmente il ſan gue di forza ancordalla purgazione ſia tratto fuori, e ſo migliante avvenga nell'altre purganti medicine. Ma chi quinci non iſcorgerebbe, che Ippocrate, o voleſſe altrui uccellare, o ſcriver ciò che prima gli cadeſſe in penſiero, fenza prenderſi briga di narrar gli avvenimenti diquegl'in fermi, cheper virtù delle purganti medicine forſe a gior nate gli morivano nelle mani;e perciò anche aveſſe a sì gra zioſa favoletta aggiunta una più vana ragione, cioè, che il medicamento entrato in corpo vada da prima movendo, e cacciando fuora quell'umor, che ha porianza di trar fuo ra. Aggiugne per iſpianar la materia,l'eſemplo delle pian te, le quali dic'egli; dalla terra per lor nutriméto traggono varj ſughi dolci,acetoſi, e falli; c ſomigliantemente po tranno le purganti medicine trarre da tutto il corpo uma no i varj uinori, ma coll'ordinamento, che teſtè accenna vamo: cioè, che la medicina purgante la flemma debba vuotar prima la flemma, e poi gli altri umori, e finalmen te il ſangue, e cosìſimilmente tutt'altre; ma dagli ſcan naci prima il ſangue, poi la flemma, e appreſſo la collera eſca fuori. Ma con tale eſemplo delle piante, non che non agevoli egli l'intelligenza de'ſuoi trovati, ma vie più l'in garbuglia, e ravviluppa; concioffiecoſachè non mai può ſembrar vero, cui voglia la coſa pe'l ſuo verſo guardare che le piante ſenza uncini avere, o mani, e ſenza poter dar di grappo poſſano trar ſugo dalla terra, o altro, che lor bi fogni; elleno ſi nutriſcono della terra, macon altro ma giſtero di quel che troppo groſſamente immaginò il buon Ippocrate. Evvi nelle piante una fotcililina, e volantes sostanza ſomigliante molto allo ſpirito del ſangue degli animali, la quale ſtando in continuo movimento diforme cazione, la picciola pianticella sbucciando ſcappa fuori, e framiſchiaſi colla terra proffimana alle radici; or tra per lo movimento d'eſſa, e per quello, checontinuo dal Sol ri ceve la terra, e damolt'altri minuti corpi, che perla lor focofa, e attiva natura, a guiſa di tanti ſpiritelli l'agitano,e la commuovono, molte parti d'eſſa in ſu vengon fofpinte in licve alito aſſottigliate, le quali di leggier poſſono i pic cioli pori delle radici, in cui s'abbattono penetrare, e fic candofi elleno in così farti buchi vengonoa cambiar figu ra, e da'formenti digeſtivi delle medeſime piante altro va riamento ricevono si, che pian piano vengono la pianti cella ad accreſcere, in lei traſmutandofi;ne queſta trasfor mazione è maligevol molto a comprendere, anziin molte frutta può agevolmente oſſervarſi; pongaſi mente alle me lagrane, che a volerle aſſaggiare ritroveralli, che le ſue fibre portano a' granelli un amarisſimoſugo, il quale, o dolce, o alquanto agro divien nella carne d'eſlo granello, ma nell'oſſo inſipido, e ſcipito; e ſimilmente avviſeremo altresì in quelle frutta, che colte da propj alberi, e ripo ſte ſoglion venire a inaturezza: alcunide’quali eſſendoin prima amari divengon poi dolci, e ſaporofi, ficome ſono le ſorba, le neſpole, e le melegrane medeſime. Non fa dunque luogo di traimento veruno alle piante, acciocchè fi nutrichino; il qual traimento da filoſofi è ſtato meſſo nella natura, comechè di ciò alcuna pruova giammai non aveſſero:ne ſo lo pchè vogliano farci a credere,ch'un ſimile abbia a trar l'altro fimile séza adoperarvi altro, cheſimpa tia, la quale altro noè, che un bel vocabolo. Nóv'ha adun que medicina al modo, che vuoti il tale,o'l tal determinato umore; ne mai vero diſſe chiunque affermò aver ciò offer vato: ma le purganti medicine ciò che nelle viſcere ritro vano, formentano, e rendon mordace, e fangli cambiar na túra; e quinci avvien,che ciò che ſi vuota appaja di diver fi colori, e prenda una puzza ſimile a'cadaveri sper, eſſer le purgativemedicine si ſtimolofe, che aprono ledelicate boccuzze de'vaſi facendo, da eſſe uicir fuori il ſugo in ef ſo lor contenuto, e corrompendolo; e conſiſtendo la virtù delle purganti medicine ne'lali, chein eſſe ſono, in quelle foſtāze elle più operano, e la efficacia lor dimoſtrano mag giormente ove i ſali più preſtamente diſſolvonſi; e quinci avvien, che le fecce, che per eſſe ſi vuotano liquide diven gono, e diſcorrenti. Finalmente lo immagino, che non mai veduto avelle Ippocrate ſcanar Porco njuno,e che ſe pur cgli guatato mai aveſſe immolar vittime negli altari, aveſse avuti gli occhi di glauco,o di nero colore tu le pupille ripieni,õde la gialla, e nera collera nel lor ſangue diveder raffembrogli. Scorſe egli per avventura alcuna fiata, Io bé glicle cóſento,ad huo dopo aver preſo vomitiva,o altra ſimigliante medicina,get tar perla bocca fuori inſipido,amaro, acetoſo, biáco,o gial lo uinore, ma non giunſe a conſiderar tanto che baſti,cioè che i sì fatti umori s'ingenerano nello ſtomaco de'corpi c.2 gionevoli, e infermicci, e chenon ſi ravviſano nelle venc, ne pur quand'huomo inferma. Ne deve egli così toſto ob bliar ciò, che altrove più d'una fiata racconta, altri ſughi aver egli oſſervato recere, c per ſotto altrui cacciar fuori certi altri umori, i quali eglinondimeno vuol, che nelle vene non abbian luogo; sì cheanche ſecondo lui, non è fano diſcorſo, ne concludente argométo a provar gli umo ri eſſervinelle vene, perchè ſi vuotano colle purgagioni. Ma a che domine dovrà egli tanta fatica logorar tanto tempo indarno, ſtillarli sì fattamente il cervello, e porger cagione a' poſteri di ricercar ſempremai Duovi ſofiſmi per iſtabilir la ſua ſentenza in materia, che con un foi fifo gua tuento potea ben coſto determinare? Ecco come una ri cevuta opinione ne fa velo alla mente,si ch'ella obblia ſo vente i più piani ſentieri della verità. Orlo, direi ad Ip pocrate, e a tutti quanti i ſeguaci di lui, traggaſi ad huom fano il ſangue, cd aſsaggiſi, chee' non ritroveralli ne af ſai ne poco amaro; oue è dunque la collera? e non ſarà l'a cctoſo, oveè la malinconia? Replicheran per avventura, che'l miſchiaméto, ela cõfuſione di sì fatti umori fraſtorni tal diſcerniméto al palato; ma ſe a giuſta porzion di ſangue poche gocciole d'acetoſo liquore,o picciola quãtità di fiele ſi meſcoli, e ſi dibaſti in modo, che daper tutto ſi ſparga,e fi confonda,noi proverem nel ſangue,e l'acetoſo, e l'amaro ſapore:adunque ſe nõ vi ſi aſſaggiavano in prima, novi do vevan eſſere. Più avanti veggiam ſe ſceverandoſi i diverſi liquori, che nel raffreddato ságue ſi ſcorgono ſi poſſano av viſare i quattro umori d'Ippocrate;egli è ver,che nel ſangue ſia un liquore acquoſo,in su'l quale vogliono i ſeguaci d'Ip pocrate, che nuoti la collera,ingannati da un certo giallor, che vi ravviſano, e'l rimanente ſia tutto ſiero; ma s'egli ciò vero foffe, abbiſognerebbe, che la ſuperficie del detto li quore amareggiaffc;il che no mai veggiamo avvenire.Se poi tutto il ſiero ſitragga via dal ſangue, rimarrà una materias rappreſa, la qualroffa nel ſommo,e nera apparirà nel fon do; ma non miga egli è vero, ficome per coloro ſi eſtima che quella, ch'è in fondo del vaſo ſia la malinconia, 1013 efſendo ella di niun modo aceroſa, ma del ſapor medeſimo della roſſa; ſenzachè fe tal fanguigna maſſa foſfopra ſia ro veſciata, la roffa parte in nera, e la nera ſcambieraſli in rof. fa; il che avvien dall'aria, la qual movendo le particello; della fuperficie del ſangue, le fa così roffe, e di più allegro color dell'altre apparire. Ma oltre alle già dette coſe, due altre ſoſtanze nel rapa preſo ſangue ſi ſcorgono; una dellequalicſſendo diſcorre te, e bianca, ne fa chiaro veder, ch'ella fia chilo, in fan gue non ancor traſınutato: l'altra gaglioſa,e tenace, di cui ne fa purmenzione Ippocrate; e perciocch'ella è deſtinata a nutrir le parti tutte del corpo, da' moderni ſugo nutriti vo acconciamente vien detto; e queſto ſugo va col ſieroſo migliantemente miſchiato; e agevolmente la coinprenderà chiunque ponendo il vaſo del detto fiero ſu le lente bragie nie farà tutto l'acquoſo unore agiatamente eſalare. Nefi nalmente voglio laſciar d'avviſare, che in quelle febbri, le quali per parere d'Ippocrate ſon dalla bile prodotte, non, mai ritroveralli il ſangue d'alcun'amaro ſapore, nepur quella parte, che vi va a nuoto; ne in quell'altre, che per Nn avviſo di lui dalla malinconia provengono, il ſangue ſenti rà miga dell'acetoſo; ne men quella parte d'ello che, nera appariſce; ſicome ſenza durarvi molta fatica potea chiarir fene Ippocrate, ſe pur ſicome non ebbe a ſchifo le ſtoma chevoli fecce degl'infermi aſſaggiare,così la pūta della fin gua in cotai parti del ságuedegnato aveſſe d'intignere, qua lora veniva tratto agli ammalati di terzan2,0 quartana;e ſe a coſtoro egli non ne traeva, in altre opportunità potea farne eſperimento. E più di lui era debito di Galieno tal fatto, nie dovea a chiuſi occhj in biſogna di cotanto rilievo preſtar fede ad Ippocrate. Ma Io non poflo non ammirar quì quelle anime grandi, le quali a torto accagiona Ippocrate, perchè elle dicano, effer flemma l'huomo; perchè avendo nel ſangueſcorta quella bianca ſoſtanza ch’appella flemma Ippocrate, giun ſero a comprendere, di quella effer formato l'huomoje ve ramente di quella vié la parte materiale del ſeine formata, di quella il latte, diquella tutt'altre parti del corpo uma no nutricanſi. Ma ad Ippocrate ritornando: tralafciò egli in queſto luogo di far parole della più nobil parte del ſan gue, dico della parte ſpiritofa; quantunque altrove oſeu ramente ne faccia motto, e ſenza penetrare, o diſaminar tanto che bafti la ſua natura; e moftra, che la riponeſe fra le ſoſtanze diſcorrenti non umide, licome è l'aere,e non già fra le umide, com'è l'aqua: il cui ſembiante più coſto par, che ritiga lo ſpirito del fangue;il che no dovea trapal farſi tacitamēte da Ippocrate;e doveaegli por mēte altresì a cotāte altre umide ſoſtanze dell'huomo, e diſaminar così di effe, come delle parti ſolide, la natura, gli uficj,e le ope razioni; le quali ignorand'egli nulla viene a ſaper della na tura di quello, la quale altrui pretende d'inſegnare, ne può ſiſtem.2 alcuno ne meno manchevole, e ſcempio ftabi fire di razional medicina. Ma il buono Ippocratc, come ſe taſe uficio aveſſe inte ramente compiuto, e come ſe quanto avea diviſato foffes incontraſtabile, e fermo, paſſa più avanti nel fuo libro a narrare, che l'inverno s'avanza nell'huom la flemma,come quella, che più d'altri umori a cotale ſtagion confaffi,eſſen do più di tutt'altri fredda; la qual coſa egli vuol ritrarre non altronde, che dal toccamento; ed afferma coſtante mente, cha la fiemma,del ſangue, e della collera ſempre ha'l tocco più freddo; la qual coſa però quanto ſia falſa è teſte per noi detto. Fa egli, che l'inverno abbondi più ch ' altro tempo la flemma; perocchè in più larga copia ne veg giam per le bocche, per le narici degli animali uſcir fuori; e per l'enfiature, e altri mali dalla flemma cagionati, che ſovente in quella ſtagione afcir ſogliono agli huomini. Ma ſe l'inverno, ficomealtroveafferına Ippocrate più che mai le viſcere, ele interiora ſon riſcaldate, non ſo lo come poſs'egli argomentar ch'abbiano allora a ingenerare abbó dante copia di flemma, poſto che la flemma foſſe da an noverare infra gli umori; e flemma foſſe ciò, che per la boce ca ſi ſpurga, e per le narici, e ch'ella produceſſe que'mali, che freddi s'appellano. Ma più avāti al diviſamento d'Ippocrate fa la continua cſperienza contraſto, e ſcorgeſi, che l'eſtate, ſe avviene ad huom qualche catarro, qualunque ne ſia la cagione, e' ſcaricherà per le narici, e per la bocca le flemme, ch'e'di ce, in tanta copia, cheſtimeraſli colui non aver altro inca po, ne in corpo, ſalvo che flemma. Ora Ippocrate a voler faggiamente diſcorrere, dovea bé avviſar, che l'inverno per lo freddo riſtrigonfi i pori della' noſtra pelle: il perchè non potendo per eſli uſcirne cosi ah bondantemente quella ſoſtanza, che in ſottile alito,altro tempo ſvaporar ne ſuole, vienaa rapprenderli in flemma, edella natura per più larghe ſtrade ſivuota. La Primavera vuol, che ancor ſian copioſe le flemme; ma collo ſcemamento del freddo comincino pian piano w ſcemarli, e'n loro veceil ſanguigno umor vada creſcendo. Ma feper opinion di lui anche la primavera le vilcere lon cal:liffim, chefanno in corpo le fléme, e chi loro da luo go? Ma la ragio, che ne reca per l'avanzaméro del ſangue, cui no fem ! rerebbe dimoſtrazion di ſcrupoloſo Geometras Nn 2 : la Primavera dic'egliè calda, ed umida,e caldo, ed umido è altresì il ságue:adúquc alla primavera cofaſſi. Ma pur noi veggiamo,che a quel tempo ilſiero alquáto più copioſo di venga, anziche no, ſe a quel tempo ſon più abbondanti le urine, e oltremodo patiſcono gli Idropici, in lor ſover chiando sformatamente le acque. E che abbiam noi a dir degli altri argométi, ond'egli ſi sforza Ippocrate di confer mare tal ſoperchiamento di ſanguenella già detta ſtagione: in cui, dic'egli, fogliono avvenir diffenterie, e vacuazion di ſangue per le narici, ed è il ſangue più caldo, e roſſo, che mai? Certamente come altre fiate abbiam detto; im perocchè la diſſenteria non puòdal ſangue avvenire,il qual giuſta i ſentimenti d'Ippocrate è umor piacevole, e dolce anzi che no; e più toſto la malinconia, e la collera dovreb bon eſserne accagionate, le quali eſsendo aſpre, e ſtimo Joſe avrebbon a rodere le inteſtina, e farne uſcir fuori il fangue. Rimarrebbono altre leggiere coſe a diſaminare in que fto libro d'Ippocrate dietro tal materia de'quattro umori, le quali da lui coll'uſato ſcioperìo, e groſſezza fi trattano, e altre coſe degne da avvertire occorrerebbono per avven tura a chiunque con minuta diligenza l'andaſse rivolgen do, ch'Io per fretta non ho curato d'oſservare. E baſtami d'averne fol tanto confuſamente rapportato, perchèfi ſcor ga qual foſse la traccia da Ippocrate temtita nel filoſofare dietro le biſogne della medicina; e ch'egli andato foſse nolto lungi dal vero, ne mai imbroccato aveſse al legno. Ma ſe pure a lui non venne fatto di poter con pruove fta bilire i quattro primi corpi,no è da prenderne maraviglia: imperocchène iné v'aggiuſe Ariſtotele;il quale,e pl'altez za dell'intédiméco, e per le notizie di varie coſe,digrā lūga gli ſi dee antiporre,che che ſe ne dica in contrarioGalieno; e veramente le ragioni per colui rapportate eſſer frivole, e di niun valore, non che da altri,mada'medefimi Peripatetici vien conſentito; ma che chc ſia di ciò, non avendo Ippo crate potirto giámai provar ne l'eſiſtenza de'primi quattro corpi ſemplici, ne de'quattro umori, tutto il ſiſtema deila ſun ſuamedicina,chelu vi fő:la,cõvié,che crolli ad ogni leggier foffio, e cada giù in terra. Maben s'avvide Ippocrate della debolezza de' ſuoi ſiſtemi; onde o di rado, o non mai in al tri ſuoi libri volle valerſene, e particolarmente in quei de gli Aforiſmi;i quali non voglio lo traſandar ſotto lilenzio, poichè da molti ſono avuti in sì gran pregio appo Suida, che loro non già inortal coſa, ma opera di ſouraumano in gegno raſſembra, non altrimenti, che dell'Alcorano ſi fac ciano i melenli ſeguaci di Macometto. E per lo meno cre de altri, che non maisì grand'impreſa fu da un’huomo ſo lo compiuta; c anche coſtor ſon partiti, alcuni credendo, ch'egli da varj ſcrittori gli aveſſe raccolti; c altri, ch'e' la veſſe copiatidalle tavolette affilfe nel tempio d'Eſculapio. E certamente ſe mai vero foſſe, che Ippocrate, come An drea antichillimo autor riferifce, miſe a fiamme, ed a fuo co quella cotanto celebre libreria di Gnido, egli ſarebbe da fufpicare, che nõ pur gli Aforiſmi,maquát’opere van del fuo nome intitolate,ſtate folero altrui fatiche, ed ei per ac cattarne reputazione, come propie le aveſſe divolgate. Ma avend' egli per avventura poco ſanamente le opinioni di quegli autori compreſe,sì malamente compilare le aveſſe; e quinci ſia altresì avvenuto, che tante varie, e diſcordan ti dottrine, e opinioni per entro vi ſi ritrovino; e perciò ſia indarno gettata la fatica di coloro, che di accordarle tanto lungamente ſi ſtudiano; a ciaſcun de'quali potrebbe ram mentarſi l'avviſo di Franceſco Ottomanno: Vercor ne ple rumque in iis, qui confultò inter fe diffentiunt conciliandis nimium ingenioſi eſe velimus. Ma che che ſia di ciò, lo per me ſon ſicuro, che agevolmente accorgerafli, cui caglia di chiarirſene, non effer degni di cotante lodi gli Aforiſmi d'Ippocrate, quante d’uma cieca, e comun fama ne han ri cevuti; e perciò nella ſchiera de poco accorti foſſe il noſtro Petrarca,ovein favellando di biſogna a lui poco conoſciu ta ebbe a dire: E quel di Coo, che fe vie miglior l'opra, Seben intefi foller gli Aforiſmi. Sicome del poco lor valore s'avvider tutti que’medici,che infra i Greci ebbero inaggiore ſtıma,e rinomea;i quali non men, che di tutte altre opere d'Ippocrate, tenner pochiſſi mo, o niun conto degli Aforilmi; la qualcoſa ſi ſcorge rebbe manifeſtamente da noi,ſe ſpente non foſſero,e ſmar rite tutte loro ſcritture; ma nondimeno può argomentar ſi ſenza rimanerne in forſc, dalle reliquie, chene' libri di Galieno, e di Celio Aureliano, a ' dinoſtriſe ne riſerba no; e per quelle poche memorie, ch'abbiam di Giuliano eccellentiſſimo filoſofo, e medico, quantunque il con trario ſis forzi dimoſtrarGalieno. Ma ſe ancor foſsero in piè que’libri, che ilmedeſimoGiuliano compilò contro gli Aforiſmi, o ſe foſſero almen rimaſe le chioſe, che ſu d'er ſi fe Lico, il quale ſi diede cura d'andargli un per uno mi nutamente, e ſenzariguardo alcuno diłaminando, chente, e quali eſſi ſiano apparirebbe chiaro, comechè io non mi dalli briga di favellarne; ma poichè così va la biſogna: di co, che molti degli Aforiſmi liano così generali, che per la medicina poco, o niun pro trar ſe ne poſla; e di leggier ſi potrebbono ad ogn'altra materia acconciamēte adattare; il che ha porto occaſione di occupar certi sfaccédati cervelli a travorgergli con pochisſimo ſtorciméto alla politica, alla milizia, e ad altre arti, e diſcipline; altri ve ne hanno co tenenti sì groſſo, e materialinotizie, che ad ogn ' huom di 'contado aſsai meglio ſon conoſciute; altri, come avviſa il Santoro, non li poſson mai recare ad effetto ſenza molto ritegno, e ſenza l'indirizzamento delle regole dell'arte;di fetto, ſenza fallo,gravisſimo ad autor, che imprenda a pre. ſcriver certe regole, e leggi in qualunque arte, emaſlima mente in medicina; e altri v'han cui facendo biſogno di pruove, fur da lui tralaſciati ſenza alcuna ragione; e ſe pu re alcuna fiata vi rapporta qualche argomento, ritroveral fi eſſer poco ſaldo, o inefficace; anzi loventi fiate ridevo le, e frivolo; altri ſe ne ritrovano,la cui dottrina, o aper tamente, o per poco che ſi vada diſaminando, falſa, e fal lace ſi ſcorge. Altri finalmente per entro a quel libro ve n'han sì confuſi, e oſcuri,e impigliati, ch'a volervi per in tendergli qualunque più grave farica durare, non ſe ne ri trarrà coſa, che monti un frullo. Ma l'oſcurità è vizio si ordinario d'Ippocrate, che ne men Galieno cotanto di co lui parziale potè contenerſi sì, che non ne faceſſe motto, a non ne lo proverbiaſſe, e ſcherniffe più fiate. Ma fe è vizio, ed error grave l'oſcurità in qualunque materia, egli è ſenza fallo graviſſimo, ove ſi tratti dimc. dicina; arte malagevoliſſima per ſe ſteſſa, e in cui l'crrare potrebb’eſſer di graviſſimi danni, e nocumenti cagione; if perchè non ſon da intendere quelle ſcuſe, che dell'oſcurità d'Ippocrate voglion farſi per alcuni, dicendo ch'egli a ſtu dio voleſſe sì fattamente ſcrivere le ſue opere, e maſſima mente gli Aforiſmi, acciocchè sì prezioſiteſorinon iſtaffe ro ſenza riſerbo; ma quafi ſotto bel velo ricoverti, e aſco ſi; imperocchè lo primieramente non ſo intendere qualſia mai quell'altezza di dottrine, che nella medicina d'Ippo. crate ſia ripoſta, ne fin'ora v'è ſtato chi abbia potuto fco vrirla; anzi è avvenuto a coloro, che troppo v'han durato fatica a interpretrarla, quel che accader ſuole ſoventeagli Alchimiſti, che in vece di divenir dovizioſi d'oro, e d'arie tutto il for picciolo capitale ſcialacquano. Ma fe Ip pocrate voleva aſconder la ſua dottrina,sì che da altri non mai fi riſapeſſe, potea con un più bello, e fottil modo ben farlo, cioè rimanendoſene in pace, ſenza ſehiccherarle carte, o por tanticervelli a partito per intender la ſua mé te, con si grave riſchio de' poveri ammalati. Or veggafi di vantaggio quanto egli foffe dabbene, equanto oſſerva tor dell'impromeſſe,e facraméti,co’quali dichiarò di voler a'ſuoi ſcolari tutta quanta la medicina perfettamente inſe gnare; e certamente ſe non altro lor comunicò di ciò che ne'ſuoi libri, e particolarmente in que' degli Aforiſmi la fciò regiſtrato, e in quella sì confuſa maniera, que' catti velli l'olio, e la fpeſa indarno vi dovettero logorare. Ma il bujo di quella favella, ſe mal puofli fofferire altrove,cer tamente nell'opere degli Aforiſmi, ove principalmente egli vuol dar leggi, e regole di ciò, che fi dce nell'arte eſe guire, è tanto biafimevole, e ſconcia, che nulla più; e ſe Principe mai, o Repubblica in dettando leggi, e ftatuti ſi valeſſe dello ſtile degli Aforiſmi d'Ippocrate, in quali tea nebre, in quai garbugli, in quali intrighi, in quantipiati, o conteſe ſe ne viverebbe quella malnata Città, quellas infelice provincia? S'attēta altri di ſcuſare Ippocrate col precetto d'Orazio Quicquid precipies eſto brevis,utcito dicta Recipiant animidociles, teneantquefideles. Ma per coſtui non badoſli, a quel,che poco avanti dal medeſimo Poeta fu ſcritto: Decipimurſpecie recti: brevis effe laboro Obfcurusfio: Ne potè ciòdiſſimulare, comeche parzialisſimo d'Ippoa crate, per tacer d'altri chioſatori, il Signor della Sciam bre, sì chenon aveſſe arditamente a dire d'Ariſtotele, ed' Ippocrate, e de'loro eſpoſitori favellando: ita perplexe, & obfcurè uterque locutus eſt, ut ad ſingula verbaceſpitandum illis fuerit,antequam tantis tenebris lucem aliquam afferro potuerint. E quantunque egli appreſſo imprenda a farne ſcuſa, indi a poco ſoggiugnendo: Atque id ſaneHippocrates quadam neceffitate impulſus præftitit in Aphoriſmis: cùm enim ad pauca quædam capita vaſtam, & immenfam artem contrahereftatuiffet, ne trunca, manca redderetur, necef fe illi fuit ſuh unoquoque plura præcepta recondere, quàm quæ verbis deſignarentur: &fingulos Aphoriſmos prêter id, quod exprefsè docent, proponere, ut figna, du notas, quibus aliarum rerumeadem ſpectantium recordatio excitaretur: no però dimeno lo perme non ſo ſe venga sì fattamente ad iſcuſarſipiù tolto, o ad accagionarli Ippocrate; imperoc chè qualbiſogna, o diſtretta lo sforzò mai a favellar di tut to, e'l tutto avviluppare, ed entrar nell'aringo ditanti, e sì diſgiunti ragionamenti per diviſar pochiſſimecoſe, c di niun rilievo? E qual lode è mai d'uno ſcrittore l'accennar ſotto velame d'oſcurillime parole una cofa, e laſciarnu cento, e mille, cuiabbiſognerebbe, che dall'intendiinen to del diſcreto lerrore fi ſuppliſſero; il che ſe mai il letto re far poteſſe da ſe medeſimo, a che affaticarſi in sicer carle fu le altrui ſcritture con ſuo diſtento. Ma ſe pur po telle teſse Ippocrate ritrovar qualche perdono persì fatte ſcule in alcunadelle ſue opere, chi mai potrebbe ſofferir quelli oſcurità, che per tacer d'altri ſi ravviſa nc' libri della Die ta, degli umori, degli alimenti, in cui ebbe a dire quel celebre galieniſta Antonio Fracanziano ſuo chioſatore, Hippocrates anigmaticè, dw obfcurè adeo loquitur, ut divi nandum magis quandoque, quam afferendumquid voluerit: orin quegli certamente le ſottili difeſe del Signor dellau Sciambre non poſſono a niun modo aver luogo. Egli adú que nc fa meſtieri di dire a voler ſchiettamente la verità có. feffare, che l'oſcurità d'Ippocrate avvenga dal rozzo, e oſcuro conoſcinicnto, ch'ebbe di quelle coſe, che a ſpia nare egli impreſe; e perciò con oſcure, c affai brevi parole cerchi toſto sbrigarſene, come fan coloro, che di future, e loro ignote coſe ragionano.Ma pur troppo bene è riuſci ta ad Ippocrate, e d'onde biaſimo e' meritava, e vitupero, quindi gli avvenne lode, e commendazione dalla voigare ſchiera de'letterati; i quali ciò che meno intendono, comes cofa maggior de’loro ingegni vie più commendano; e per ciò è avvenuto, che sì folta turba de'chioſatori abbia in darno tanta fatica durata,per volerdimoſtrare,ch'altiſlima dottrina ſotto l'ombra di quel favellar ſi naſconda; e dico indarno: imperocchè a gente di ſano intendimento quelle cotante lor novelluzze malagevoliſſimamente iinboccar poſſono; eſſendomanifeſto, che ove Ippocrate favella di coſe, ch'egli intenda,e ſappia, ſicome quando narra avve nimenti, e iſtorie di malattie, o fa parole di qualche parte di notomia, ch'egli avea oſſervata, non torbido, e confuſo ſtile;ma cõchiaro,e intelligibil ragionaje ſe ben ſempremai ſparge per entro a tai ragionamenti qualche antica, e vieta, e poco inteſa parola: impertanto non può renderli tutto il favellar sì avviluppato, che in fine la ſua mente non fi com- ' prenda. Egli è adunque oſcuro, ove di ciò che non inten de, imprende a favellare. Ma per non iltar quaſi ſempre in ſu l'ali, c diſcender omaia qualche particolarità: lo dico, che il primo, ove procura di ſcorgerne la medicina, come poſta lu la vet Oo t21 1 ta d'un erta, e lunga, e ſtraripevol roccia,' oue mat puofli, tra per la brevità della vita,ei molti, e gravi peri coli, che vi s’incontrano per huom pervenire; e tale,e tan to, che vale a torre il pregio a quanti e'ne ſoggiugne;im perocchè ſe cotante malagevolezze ha la medicina per fe medelima, ei, che dovea far altro, fe non ſe a tutto sforzo. agevolarne il ſentiero? e pur coʻſuoi Aforiſmi il varco sì fattamente impruna, che ove huom dietro a lui mettaſi in cammino,a diftento fenza offefa potrà ritrarne il piede.Do vea ben avviſar Ippocrate, chela brevità, ove l'oſcurità non iſchifi, quanto ſcema allo ſcrittor di fatica, al lettore altrettanto ne aggiugne. E nel vero chi potrebbe confide rar quanto ftento dovettero durar tutti coloro, che prima di Galieno ſi dieder briga d'interpetrar l'opere d'Ippocra te; e pur nientedimeno non uſciron dal laberinto, come vuol Galieno; il qual ſoggiugne lui aver primieramente porto il filo da poterlo ſpiar tutto, e ritornare in ſalvamé to; quantunque v'há chi non gliele vuol credere, e affer ma coſtantemente ch'egli vi ſia rimalo avvolpacchiato,co me tutt'aleri; e ne ci reca la ragion dicendo, che ſe vera mente per Galieno foſſero ſtati compreſi i ſentimenti d'Ip pocrate, cotante quiſtioni, e piati dopo lui non ſarebboe no inſurti, per indovinar, che diavol d'inſegnamenti ſian que' d'Ippocrate,maſſimamente negli Aforiſmi. Orail té. po, che in ván fi logora in sì fatti litigj,nó ſarebbe meglio, e con maggior pro nell'inveſtigar tante coſe, che fann'huo po allame licina, opportunamente impiegato? Ma nella feconda parte di queſto primoAforiſmo, poi chè tanto gli è a cuore la brevità, a che perder parole per dire,che, acciocchè il medico adempier poffa felicemente il ſuo uficio, abbiſogni che vi concorrano l'opere dello in fermo, de’famigliari, e tutt'altre eſteriori coſe al biſogno fian preſte? O utiliſſimo, o raro, e non mai caduto in mé. te umana conſiglio del diviniflimo Ippocrate ! e Monna Berta, e Monna Nonna ſomigliantemente non l'averebbe ſaputo? Ma il ſecondo Aforiſmo, per la cui eſpoſizione veggiam venire fino a villane parole i Chioſatori, e alqua 1 le più coſto con aringo d'ornate ciance, che con faldezze di dottrina, cerca difar riparo Galieno a petto degli argo menti, che incontro gli avventa Giuliano: non contien al tro certamente, ſalvo che unadottrina molto volgare, tanto baſſa, ch’un Maeſtro Simone, non che altri G verge gnerebbe d'averla meſſa in dozzina, maſſimamente ſules prima fronte d'un libro di tanta eſpettazione; ella è tales: le vacuazioni, che per vomito, o di ſotto ſpotaneamente avvengono, ſe fian tali, quali eſſer denno, giovano, e age volmente ſi collerano; e ſe ilvuotamento de’vaſi tal lia,qual çiler dee, giova, e ſi tollera. Orlaſciando da parte ftare, che con chiarezza, e brevità maggiore potea cotal diviſa mento ſpiegarſi, per avventura dicendo, cheſe l'arte, o la natura vuoterà ciò che pecca nel corpo, fie di giovamento l'evacuazione: lo quì chiederci, chemifoſſe moftro, ove ſia l'altiſſima ſapienza, ove il ſottile intendimento del Prin cipe, e dell'inventore, come Galien lo dice, della razio nal medicina Ippocrate; adunque in faccenda di cotanta lieva haſſi a giudicar degli eventi: A che dunque vagliol tanti ſiſtemi di razional medicina, sì lungamente, eintan ti libri da lui regiſtrati? A che giova l'aver eglicotanto ra gionato degli uinori, e dell'altre cagioni delle malattie, e delle altre coſe confacenti alla medicina,ſe al miglior huo po non gli vagliono un frullo,egli abbiſogna, ch'a ſuomal grado,alla fallace empirica abbia ricorſo. Ma più oltre: onde fe meſtieri ad Ippocrate dirigiſtrar tale avvertimento nel divin volume degli Aforiſmi, ſe non v'ha perſona così ſcicmpiata tra'l vulgo, che molto bene non ſappia, che al lor, chenon reca moleſtia allo infermo, e ch'egli ſe n’ap profitta, che tale qual eller deeſiaſi la vacuatione; ma do vea certamente, &aurebbe fatto il meglio,avviſare Ippo crate, che quantunque non ne tragga alcun diſagio l'infer mo, e che imınantinente dopo la vacuazioncegli guariſca, avvenir può talora, che l'umor vuotato non ſia tale, quale vacuar ſi dec;imperciocchè ben potrebbe egli di leggieri avvenire, che dopo la vacuazione di qualche materia, la quale niente aveſſe che fare colmale, riſtoraſleli l'infermo Oo 2 per qualche vacuazione inſenſibile di ciò, che cagiona il male,fattanel medeſimo tempo. Nedee ciò recar maravi glia, ſe talora ne’più gravi, e pericolofi malori, quanto più rigoglioſi,cotanto menome, e fottili ſono la cagioni, che l'adoperano; e ben ſovente avviene fenfibilc vacuazione per opera di quelmovimento,cheſi fa nel corpo nello ſcio glierli, e nell'ufcir fuora, e nel mutar faccia, fito, o movi mento que corpicciuoli, onde il mal ſi cagiona: a pruova conoſcendoſi, che huom ſuda, vomita, e manda fuori per altre parti quantità d'umori, e ſi ſgrava immantinente dal male; che ſe non uſciſſe allora o pietra, o altro, che'l ca gionaſſe, ogn’un di certo giudicherebbe, che per la vacua zion di quelle materie foffe l'infermo riſanato. In confer mazion di ciò che lo dico, in quci, che ſon morſi dalle vi pere noi veggiamotutto di dopo preſi gli antidoti vacuarſi per vomito, e per ſudore gran copia dimaterie nel tempo medeſiino, che guariſcono; e pure quelle non han coſa del mondo che fare col veleno della vipera, il quale in altro non conſiſte, che in una piccioliſſima, e poco men ch'insé fibile ſoſtanza, la quale rappigliandone il ſangue nelle ve ne toſto n’uccide. Ma che non veggiamotutto di nelle poſteme; e nelle ferite, ed in altre ſorti di malattie vuotar fi copia d'umori ad eſſe non pertinenti,c guarire, ma per al tra cagione,gl'infermid e quinci poiinginn.icii medici con falaſli, e purgagioni, ed Jorinojoſi, cimportuni rimedj i loro infermi crudelmente ſogliono malmenare; giudican do così imitar l'opere della natura; e per aver talvolta av viſto, che qualche febbre, o altro male ſi ſia diminuito dopo un grand'uſcimento di ſangue: comandan poi, che nelle febbri ſi tragga langue. Ne per altro parimente,nulla curando l'avviſo d'Ippocrate, e di Galieno,ſi vagliono del le purgigioni nel principio, nell'accreſcimento,e nel vigo re delle malattic, ſe non ſe dall'aver eglino veduto, come chè radillime volte, che dopo eſſerſi vacuata qualche ma teria in que’rempi lia migliorato, e riſanato qualche infer mo; e queſto è quello, s'io non vado errato, che dovca norar Ippocrate negli aforiſmi. Ma ne meno ſempre che quelle materie ſi vuotano, quali appunto da vuotar ſono, ciò vien lievemente comportato dall'infermo; concioffie coſachè molte volte elleno tra per la loro mordacità, e per la delicatezza della parte, per la quale ſi vuotano, e per altre cagioni ancora recar ſogliono noja grande agl'infer mi; come Ippocrate medeſimo ſe ſteſſo dimenticando al trove avviſa; ma non ſenza ragione Giuliano prover bia, e ripiglia Ippocrate dicendo, ch'egli incominciando queſto aforiſmo afferma come vera una propoſizione non miga per lui provata, ne dimoſtrata in prima, cioè, che naſcan le malattie dalla foprabbondanza ſolamente, o dal cambiamento degli umori in altra qualità di quella, che in prima aveano, la qualvien da'medici, corrottela, chiama ta; ch'egli però giudica,che ove non ſi ſcorga legno di cor rottela d'umori,che la ſoperchianza ſia de’inali cagione. Coſa, la quale foggiugne Giuliano, in modo veruno in tender noir fi puote, ne è vera: imperocchè fe ciò foſſe, eglinon ha dubbio, che tutte in fermità agevolmente gua rir potrebbonſi: ne fi vedrebbe giammai lunghezza di ina lattia: e una ſola la maniera di tutte curarle certamente fac rebbe; imperocchè ciaſcun potrebbe agevolmente qualo ra a grado gli foſse, effendo ciò in ſua mano, comeilmal l'affale, così toſto ripararvignon gli biſognando a ciò altro, falvo che fa ſola vacuazione, la quale in qualunque tein po porre ſi può in opera col ſegnare, ſe'l male ſarà cagio. nato dal ſangue, e fe dalla flemma, e dalla collera,condar loro acconce medicine. Riſponde Galieno all'argomento di Giuliano con dire, che allora oltragli umori, abbia an cora nelle parti falde del corpo qualche vizio; perchè va cuito l'umore dura ancora il male; ma ſe nel inale,ficome Ippocrate ſuppone, tengono gráī parte gli umori, dovrebbe almeno tanto quanto fcemarlo il vuotamento di quelli; il che certamente non avviene; anzi Galieno medeſimo ri portando in ciò molte fperienze, coſtantemeure altrove il niega. Ma come allor, che fon crudele materienel princi pio de’mali,quando le parti ſalde non ſon potute ancora contaminar da eſſe, le vacuazioni riefcono nocevoli, non che infruttuoſe: e allo incontro poi, licomecon Ippocrao te afferma Galieno, elle giovano affai,e colgono via il ma lenel loro ſcemo, quando non può eſſere, che non ſiano rimaſte offeſe gravemente, e contaminate le partiſalde, le quali in tutto il tempo delmale in varieguiſe moleſtate, e ſconce ne vennero? adunque direbbe Giuliano, non avran nulla che fare con quelle malattie le diſcorrenti ſoſtāze del corpo; e allor, che li veggono dopo la vacuazion di qual che umoré ceſſar le malattie, ciò non avvien certamente per la vacuazione,comeIppocrate afferma. Ma par egli certa mente, che Ippocratemedefimo non troppo fitidi in ciò della ſua dottrina; imperocchè avviſa egli poi nell'ultima parte dell'aforiſmo, che convengafi aver riguardo al paeſe, alla ſtagione, e alle mulattie, e all'età, ove da far Giala va cuazione. Ma per tacer della ſtagione, dell'età, e del paeſe, onde niuna certezza trar ſi puote, con qual argo mento in tata incertezza delle coſe dell'arte potrà mai rin venire il inedico fe fia, e qualſia quella parte diſcorrente, che cagioni l'infermità? Credeſi la collera cagionar la ter zana: la malinconia, la quartana: e pure queſte alla va cuazione, che penſan fare i medici di tali umori, non ce dono:'maſivincono ſenza vacuazion’alcuna colla ſcorza del Perù, e con altre molte sì fatte medicine. Il terzo Aforiſmo per mio avviſo parve al Paracelſo co tener dottrina di sì poca conſiderazione, che egli lo tra sformò sì, che in tutto è diverſo da quello d'Ippocrate;ma ſe cosi debbonſi chiofare, e interpetrare i detti degli auto ri, egli ſe'l veda · Dice Ippocrate, lo ſtato degli Atleti, i quali ſian pervenuti al ſommo della bontà eſſer pericoloſo; imperocchè non potendo poſare,ne vantaggiarli in meglio, convien, che vada al peggio; e che però dipreſente huopo faccia vuotargli. Primicramente la ragion d'Ippocrate, la quale ha dato cagione di quiſtionar canto, e d'aggirarſi fra vani argomenti al Forli alSermoneta, e ad altri ozioſi cervelli, è troppo rozza nel vero., e materiale, e più li ſten de aſſai di ciò, che Ippocrate s'avviſa; imperocchè perpe tuamente ſe la detta ragione aveſſe luogo, sìfatte perſone dovrebbono andaralpeggio; il che falſo ſi ſperimenta; e ben ſi conoſcerebbe apertamétc per ciaſcuno la falſità del la menzionataragione d'Ippocrate, s'egli come far dovea, l'aveſſe con più parole ſpiegata, comepofcia fecero i ſuoi chioſatori, dicendo, che non poffan mantenerſi nello ſta-, to preſente, nepofare: perchè continuamente cibandoſi sì fatti huomini, e ingenerandoſi in loro il chilo, e'l fangue, c queſto ad ogni ora diſtribuendoli per le parci del corpo, ne potendoſi a quello unire per non eſſervi luogose peròſo verchiandos debba di neceſſità cambiar in peſſimo il lorot timo ſtato. Ma non poſer mente coſtoro alla copia grande. del ſangue, e delPaltre tuţte diſcorrenti parti, e ſalde del. le loro foſtanze, checontinuamente G dileguano, e per sé.. fibili,e p cieche ſtrade efco fuora da'corpi degli huomini p. la continua formentazione di quello, che in aliti lotciliſi-. mi mai ſempre gli va ſciogliendo; e quanto più abbonde vole, e di buona condizione è il ſangue, tanto più egli è vigoroſo, e valevole ne'ſuoimovimenti, e nell'altre ſue operazioni; e quindi ſcorgonſimolcijemolti dicotali huo mini ftar bene lungo tempo: e comechènondimeno qual-, che volta coſtoro pur ne pericolino, ciò non èmiga già per la ragione per Ippocrate apportata; maperchè venendo ta lora oltre al dovere per qualche cagione di fuora a muo-, verfi, e a rarificarſi ſoverchiamente il ſangue, ſi rompono ivaſi, che'l contengono: 0 pure quello diſcorrendo in co pia grande nelle parti falde delcorpo, cdivi fermatofi, or una, or un'altra ſorte di mali, e talvolta con impedir affar to la circolazione del ſangue repétina morte alcresì cagio na; e ciò è quanto dovea il noſtro buon Ippocrate avvi fare. Appreffo fålla egli gravemente, ſenza dubbio, in tacendo come, e in qual maniera s'abbia negli Atleti a tor. via la pienezza; ſe colle vacuazioni, o pur colla dicta; s'egli quì intende di quella vacuazione, che ſi fa colla die. ta, comedicono i chioſatori di queſto aforiſmo,dovea pur certamente egli avviſare quando ciò far convenga colla ſc. la dieta, e quando altrimenti e in sì fatta maniera non in fruttuoſi affacco,e vani farebbono ſta i per avventura i ſu: i avvertimenti. Imprende poi ne ſeguenti aforiſmiinfino al venteſimo a far paroleIppocrate dietro al cibar degl'infermi; e come chè in lor ſi contenga qualche utile avvertimento, pur col Puſato ſuo modo intrigato del favellare, confonde quelle materie, che meſtier fenza fallo gli facea illuſtrare; eſſen do nel vero la maniera del cibar gl'infermi una delle coſe più neceſſarie a ſapere in medicina; eavendo in quegli aforiſmi alcune regole, alle quali fa meſtieri d ' eccezione, le dovea egli almeno accennare; ed era aſſai più neceſſario l'inſegnar ciò, che le tant' altre bazzicatu re, in cui inutilmente di certo ſpende egli tante parole das vegghia, come quello, che agevolmente lapute ſono,e co noſciute per ogn’uno. E in verità, chi è, che non ſappia eziandio fra quelli, che non mai ſtudiarono in medicina, che ne'mali lunghi s'abbian’a mantener le forze dello in fermo, e conſeguentemente, che dar non gli ſi debba a ſpi luzzico il cibo, ma un poco più largamente x Chiè, che non conoſca, che nell'acceſſioni della febbre, non ſi debba a niun modo cibare il malato? ma sì general legge dover cgli riſtrigaendo avviſar, ch'alcuna fata anche ciò far colz venga. Nel duodecimo aforiſmo fi da briga, e ragionevolme te nel vero Ippocrate, di narrac i ſegnali delle durate delle malattie; ma in materia di sì gran lieva, e onde, com'e gli medeſimo avviſa, depende il diritto regolaméto del nu tricar gl'infermi,ſecondo il ſuo coſtume, ofcuro, e intral Lito favella, e con poche parole ſi toglie dal doffo ogni ſeccaggine; tralaſciando non per ſuo mal talento, ma per ſuo poco ſapere di far motto de'polſi. E quanto al fat to deglieſempli, egli è molto ſcarſo: recandone un ſolo della pleureſi, e nemeno in quella fi trova ſempre eſſer ve che apparendo nel cominciamento di quella lo ſputo, il male abbia poco a durare. Va errato parimente Ippo crate in dar intera credenza a ſudori, alle fecce, e ſpezial mente all'orina; la quale per tralaſciar altre ragioninon tutta li ſepara dal ſangue;maparte di eſſa trapelando dal ſacco latteo per una breviſſima ſtrada tragittaſi alle reni; e ro, comechè una sì fatta ſtrada ignoraffe Ippocrate, dovca pur cgli por mente ad alcuni beveraggi, che appena tranghiot titi, di preſente ſi orinano: e agli ſparagi, al Terebinto, e ad altre coſe, che ſenza toccar punto il ſangue alterano sé, fibilmente l'orina. Nel tredecimo aforiſmo dice Ippocrate, cheivecchi portano agevolmenteil digiuno; e quindi paſſa a far paro le dell'altre età. Ma queſto è un'errormaſchio; imperoc chè dal continuo ſperimento ne fi fa chiaro, ch'a’vecchi tra per la lor debolczza,e perchè poco nutrimento traggo no da'cibi, aſſai ſpeſſo faccia meſtier riſtorarſi. E verilimo troviain noi l'avviſo di Celſo: inediam facillimè fuftinet media etates, minus juvenes, minimè pueri, & fenectutes confećti. Vien poil'Aforiſmodecimoquarto, il qual tanto ammi rar ſi ſuoledaʼnoſtri medici, cioè, che coloro, i quali cre ſcono, abbiano in copia grandeil caldo innato, e che per ciò faccia lor meſtiere abbondevol cibo, alorimenti il cor po ſi conſumi. Ma non avviſano coſtoro, che alcuni peſci creſcono oltremodo, e non che eglino caldi fieno, anzi só freddi si fattamente, che lc loro interiora agghiacciate,no altrimenti che neve li ſentono: come avviſa de’luccj del la nuova Francia il Padre Giuſeppe Breſſani: ho aperto (dic' egli) il luccio ancor vivo, e trovato il freddo del ſuo ſtomaco, quafi inſopportabile alla mia maro. Altra coſa adunque co vien certamente dire, che ſia quella, per la cui opera ben,' digeſtendoſiicibi, e altra cagion concorrendovi creſcano glianimali; e a quella in prima dovea por mente Ippocra te, e poi diterminare; ma eglia ciò non badando, indias poco ſiegue a dire nell'altro aforiſino, che di verno, o di primavera fiano le viſcere per natura caldiſſime, ei louni lunghiſſini; e perciò in quelle ſtagioni più largo cibo dar ſi debba;concioliecofachè l'innato calore allor creſca, cui maggior cibo certamente abbiſogna, e che di tal coſa nes fan pruova l'età, egli Atleti. Ma che fan qui tantc parole a ſpiegar una sì breve ſen tenza: ecco l'uſata felicità del ſuo breviffimo ſtile; ma ab biz Рp biaſi pur ciò per niente, egli non è tuttoda trafandar fotro ſilenzio, che quantunquevero in tutti huomini, per tacer d'altri animali, ciò che diceIppocrate ſi ſperimentaſſe, che diverno, e di primavera affai meglio fmaltiſcanſi i cibi: la ragione nondimeno, che di ciò e' ne reca è falſa; concior fiecofachè falfo apertamente ſia, che nelle menzionatcſta gioni caldiſſime fiano leviſcere degli animali; e perchè ciò vero fofle, nemen nulla montcrebbe: non facendoſi altri méte dal calore la digeſtione de'cibi: ficome ne ſiamo omai tanto accertati, chenon fa luogo, che lo vi ſpenda parola. Perchè in van brigafi Galieno di recare in concio d'Ippo crate le ragioni fanciulleſched'Ariſtotele, che le viſcere di verno caldiffime fiano, perchè il caldo, come ſenſo egliavel fe, e del circoſtante freddo ſentiſſe l'offeſe, alle più naſco fe interiora ſi rifugga; e certamentecotal ſciocca filoſofia, che i luoghi ſotterra caldi ſiano di verno, e freddi di ſtate, per lo Termofcopio falſa apertamente ravvifaſi, comeché tali pajano a noi, che di ſtate caldi, e di verno freddi v’en triamo dentro. Ma avvegnachè a pro d'Ippocrate dir potrebbeſi, che di verno per eſſer chiuli i poridegli animali ſi venga aritener quella ſoſtanza, che di ſtate eſce fuori, la quale da al ſan gue col movimento il calore: non però di meno, come fiè accennato, manifcſtamente in noi ſtesſi ravviliamo le parti dentro del noſtro corpo tutte, non altrimenti, che quelle di fuora, effer più affai calde di ſtato, che diverno; ne per altro nella detta ſtagione così volentieri acque freſche, e altri raffreddari liquori beviamo; ne Ippocrate medefimo oferebbe ciò negare; il quale dice altrove, che di verno s' ingenera la flemma, ſecondo luifreddiflimo umore, eche avvengano lunghe, e cagionate da tardi, lenti, e freddi umori le malattie. Ma Galieno volendo le parti del ſuo maeſtro difendere, immagina sì fatta malagevolezzaceſare, con dire, che di ftate ſian calde, maggiormentc che diverno le viſcere, di quel caldo, ch'egli avveniticcio, e foreſtiere chiama,ma non già miga deicaldo innato. Chiama egli caldo innato una i 1 1 remo. una aerea acquoſa ſoſtanza d'un calor mite, e ſoave inſieme con gli animali nata, e avveniticcio allo incontro poi chia ma un caldo terreo mordace affocato; e di queſto egli di ce nell'infelice difeſa del precedente aforiſmo d'Ippocrate contra Lico, che abbondevoli fiano maggiormente i giova ni, e di quello i fanciulli. Ma quanto ciò poco, anzi nulla approdi a difefa d'Ippocrate, noi or brievemenre dimoſtre Primieramente convien ſapere, che'l calore negli anima li naſce tutto dal ſangue; perclié folea dire l'Arveo, altro non eſſere il caldo innato, che'l ſanguemedeſimo: folusnē pefanguis eft calidum innatum, ſeu primo natus calor ani. malis, uti ex obſervationibus noſtris circa generationem ani. malium, præfertim pulli in ovo luculenter conftat: utentia, multiplicare fit fupervacuum. Argomento manifeſtiſimo è di ciò, ch'io dico lo ſcorgere, ch'abbandonata dal ſangue qualunque parte dell'animale, immantenente ogni calor viene ella a perdere: e ſe mai eſce dall'animale tutto fuori il ſangue, ben toſto dal cuore, dalle vene, dall'arterie, da altre parti falde tutto il calor fi diparte. Vano, e falſo adunque è ciò, che con Ariſtotelecomunemente dir ſi ſuo le, il cuore effer fonte del calore: ne ſo lo vedere, come in sì fatta opinione compiaceſſeſi quel grandiſſimo filoſo fante Renato delle Carte; imperocchè agevolmente egli avviſar potea il cuore noneſſer più caldo, che l'altre vilce re deglianimali. Ma fe'l ſangue (e ciò avviſa infra gli al tri il noſtro Ippocrate ) per ſe ſteſſo non è caldo, convien! inveſtigare, onde il calore in prima gli avvenga,e la cagio ne per la quale caldo mai ſempre nell'arterie, e nelle vene quello mantieneſi. Credettero alcuni degli antichi, che'l fangue ſi riſcaldi, e caldo continuamente ſi mantenga, perlo movimento, che dal cuore, o dall'arterie egli conti nuo riceve; ma non baſta certamente un si debile movie, mento a ingenerar nel ſangue sì gran calore; anzi prima che'l cuore, e che l'arterie ſi faccian vedere nell'huomo, caldo vi ſi ſperimenta il ſangue; ne meno a ciò baſtevole è certamente il ſuo perpetuo muoverſiin giro; ma chiunque P p 2 pon mente alla materia, onde ingeneraſi il ſangue, più age? volmente peravventura inveſtigar ne potrà la cagione. E gli faſſi séza dubbio il sāgue del Chilo, e'l Chilo s'inge nera d'erbe, e di frutta, e di carni, che altresì dell'erbe, e del le frutta vennero fatte, e ingenerate; or sì fatte vegetabili ſostanze, come ancora le minerali,per la formentazione ſo la divengon calde sì factamente, che ſenza aver d'altro bi ſogno., mentre dura la forinentazione, dura parimente in loro più, o meno il calore; cofa,la quale nel mofto, c in al tri ſomiglianti fughi da chiunque mente vi pone ad ogni ora ravviſar eglifi puote; ma d'altra affai più nobile, e più maraviglioſa maniera certamente e' ſi pare quella formen tazione,che faffi nel fangue, la quale in parte è ſomiglian te a quella, che avvenir ſcorgeſi alle diſcorrenti ſoſtanze minerali; onde avviene che lo ſpirito,che per chimica ma no dal ſangue li trae, ſia gran fatto diffimile da quello che ſi tragge dal vino e da altri ſughi formientati vegetabili trar fi ſuole. Ma come veramente una tanta opera nel ſangue fi faccia, e qual ne ſia la cagione, non mi par tempo oppor tuno a conghietturare; e baſti per ora ſolamente ſapere, la formentazioneeſſer quella, la quale diliberando nel fan, gue i ſemi del fuoco da que'ritegni, per li quali non pote vano eglino muoverſi di quel moto mai ſempre dilatante propio delfuoco, v'ingenera, e vi mantiene continuo il ca lore;ma nel ſangue poi(o in altro ſugo al fangue equivale te )de’peſci, o d'altri ſomigliáti animali, no mai calor fi rav vila; cõcioffiecofachè i femi del fuoco in lor fieno, o molto pochi, o in sì fatta guiſa con altri, & altri ſemi di varie altre coſe avviluppati,che mal ſi poſſono eglino per lo movime to della formétazione,conechè grāde e’lia agevolınéte ſvi luppare. Ma che che fja di ciò, uno ſolo è certamente per manevole negli animali il calore, il quale, or naturale, or non naturale porrà dirſi, fecondochè convenevole, o non convencvole e farà alla natura di quelli. Ma fe'l ſangue concinuo va cõſumandoſi cô ingenerarſene ſempre mainuo vo, intanto,che dopo qualche giorno non ne riman più goc cia alcuna del vecchio, certamente convien dire ch'appena ne'fanciullinon inolto guari dopo i loro naſciinenti il caldo innato ritrovar puoſſi; ed ecco, s'io pur non m'inganno, ca duti, e ſparti a terra fin dalle fondamenta i maggiori argo menti in difeſa della doctrina d'Ippocrate, portati per Ga licno. Ma per ritornare al noſtro propoſito: di ſtate pllo calore dell'aria circonſtante, la qual continuamente dagli huomi niper la reſpirazione li bee, e per le ſoſtanze del volante. ſalc, che'n quella, più, che in altra ſtagione nell'aria ſi ri trovano, sformatamente la formentazione del ſangue, e in eſſo in prima, e poi nelle viſcere divien più grande,e pa riinente ilcalore; allo incontro poi il verno, mancando all' aria que'ſali, e tra per queſto, e per la ſua freddezza ſi di minuiſce colla formentazione, così nel ſangue,come nelle viſcere neceſſariamente il calore; ne per altra cagione nel le parti di Settentrione il ſangue, e le viſcere, maſſimame te di verno non molto calde ſcorgonſi ncgli animali, e in alcuni di eſli mancar affatto ſi ravviſa ogni fcintilluzza di calore,sì fattamente, che per ogn’uno trapaſſati ſi ſtimereb bono; ne pare dalla verità lontano ciò che de' Lucumori narra Sigiſmondo Libero: Dicono che agli kuominidi Lucu morie: coſa mirabile, e incredibile, e che ha più della favo la, che del verifimile: fuole intervenire, chequelli per ciaſ cun'anno, cioè a' ventiſette del meſedi Novembre, nel qual giorno appreffo de', Ruteni è la feſta di S. Giorgio, muojano,6 chepoi nella ſeguenteprimavera a'ventiquattro d'Aprile al la fimilitudine delle ranocchie di nuovo riſuſcitino. Ma che che faſi di quelli: lo dico, che ſe Ippocrate, e Galieno aveſſer voluto veramente filoſofare, avrebber per avven tura ritrovato la vera ragione, per la quale di verno, e di primavera i cibi meglio aſſai fi digeſtiſcano, eſſere ſolo per chè a que’tempi quella nobiliſima ſoſtanza, la quale fico municâ dal ſangue allo ſtomaco, e fa la digeſtione,affai più vigoroſa, e forte fia, che di ſtate non è, in cui per lo calore oltremodo in quello accreſciuto ſi diſlipa, e fi dilegua; cf fendo ella, comechè accender non fi poffa, vie più dello {pirito delvino volante, e ſottile; e per mancamento d'u pa co  na cotal ſoſtanza ſenza fallo avviene, che gli huomini, co mechèpiù caldi, men gagliardi ſi ſentano, e atanti della perſona. Ma nc.men ſe ſi concedeſſe a Galieno, che v'abbian ve ramente due ſorti di caldo negli animali, ſarebbe ciò pun-, to per giovare ad Ippocrate; concioſliecoſachè, o innato, o avveniticcio che'l caldo fi concepiſca, purchè e' s'avanzi.nell'animale, conſumerà ſenza fallo il corpo diquello; la onde ſe fi ammette la ragion da Ippocrate nel precedente aforiſmo recata, converrà certamente dire, ch'a' giovani più ch'a' fanciulli, e che di ſtate più che di verno abbon devol cibo faccia meſtiere; ma ciò Ippocrate, e Galieno fe'l vedano, che per altro poiifanciulli più largamente eſ ſer denno cibati; sì perchè abbiſogna lor copia di materia per creſcere, sì perchè la lor ſoſtanza più agevolmente fi dillipa; e quantunque di ſtate abbian più biſogno di riſtoro, e dicibo gli animali, nondimeno non molto bene, e per fettamente in quel tempo facendofi la digeſtione, convien che parchi ſiano alquanto eglino nel cibarſi. Ma lo laſcia to aveva di rammentarvi, che Ippocrate medeſimo rifiuta incautamente ciò, che Galien delle due ſorti di caldo, a pro di lui dice; imperocchè Ippocrate reca l'eſemplo degli atle ti, in cui certamente il caldo avveniticcio, è quel che ſovrabbonda; tralaſcio ciò che dice parimente Ippocrates, cheivecchj per avere ſcarſità di calore, non ainmalino co sì, come i giovani difebbri acute; co che pare, che ne me no il calor de'febbricoſi, ſecondo Ippocrate, differiſca dal l'innato, ſalvo che per gradi. Maper mio avviſo la colpa tutta non è miga già diGalieno, ma d'Ippocratc; imperoc chè egli,comechè no'l dica apertamente, ſuppone le due ſorti di caldo; perchè nel medegmo aforiſmo a ſe medeli mo e'viene a contraddire. Nell'aforiſmo ſedecimo fi dice, chci cibi umidiconven gono a 'febbricitanti tutti. Ma a color, che patiſcon coti diane febbri, o terzane, diquelle chechiamāli(purie, i qua per tutto il corſo del male tengono lo ſtomaco, e l'altres viſcere ripiened'acquoſe, ed unnidiſſime ſoſtanze, lo per me li me non sò, comegli umidi cibi poſſan unqueinai approda re. Lafciando egli poi di favellar più de'cibi, fa ſtrano pal faggio Ippocrate alle medicine purgative; foggiugnendo nell'aforiſmo venteſimo, che quelle coſe, le quali o figiu dicano, o giudicate interamente già ſono, non ſi debbano muovere, e ne con medicine, ne con altro irritare, ma lila fcin così ſtare; ſentenza, la quale con altre de' libri degli aforiſmi volle Ippocrate, che ſi leggeſſe nel libro degli umori, ed in altre ſue opere, e contiene ſenza fallo uil, atiliffimo avvertimento;mapotea certamente Ippocrate far di meno ditorſi una sì tatta briga, cotanto ella è chia ra, e manifeſta coſa; e nel vero chi ignorar mai potrebbe, avvegnachè non inai ſtudiato abbia in medicina, che ad huom perfettamente guarito della malattia, non che lava cuazione, che potrebbe di nuovo ſcopigliare il ſano ordi namento del corpo, ma niuna altra forte di rimedio non faccia meſtiere? Ma forſe ſcorger dovette Ippocrate, che i medici de'ſuoi tempi, non altrimenti che li facciano og. gidì que' de’noftri, o poco, o nalla vi badavano; e ciò per mioavviſo avviene, perchè di lor natura i medici avidi ſon mai ſempre di far coli, chepaja al vulgo grande; come è il vuotar con ſalafli, e con purgative medicine; e van cer cando ogniora qualche apparente cagione di poter ciò egli no fare;eforſe che'l medeſimo Ippocrate non gliele porge allor ch'e ' dice in un'altro aforiſmo, che ciò che rimane dopole malattie foglia dinuovo ingenerarle? ma chi ben riguarda la coſa, apertainente ſcorge, che non ſolamente in ciò,che accénato abbiamo,maquaſi in tutte altre materie ritrovano i medici ciò, che lor fa inefticre, nell'opere d'Ip pocrate; e queſta certamente è la cagione, per cuida'no Atri Setteggianti ſia Ippocrate in qualche pregio tenuto. Ma che che lia di ciò, dovea annoverar Ippocrate minutamen te i ſegni, per li quali ravviſar poſſa il medico, che'l male interamente lia andato via; c que'ch'egli altrove, e Galić nelle chioſe brievemére produce in mezzo,quáto ſianofal laci ognun per ſe ſteſſo conoſcer puote. Doveva pariméte Ippocrate ſpiegar diligenteméte,che ſia ciò che rimane do po le malattic; es aitro e' non dice, niente certamenteegli inſegna, chenon ſia a tutti ben noto. Dice indi nell'aforiſmo venteſimo primo Ippocrate, che ciò che vuotar fi dee,per le ſtrade, onde ha egli cominciato ad uſcir fuori, e per li convenevoli luoghi convenga vuo tarlo. Qui il gran macſtro delle più aſcoſe materie dell'ar te, non fi dipartendo dall'uſato ſuo coſtume, imprende ad inſegnare faccenda, eziádio alle madrine manifefta; e non fa menzione di niuno di quegli avvertimenti, i quali dovca egli negli aforiſmicertamente regiſtrare; cioè quali vera mente li licno que'luoghi, ch'egliappella convenevoli, come talora tra per la delicatezza d'alcune parti, e per le mordacità de’lughi, o per altra cagione convenga al me dico altrimenti operare di quel,che li faccia la natura. Vien poſcia quell’Aforiſmo altrove da noi recaro, che contiene nel vero un'ammaeſtramento molto, e molto ne ceffario a ſaperſi dal medico intorno al tempo delle purgam gioni nelle malattie; ma da’ſeguaci d'Ippocrate, e diGa licno, come abbiam dimoſtrato,in niunconto tenuto. Mów la colpa, s'Io pur non vado errato, in gran parte ſi dec ad Ippocrate attribuire, ilquale dovea certamente ſcriver co ſa di sì gran momento d'altra miglior forma,e produrre in mezzo le ragioni, e le ſperienze, che fanno al propoſito, e poſſono la verità dalui inſegnata appieno aʼmedici perſua dere. Ma il buono Ippocrate ciò traſandando logora il té po in narrar altre inutili novelluzze; anzi con recar egli quell'altro Aforiſmo:nel cominciamento de’mali, ſe pu re ti pare, che s'abbia a muovere, tu muoverai: séza giugner altro, comecertamente dovea eglifare,da cagione di por re in dubbietà ciò che prima avea egli inſegnato. Nell’Aforiſmo ventitreeſimo ripete Ippocrate vanamé te ciò ch'egli altre fiate avea detto;ma ciò ch'e'poſcia v'ag giugne, egli è certamente un'avviſo così fuor di ragione, che giuſtamente da più avveduri medicanti, comechè per altro ſuoi parziali,vien traſandato; cioè che vuotar fi deb ba fin’allo sfinimento, ſe mai ne ficcia inelticri, purchè pof ſa comportarlo l'infermo. Maquinon ha dubbio nuno, che Ippocrate dato c'non abbia il cervello a rimpedulare; imperciocchè non ſi rammenta, che poco addietro corali vuotamenti avea egli oltremodo biafiinati, ſaggiamente ſti mádogli di grādilimo riſchio; quantunque egli in ſe ritor nato altrove poidi nuovo gli rifiuti.Ma più v'è di male, che Ippocrate no fa parola niuna diqual vuotaméto intēder vo glia; ſe di quel, che per li ſalaſli, come ſpiega Filoteo, o pure diquel, che per le purgagioni s'adopera; come rac coglier fi può da ciò, che in prima egli ha detto; o diquel che fafli, e per gli uni, e per l'altre,comevuol Galieno, il quale ſcioccamente approva nelle chioſe la menzionata, dottrina dell'Aforiſmo, Ma ſe mai d'un sì grave fallo ſcu ſazion ritrovar poteſſe Ippocrate, e vero foſſe ancora in qualche malattia haver luogo sì fatte eſtreme,e mortali va cuazioni, Io ſaper vorrei da lui,comemai cotali purgagioni s'abbiano a porre in opera sì, che o giúgano appunto allo sfinimento,o no’ltrapaffino anche di molto; perciocchè con graviſſimo riſchio del povero infermo sì fattamente ancora operar potrebbono, che colle liquide ſoſtanze curte ſi vuo caſſero päriméte le falde,anzil'anima ácora, e 12 vita;séza chè p cercana (periéza abbiamo, che debile, e ſpoſfata puc gativa medicina ralormolto vuoti, e groſſo calice d'ama riſſimo, e violentiſſimo beveraggio nulla non operi, ſecon dochè 'l corpo, più, o menvi & ritrova adatto;perchè trop po pericoloſo nel vero riuſcirebbe a porre in opera l'avviſo d'Ippocrate, ponendoci a troppo ſtretto riſchio d'ammaz zar l'infermo, o di nulla giovarlo. Ma poſto, che ciò che inſegna Ippocrate ſi poreifc dal medico ſicuramente legui re, qual pro per Dio a’milerellilanguéti mai ne avverrebbe, ſe di neceſſità le più nobili, e utili foſtāze del corpo s'avreb bono ad un'ora a vuotare? e quì ci accade d'avviſar la ſcioc ca pecoraggine d'alcuni medicāti de'noſtri tempi, i quali no avendo ardimento d'imnitar Ippocrate, e Galieno nel ſe gnare fino allo sfinimento, l'imitano poi nell'uſare violen tillime, e nocevoliſſimepurgagioni: follemente immagi nando,nel far grandemente vuotare, tutto il ſapere, e'l va lore del medico, e l'eccellenza dellamedicina confiftere; e RI pure il medeſimo lormaeſtro Ippocrate apertamente avvi ſa,che non miga per la quantità s'abbiano a ſtimare le pur gagioni, ma per la qualità degli umori,che ſi vuotano.Ma trapaſſando al ſeguente Aforiſmo:ciò che ſi dice in quello, giàvenne detto in prima nell'Aforiſmo ventidueſimo; per chè chiaramente ſi vede, che Ippocrate follemente riſpar miando le parole nel biſogno maggiore, le conſuma poi, ove non fa meſtieri; ma non una, o due fiate egli in ciò ſi vede fallare; e ſimigliantemente ciò, che ſi dice nell'ulti mo aforiſmo, fù detto già nel ſecondo;perchè egli vien giu dicato ragionevolmente vano, e ſoverchio da Galieno,che che fi dicano in contrario gli altri chioſacori:onde non è da farne più motto. Egli era sì agevole impreſa ad Ippocrate il dettar aforif mi, che lo immagino, che egli dormendo ancora ne com poneſle; imperocchè non ſolamente in queſta, ma in cuce ' altre ſue opere gliva egli ſeminando; e quelche più dej recar maraviglia ſiè, che ne reca alcuniegli ſovente, che colla materia, la qual ſi tratta non han punto che fare; ma quando di ciò lo vado ricercando la cagione, ritrovo da al tro una sì fatta agevolezza non procedere, ſe non fe dal ſuo poco intendimento, e dal non diſaminar lui bene le coſe; perchè fi verifica in Ippocrate quel faggio avviſo d'Ariſto tele, che coloro, che a poche coſe riguardano agevolmea te diterminano; e quindi avviene, ch'egli tratto tratto diſguiſato, econfuſo non ſerba ordine, o maniera alcuna, a guiſa de’noſtri Romanzatori, i quali di palo in fraſca ſem pre faltando, quando men s'aſpetra, rompendo il fil del ra gionamento ci laſciano, e d'alcro imprendono a ragionare. Malafciam Bradamante, e non v'increfca V dir, che così reſti in quell'incanto, Che quandoſarà il tempo, ch'ella n'eſca La farò ufcire, c Ruggier' altrettanto, Come raccende il guſto il mutare efca, Così mipar, che la mia iſtoria quanto Or quà; or là più variata ſia, Mero a chi l'udirà nojoſafia. Così il noſtro Ippocrate ora laſciando di favellar delle purgagioni,nelſecodo libro a far parole del ſonno trapaſſa, dieědo: il ſonno ove in alcuna malattia fia tormentoſo ne addita quella eſſer mortifera; ma ſe ſarà egli giovevole,ne fa avviſati non eſſer mortale. Egli l'ha indovinato certamente alla prima; e non veg giam noi tutto di trap.affar molti, emolti, che tempo del male piacevol ſonno agiatamente ſopiva: e allo incontro rimaner in vita altri, che nelle loro malattie da funcſtif limiſogni,o da altro aſpramente fur dormendo travagliatis Or non avvien quaſi ſempre nell'avanzamento dell’avute malattie, che gli infermi più moleſtia in ſonno, ch'in veg. ghiando patiſcono? e purnondimeno eſli per la più parte riſanano; oltr’a ciò le terzane, e tutt'altre febbri intermit centi fogliono il più delle volte con faſtidioſi ſonni gli am, malati sformatamente annojare: e pur le sì fatte,ſecondol' avviſo del medeſimo Ippocrate,non fon di riſchio veruno; e quantunque,per parere diGalieno, Ippocrate non intenda, di favellar de fonnida tali febbri avvegnenti, pur nondi meno era il diritto ch'egli l'aveffe apertamente ſpiegato, ne miga alla diſcrezion de'chioſatori, o de' lettori laſciato. Nel ſecondo Aforiſmo afferma Ippocrate, che ſe'l ſon no la farnetichezza raccheta, vada ben la biſogna. Ma che è ciò per Dio, ch'egli dice; Io vo conceder, che talor vaglia, ne vi ha chi il nieghi, ch'un placido, e ſoave ſonno valevole ſia una ſinaniante farnetichezza ad attutare: eche aver fano l'intelletto ſia coſa non che buona, maottima; ma ſe un sì fatto giovamento s'aveſſe altronde, che dal sô no, domine ſe ſarebbe male? e ſe ſarebbe ancor bene,ab biſognava certamente Ippocrate dir nell' Aforiſmo: buona coſa è, che i farnetici dal lor farneticare riſanino; e five drebbe ſenza fallo regiſtrata una dottrina nel divino volu medegli Aforiſmi da fare ſcorno alla concluſione di quel ſovrano collegio de’medicanti, la ove tutti conchiuſcro, che Mecenase non aveva ſonno, E queſt'era cagion,che non dormiva ”. Ma quanto meglio avrebbe fatto Ippocrate, e quanto Q92 con avanzaméto della medicina ſpeto avrebbe egli il tem po, ſe in vece delle sì fatte novelluzze aveſſe impreſo a rac corre, e a dimoſtrarne di quanto riſtoramento ne fia il ſon none come allettar fi poffa a recarne quelle tante utilità,on de ragionevolmente ilParacelſo ebbe a gridare: fomnus Jant um arcanum eft in medicina ut libenter ab aliquo fcire velim, abfit difto error, an, & qua medicina fit, quæ in omnibus morbis, tampræfens, & repentinumfit auxilium, adeoque corpori, acfanitati condueat æquè ac fomnus. Co sì col grave fafcio di penſieri ſogliono i malati laſciar an che i più oſtinati dolori della perſona, allorche luſingando loro le pupille il ſonno dolcemente gli abbandona in fule piume; laonde non ſenza qualche ragione l'autore dell'in no ad Orfeo attribuito,chiama il ſonno Re degli huomini, c degli dei Somnequies rerum,placidifſime fomne Deorum, Paxanimi, quem cura fugit,tu pectora duris, Feſa minifteriis mulces, reparaſque labori. Canta Ovidio; e Seneca Tuque à domitor Somne malorum, requiesanimi, Pars humanamelior vitae E'I Caſa O ſonno, o dela queta umida ombrofa Noite placido figlio, o de’mortali Egri conforto, oblio dolce de'mali Si gravi, ond'è la vita aſpra, e nojosa E'lTallo Padre Orche m'arde l'a febbre gorche'l vigore Vital m'invola il duolo acerbo, e rio, Col ramo: molle dell'onde d'obblio Torrai laluce agli occhi, ame l'ardore; ne altro rimedio ritrovò Erminia (appo il maggiore deno Itri Poeti ).a? ſuoi dolori,che'l ſonno Cibo non prendegià, che de'ſuoi mali Solo fi paſce, e för di pianto ha fete; Ma'l funno, che de'miſeri mortali E' coiſko dolce obblio poſa, e quiet thing Son. DelSig. Lionardodi Capoa 309 Sopš coʻfenfi i ſuoidolori, e l'ali Diffefe fuura lerplacide, e chete. Ma comechè ciò fia vero, pocomontava a noi certame te il faperlo, fe non fappiamo inſieme chenti, e quali ſiano irimedj daciò operare;perchèdovea certamente Ippocra te diviſare inſieme degli argomenti, onde a’malati ſi può chiamare il ſonno; e comechèoſtinato ingannarlo: e non folamente dire cheil ſonno approdi a corali infermi. Ma forſe lo vado errato; perciocchè non fo com'egli il pur rivelò af fuo Signor de la Sciambre, e fe, che colui n'in fegnaffe i ſentimenti di lui, o per fua dappocaggine, o per la ſua natural mutolezza in prima naſcoſi: conciofoffe co fa, che chioſandocolui queſto ſecondolibro, ſcritto aveffe: nel titolo: nova ratioexplanandi aphoriſmos Hippocratis, per quam uſusaphoriſmorum ab Hippocrate intenti, nec ta. mea conſcriptireperiuntur. Econ queſte magnifiche pro. meſſe venendo egli poi al poſtro Aforiſmo, dice per fenté za d'Ippocrate: ad praxim revocabitur hæc prognofis, ſiis ejufmodi effe&tibus appoſitis remediis fomnus concilietur. Ma prima,chc a lui ne diè la curaIppocrate alParacelſo d'avvi ſarlo, il quale nelle chioſe del derro Aforiſmo diſſe: Som nifera quomodocunqueea vocentur àquolibetmedico fummo perè conſideranda Junt; fomnusenim medicina ef ſuperans omnia arcana gemmarum ', cu lapillorum pretioforum. Qui Natura Arcantfomniferumexconvenienti effentia desīte ptum,rectè applicare novit,is magni apud ægrotosfaciendus eff. Non igitur folum defomnisnaturalibusHippocrates bic loquitur,fed oportet ut euminrelligatis, fcut medicum ex pertum, qui ex fpiritu medicina locutus eft, non ut Humori Ba, qui ignorat quid fit fomniferum,fed ut artifex. Mache mivo Io più nel farnerico degli Aforiſmi d'Ippocrate lun gamente avvolgendo, i quali di sì picciola levatura ſono, quára per noifin'ora s'è accénata. Vegga pur chiunquecó animo tranquillo, e ripofato, e veramente da filoſofo daw niuna paſſione imbardaro, e'sì gli giudichi cutti, e ſottil mente gliſtacci, cheſenza troppa fatica logorarviagevol mente ritroverà eſſer i rimanenti tutti della medeſima va glia diquelli, che fin quì diviſati abbiamo:eche malamē: te allogata abbian l'opera in affibbiarvi tante chioſe, eco mentiſopra,i noſtri medici, mallimamente il narrato Signor della Sciambre, il quale lo non sò con qual arte s’indovis ni, e a noivoglia comunicar corteſemente ciò che Ippo crate avea intenzione di dire, e'l racque ſolamente per ri ſerbare al ſuo valoroſo ſegretario la gloria d'una sì magui. fica impreſa. Ma ſe bene Ippocrate detto veramente aveſ ſe ciò che il Signor della Sciábre diviſa, e pretende aver il maeſtro a bello ſtudio tacciuto, gran coſa pur cgli non fa rebbe, come ſi può ſcorgere nelle ſue chiole. Ma incom portabile certamente, e' mi pareil Signor de la Sciambre, Aon ſolamente, perchè in ogniaforíſino coſtantemente egli afferma queſto, o quell'altro aver Ippocrate avuto in men te di dire,ma eziandio, perchè talora in materie chiariffime ci vuol'egli far vedere per roſſo il giallo, ficome quando p ſoftenerche'l, ſuo modo di medicare non travii dagl'inſe gnamenti d'Ippocrate, vuol farne a credere colui aver avu to in animo, che ancora fuori del gonfiamento le crude materie vuotar fi debbano; error,che in verità non mai gli porè cadere a niun modo in penſiero. Or ſe la potente faſcinazione dellepaſſioni non aveſſe magagnate le menti de'chiofatori, eglino ſiſarebbono, fe lo diritto eſtimo, da per ſe del poco, 0 niun valore del volume degli Aforiſmi agevolmente avveduti, almen per quelli che perentro ma nifeſtamente falfi vi s'avviſano; intanto, che ne meno il tanto parzial d'Ippocrate Galieno, e altri ſeguaci di quel lo gli han voluti torre a difendere. Ma comechè cotanto imbardato fi moftri Galieno delle dottrine d'Ippoctate pur egli falſo a cento, c mille pruove confeſſa apertamente ayer lui ritrovato quell’Aforiſmo, il qual dice, che ſe mai la rete efca del ventre fuori, abbia di neceſſità a infracidire. Machi falſo parimente non ravviſa quell'altro, ove inten de Ippocrate didarne certi ſegnali da conoſcer le donne in cinte, dicendo; ſe conoſcer tu vorrai quando la femmina gravida ſia, innanzich'ella vada a coricarſi, dalle bere la mulla, e s'ella ſarà moleftata da’dolori del ventre, di certo, che ſarà gravida: ſe nulla ſentirà ella nonaverà concetto.E fe l'aforiſmo è falſo, abbiſogna anche dir, che in vano ſi becchiil cervello Galieno per recare la cagione, perchè abbia a farſi dopo il definare cotal operazione; è falſo diſ fe Avicenna,chedell'error dell’Aforiſmo in parte s'avvide, che tal fatto avvenga a quelle donne, che non hanno in co ftumetal beveraggio; imperocchè a quelle donne, le qua li per addietro non mai l'aſſaggiarono, o gravide, o non, gravide, che ſiano elleno, foglia talora la mulla dolori di ventre cagionare: il che avviene ancora dalla mulla com, poſta coll'acqua piovana, della quale alcuni immaginano aver Ippocrate favellato. Falſo pariméte ſcorgeſi l’Aforiſ mo, che mortale ſia a donna gravida ogni acuta malattia. L'Aforiſmo, di cui meritevolmente dice il Santoro: ne, mofana mentis defenderet hunc aphoriſmum: cioè, che co loro, de'quali l'orina è fabbionoſa abbian la pietra nella veſcica, che che a difeſa d'Ippocrate il Zecchi ſi dica, egli è così apertamente falfo, che Ippocrate medeſimo altrove lo rifiuta, e ripiglia fortemente alcuni antichi medici, che ciò dicevano · Galieno ancora avvifa la ſua falſità, e dice eſſer errore d'Ippocrate, o dc'copiſti, e che l'Aforiſmo do vea dire, o nella veſcica, o nelle reni; ma con cutta que fta aggiunta di Galieno, falſo altresì tutto di egli ſi ſperi menta.e Girolamo Cardano nelle chiofe,dice lui ſteſſo per lo ſpazio di trenta anni aver avuto l'orina ſabbionoſa, ſen za aver avuta mai menoma pietra, o nelle reni, o nella ve fcica. Soggiugne oltre a ciò, che di dieci perſone appena che una additar ſe ne poſſa, che non abbia l'orine ſabbjo noſe: e pure rari fon coloro, che han pietre nelle reni, e radiſſimi coloro, che l'han nella veſcica. E oltre a ciò egli racconta, che gli Spagnuoli poco men che tutti fan l'orina ſabbionofa, e nondimeno pochiſſimi vi ſono infra loro, che patifcano il mal della pietra. Ma non menofalſo è quello altro aforiſmo,che'n bocca de’medici tutto di eſſer veggia mo,cioè,che que'febbricofi,i quali fan corbida l'orina, qua le è quella de giumenti, o hanno attualmente, o auranno di preſente dolor nel capo. E quell'altro, che a coloro, a ’ quali nelle febbri ogoigiorno viene il rigore, ogni giorno le febbri ſi tolgano. E quell'altro, di cui Giulio Ceſare della Scala, così a Girolamo Cardano ragiona: nequemés ægrotat, ut falfo voluit Hippocrates, cum dolorem, quo cru ciamur non ſentimus: comechè non vera ſi trovi la ragione, checolui poi ne recà ſoggiugnendo:fed quoniam dolentem ad locum fubfidii ergo diſtracti ſpiritus non repreſentantur, imaginationi. E quegl’aicri, ch' alle femmine, alle quali corrono imeſtrui,e agli Eunuchi,non mai vegna loro la po dagra. Maquale ſciocca femminella nõ riderà ſtrabocche volmcntc in udendo quell'aforiſmo, che i malchi per lo più s'ingenerino nella parte deſtra della donna, e le fem mine nella ſiniſtra? E di quell'altro, che ſe la donna aura conceputo maſchio, ſi vedrà ben colorita in volto; mares avrà conceputa femmina, farà pallida; e di quell'altro: ſe una donna non ſarà gravida, e vuoi ſapere ſe concepirà,co prila bene con panni, e di ſotto adopera ſuffumigji e feľo dore per entro il corpo vedrai, che vada alla bocca, e alle nari, ſappi, che per ſe ella non è ſterile. Taccio altri, altri aforiſini intorno alla medicinal materia, che fan vede re, che Ippocrate poco avea che fare certamente quando fcriveva un tal libro, ſe vi pone sì fatte fraſche, che ſe ben vere elle foſſero, non però di meno non ſono tali, che debu ban regiſtrarſi in un'opera nella quale intende Ippocrate inſegnare le più ſegrete coſe dell'arte. Ma ad altro facendo paſſaggio: già noi veduto abbiamo quanto poco Ippocrate intelo foffe della natura delle co fe pertinenti alla medicina; ma ſpezialmente anche ſi pa che niente fi fu egli certamente ſcorto della ſto ria delle parti del corpo umano, e degli ufici di quel lc, e del modo, col quale adoperano, come ogn'un può ſcorgere in tutti i ſuoi libri, che non fa meſtieri, ch’lo ne faccia parola. Solamente narrerò, come per ſaggio dell' altre coſe, ſicome intorno a ciò filoſofi egli una fiata, di cendo, che quelle parti, che ſono ampie nel ventre, e ftret te nella bocca, com'è la veſcica, il capo, e lå matrice, ſon fatte per attrarre, eche apcrtamente queſte sformatamen re, 1 1 1. te tras 1 i ; te traggono, e ſon pieni degli attratti umori; ene reca per ragione il vederſische colla bocca aperta nulla ſi trae, e che fporgendoſi in fuori poi, e ſtrignendoſi le labbra, e adata tandovi una fiſtola,ſi trae agevolmente ciò che ſi vuole, e che le ventoſe, le quali ſogliono appiccarſi per attrar re dalla carne, ſiano ampie nel ventre, e ſtrette verſo la bocca; ccco le fue parole: Το μειο ελκύσει εφ' εαυτό, και έπεσα σας υγρότη εκ τέ άλε σώματG-, πότερον τα κοίλα π, και εκπτ. παμύα, ή του στρεά της και τρο/γύλα, και του κοίλα τε, και ές στνον εξ ευρές. συνη μία, δύναιτ' αν μάλιστα, οίμαι μύτσι τα τοιαύτα εις ενόςσυγγ μένα εκ κοίλε ε, και ευρίG-' καζ μανθάνειν δε δεί αυτα έξωθεν εκ τω. φανερών • τέτο με γαρ,τησόματι κεχίωώς, υγρόν δεν αναστάσεις προσμελήναςδε, και συσείλας και πιέσεις τε τα χίλεα · έτι τε αύλον ποθέ. μυς, ρηιδίως αναστάσεις αν ό, τι θέλας • τούτο δε, αί στκύαι ποζαλό μίμαι εξ ευρές ως πνώτερον ενενωμέναι πες τούτη τεχνέαται, προς το έλκαν από της σαρκος, και επιστά αλλά και πολ α τοιούτοςοπα · των δ ' έσω του ανθρώπς φύσης, χήμα τοιούτον• κυρίς τε, και κεφαλή, και υπέ es γυναιξί - και φανερώς αύτο μάλιαάλκει και πλήρεςέπν επαρκτα υγρό Tuloi aici. Non occorre, che Io mi dia briga in diſaminar si fatte fanfáluche, potendo ogn'ın per ſe medeſimo ravvi fare, ſolamente in udirle ſoluna fiata, che contengono più errori, che parole. Egli vuole, che la veſcica tragga l’o. rina; il che tanto è, quanto s’un diceffe,che'l letto del ma re tragga l'acqua da'fiumi;e'l medeſimo dir ſi puote del ca po, e della matrice. Ben ſi pare poi, ch'egli ignorimolte di quelle ſtrade, per le quali le diſcorrentiſoſtanze ſi por tano in diverſe parti del corpo. Ma egli è diſadatto l'eséplo della bocca, e delle ventoſe, comechè egli pur ſi cõcedeſſe, ch’elleno adoperaffero per traimento, ficome fin ' a' dìno ſtri han follemente creduto, e inſegnato le ſcuole; ma qual maraviglia, che ciò Ippocrate aveſſe affermato, s'cgli ſcriſ ſe ancora nel libro della natura del fanciullo, che lo ſpirito caldo tragga a ſe lo ſpirito freddo, e ſe ne nutrichi: Távce δε, σκόσα θερμαίνεταικαι πνεύμαέχει το δε πνεύμα ρήγνυσι, ποιέει οι οδον αυτ έωυτώ, και χωρέσα έξω · αυτό δε το θερμαινόμενον έλκα ες έωυτο αύθις έτερον πνεύμα,ψυχρόν δια της βαγής, αφ' και τρέφεται. Νce vero cioche diccAndrea diLorézc, cheIppocrate ſapeſſe títo dinotomia Rr quanto gli faceva luogo per la medicina; concioſliecolache dubitar non ſi poſſa,che molte, e molte coſe di notomia, che neceſſarie séza fallo ſono alla medicina razionale,igno te affatto gli foſſero; imperocchè, per tacer d'altro,cgli è certamente neceſſario a quella il conofeer chenti, e quali fieno i movimenti dell'arterie, le itrade del chilo, l'aggira mento del ſangue, la fabbrica, e gli ufici delle giandole, e altre, e altre molte coſe, delle qnaliniuna conrezza ebbe egli giammai; nondimeno avvegnachè queſte, e altre co Scaffai, pertinenti alla medicina ignoraffe Ippocrate, non ſi può negare, cheegli molto nous'avanzaffe ſopra tutti gli altri medici de'ſuoitempi, per quel, che noi fappiamo, il che da altro certamente non nacque, che dal talento natu Tale, che egli ebbe adatto aſſai al ineſtier della medicina, il quale ajutò egli, e accrebbe ſommamente in coltivan do oltremodo quella parte alla medicina, molto neceſ faria, qual è ſenza fallo l'offervazione; e nel vero Ippocra te fu un curioſo oſſervatore; perchè ebbe a dire di lui Ga lieno, ch'egli affai più coſe colla ſperienza, che colla ra gione conoſceſſe; e il meglio certamére avrebbe fatto egli, le trafandate tutte altre biſogne, a queſta ſola inteſo ſem pre aveſſe; e ſenza ad altro inframmetterſi aveſſe folamen te narrata la nuda, e femplice ſtoria intorno agl'infermi da lui medicati; ma nondimeno non ſi ſcorge aver egli tanti felicità nell’ofſervazioni Ippocrate, che, o per poca dili genza, o per alcro, che ſi fia egli ſovente non inciampizma quel, ch'è peggio, anche talora in coſe agevoli molto ad offervare e fallare ſcioccamente ſi vedese ciò ch ' e'nenar ra, ne men per avventura il direbbe un rozzo, ed ineſperto huomo dicontado. Ma in quella parte poi della medicina, ch'alla dieta ap partiene egli li portò nel vero così bene Ippocrate, che niu na cofa par che glimanchi; e di certo e' ne meriterebbe una grandiſſima loda, ſe queſto medeſimo non faceſſe aperta mente conoſcere, ch'egli ſtato foſſe molto manchevole, e difettoſo in quel, che più propio, e neceſario egli è in me dicina, e in cui conſiſte, ed è riporta l'eccellenza, anzi l'cf fere tutto del medico; cioè nella concezza de'inedicamen ti: maſſimamente di quelli, che tali veramente ſono, e che da’moderni, ſpecifici chiamanſi; i quali ſenza cagionar ne vacuazione, ne movimento altro niuno han virtù d'eſtin guere il male, e riſtorar l'infermo; ina comechè in ciò affai mancaffe Ippocrate, purebbe egli tanto intendimento,che ne'mali acuti della ſola dieta per lo più ſi valſe, rade volte adoperando i vuotamenti, come colui, che ben conoſceva, ch'eziandio con yuotare gran quantità d'umori, le malat tie per lo più ſi mantengano nel loro vigore. Ma che poco foſte inteſo de medicamentiſpecifici Ippocrate, ſipareaper, tamente da chiunque ſi da cura di legger i libri degli Epi demj, ne'quali ſi veggon le malattie ne'terminiloro fatali, o in bene,o in male eſſere oftinatamente terminate; c alcu. na fin’al centeſimo giorno eſſer durata. Si ſcorge ancora ciò nelle medicine, le quali egli adopera, come quelle che pericoloſe ſono, e poco efficaci, come ſono infra l'altre ch' Io taccio, comea tutti conoſciute, le cantarelle, di cui egli ſi vale temerariamente in verità nell'Idropiſia,e in altri ma li dando cinque di effe, e togliendone ſcioccamente il ca po, i piedi, e l'ali, che potrebbono in parte rintuzzare il lor veleno; e racconta Galicno, ch’un medico per ciò aver yo luto fare aveffe ucciſo miſerevolmente un'infermo; ma tã. to e' ſi compiacque di sì beſtial medicamento Ippocrate, che con peffimo conſiglio e' vuol, che le cantarelle ſi met tano entro la matrice per vuotarla de’malvagi umori; ove pone egli in opera ancora l'Aglio, il Pepe, e la Sandaraca, la quale,comemoſtra il Mattioli, è una ſpezie d'orpimen to velenoſo corroſivo, cd altre, ed altre cauterizzāti medi cine; il che volendo ſcioccamente un medico de’noſtri tem pi parzial molto d'Ippocrate una fiata iinitare, riduſſea, pèſſimo ſtato una povera inferma.Neper altro,che p máca méto ď' efficaci medicine nell'interne infiamagioni ſegnar ſuole Ippocrate fin allo sfinimento; c quel che ſi è il peg gio, e Galieno malagevolmente il comporta contro le ſue medeſime regole,nella pleureſi,ſe nelle parti interiori ſi ſtea da il dolore, ſolve egli il ventre coll’elleboro, e col peplio, Rr 2 Ma chi voleſſe annoverar le mal preparate, violcntise veler noſe oltremodo, c ſtrabbocchevoli medicinc,che ſuol por re in opera Ippocrate, elle ſon tali, chei medeſimi ſuoi fee guaci meritevolmente l'han poſte in miſuſo. Ne per al tro parimente egliconfiglia, che la febbre non s’abbia a mi tigare nella punta, per fette giorni, e ſi debba dar largamé, te bere,o aceto co mniele, o aceto con acqua: Ineueſten we xex άσθαι ή πυρετόν μη παύεινέστα ημερέων ποτέ δε χρήσθω,ή οξυμε aixpýtw,vi šče xzi üfatı:oltre a ciò ſoggiugne egli poco ap preſſo,che nel quinto, e nel ſettimo giorno ſi debbano por re in opera gagliardiflimemedicine da ſpurgare ben bene il petto,acciocchèil ſettimo giorno menmoleſto all'infermo poi fi faccia fentire: και έτι τή αίματη, και την έκτη ισχυροτύτοιστ χρέεσθαι τσιστν επαναχρεμπτηeίοισι φαρμάκοισι, ως την εβδόμην δια jnásoe spegno dydyn. Ma da queſto,e dal non eſſer ben lui ſcor to dell'altre coſe della medicina naſce il peſſimo conſiglio, ch'egli da al medico:che non avédo egli contezza del male adoperar debbamedicine,manon molto gagliarde; e ſe co un tal argométo ſcemerà il male,gli addicerà,che curar e'l debba coll'aſciugare; ma ſe'l male non ne ſcemerà, e ne di verri piti graveil citrario fardovrafi: Τών νουσημάτων,ών μη επί 5ηταί τις, φάρμακον είσαι μη ισχυρό,. ήν δε ράων γένηται, δίδεικται «δος, εύπεπιέον έσιν ισχνάναντα • ήν δε μη ραων ή, άλλα χαλεπώτερον Xu tavavila. Dalle quali parole, e da quel che indi appreſſo edice apertamente ſi ravviſa aver Ippocrate voluto in tendere, che il medico,non ſappiendo qual male l'infermo paciſca,fi vaglia delle purgative medicine; e che altro per Dio avrebbe mai potuto Maeſtro Simone nello ſtudio di -Bologna a'ſuoi ſcolari infegnare Magli ſcherzi laſciádo, intorno a ciò certaměte parmi più faggio aſſai il coſiglio d ' Avicenna, il quale vuole,che il medico no conoſcêdo ilma Ic, altro farnon debba, ſalvo che preſcrivere all'infermo una rigoroſa dieta, e intáto ſtar cauto, cariguardo per po, ter quello per qualche ſegnal fotcilmente avviſare. Ma della fuadebolezza ben avvedutofi Ippocrate, per guadagnarſi il buon nome, ſeguendo egli il coſtume degli alori medici, cheabbiamonarraci, coll'arti, e colle giun, 1 terie Del Sig.Lionardodi Capoa. 317 terie ricoprir cercolla, perchè diede opera grande agli arr tivedimenti, e ne ſcriſſe molti libri; ne per altro cgli com pole ancora illibro degli inſogni; opera ridevole allai nel vero, la qual ſembraverainente fatta per huon, che lo gnando færnetichi; perchè mi maraviglio forte della follia di Giulio Ceſare della Scala, che ſi diè briga d ' appiccar gli sù un comento. Divulgò altresì Ippocrate per la me deſima cagione quel celebre ſuo ridevole giuramento, in cui no lo lo fe più ammirar ſi debba la ſua ſciépiezza, o law fua malizia. Quelle cofe, ch'e' giura Io non le reco; ma ben può ſcorger ciaſcuno,che elle vi ſono poſte tutte per farlo credere huomopio, e divoro, non altrimenti, che Ser Ciappelletto per la ſua falſa confeſſione. Ma nientedi meno non furono baſtevolitanti se sivarj artificj, ch'egli non cadeſſe dalſuo buon nome, e che, come egli mede fimo confefſiz, più biaſimo affai,che gloria dal mcdicare e ’ no riportaſſe;ilche non ſolamente gli avvenne,permio av viſo, dal non aver lui avuto niuna contezza di nobili, e va loroſe medicine, per le quali egli in pregio montaffe,e l'ac quiſtata gloria e' non perdeffe, qualora in qualche finiſtro accidéte in medicãdo incorreſſe; ma ancora dal coprendere aſſai bene Ippocratc, ammacſtrato dalle ſue continue of ſervazioni, i viluppi, e l'incertezze della ſua arte, e qua to poco ſia il frutto, o'l giovamento, che poſſa da'ſuoi ar gomenti huom ritrarre; perchè egli ſcarſo anzi che no mai ſempre fu d'imporre ne'mali acuti que'rimedi chegrā di chiamanſi da'Greci; temendo oltremodo di ciò, che age volmente ſeguirne poteſſe; ne coſtumava egli, come ab biam veduto, trar ſangue nelle febbri, ſe non fe quando ſcorgevale da grandi, e interne infiammagioni accompa gnate: ne purgar coſtumava, ſe non ſe molto di rado, e nel cominciamento ſolo de'mali acuti; perchè n'era talora ol tremodo biaſimato dalle genti minute, le quali giudica vano, comechè grave foffe, e di riſchio il male, eſſerne nondimeno piggiorato l'infermo, ſolamente per la tra. ſcuraggine, e manchevolezza del medico che non ci avel ſe al tempo con valevoli purgagioni, e con replicati falafi fatto riparo; ſıcome la ſciocca rubaldaglia deʼmedici allor forſe avea per coſtume; i quali in ſomiglianti malattie mol ti, e varj medicamenti,ficome egli narra, adoperavano, non altrimenti, ch'or ſi facciano poco men, che tutti i Ga lieniſtide’noftritempi. Cosìnella paſſata ctà videroi no. ftriantichi con biaſimi di traſcuragginc indegnamente ol traggiato, o proverbiato maiſempre Proſpero Marziano, e prima di lui anche GirolamoCardano;i quali ſaggi,e avve duriſſimieſsédo in gir dietro ad Ippocrate le medeſinc tac cc del lor maeſtro agevolmére ſi guadagnarono.E a' tempi noftri abbiamo pure uditi i brôtolaméti, erimproccjcutto di ſcagliati a Paulo Emilio Ferrillo, per eſſer lui nelle febbri dal preſcrivere le purgagioni ritroſo; e indi a poco acerba mente cffer proverbiato Diego Raguſi, perciocchè nel ſegnare, e nell'uſare le purgative medicine fedelisſimo ſe guace d'Ippocrate, e del Marziano ſi dimoſtrava, ne mo riva giammai infermo, chenon ne veniffe loro rimprove rata la dappocaggine, e traſcuratezza d'aver colui ſenza gli acconcj medicamenti miſeramente laſciato morire. Com tanto il non operare ſecondo la folle opinione del cieco vulgo, grave crrore, e biaſımevole ſempremai fi giudi ca e; maggiormente allor, che no li ficgue ciò, che comu mente dalla traccia de' menovili maeſtri coſtumar ſi ſuole, 1 1 RA 319 1, des S É ſtanco, c anſante pellegrino, cui lunga, e faticoſa ſtrada ancor rimane, acciocchè pofla gli ſmarriti ſpiriti rivocando, al fine diterminato agiatamente pervenire,or in ombroſa felva al canto di piacevole uſi gnuolo s’arreſta,or indilettevol poggiore fpirãdo fi ſiede,or lūgo la riva d'un qualche fuggére, e chia risſimo fiumicello ſi slaccia or in un pratello di freſchiſ fima, e minatiffimaerba ripieno, e di vaghi fiori,dolceme te ripoſa; e ſe Natura rizzare, e ſparger volles come huom crede, in mezzo agli fpaziofi campidel inare tante, e tante Iſole, acciocchè quando a'Soli più tiepidi s'accolgono,ri trovaſſero agios e poſa ne'loro lunghiſſimi voli le varies tormedegli uccelli; ragionevolmente dobbiam noi, o Sig. poichè sì dura, e malagevole imprefa di dover ragionādo traſcorrere le ſcuole de più famoſi medici abbia già comin ciata ragionevolméte dico dobbiam noi talora interrāpédo i noſtri lúghi ragionaméti préder nuova lena; e táto più, che vie più ſghembo, e inviluppato ſentiero di quello, chedie tro n'abbiam laſciato, orci ſi fa innanzi; imperocchè ab } biano, ficome avere potutofin'ora comprendere, piena mentediinoſtro,ſe'l mio avviſo non m'inganna, a quanto mal riuſciſſe a coranti valene'huomini il volere alcun fifte ma di razional medicina ſtabilire; e fornigliante di molt’al. tri appreſſo andrein diviſando;avvegnachèa trattar dico ſtoro aſſai più grandemalagevolezza s'incontri; imperoc chè di loro opere nulla a' noſtri tempi non ſe ne ſerba, e quelle poche, e intralciate memorie, che di eſſe abbia mo, maffimamente appo Galieno, o poco, o nulla n’appro dado a farne diviſar di loro dottrine; imperciocchè quel buon huomo, tra perchè non l'intendeva, e anche, perchè vezzatamente ſtudiavali d'oſcurare, e porre a fondo ogni lor fama, e gride, cosìſconce,o travolte le ci narra talora, che a gran pena illor intendimento ſe ne può ritrarre, Ma comunque ſia la biſogna, Iomiargomenterò ſecondo mia poffa d'illuſtrar quanto poſſibil fia i loro ſentimenti e la lor dottrina ſtacciando, ſeguitar la coſtuma del noſtro im preſo diviſamento. E tralaſciando quì in primadi far parole d'Apollonio,di Diſippo, e d'alcun' altri ſcolari d'Ippocrate:i quali per va rj, e diverſi ſentieri avviandoſi, a varie, e diverſe altre ſet te di medicina dicder principio: come di quelli,de qualial tro non ho che dire, ſe non che alcuni di loro vennero ini vituperevolguiſa crattatida Eraſiſtrato: darem comincia mento dal famoſo Diocle. Dico adunque, ch'e' fi puòbé ammirare, e commendare la ſua grandiflima corteſia, o umanità veramente ſingulare, colla quale, come teſtimo nia Galieno,uſar ſolea con gl'infermi; ma tion già la ſua dottrina, eſſendo molto rare quelle notizie, che a noiper venute ne ſono; ſi legge nientedimeno ancor oggi una ſua cpiftola del inodo del conſervar la ſanità, dove permio av viſo non ha coſa per cui meriti egli quelle ſomme lodiche dagli ſcrittori, e particolarmente da Galicno sfoggiataméte inveſtire gli vengono; nesébra punto chesì fatta piſtola Gia degna di quel ſapientiffimo Principe, al quale ella è fcrit ta; vi ſi ſcorge tuttavia, che Diocleera aſſai vago dell'A ſtronomia, e che ben poco egli gradiva le compoſte medicine, e che non moito gli erano a cuore le purgagioni. Per quel poi, che di lui vada dicendo Galieno, egli ha Dio cle per fondamenta del ſuo ſiſtema il caldo, e'l freddo, e'l fecco, e l'umido; de'quali i due primi,agenti, e gli altri pa zienti e' vuol, che fieno. Dottrine, che quanto dal vero modo di filufofare vadan lontane, altra fiata avendone lo fatto ſermone, non fa lungo, ch'al prefente più il dimoſtri; ma comechè Diocle d'altiſimo intendimento, e ben acco cio al filoſofare ſi foſſe, non però di meno, o per manca mento di maeſtro, o di guida, ch'al diritto fentiero l'avel fe fcorto, o per altro, che ciò operato aveſfe;ſconciamente laſciandoſi trarre a’hiſicofi impigli della dialettica, sì, e tal mente bambo, e ſcempiato ne divenne, ch'oltre a' già detti crrori, impreſe a foftenere, non eſſer altrimenti il ſu dore, vuotamento naturale;e quantunque a Galieno ſem braſſer molto probabili fue ragioni, nondimeno da colui, come troppo durauna talopinione, e come ripugnante, e contraria all'evidenza de'ſenſi vien forte bialimata, e rifill tata. Ma quanto molto poco in filoſofando in medicina egli s'avanzaffe Diocle, chiaramente il ci da egli medefi mo a conoſcere, quando favella della malattia ipocondria ca, di cui un libro ben'intero e compofe, il quale ſcëpia to, emancheyolc ftimnafi per Galieno; ma che che nedica colui, degno certamenteini pare di grandiflima foda quel libro; imperocchè ci fa vedere il fuo componitore eſſerfi molto ben avveduto della incertezza della medicina, da che tutto ſoſpettofos e rentonc e' ſempre ſe'n va in con ghietturando le cagioni delle maraviglioſe, e ſtrane appa senze di quel male. Dice infra l'altre coſe in quel ſuo libro Diocle,doverſi fo ſpettare in coloro, che ſon travagliati da’mali ipocondria ci, non quelle venc, che ricevono l'alimento dal ventrico lo, abbian aſſai più calore del convenevole, e'l ſangue in effo loro ſia più groſſo aſſai divenuto; concioliecoſachè cerca coſa ſia le menzionate vene eſſere in quelli oppilate i edice ciò argomentarſi dall'alimento, ch'al corpo accon ciamente non ſi diſtribuiſce, e nel ventricolo, indigeſto ri Sf inane;mane; quando davanti per li meati ſi ricevea,e per la mag gior parte con agevolezza s'avvallava al ventre, come dal vomito poi manifeſtamente s'avviſa, quandoil giorno ap preſſo così guaſto ſi rece, per non eſſerſi diſtribuito al cor po il cibo; mache'l calore in sì fatti infermi fiz più del na turale ſoverchievole, agevolmente fi ravviſi, così dall'in focamento, che a loro avviene, come da quelle coſe,che anche lor li danno; imperocchè giovevoli eglino ſperimé tano i cibi freddi, i quali ſogliono certamente rintuzzare, e fpegner in parte il calore: τες δε φυσώδεις καλεμόες, υπολαμ. βάνειν δεί πλέον έχειν το θερμόν του ποσήκοντG- εν ταις Φλεψί Gίς εκ της γασρος την κοφίω δεχομλύαις · και το αίμα πεπαχιώθαι τούτων δηλοί γαρ ότι μου έσι έμφeαξις περί ανώς τις φλέβες τω μηκαταδέ χεθα το σώμα την τοπίω · αλ' εν τη γασρί διαμένειν ακατέργασον» πρό τερον των πόρων τοίχων αναλαμβανόντων, τα δε πελα αποκρινάντων ας τω κάτω κοιλίαν και το τη δευτεραία εμών αυτες έχ υπαγόνων ας το σώ. μα των στίων · ότι δε το θερμόν πλέον εα του καιτου φύσιν» μόλις αν της κατανοήσσεν, έκ τε των καυμάτων των γινομένων αυτούς, και της ποσ φοράς • φαίνονlαι γαρ υπό των ψυχρών όφελούμενοι σιτίων•ταδε πιανα το θερμόν καταψύχων, και μαραίνουν σωθεν. Soggiugnc indi appreſſo Diocle, che affermino al cuni eſfer infiammata in sì fatto male la bocca dello ſto. maco, la qual s'uniſce con gl'inteſtini, e per la infiamma gione quella parimente oppilarſi, e vietar, che i cibi non calino giù agl’inteſtininel tempo opportuno, e ſtabilito; perchè dimorando i cibi poi,oltre alconvenevole nello ſto maco,cagionino igonfiamenti, e'l calore, e l'altre coſe tur te, che menzionate per lui in prismafi fono: Λέγεσι δε πνες επι των τοιούλων παθών ή σόμα της γασρος το συνεχές των εντέρω φλεγμαί ΥΑν, δια δε την φλεγμονίω έμπε πξάχθαι, και κωλύειν καταβαίνουν τα σιτία ας το έντερον τοϊς τεταγμένοι χρόνοις· τούτα δε γιγνομένα, πλείονα χρόνο του δέον- έντή γατε μένονά, τους πάγκες παρασκευάζει,και τα καύμαζ, και τ' άλατα πποειρημένα, Egli vien Diocle ripigliato da Galieno, perchè infra le tante coſe, ch'egli in mezzo produce, del timore, c della triſtezza, che propie ſono delmale ipocondriico, e'punto non favelli, ma Galien medeſimo diciò poi lo ſcuſa, fog giugnendo dallo ſteſso nome del male farli ciò manifeſto, impertanto Diocle non averne fatto menzione; ma nondi meno a Galieno non diſpiace la maniera del filoſofa te di Diocle intorno a ciò;maſolamente forte fi maravi glia, dicendo eſſer una quiſtione degna da fare, perchè non abbia Diocle recata la cagione, per la quale in sì fat to male venga la mente offeſa:masì fatta quiſtione, s'egli vi aveſſe poſto bé méte, nó gli era molto agevole a folvere; imperocchè ragionevolmente nel vero non volle darſi bri ga niuna Diocle di produrre in mezzo coſa,qualegli non avea avuta fortuna d'inveſtigare: nel che avrebbe certame, te il meglio fatto ad imitarlo Galieno, il quale così ſcon ciaméte ebbediciò a filoſofare, che meritòd'efferne acerba mére proverbiato,e deriſo da’luoi medeſimi parziali. Ma noi laſciādo da parte ſtare Galieno,diciamono molto bene nel vero aver de'maliipocondriaci filoſofato Diocle; cõciof ficcofachè in priina, per tacer d'altro,non continuo ſi avviſi ſmoderato calore nello ſtomaco, o nelle parti vicine, ma talora fredde ſenſibilmente ſi ſcorgano in coloro, che pa ciſcono sì fatto male; perchè convicn certamente giudica re, che'l calore quandunquc in lor ſi trovijalcro non ſia, ſal vo che un effetto del male medeſimo; la qual certezza fal fa apertamente ne fa conoſcere l'opinion teſtè rapportatas da Diocle, di coloro iquali ſtimavano cóſiſter sì fatto ma le in una infiammagione, o altro ſimile della bocca del Pi loro. Gli argomenti poi, che reca Diocle per far pruova della ſua opinione quanto deboli fieno, e fallaci, non fa meſtieri, ch'lo dica; concioltecofachè ogn’un per ſe ſteſ ſoconoſcerpuò, che da cibi, chefreddi egli appella,ſovés te ſaccrefca oltremodo ilmale, comechè talora ſembrich ' cglino lo mitighino in qualche parte, col rintuzzar la mor dacità de'ſughi secol reprimere la ſtrabocchevol lor fora mentazione. Chi poi ben riguarda alla fabbrica, call'ufi cio delle vene, le quali picciole nelle loro boccucce ſi van tratto tratto allargando, perchè acconce, e valevoli firé dono a ricevere più agevolmenteil ſangue, s'avvede inco tanente quanto dal ver ſi diparta la ſentenza di Diocle,co tanto cómendara, e tenuta in pregio dal vulgo de medici, SI 2 che le che le vene meſeraiche ſi poſſano oppilare. Ma fievolej molto certamente ſi pare l'argomento, onde provar imma gina Diocle eſſer negli ipocondriaci le vene meſeraiches: oppilate, perchè l'alimento al corpo in lor non fi diſtribui ſca: imperocchè dovea Diocle conſiderare, che non diſtria buendofi l'alimento al corpo dell'animale,non guari dité. po egli in vita durar potrebbe, e chemolti,e molti ipocó driaci, anche forti talora, e vigoroſi fin’all'ultima vecchiz ja veggionſi tutto dì pervenire; falſo adunque ſi è ciò chè di loro va filoſofando Diocle; ſenzachè ben chiaro ognun vede la parte più ſottile dell'alimento,qual è quella la qua. P le vene meſeraiche,com'egli ſtima al corpo li diſtribui fce, continuo trapelare, e diſcorrere agl'inteſtini, avvegna chè la parte di luipiù groſſa nello ſtomaco rimanga. Mavi dovea altresì por mente, e inveſtigar Diocle, onde avve gna, che'l cibo nello ſtomaco degli ipocondriaci,indigeſto rimanendo,non n’eſca fuori nel tempo uſato; ma certamé te s'egli innoltrato ſi foſſe nella ſpeculazione delle coſe 112 turali,ne avrebbe di leggieri ritrovata per avventura la ca gione; e tanto più, che pur egli avviſa nello ſtomaco degli ipocondriaci la pontica, e ſtitica acetoſità, la quale non permettendo, che'l cibo ben ſi digeſtilca,increſpa,e ſtrigne la bocca del Piloro, per inodo, che dallo ſtomaco non pof ſano nel tempodovuto calari cibi agl'intcftini. Ma laſcia do di ciò più favellare: non ineno e' ſi ſcorge il modo del filoſofare in conghietturando di Diocle, da ciò,ch'egli dice: appo Plutarca: επι δε τοϊς φαινομένοις δοαται ο πυρετόςεπιγενόμG" nečuvala, noi Prey Movad,sy 6x6õves, cioè: le cose, le quali a noi manifeſtamēte fi fă vedere,additano le nafcofe: poichè ſi vede la febbre,colleferite,colle infiammagioni, e cõ i gavoccioli ac compagnarſi; dal che certamente egli vuol cavare Diocle, che in quelle febbri, nelle quali nulla appare di fuori del le menzionate coſe, ficno entro al corpo elleno, o altro fimile, che colla febbre parimente s'accompagni. E rav viſaſi eziandio la maniera del filoſofare di Diocle allor che appo il medeſimo Plutarco va inveſtigando le cagioni, per le quali i maſchij ſtendi ſono.4.0 disocyóvoustousaideges,na es' Del Sig.Lionardo diCapoa. 325 Θα το μήθ' όλως εύνες σπέρμα πιοΐεσθαι,ή παeg το έλαήoν του δέοντG. και παρά το άγονον είναι το σπέρμα, ή καλα παράλυσιν των μορίον, κατα λοξότη του καυλού μη δυναμένε τον γόνον ευθυβολεϊν,ή περί το ασύμ Mergov tæv porów.alo's Tajvané saory oñs peýrsas. Ma oltraciò ſappia di Diocle aver lui, contro quel, che avca inſegnato Ippo crate negli aforiſmi avviſato, l'itterizia, d'ognitempo,ch' ella ſopravegna alla febbre eſſer giovcvole; al che cgli poi aggiugner volle, che ſopravegnendo all'itterizia la febbre, mortifera coſa quella ſia: arquatum morbum, ſono parole di Celſo, Hippocrates ait, fi poft feptimum diem febricitante agrofupervenit, tutum effe, mollibus tantummodoprecordiis fübftantibus; Diocles ex toto, fi poft febrem oritur,etiam pro defe, fi pofthanc febris, occidere. Ma non meno dell'afo riſmo d'Ippocrate la ſentenza di Diocle falſa cutto di fi ſperimenta. Coltivò egli poigrandemente la notomia, ma come qucl rozzo ſuo ſecolo comportava, poco felicemente nel vero; non però di meno cgli in ciò è da commendare;m2 séza fallo poi a ſommo onore attribuir gli ſi dee, l'eſſer lui ſtato il primo, ch'aveſſe ofrto pubblicar con un libro partia colare al mondo le coſe, ch'egli avviſate avea nel far no tomia degli animali. Ma procedendo più oltre ci ſi fa davanti l'altro famoſo Principe deʼRazionali inedici Pralfagora, cotanto celebras to, c in pregio tenuto da Galieno, il quale diſſe eller lui ſtato in tutte le parti della medicina eccellentiſſimo, e in tendentiſfimo di tutte le più ſottili (peculazioni delle coſe naturali. Ma di queſt'huomo non è per mio avviſo da far giudicio diverſo da quel, che di Diocle noi teltè fas; cemmo; poichè iinitando in ciò Diocle, portò Praffagora, altresì opinione dalle quattro primieramente comuni qui lità appellate dirivar tutte l'operazioni della natura; e con queſta credenza camminando avanti, di neceilità dovette, da uno in altro crror tratto inceſpicare. Oltra ciò viens forte Praſlagora biaſimato da Galieno, perchè egli ſcrivel fe con tanta oſcuritàche ſembrano fc fue ſentenze enigmi da tener mai ſempre in biltento il lettore. Ma con pace. pur ! 326 Ragionamento Quinto pur di Galieno,Io non giudico queſt'errore cotanto propio di Praſſagora, che non ne ſia ſopratutto da cacciar lamedia cina medeſima, per la grandifinna incertezza di quel la; onde imaeſtri più accorti, e malizioſi, per non farſi torre in fallo foglion sì facramente ſcrivere chenon ſi pof fa per niuno ne’lor veri ſentimenti penetrare. Ma impertáto fallò grádeméte Praſſagora,e lervi di pel fimo eſemplo agli altri Razionali medici, che dopo lui furono, e particolarmente a Galieno, in voler con ſue ciar le farne calandrini, ecercare di render poſſibile l'impoſſi bile, cioè certa, l'incertezza della razional medicina. Vien biaſimato anche Prafſagora da Galieno, ch'aven do egli in prima detto, che gli umori non ſi contengano al trimenti dentro l'arterie, cerchi nondimeno egli poi d'in ſegnare, e minutamente additando vada, come per opera del toccamento avviſar, eglinon ſi poſſa quali umori fia-. no quelli, che nell' arterie ſi naſcondono; ma lo immi gino, che in ciò non ſi contraddiceſſe altrimenti Pralſago 11, come dice Galieno, ma ch'aveſse egliportato opinio che allor, che l'huomo è rano non abbia alcro nell'ar terie, che ſangue, ma che infermando egli poi altri umari ancor vi diſcorrano; ne potea egli in verità altrimenti di rc, s'egli pur non era affatto di ſenno fuori. Che ſia vero quanto lo dico,apertamente ſi ſcorge in ciò, che il mede fimo Galieno di lui riferiſce, cioè ch'egli ne men nelle ve ne credea che vi ſieno gli umori. Ma errò certamente, e in iſconcia guiſa Praſsagora, in portando opinione l'arterie cambiarli finalmente in nervi; avvegnadiochè difender s'ingegnino giuſta ogni lor pof ſa si ſtrana, e dal vero apertamente lontana opinioncscome favorevole al lor Ariſtotele, il Cefalpino, il Reuſnero, e'l Marziano; ma di non poco biaſimo degno ſi rende appo molti antichi ſcrittori Praſsagora per lo ſtrano, e crudel modo, col quale egli intende, che s'abbia a medicar l’lleo, volendo egli infra gli altri rimcdi,che all'infermo fi faccia vomitare, e dopo il vomito gli li tragga il ſangue, emol to forte gli ſi premano collc mani, il ventre, e gliinteſtini, cal nes e alla per fine poi col ferro ſi taglino; ond'ebbe a dire ra gionevolmente Celio Aureliano: quo probatur magnificam mortem Praxagoram magis quam curationem voluife fcri bere; ſenzachè vié egli tacciato dal medeſimo Celio, ch'e'li yaleſse anche nel curarlo degli ſconcj rimedi d'Ippocrate: Aliquos etiã poft vomitum phlebotomat,&vento perpodicem replet, ut Hippocrates. Item libris de caufis, atquepaſſio nibus,& curationibus vinum dulce dari jubet, d rurſum Hippocratis ordinem ſequitur congerens omnia peccata. Macon qual eccellenza di dottrina, e con qual artificio pervenir aveffe potuto al principato della razional medici na il celebratiſſimo diſcepolo di Praſſagora, Pliſtonico, chi farà mai che poſſa ſpiegarlo fra le sì ſcarſe memo rie, che di lui ne ſon rimaſe? Io permeſolamente, e ap pena ne lo quanto per Galicno all'avviluppata, eſcarfamé te ſe ne racconta: e gli ſi afcrive ciò a ſomma losa,cioè che raffermaſſe egli quanto in prima diviſato avea Ippocrate de’quattro umori; la qual coſa ſe tale è veramente, qual ſi jarra egli, ne fa apertamente vedere, quíto troppo grofa ſolanaméte foffe căminato Pliſtonico in filoſofando; ina no dimeno pur ſembra, che qualche ſcintilluzza di lume in quelle folte tenebre, e oſcure egliſcorgeſſe allor, chej porta opinione, che le digeriſca il cibo nello ſtomaco putrefacendoſi; il che nel vero fu aſſai ad inveſtigar ma lagevole a lui, che non avea contezza niuna di Chi mica, e veramente il cibo nello ſtomaco non maiſi ſcioglie, e muta natura, fe non vi concorre l'opera d'una pronta, c velociffima filoſofica putrefazione. Scriffe Pliftonico della materia de'medicamenti, macom'egliin ciò li portafle al cri.per meve'ldica. Ma trapaſſando ad altri, Io non potrei dire,ne'l mio det to ritroverebbe agevolmente crcdéza, in qual pregio ſovra tutt'altri Principi della Razional medicina il grand'Erofilo s'avázaſſe.E certamente degli ſtudi della notomia egli mol to ſi conobbe, e gli poſſon ceder ſenza contraſto la maggio ranza non pur Galicno, ficome giudica dirittamente il Vera ma quant'altri notomiſti prima, e dopo lui nella Grc 1 fatio, cii cia tutta fiorirono. E quanto alla dialettica, egli cotanto lungamente divifonnes e tanto minutamente, che il vulgo ſciocco dalle tante fraſche delle quiſtioni, delle diftinzio ni,e diffinizioni, e argomentioffuſcato,comeſe da ſovrano nume ftate fofſer dettate, le dottrine di lui celebraya oltre modo, e riveriya. Ma il tanto ſtudio della dialettica do vert'eſſere alla ſetta d'Erofilo dinon picciol damnaggio; e quinci forſe avvenne, che molti, o sfidando d'intender pienamente le tante ſottigliezze di lui, e altri a niun pre gio, comevani, e inutili arzigogoli avendole, ad altre ſcuole ſi rivolgeſſero. Ma impertanto la ſua dottrina ritro vò inolti, e gravi ſeguaci, e fù aflai commendara; anzi narra Strabone,che infin nella Frigia v'era a'ſuoi tempi una famola ſcuola della dottrina d'Erofilo. Or Io, quantunque a voler dire il vero eſtimi, che gran pro alla notomia abbia apportato Erofilo, nondimeno fembramifarfallon da Ro. manzo quel del Falloppio: Contradicere Herophilo in Ana tomicis,eſt contradicere Evangelio.Ma ebbe Erofilo per co ſtume di paleſar séza riguardo niuno ciò che a fui veraméte parea delle coſese cotraddiſſe quando egli ſtimava, che ine ſtier ve ne foffe, a tutti gli antichi, non la perdonando ne meno al ſuo divin Maeſtro Praſagora. Fuegli molto prati co nella materia demedicamenti,e fcrille parecchi volumi del modo, come ſe nc debbano imedici valere; il che fu gli agevole affai, avendo egli logorato tutti i giorni della ſua vita in far prove, e fperienze;per le quali non ſi può ne gare, ch'e'non merti grandiſſima loda; comechè non cſen do a noi pervenute, niuna utilità del mondo abbian potu to recarci. Ebbe vétura Erofilo d'abbatterſi nelle vene fartee;ma egli traſcurato, sì bella opportunità laſciofſi uſcir delle mani, non dandoſi cura d'ilveſtigarne il lor proceſſo, e l'uſo; ma di cotal negligenza è fomigliantemente da accagionar Ga lieno, e tutti quegli altri notomiſti, chedopolui anche ſe ne rimarono. Non molto diffimile dal fallo d'Erofilo fi fu quello del noſtro Bartolomeo di Euſtachio, il quale avendo sitrovato il canal pettorale, non ſi diè briga d'altro, e la 1 fcion fcionne il penſiero al Pecchetti, a cui meritevolmente la gloria tutta di così gran fatto ſi dee. Ma ritornando ad Erofilo: non fu egli nel vero molto fe lice in ritrovar coſe grandi, e maraviglioſe, o molto com mendevoli in ſagaceNotomilta; avvegnachè tutto dì ta gliar ſoleſſe non ſolamente i cadaveri, ma eziandio vivi gli huomini. Scelleratezza tanto crudele, tanto infame, e vi tuperevole, e degna d'eterno biaſimo,che val ſolo ad oſcu rar ogni ſuo pregio, e a far conoſcere al niondo ad un'ora, quanto la fierezza de'medici, il diritto delle naturali, del le divine, e delle umane leggitraſandando, oltre palli law crudeltà d'ogni più fiero tiranno; perchè a gran ragione certamente ebbe a gridare il gran Padre Tertulliano: He rophilus ille medicus, aut lanius, quifeptingentos exſecuit, ut naturam ſcrutaretur, qui homines odit, ut noſlet. Man prima di lui Cornelio Cello, dopo aver detto,ch'Erofilo, ed Eraſiſtrato aveano alle lor notomie vivi gli huominide ſtinati, cosi ách'egli un cosìabbominevol misfatto deteſta: crudele vivorum hominum alvum, atque præcordia incidi, & falutishumanæ præfidem artem, nonfolumpeftem alicui, fed hanc etiam atrociffimam inferre. Sopra tutto s'affaticò Erofilo nella materia de polſi, la quale,valendoſi egli della muſica, cercò d'illuſtrare, e di ti durre a perfezione, per modo, che nulla vi ſi aveſſe di vātag gio a diſiderare; ma tanto, e tanto egli vi ebbe a ſofiſtica re, che meritevolmente forſe perGalieno,e per altri ne venne più d'una volta ripreſo, e proverbiato;mad'altra parte per altriſommamente commendato, come ſi può ve. dere in Plinio. Arteriarü pulfus in cacumine maxime merebro rū evidens in modulos certos,legeſq; metricas, per atates, fta bilis, aut citatus, aut tardus defcriptus ab Herophilo medici na vate miranda arte. E queſto accrebbe in modo la ſua fama, e buon nome, che nulla più; promettendoſi cgli, e dando altrui ad intendere, che col mezo de'polli, com' ab biamo con Galieno accennato, poſſanſi avviſare ancor les coſc impoſſibili a conoſcere; come ne’barbari ſecoli comu liemere li vider poſcia farei medici coll'orinc, colle quali fa Tt cean veduta diconoscere pienamente lo ſtato de'malati, e de’lani; di che ancor qualche veſtigio tuttavia nella noſtra Italia, e altrove ne rimane. Mache / a'tempi noſtri in va rie.guiſe noipur veggiamo da qualche medico ſcaltrito porre in uſo si fatte frodi, e riportarne ſempremai premj, e laudi non ordinarie. Ne è da maravigliare; perciocchè il mondo gode in tal guila d'effer ſemprcmai uccellato; il che apertamente ſi fa vedere dalla grande ſtima, chevien fatta della Srologia, e della Gabbala, e d'altre arti vane, e ſu perſtizioſe; e tanto prevalſe, e montò in pregio con fomi glianti artificila gloria d'Erofilo, che di baſſo, e rintuzza to intendimento', e come della ſua dottrina incapaci venis van giudicati coloro, che ſi dipartivano dalla ſua ſcuola; perchè diſſe Plinio di lui favellando: nimiam propter ſubti bitatem defertus: e della ſua ſetta facendo parole: deſerta hac Secta eft, quoniam neceffe erat in ea literas ſcire. S'af faticò parimente Erofilo, come Galien riferiſce, in inve itigar la natura dell'erbe; e dir ſolea, non haver così gra ve, e pericoloſa malattia,che non ſi poteſſe coll’erbe curare; ma non però di meno il valor di molte di quellenou effer conoſciuto, e alcune di loro gran virtù avere ', le qua li tutto dìda noi fi calpeſtano: inde plerofque, fono parole. di Plinio, ita video exiſtimare, nihil non herbarum vi effici poffe, fed plurimarum vires effeincognitas, quorum innume 70 fuitHerophilus claras medicina, à quoferunt dictü quaf dam fortaſſis,etiam calcatas prodeffe. Solea far altresi grá diffima ſtima Erofilo dell'Elleboro; il quale, come altrove vien ſcritto dal medeſimo Plinio, veniva pareggiato da lui ad un fortiſſimo Capitano; perchèturbate egli avendo en tro il corpo tutte le coſe,foffe poi il primoa uſcirne: elleború fortiſſimi Ducis fimilitudini aquabat; concitatis enim intus omnibus,ipfum in primis exire.Mada ciò apertamente ſcor geſi, che poca, o niuna contezza aveſſe Erofilo di quelle nobiliſſime medicine, le quali ſenza recar moleftia, e dan no niuno ſon valevoli a domar le più gravoſe, e feroci ma lattie: e ch'egli altresì ignoraſſe ilmodo, per lo quale la fciandogli intera la parte giovevolemedicinale,ſi toglie all '. Elleboro la velenofa; ſenzachè non è miga vero ciò ch'e. gli trancaméteafferma, che l'Elleboro fia il primo ad uſci re; imperocchè talora non li diparte dallo ſtomaco, e dall altre viſcere allo ſtomaco proſſimane,ſe nõfe ha fatto vuo far egli all'infermo in prima quanto di cattivo, e di buono nel ſuo corpo ſi ritrovava. Non è ſtato adűque in medicina il valor d'Erofilo così grande, quale il ci narra millantan do la fama, Ma doveva Io certamente aſſai prima far parole di Me necrate da Siracuſa; il quale col fuo ſtrano modo di filoſo fare, e di medicare rinnovar volle l'antico uſo di Apollo, e d'Eſculapio, facendoſi venerar come un Dio. Ma a bello ſtudio venne da me tralaſciato, per non haver Io potuto p quanto lo mi vi fia affaticato, niuna contezza aver mai dėl ſuo liſtema; ritrovo ſolamente di lui, ch'egli ſcriſſe, per quel,che ne narri Galieno, un libro de'medicamenti, de quali egli molti da ſe ſteſſo trovò, Fu egli Meneçrate così ſuperbo, ambizioſo, e vano, che non volle egli giammai denajo, o altro premio dagſinfer mi di mal caduco, che guarivano per le ſue mani; folo ri. chicdea, che eglino ſuoi ſervi fi doveſſero confeſſare, e che col nome di Giove l'aveſſero a chiamare, e come Gio ve il doveſſero onorarc.Solea egli ſpeſſo in mezzo a coloro, traveſtiti, chi da Ercole, chi da Apollo, chi da Eſcula pio, chi da altro Dio minore, a guiſa di Giove con coro na d'oro in teſta, colla veſte di porpora, e collo ſcettro in mano farſi in pubblico vedere, 1.a qual si ſciocca traco tanza imitar volle Ottaviano Ceſare, quando, come rac conra Suetonio, con gli abiti d'Apollo fra huomini, e fra donne rappreſentanti Dij, e Dec, e'feder yolle in un ſono tuofo convito; Cum primum iftorum conduxit menfa choragum, $exque Deus vidit Mallia, exque deas; Impia dum Phabi Cafar mendacialudit, Dum nova divorum cænat adultera: Omnia fe à terris, tunc Numina declinarunt, Fugit auratos luppiter ipfe thronos, Tt 2 1 Mapiacevole egli è a udire ciò che avvennea Menecran te con Filippo Rè diMacedonia, comechè Plutarco dicas con Ageſilao Rè di Sparta; ſcriſſe a Filippo egli in sì fatta guifa Φιλίπσω Μενεκράτης ο Ζεύς εν πτά θαν: maFilippo trattado lo da pazzo, qual egli veraméte era, così gli riſpoſe: dínia πος Μενεκμάτα υγιαίνειν συμβελεύω σοι ποσάγαν σεαυτόν επί τοϊςκα στο Ανήκυραν τόποις · ηνίδετο δε άeg δια τούτωνόππαραφρονώο ανήρ. Vna volta anche il medeſimoRè invitò Menecrate a deſinar ſeco,egli fe porre un deſco da parte, facédoglidar cótinua méte incenſo, in tépo,che gli altri convitati in altra tavolas allegramente ciurmavanſi, e facevan gozzoviglia. Mene crate nel principio fommamente godeva dell'onore fattogli dal Rè, come å un Dio; ma poichè gli ſopravenne la fame, e gli fè vedere, ch'egli era huono, comegli altri, fi parcì dolendofi, e lagnandofi fortemente della beffa fattagli dal Rè. Mi ſi fan davanti ora Neſiteo, Filotimo, Eudemo, e M2 rino, i quali comechè ſommamente cominendati, e in pre gio avuti foſſero da Galieno, è da dir nondimeno, che no troppo bene filoſofaſſero cglino in medicina, c che molto poco altresì valeſſero in notomia; ficome da qualche lor ſentimento rapportato dalmedeſimo Galicno, apertamen tc per ognun ravviſar ſi puotc. Maintra le ſette più chiare, e più famoſe, che nell'air tiche ſcuole già s'inſegnavano della razional medicina (ſe cgli s'ha riguardo alcorſo non mai interrotto Per volger d'anni, oper girar di luftri) che nelle Città, e nelle Provincie più nobili s ove la greca fapienza era in pregio, glorioſamente fiorirono: o le pur fi mira all'onore, alla fama, e al numero ragguardevole de lor maeſtri, niuna certamente, s'Io pur non vado errato egliſembra, che agguagliar fi poffa, non che antiporre a quella, che da Crilippo in prima ritrovata, indi per opera di Medio, e d'Ariſtogene celebri tra' ſuoi ſcolari,maſopra tutto per Eraſiſtrato ſommamente accreſciuta ne vennc, e ftabilit2. Quinci ſi può agevolmente conghietturare ché te, e quale egli ſtato ſi foſſe il fapcre, l'avvedimento, law ſperienza, e l'induſtria d'Erafiltrato, che di Criſippo,d'A riſtogene, e di Medio nulla v’abbiam che dire; ma ciò più aſſai in verità argomentarlece da quelle pochiſſiine coſes comechè tronche, e ſmozzicate, Che fan col duro tempo afpro conflitto, che di lui nell'altrui opere, e più che in altre, in quelle de ſuoi einuli tuttavia ſi leggono; nelle quali pariinente egli moſtrò quanto, e quanto oltre condotto fi foffe per le più dure, c ſpinoſe malagevolezze dell'arte; intanto che ad acquiſtar meritamente e' ne venne la Signoria curta della medicina; e non ſenza ragione certamente venncgià da al cuni valent'huominicreduto, ch'egli laſciato di gran lun ga s'aveſse addietro nonch’altri, Apollo, Eſculapio,e Peo ne medeſimo. Così egli da Appiano Aleſsandrino,venne appellato meetóvuje @u,c Galieno parimé: e con orreuoli, e riverēti maniere trattandolo, 11011 iſdegnò di ragguagliarlo ad Ippocrate; chiamando egli l'uno, e l'altro: iv dožoTátis iørção. E avvegnadiochè pure alcuna fiara moſſo, o dal zelo della verità, o dall'invidia, o dall'emulazione, o daw troppo altieris e ſuperbi portamenti de'parreggiatiei ſegua ci di lui, ſconciamenre egli lo biaſimise prendaa gabbole ſue opinioni; nientedimeno in tanto pregio, e in sì gran, yenerazione ebbe Galieno la dottrina d'Eraliftraro, ches prender volle fatica di commentarmolte delle ſue opere: e di lui favella più d'una fiara con molto riguardo, e onor di parole; e mi ricorda, ch'una volta infra l'altre togliendo egli ad impugnar una ſua opinione, ſcuſando quali il ſuo troppo ardimento con eſo luicosì ne favella: Si compiac cia di grazia Eraſiſtrato, che in quella guiſa appunto,e col la medeſimalibertà lo tratri lui, e le ſue quam le egli trattar mai ſempre ebbe in coſtume Ippocrate, ela doctrina di quello. Ne fi dee anche aſcrivere a poca lodo d'Eraſiſtraco, ch'egli, comenarra Galieno, ſi foſſe ſtato il primo autore, e introduttore della vera arte ginnaſtica, e che per opera del ſuo ſenno, e della ſuamano in piede ſi ri metteſſe; anzi ſi ritornaſſe in vita la notomia, la quale per infingardia degli antichi medici già affacco caduta, e ſpen ta fe ne giacea. Ma 1 opere, colla ! Ma qual maniera egli tenelle Eraliitrato nell'inveſtigare le cagioni in ſeno della natura appiattate, e naſcoſe, e quai foſſero i ſuoi ſentimentiintorno a ' principi delle coſe ſenfi bili, malagevole molto egli è ad avviſare; impertanto ſi ſcorge apertiſſimamente, ch’Eraſiſtraço era affai libero nel filoſofare, e oltremodo ſchiyo, anzi nimico di far pompa appo il vulgo di mentito, e apparente ſapere; onde mai non ſi vide ricovrar egli alla franchigia tanto da’ſofiſti uſi ta, e praticata, delle facoltà, e d'altre fimili vanillime novelle, e ciance, le quali non altro in verità, che Nomije fenza ſoggetto Įdolifono, nelle malagevoli, e inviluppate tenzoni della filoſofia, e della medicina; nella qualcoſa,comechè ne doveſſe Era fiftrato con ogni ragione, s'Io pur diritto eſtimo, ſomma lode ritrarre, malignamente troppo in verità, e a gran for to funne ripreſo, e vituperato da Galieno; il quale oltre a ciò ardiſce anchetemerariamente a vituperarlo, e a biafi marlo, perchè ſempremai moſtrato ſi foſſe ſul filoſofeggia re, duro, e implacabile avverſario dell'opinioni d'Ariſtote le, nulla curando, che ſuo avolo ſtato e' fi foſse; col qua le, e coʻPeripatetici in una ſola coſa convenne, ciò fu nell' affermar coſtantemente, che per la natura niéte a caſo mai vegna fatto, e poſto in opera.. Ma non rammentò Galieno, che Ariſtotele, ed Erafi Atrato convengono bene inſieme anche nel dire, che le re ni, e la milza non fervano a coſa niuna; ma della milza. prima di tutti ſcriſſe colui ad Ippocrațe, parlando della na tura dell'huomo, παλίων απέναντι £'δα, πάγμα μηδέν αιτίμο». Furicevuta una tal opinione da Rufo da Efeſo, il quale dif ſe,che la milza foſse anánt, ni avevéeyn,mano già da’ſco Jari d'Eraſiſtrato, come que’, che diſsero, che la milza preparaſse al fegato il ſugo da generare buon ſangue, tör το σπλάγχνον περπαρασκευάζειν το ήπατπ τ έκ ή σιτίων χυμόν ής α' Mateu xensă girsar, Ma benchè Erafiltrato sì grande, e sì valent'huomo ſi foſſe, e che tanto dalla natura foſſe favo. reggiato, e di rari doni, ç maraviglioſi arricchito, c per ső mo sforzo di ſtudio molto avanti fontille nelle coſe dellam! natura, e che colla altezza del fuo anino ſtudiato fi folle di aggiugnere anche talora fin la dove forſe non potè per addietro pervenire altro intendimento mortale: e coll'e ftremo diſua poſſa di formareſi foſſe argomentato il fiſte ma della ſua razional medicina ſommamente perfecto, e compiuto; nientedimeno più d'una fiata dal diritto ſentier della verità inolto, e molto lungi ſi trova; e ſi leggon di lui alcune ſtrane, e ſconce opinioni, comeche in alcune a cor to accagionato talora e' ne vegna da Galieno', e in alcun con aſſai fievoli, evane ragioni riprovato; il che ravviſa no talvolta, e ſono coſtretti a confeſſare i medeſimiGalie niſti ancora Ma nientedimeno a grandiſſima ragion certamente vien da Galieno aſpramente ripigliato Erafiftrato per aver dct to egli, che nell'arcerie nello ſtato naturale dell'huomo no v'abbia ſangue, ma ſolo ſpirito vitale, ſecondo lui:e fpiri to' animale ſecondo Criſippo ſuo maeſtro; coſa', della qua le, così evidentemente ne appare il contrario, che forte mimaraviglio, comeGalieno quantunque abbondevole d'ozio, e di ciance aveſse potuto darſi briga di compilare un libro intero per impugnarlo. Ma, o Quanto è'l poter d'una preſcritta ufaniza ! equanto dileggieri un’huompaſſionato in gravi falli quaſi inavveduramente traſcorre. I ſeguaci d'Eraſiſtrato per niu na ragionedel mondo, neper evidenza de'ſenſi, che loro apertamente additaffe il contrario, abbandonar mainon vollero i ſentimenti del lormaeſtro"; il quale non altrime ti, che ſe Dio ſtato foſse', ſe preſtar lece in ciò fede a Ga lieno ſolevan eglino ammirare', e venerare; avendo per vero, e ſaldo, e indubitato ogni ſuo qualunque detto. Ma ritornando a noſtra materia; egli è da creder, che dall'o pinion, che reſtè abbiā noi rapportata, prendeſse cagione d'inſegnar poi Eraſiſtrato, altro non eſser la febbre, che un movimento inuſitato del ſangue, che dalle vene, dove naturalmente riſiede, all'arterie tragittiſi: e cheſicome al lor, che non ſoffiano i venti, pofa abbonacciato, E nelſuo letto il marfenz'onda giace; ma ſoffiando poi fortemente Oſtro o, Aquilone enfia, ed eſce fuori impetuoſo, e rapido dall'uſate ſue ſpon de, e inonda, ed allaga le piagge tuttc, c le campagne vici ne; così anche, fe non v'ha coſa, che l'agiti, o'lcommuo va, dimori placido il ſangue nelle vene:maſe per ſoverchia abbondanza gonfio, o per altra cagione ſoſpinto, e agita to mai venga, sboccando ſubito dalle vene, ratto all'arte rie diſcorra, e ſe quindi dallo ſpirito, che in eſso dimora ſia altrove riſpinto, vada a fermarſi, e ſtagni in quelle cic che ſtrade, dove terminano l'arterie; e quivi riſtrignen doſi, crappigliandoſi, formerà l'infiainmagione; e la feb. bre; ecco le ſue parole rapportate da Plutarco:Nuperds isi zí. νημα αίματG- παρεπιπλωκός ας του τα πνεύματG- αγγείο απιοαιρέτως γινόμενον • καθάπερ γαρ επί της θαλάττης, αν μηδέν αυτήν κινη ήρες μί, ανέμε δε έμπνέοντG- βιαία παρά φύσιν, τότε εξ όλης κυκλεται. ούτω και εν τω σώματι, όταν κινηθήτο αίμα και τότε εμπίπτει μες στο αγγα των πνευμάτων, πυρέμενον δε θερμαίνει το όλον σώμα. Αrtifciofotis trovato nel vero, ma che appoggiato in aſsai poco falde fó damenta non può far, cheda ſe ſteſso non crolli, e rovini. Manon laſcerò già lo quì di narrare ciò che immagina. alcuno, ch'altri ſi foſsero intorno a ciò iyeri ſentimenti d ' Eraſiſtrato, e chemal'inteſi, e peggio ſpiegati a noiſien pervenuti; e tanto più, che come Galienoavviſa,Eraſiſtra to a ſtudio oſcuro alle volte Con giri diparole obblique incerte recar ſuole le ſue opinioni; e che perlo ſpirito egli abbia? intender voluto un ſangue ſottiliſſiino,e di quelle particel le, onde ſi forman l'etere, e l'aere per la più parte ripicno. Macheche ſia di queſto, certamente ſi deecgli credere, ch? a niuna guiſa mai avrebbe Erafiltrato dato fuori così inve riſimili, e vane fanfaluche, ſea lui foſse pervenuta qualche menoma contezza del vero movimento del ſangue; e pure egli vi fu molto da preſso: imperocchè ravviso, e conob be, che dalle vene all'arterie, comechè vi lien le ſtrade, na turalmente non ſi tragitti il ſangue; il che diede poſcia ca gione a Galieno d'affermare, che l'arterie traggano il ſan gue dalle vene. Qui riſtette, ne paſsò più avanti Eraſiſtra to, comechè la ſua gran virtù molto bene il valeſſe, merce che non già alla Grecia, ina alla noſtra Italia era la glo ria riſerbata dello ſcoprire l'aggiramento del ſangue. Oltre a ciò ſi pare,che ſommaméte lodar ſi debba Eraliftra 10, perchè al ſuo grande avvedimento, e induſtria aſcon der no li potè il ſugo nutritivo ma: pur fallò egli in immagi nando, che quel ſolamente ſerviſſe a nutricare i nervi, ſe è vero ciò che ne narra Galieno. Conobbe ancora Erafiftrato le vene lattee; niétedimeno rinvenir non ne ſeppe l'uſo; s'accorſe egli anche, ed è egli non picciolo ſuo vanto, che'l reſpirare non diedes già a noi natura, comeimmaginò con Ippocrate, Diocle, e Ariſtotele, Perchè'l caldo delcor temprato fia. Ma non potè penetrar egli nientedimenoil vero,'e propio uſo della reſpirazione: e perchè alcuni animali fieno ſtati formati sì, che debbano reſpirare; imperocchè contendes Erafiltraco, che la reſpirazione ad altro non vaglia, fe non fe a poterempier d'aere Parterie; coſa, che da per fe appar dal vero così apertamente lontana,cheimutilmente colle fue ciance Galieno impréde a dimoſtrarla alțresì tale.Mafe Eraſiſtrato aveſſe avviſato, che il sague,tutto che no appaja di coſe diffimiglievoli eſſer cópofto, pur contenga molte, e molte parti dinatura diverſisſime avrebbe potuto agevol mente ſpiegare, qual ſia la neceſſità dell'aere, e della refpi razione neglianimali; imperocchè avviene, che nel ſepa rarli dalſangue la parte più ſottile, e per così dire, ſpirito ſa, ſi faccia anche neceſſariamente ſeparazione di varie al tre parti groſſe;come nella formentazione del moſto, e d'al tre liquide foſtanze chiaranxente ravviſaſi; queſte groffe porzioni, forza è, che s'abbattano, ſeparate cheelleno ſo no, o nell'acre, o in altro corpo ſimile, il quale contenga pori acconci a riceverle, e che ricevutele, ſia valevole a tragittarle fuori de'vafi:a quella guiſa appunto, che al ráno s'appaltano le lordure, le quali imbrattano il panno, e che col ráno ſe ne van via; e ſe perdiſgrazia dell'animale qual che tratto di tempo, quancunque aſſai menomo, non fao V u ceſſe nel ſangue una cal purificazione, intoppando agevol mente negli anguſti vaſi dieſſo colle craffe porzioni ſepa rate i ſottiliſſimi formentāti corpicciuoli,ſarebbono queſti incontanente coſtretti ad abbandonare il movimento loro dılacante; e ſeoltre a'formentanti corpicciuoli aurà nel são gue abbondanza di ſoſtanze d'altro genere, ma altresì vo lanti, tra le quali viliano in copia grande i ſemi del fuoco, così queſti, come quelle non incontreranno molta diffi coltà a liberarſi da' ritegni; e ſe vi ſi aggiugnerà qualche altra circonſtanza, onde, e l'uno, e l'altro movimento, e di formentazione, e dicalore rieſca grande, e notabilmée te impetuoſo, allora cgli grande oltremodo converrà ch ' avvegna la ſeparazione: per lo che non baſtando. dilatare, il ſangue dalle groſſe, c importune porzioni quell'aere,che inceſſantemente negli animali per li pori trapela, abbiſo gna, che altra aria mediante la reſpirazione fi beva; e di quì ravviſato ſenza fallo avrebbe Eraſiſtrato, che parecchi animali no poſſano vivere colla ſola traſpirazione, maloro faccia huopo pariméte della reſpirazione; e ſe'l moviméto formentante non ſarà molto grande, ne verrà da notabile, calore accompagnato, allor l'animale avrà di pochiſſimo aere biſogno, e baſteragliquello, che, o colla ſola traſpi sazione, o con qualche forte ancora di imperfetta reſpira zione ſuccerà;e p cal cagione poſſono détro alle acque vie vere i peſci; imperocchè nell'acque, benchè aere non vi ſia almeno che ſenſibile appaja, vi ſono impertanto parecchi, e parecchj aliti, i quali cosìdalla terra, come altronde gli vengono ad ogn'ora ſomminiſtrati; e trapelando queſtinel corpo de'peſci, adempiono il medeſimo uficio dell'aere col riportarvi quelle ſoſtanze, che, o nel fangue, o ne'liquori al ſangue equivalenti impedir potrebbono la formentazio ne, col mettergli giù nell'acqua, acciocchè l'acqua ſe n’ abbia a ſcaricare, comunicandola all'aere più vicino; il che ſe mai lor viene impedito, rimangono i peſci poco ftanto privi di vita. Nell'uovo poi, e nell'utero eſſendo i mo vimenti dell'animale non molto grandi, e maſſimamente fra queſti il formentante, ed eſſendo anche oltremodo mol lise li; e pieghevoli, e poroſi i ſuoi vali, può baſtar ſolamente quell'aere,che per li pori vi trapela; e ſe mai dal freddo, o da altra cagione vegan chiuſi i pori,nõ entrādovi più l'aria, ceſſa nell'uovo, e nell'utero la formentazione del ſangue, e ſe ne muore l'animale; ſenzachè non è di picciolo mo mento a mantener il debile moto formentativo nell'anima le racchiuſonell’vuovo,ilpicciolo,e rimeſso eſteriore caldo, che o dalla chioccia,o dalla fornace, o dal fime gli vié comum nicato; e come tutto dì veggiamo,nc'vaſi ermeticaméte fi gillati, il calore del bagno,o del fime è valevole a far sì, che non ſi attuti, anzi duri, e fi accreſca nc'liquori la formen tazione. Aggiugneſi, che mal ſi può render volante quel la nobiliſſima ſoſtanza, la quale continuamente a vivificar le parti dell'animale dal ſangue lor ſi communica,ſenza l'ac re, in cui mai ſempre troyanſi quc'volanti corpicciuoli, che ajutano la formentazione. Ma laſciando queſto ſtare al preſente, forſe noi cammi namo dietro la guida d'un cieco; e altra peravventura ſa rà la vera opinione d'Eraſiſtrato, la quale a dir il vero vien portata in sì fatta maniera da Galieno, che ſembra ch'egli, o non l'aveſſe inteſa, o non l'aveſſe voluta intendere, come fa anch'egli nel rapportare quellaltre opinioni d'Eraſiſtra to intorno alla cagione,per la quale ſe ne muojan gli ani mali nelle mofete. Vuole Eraſiſtrato, per quel che ne nar ri Galieno, che ſe ne muojan gli animali nelle mofete, e nelle ſtanze chiuſe, einfette o dagli alitidella calce, o dal fummo de carboni, per ritrovarli in sì fatti luoghi l'aere ad un tal grado ſommo di tenuità ridotto, chene fi riceva dall'arterie, ne ricevuto per eſſe ſi poſſa ritenere; ma con grandiflima facilità fe n'eſca fuori; laonde per mancamen to di ſpirito egli ſe ne muoja neceſſariamente l'animales. Prende a gabbo una tal ſentenza Galieno, e dice, che do vea dire più toſto Eraſiſtrato,che ficome nel pane, ne’logu mi, e in altre ſomiglianti vivande fi ritrova una qualità as noi contraria, così ancora una sì fatta diſpoſizione d'ae re ſia bcnigna, e amica agli ſpiriti, e un'altra maligna, es nimica. Vu 2 M2  1 !. Ma nondimeno conobbe chiaramente Galieno la vani rà del ſuo ragionamento; onde vien coſtretto a confeſſare d'eſſergli di ciò naſcoſa la vera cagione; come ſi può vedere nel libro dell'utilità della reſpirazione; ma che che ſia di Galieno, lo ammiro grandemente l'acutezza dell'ingegno d'Eraſiſtrato, e'l ſuo modo non guari lontano dal vero filo fofare intorno a tal faccenda;e forſe la fua opinione ſe ſi va fottilmente vagliando non ſi ritroverà tale, quale la s'im magina, o la fi dipigne Galieno; il quale a dir il vero ſem brami troppo groſſo in ciòse materiale,anzi che no, facen dofi egliacredere, che Eraſiſtrato da lui medeſimo in sigra pregio avuto aveſſe ſognar mai potuto che Paer pregno del fummo de carbonizfia del puro aere piu tenue, e più ſottile. Ma lo per me porto fermiſlina opinione,chc Eraſiſtrato aveſſe fatto differéza tra fúmo e acre, come da ognun falfi fra l'aere, e l'acqua;e che non altro per tenue aveſſe egliin tendervoluto, che picciolo, o poco: imperocchè la p.2 rola asfilos, della quale e' li valſe, ſecondochè dice Galie no ſteſſo, non ſolamente ſuol eſfer preſa da'Greci antichi a fignificare quel che noi Italiani diciamo foteile, e che da' Jatini ſi dice tenuis;ma ancora per dinotare,come ſi può ve derein Ariſtotele, e in qualch'altro autore di que' tempi, quel, che i latini chiamano, cxiguus, e noi picciolo, o po co diciamo. Or chidomine non fa, che la dove è aſſai de ſo il fummosivi ſi ritrovi in meno quãtità l'aere? Conferma fi ciò che lo dico dalle ſteſſe ragioni d'Eraliſtratos per Ga lieno recate; imperocchè ſe l'aere delle mofetc, e di sì fat si luoghi egli foffe tal veramente, qual Galien dice ch’af fermiErafiltrato, ch'egli ſia, cioè troppo ſottile:con gran di ſlīmaagevolezza ſenza fallo penetrar egli potrebbe alles art erie; concioſliecoſachè le ſoltanze diſcorrenti tutte, qu anto più ſottili ſono, tanto più convenga, che compo he, e formate licno di minutiffime penetrevoli particelle; lao nde ſcimunito affatto ſarebbe Eraſiſtrato in dicédo,che per eſſer l'aere delle mofete troppo ſottile, tragittar egli no lip offa volentieri alle arterie; ma entrarvi poi allo incontro malagevolmente vi potrà l'aere qualora eſſendo egli pochiſfimo venga con copia grande di denfe, e groſſe fo ſtanze accompagnato. Ma non ſi ſarebbe vanamente nel vero aggirato infra tante ciuffole, e anfanie Erafiltrato, ro con diligenza degna d'un sì grande filoſofante aveſſe poſta ben mente alla natura delle mofete; perchè agevolmente aurebbe per avventura rinvenuta la vera cagione, per liza quale in quellamuojono glianimalisin iſcorgédo la mofe ta eſſer una diſcorréte ſoftāza più groſſa, e grieve affai dell? aria; e comechè nõ umida, in altro poi non guari dall'acqux disſomigliāte;e gli aliti della mofeta unirſi nella guiſa me deſima appunto,che veggiam infieme unirki i zampillidel le acque, e mátenerf nelle cocavità nõ meno ſtrettamente uniti infieme, e congiunti, che que' dell'acqua nelle fon tane fi facciano; e non altrimenti che l'acqua incontrando declivo il terreno, correr alla in giù la mofeta. Errò pari mente Eraſı trato la dove c'credette eller la carne non al. tro, ch'un accozzaméto di ſangue rappigliatose raſſodato, da che la carne è veramente un compoſto di picciole, c mi nute fibre; e di fibre parimenté vengon formate le piccio liffime glandolette, che ſparſe perentro, e ſeminate vifo no; c quantunque la carne del fegato, e della milza paja, nella prima viſta una mafſa di ſangue, pur nondimeno tal non ritroveralla chiunque mettédola in acqua a macerare, faccia, che ſe ne ſepari quel ſangue, che vi ftà meſcolato; che allora manifeſtamente delle già dettc fibre tutta appa rirà ella refuta. Ma paſſando ad altro, che in Erafiſtrato lo ho ritro vato; egli mi ſembra, che ſi foſſe in qualche ſembian za di verità incontrato in diviſando delle febbri, in quella guiſa, che s'è da noiaccennata; non conſiſtendo verame te in altro la natura della febbre, ſe non ſe in un tal certo movimento non ordinario, e non naturale del ſangue; ma non prende egli a ſpiegar mai poſcia, anzine men cura, per quelche fappiamo per bocca di Galieno, d'andar inveſti gando, come a razionalmedico fa meſtieri, le cagioni,on de ciò poſſa avvenire; il che avrebbe potuto fareegli age volmenteper avventura,ſe li foſſe innoltrato maggiormen te nella filoſofia; ne gli mancò, al mio credere, ingegno, ne animo ad una tanc'impreſa acconcio; ma gli vennero meno gli ſtrumenti, i quali la ſola Chimica da lui nonco noſciuta ſomminiſtrar gli potea Ma che cheſia di questo, non potè celarſi all'acutezza del ſuo intendimento, che la digeſtion del cibo non ſi fà al trimenti dal calore; ma inveſtigar nondimeno, e rinvenis non ſeppe egli mai que' ſottiliſſimi vapori nel ſangue, onde il cibo ſidivide, e li rompe in minutiſſime parti nello ſto maco; e comeche conoſceſſe ben egli ancora il ſangue non eſſer da ſecaldo, non potè egli nondimeno però penetrar mai, onde, e come il ſangue caldo diveniffe, e fi conſer vaſſe negli animali. Maper far qualche parola dietro all' eſercizio del ſuo meſtiere: egli maneggiò l'arte Eraſiſtrato così magnificamente, che niun'altro tanto mai più,ne pri ma, ne poi, per quello, che noi ſappiamo sì ragguardevol mente la ritenne. Ma egli non ha però dubbio niuno,che col profondo ſapere, colla gran fua diligenza, e induſtria gli s'accompagnaſſe proſperevole anche la fortuna: la qua le al maggior huopo nonmancò di favoreggiarlo, avendo egli dalla vicina morte ſottratto, e penetratane la cagione a tutti naſcoſa della graviſſima malatcia del regal giovanet to Antioco figliuolodi Seleuco,il quale in ſua lode così fa, vella appo il noſtro loyrano lirico E ſe non foſe la diſcreta aita Del fiſico gentil, che ben s'accorſe, L'età fua ſul fiorire era finita, Or chi è per Dio, che apertamente non conoſca aver avu to in ciò grandiſſima parte la fortuna. E non potea egli agevolmente ingannarviſi Eraſiſtrato, e in vece dell'oro, delle dignità ſupreme, degli onori, e della gloria immor tale, ch'e'guadagnonne, obbrobrio, e vituperio eterno riportarne? Ma in ciò imitar lo volle anzi emularlo Galie no, le pur è vero il ſuo magnifico racconto allorche e' ſco verſe quella Romana femmina eſſer preſa forte dell'amor di Pilade ballerino; c comechè egli vanti aver in ciò ſupe lato rato il medeſimo Erafiftrato, ſe pur tale appunto andò law biſogna, qual egli la narra, non però di meno per eſſere fata colei viliſſimadonnicciuola, non ne riportò Galieno, ſe non quella gloria, ch'egli a ſe medeſimo attribuiſce, in iſcrivendo a Poſtumo talconvenente. Ma per toccar qualche coſa intorno alla maniera del medicare tenuta da Erafiltrato,fi pare,ch'egli nonmolto ſi Je i Salopsi ſoddisfece, ne troppo ſi valſe delle purgagioni: delle quali affatto ſi tenne egli nelle febbri; e dar ſolamente le ſolea in altre malattie, che'lrichiedeario; ſi portava egli sì fattamente con gli infermi,che ſenza lor molta moleſtia, e riſchio alcuno recare, e ſenza porgerne loro cagione, fol con iſtrettamente cibargli, felicemente conſeguire ſperava ciò che altri dalle purgagioni, e da’ ſalaſli attendeano. Ma nonmeno Eraſiſtrato, di quel che Criſippo ſuo maes ftro s'aveſſe già adoperato, ftudioſſi egli ancora di ridurre alla ſua antica ſemplicità innocentee, inerme la greca me dicina; vietando ſeveramente i ſalafi, i quali s'erano a po co a poco in tutte le ſette della medicina introdotti; per chè ſi vede chente, e quale e' fi foſſe il valore, e quanto grande l'animo di Criſippo, e d'Eraliſtrato, i quali ebbero ardimento primieramente di far fronte all'oſtinata bruzza glia del vulgo, e rincuzzare una già quaſi preſcritta uſanza nella medicina. Ma le ragioni delle quali eglino fi valſe ro a ciò perſuadere,vengon deliderate da Galieno; ne accé na egli una ſola d'Eraſiſtrato: la quale ſiè, che nel ribut tamento del ſangue non ſi dee ſegnare, acciocchè per lo mancamento di eſſo non vegna poi coſtretto il medico a cibare fuor di tempo l'infermo; e in ciò loda grandemente egli Criſippo ſuo maeſtro, il qual dice, che in ciò ebbe ri guardo,non ſolo alpreſente, ma all'imminente male anco ra; concioſſiecoſachè al ributcamento del ſangue agevol mente ſeguir ne ſoglia l'infiammagione, in cuiilcibare ric fce ſenza fallo molto, e molto pericoloſo a' poveri infermi; ed egli è forteda temere, che chiunque dopo l'etſer legna zo dee portar la famc gran tempo, non vegna a mancare; indi poſcia ſoggiugne, che per sì fatta maniera adoperan doni doſi nel medicare Crilippo, n'acquiitaſſe lode, e gloria immortale. Mas'altra ragione di ciò ne recalle Erafiſtrato, Io no'l ſaprei diterminare; non potendoſi preſtar fede in si fatta materia a Galieno; cercando egli, come avviſa eziandio alcun de'ſuoi più parziali ſeguaci, a diritto, e a roveſcio il meglio ch'e'potea d’avvallar la gloria, e la famad'Erafi ſtrato; c anche talora tentando a forza di ſofiſmi, e dica lunnia (trappargli di mano la ſignoria della medicina. Recar ſi veggiono in mezzo da Galieno alcune frivolei ragioni de'parteggianti d'Eraſiftrato; ma da Galieno me. delino per avventura fognate. Maegli ſi dee fermamen te credere, che non poteano mai, ne Criſippo, ne Erafi. ſtrato, ne Medio, ne Ariftogene bandire, introdurre, mantenere in piede poi una maniera sì da quella diverſa ch'era comunemente in uſo, ſenza farne ben prima pruos va con qualcheprobabili ragioni, colle quali moſtraffera eſſere ſtati a ciò fare tratti di peceſſità, e non da vaghezza alcuna; ne poteano altrimenti facendo difenderſi ne'lini ftri avvenimenti delle malattie; e forſe Criſippo, o pure Erafiltrato qualche libro particolare ne compofe non per venuto alle mani di Galieno; il quale dice chiaramente una volta, che l'opere di Criſippo crano molto vicine a ſmar richi, e ad eſſer ſommerſe in perpetuadimenticanza. Ma quando primieramente cominciato foſle nella Gre cia un sì crudel coſtume d'aprir col ferro, o col morſo di velenoſi vermini le vene, e colla luſinghevole ſperanza di fottrarla a' preſenti, o a'ſopravegnenti mali,impoverir dell? unico ſuo ſoſtentamento la vita, egli è coſa malagevolen aſſai nel certo,anzi per avventura impoſſibile a diſtinguere; folamente,che non ſi poſſa porre in dubbio e' mi pare,che'l crar ſaugue,nemolto nepoco, ne'primni antichillimi tempi della medicina appoi Greci in uſo niuno noirera; ne Ome ro, il qual non iſdegna con abbaſſarſi alle più menome par ticolarità delle coſe porre in non cale la dignità, e la gran dezza, e magnificenza convenevole all'eroico poeta, livi de giammai far mézione alcuna del ſegnare nella cura del le ferite di Marte, diMenelao, d'Euripilo, e di Macaone; perchè, per tacer d'Achille, e di Patroclo, ne Podalirio ne Macaone, eſſendo favoloſo ciò che di lai narrali intorno a tal convenente per Celio Rodigino, ne Chironę lor maeſtro, ne Eſculapio lor padre, ne Apollo lor avolo, ne Peone medico di Giove conobbero, e.miſero mai in uſo i ſalafli, e ne meno fi fa fe'l fegnare,da loro mcdelimi i Gre ci trovaſſero, o pur da altri popoli l'apprendeſſero;macer tamente ciò non poterono iGrecidagli Egizaj antichi ap parare, i quali per teſtimonianza di Socrate,da noi altro ve apportata,non ſi valfero mai di rimedi pericoloſi; ne ore no da’moderni: imperciocchè coſtoro, come avviſa Dio doro, altra ſorte dirinedj non ebber mai in uſo, fuoriſo Jamente, che criſtei, digiuni, purgative medicinc,e vomi tive. E ſi pare, che dagli Egizzj nell'altenerſi oglino mai ſempre da’lalaſli veniſſero imitati i fapiéciflimi popoli Chi neli, nel cui paeſe, che poco cede in grandezza all'Europa, ma l'avanza di gran lunga nel numero degli abitatori,non di vide mai, comedicemmonoi già, trar ſangue in infer mità vcruna; il cui eſemplo han ſeguito quei della Coccin cina, del Giappone,e tutti quegli altri popoli porti in quell' eſtremo tratto della terra, che bagnata viene dall'Oceano orientale; e in modo tale abborriſcono i Cineſi medici i falali, che ne i Saraceni, allora quando i Tartari occupa rono quell' imperio, neinoſtrive l'han mai potuti intro durre.? Ma che che ſia di queſto, chi poſe in uſo primiero il trar ſangue, Io immagino, che fi movcffe, e ſpinto vi. foffe, non già come immaginò Plinio (ſeguito in ciò fol lemente dalMontano, e dal Vonio) dall'eſemplo del caval lo del fiume; non eſſendo miga vero ciò, che ſe neraccon ta, come. Avempalace Arabomedico avvisò; ma dallo ſcor gere forſe, che dopo qualche ſpontaneo uſcimento di fan gue,o dalle narici, o da altra parte ſi vedea cedere in qual che parte il malc e sì crebbe l'uſo del ſegnare nella Grc cia, checonvenne, che Ippocrate, c.prima gli altri più ani tichi landaſſero a poco a poco riſtrignendo, sfidando per It' ! d ſe per avventura di torlo via affatto Ma non ſarà forſe fuor del noſtro propofito a rap portare ora alcuna delle tante ragioni, colle quali po trebbeſijs’Io pur non vado errato, sì fatta opinione difen dere. La vita degli animali (dico ora vita, largamente parlando x quello, ſenza cui al corpo, comechè compiuto, e ſufficientemente organizzato; non può l'anima accoppiar ſi, o ſtar tantoquantoin lui ) egli ſembra, che in altro ve ramente non confifta, che nel ſangue, o in qualche altro- li quore alſangue equivalente, che in alcuni animali in vece di quello (i mira. Coſa, la quale non può punto dottarſi da chiunque avviſa, che collo ſcemo del ſangue fcemaſi agli aniinali anche manifeſtamente la vita; perchè ſe non per forte diſtretta, e neceſſità quello non li convience vuotar negli animali. Ma delle due maniere, colle quali il ſangue menomac puoſli, ciòſono, ocom trarlo fuora a viva forza da'vafi, che'l contengono, o con dar ſtrettamé te', e a riguardo il cibo; il trarlo certamente è quello, il qual reca nocimento, e danno maggiore, e più gli animam li affraliſce; concioſliecoſachèfgorgando il ſangue, con quello inſiemene ſvaporano quelleſottiliſſime volanti ſo ſtanze: per le quali, e del chilo s'ingenera il ſangue, cin, priina de'cibi s'ingenera il chilo; ne può il ſangue mantc werſi nel ſuo ſtato, nevivificare le parci dell'animale, ſenza loro; il che apertamente da chiunque mente vi ponga; po tendoſi di leggieri avvilare, non fa luogo, ch'Io ne faccia parole. Quinci chiaramente ſi vede, c'l confeffa il medeſimo Ga lieno, che potendofi, qualor ne faccia meſtieri, acconcia mente coldigiuno menomare il ſangue, non fia ciò da fare in modo alcuno coltrarlo fuor delie vene,maſſimaméteove ègrade malattia;imperocchè quelle nobiliflime foſtāze,che detro abbiamo effer nelſangue, ajutano oltreinodo gl’in fermia ſtar vigoroſi della perſona ſenza eſſere diſvenuti, affranti dal male, e giovano affai al mantenimento di quel li, cafar laro ricoverar la ſalute; perchè quanto più gra voſe, e di riſchio ſono le malattie, più nocevole certamente è il erar fangue, e men fi eonviene. Malaſciandoda parte ſtare ciò che berlingando diceſi Galieno intorno al dovere fcemareil fangue, onde preſeg cagione i ſuoi ſeguaci di continuo aggirarli infra vane, e inutili contefe: certa coſa è, che'l ſangue può eſſer nocevo le agli animali, o per ſoverchio di rigoglio, e d'abbondan za, per cui o di preſente cagionar puofli in quelligrave ma latcia, o perchè egli è sì, e talmente piggiorato in tutto, in parte, che traligni dalla ſua natura, e non ſi conformica quella dell'animale:0 pure perchèegli inſieme e malvagio, e ſoprabbondevole s'avviſa. Ora in tutti, etre queſti caſi certiſſima coſa è, che'l ſegnare è fommamente nocevole E per cominciar dal ſoverchio del sāgue, chi negherà quel lo non eller mica vizio nella perſona: ficome anche vizio egli non è nella vita civile l'effer riccamöte fornito a denari, o d'altro,che meſtier faccia ad huomo per bene, e agiatame te vivere. E apertamente avviſafi, che coloro, che fom mamente in ſangue abbondano, ſon più d'aleri forci, e be atanti della perſona. Ma ficome la copia delle ricchezze, comechè buona coſa quanto a ſe, pure ad uſo cattivo da gli huomini adoperandori, ſuol di gravidanni talora eſſer cagione: così anche l'abbondanza del ſangue, avvegna chè buona, e laudevole fia,può talora nuocere, ſeconda mente che per noi ſopra il fecondo aforiſmo del primo li bro d'Ippocrate già fu accennató. Orrel foverchio del ſangue può táto nella perſona adou perare, che ragionevolmente ne debba temere il medico, poco ſenno ſenza fallo farà di lui a volervi riparar col fa Jaffo: potendo ben eglicon imporre ſtretto digiuno ciò ac conciamente fornire. E ſe'l male è già fufficientemente appiccato, ne di quello il ſangue punto più s'inframerre; che monterà egli attutar la canapa, acciocchè la girandola già preſa di foco non ſi conſumi? o pur che monterà egli ſpuntar la ſpada, perchè la ferita fattane fi ſaldi? E ſe pur dura oſtinato il ſangue a tener mano al male, oglirecas qualche impedimento alla cura di quello, può bene il me dico avveduto ſenza ricorrere al pericoloſo partito della X X 2 1: { so laſſo, con imporre all'infermo, che più o meno fi riman ga da' cibi: o più, o'meno, ſicomcli conviene, menomar lo. Nein ciò è da riguardare a ciò che in contrario ſi dice Galieno, cioè, ch'alcuni corpi v’abbia, i quali non così agevolmente potľano il digiuno comportare, per eſſer egli no caldi, e ſecchi in compleſſione,e come e' dice, collerici; '. concioſliecofachè, per tacere, che ritrovar non ſi poſſa mai ficcità ove ſia gran ſangue, maſſimamente laudevole,e buo no, qual G ſuppone: e che la collcra non s'inframetta pun. to nelle vene, nelle quali, come altrove diviſato abbiamo, ne meno in que'mali, che ſecondo effo Galieno dalla col lera avvengono, nelle vene ſi trova: e che in sì fatti corpi non poſſa eſſer troppo abbondevole il ſangue per lo ſmalti mento, che continuo di quello falli: può bene il medico co medicine, che attutino la collera, e con beveraggi, che non facciano ſe non ſe pochiſſimo ſangue, acconciamente a ciò dar riparo; ſenzachè in cotali corpi, i quali oltremo do abbondan di collera,ſicome faggiamente avviſano Ip pocrate, e Avicenna,ſon pericoloſi iſalasſi; e ſe ciò fonte, c'huom collera aveſse nelle vene, impoſibil certamente egli ſarebbe, che non n'aveſſe ancor nello ſtomaco: nel qual caſo ne men Galieno medeſimo ardirebbe a trar ſan. guc agli infermi, per qualunque gran male cglino aver ſero, Ma ſe'lſangue è malvagio, o cgli è per ſe ſteſſo tale, o pur altronde la reezza gli vien comunicata. Se altronde gli vien comunicata, non che giovi mai il falaſſo, anzi egli è ſommamente nocevole; imperciocchè, non che per lo trar del ſangue ſi ſcemi mai il mále,anzi ne monterà egli maggiormente, c più fiero, e rigoglioſo diverranne, ufcé do inſieme col ſangue quelle nobilisſime ſoſtanze, che di cemmo: le quali poſſono, e nel ſangue, e in quella parte, ond’al ſangue diſcorre il male, rintuzzarne l'impero:e ſcio gliendo, e aminendandocacciar via dal corpo per cieche, o per ſenſibili ſtrade quel caccivo ſugo, onde cotanto attri ſtivali il ſangue. Echi voleſse ammendare il ſangue coil cavarne dalle vene, farebbe come colui che con trarre acqua da un lago, in cuicontinuo acqua ſalmaſtra, o dall'int. teriora della terra,o altronde trapeli, voleſſe quelle addol cire. Ma ſe'l ſangue per ſe ſteſſo è cattivo, con trarne parte, non mé cal rimane, qualſe vin ravvolto, o aguzzo emend.:re ſperaſſe mai ſcimunito contadino, con trarne dalla botte al quáti maſtelli; ſenzachè l'infermo, perdendo anchequel le menzionate fpiritualı ſoſtanze, le quali ſole poſſono i difetti del ſangue ainmcndare, il nuovo ſangue, cheper quelle s'ingenera, e'l chilo diverranno mai ſempre pig giori. E quinci apertamente avviſar puofli, che ne merz faccia luogo il ſegnare, quando il ſangue nella perſona ab bondevole inſieme, e viziofo ritrovali. Ma per farci più addentro nella preſente quiſtione: l'al terazione, o'l cambiamento del ſangue, o egli è in tut to effo, o pure in qualche una, o più delle ſue parti, ość. fibili, o inſenſibili ch'elle ſiano ſi trova; oveche ſi covi il difetto,certaméte inutile affatto, e dáncvole ſarebbe il crar lo; concioffiecoſachè il l'angue in guiſa meſcolato per lo continuo movimento della tormentazione, e confuſo ne vali ſi ritrova,, che non men della parte vizioſa di quello, la buona ancora col ſalaſſo fuori ne ſcorga; perchè queſta, debile, e infiebolita rimaſa, meno certamente potrà rin tuzzare, e ammendare l'avanzo della cattiva. Ma potrebbe per avventura alcun dire, incontrar tal volta ne'malati, che il ſangue loro ſia tutto buono: ma che ſol qualche ſoſtanza di qualità cattiva, o dentro a’ vaſi in generata, o altronde in quelli venuta,come vermini, e altre fomiglianti ſtrane coſe, chenel ſangue talora anche d'huo mini ſani ſi ſcorgono, renda quello vizioſo; e allora col fa laſlo ſi poſſon molto bene quelle vuotare; ne per altra ra gione alcune malattie ſcemanſi talora, o affatto li ſpegno no per uſcimento di ſangue dalle nari, o da altra parte del la perſona. Io certamente, ſe ciò foſſe vero, a sì fatto argomento non ſaprei lo che riſpondermi: e non che a ſegnare diſtor nerei i noſtri medici, anzi a ciò ſommamente confortar gli devrei; ma in verità altrimenti va la biſogna; perciocchè, o che nel ságue la vizioſa foſtáza s'ingeneri, o che altróde a quello avvegna,no guaridopo il ſuomagagnaméto tra plo moviméto in giro del ſangue,e per quel della formentazio ne, convien, che quella sì, eralmente ſi meſcoli, e li ri volga inſieme con quello, che è buono, che ſe di tutti, e due non ſi ſgoccino interamente i vaſi, certamente non ſe ne potrà egli giammai tutto il malvagio ſpiccare. Anzico me in tutt'altri vuotamenti avviene, anche in quelli, chej per più larga bocca ſi fanno, certana coſa è, che allora il fangue piùpuro, e più ſottile più agevolmente ne ſpiccia fuora, rimanendo ſempre quaſi inorchia in fondo ilmalv.2 gio; ſenzachè può talvolta ne pori de'vaſi sì facramente fare inframeſfa la cattiva ſoſtanza, che per trarne tutto il ſangue ne mencertamente quindi ſpiccar ſi potrebbe. Ma ſerbiſi pure ella ſolamente nel ſangue, e per lo cotinuo ri volgimento di quello ella ancora ſimuova: certamente il caſo ſolo operar potrebbe, che in paſſando per lo ſpiraglio della vena, trattadalla foga del ſangue ancor ella per la medeſima ſtrada fuora ne ſgorgaſſe. Ma certamente il co trario tutto di avvenir veggiamo, maſſimamente nel velen della vipera: il qual penetrato una volta entro il ſangue,no ſi può quindi per ſalaſſi ritrarre giammai, ſe non ſe quando di preſente ſi taglia l'offeſa parte; perciocchè allora non penetrato ancor molto addentro il veleno, inſieme col fan gue fe n'elce fuora. Ne dee ſempre il medico avveduto prender guardia d' imitar co' ſuoi argomenti in ogni coſa la natura; concioſ fiecorachè non può egli ſapere comc, quando, e perchè quella opcri. Avvien talora, che s’alleggj, o affatto ſpe gnaſi qualche malattia dopo uſcimento di ſangue;percioc chè nel tempo medeſimo incontra per avventura, che la ca gion vera del male, la qual nó avea coſa che fare col sāgue, come altrove è detto, ſi è tolta via. Talora la cagion del malce nel ſangue: ma dalle partiſalde nel tépo medefimo dell'ufciméto, o poco avanti, e prima,che mclcolată fi fof ſe con tutto il ſangue, a quello mandata; e talora, perchè nel 4 1 1 3 1Ael medeſimo tempo ella del ſangue ſi è partita: e giunta... alle boccucce de'vali colla ſua mordacità le ſtimola,leapre, e inſieme col fangue n'eſce fuora. Or fe poteſſe il medico mai per ſenno avviſar sì fatte coſe; forfe ſarebbegli permel ſo talvolta il ſegnare; ma perciocchè egli èmalagevole al fai, anzi impoßībile a comprenderle, impoſſibile altresì ſi rendea lui la pericoloſa impreſa di poter col ſalaſſo vin cer le malattie. Perchè quando egli follemente s'arriſchia ad adoperarlo, ſi pone inmano della fortuna:e'l nocimen to, e'l danno è ſicuro, e'l giovamento molto incerto, che ne poffa all'infermo ſeguire; e maggiormente che rariſſi me fiate ciò che lo hodetto incontrar fi vede.Perchè ſcioc chi ſon da ripurar ſenza fallo coloro, che da quelle pochiſ. fiine volte, che felicemente per opera della natura ciò av. vcnire ſcorgono gvoglion, che parimente dall'arte ſempre mai ſeguir debbawo Mafe nel fangue farà per avventura in parte ſcema to il movimento in giro, o quel della formentazione, allora ccrcamente, non che rieſca giovevole, ma dannoſo olcremodo ſi ſperimenta il Talaſſo; imperciocchè per quello fcemandoli quelle parti, onde al ſangue cagionanſi eſimo vimenti, diverranno eglino ſenza fallo minori;ma le i movimenti faran creſciuti, comechè fembri, che per ſegnare debban ceflare, fcemandoſiquelle ſoſtanze nel la perſona, onde effi' movimenti procedono: non però di meno rimanendo in piede la cagione non naturale, per cui il' moviméto in giro, e quel della formentazione nelſangue accreſciuto ſi era, nonſolamentevano ſarà il falaſſo, ma altresì ſommamente nocevole; perciocchè con quello fi vé gono a tor via dal fangue le ſoſtanze ſpirituali, le quali ſo le poſlon vincere, e ſgombrare la cagione non naturale,per cui que’movimenti oltre al dovere, sformatamente accre fciuti ſi erano; ſenzachè in que'movimenti sì factamente avanzati, ſi fà grandiſſima perdita di Sangue: e poco, o nulla fi dee cibar l'infermo; perchèfe vorreio a quello col ſalaſſo ancora torre il ſangue, egli correrà certamente grá diſſimo pericolo della vita. Ma ſe'l ſangue li ferma in qualche parte falda del corpo, come veggiamonelle infiammagioni avvenire, allora non è da ſcemare il ſangue co'ſalaſli: ma sì ſi dee prender guar dia, che ſi toglian via le cagioni, onde quello a fermarſi quivi fu coſtretto se ciò non ſolamente, perchè il ſangue allor dalla febbre, che s'accompagna coll'infiammagione, grandemente ſcemaſi, e perchè poco, o nulla ſidee l'infer mo cibare: ma ancora, perchè quantunque ſe ne traggu daʼvafi,quel,che rimane,ſi fermerà pure Oſtinato quivi,e tā to più,quáto ſarà facto men vigoroſo il ſangue a più oltre pasſare;come veggiamo ne'mali della gola, e della pleureli avvenire; ę fcorto manifeſtamente ſi è allor che ſpina, o al tra fomigliante coſa ſi ficca nella carne, che con quantun que ſangue trarre, non ſi può far sì, che non vi accorra in fiammagione: evi ſi ripara ſolamente con trarne la ſpinews ſenzachè col ſalaſſo dipartédoſi dal corpo ciò che ſcioglier puote il ſangue rattenuto nella parte offefa, ne viene av montaremaggiormente il male. Neha luogo niuno certa mente quì, o la derivazione, o la rivulſione, che chia mano i medici, percui eglino tutto dì ſono a zuffc, eacă teſe in volendo riconciliare alcuni luoghi d'Ippocrate, e di Galieno: i quali variamente ne favellano; imperciocchè movendo di continuo il ſangue in giro, da qualunque par te egli ſi tragga, ſempre ne liegue il medeſiino: c niente ri lieva quantunque l'arterie ſi ſegnaſſero; imperciocchè vuo. tandoſi l'una parte del ſangue da'vaſi colla lanciuola, inco tanente nuovo ſangue dall'altra vi diſcorre: ficome in fiue micello avviene, le cuiacque per varj ravvolgimenti ricor rando a guiſa diconfuſo labirinto s'incontrano: E mentr’ei vien,se, che ritorna, affronta, E comechè i moderni per no li dipartire in medicando da gli uſi comuni, ſi ſtudjno, e s'affarichino dicoglier pruove; no però di meno apertaméte ſi vede cheindarno li beccano i geti; per maniera,che un di loro ebbe manifeftaméte a co feffare, che in ciò deſli ſtare alla ſola ſperienza; comcchè al cuni più ſaggi,e avveduti affermino le ſperiēze tutte recate dagli antichi a queſto propofito eſſer fallaci, e vane.Perchè ragionevolmére temevano i più famoſi Galienifti, che fiori vano a que'tempi che da prima ſparſeſi la circolazion del ſangue,no ſe n'aveſse a travolger tutto, e andar a foqqua dro l'uſo del medicare comunemente ricevuto; e queſta fi fu una delle cagioni, perchè un sì lodevol ritrovato tanto lor rincreſceſse.; el principal.degli argomenti, che contro a ciò giammai fi ftudiaffero di fare il Riolano, il Primero fio, il Pariſano,e altri ſi fu, che come narra l'Arveo: ftão se circuitu phlebotomia nonrevelli; quit ſanguisnibilominus parti affetteimpellatur. Ma comechènó ſapeſſe l'avvedu tisſimoGio:Battiſta Elmonte dell'aggirainento del ſangue, pure ebbe egli tanto d'intendimento,chegiunſea conoſcer ja vanità della revulſionc,,.e della dirivizionc,allor che iit facendo paroic della punta c'diſle: Quam circumfpečte ſunt Scholæ in fermocinalibus, &artificialibus: que in natura nil nifi ludicra ſunt! Quoniam etiamfi vena cubiti ufque in cavam totum depleat cruorem: do hecconſequutive èvena azygos cruorem extrahat; fcire tamen deberent ſcholæftatim poft, totumiterum cruorem æqualiter in venas reftitui: adeò licet.vena cubiti tatapoffetevacuari (quodnunquam ) tamé mox iterum totus cruor equareturper totum venarum cótex tum. Vnde manifeſtum fit vanas efle revulfionis, deri vationis nanias: quippe quibus conceſſis adhuc non nifi pro paucula mora inſervirent intenţiopi, Perchè ad alcuna delle dette ragioni, per tacer della ſperienza, riguardando per avventura quegli antichiſſimi medici della Grecia, i quali prima d'Ippocrate fiorirono, ma in quel tempo, che'l ſegnare era già nella Grecia in trodotto, furono così ritroſi, e guardinghi in crar ſangue: ne mai oſarono ſegnar nelle febbri, anche ardentiflime.Ne Ippocrate medeſimo, come ſi vede nc’libride'luoghi dell' huomo, e in altre ſue opere, fegnò giammai nelle febbri, ſe non folamente in quelle, che da grande infiammagione dentro cagionanſi; e in alcuni mali vuole egli di ſtrettamen te, che da ſegnar ſia con tal convegna, che non vi ſia feb bre; e avviſa egli oltre a ciò una fiata, che dopo lungo uſci Y y nicht mento di ſangue dalla matrice d'una donna, le ſopraven ne la febbre: coſa,la qual veggiamoanchenoi più d'una volta avvenire. Ne è punto vero ciò che dice Galicno, che Ippocrate porti opinione, che in tutte acute, egrandi malattie ſia datrar ſangue;concioſliece ſachè in quel luogo per noigià recato, in cui ſi conrende da Galieno', che ciò egli affermi, egli nel vero non di tutti mali acuti vuol che s'intenda, ma di que'ſolamente, de'quali egli quivi ragio na, sì veramente, che ſien grandi; e imperò vípoſe la par ticella deg che i Latini dicono fed, o pure verùm, e noi diciamo ma: della qual particella Galieno in ſu quel luogo non fa menzione alcuna, e artaramente la tace per poter quello recare a ſuo concio; perchè i ſeguaci d'Ippocrate forte ne'l tacciano, dicendo, ch'egli falſato aveſſe il teſto d'Ippocrate. Ne è da tacere quanto Galien ſi maravigli, perchè una cal ſentenza non ſia ſtata poſta da Ippocrate negli aforiſmi; e perchè egli altresì non abbia detto, che ne'mali grandi anche non acutiſi debba trar fangue. Ma ne men da’Galieniſti medeſimi viene ricevuto e ap provato il lor macſtro Galieno in quel ſuo famoſo decco: che in tutte febbri ottima coſa ſia a trar ſangue, non fola mente in quelle, ch'egli chiama finoche, ma in quelle an. cora,che da putrefcenza d'umori fon cagionate. E nel ve o eglino in ciò gran ſenno fanno a laſciar da parte la reve renda autorità del lor maeſtro, e ſtar guardinghi, e ritroſi di cavar ſangue in tutte ſorte di febbri; anzi licome eglino nella quartana, e nella terzana ſemplice di ſegnar ſi guar dano,così nelle altre ancora ſe sbandeggiaſſero affatto i ſa laſli, o quanto miglioriſarebbon da eſler giudicati, e più aſſennati aſſai del lor medeſimo maeſtro; concioliecolachè nelle febbri maſſimamente acute, e più in quelle, che ſino che chiama Galieno, per la ſtrabocchevole formentazione, e per lo troppo riſcaldamento del langue, cotato egli liſce ma, e s'affraliſce, e s'infieboliſce la perſona, che pericolo ſo alfai, e nocevole riuſcirebbegli ilfalaſſo;ſenzachè dal la ſcarſezza del cibo ancora, e per lo poco ſmaltimento di quello s’aſſottigliano sì fattitebbricoli, e quali a buccia eſtreina dimagrano. Ma avvegnapure, che con ſegnare rinfreſcaſſeli veram mente il fangue, ilche in cotalifebbri non ſi ſcorge, ſe non fe di rado, eperpochiſſimo ſpazio di tempo avvenire, ri furgendo teſteſo vie più che mai impetuoſo, e fervente il calore; non però,dimeno aſſai ſciocchezza certamente fa rebbe a volerper poco rinfreſcamento pericolar graveme te la perſona, e manifeſtamente porla a riſchio dimorte; perciocchèſovepti volteincontra, che dopo il falaſſo vol gendofi a maligna la febbre., più coſto n'uccida. E fe pur vogliam rinfreſcare il ſoverchio calor ne'malati: che non cercar di ſcemarlo con argomenci acconcj, ſenza metterci al pericoloſo partico de ſalaſſis che non cercar rimedj da to glier la cagione,onde nel ſangue colla formentazione il ca lore ſtrabocchevolmente ècreſciuto, laſciando in lui quel la vital ſoſtanza, che ſola puòl'infermo ne' ſuoi mali aju tare? Ma ſopratutto certamente vorrei Io domādare ad Ippo. crate, e Galieno, perchè eglino diſideravan, che ſi traef fe ſangue fin’allo sfinimento dello infermo nelle febbri ca gionate da grandi infiammagioni dentro, maſſimamente.ne' mali della gola, e della punta? perciocchè in quelli, fico me il inedeſimo Galieno inſegna, ogni ſperanza di riſto ramento nelvigor.dello infermo allagaſi; ilqual ceſſando molti ſe ne veggion miſeramente morire, eziandio nel di.chino del male, non avendo in lor virtù, perla fiebolezza, da poter il puzzo già cotto, e digeſtito ſpurgare. Ma ſe Galieno non vuole,che ſi tragga ſangue a'fanciul li prima del quatroidecimo anno per qualunque graviſſimo male elli abbiano, non per altro certamente, ſe non ſe per la grandiſſima inſenſibil vacuazione, che continuo coloro fanno: perchè farà eglida trar ſangue nelle febbri, malli anamente sipoche, e in quelle dell'interne infiamagioni,per cui l'inſenſibil vacuazione, che fasſi negli infermi è ſenzaw paragone affai maggior di quella de'fanciulli? Ma per avventura egli non fu Galieno così amico di ſe gnare., comeſi fanno a credere i ſuoi Galieriſti; e forſe più per oggia, e diſpecto, ch'egli aveva nella nimica ſerta di Y y a d'Eraliftrato, cotanto egli commendò i ſalali, che per ra. gion, che veramente ve'l traeſſe; perchè con tante leggi, ' e convegne, e riguardi egli ne riſtrigne l'uſo, che certa mente delle diecivolte, che i noſtri Galieniſti ſegnano, ſe bé li mir231on ne ſaran due per avventura ſecondo il vero ſentimento del lor maeſtro Galieno adoperate; e rariſſiine volte certamente quelle ſarebbono, che ſegnar ſi dovreb be ſecondo il lor Galicno; ma eglino credendo d'adoperar bene nelle malattie, con porre ayanti un sì gran rincdio,e sì giovevole, qual e' dicono; non curano di trarre a' mini feltisſimo riſchio i malati, ordinando largamente i falasſi in ogni malattia ſenza riſpetco alcuno, anche contro i divi lamenti del lor medeſimo maeſtro. E comechè Galieno, come teſtè diciavano, n'aveſſe una volta inſegnato, che ottimo ſia a ſegnare in tutte ſorte di febbri,pur quando poi più minutamente nevuol divifare raccontando ad una ad una al ſuo Glaucone le maniere di toglier via le febbri, quaſi dimentico del falaſſo no nefà motto niuno nella cu ra della ſemplice terzana la qual ſecondo lui muove dapll treſcenza d'umori; e nella cura della terzana baltarda egli dubitoſo, e in nube ne favella, tempellando nel ſuo ani mo tra'l ſoſpetto, e la paura di non offender con sì fatto medicamento gl'infermi. Perchè ragionevolmente il Ro rario di ciò avveduto, forte proverbiandolo diinunifeſta contraddizione nc'ſuoi ſentimenti l'accagiona: quum aliud videatur proponere in univerſali methodo, ficome e' dicu, quàmin particulari exequatur. Ma non che Galieno die fcendendo al particolare, a ciò che prima accennato ave va in univerſale, minutamente fi conformi; anzi cotanto fciocco, ebalordo egli è nelle ſue regole, come già diviſa to abbiamo, che in preſcrivendole in univerfale, fache ſo vente l'una all'altra contraſti, e vicendevolmente fi com battano. Così nel libro del modo di medicar per via di fa lasſi,contro il rapportato duo diviſamento dice: lo dimos ftrerò in queſto libro, che non che a ciaſcuno convenevol fia il falaſſo, anziche ne men coloro, ch'abbondan oltre fiodo ia langue, fian da ſegnare, ſe prima manifeſtamente non fa non ſappiafi. di qual natura fia l'abbondanza del lor fan gue: e quale lo ſtato dello infermo, e gli anni, e'l luogo, e la ſtagione, e la complesſion dell'aria ſia: e chenti, e quali fegniabbia egli patito' o patiſca nelcorſo della fua ma lattia; per ciaſcuna delle quali convenienze dice egli di do verne inaniteſtamente dimoſtrare, che molti ſenza graviſ fimo for dáno ſegnar non ſi poffano. Ecco le ſue parole: Εγω επιδείξω κατατον εξής λόγον, και μόνον άπαντας και δεομένες φλεβοτομίας, αλ' εδέ τες πληθωρικές αυτούς, εαν μη πεότερον αυτό το πλή θG-, οποίον πτην φύσιν εα διορίστι μετα τούτα την έξιν του κάμνονlG Xoxíarte, xai megy, noi xwegen wij, satíscos, @osc te thonyera, sche όσα περεστ τω κάμνονασυμπώμας καθ' έκασον γαρ τούτωνεπιδείξω πολ. λους μη φέρον ως αβλαβώς την φλεβοτομίαν. Ωltre acio avendo Galieno nel libro cótro di Eraſiftrato, e altrove inſegnato, che del ſoverchio ſangue trar G debba copioſamente infino allo sfinimento; nel quarto libro poi del inetodo eglicer tamcnre in miglior ſenno rinvenuto affermanon cffer il ſo verchio ſangue indizio del ſalaffo; perciocchè ſe huom ſa no sformatamente in ſangue abbonda, non è egli si toſto da ſegrare: ma sì fi dee con purgagioni, e con menomargli il cibo, c con iftropicciamenti e, altri rimedj ajirtare. Co sì anche egli inſegna nell'undecimo del ſuo metodo, che nella febbre ſinoca no debba il medico troppa copia di sã gre allo infermo trarre: acciocchè il debito alimento alles parti rimanga, ne fia ſtretto l'infermo per ricoverar le ſinarrite forze a doverſi troppo ghiottamente nutricare; non però di meno egli medeſimo altrove dice ſe aver nella febbre finoca fino allo sfinimento ſegnato. Ma più che in ogn'altronel nono libro del metodo moſtra affai ma nifeftaméte Galieno quáto egli ondeggiáre, e dubbioſo in torno al ſegnar fia; conciosſiecofachè egli quivi dica do verſi trar ſangue di preſente a'malati di febbre finoca ſenza punto por cura che fia ilfeſto, o'l decimo giorno, o altro giorno critico: e ciò diſtrettamente egli comanda ſenza ri fpecto alcuno. Matoſto poi rivolgendoſi,indi a poco ſog. giugne, che ſe peravventura da altri medici, o dagli asli ſtenti, o dal malato medeſimo ti verrà ciò vietato, allor tu: debbj imporgli beveraggi d'acquafredda,e agghiacciata potendoli ciò ſicuramente adempiere ſenza nocimento al. cuno dello infermo; e ſe ciò pure ſicuramente adoperarnon ſi puote, allor comanda,che il medico ſi debba ad altri ri. medj rivolgere forſe più accoci di queſti. Dal quale diviſa méto manifeftaméte s'avviſa quáto poco fperava Galieno nel falaſſo a dover guarir la febbre ſinocajāzi qnāto egli no men del ſalaſſo temeva anche dell'acqua fredda: la qual ſe.condo lui ſmaga la perſona, affieboliſce le membra, e ren de crudi gli umori, e ſveglia tremori, e dibattimenti nel corpo, e cagiona nonpocamalagevolezza nel reſpirare. E ſe con molta ragione egli ebbe nel libro primo del metodo a coinmendare oltremodo gli antichi medici; i qualicosì ritroſi, e guardinghi erano in permettere agli in. fermi vino,o acqua, o altro rinfreſcamento della loro ſete; che non altrimenti, che i rigorofi Capitani a’ſoldati comā dino, o i Principia i lor popoli, cosi eglino in ciò ſtretta mente ubbidir ſi facevano da' loro infermi: certamente Galieno, ſc avelle creduto eſſer neceſario il falaſſo a cota li febbri, avrebbe egli il ſuo medico conligliato,che ripu gnando altri medici, o gli aſſiſtenti, o l'infermo medeſimo, di quello ſi rimaneſſe; maſe più a capital ſenza fallo auuto l'aveſſe, egli ſaldo, e oſtinato nelſuo proponimento avrebe be pur confortato ilſuo medico a doverlo metter avanti, o pure d’abbádonardi preſente la cura dello infermo; ficome altrove in ciò che conoſce neceſſario al ſalvamento de'ma lati, più volte il ſuo medico diſtrettamente egli ammo niſce Mache direm noi quanto egli generalmente poca ftima faccia de Calaſſic poco in lor lifidi? maſſimamétein quelli bro, quando contro ad Eraſiſtrato maggiormente aiz zato, e riſcaldato vuol provar quanto ſia convenevole, neceſſario a'malari il ſegnare;allora nel maggior caldo del la pugna, quali ſchivando la propoſta, che cotanto in pri ma avea preſa per la punta, li rivolge contro coloro,i qua li giovani, e mal pratici in medicare, temerariamente ove non ſi conviene adoperano il Calaſſo; e sì cutta la colpa riverſa ſopra coloro, i quali quantunque nel cominciamento del male traggan ſangue', dice nondimeno,cheper lor dap pocaggine ſpeſſo gravemente pericolano gl'infermi; per chè conchiude egli diſiderar più toſto, che cotali nuovi uc celloni non s'infrámettano dibiſogna così pericoloſa,e più toſto per ſalvamento demalatiſe ne rimangano. Mamol to aftuto, e malizioſo ch'egli è, ſe per prender riparo di cotanti mal capitati infermi per lo ſalaito, n'accagiona la tracotanza, e la befraggine de'giovani e mal praticime dici: come ciò colpa foſſe dell'età di coforo, e non più to fto del medeſimo medicamento; perciocchè egli dice', e manifeſtamente confeffa, maggiore aſſai eſſere il numero di que’malati, che per malamence ſegnarſi ſi morirono, che, di coloro, a'quali tratta non fu mai goccia di ſangue. Eal la per fine egli conchiude, che gran danno, e nocimento agl'infermi apportano que'medici, che giudicano nel co minciamento di tutte tebbri doverſi crar ſangue. Ma che che ſia dell'opinione diGalieno,la continua ſpe rienza di ciò baſtantemente ammaeſtrar ne puote: e ſe li beri d'ogni neo di paſſione negli uſcimenti delle malattie riguardiamo, ben coinprender pofliamo quelle per ſalaſli non eſſer mai ſcemare, le per avventura giunte non ſienoa' termini loro facali se da ſe ſono ſenza argomento alcunori ſtate; ma non così negli altri rimedi, i qualivantar poſſo no di riparar veramente alle malattie, e cacciarle fuora dalla perſona per lor virtù, e giovamento; ficome nelle terzana, e nella quartana avviſar puoſli: le quali non cede do a’ſalalli; o alle purgagioni, pur dalla ſcorza del Perù só vinte, e fignoreggiate; perciocchè quella ſolamente è ri medio acconcio loro,e non già il falaſſo, o la purgagione,le quali coſe più coſto offédono,che giovano in corali malat tie.Nein ciò voglio lo diftédermi al preſente,co farne lun ghe pruove: ſolamente rapporterò l'avvenimento del Sere niſlimo Cardinal Infante;al quale comechè per li tanti ſa laffi non foſſe rimaſta gocciola difangue nella perſona,pur. dura, e oſtinata la ſua febbre non ceſsò mai, ne rifinò, fin chè cacciollo diqueſta mortal vita. Anno 1641 Noven bris diſſectum fuit curpus Principis FerdinandiHiſpaniarum Regis fratrisCard. Toletani, qui 89.diebus tertiana febri agitatus obiit ætatis 32.annorum. Etenim fublatis cordes bepate, cu pulmone, adeoque difettis venis,arteriis, vix cochlear cruoris in cavuum thoracis confiuxit; planè nimiru hepar oftendit exangue: cor verò inſtar crumena flaccidum: biduo enim ante mortem plus ediffet,fi ipfi conceffum fuiffet, Fuit enim per venæ feitiones, purgationes, hirudineſque ità exhauftus, ut dixi; non definebat tamen tertiana fuum sypă Servare. Ne muove punto ciò, che ſi porta per Galieno, ſe pur cgliè vero, di quelmalato difebbre ſinoca, che ſegnato da lui fino allo sfinimento ſi guarì; concioffiecoſachè veg. giam noi molti, e molti guarir turto dì da și facte febbri ſenza verſargoccia di ſangue; ed'altra parte infiniti anche ſono coloro,come teſtimonia il medeſimo Galieno, i qua li fino allo sfinimento ſegnati G morirono; e coloro ancora, i quali a peſſimo ſtato della lor ſalute ne giunſero: e coloro, i quali anche per teſtimonianza del medeſimo Galieno,co loro grandiſſimo riſchio,dopo ſegnati fino allo sfinimento, affieboliti, e raffreddati di tutta lor perſona n'ebbero ſudo ri grandiffimi, e ſoccorrenze, comechè poi loro ne folie ccffata la febbre. Ne di ciò è punto da maravigliare; con cioſliceofachè tra per lo perdimento del ſangue,e degli ſpi riti s'agitino, e ſi perturbino sì fattamente le parti (alde, e diſcorrenti della perſona, che per lo ftrabocchevol rime ſcolamento ſe ne viene a fommuovere,e disſipare la cagione della lor malattia: e sì rimangono liberi, e lani di preſente co non poca maraviglia de’inedeſimi medicanti. Così veg giamo per ira, o per timore, o per altra grave, e ſubitana paffione le gotte, e le quartane, e altre dure, e pertinaci malattie eſſer di preſente riſtate. Quinci manifeſtamente ſi comprende, ſciocchi oltremo do, e ſcimuniti eſſer coloro, i quali per picciol ſalaffo per fuadonſi aggiugnere a ciò, chè Galieno con largamen te trar ſangue fino allo sfinimento aggiugner fi crede va; perciocchè coſtoro per non porſi a riſchio d'ammazzare i malati nonolano loro con iftrabocchevolmente rea gnargli torre affatto le forze,e sì porli in bilico della lor vie ta; ma si mezzanamente ſegnandogli certamente non po tranno mai muover a rimeſcolamento le parti falde', e di fcorrenti del corpo, onde taloramaraviglioſamente,come chê con non poco riſchio della perſona, ſi riftanno le ma. lartie; perchè da’loro falaffi altro certamente ſperar non ſi può, che certisſimo danno, e nocimento ſenza ſperanza di riſtoramento alcuno ne'malati. E fenza fallo gran ſenno fanno coloro, che ne più, ne meno ſegnano, pereſſer i ſa lasfi ne'malati, o gravemente dannofi, e di riſchio, o affat to inutili. E a ciò riguardando i più pratici, e vecchi nel meſtier deilamedicina,ritrofi oltremodo, e guardinghi ſo 110 nel fegnare: ficome Raſi, e altri valeuti medici nell'ulti-, ma lor vecchiaja dalle continue pruove addottrinati, nois mai; ſe non molto di rado, e con grandisſimo riguardo ſi videro adoperare i ſalasſi. Mainoitri medici, comechè di ciò pure fien ſufficientemente ſgannati, e ricreduti, pure per non metter affatto in miſaſo l'antichisſima coſtuma de ſalasſi, e si laſciare anche in ciò la medicina del lor mac. ſtro Galicno, così ſcarſamente, e a biſtento ſegnano, ch'o ve gli antichi medici largaméte traevano il fangue a libbre, coſtoro ſolamente il traggono a pochisſime once; ritenen do così ſolamente in nome, e per veduta l'eſler Galieniſti in trar ſangue, quando in verità non ſono. Ma per ritornare allamedicina d' Eraſiſtrato, egli fem bra, per quel che nemoftriGalieno, che della materia de medicamenti egli ſi foſse allai ben conoſciuto; e viencegli oltrcmodo da Galien celebrato: perciocchè pellegrinando egli, e non avendo una fiata in acconcio una ſua medicina per lo ſtomaco, ponetie ſaggiamente in opera alcuni ſughi d'erbe,le quali quivi abbondanteméte erano;eGalien pari mente di luiracconta, che trovandoſi cgli medeſimo un giorno infermo in contado, e abbiſognandogli al ſuoma lc il paſtello d'Androne, ne potendolo quivi avere, in luq go di quello aſſai felicemente adoperò il ſugo del Rovo; c ſoggiugne Galieno, chee'non venne Eraliſirato a ciò fa Z Z 1 1010 re ſoſpinto altrimenti, o perſuaſo', come millantavano Sea rapione, e Menodoto, dal paſſaggio, o argomento dal fi mile al fimile, non avendolomiglianza niuna tra'l paſtello d'Androne, e'l ſugo del Rovo,madalla general contezza, la qual egli avea della facoltà de'ſemplici; per la cui' mea deſima ſcorta,ad emulazioned'Eraſiſtrato ritrovò poiGa lieno parimente quel medicamento, che'l fa tanto ſtraboce chevolmére pavoneggiare,cioè il ſugo delle noci.Or penſa te voi che ſchiamazzio avrebbe farto egli, e qual loda avrebbea ſe ', e ad Erafiltrato attribuita Galieno, ſe qual che menoma delle chimiche medicine aveſſer potuto mai eglino rinvenire. Ma ne Eraſiſtrato, ne Galieno ſeppero mai', che nel ſugo del Rovo, e delle noci viabbia un ſale adatto a ſciogliere molte, e molte di quelle materie, onde ingenerar fi loglion le poſteme; e che non ſolo i fughi già detti ſono riſtrignitivi,mavalevoli anche a fare cambiar na tura a quelle acetoſe ſoſtanze', oude s'ingenerano l'infiam magioni. E quinci ſi ſcorge apertamente, chevada errata in ciò la medicina razionale antica, la qual ſi crede, uſana do medicamenti sì fatti nel primo cominciamento dell'in fiammagioni, porre in opera coſe, che di ripercuotere, o di riſtrignere ſolamente abbian valore. Maritornando a noſtro propoſito: bé potea anche effer agevolmente vero ciò che diceano que’gran lumi dell'em pirica medicina, Serapione, e Menodoto, che da qualche ſomiglianza no penetrata da Galieno tra'l Rovo,c'l paſtel lo d'Androne indotto ſtato foſſe Erafiſtrato a ciò fare; e in verità tra'l Rovo, e la Galla,per tacer del vitriolo, onde vien formato il paſtello d'Androne, potea non che Eraſi ſtrato, ma huom di mezzano intendimento di leggieri av viſare eſſer non poca lomniglianza. Maquanto sì fatta ſo miglianza poſſa ingannare, non ſi richiede gran forza di loica a farlo vedere; e ſe, come pare a Galicno, Eraſiſtra to avea una general contezza de’medicamenti per quella acquiſtata, certamente egli l'avea per iſperienza, o da fe, o da altri fatra, la quale agevolmente può eſſer fallace: 0 pure per via di ragioni non meno della ſperienza ſoſpettes d'errori, e d'inganno.; perchè in un punto cosi principale manchevole, difettoſo, e incerto il fiftemadella razional medicina d'Eraſſtratoanche ritro.yafi. Ma trapaſſando ad altri: Io non ſaprei dire s'empirico e ſi foſſe, opur razionale quel famoſo medicante Petronas, il quale dopo Ippocrate, maprima d'Erafiftrato ebbe ad introdurre un iſtrano, e non più veduto, o intero modo di medicar le febbri. Solea coprir egli i febbricoſi di tanti pannilani,che loro ſi yeniffe a creſcere olcremodo il caldo, e la ſece; matantoſto, che incominciava il febbril caldo as ſcemare, ei facea loro pienetazze trangugiare di freſc'.ac qua, il ſudore aſpettandone; il quale ſe non compariva, di nuovo tacealorbere nuovaacqua, e proccurava ch'eglino vomitaſſero; riſtata poi la febbre, gli cibava di carne di porco arroſta, econcedea loro liberamente il vino; maſe la febbre non ſi partiva, facea bere agli ammalati acquad calda, e fale per render lubrico il corpo; e in queſto tutti igrantrovati della ſua medicina eran ripoſti. Mamipare da non dover logorare indarno il temponella cenſura d'un sì fatto modo di medicare; e comechè in alcune fortidi febbri, e in qualche huomo gagliardo, e ben atante della perſona non foſſe per avventura fuor di ragione il farlo tuttavia in tutte ſorti di febbri, in tutte perſone, egli fem bra certamére una ſciocchezza non punto diverſa da quel la d'alcuni medici de'noftri tempi: i quali non con altro che.colle purgagioni, e co'ſalali immaginano ciaſcuna gene razion dimalattic rilanare. E più ragionevole certamente egli ſembra la manicra del medicare alcune febbri, dagli Albaneſi uſara; i quali nel cominciamento di quelle foglion dare all'infermo vin generoſomeſcolato.con iſpezierie, fimile al vino ippocra tico, e al vin brugiato degli Inghileſi. Ma quino ſi può certaméte lodare il cófiglio diCornelio Celſo, che nelle febbri lente tratto tratto fidebbail corpo imbagnar con acqua fredda meſcolata con olio; che in tal guiſa egli credette, che ſi verrebbe a riſvegliar il riprezzo, e conſeguentemente anche il calore, ondeagevolmente ne Z 2 2 po potrebbel'ammalato guarire: fæpe igitur, egli ſcrive, et aquafrigida, cui oleam foc adječium, corpus ejus pertractan-, dumeft; quoniam interdum fic evenit, ut horror oriatur, ds. fiat initium quoddam novi motus, exque eo, quum magis corpus incaluit,fequatur etiam remiffio. Ma quantunque alcuna fiata a ciſo poſſa il fatto nella guiſa da lui deſcritta accadere, ed agli ammalati alcun pro avvenire; pur non dimeno ſenza manifeſto riſchio non va la biſogna; impe rocchè ſe altrimenti riuſcirà, n'andrà ſenza fallo da male in peggio l'infermo. E quinci fi ſcorge con quanta ragio ne abbian laſciato i Galieniſti il pericoloſo modo, col qual guarito aver fi gloriava la febbre finoca Galieno, confar uſcire il ſangue dalle vene per via del falaſſo, fino allo sfi nimento dello infermo; da chefacendoſi gran movimento nel corpo fogliono i ſudori copioſiſſimi,e l'uſcite del corpo, e'l vomito anche talora, come avviſa il medeſimo Galicno, avvenire; per li quali, e per le quali o ſperano, che debba mancare affatto,oin parte la febbre. Ma in vano certa mente eglino poi attendono tal opera da’lor piccioli ſalallı; al che non dovette aver riguardo Avicenna,la ove diſſe el fer meglio affai accreſcere il numero, che la quantità de’la laffi; cioè più cofto in più volte il ſangue, che tutto inſie metrarlo fuori, Ma per più d'una pruova avviſando il grand'Atenco, fra quante traverſe, fra quanti viluppi, fra quante incertezze vacillanti s'andaſſer ad ogn'ora aggirando le varie, e tra effo loro diſcordanti dottrine, che per le fcuole più cele bri della razional medicina nellaGrecia s'inſegnavano,im preſe anch'egli una fabbrica di novello fiſtema di medici na; perchè tutte le forze del fuo acutiffimo intendimento egli vi poſe in opera; c tanto in ciò fare ebbe ſeconda las fortuna, che da molti valent’huomini vennero a gara le ſue opinioni ricevute, e approvate; e per tutto quel tempo, che le lettere fiorirono nella Grecia, e nel Romano impe. rio, celebre fi manterne la ſua Setta, e in buon nome, las qua le ſpirituale venne chiamata; imperocchè una fortiliſ ſin a fpiritual ſoſtanza clla immaginava; la qual per tutti i 1 corpidell'Vniverſo diſcorrendo mai ſempre, e penetrando, non meno il grande, che'l picciol mondo regger doveſſe; é dove ella non foſſe primjeramente offeſa,non poteaſi, fe condo il ſuo ſentimento, male alcuno ingenerarſi; il qual diviſaméto ſi parve egli, che’n parte adombrar voleße Vir gilio in prima dicendo. Principio cælum, duterram,campofque liquentes, Lucentemque globum Luna, Titaniaque aſtra Spiritus intusalit:totamque infufa per artus Mens agitat molem, & magno fecorpore mifcet. E poi Torquato Taſſo Ele menzogue antiche Di chifiloſofando, e menie, e Spirto Dieda queſta mondana, ed ampia mole? Il qualper entr'a lei trapaſa, e ſpira; Com'a lor parve, e'l Cielo, e l'ima terra, E laſpera delſollucente, e vaga, E’l globo de la Luna, e l'auree ſtelle, E de l'aria, e del mare i larghi campi Nutre, e miſto al gran corpo in varj modi, Move agitando le diverſemembra? Ebbe la ſetta fpirituale oltre ad Ateneo, e a Criſippo fuoi principi, e alMagno, ad Agatino, ad Erodoto, altri, e al tri valentiffimi huomini, che colle loro opere univerſalmé te avute a grado,ſommamente la nobilitarono, e l'illuſtra rono; e fra gli altri Archigene:il quale, tra per lo medica che felicemente mai ſempre fece, e per li tanti doctiſ ſimilibri, ch'e' diede fuora, ne'quali non laſciò cofa, ne grande, ne piccola, che trattata diligentemente per luino foſſe nella medicina, non ha che cedere a niuno, ch'abbia o prima, o dopo lui ſcritto, e medicato infra'Greci; im pertanto per la ſoverchia applicazione alla loica, onde a gran ragione talora vien Archigene accagionato da Galie no: e per valerſieglino della filoſofia degli ſtoici, i manca mentidella quale altrove da Noi fien conti, difettoſo, e fallace moltoegli riuſcì il loro fiſtema di medicina razio nale. Oltre re, Oltre a queſto e'miſembra, che riprovino eglino me deſimi il loro ſiſtema; imperocchè in medicando le malat tie, poco, anzinulla a sì fatto Spirito badar fogliono; con che danno a divedere non altro eſſer queſto loro ſpirito, ſalvo che un gentil trovato per fare parer maraviglioſa al vulgo la lor medicina. Doveano adunque eglino provar in prima con ſaldiđimi argométi eſſervi un cotale ſpirito; indi diligentemente inveſtigare, chente,equal li fia la ſua nas tura, cioè qual figura qual, grandezza, equal movimento abbiano le particelle, che'l compongono, e come egli fac cia le ſue operazioni nelcorpo umano, e come nell'inge nerarſi le malattie egli offeſo vegna; e in qual guiſa dar li pofla a'ſuoi diſordinamenti compenſo.. Poco men che crucciato ſi maraviglia Plinio, in pone do egli mente alle ſtravaganti pur troppo, e maraviglioſes felicità nelvero d'Aſclepiade;huomo com'e'dice, quan to al naſcimento, di condizionemolto vile, e di maſtro di ritorica ch'egli era in prima, perciocchè aſſai poco gli fruttava, in un tratto medico divenuto. E sì, e tanto egli adoperò, che nuova ſembianza in breviſſimo tempo ve ſtir facendo alla medicina, a rimaner ne veonero l'antiche regnanti ſette ſconvolte tutte, e poco men, che affatto op preſe, e abbattute; ed egli folo vincitore,e trionfante de gli altri medici, a guiſa di perpetuo dittatore nella Città donna,e capo del mondo, ne ordinò a ſuo talento, e ne diſpoſe le leggi: ſupremo, e aſſoluto arbitro, della vi ta, e della morte diquelpopolo, nelle cui mani ſtava la morte, cla vita d'ogn’uno ripoſta. Ma fermamente egli fi dee credere, che a tanta grandezza perveniſſe Aſclepia de, non tanto com’alcuno immagina, ch'egli ottimo e pro to parlatore ſi foſſe, quanto che colſenno, e col valor no punto ordinario viſi portaffe, comechè la fortuna anch'el la vi concorreſſe con qualche gran fatto; quale appunto di fu quello, che vien narrato dallo ſteſſo Plinio; ch'eſſendo ſi un giorno egli a caſo incontrato in un miſerello, che per morto era portato alla ſepoltura, facendolo egli a caſa rie tornare, con valevoli argomenti in perfetta ſanità il rimiſe. Eben 1 túrós, E ben palesò egli al mondo la grandezza del ſuo animo', e la ſingolar fua prudenza: allor, che prevedendo la fa tal rovina del gran Re di Ponco Mitridate, generoſamente diſprezzando la gran ſomma dell'oro da colui per amba fciadori offertagli, ricusò d'andare alla ſua corte. Malale tezza del ſuo acutifſimo intendimento appieno benmoſtra no quelle, che delle tante, e tante ſue opereſcarſiſſimes particelle a noi ſono rimaſe; nelle quali ſi vede apertainéa te, che non iſchivando egli mafagevolezza niuna, ne ſi fermardo nella prima buccia delle coſe, s'ingegnava ſeco do ogni ſua poſſa d'internarſi nc più ripoſti ſecreti della na Primieramente vuol egli Aſclepiade, che non già per caſo, ma di neceſſità, e per l'indirizzamento della natura ognicoſa avvegna nell'Vniverſo: e che fa natura altro ve ramente non ſia, che'l corpo medeſino, o'l ſuo moto: per la cui perpetua, e iron mai ſtanca opera i corpicciuoli, i qua li cosìpiccinli ſono, ch'alla menteſola permeſſo viene co prendergli, veloci, e ratti, e con volante foga fra' effo lo ro incontrandoſi, e con vicendevoli percoffe, l'un coll'al tro cozzando, e forte battendoſi, fi vengano a ſminuzza rc, e a dividere in minutilíme, e innumerabili ſchegge; le quali con diverſi movimenti andando l'una verſo l'altra, e inſiemeaccoppiandoſi, e congiugnendoſi, prive d'ogni qualità, col moro, col numero, colla grandezza, collow figura, e coll'ordine le coſe, e l'apparenze tutte ſenſibili producano;ne eſſere fuor di ragione,egli poiſoggiugne,che ſien privi diqualità i corpicciuoli; concioſliecoſachè altro dal tutto, altro dalle parti ne ſegua; l'argento è bianco, ma nera è la ſua radicura; il corno ènegro, mala ſua polvere è bianca; ma dovetre dir egli ancora, che le qualità altro non fieno, o per me'dire altro non le faccia apparire, che'l concorrimento, la figura, e’l fito, e la grandezza, e l'or dine, e'l moto di que'corpicelli; perchè allor che concor rono inſieme piccioliſſimi corpicelli, o ſperali, o piramida li, e con dilatante moto velociſſimamente ver noi fi lancia no, a formar ne vengono quel ſentimento, che dicalore ſi chiaina. Dice oltre a ciò Aſclepiade,chenell'accozzarſi inſieme, appigliandoſi le particelle, o ſchegge ſuddette nel formar le membra degli animali, vi laſciano molti, e molti ſpazj vuoti, per opera delſolo intendimento compreſi, varj di grandezza, e di figura; i qualiſe aperti fi mantengono al tragitto de ſughi, ſi mantiene l'animale ſano, callo incon tro, ſe impediti fono per la dimora de'corpicelli,a far li vê gono ſecondo la varietà delle parti, e degli ſpazj, varie, e diverſe le malattie; ma non però già tutte malattie, ſecon do Aſclepiade, avvengono per la dimora de'corpicciuoli, fe non ſe alquante ſolamente, come la freneſia, il lecargo, le puinte, e lefebbri grandi; ma altre poi avvengono per ſoverchio aprimento: e s'ingenerano per la curbazione de ſughi, e degli ſpiriti, per la quale ſtrabocchevolmente s’al. largano gliſpazj, come nella fame canina, e nella fover, chia magrezza ſi vede: 0 nuovi ſpazj a viva forza in non, convenevoli luoghi ſi aprono, come nell'Idropiſia acca de, Vuole oltre a ciò Aſclepiade, che non iftiano le cagioni operatrici de’mali ne'liquidi corpi ripofte; ma nel vero al tro quelle non eſſerç, ſe non ſe le cagioni antecedenti. Si ride egli di quel grande ſchiamazzio, che fanno i medici in. torno a'giorni critici; portando opinione, che d'ogni tem po, com'egli avea avviſato, poſſano creſcere, e ſcemare, o ſpegnerſi affatto le malattie. Ma per accénar qualche coſa intorno all'altre parti del la medicina d'Aſclepiade: egliamo di condurre iſuoi infer mial deſiderato fine della ſalute, con moleſtargli il men, ch'c'potea; avendo ſempre in bocca quelle celebri ſue pa role, che vengon per Cornelio Cello rapportate: tutè,citò, jucundè;perchè cra egli nimiciſſimo di que'medicamenti, che così ſovente, e per lo più fuor di teinpo venivan da al tri medici adoperaticon incerțillima ſperanza d'avere a re, care qualche giovamento agl'infermi; e allo incontro con ſeguirne loro licuriſſimo, e pronto il danno, ela nojx;per chè chiamar egli folea la medicina degli antichi, medita zion della morte; e molto ben’ayyisādo l'accortiſſimo huomo, e di sì fatte coſe aſſai intendente, quanto poco atten der fi poteſſe dal'incertezza della medicina, e dalla fiebo lezza de'ſemplici, o compoſti medicamenti, che in que' tempi erano in uſo, nel ſapere ben regolar la vita col ci bo, coll'eſercitar le mébra,e altresì fatte piacevoli cole, poco men che tutto il sómo del ben medicar ripofc. E nel vero ciò non fe già egli, come huom crede, da neceſſità alcuno ſtretto,per no aver contezza, ne men mezzanamite de’rimedj; anzi egli ſi fu della materia de’medicamenti co sì ſemplici, come compoſti sì ben conoſciuto, che ſicoine Galien dice, egregiamente cgli ne ſcriſſe: e molti, e molti medicamenti di ſuo ingegno egli ritrovò, e poſe primiera mente in uſo, e ne compoſe un particolarlibro; i qualime dicamenti, non che da altri foffer mai tacciati, anzida’ine deſimi ſuoi emuli, e avverſarj commendatioltremodo, e fovente adoperatifurono; infra’quali ſi ammira per Galic no quel celebre impiaſtro per le piaghe, che non ſi dee ri muovere, ſe non ſe dopo tre giornizonde fi pare,che Aſcle piade apriſſe la ſtrada alnuovo modo in queſto ſecolo in trodotto di medicar le ferite. Oltre a ciò abborrì egli ſoprammodo le purgagioni; ma fivalſe de criſtei. Danrò ancora, come racconta Plutarco, ivomiti, che troppo frequentemente allora erano in ufo, e che a' tempi noſtri ancora fi uſano da alcuni i quali per dir la colle parole di Cornelio Celſo: quotidiè ejiciendo, vo randi facultatem moliuntur: ma non già egli il tolſe affatto dalla medicina,anzivuol'egli, che nelle terzane ſi proccu ri il vomito; del quale, com'c'medeſimo narrazli ſervìnel curar quella nobile femmina di Samotracia. Ne ſi dee qui tacere, che ſi pare,ch'Aſclepiade vicino ftato foſſe ad aver contezza dell'elatere dell'aria, come ravviſar ſi puote dal le ſeguenti parole di Plutarco, avvegnachè coſtuimoſtrino aver ogni particolarità compreſa de ſentimétid'Aſclepiade: υπομιμνήσκα δε αυπ επι της κλεψύδρας Ασκληπιάδης και τον με πνεύμα να χώνης δίκην συνίσησεν, αιτίαν δε της αναπνοής την εν τω θώρακι λεία μέρειαν υπο τίθεται • πεος ήν τον έξωθεν αερα ράν, τε και φέρεσθαι παχυμε. ρη άνε πάλιν δε αποθεϊσθαι,μηκέπτε θώρακG- οί'ε πόντος μήτ' έπεισ A23 370 Ragionamento Quinto 1 re δέχεσθαι, μήθ' υπρεϊν • υπολειπομένα δέ τιν G- εν τω θώρακι λελομερές dei begyiQ (šgaię o nav ixreiveron ) neos Tšto nánar có trw umojéves βαρύτης του εκτός αντεπεισφέρεται αυτοι δε ταϊς σκύις ασικάζα: την δε και προαίρεσιν αναπνοήν γίνεσθαί φησι συναγομένων των εν τω πνεύ μονι λελοτάτων πόρων,και των βρογχίων πνεμένων » τη γας ημετέρα G. &υπακούει πιοαιρέσει. · Machi potrebbe mainarrar tutt'altri diviſamenti, e opi nioni, le quali fallo Iddio, come riferite vengono; e per la più parte da chi punto non l'intendea; e talor anche da al cuni per vggia, e mal talento a ſtudio guaſte, e travolte. Il che oltremodo malagevole rende la cenſura del ſiſtema della ſua medicina; pur lo brievemente ne dirò in qualche coſa il mio ſentimento. E primjeramente parmi, ch'aveſſe errato aſſai ſconcia mente Aſclepiade nella notomia; portando egli opinione con Ariſtotele, ed Eraſiſtrato, che le reni non abbiano al cuna operazione: echeciò, che ſi bee, ſciolto in vapori ſe'n vada nella veſcica,dove poſcia li ftipi in orina; delche meritevolmente vien egli ripigliato da Galieno; comechè a gran torto dal medeſimo venga poi biaſimato, perchè c' non fi vaglia della facoltà ſeparatrice, che vuol dire in buo ſenſo, perchè egli non ſi metta a filoſofare con ciance, e anfanie. Ma fuor d'ogni ragione,e a corto non meno sfac ciatamente fi accagiona per Galieno Aſclepiade, dicendo, che contro l'evidenza de'ſenſi egli aveſſe negato, che quel le coſe,le qualiognun vede, che vanno verſo quelle,dalle quali ſi crcde eſſer elleno tratte,veramente vi vadano;che certamente non potea egli sì milenſo, e ſciocco eſſere un tanto huomo, Negò ben'egli la facoltà attrattiva, e co'buoni filoſofan ti ſtimò eſſere per lo lume della ragione manifeftiffimo,che ne ſomiglianza mai, ne facoltà, ne altra coſa del mondo potrebbe far sì, che un corpo moveſſe altro corpo ſenza toccarlo, o per ſe ſteſſo, o per altro corpo da ſe parimente tocco, e moſſo; poichè a trarre a ſe un corpo lontano fa certamente meſtiere uncino, o fune, o altro ſomigliante appiccatojo, che'l prenda. Ma non poſſo lo laſciar di forte non ridire, quantunque volte rammento quella ragione, colla quale Galieno con tro Aſclepiade,ed Eraſiſtrato, e altri buoni filoſofantiſen za vederne altro,fermanente credette, ſe averela virtù at trattiva già faldamente provata; dic'egli,che per induſtria d'alcuniladroncelli, i quali poneano vaſi di creta pieni d' acqua nelle carrette del grano, quello ne creſceva manife ftaméte dipeſo;coſa la quale avvenir nó potea,fecondochè cgli ſtima, ſe'l grano non aveſſe la virtù attrattiva; concio foſſecoſa che eſſendo egli diſcorſo per tutte fette di medi cina rinvenir non aveſſe mai potuto ragione alcuna, che in ciò punto l'appagaſſe. Quinci ſi pare,che meritevolinen te il Veſſalio avendo anch'egli avvifata un'altra cotal ra gione a queſta poco, o nulla diſſimile, prorompeſſe in sì fatte parole motteggiã do i libri della dimoſtrazione di Ga licno:profeito ſiGaleni libri de demöftratione, cjufmodi crebris Scatent demonſtrationibus,que ipfi & fimodo aufim proloqui) non infrequens, ac poriſfimum in quamplurimumGalenusex celluit anatome ſunt, non eſt ut eos libros tantopere expecte mus. Ma laſciando ad altri più di noi ozioſi ſopra ciò fa vellare, certamente venner conoſciute molte, e molte coſe di notomia per Aſclepiade, che avrebbono fenza fallo po tuto render chiaro, e ragguardevole oltremodo il ſuo ſite ma: comechè paruto fo fe, ch'egli aveſſe portata opinio ne, che'l nutrimento alle parti non diſcorreſſe per quel cá mino, che co'nunemente per ciaſcun ſi credea; impertanto immaginò egli, di ſottiliſſimo vapore in guiſa portarſi per tutte parti dei corpo il cibo crudo; ma non diſse perchè, e comeſi ſmaltiſca nello ſtomaco per renderſi valevole a pe netrare in quegli anguſtiſſimi ſpazj da lui immaginati. Ad imitazione poid'Aſclepiadevolle l'Ofmanno, che in forma di vapore il chilo dalle vene, e dalle arterie miſeraiche tratto veniſse. Ma prima d’Aſclepiade pare che Eraclito, Ariſtotele, ed Eralitrato aveſser detto, che in guiſa della ruggiada il chilo, e l'alimento per lo corpo ſi ſpargeſse. Ma laſciando di favcllar di queſte coſe, nelle quali, non ſolo Aſclepiade, ma tutt'altri Greci andarono errati; egli Aaa 2 è ben 1 cerco, che dovea minutamente Aſclepiade per dar l'ultimo compimento alla ſua dotcrina più avanti diſami nando riconoſcere, chenti, equali, e dove veramente fof ſero nelle membradeglianimali gli ſpazi, e la grandezza, e la figurą, e'l fito, e l'ordine, e'lmovimento di quei cor picelli, i quali o affatto, o in parte turandogli, o più del convenevole dilatandogli, o altri nuovi ſpazj formando ſien poi cagione, ſecondochè egli vuole d'ingenerare i mali negli huomini; perchè fa meſtieri aver piena contezza di tutti corpicelli, onde le parti diſcorrenti, e falde vengan compoſte; e ciò non ſappiendoſi,malagevolmente potralli, come a razional medico fi convienc, alcun ſicuro, e certo rimedio per ragion ritrovare. Dove poicgli dice farſi la freneſia, il letargo, la punta, ele febbri da'corpicelli, chenegli ſpazj inframelli dimora no, perchè egli non ſoggiugne (o forſe no'l ſappiam noi s'egli il Gfacefle ) quale quegli abbian grandezza, e figu ra e, come ſeano compoſti, e accozzati infra loro que'pic cioli buchi? e avvegna pure,ch'egli accennalle avvenir la contina dal rattenimento de corpicelligrandi, la terzanz de'piccioli, e la quartana de’menomi: non è però queſto ſuo parere ſaldamente raſſodato dalle ragioni, ch'egli rap porta; anzi pajon'elle molto leggieri: e ſono queſte, che i corpicelli grādi più agevolmére gli ſpazj riemoiano; e più agevolméte gli ſgõbrino,e i piccioli meno;ma ſe la biſogna pur così andaſſe.com'e'diviſando ne ragiona,queſta contez za fola al medico razionale non baſterebbe al ſuo intendi. mento fornire; ma di ſaper anche il movimento, la figura, el ſito di quelli farebbe a lui meſtieri, ficome poco 'addie tro noi dicevamo; e ſe impoſſibile per avventura una sì fąt ta impreſa pare che ſia da poterſi per intelletto umano co durre a capo, yana ſenza dubbio ricſce ogni induſtria, ogni argomento d'Aſclepiade, o di qualunque altro ingegno, che di ſtabilir ſetta veruna di razional medicina preſuma ), E avvegnachè Aſclepiade, come detto abbiamo aſſai ben inteſo fi foſſe della materia de'medicamenti, a modo che, comeperGalieno ſi narra, egli ſolo, e Dioſcoride d'ogni ſorta dimedicamenti,cosìdell'erbe,come degli arbori,deld le frutta,de' ſughi, de' liquori, e d'altre, e altre coſc fof ſero pienamente informati: nientedimeno, ſe le pruover che intorno alla loro natura, e al loro operare egli nellas ſua opera recò, ancora di leggeſſero, ſi troverebbono, per quel che ſi è accennato, ſolamente probabili, o forſe po co falde ragioni;e meſtier certamente farebbe ad Aſcle piade, alla fola ſperienza, non men che altro più vile Em. pirico ricorrere. Ma ben ciò conobbe egli, ne'l diffimulò punto, e confeſsò apertamente, altro la medicina non ef fere, ch'una cotal ſemplice conghiettura; onde ebbe a dire Plinio, ch'egli: medicinam ad caufas reuocando conjectur.i fecit: o come legge Giacopo Dalecampj: conjecturalem fecit. Nel curar le febbri terzane,e quartane egli ſembra,che non molco bene (comechè'l contrario dica Cornelio Cel ſo)faceſſe in laſciando la coſtuma di Cleofanto antichillimo medico, ilquale alquanto ſpazio avanti al cominciar della febbre uſava dare aglinfermi il vino, e bagnar loro con acqua calda la teſta; ove in inolte altre coſe i coſtui avviſi era uſo di ſeguitare. Vuolanche Aſclepiade, chenon ſi tragga mai ſangue, fuor ſolamente ne'dolori; e ciò perchè facendof queſti da’ grandi corpicelli nelle parti ſalde fermati, c rattenuti, ſe condo il ſuo ſentimento, gli pare, che ſi poſſan trar fuora dagli ſpazj per opera del ſalaiſo. Maegli ſenz'altro fallò; sì perchè i piccioliflimi, e velo ciſſimicorpicelli,che formano il fuoco, cagionar ſoglio no il dolore: come anche perchè converrebbe per la me deſima ſua ragione trar ſangue nella contina; il che da lui inceſſantemente ſi nicga;ſenzachè,ſe com'egli immagina, i corpicelli fermati negli ſpazj ſono cagione de'mali,e queſti tutti nelle parti ſalde conſiſtono: e le liquide, benchè fuor di modo abbondino ne'vaſi, non ne ſono cagioni vere, e preſenti, ma ſolo antecedenti: che monterà egli il trar fuo ra mai le parti liquide de’vaſi per la cura de dolori Mache che ſia di ciò, egli non mi par, che ſi poſſa punto dubitare, chc 374 RagionamentoQuinto 1 } che profondiffimi fi foſſero i ſentimenti d'Aſclepiade,e che cgli, il quale tra'greci medicimaggiore, e più alta contez za ebbe delle cole della natura e ſolo ardì a ſpiar tutto, e a ſcriver tutto, ciaſcun maeſtro più valoroſo ", e più rino mato in medicina a molto ſpazio dietro ſi laſcj; perchè fai meſtieri dire, che grandiflimo danno per la perdita dello ſue opere fia alla medicina, calla filoſofia ſeguito, Quinci ſi vede, che ſcarſemolto, per non dir altro, ſem bran le lodi,colle quali Plinio volle onorare Aſclepiadeo Afclepiadi Prufienfi, condita nova feéta,fpretis legatis, doo pollicitationibus Mithridatis Regis reperta ratione,qua vinü agris medetur,relato è funere homine, ofervato,ſed ma xime/ponfione falta cum fortuna, ne medicus crederetur fi unquam invalidus ullo modofuiſſet ipfe, & victor fuprema in ſenecta lapſu ſcalară exanimatus eſ. Ma laſciando Aſclepiade,che pur troppo n’abbiam dete to, e trapaſſando ad altri ſetteggianti medici; qual e ſi foſſe veramente il ſiſtema della medicina del famofiffimo Antonio Muſa, lo non poſſo ne meno immaginare, non che diviſare; e fe'l favore, e l'autorità d'Ottavio Ceſare potè farlo prevalere a tutt'alori di que'tempi: non per tanto fù cgli da tátoge baſtevole a mantenerne vive le memorie ap po i pofteri. Potrebbe di leggieri eſſere, ch'egli per mag giormentepareggiar Temiſone ſuo maeſtro, fifoffe fatto di qualche nuova forte di metodica medicina inventore. Veggiam di lui ſolamente alcune forme, o ricette di co pofizion di medicamenti aſſai volgari, e di molta poca co ſiderazione, dalle quali nulla comprender puoſſi dalla maniera per lui tenuta nel medicare Ottavio,tutta travolta da quella di Cimolio; perciocchè Ottavio, licome narra Suetonio, quia calida curari non poterat, frigidis curari coa &tus authore Antonio Muſa. Perchè potrebbe ragionevol mente dubitare alcuno, non egli empirico foſſe ſtato di ſet ta; ma per avventura a ciò fare da qualche apparente ra gione egli fu moſſo. Neciò è nuovo, che i razionali ſiva gliano di tal regola; poichè il fece Ippocrate ancora; co mechè egli poi moſtri, ch'aveſſe altro in animo, con inſegnare una fiata il contrario, la ove diſſe,che chiunque ope ra con ragione, avvegnachè ſenza profitto, e infelicemen te fi faccia, dee coſtantemente camminare per la ſteſſa ſtra da: návraisatakóyov meséori,xai pen'govojévwv * xara'dégor,designer swßaives, i inapoy, pérovt QuTð dóžavo iš devās, il che da cao gione a molti medici di pericolar ſovente i loro infermi; i quali veggendoapertamente, che a mal fine rieſcon pure le lor cure, non per tanto ſe ne riniangono, o ad altro divi ſo volgono i loro intendimenti, con graviffimo dan no de' cattivelli. E mi ricorda in acconcio di ciò aver letto in un coral autore ', che avendogli ſcritto un ſuo ſcolare, che avea egli per più d'una pruova cono ſciuto, che'l ſegnare in alcune febbri ', che allora la Città di Vinegia fieramente malmenavano, conduceva a ficura morte gl'infermi: impertanto ſe n'era egli rimaſo cô nolto giovamento di quelli: egli replicogli una gran vit lania, chiainandolo ſciocco empirico, biaſimando il ſuo fa lutevol diviſo, non altrimenti, che ſe colui aveſſe una gra ve ſcelleratezza comeſſo; e diſſegli ſpacciatamente, che tor naſſe al falaſſo di prima, nulla curando, che gl'intermi per ciò fare certamente fe ne moriſfero; e in ciò rammentogli la teftè apportata dottrina d'Ippocrate; non avviſando,che comechè verilimo ſia il detto d'Ippocrate, nientedimeno è ragionevolmente da ſoſpettare non ſia manchevole, e fal lace la ragione, allor che non le riſponde l'uſcimento. E chi ſa poi tra le tante incertezze dell'arte, qual ſia la vera, e legittima ragione? ma come ſaggiamente avviſa Galie no,non è peſo da tutte braccia, ne opera d'huom di poca dottrina il ciò poter ben avviſare. Egli li fu Antonio Muſa, per quel che s'argomenti dal ſoprannome impoſtogli, d'ingegno aſſai nobile, ed elegá te; ne per altro Euripide nel Palamede chiamò colui col medeſimo ſoprannome: εκτάνετ' εκτάνετε ταν πάνσοφον, μεν ουδέν αλγύνεσαν αηδόνα μούσαν. Maqual fi foſſe veramente l'eleganzadell'ingegno d'An conio Muſa, manifeſtamente ſcorger ſi può da quelvaghiſ, fimoEpigrammadi Virgilio. Cuivenus ante alios Divi, Divumqueforores Cuneta,nequeindigno Mufa dedere bona. Caneta quibus gaudetPhabus,chorus ipſeq; Phabi Doctior o quiste Mufa fuiſse poteſt? O quis se in terrisloquitur jucundior uno, Clejo nam certè candida non loquitur. Sivalſe Antonio Muſadella carne delle vipere, enedam va mangiare con non poco giovamento a coloro che da in fanabili piaghe languivano: i quali maraviglioſamente con incredibil velocità, ſe'l ver dice Plinio, ne guariyano. Io yo meco diviſando,che'lMuſa aveſſe ciò appreſo dal vale tiſſimo tra'greci mediciCratero, cotāto daCicerone in iſcri védo ad Attico,celebrato;dicui narra Porfirio che riſanato aveſſe un miſerello ſchiavo, cui in iſtrana guiſa dall of Ia la pelle ſpiccavaſı, fol coldargli mangiar vipere prepa rate a guifa di pefci: Kegπρούτου ικττού οικέτης ξένων περιπεσών νο τήματα, των σαρκών απόφασιν λαβεσών εκ των οδών, τοίς μου ωφέλι ούδέν, ιχθύω- δε κόπο ίχα εκευασθένη, και βρωθένπδιεσώθη της σαρκός συγ 2014 nbbons. Ma ſopra ogn'altro medicainento ſi ſervì Anto nio Muſa de bagnidell'acqua fredda; e egli, e'l ſuo fratel do Euforbo medico di Giuba RediMauritania ne introdur fc primiero l'uſosappo il quale in sì grande ſtima Euforbo crâ, che zvédo egli ritrovata un'erbamedicinale,volle,che colnome d'Euforbo foſſe chiamata. Mail Muſa folea ba gnare i ſuoi inferini prima nell'acque calde,voladosper mio avviſo, aprir loro in prima bene i pori, acciocchè le fredde poimegliovi poteſſero penetrare; quindi entroall' acque fredde gli laſciava agghiacciare.Del qual modo di medica se così narra Orazio nelle ſue piſtole,dimádádo Numonio Valla, ſe in Salerno, e in Velia foſſe così fredda l'aria,che dimorandovi egli poteſſegli giovare a'ſuoi mali; percioc. chè il ſuo medico Antonio muſa, freddiſſima gliele richies deva per dover prendervi i bagni freddi. Aua Quæ fit hyems Velie,quodCalum Vala Salerni, Quorum hominum regio, &qualis via.(nam mihiBajas Mufa fupervacuasAntonius, &tamen illis Mefacit inviſum: gelida cumperluur unda Per medium frigus; ſanè myrteia relinqui, Dictaque ceſsantem nervis elidere morbum Sulfura contemni, vicus gemit, invidus ægris: Quicaput, & ftomachum fupponerefontibusaudent Clufinis, Gabiosquepetunt, & frigida rura. Ma certamente ebbegran ventura il Muſa, che dopo l'el ferſi bagnato in sì fatta guiſa Ottavio, guariſi d'una gra villima inalattia; comechè dica Plinio, che ciò foſſe avve nuto per opera delle lattughe,delle quali egli cibavalo co tro il parere di Cimolio; perchè fu queſti della caſa di Ot tavio ſcacciato fuora; indi cominciarono i Romani ad uſar ſovente nelle lor menſe le lattughe, che per averle anche fuor di teinpo, riſerbavanle nell'oſſimele. Per la qual cura Antonio Muſa in sì rilevato ſtato montonne, e in cotanto credito, cheoltre alle ricchezze, agli onori, e a'privilegi, che per ſe non ſolo, ma per tutti altresì i medici ottenne, l'adulatore Senato rizzogli una ſtatua di bronzo nel ſegno d'Eſculapio, come ne da teſtimonianza Suèronio: Medico Antonio Mufa, cujus opera ex ancipiti morbo convaluerunt, ſtatuam, çre collaro juxta fignum Eſculapii ftatuerunt. E fe'l mio avviſo non m'inganna, d'oro gliele avrebbe certa mente rizzata, ſe più coſto Ottavio morto ne foſſe;percioc chè non bene allora ſtabilita ancora la tirannide, n'avreb be per avventura la libertà egli ricupcrata; e veramente ſe la fortuna fecondato aveſſe il diſiderio de'Romani, non ſa. rebbe riſtato per lui di far co'ſuoi bagni ciò che Bruto, ne Caffio, ne Seſto Pompeo, ne Marc'Antonio con tanta oſte per mare, e per terra non avean potuto adoperare. E bé ſi vide quanto nocevole e' foſſe il modo del medicare del Muſa, quando da lui in sì fatta guiſa trattato, come narra Dion Callio, ſe ne morì Marcello; perchè di preſente e'per denne !, gloria, che guadagnata s’avea; non ſi dee imper 1.2. P; CXLV2Livi, come o telo 378 Ragionamento Quinto poteva nel Dione dicc, che allora buccinayaſî,che eglicon que' ſconci rimedj lo faceſſe a bello ſtudio morire; anzi morilli Mar. cello in Baja, come teſtimonia Properzio, il quale viſse a que'tempi His preſſus Stygiasvultum demiſit in undas Errat, in veftro fpiritusille lacu. Neſembramiveriſimile ciò, che ne va conghietturando quel ſottiliſſimo inveſtigatore, e d'ogni rara dottrina ſovra no maeſtro Giuſeppe della Scala, facendoſi egli a credere, che Properzio cosìvezzatamente la biſogna rivolgeſſe per ‘iſcagionar Livia, e fargliene ſervigio; 'perciocchè allor ſu ſpicavaſi, che in ciò ella certamente aveſſe tenuto mano;vo luit, ſono ſue parole, gratificari ei, que de ejus morte ſu Specta fuitLivi& Aguftę. Ein vero non ha dubbio alcuno, che per machinazione di Livia no meno morir le acque di Baja Marcello,che in quelle di Stabia, la dove alriferir di Servio egli moriſli; e ficome immagina il mede Simo Giuſeppe,la ſua morte avvenne nell'acque acetoſe di quella fonte, che a tempo di Plinio chiamavali di Medio. Io porto opinione,che'lMufa bagnaffe più d'una fiata Mar cello nell'acque calde di Baja, e poi,com'e’avea per coſtu me, nelle fredde il poneſſe, e che alla fine nell'acquecalde colui abbandonaffe la vita; ne dal narrainento di Properzio argomentar fi puote: Marcellum in aquis Bajanis fulz merſum interije: coine va interpetrando lo Scaligero;im perocchè altro nő,è il ſentiméto di Properzio, fe no ſe Mar cello effer morto per quell’acque,colle quali,eſsédo egli si tiſicuzzo, e triſtanzuolo, e col Toverchio lor calore, o rõpe dogli qualche interno tumore, il ſoffogallero: o di ſover chio creſcendo il moviméto del ſangue li diffipaſſero le ſot tiliffime particelle, dalle quali depéde.la vita negli animali, onde repétemente egli mādafle fuori l'anima;coli, la quale eziādio ad altri è avvenuta; ne veraméte fi puote sõmerge re niuno in que’bagni, ſe a viva forza altri non ve l’affoghi; onde maggiormente avrebbe dato cagione alle genti diſu ſpectare non ciò foſſe per opera di Livia avvenuto; e ca to balti del Muſa aver fin'ora accennato. Ma paſſiam oltre a dir di Clinia da Marſiglia. Fu la guiſa del coſtui medica. re nel vero ſtranamolco,e ſuperſtizioſa: imperocchè infi gnevaſi egli di non darmaia malato niuno,o cibo, o medi cina, fuor ſolamente, che in certi puntiaſtrologici di fito, o dicongiunzioni della luna, o d'altri corpi celefti: e bert gli approdarono sì fatte malizie; poichè montò in sì buon nome, e fama appo i Romani,che oltremodoricco in brie, ve tempo ne divenne;delle quali ricchezze, parte cgli co funionne largamente per cinger di novelle mura la propia patria, e parte alla medeſima ne fe dono, acciocchèpoter Le riſtorar quelle, quando huopo ciò lor foſſe. Ma lo non prenderò a dar giudicio dietro il fiſterna del la ſua medicina, non avendene niuna certa, e ſicura con tezza; ma mi darò briga di far paleſe la ſciocchezza di lui, conoſcendoſi molto bene da chiunque abbià fior d'inten dimento non eſſer altro la ſtrologia da lui in medicãdo ado perata, ch'un ſottile, e malizioſo ritrovamento per paſcer divanc ciance, e promeſſe le troppo credule perſone. Ma forſe, come i Romani ſi ſervirono degliauguri ſecondochè la neceſſità il richiedea: ne folean giámai darcominciamé to all'impreſe, ne trar fuora gli cſerciti, ne far giornate, nc alcuna coſa di confiderazione, o civile, o militare ado perare, ne mai ſarebbon andati a gucreggiare, ſe prima non perſuadevano a l'ofte, che gli augurj avean promeſſo loro la vittoria, affinchè i Coldati maggiormente incorag. giati prédeſſero ſperanza divincere: dalla quale ſperanza ſpeſſo certamente naſce la vittoria: così Clinia valevali della ſtrologia, acciocchè gl'infermi deſſero piena fede alle medicine loro preſcritte; e forſe ſe ne valſe altresì egli per iſchivare, quádo più in cõcio gli era di preſcrivere qualche medicina, la quale da lui non convenevole al male foſſe ftata ſtimata;ma dalla minuta gente giovevole, e neceſſaria giudicata; valevaſi dico della ſtrologia appunto a quella guiſa, che coll' artificio degli Auguri i Capitani Romani fi rimanevano dal coinbattere,quando giudicavano non do ver la battaglia a lieto fine dover per loro riuſcire. Il ſiſtemadimedicina di Carmide conyenne ſenza fallo, Bbb 2 che cono. 1 che foſſe non meno fciocco,che ſtrano, come quello, che poſti in non cale, e dannati, e vituperati, i diviſamenti di tutti gli altri medicijalle più rigide ſtagionidell'anno glin fermi, avvegnachè vecchi nell'acque gelide fommergeva; iinpertanto ritrovò gran ricevitori,come Plinio ed altri di Ma per venire allamedicina di Galieno, vana per avvé tura, eſoverchia giudicherà alcuno la mia fatica in abbu rattarla; imperciocchè chiunque avvedutamente v'affiſe rà lo ſguardo, ben toſto ſcorgerà i mancamenti, e i difetti di quella: i quali non tanto dalla natura medeſima della medicina, quanto dal ſiniſtro modo del filoſofar di Galie no naſcer fiveggono;. il quale avvedutiſſimo in fuggire il ranno caldo di ſpiegar diſtintamente le particolarità della medicina, ch'e'medefimoconfeſſa, e proteſta eſſer tanto a ' medici neceffarie: a bello ſtudio par, che riltando in s l'ali, o dando lunghe, e inutili aggiratc, a quelle ſpiegar ne giammai ſcender non voglia. Perchè luo mal grado gli è pur di meſtiere d'abbatterſi,e d'impaſtojarſi ne'mede fimigruppi, e nodi, ove parimente i Metodici, e gli Empi rici tutti s'impigliano. Così con le medeſime ſue pruove, con che egli lorcerca d'abbattere, gli ſi ſcagliano pur con tra i ſuoi nimici;e dicendo, ch'egli inneſta in ſu'lſecco, or dinando falſamente il ſuo liſtema, e ponendo a ſuo talento i fondamentialla medicina, niegano conſtantemente gli eleincnti', e gli minori, e l'altre coſe cutre '; ove egli coil poco ſode, ed efficacipruove la gran machina della ſua medicina pianta, ed appoggia. Ma lo ciò al preſente trala fciando, renderommi lecito di brevemente accennare, che di Galieno la medicina non ifpieghi punto il vero, e fiſio comodo come naſcano, o naſcer poſſano le quattro fue prime qualità,ma ſolamente le ponga già nate; ne men, quella tanto quanto ne diviſa,in qualcoſa il lor eſser conſi ita; perchè poi valeyol non è a manifeſtar la maniera del loro operare, ne quant’oltre la lor forza fi ſtenda, ne pur gli effetti che per lc, o per accidente da lor fortiſcono. Ma come egli maile natura delle qualità ſpiegar potea, ſe la > natura della materia, dalla quale quelle dirivano ed in cui, coine e' medeſimo dice, e naſcono, e muojono, giámai inve Aigar egli non cura; il che quanto monti, agevolmente da ciò potrà comprenderli, che traſandato il conoſcimento delle qualità l'economia degli animali, ne la natura delle malattie, ne le cagioni diquelle, ne i medicamenti mede fimi non ſi potranno in modo veruno comprendere. Per chè non ſarà medico, che abbattendoſi in qualità di ſover chio rigoglioſe, o manchevoli di ciò cheal corpo richieg gafi, poſsa mai,la ragione adoperando alla debita propor zione ad agguaglianza ammendandole riporle; e ne men per la medeſima cagione provar egli mai non ſi potrà, in che conſiſta la árminatío, o nimiſti, che tra loro eſser fi dice; perchè anche ne fiegue, che non ſi ſappiano, ne convenevolméte ſi poſſano perGalicno ľaltre qualità ſpie gare, che ſeconde chiamanli,e che egli pocoriguardando a ciò che gli antichi nel lib.della vecchia medicina ne nar rano, giudica, che cheno non pofsan cola alcuna opcrare; € pure avviſar egli poteva, che l'acetofo, per eſemplo,avve gnachè freddo, o caldo, o temperato, pur nelle ferite meſ lo, dolore, e infiammagione apporti;e che non altrimenti, che dal caldo, dallacetoſo anche l'acetoſo s'ingeneri; e ſe Pamaro fembra a lui effetto del caldo, il caldo eziandio na fca dall' amaro Macertamente ſe Galieno aveſſe bene avviſata la natura delle prime qualità, iion avrebbe giamai fopra quelle il fiſtema della medicinapiantato; concioſſie coſachè ben egli compreſo avrebbe non eſser quelle baſtá ti a ſpiegar tutto ciò, che nella naturä vedeſi. Perchèi più ſcorti tra ſeguaci di ſua ſchiera, ove s’abbattono a diviſar delle coſe della natura, fono ftretti ricorrere alla propria foſtanza, o pur alla forina eſsenziale, all'amiſtà, o alla ni miſtàgalla fimigliáza, o diſimiglianza tra le coſc, e alle qua lità naſcoſe; che è tanto quanto a dire a cagioni, delle qua li nulla non ſi ſa, ne ſaper fi puote. Quindi: per racer del Fernelio, e del Severino: il ſottilif fimo Andrea Libavio amico per altro di Galieno, colſe ca gione di dire: in magneticis, quum omnia elementa excufse runt, elementarii medici nibil inveniunt,nec de proprio ſubje cto virtutis, nec de caufa prima. Mala vero funt princi. pia artis ea, qua inexplicatam tādem relinquüt quæſtionem. Talia verofuntelementa Galenicorum: ex quibus non potes demonſtrare rationem facti offis, carnis, fuccini,magnetis, & cetera ſecundum formam eſsentialem. E Daniel Senner ti, pertacer d'altri aſsai, cosi diſse:ubicumque pluribus eçdē affectiones, & qualitates infunt, per commune quoddams principum infint neceſse eſt;ſicut omnia ſunt gravia pro pier terram, calida propter ignem. At colores,odores, Sapores efse progosov, fimilia alia, mineralibus, metallis, gema mis, lapidibus,plantis, animalibus infunt. Ergo per com mune aliquod principium, & ſubjectum infunt. At tale prin cipium non funt elementa: nullam enim hatent ad tales qua litates producendas potentiam. Ergo alia principia unde fluant inquirenda funt. Ed una tal neceſſità molto bene avviſando molti degli antichi, e poco men, che tutti imo derni Galieniſti, ſe maicoſa alcuna malagevole, ed oſcura intorno all'economia degli animali a ſpiegare imprendono, o ſcorger intendono la natura,e la cagione di qualche ſtra na, c non conoſciuta malattia, allora abbandonato affac to il lor maeſtro Galjeno, e poſta in non cale ogni ſua dot trina, ed ogni diviſamento della ſua razionale, e vana mie dicina, a’nuovi ſiſtemi de'Chimici filoſofanti toſto s’appi gliano, E ben di ciò avvideſi anch'egli Galieno; e rimirando alla manchevolezza,e dappocaggine delle ſue fondamen ta, dopo aver più, e più fiate diſegnato, le facoltà non có fiftere in altro, che nel temperamento, o meſchianza delle quattro primnequalità, avviſando alla perfine mal poterli con quello l'opere della facultà baſtantemente ſpiegare, così ſcagionandoſi apertamente confeſsa, che eſso per non ſaper la natura della cagion factrice, la chiama facoltà, o potenza; c però dice eſser nelle vene una certa potenza da ingenerare il ſangue, e nello ſtomaco un vigor di cuocere', e nel cuor di palpitare; e in tutt'altre parti del corpo eſser anche una tal potenza d'adoperar quelle coſe, chcin eſse ſi fanno. Con cheGalicno apertamente confeſſa cgli me defimo, le facoltà, che coſa mai elle ſi ſiano, affatto non ſa pere; e ſolamente così per via di ragionamento chiamarle. Ma non fi potrebbono con parole ſpiegare, tante elleno, e tante ſono, quelle fiate, che per Galien ſi ricorre ad una cagione, la qual eglimedeſimo, non ardiſce, o corporca, o incorporea determinare; e che egli ignorando, che coſa ſia veramente, inſieme col vulgo coſtumacol nome di Na tur'a appellarla. E ridevole veramente ſi è la maniera,col la quale egli una fiata imprende a ſpiegar,come le partide gli animalifacciano le loro operazioni;dice egli, che ſico me al comandamento di Vulcano, ſecondo finge Omern, i mantici da ſe ſteſſi mandavan fuori, o'più, o neno il fiato; e le dózelle d'oro da ſe ſi muoveano; cosinel corpo degli animali niuna coſa eſſer immobile, ed ozioſa; imperocchè dal ſupremo facitore alcune divine virtù ſono ſtate impreſ fe alle parti di quelli, sì che le vene non ſolo il nutrimento dello ſtomaco deducono: ma l'attraggono, e lo preparano al fegato; ilquale così preparato da' ſuoi ſervi ricevendo lo, gli da l'ultima perfezione di ſangue: müstepOuengo εποίησεν αυτοκίνητα τουτου Ηφαίςκαι δημιουργήμα, και τας μια φύσας ευθύς άμα τα κελεύσαι τον δεσπότην, παντοίων, εύκρηκτον αύτμηνεξανι είσας: τοις δε θεραπείνας εκάνας τας χρυσας ομοίως αυτά τώ δημιουργώ κινουμένας εξ αυτών ούτω μοι και συνοεί κατά το του ζώου σώμα μηδέν αρ. γον μήτ' ακίνητον, άλα πάντα μεία της πεσούσης καζασκευής βίας τινας αυτοϊς δυνάμεις τουδημιουργού χαρισαμύου,κοή, τας μέν φλέβας, ου πα eaγούσας μόνον την τξοφήν εκ της γασφος, ' έλκούσας άμα και πιο παρασκευαζούσας το ήπατι τον ομοιόταν εκείνων τόπον, ως αν και eαπλησίας αυτώ φύσεωςυπαρχού σας, και την πξώην βλάσησεν, εξεκεί YOU MEWCimpéva. Ed è anche manchevole la medicina di Ga lieno, per non faperſi in quella il meſtiere, e l'uficio di mol e molte parti del corpo; perchè malamente l'economia degli animali, ed ondenaſcan le malattie, ei luoghi, e le cagioni, e gli effetti di quelli vi ſi potrà convenevolmente ſpiare. Concioffiecofachè Galieno medeſimo principe, e titrovator di quella, non ebbe ne men ventura di ravviſar baſtan te, j 384 ' Ragionamento Quinto baſtantemente la coſtruttura, e gli ufici delle parti dalı conoſciute;non che d'abbatterſi mainel: canale del Ver ſungio, o nelle vereacquoſe, o nelle vene lattee, o in alą tre, cd altre infinite coie da’moderni deſcritte. Ne ſeppe cgli ne men per ombra il vero movimento del cuore, e dei fingue: ritrovato, del quale ſecondo l'avviſo dell'inge. gnoſilliino Renato, nullum majus, & utilius in medicina eft. Ne del vero cammin del chilo ſeppe boccata; le quali due coſe ſole di tanto pregio, e di tanta conſiderazione parve l'o al nobiliſſimo filoſofante Pietro Gaſſendo, che meritc volméte egli chiamarle ſoleai due poli della medicina; e de queſti due trovati, che l'un l'altro conferma maggiormen te, craſſoda, egli ſommo contento prender ſoleva, quindi fperando, che'la medicina, quando che fosſe, aveſſe avuto a ritrovar qualche coſa diſaldo a pro degli huomini; malli. mamente in quella parte, in cui dall'economia degli ani maliella s’argomenta di riſtorar la perduta ſanità; almen finattanto, che novello lume lo dimoſtraffe l’orſa;imperoc chè della volgar medicina, che tutta ſi briga in diſaminar le qualità, ed in aggiugner ciance a ciance, eglicēto niun non facea: Ma perciocchè queſta ſarebbe opera da trattar con maggior agio, e tempo in un'intero volume, laſcerolla al preſente, riſtrignendomi ſolamente in un capo, ch'a dover lo quì brievemente accennar mi tira. · La maggiore, c principal parte, e pił d'altra alcuna nel meltier della medicina neceffaria,ſenza alcun dubbio quel la fiè, che alla materia de'cibi, e de'medicamenti s'appar: tiene; or queſta nella medicina di Galieno è certamente tutta impirica;conſeguentemente a tutte quelle jacertezze, e a tutti quegli errori, e falli ſottopoſta, che Galicno me deſimo, ei ſuoi ſeguaci tanto, e sì factamente negli Impiri ci dannano, erimordono. Ed è ciò dicanta conſiderazio ne, e rilievo, che in utili a baſtanza, c infruttuofe, e vane le contezze cutte della medicina, ſe mai clla in altre parti alcuna n’aveſc, render puote: le qualitutte ad altro non fono indirizzate, che a diviſare, & proporre agli ammalati i cibi, siinçlicamen:1, 3? fu conced.fipreselierelli 13,45's ra, medicina di Galieno s'abbia certa, e ſicura contezza dell'ea conomia delcorpo umano, della cagione, e della natura de’mali, e d'altre ſomiglianti coſe molte a ciò pertinenti, ed acconce:qual pro giammai peropera di tali notizie dal la razional medicinapotrà ritrarſi? certamente per quel che Io micreda, niuno, ſe non ſi prenda inſieme a diviſar con efficaci, e ben certe ragioni, come,e qual ſorte di me dicamenti, e dicibida dar ſiano agli ammalati. E ciò cos me mai vorráno i Galieniſti convenevolmére porre in ope, ſenza in prima pieno, e faggio conoſcimento dellana, tura, e della propietà di quelli avere? Ma queſto per lor non avendofi, avvegnachè d'eſfer razionali millantino,cm pirica certamente, e incerta farà da dire la lor medicina; per tal modo, che non ne potrà ſe non-ſelargamente il no. bile, e laudeyol titolo dell'Arte meritare. Ed interviene nella medicina ciò che ſi vede anche nella Loica avvenire; che per una menoma particella, che nella definizione, o nel partimento, o nel fillogiſmo dubbiofa fia, ed incerta, toſto dubbioſo, e incerto il tutto anche diviene; e per una pic cioliſſima taccherella ſi sfregia. Senzachè la medicina in tanto è arte, e conſeguenteinente certa, in quanto ella ha ficuri, e certimezzi, quali ſono ſenza fallo i inedicamenti, ei cibi, per ritrarre il ſuo bramato, ed aſpettato fine della ſalute degli huomini. Adunque non eſſendo queſti certi, ç ſicuri, conſeguentemente non ſarà da dir veramente arte la lor medicina. Perchè poi veggiamo iGalieniſti medici, quanto più avveduti, e più dorti eglino ſono, tanto più dubbiofi, e tertennanti ſempremai medicare; ne dalla lor doctrina, e diligenza mai nulla di certo promettere. Nequáto in fin quì ho detto ha biſogno alcuno di pruo va; imperocchè manifeftiffima coſa è, che Galieno mede ſimo, non che altri, con iſchiettezza veramenteda filoſo fo, e degna di lui, molte, e molte fiate apertamente il co felli; ed una infra l'altre mordendo, e biaſimando alcuni medici de'ſuoi tempi, che troppo arditamente ſtudiavanſi di inveſtigare per via di ragione da’ſoli effetti la natura, e la proprictà de’medicamenti; dicendo: non laſciaremoin Сcc. tanto, 380 Ragionamento Quinto tanto, paffar ſenza gaſtigo la ſoverchia tracotáza di coloro, i quali dalla coſtruttura, e dal colore, e dall'odore, e dal fa pore, e dalpeſo, e dalla leggerezza di ciaſcuna coſa del modo,la di lei propria virtù diſpiar s'argométano. Quindi appreſſo ſoggiugne, che tutta la ragione d'eſaminare, e giudicar bene la biſogna nella ſperienza ſopra tutto confi iter debbia, avvegnachè v'abbia aſſai de’medici, chequel la traſandata, ſolamente in avviſar ſe vermiglia, o di buono odor la roſa ſia vanamente s'indugj. Ed a ciò anche riguar dando di Galieno il fedeliſſimo interpetre, Vallelio, così al la fine prorompe. Modoillud unum ftatuimus nullum effe certum argumenti locum ad inveniendum, rei cujuſpiam temperamentum ex ſecundis qualitatibus; fed ex modo, quo nos afficiunt ſolum; ita ut in hac doctrina nullum locum ra tio kabeat, fed tota fit empirica. Con la qual ſentenzas certamente egli abbatte infin da' fondamenti, cmanda au terra la medicina tutta del ſuo maeſtro, e ſpezialmente ciò che egli medeſimo nelle ſue côtroverſie avea in prima infra l'altre sbracciate arditamete millantato: Poj]Galenum non amplius interpollis ars fuit,fed perpetuo eadem veris de monftrationibus confirmata. Ma certamente s'egli riſuſci taffe a' tempi noſtri il Valleſio, rimarrebbeſi per innanzidi gracchiar più del ſuo divino Galieno; e ricreduto a’moder ni ritrovati, non più di colui vanterebbe: nihil ti ejus in ventis adhuc eſse additum: quoniam hic author nihil, quod ad artis attinet conſtitutionem non reliquit inventum, quod pofteriſuperadderent. E tanto più, che il Valleſio fu ſempre amiciſſiino della verità: poichè, per tacer d'altro, non ſi ritien per quella di rimproverare a Ippocrate medeſimo.co. tanto da lui ſtimato, il non ſaper punto di Loica; e più ma nifeſto ſi vede nel fin delle ſue fatiche intorno alla ſacra fi loſofia, ove infra l'altre coſe accreſcendo il numero degli elementi dice, che quelli non ſiano ſtati mai, ne fuora del corpo miſto eſſer poffano: i quali (ſon ſue parole ) actu qui. dem nullibi, potentia vero in omnibus miſtis eſse dicimus. E ben’egli avvedutoſi de’vaneggiamenti, e degli errori di Ariſtotele, ſpezialmente intorno alla materia prima, dice. manifeſtamente, e confeſſa, che quella Aggira, ed avviluppa il capo agli huomini. Ma laſciando queſto ſtare al preſente, dirò coſa non da trapaſſar forſe ſenza qualche ammirazione; anche il mede fimo Galieno, nonche altri s'avvide eller tutta la ſua razio nal dottriaa non altro, che vaneggiamenti, cd inutili ciar le; poichè avendo egli ſognato, che ſarebbon guariti due infermi, ſe lor tratto fi foſſe dall'arterie della inan deſtra copioſo il ſangue, ei prontamente gliele craſſe, e tutt'altri ſuoi ſtudj,ſpeculazioni, e fatiche in non cale ponendo, fe guì l'indirizzamento d'un vanillimo ſogno;e certamente un tal fatto appo me non ritroverebbe niuna fede, ſe Galieno medeſimono’l confeſſaſſe; ed Io il ridirovvi colle parole di lui; πξοτζαπείς υπό τήνων όνειρά τον δυοϊν εναργώς μοι γενομένον, ήκον επι την εν τω μείζξυ λιχανού τε και μεγάλου δακτύλου της δεξιάς χει ρος αρτηρίαν, επέτρεψα ερείν, άχρις αν αυτομάτως παύσηται το αίμα, κελεύσαντG- ούτω τε ονείρατG- ερρύη μεν εν εδ' όλη λίτζα • παραχρή μα δεσπεύσατο χρόνιον άλγημα κατ' εκείνο μάλισα το μέρG- ερείδον ένθα συμβάλα τα διαφράγματι το ή παρ' εμοί μεν ουν τούτο συνέβη νέω την • ηλικίαν όντι • θεραπευτής δε του θεού εν περγαμω χρονίου πλευράς αλ γήματG- απηλλάγη δι ’ αρτηριοτομίας,εν άκρα και τη χaei γενομένης και εξ ονείρα G- επι τούτο ελθών και αυτος. Ho lo tralaſciato a bello ſtudio di riferir poi ad uno ad uno, come fanno il Veſſalio,ed altri,ed altri notomiſti,tan ti, e tanti errori, che nel deſcriver le parti del corpo uma no preſi furono per Galicno: per non recarvi consì lungo racconto più di noja, che per avventura non ſi conviene. Ne menomiho preſo briga d'avviſarciò,che a ciaſcuno è manifeſto, che l'opere di Galieno ſenza alcun paragone ſian più di vane ciance, che di coſe ripiene; sì che quantū Andrea Lacuna l'accorciaffe, a più picciol volume po tca ſenza fallo riſtrignerle. Ne meno ho curato accennar come coſa a tutti nota, chc la dottrina inſegnata da Ga lieno, per la più parte ſia colta di pelo ad altri ſcrittori; e tal volta male da lui inteſa, c peggio ſpiegata. Ho trala ſciato altresì per la medeſima ragione, di narrar come Ga lien poco intendente fi paja delic ſentenze di Democrito, Ссс 2 di que 1 di Placone, e d'Ariſtotele, e come al roveſcio anch'egli ſovente ſpiegar fi vegga i ſentimenti d'Epicuro;comechè da un particolar maeſtro n'aveſſe egli la filoſofia epicurea ap parata; il che ſovente anche egli fa dell'opinioni d'Eralia Itrato, d’Aſclepiade, e d'altri Setteggianti; avvegnachè eº millanti, che di tutte ſette e' ſtato foſſe nella ſua giovanez za da più celebri maeſtri di quelle addoctrinato. Ho tra laſciato anche di far parola dello ſconcio modo del filofo fare, che mai fempreGalieno adopera, non iſccndendo mai alle particolarità delle coſe; e ſe talor e'fi pare, che viſcenda, il fà per modotale,che'l traſcurarlo ſenza fallo farebbe menmale. E nelvero chi è, che non conoſca,co me per lui ſcioccamente ſi filoſofi dietro agli clementi, a' temperamenti, agli ſpiriti', al caldo innato agliumori; la natura delle quali coſe non mai filoſoficamente egli ſpiega; ne mai pruova, ſe non ſe con ſole parole la lor eliſtenza? Chi non fa poi, come egli ſcorriamente favelli dell'inge ncrazione, del naſcimento, del creſcimento dell'huomo, e come follemente e' ragioni dell'ingenerazionedelchilo, e del ſangue, della natura, e degli uficj, delle parti, e di tut te altre coſe all’huomo appartenenti? Chi è per Dio, che non iſcorga, com'egli facendofimenare per la barba dagli ſtrolaghi, vanamente favolegojde giorni critici, e com'e. gli oltremodo vancggj in facendo parole della materia del la natura, delle cagioni, e deglicfetti delle febbri, e d'al tri mali, e particolarmente dell’Apopleſſia,e dell'Epilcilia. dicendo egli, amendue queſti mali avvenire per l'oppila zione de’ventricoli del cervello fatta da freddo, groſo, e tenace umore; recandone per ragione, che di preſenta faccianſi, e di preſente finiſcano; o eſſendogli caduto dal la memoria, o ponendo in non cale d'aver lui altra fiata,più al vero conformandofi, argomentato il palpitar del cuore di botto ingenerandoſi, e di botto riſtando; di neceſſità ca gionarſi da ſoſtanza aerea, e ſottile; ſenzachè ſe ver folle, com’ei dice, dall'intera oppilazion de’ventricoli del cervel lo l'Apoplefia, e dalla non intera l’Epileſia ingenerarſi, converrebbe chemai ſempre dall’Epileſſia cominciaſſe l'A popiel ra, poplellia: e che queſta in quella mai ſempre terminalſe; il che non ſi avviſa, ſe non ſe di rado; ma ciò fa vedere le gran traſcuraggine di Galieno nelle coſe della medicina, che non curoffi mai di aprir cadaveri; perciocchè aurebbe rinvenuto in alcuno oppilati i ventricoli del cervello, il quale no foſſe morto d'apoplesſia,o d'epileſſia;ed altri eſſer morto di sì fatti mali, ſenza tenere ne' ventricoli del cer vello umore niuno. Laonde potrebbe a Galieno addattarſi molto bene quelcelebre detto d'Ariſtotele:87 @ gu dangrasa γα, αλα μαντεύεται το συμβησόμενον εκ τείκότων, και προλαμβάνει και ως ουτως έχον και πειν γινόμενον ούτως. Or non fi coglie da ciò che è detto, che Galieno della coſtruttura delle parti del cervello, e del loro uficio non ſapeffe boccata? il che da egli anche chiaramenre ad inten dere, allor, ch'ci fa parole degli altri mali della teſta; ed ora mi ſovviene,come follemente ei filoſofi dietro alla pau ed alla triſtizia de'malinconici, in così dicendo: ficome le tenebre eſteriori apportano ſpavento a quegli huomini, cheaudaci, o fapienti non ſono, così la malinconia col fuo colore offuſcando, ed ottenebrando la ſedia dell'anima, le reca timore; ne' qualiderti è certamente da ammirare, che ſié più errori che parole; e moſtrafi chiaraméte per eſli, che Galieno niéte foſſe della natura dell'anima, edi quella delle qualità intcſo:eche nó ſapeſſe, che coſa foſſe la luce, che coſa foſſe il colore, ne come le ſenſibilità, e l'immagi nazionc, o'l diſcorſo in noi fi facciano; perchè ragione volmente nel vero, comechè non a baſtanza ne vien egli per Averroe proverbiato, e deriſo. Or come per Dio huom, che ſuperficialmente filoſofu della natura, e delle cagioni delle malattie, mai può in medicando della ragione valerſi?.e certamente, per ta cer d'altro, a Galicno ne meno una terzana ſemplice gli verrà mai fatto poter con ragione operando ſecondo i ſuoi diviſamenti medicare; imperocchèquantunquegli ſi con ceda eſſer vero ciò ch'e' finge della terzana, cioè, che ſi cagioni la terzana dalla collera, la quale fuor delle vene s'imputridiſca:e s'abbia p cofa provata,e vera la ſua rego la, che  la, che curar ſi debba per li contrarj; le Galien non fa la natura della collera, come potrà ſaper mai come s’impu tridiſca, e che imputridir la faccia,e come per la putreſce za vi s'accenda, e ſi comunichi al corpo il calore: e d'onde egli potrà coglier gli argomenti ad inveſtigare ciò che all' altro ſia contrario? lo ſo ben, ch'e' dice la collera eller un umor caldo, e ſecco,corriſpondente all'elemento del fuo co; ma s'ei non fa qual ſia la natura del calore, e della ſic cità, e del fuoco,certamente nulla ei non ſaprà della colle ra, ne comprender mai potrà, come ella, e per chi s'im putridiſca, e come ella cagioni la febbre, e comea ciò ſi poffa dar compenſo. Certamente meglio partito egli avrebbe preſo, ſe della ſola impirica valuto li foſſe;la qua le, ſecondo quel, ch'eglimedeſimoafferma, è aſſai mens fallace della falfa razionale, Ne meno lo dirò, ch'ebbeGalíeno avvegnachè compi laſſe tutto Dioſcoride,diſagio di buoni, ed efficaci medica menti: c che egli la più gran parte delle compoſte medici nedegli altri inedicimeſcolò nelle ſue opere: e che adope raffe ogni maggior diligenza, per apparar rimedj, ricercă dogli eziandio infra altri ſetteggianti, e cra’volgari impiri ci; perchè diſperato egli anco di ciò, fu coſtretto ne'falar fi, nelle purgative medicine, e nella dieta, e ne'giornicri sici tutte ſue ſperanze riporre. Or ſe a queſte,e ad altre cole, che ſe Io voleli ad una ad una narrare per ora non ne verrei a capo, aveſſe avuto Gi rolamo Cardano riguardo, certamente e non avrebbe fra quei ſuoi dodici più ſottili ingegni del modo meſſo Galie no in iſchiera, nc mai ſi ſarebbe laſciato traſcorrer dalla penna ultimus fubtilitate ſed clariſimus arte Galenus metho dis, pulſibus, atque diſsectionibus. Ma quanto a queſt'ul tima parte,ben qual ſi foſſe Galieno, il riconobbe, e l'ad ditò il Veffalio, che più del Cardano ne fudi gran lungu informato. De' poiſi poi,che coſa potea indovinarne mai colui, che per iſpiegarne la cagione, alla facoltà ricorſe, ne punto ſeppe de’movimenti del ſangue? Ma nella loica, quanto egli poco valce, il dica Aver roc, i 1 tropo ſtudio. roc, il dican aldri, che tanti errori gli ſcoprirono in doſſo. Ma queſto è il veleno di tutte ſue opere, il della loica: e fe Galien conobbeſi bene della loica, ficome pare al Cardino, che monta ciò, s'egli non ſapea,ne pro to avea fra le mani ciò ch'avea eglicolla loica a diviſare? e tanto baſti avere al preſente della medicina di Galien fiz vellato; e dicoloro, che dopo lui vennero, paſſeremo omai a far brievemente parole, comechè novelliſiſtemino ritrovaſſer eglino di medicina. Furono di così poco taléto que' che dopo Galieno ſcriſ ſero in medicina, che non ſoppero altro, che le coſe mede fime dagli antichi già dette, malamente per lor compreſe, e peggio rapportate, compilare; anzi in ciò pur cotanto bambi, e goccioloni diinoſtrarõſi,che tralaſciando perdap pocaggine le migliori, ſolaméte alla ſchiuma inteſero; per chè Giuliano Cefare avendo commeſſo ad Oribaſio, che di tutti antichi libri di medicina il più bel fiore coglieſe ', mal puotè vedere il ſuo deſiderio a nobil fine códotto; per ciocchè colui non altro che di fraſche, e di novelle,e di va niſſiine anfanie ſolamente fe faſcio. Ma dovea purGiulia no, ſe filoſofante era, qual ſi ſtudiava di far vedere ad al trui, avviſar ben cgli eſſer queſta d'altri omeri loma, che dello ſciocco berlingatore d'Oribafio; ne alcuna coſa di pregio certamente atrendere da quegli infeliciſſimi tempi potcaſi, ove i medici anche eglino nelle loro dottrine reſi ſervi,parean ſol nati a ſeguir prontamente i fallimenti, e gli errori de'ſecoli traſandati, edi queimaeſtri, i quali ſicome da ciò che addietro da noi è detto ſi può agevolmente ri trarre, anzi alle ciance, e alle lunghe dicerie, che alle fal de operazioni avean l'animotutto, e'l penſiero rivolto. E sì, e tanto queſta ſconcia, e biaſimevol coſtuma crebbe, e diſcorſeper tutto a que' tempi, che i medeſimi impirici, ancora,laſciando da parte le loro pruove, e le ſperienze, tutti nelle ciuffole, e ne'ben compoſti cicalamenti ancor ella s'impigliarono; perchè meritevolmére Galieno una fiata fi biaſimava di quel valentiffimo medico di tal ſetta, ch'avef fe voluto logorar la ſua induſtria, e'l tempo in contraſtare ! ic le ſette razionali; perchè in iſperimentare, e in medicare folamente adoperandoſi maggior frutto certamente confe guito n'avrebbe. E fe gran ſenno quell'altro dottiſſimo impirico, ch'or mi ricorda eſſere dalmedeſimo Galieno co loda mézionato: il quale a un inferino, che avea dato orecs chic ad una lunghiſſima diceria tenuta dietro alle cagioni, alla natura, a’ſegni, e a’rimedj della ſua malattia per un ciarlatore razionale, così diſſe; Io per me non ſaprei io, ond'è, che tu più coſto debbi attenerti alle vane ciance di coſtui, che alle tante, e tante pruove fatte permefin'ora; dal che moſſo lo infermo, diede di botto comıniato al van ſofiſta, e nelle mani dello ſperimentato impirico rimiſeſi. Ma certamente cotanto ciarlare, e anfaneggiare appararo no gli antichi incdicanti greci dal ſoverchio ſtudio della loica;avvegnachè per quella intorno alrimanéte,anzigua fti che addottrinati ftati foſſero in avviſar le cagioni, e vere ragioni delle coſe: cotanto ſconcia, e travolta l'adoperava no. E forſe in ciò potrebbon ritrovar pietà, non che per dono, ſe già l'oſtinazione, e la fracotanza d'alquanti di lo ro non foſſe giunta a tale, che per fermo eglino ebbero, e per coſtante, così veramente andar le biſogne della natų. ra, come eglino le îi davano ad intendere, Ritroſi ancora ſi parvero, e negligenti affai i Greci mę, dici nell'inveſtigar le parti così diſcorrenti, come faldede gli animali; e poco o nulla s’affaticarono per iſpiarne l'e, conomnia, e l'ingenerazioni, e gliavanzamenti delle ma lattie; ma ſour'ogn'altra coſa ſi vider traſcurati in raccon tar la ſtoria de'medicamenti, la quale così dubbia, incer ta, e favoloſa eſſer s'avviſa, come ſe a ſtudio di tal formar la ſtato foſſe il lor principale intendimento; tante, e sì ſpeſ ſe fraſche, e novelle ſi troyano colla verità in quella me ſcolare, e confuſe, E ben ſi ſcorge ciò dalla raccolta, che ne fe il noſtro Plinio; ina foyra tutto dal volume di Diofco ride, il qual da varjantichi autoriritraendo le virtù de'mc dicamenti ſenz'avviſar ſe vere, o falſe elle fi foſſero, di tut te pienamente fece faſtello; e tali vengono poi per Galic no, per Oribalio, per Paplo, per Aczio, per Simon Seti trat tiatto tratto deſcritte, quali appunto.le.laſciò Dioſcoride regiſtrate; ſe non ſe ſcioccamente (forſe per far ſembiante, che da coloro erano ſtate le coſe affai minuramente difa minare ) in qual grado il ſemplice, o caldo o freddo,o.umis do, oſecco egli.fi foffe v'aggiunſero.. Ma ſe talora in qualche menomiſlima parte vien per lo ro mai Dioſcoride ripigliato, certamente il fanno dove e * no'l merita; ficoinc allo.incontro il commendano, dove no'l vale. Ne lo ciò dico per diftorre imedici dalla lettu ra di Dioſcoride, ch'egliè anzi permio avviſo il volume di lui la miglior' opera di quante della medicina de' Greci alle noſtre mani ne lian pervenute: ma perchè eglino vi ſia cauri, guardinghi, e ſenza rigoroia efaininazione alle cofe per lui riferite alla rinfuſa non dian intera credenza. E quinciancor manifeftamente s'avviſa, che non che nulle giovaffe.a'Greci la Razional traccia a difcernere le facoltà de'medicamenti, anziella di vantaggio loro oltremodo nocque; perciocchè più veritieri aflai trovanfi i rapporti delle virtù de’ſemplici appo i barbareſchi popoli, privi, digiuni di lettere, che nelle limite, e ben culte ſtorie loro. Io tralaſcio di far parole de’medicamenti compoſti de’Gre ci, che afai chiaro fi pare, quantodalla fortuna, dal caſo, anzi che daila ben regolata loro ragione ne vengano di viſati; mal porendofi dirittamente accozzare, e comporre infieme imedicamenti femplicida colui, che di quellinon fia pienamente informato. E ben s'avvidero i Greci ine dicanti più ſagaci,.e più ſtimari della. poco lieta uſcita de' loro medicamenti; perchè andando per innanzi maggior mente a riguardo: folamente nel preſcrivere fobrio, e ben regolato vivere, l'arte tutra,e'l ſommodel medicare ripo fero; e sì, e tanto-in.ciò furono ritenuti, e rigorofi, ch'a molti infermi più giorni ogni cibo vierano, cad altri la fo la mulla permettevano. Poco accorti in mole'altre coſe li videro i Greci medici; perciocchè per iſpiarequanto lor foſſe ſtato poſſibile deca gioni delle malattie di tanti infermimorti nelle lor mani no fi diedero maicuca d'aprire icadaveri; avvegnachè una tal Did diligézainutile altrui poſſa sebrare,eflendo malagevol mol to lo inveſtigare ſe ciò che guaſto nelle interiora ſi ritrova, più toſto ſia effetto,che cagion delmale; pur nondimeno alcuna fiata potrebbeperavventura a qualcheutilità riuſci re. Ma quelche più rilieva, ne meno fcriſſero i Grecile ſtorie de'mali, ſe però non le ci ha tolte la lunghezza del tempo; e quelle poche, chenoi ne abbiam focco nome da Ippocrate, elleno ſon cosi rozze, ed imperfette, che r.2- ' gionevolmente huom favoloſe le crede. Perchè non è po co da lodare il diviſo di que'moderni, che ſi ſono attentati di ſcriverle, comeche Pabbian poſcia meſſo infelicemente in opera, o perchè lor venne in talento di raccontar le ma raviglie, ſicome fece Amato nelle ſue ſtorie:0 pure, perchè dalla faſcinazione delle ſette adombrati', vider le coſe al trimenti diquel ch'elle erano; ſe pur non ſon elli imalizio fi, che le coſe ſempre aroveſcio, e travolte ne vogliono da re a divedere; ſicome alcuni di loro cento, e mille fperien ze, matutte falſe, per difender le loro opinioni tutto di van recando. Egli furon poi i Greci cosi per vaghezza brigāti, eriot tofi che, tal ſovente videli, nonche ad altri,ma a ſe me d'elimi far contraſto; ſe bene in ciò non tanto eglino ſono da accagionare, quanto i viluppi, e le malagevolezze di quell'arte, che eglino cotanto con biftentis e vigilie, e fudori ſtudiaronſi d'illuſtrare, emaggiormente offuſcaro no; perchè non ſenza rifa da huom di ſano intendimento leggerafſí la millanteria di Pelope Maeſtro di Galieno, il qual vantava di ciaſcuna coſa di medicina ſaper la vera; incontraſtabil cagione. E già parmi leggiermente avet cocca, e traſcorſa tutta la medicina de'Greci;e quantunque non abbia lo fatra ſpezial menzione d’Areteo, il cuili bro per avventura ſembra ſcritto con diligenza maggior di quanti ne fon rimaſi interi della medicina deGreci,e con filoſofica libertà; pur non è da maravigliarvene, perciocchè egli contien le dottrine medeſime da noi più fiate diſami nate, e riprovate. Finalmente ſi conoſce, che non hanno gran coſa i Greci in medicina adoperato; imperocchè les aveſfer qualche coſa di pro eglino mai rinvenuto, certame te qualche veſtigio appo gli autori, chealle noſtre mani so pervenuti,ne apparirebbe. Ma chedovrem noi dire della Arabeſca medicina ella fu tanto nel paſſato ſecolo abburattata, e premuta,che par che d'altra eſaminazione non le faccia più meſtiere. E ciò maggiormente, che dagli Arabi fu maiſempre il filoſofar in inedicina di Galieno ſuperſtizioſamente ſeguito; del cui mancamento molte coſe abbiam noiragionato. Ma egli è in iſtato più miſerevole la loro ſcuola, che dove alcunas volta Ippocrate, e Galieno non dipartendoſi dalla ragio ne il ver dicono, ella ſconciamente gli abbandona. Nel rimanente poi, e ſpezialmente nella materia de ſemplici: di leggieri immaginar nonpuoſli, quanto ſciocchi ſi ſiano i diviſamenti degli Arabi;imperocchèbaſtava lor ſolamente aver letto, o pur udito, che per Galicno una coſa ſi affer maſſe, che immantinente per vera la credevano.Perchè poi gli Arabi ignorarono la greca favella, l'un ſemplice, e l'un malore per l'altro ſpeſſe fiate colfero in iſcambio; e de’libri della natomia de'greci molte coſe, emolte non inteſero; ma gran male queſto non ſarebbe ſtato per avventura, fe di vantaggio qualche lor ſogno non ci aveſſer frāmeſſo. Ed anvegnachè fra’medicamenti dagli Arabi ritrovati ve ne abbia forſe saluno, che a que' de Greci prevaglia., niente dimeno nulla,.o poco ciò monta riſpetto al grave, e incom parabil danno, ch'apportarono gli Arabial mondo colla ver introdotto l'uſo del zucchero, per cui ſi fono sbandeg giate perpetuamente le Sape, le Mulſe, gli Offimeli ſem plici, e compoíti, e in tante guiſe formati; e ſono a lor ſuc ceduti con graviſſiino danno degl'infermi,i ſciroppi; con cioliecoſachè ſotto il doice del zucchero,un enordaciſſimo, e pungentiffimo fale ſi naſconda, valevole colla ſua morda cità a ingenerarferventiſſimo caldo; ed egli oltre a ciò ab bonda il zucchero d'una cotal tenacità oppilante, e perciò alle viſcere nocevole oltremodo, e nimici; della quale il miele è affatto privo, mercè, che le apiil rendon volatile, Ddd 2 é fottile, e penetrante e, quaſi ad una celeſtial quinteffens za il riducono; perchè facendo nelle viſcere il miele poca dimora, poca, o niuna offeſa può certamenteil ſuo fale re carne, che men acuto anche, e mordace del ſale del zuc chero ſi ſperimenta. Maſenza più diftendermi in queſto, ayendovifaſtiditi pur troppo, lo fo quì fine al mio ragio mare.  vele Icome al partir della fredda ſtagione, dal grave peſo delle neviſgombra la terra, tutta lieta:, e feſteggiante ringiovaniſce, e allo ſpirar de'tiepidi zeffiretti laſciando ležiarſe, e ſquallide ſpoglie; di vaghi fio ri, e di fronzute piante fi riveſte; e fiabe belliſce: cosìparimente;o Signori,le ſcienze, e le più no bili artiscellati ifuriofi diſcorrimenti de'barbari, che mala mentemalmenare l'aveano, cominciarono aʼnoſtri più yi cini tempiper l'Italica induſtria tratto tratto a farſi vedere, a poco a poco riacquiſtando l'antico', e forſe altro più rag guardevole ſplendore.Già la Greca, e la Latina favella,d'o, gni ſcienza antichemadri, riſurte fiorivano; già la Poeſia ', egli ſtudjtutti del ben parlare erano in ſu'l far frutto; ne l'Archițettura più, 12.Muſica,o la Pittura, o ciaſcuna altra arte abbattutalanguiva; ma pur la medicina ſola;e la Filoſofia nel comun ſollevamento, in vil ſervaggio vivens do ſe ne giacevano oppreffe, efgombinate dal barbareſco giogo d'Ariſtotele, e di Galieno; quando piacque finalme. te a colui, che impoſe a tutte umane coſe aver fine, che fi levala  3 1 Ievaffer fuſo alquantianimigrandi, e generoli, quali NOR G fperavano, e non poteano per huom mai immaginarſi, ch, avallar doveſſerola ſignoria di coloro, e la medicina, e la filoſofia alla primieralibertà, e al perduto pregio riporres O ſpiriti veramente generoſi, e da elſer commendati per quantoil mondo durerà; i quali ardirono prima di far ri paro all'impetuoſo torrente dell'abuſo comune; e ad op porſi sforzatamente all'univerſalconſentimento delle gen ti. Maggior gloria certamente fu di coſtoro, i quali furo no i primi a rompere il guado a sì ardua impreſa, e arice ver a battaglia affrontata i pertinaci ſeguitatori di Galieno: che di coloro, i quali in prima ſetteggiando a lor talento, nel confuſo rimeſcolamento della medicina s'argomenta rono di trarla moltitudine ancor libera a’lor ſentimenti; c. s'eglino, i quali riduſſero la medicina a qualche più toſto apparente,ch'eſiſtente ſtato di perfezione, ed i primi ri trovatori di quella in cima d'altiſſima gloria aſcefero,e for montarono: che farà da dir di coſtoro, i quali, non che ab battuti e'fi foſſero in terren ſoluto,e d'ogni erbaccia purga to: anzi cotanto duro, e mafagevole, e ſpiuoſo il ritrova rono, che ben convenne loro in prima durar lunga fatiga a liberarlo da’bronchi, e da'pruni, c da’ravvolti ſterpi,che l'ingrombavano,anziche vi poteſſero granello riporre. Ne ſembra certamente cotanto malagevolel'introdurre da pri ma alcuna coſtuma infra le rozze genti: quanto egli è du To, e quaſi impoſſibile, allor che quelle già auſare viſono, e tutto che indurate,a far loro cambiar uſanza, ericre derle, e ſgannarle de loro errori; perchè è da dire, ches molto maggior vanto foſſe deʼriſtoratori della guaſta, e mal menata medicina a rimetter fe medeſimi in prima, e poi gli altri al diritto ſentiero: che non fu di coloro, i quali non incontrarono malagevolezza niuna d'invecchiata, cpre ſcritta uſanza da ſuperare. Ma ciò al preſente laſciando, trapaſſeremo a narrar de'noſtrivaloroſi moderni, ſecondo il noſtro diviſamento; e diremo chente, e quali ſiano le loro opinioni intorno alle coſe più ragguardevoli della me dicina. Egli fembracertamente, che prima diciaſcun'altro l'al cilimo Chimico, e filoſofante Bafilio Valentino, monaco diS.Benedetto: fatto capo a' ſuoi tempi nella Lamagna co tro la ſignoreggiante medicina di Galieno, e quella degli Arabi, perpiù d'una prưova conobbe a deboliſme fonda menta quelle attenerſi, e in ſü’l ſecco ſenza fallo effer in peſtate;concioffiecoſachèprive di ragioni,e manchevoliol tremodo d'efficaci medicamenti végano alla per fine ſtret re a riporre tutta loro ſperanza di vincer le pertinaci,e gra vi malattie nella ſola natura: comcchè co ' falalli,e colle purgagioni, e con altriſconcj, e violenti rimedi render la ſogliono ſovente ſpoſfata, e poco acconciza fofferir la vio lenza del male. Perchè argomentoſſi dicomporrenuove forti di medicamenti profittevoli a malati ſenza riſchio di piggiorar loro con quelli di nulla la conpleſſione. E con ciofoſſecofa,che eglivalentiſſimo Chimico foſſe, e molto in folver icorpi maſſimamente minerali affaticafléfi, diede egli cominciamento a quel ſuo famoſiſſimo ſiſtema di medicina, chepoicompiuto,e perfezionato venne da Teo fraſto Paracelſo. Ma comechè ponga egli per fondamen to della fua medicina que’tre principi, de'quali anche ſer veli il Paracelſo: çiò ſono zolfo, ſale, e mercurio; non però di meno diſcorda egli non poco dal Paracelſo in ciò, che egli giudica corali principj ingenerarſi dagli elementi. Nel qualſuo ſentimento certamente egli non poco falla, laſciandoli ſcioccamente menare alla piena del folle vulgo in ſupporregli elementi; perciocchè ben doveva egli avvi ſare, quelli ſolamente eſſer nel cervello d'Ariſtotele, e di Galieno: e che tutti loro argomenti, malimamente quel lo, che ſembra aver qualche ſembianza di vero, cioè, che icorpi tutti in iſciogliendoſi, a quelli come aloro primi componenti ritornino, ſiano yani, e fallaci; alla qualcoſa fare bédovevalo ajutare lanotomia vitale;mal'aver lui uſa. to qualche tempo nelle ſcuole in ciò pur dovette abbaci narlo. Adunque egli giudica, che tutte coſe abbian lor materia, e lor forma, onde poi prenda dirivo ciaſcuna lo ro operazione: e che queſta dalle ſtelle venga ingenerata,e dagli elementi formata, e da’tre principj ſolfo, fale, e mer curio prodotta, e perfezionata; ma pur.dice egli una fiaca l'acqua eſſer la primamateria ditutte le coſe; que, ſon fue parole, exficcatione ignis, & aëris in terram formata eft. Oltre a ciò egli afferma, in ciaſcuna coſa dimorar cotali fpi riti vivificanti operativi, i quali G nutrichino, e fi foftenti no de'corpi, ne'quali albergano: che in queſti ſpiritila vir tù, e la forza d'effi corpi ſpezialmente conſiſta; ma come chè queſte, e altre fraſche aſſaiintorno alla natura di sì fat ti ſpiriti egli vada ſcrivendo, pur ſi potrebbono le ſue parole intendere allegoricamente, e con ſentimento forſe da non diſpregiarſi: ſe non ſe moſtra manifeſtamente così in: ciò, comein altri ſuoi divifamenti eſſere ſtato lui molto [um perſtizioſo, e vano nel ſuo filoſofare. Perchè o colpa foſſe de'tempi, o altro, che il ſi faceſſe, comechè egli intenden tiffimo foſſe ſtato della vital notomia, e che con quella ma raviglioſe coſe aſſaioperate aveſſe, avviſando ſottilmente i più naſcoſi ſegreti della natura; non però di meno non ſe ne ſeppeegli sì ben ſervire, che penetrare aveſſe potutoi veri principj,onde le operazioni, e gliefferci de vegetabi li, degli animali, e de'minerali procedono. Mapure egli, come non poco arricchita aveſſe de' ſuoi comiendevoli ritrovati, e di ſottiliffimi divifamenti la me dicina, e che ſaggiamente giudichi infra l'altre coſe, che dal lavorio delle chiniche preparazioni de' corpi naturali ne lieguano,naſcere il certo conoſcimento di cotal arte;im pertāto.egli manifeftamête avviſando l'incertezza di qucl la, ne conſiglia, econforta a riguardar ſempre all'uſcimen to de’rimedj; perciocchè dal nocimento, e dall'utile, che quelli recano a'malati, può il medico avveduto prender có figlio, ſe debba più per innanzi adoperargli. o nulla, quanto al fatto del medicare, il Va lentino delle chimiche operazioni fi valſe; imperocchè qua tunque belli, e grandi, e copiofi medicamenti gli venine ro, mercè la chimica conoſciuti; la cui vircù egii profone damente ſpiò: e più avanti facendoſi giugneſſea penetrar la propietà de' tre principi nondimeno non tols'egli a {pie 1 Ma poco, gi!re Del Sig. Lionardo di Capoa 401 gare, come da quelli s'ingenerino, el guariſcano i mali. La quale imprela certamente fu dopo luidal Paracelſo, ſe non compiutamente fornita, a grande ſtato condotta; av vegnachè il Valentino non tralaſciaſſe affatto di metternes fuora da quando in quando qualche profittevole ammae ſtramento; ſicomeè quello chea’mali ch’abbian fatto cal lo, e di ſoverchio ſi fian radicati in corpo, ſolo le fifle me dicine approdar poſſano, ficome quelle, che fin dalle ra dici gli sbarbano; le non fiſſe ſaggiamente a quell'acques piovane aſſomigliando, le quali toſto diſcorrendo per le Atrade, non penetrano per fonghe, o per foſſati fin nelles viſcere della terra. Siinigliante è quell'altro ſuo avviſo, che Come d'affe ftraechiodo con chiodo, così l'un ſimile vaglia l'altro a curare; allegandonc l'eſem plo del veleno, il quale non altrimenti che la calamita ſi faccia il ferro, tragge, ed aſſorbiſce l'altro veleno; ed in veggendo egli, che l'acqua arzente guariſce la Riſipola, immaginò, che il caldo di quella l'interior calore di queſta attraeſe. Ma da queſto diviſamento può ciaſcuno far con, ghiettura, ch'egli entrato ne’valti regni della natura, qui vi poi li ſmarriſfe, ne fructo, e pro che dovea ne riportaſ ſe; imperocchè s'egli ſi foſſe dirittamente appoſto, avreb be detto, che ingenerandoſi la Riſipola dall'acetoſità, gli Alcali volanti dello ſpirito del vino ciò adoperino; il che ben ebbe inteſo il Paracelſo, onde potè cotant'erbe di ſimi li alcali volanti ripiene,valevoli a far contraſto all'acetoſità delle ferute agevolmente rinvenire, e compornc tanti be veraggi, che vulnerarj ſon detri. Maciò, ch'è di maggior conſiderazione, cgli non curò mai il Valentino d'inveſtigare (il che forſe a lui non guari malagevole ſtato ſarebbe) la figura, e tutt'altre proprietà di quelle particelle, onde i tre principj ſono formati, eco me, ed onde le loro operazioni avvengano; in tal guiſa avrebbe egli potuto felicementenella filoſofia innolcrādoſi ſcorgere, come il ſuo Vulcano fia conoſcitore, egiudica tore ditutte le coſe ne’ere principj ſolvendole, ficome e'di Eec CC CON  ce con quelle parole, che dal tedeſco idiomanel latino così furono dalChercringio portate; Quum Chalybs durif fimusfilice duro ſolidoque percutirur, ignis ignem excitat, commotione vehementi, & - accenſione eliciente occultum ful phur, fiveignis occultus manifeftatur.commotione ifta vehe menti, eper aërem accenditur, ita ut verè, & efficaciter ardeat; fali maner: in cinere, &mercurius inde fe proripit una cum ſulphure ardente. Ma ſe mai avutoegli aveſſe pie na contezzadella naturadel fuoco,di cuipoteva informar ſi dalle continue operazioni, che gli ſe ne parávano innanzi agli occhj;séza fallo,egli in sifatramaniera none avreb be ragionato.. E ſe in cocal guiſa foſſe andato confidcrara mente negli alti miſterj della natura innoltrandoſi, NTOI farebbe ſtato da cotanta maraviglia ſoprapreſo per lo con tinuo ſcambiamento delvino in aceto. Ne ſarebbe egli ſta to nelle ſue opinioni cotanto bergolo, e poco ſtabile;:fe forſe ciò non avvenne in lui dall'accorgimento, ch'eglieb be del noſtro corto intendimento, e dalle malagcvofezze in cuici avvegniamnoi fovente in filoſofando. Il perchè preſe ad eſclamare una fiata. Bone Deus !'natura à nobis bominibus quodammodo indignatur tota: pervideri ! cum vi tri noftratempus conftitueris adeobreve, & cu verus omnia judex multa refervaveris tibi in creaturis; que non ſcientiæ, fed admirationi noftræ reliquiſti. Ma tempo è omai di venire a Teofraſto Paracelſo; ne già m'invicrò lo per la ſtrada dall'Eraſto, dal Cortino, dal Riolano padre, e da altri famoſi Galieniſti calcata; i quali a biaſimar in lui ciò,che eglino medeſimi non comprende vano fi miſero, porgendo giufta cagione ał gran Ticone di dire: Paracelſus pluribus oppugnatus quam intellectus; e lor fatica impiegando intorno a materie bazzeſche,e gher minelle s'ardirono a rimbcccar quelle ragioni, che già più fortunatamente avea il Paracelſo contro illoro Ariſtotele, e'llor Galicno adoperate: intorno a' quali ſoleva il Para celſo dire, che con una ſola ſperienza arebbe cento ſuppo fte dimoſtrazioni d'Ariſtotele abbattute, e mandate a ter ra; ma rimarrò ſolamente pago di toccar pochiſſime coſe di mio talento, e ſpezialmente quelle, ſopra le quali il di ftema tutto di lui vien piantato.. Lamedicina del Paracelſo, quantunqueragionevolme te a chi può dar di queſte coſe perfettogiudicio molto più veriſimile dell'altre razionali fi paja, e che tanto ne' pro fondi miſteri della natura innoltrata, e profondata lilia, cheminutamente ragguardar poſſa a quelle minuzie, per le quali ſolamente l'arti alla debita perfezione montarpor fano: ediſceſa ſi veggia più di tutt'altre medicine, ad ogni menomillunaparticella diſtintamente Itacciare: coſa, la quale già tanto da Galieno fu nella medicina fofpirata; e quantunque nel diviſarle cagioni,e la natura delle målar tie, e diciù, ch'a quelle, ed all'economia degli animali s'appartenga, valentiſſimo egli fia: edil ſuo autore abbia trovati, e poſtiglorioſamente in uforimedj valevoli, ed ac concj a riſanare ancheque’mali giudicati per addiecro infia nabili dagli antichi; e quantınque alcuno dir giuſtamen te vaglia, aver lui aſſai più di lume, e di vantaggio, e d'ui tile recato al mondo co'foli ſuoi libri del Tartaro, che co® loro infiniti, e voluminoſi libri di medicina tutt'altri fcric tori, così Greci, come Latini inſieme s'ayefſer mai fac to; non però di meno chiunque con occhio filoſofico, e fpaffionato ben ſotcilmente vi badalſe,agevolmente ravvi far potrebbe la dottrina per lei inſegnata eſſer alquanto manchevole, ed intralciata, e le ſue saccherelle, comechè minori forſe dell'altre, avere anch'ella. E tutto ciò certamente avviene tra per la natura della medicina, impoſſibile a comprendere ad intendiméto uma no, come di ſopra baſtantemente è detto; ed ancora per chè il Paracelſo a tante, e sì diverſe, e ſtranemaraviglie da lui nuovamente nella natura offervate, a guiſa d'occhio da troppa luce abbagliato, Che dal troppo veder men'alto intende, tutto vinto, e tremolante più oltre non osò guatare: ſule prime ſoglie della natura riſterteſi, ove maggiormente a fpiarla per tutto inuoltrar fi dovea; così Nun altrimenti ſtupido fiturba Ece 2 Il montanaro, e rimirando ammuta, Quando rozzo, e ſalvatico s'inurba. Perchènon men, cheGalieno già de'ſuoi principj s’aveffe fatto: grazioſamente immaginandoſi la natura della corpo rea ſoſtanza, e delle quattro primjere da lui dette Relol lacee qualità: ene men inveſtigando onde avvenir poſfa, ch'elleno sì poco valevoli ſiano nel corpo umano ad opera re, e cheniuna parte abbiano nelle gravi inalattie; e per altre,ed altre ragioni,nelle medeſime tacce delle quali ac cagionali Galieno poco meno incorrer fi vede. Così il Pate racelſo intorno a'ſuoi principj non miga già, ſicomea buo.si filoſofíte covenivaſi,riguardò alla natura, o alla proprietà, o a’modi del loro operare;ſenza le quali contezze non può certamente, ſe non murarſi a ſecco, e poco durevol ſiſtema di razional medicina in piè rizzarſi. Ma acciocchè quanto Io dico più apertamente ſcorger ſi poſſa, convien la coſaw più minutamente diſaminare. Queſta grandiſſimamaſſa dellVniverſo e' fi pare, che da Teofraſto Paracelſo venga in due globi partita: uno al to, che due elementiin ſe contiene, ciò ſono il fuoco, Paria: e un'altro più baſſo, che ſomigliante due altrine ha, e ſono l'acqua, e la terra. I quali quattro Elementi chia manfi ancora da lui vacuitadi;perciocchè vuoti d'ogni cor po eglino ſono:altrimenti no potrebbono da' corpi agevol mente efſer ingombri. Sono adunque gli elementi incorpo rei,cioè a dire privi d'ognicorporea diméfone. Ma in que Ha vacuità dice egli, chela luce, e le ſeminali ragioni di tutte cole dal loprano Facitore meſſe furono, allorches quello, di nulla criò da prima l'Univerſo; quindi v'aggiun ſe le ſembianze, e le coperte propie de corpi, le qualiallor che quelli veſtono, varie, e diverſe coſe ci producono. Per quel, che ſi poſſadall'opere del Paracelſo argomentare: i principi primi delle coſe fon di due inaniere; perciocchè, o ſono principj propiamente tali, o alcuni di que', ch'elemé ti comunemente diconſi. Gli elementi ſono due, uno è fecco, il qual terra dannata, e cenere, carena anche tal volta chiamaſi: l'altro è umido, il qual flemmafi dice. La terra dannata non ha virtù alcuna, ſalvo che d'aſſor bere, e impiaſtrica,come dicono; e la flemma parimente al tro non adopera, che ammollare, e inumidire; perchè ſon dette principi paſſivi. Ma non ſolamente la ficcità, e l'umidore, giudica il Pa racelſo, che in nulla s'adoperino in queſta maſſa mondiale; ma quell'altre dire qualità ancora,che dalle ſcuole agli ele menti s'attribuifcono, dice egli ad altro non ſervire, fuor folamente, che a riſcaldare,o a raffreddare; perchè da lui, tutte, e quattro chiamanſi Relollacee, cioè a dire ſeioperd te, e ozioſe; perciocchè non hanno elleno virtù alcuna ſe minale. Nelche ſi pare, che il Paracelſo imitare abbia vo Juto Ariftotele, ilquale vuol, che i ſemi tucti ſian d’unco tal calore forniti, propiamente celeſte, e diverſo affatto dal calore elementare. Perchè è da dire, che fecondamente chè giudica il Paracelſo, le quattro volgari qualità altro non adoperino, che cccitare, e riſvegliare le féminali virtù nc'corpi,ove clle ſono. Ma i principj propiamente tali, che attivi egli chiama; ſono anchetre, fecondo lui; ciò ſono il Sale, il Solfo, e'l Mercurio. Egli è il ſale una ſoſtanza ſalda, ſavorofa, la, qual disfaſli, e ſolveſi volentieriper acqua,e per caldo derato fi ſecca, e li raſſoda: e per ſoverchio fuoco ſi fonde. Il ſolfo è un corpo liquido, untuoſo, agevole ad accender fi. E dalſale vengon tutti ſapori alle coſe: e per lo ſolfo gli odori in quelle fpirano. Ma il Mercurio è un coralli quore fottiliſſimo, echiariſſimo, il quale per la ſua ſottie gliezza in tutto penetrando, agevolmente ſi diſperde, ei fvaniſce. Or sì fatti principi giuſta i ſentimenti del Paracelſo abbi fognan tutti neceſſariamente a comporre, egenerare cia fcuna coſa del mondo; perciocchè il ſale è il fondamento di tutta la faldezza de'corpi; e non potendoſi il fale meſcola re, s'egli in primanon li ſolve in minutiſſime particelle, fa meſtieri della fleminaa ciò adoperare. Ma la flemma non può meſcolarli col fale per cóporre i corpi,ſenza l'ajuto del ſolfo; il qual parimente per la ſua untuoſità non potendo mo: ſi age 406 Ragionamento Sefto fi agevolmente partire, ficomefi conviene, abbiſogna dell' acqua; la qualcompreſa, e impregnata del ſale ſciolto, fonde il ſolfo, e maggiormente disfallo, acciocchè poſla diſcorrere, e meſcolarſi acconciamente a formarle coſe del mondo. Vien poiil mercurio, il quale a guiſa d'anima nel corpo, per cutto penetra, e diſcorre; ma in niunama niera potrà certamente ingenerarſi fermo, e ben faldo cor po, ſe per la terra dannata in prima non ſi ſuccia, es’at trae la ſoverchia acqua, chesformatamentel'ammolla: per la qual terra finalmente alla debita perfezione, e all'ultimo for compimentole maſſe tutte de corpidivengono. Per le quali coſe dimoſtrandone il Paracelſo, che diſtruggendofi qualunque corpo, in queſte cinque ſoſtanze folamente fi lolva: e contendendo, che cotaliſoſtanze non poſſano cer tamente per cola del mondo in altro giammai cambiarli, o folverſi: egli inſiemeraffermail ſuo diviſamento, e abbat te ſenza fallol'opinione d'Ariſtotele, e di Galicno intorno a’loro priini quattro elementi. E sì avendo ben tutto ciò che fa meſtieri alla natura de’principi, queſte ſole ſue ſoftá ze, e non altre dice il Paracelſo eſſeri veri principi delle core. Ma Io per manifeſtare il mio parere intorno a cotal di viſo del Paracelſo, non vo'ora opporgli, che y’abbia alcu ni corpi, i quali, come affermal'Elmonte, e altri valoroſi maeſtri in Chimica, non ſi poſſano maidisfare, o fciorre nelle loktanze da lui avviſate; ficome certamente è l'oro, e'l mercurio volgare;perciocchèegli agevolmente riſponder potrebbe, ſe aver bene cotali corpi ſoluti; comcchè ciò 2 coloro malagevol fia, ſenza il vero artificio adoperare. Ne meno dirò, che cotali ſoſtanze s’ingenerino di nuovo allor che disfannoſi i corpi: e che prima in quelli in niun modo alliguavano; perciocchè potrebbe egli ancor dire, che'lle gno per qualche ſpazio di tempo macerato nell'acqua, le poi ſi brucia, non dimoſtra nulla di ſale: ſegno manifeſtif fimo, che'l ſale allor, che in bruciandofi il legno nonmace rato ſi pare, era in priina nellegno: e che dal legno l'ac qua n’avea tratto colſuo maccramento il ſale; anzi dirà il Paracelſo eſſer alcuni corpi, ne'quali ſenza artificio alcuno, e ſenza ſolverſi v'appajano manifeſtamente cotali principi, ſicome nelle ſugne, e in altri corpi grafli', e uotuolije nelle ulive anche non ſolute il ſolfo-apertamente li ſcorge; per ciocchè in quello ſommamente abbondano; ne a trar da quelli il ſolfo fa luogo lungo ftudio di chimica, o ben fati colo favorio di diligentemaeſtro; che poſfiamo dire eſſer il ſolfo quivi tratto per l'artificio del fuoco, e in canta abbon danzaefferſi di preſente ingenerato. Nepuò il fuoco, per direvole, e gagliardo, ch'egli fiaſi ciò adoperare; percioc chè dalla terra dannata', o dalla flemma, ove fólfo,ne mer. curio, ne fale non alligna, non ſi potrà per opera difuo co, orlalaro chimico ſtrumento trarne goccia giammai. Tralaſcerò pure di dire collElmonte, che dall'arena; dalla ſelce, non maiſolfo, o mercurio ſi può trarre; per ciocchè riſpõderebbe il Paracelſo in cotalicorpieſſer quel le ſoſtanze cotanto ſcarſe, e poche, che nel volerle diſa minare ſi difperdono. Ne recherò, che per far pruova diciò l'Elmonte con ſuo ſottiliffimo artificio ſciolle in un purisſimo ſale l'arene, e le pietre: le quali s'avvisò egli no aver perciò perduto nulla del loro primjero peſo; percioc chè fa pochiilimaquantità delſolfo, edelmercurio ſvapo raci,quello cotanto poco fa menomare,che malagevolmen te fi pud per huomo avviſare; ſenzachè ben può penetrar qualche coſa in eſſi corpi, quando ſolvonfi,la quale riſtorar poſla il perdimento delle ſoſtanze, che ne ſvaporano. Ne dirò pur coll'Elmonte, ſcambiarſi infra loid vicen devolmente corali principj; conciofoſſecofa, che egli con maraviglioſo artificio ſcambiato aveſſe il ſale in olio, e l'o lio poi tramutato in acqua; perciocchè non così agevol mente il Paracelſo avrebbegli in ciò preſtato tede, fe pri ma con gli occhj propj non l'aveſſe veduto. E medeſima menteciò riſponderebbe il Paracelſo a quell'altra novella dell'Elmonte, ove egli vantaſi da ſedici once di gromma di vino aver tratto per diſtilazione un'oncia d'acqua, due once, e mezza di ſale, e dodici d'olio, perchè egli n’argo menta poi contro al Paracelſo, che l'olio ſi ſia nuovamente dal Cale acetoſo della gromma ingenerato; conciofoſſecofa, che ſe tanta quantità d'olio ſtata in prima vi foſſe,ſarebbe & a più d'un ſegno certamente manifeſtaţa. Ė alla per fine laſceròmolti, e molti altriargomenti da rintuzzare il ſiſtema del Paracelſo, e i ſuoi principj: ficome quelli, a' quali cgli agevolmente riparar potrebbe. Sola mente dirò, che quantunque lo ſcioglimento ottimo mnez zo fia da dovereavviſarei principi delle coſe; non però di meno tra per la ſcarſezza degli ſtruinenti, e di tutto ciò,ch ' a perfettamente fornirlo ſi conviene, e ancora per lamala gevolezza dellavorio, ſi rende quaſi egli impoſſibile; ſen zachè nello ſcioglimento delle coſe,moltec molte lor por zioni delle più ſottili, e però forſe più operative fa mestier, che ſvaporino, e ſi diſperdano prima di potereſſer avviſa te; c altre comechè pur virimangano, nondimeno per la loro picciolczza non si poſſan comprendere, non che per altra notomia più ſottile diſaminare. Ma ſopra qualunque altro argomento, che ſoſpetti rens de i principi delParacelſo quello ſiè,che colle ſuddette ſue cinque ſoſtanze egli non iſpiega, ne ſpiegar certamente po tea, come da loro le ſenſibili qualità ad ognun conoſciu te, e quelle, ch'egli chiama Cherionie s’ingenerino,eco me operino, ſe pure il fanno; ne è maraviglia, che'l Para celſo ciò non abbia adempier potuto: da che egli non ſa qual ſia la lor natura; ne certamente ſaperla, anzine meno inveſtigarla egli giammai poteva, non ſappiendo la natura della ſoſtanza,onde quelle produconſi. Perchè egli fa meſtier confeſſare, che la medicina del Paracelſo manche vole nella ſua maggior parte ſi ſia. E ſe egli cotanto valoroſo ſi foſſe ſtato in iſcienza, qual veramente giudicavaſi, dovea ben'egli in avviſando, che co'ſuoi principj non ſi potea render ragione dell'apparenze delle coſe, prender quinci cagione di ſoſpettarenon certa mente altri foffero i veri principj di quellc, e quindi forte ſtudiarſi d'inveſtigargli; perciocchè ſe a ciò aveſſe porav ventura egli indugiato; ſenza fallo avviſato avrebbe, le varie, e diverſe figure delle menomiſſime particelle eſſer de'ſuoi principj cagione; perchè agevolmenteargomentar n'avrebbepotuto come, e perchè quelli operaffero: eche non eglino, ma il corpo medeſimo in varie, e diverſe brice fgrecolatose partito, forſe delle coſe del mondo il vero prin cipio, onde poi ciaſcuna operazione di quelle prendeſſera dice, e cominciamento. Ma intorno alla maniera dei medicare del Paracelſo, ſe credenza preſtar ſi deve a que’libri, che ſotto ſuo nome vanno, èda dire, chemolto vaga, e in coſtante ella ſi foſ fe, e di pochiſſima fermezza. Il che altronde certamente non nacque, ſe non fe dall'avvederſi, ch'egli fe in medicão do, dell'incertezza grande dell'arte; non però di meno egli pur convien confeffare, niuno,per quel che ſi ſappia, aver avuto corante, e cotanto efficaci, evalevoli medicine a fgombrar le più pertinaci, e diſperate malattie, quanto il Paracelſo; e sì ſaggiamente ſeppele egli a tempo adope rare, che non fu certamente infra gli antichi medico co tanto valoroſo, e avveduto, ch'a molto ſpazio, così nell' uno, come nell'altro non gliandaſic dietro. Perchè in tā to pregio, e rinomèa montonne egli preſſo le genti, che non huomo mortale tanto, o quanto della medicina cono ſciuto,ma non altrimenti che dal Cielo per ſalvamento del genere umanomandato comunemente giudicavanlo. Ne v'increſca al preſente aſcoltarne anche da altri le lo di, ancorachè alcuni di loro per uggia, e mal talento con biechi occhj il guardaſſero. Ecco il doctiſſimo Spondano, il qual ſovente lumc, e occhio della Germania folea chia marlo, così di luifcrive: creditur habuiſse præftantiffimum illud vellus aureum, quod Iafon apud Colchos conquifivit: (Intelligunt me qui Suidam legerunt) quo defperatos mor bos fanavit; ande magietiam opinionem apud quofdam cele bres viros, quod magis miror, eft confequutus. E prima dello Spondano, Corrado Geſneri, comeche parzial di Galieno, e di lui per invidia inimico, pur dalla verità ſtret to ebbe a dire: audio multos paffim ab eo in morbis deſpera tis curatos: & ulcera maligna ab eo feliciter ſanata. E al trove egli n'avea detto: Paracelſus noftra memoria mugus Fff FJOR  (nondubito.quin hoc nomen magis fanèintelligas', ut apud Perfas ufurpatum fuit) admirabilis homo, notusamicis qui. bufdam meis; à vicinis noftris Helvetiis oriundus, perva. gatus magnam Orbispartem: chimica arte y qaamipfe puto ſpagiricamvocat, excellentisfimus omnium, ita utper eam metalla immutaret. E'l dottisſimo Geometra, e filoſofo Pietro Ramo di lui parlando fcrive:in intima natura viſce ra ficpenitus introivit, metallorum, ſtirpiumque vires, facultates tàmincredibili ingenii acumine exploravit,acper vidit, ad morbos defperatosi, & hominum opinione infana biles, percurandum,ut cum Teofraſto nataprimum medicina, perfett'aque. videatur. Madel ſuo incóparabilvalore; e delle maraviglie adope. xate da lui in medicina;piena teſtimoniāza ne rende la Città tutta, e la dottiſſima Accademia di Balilea, e'l Comun di Norimberga, ove egli per tante maravigliole ſue pruove ragguardevol molto, e famoſo divenne: intanto che ragio nevolmente ftipiditone il Zemeo avvedueisfiino ſcrittor de'ſuoi tempi,cosìdi lui dice: Apud Germanos: nunc Thea phraſtus quidam vir adolefcens'exiſtit, cui parem Orbis.non fert:doctioremme legiſememor non ſum.. E Melchiorre, Adamo dilui pur raccontando dice: eum ingenio acutisfimo, acferè divino fuiſſepreditum: din univerſa philofophia tàm ardur, tum arcana', abdita eruiſse mortalium nemi nem: lepra, podagra, hydrope,aliiſqueinfanabilibus malis, defperatis mulios liberaſse: &quotidie per duas horas Ba flee tum aétiuamtumcontemplativam philofophiam fumma diligentia, magnoque auditorum fructu eſseinterpretatum doctrină,quam non ex Hippocrate, fed experientia aſsegur sus erat. E'l Barthio pur di lui dice: Ego de Theopbralo pre clarèfentio: admiranda praffitit; ſed qui cum perfectè intel ligat, & quæ ipfe fecit faciat, nondum audivi. Ę France fco Oporino fuo famigliare, per veduta anche di lui racco ta: pari induſtria novi ipſum leprofos, bydropicos, e pilepti cos, podagricos, morbo venereo infectos, aliofque innume ros infirmos gratis fanare. Id quod Galenici Doctores non fine notabili dedecore non potuerunt imitari; unde in magnum apud quoslibèt.contemptum inciderunt. E'l me delimo Oporino in quella lettera appunto, ove fraſtorna to dagli emuli dilui, e fommoſſoanch'egli in truppa, a rabbioſa monte mälmenarlo, infra le tante, e tantc menzogne, e cacce, che per isfregiarlo farnesicando ſi fogna (del che gravemente poi pencilſı, ſicomene narra Michel Toſite ) pur non potè tanto diffimulare, che apertamente talvolta non confeffaſſe eſſere il Paracelſo valentiffiino medico, aver prontamentetra le mani mirabilem faciendi medicinä in omni morborum genere promptitudinem, felicitatem, Quindi di luinarrando foggiugne, che in curandis vulne ribus, etiam deploratiffimis miracula edidit, nulla victus præfcripta, aut obſervata ratione. E de'ſuoi mirabili, e valevoli argomenti maravigliato: laudano fuo, dice, ita gloriabatur, ut non dubitarit affirmare ejus folius ufu ses mortuis vivas reddere pole; idque aliquoties, dum apud ipfum fui, ipfe declaravir. Macelebre ſopra tutte fiè la teſtiinonianza, che fe del le maraviglioſe cure del Paracelſo il SereniſſimoArciveſco vo di Salburgo, il quale dopo averlo altamente anorato in vita, e faccigli in morte famofiflimi eſcqui: volle, che nel Ja lapida del fuo ſepolcro fi leggerle queſto orrevole ſopra ſcritto; Conditur hic Philippus Teophraſtusinfignis medicine doctor, quidira illa vulnera Lepram,podagram,Hydropem, aliaque infanabilia corporis.contagia, mirifica arte fubftulis, ac bona fua in pauperesdiftribuenda, callosandaque curavit. Ma:2pertamente tutto dì ſi ſperimenta il valor di qual che medicina del Paracelſo, comeche delle men nobiliel la li fia, alla contezza noſtra pervenuta; perchè tutto dà i più valenti Chimici ſtudianti per rinvenirne alere nelle ſue opere. Ma delle medicinedelParacelſo aſſai bene ſcorro Giovan Battiſta Elmonte, tuttochè ſuo emulo, ebbe a dio re eller quelle così rare, e prezioſe, che meritevolmente il gloriofo ſoprannome di Monarca degli arcani ne avelle egli riportato. Maavvegna pure, checotanto valorolo foſſe ſtato il P.2 racclſo in medicina, qual noiraccontato abbiamo; non però di meno non ſempre ſi veggono i rimedi di lui a liero ffa ne riuſcire: e ciò maggiormente teſtimonia la non macura morte,che fopravennegli a mezzo il corſo della fua vita, cioè a dire nell'anno quaranſetteſimo; dalla quale nó li po tè egli per argomento niuno fchermire: comechè cotanti diſperati infermi dall'orlo della ſepoltura ſottratti aveſſe, e quaſi di mano a morte sforzaraméte ritolti; e pur egliavea detto in prima: nullus morbus fuo medicamine defituitur. Che ſe'l maggior medicante del mondo non potè ceſsar la violenza del ſuo fato, e adoperarsì co'ſuoi valevoli, co prezioſi medicamenti,che la ſua vita a'più vecchi anni ſi ri ſerbaſſe, che dovrem noi ſperar mai di certo dalla medici na, attenendoci a rimedjdeboli, eſpoſſati, per falvainen to delle noſtre vite? Ma egli ſcagionando in ciò l'incertez za grandiſſima dell'arte, che pur troppo avveduto ſe n'eray e roveſciandone follemente la cagione a'forcunoſi fati, dice che in baha di quelli ſia l'uſcimento de’rimedj interamente ripoſto; perciocchè da quellola vita, e la morte noſtra de pende; quod autem, dice egli, parlando dell'incertezza de' medicamenti, ium medicine, tum his atentes perfæpè à fa talibusgravius vexentur, &cuentum conditioni medicina AC curſuinatura adverfum omnino experiantur;ideo nobis fa Gere debet, ut inde diſcamus nimis obftixatam de hac fragili vita fiduciam,ac fpem deponere. Etfi enim nocentia fimul omnia, &medicinarum fimulomnium virtutes, morbo rum genuinascaufas; ac bis oppofit& remedia debita plenè teneamus: nibilominus tamen hancconfidentiam incumbes fan tum infringit facilè, ftatum formum omnem deftruit; cui nos non modo non obluétari quicquam poſsumus, ſed fatali bus caufs nofmet nudos totos potiøs objicimus, utpote que nos in folidum mortalesfaciani, noftraque molimina infrin, gant, & providentiam noftram, ac confilia univerſa ever Ma de'medicamenti di lui cotanto poco approfittar ne poſſiamo, che comechè egli valentiſſimo medico, e filorow fante ftato foſſe, pur le ſue opere in gran parte inutili, infruttuoſe ne rieſcono; cotanto piatto, e imbacuccato tant. egli ſi fu ne'ſuoi ſentimenti,ch'a ben rugumargli malage voliſſimamente ſe ne può cavar nulla di buono. Eoche foſſe ſtata invidia aʼmedeſimi ſuoi ſeguaci, o altro ch'a ciò far lo ſpigneſſe,dique'ſuoi maraviglioſi medicamenti, on de cotanta fama egli accattofſi, pochi egli ne volle inſe gnare:. e que'pochi cotanto monchi, e oſcuri ne fcriffe, che ben ne laſciò nel farnetico di doyerne inveftigar con lunga fatica la traccia; de'quali egli medeſimo favellanda, dice: in quibus afsequendis paucisfimi fcopum contingent., Perchè alcuni inviluppativiſi ſconciamente vi favellarono, togliendo in cambiouna coſa per altra, e sì con quelli pig giorando gl'infermi delle loro malattie, e ſovente anche uccidendogli. Vuole egli, che ciaſcuna malattia, toltenc quelle, che richiedono la mano del medico per dover curarſi, e quelle ancora, che dalle ſole qualità relolacce avvengono, le quali ſenza argomento alcuno d'arte ſi guariſcono, dalle impurità ſemplici del ſale, o del mercurio, o del ſolfo, o da tutte queſte foſtanze so da parte di eſſe s'ingeneri no. Ma comechèegli cotanto danno ne dica da quelle av venirne: ſe noi non ſappiamo, ne egli punto ne ſpiega qual ſia veramente la natura loro, ne anche certainente avviſar poſſiamodi che forte d'impurità quelle loro fiano, accioc chè acconciamente alle malattie da quello inoſſe riparar posſiamo. Le medicine, dice il Paracelſo, effer debbono ſomigliá ti al inale, ch'è da curare; perciocchè quantunque ognun fappia, che le malattie fian contrarie alla ſanità delle gen ti, e che perciò vincer ſi debbano con argomenti contrar alla lor natura; non però di meno le medicine, le quali G convengono alle malattie eſſer debbono pure della mede fima lor generazione; perciocchè altrimenti mala pruovan vi farebbono a raccattar la ſanità. Quinci ſi è, che'l Para celſo dopo aver avviſato tre eſſer i generi delle malattie, così dica: caveat itaque medicus ne arbores duas in unams curam inferat:fed teneat regulas,morbis mercurialibus dan dum ejſe mercurium: morbis falinis,falem:morbisfulphureis, ſulphur; unicuilibet nimirum morbo fuum appropriatum ficut convenit. Ma in buona fe, che ha egli che fare la ſomiglianza con la cura delle malattie? Perchè ebbe egli la ragione l'Elmo te di forte biaſimarnelo: igroravit bonus ille vir, quod ifta non fintagentia fufficienter ad fanationem requifita. Ne ciò è ſempre vero, che le coſe più agevolmente poſſano alle ſomiglianti penetrare, cmeſcolarſi inſieme; ecome il me deſimo Paracelſo diffe:quodlibet fuumfimile comprebendere. fuum fimile,non diverſum; perciocchè avviſiamo noi tutto giorno in molte, e molte coſe il contrario avvenire. Ele pur talvolta incontra, che s'accozzino, certamente per al tracagione egli s'adoperajāzicotáto ciò è falſo,che per co trario alcuno dir potrebbe più p diverſità, che p ſomiglia za inſieme le coſe accozzarſi: ficome i corpiconcavi ſono, i quali ſtrettiſſimaméte a’ritõdi s’uniſcono;nei corpi ſpea rali, o ritondi, comechè fomigliantiſſimi infra lorofiano, poffono in alcun modo convenirſi: avvegnachè pur ſi con vegnanoi quadrati. Perchè dica pure a ſuo seno il Paracel fo:Scorpio ſcorpionem curat, realgar ſuŭ realgar, mercurius fuummercurium, meliſir fuam melilă; che ditanta mara viglia non ſarà certamente cagione la ſomigliáza;anzitute' altro di quello, che egli va diviſando; perciocchè, per ta cer dell'altre coſe, nello ſcorpione i pori auſati per lungo tempo a ritenere in ſe quel ſuo veleno, e acconcj anche a riceverlo, più agevolmente il ricevono dalla ferita, ch'egli fa nella carne d'alcuno, che non poſſon riceverlo l'altre parti ſane vicine diquella; perchè movendo per la forme tazione le particelle delveleno nella fcrita, volentiericol loro diſcorrimento nello ſcorpione paffano, e a riccrti me deſimi, onde uſcirono, fi ritornano. E queſte ſono le con tezze,che deve avere il medico avveduto per doverpren. der argomento da porre avantile fue medicine, e non già le ſomiglianze, o altre fraſche, le quali agevolmente poſ fono ingannarlo, e mettere per la mala via iwiſeri infermi. Che ſe noiveggiamo alla giornata a' mali del ſale aceroſo porfi conſiglio collaflomma, e colla terra dannata, e altri mali guarirli con diſſomiglianti rimedi, perchè do vrem noidire,che la ſomiglianza fola poffá diſmalare i cat tivelli infermi, e nello ſtato ſalutevole del primiero vigore riporgli? Maſu riccvaſi pure',comevera,la regola del Pa. racelſo intorno a'generi de'medicamenti, e ſia pur la fomi glianza da ſeguire in medicando; come potrà mai il media co avveduto avviſare qual forte di ſale, o di mercurio, o di folfo daelegger ſia per riſtorar de’ſuoi mali l'infermo, feu prima egli pienamente no coprenda la gencrazion di quel ſi, ch'a ciò il conduffero. Conviene adunque al medico fa pere quali ſien quelle particelle, che forman l'apparenza dell'aceroſità nel fal dell'aceto's quali l'amaritudine nel ſal della coloquintida, ſc ragionevolmente egli proceder vuo Ic nel ſuo meſtiere. · Ma fe'l Paracelſo ebbe la medicina univerſale, come è coſtante famaaverla lui apparata nel fuo lungo pellegri naggio, non facea meſtieri ſapere; o'avvifar niuna disì fata re coſe, ne'curar di vene łatice, o di acquoſe, ne della doc cia del Virfungo, o della circulazion del ſangueso dal tri, e d'altrimoderniritrovati: comeche ſembri aldortifia mo Vitiſchio aver parte luidi queſte coſe felicemente avvi fate. E cócioſliecofachè l'univerfal medicina ſenza riguar dare a età o oa compleſſione, o ad altra coſa del mondo, igualméte torte malattie vanti di guarire;Io non ſo lorper chè il Paracelfo a si fåtte fraſche foſſelli: attenuto, ſe egli diquella erisì ben fornito; perciocchè quella diceni eller ſomigliante albalſamo naturale, e perciò valevole a invi gorirlo, e ajutario sì fattamente, ch'egline ſolva, vinci, e diſtrugga le cinture ſeminali di qualunque ſorte zonda l'e malattie curte prendon dirivo. Diceſi balſamo naturale dal Paracelfo' una coral ſpiriz tuale ſoſtanza di principi puriſſimi compoſta, e participan te della natura celeſtiale: onde ella è quafi incorporea ye incorruttibile; adunque corale eller conviene l'univerſal medicina, e che ſia partecipe di tuttiprincipj, acciocchè in ciaſcuna malattia approdar poffa. Ma certamente non che il Paracelſo cotal medicina avuta aveſſe giammai, anzie egli 416 Ragionamento Seſto egli fola il creder, che quella ci ſia, o pofla mai eſſere:av: vegna pure, chealquanti medicamenti di lui fieno ſtati va levoli a ſgomberar molte, e diverſe generazioni di graviſ fime malattie. Ma egli tante,e tante ſortidi medicine ado però nelle ſue cure, e argomentoffi dicomporre, e lavora te con ſuo gran biſtento, e noja degl'infermi, che certa mente a cið recar non s'avrebbe dovuto, ſe quella ſua uni verſal medicina conoſciuta aveſſe; ſenzachèegli, ſe non voleva pur logorarla nelle cure baſſe, e menovili, ſarebbe fene almen ſervito perſe medeſimo, allorche da graviſſi ma malattia ſorpreſo anzi tempo morilli, e prima d'aggiu gnere all'anno cinquanteſimo della ſua vita. Ma ſe eglifof fefi pur nella filoſofia tanto, o quanto innoltrato, no avreb be sì fatte millanterie ſcagliate del ſuo valore, e della vir tù della ſua univerſal medicina. Ne meno egli certamente detto avrebbe, che l'huomo per la ſola immaginazione va levol ſia anche fuora del corpo a far le maraviglie, cche i caratteri, e le immagini ſcolpite nelle piaſtre, e porta te adoſſo poteſſero ſchermir le genti dalle inalattie, e libe rarle da quelle; ne farebbeli follemente ſognato, che'l ſole fo ne'corpi degli animaliſidiſtilli, ſi fublimi, ſi riverberi, fi calcini, e ſi fonda: onde poi mettan fuora varie, e diver fe forte di malattie: e che'l ſale, e'l mercurio in noi ſimi gliante ſi diſtillino, fi ſublimino, e ficalcinino cagionando le malattie: è che'l mercurio aſſottigliato oltremodo per la ſoverchia circulazione ſia cagione delle ſubitane morti, e repentine:e che noi puntalmente n'aſſomigliamo all'univer fo, e neſiamo vere imınagini in ciaſcuna noſtra parte: e che i tre principj in noi cotante generazioni di malattie prodı cano, quante ci ha coſe create: e tante, e tant'altre ciuffo le, e aggiramenti, che ſe tutti fil filo gli vorrei narrare,non così agevolmente ne verrei a capo. E tutto ciò a lui avvē ne per diſagio di profonda filoſofia. Ma per avventura egli non fu cotanto ſciocco, qualnoi giudichiamo dalle man chezze dell'opere fue; perciocchè quelle da' ſuoi malevoli per uggia, c per diſpetto cosìdiſguiſate, e travolte furo no con torne alcune ſentenze per entro, e altrs, o ſciocche, o fanciulleſche, o empie vezzataméte frapporrvi,che omai tralignano dallo ſplendor d’un tant'huomo, enon ſembran più ſue. E alcune ancora affatto non ſon fue, licome il medeſimo Oporino, che così fellonoſamente rubbellogli ſi, manifeſtamente rafferma; perchè non dovrebbeſi certa mente coglier cagione per quelle d'accoccaglierla, c dir glicne male; ſenzachè manifeſta coſa è, che quelle, che ragionevolmente ſon da credere opere ſue, vennero perla più parte ſolamente dalai diſegnate, ne più poi per innan zi rivedute; perciocchè egli dal ſuo focoſo, e diſcorrevo {e ingegno traportato inteſe ſolamente in prima a ritrovar le coſe, e quali dal profondo della natura cavarle, con in tendimento poi di più minutamente a ſuo bell'agio quelle ſtacciare,.e diſaminare, per poter metter avanti con eterna fama del fuo valore quelſuolodevoliſſimo ſiſtema, che im preſe a diſegnare; e per avventura ſarebbegli venuto fatto, s'a ciò tempo aveſſe avuto; ma la morte, ch'improvviſo gli fopravvenne, fe riuſcire a vuoto i ſuoi diſegnamenti, e non laſciogli agio di fornirgli; perchè rotto a mezzo della fa rica ilſuo lavorìo,cosìmonco, e diviſato rimaſe, qualnoi veggiamo. Ed è anche opinione d'alcuni, che le menzio oate ſue opere foſfono componimenti de'ſuoi ſcolari; per ciocchè egli uſava folamente a boce inſegnar loro i ſuoi ſentimenti, ſecondo la coſtuma di quc'rempi; e quelli poi gli cópilavano in iſcrittura, molte coſe giugnendovi dellor capriccio,e molte non ben copreſe travolgendo a lor talen to in tutt'altro, cheegli li voleva dire. E ciò tanto più ne ſi fa manifeſto, quanto in eſli ſuoi libri più fiate le medeſi me ſue coſe ſon ripetite, ſecondochè da diverli ſuoi ſcolari furono accolte; anzi dal loro natio tedeſco linguaggio nel Jatino idioina ſcioccamente traportate da perſone diciò poco, o nulla intendenti, così confuſe, c inviluppate di vennero, che malagevolmente ne vien fatto ad avviſarne, iveri ſentiméti dell'Autore; col qualdifetto aggiūta anche l'ofcurezza, ch'egli a bello ſtudio argomentolli frapporvi, certamente oſcuriſſimi, e malagevoli oltremodo quelli ne, rieſcono; conciofoſſecoſa,cheartatamente il Paracelſo co Ggg sì piatto, e imbaccuccato ne' ſuoi ſentimenti con nubi di riboboli, e d'enimmi i ſacroſanti miſterj:della natura avef ſe coperti,per far quelli ſolamente, e con lunga fatica agli huomini dotti, e di maggiore intendimento comprendere, enaſcondergli alla minuta: bcuzzaglia:delle genti, o comes diſſe il Berni Alle brigate goffe, agli animali; Che con la viſta non pafsan gli occhiali. Ilche ſenza fallo infra gli altri fu dalBorricchio avviſaperchè egli dice: ne Eleufina ſacra.profanè Viiverſi pro fituerent: gnarus, id factiraſse Egyptias, & Pythago ne affeclas ſacheche la di ciò, non ſono impertanto da ſpregiare i ſuoi diviſamenti intorno alle coſe della medicina; percioc chè per tacer de’ſuoi medicamenti, de' quali ſe vier mai quella priva, poco men, che come corpo morto ſenza vita rimane: non può certamente eſſere ne filoſofo, nemedico valoroſo colui che non ſappia appieno ciò,che dellecoſe della natura:glorioſamente.Paracelſo n’abbia diviſato.. Fra Tomaſſo Campanella, comechè d'acutiffiino inten dimento, e libero filoſofante e' ſi foſſe, pur sì fattamente tratto tratto favella delle cofe naturali, cheben ne da.aw divedere quanto più agevole impreſa ſia lo ſchivar quegli errori', ove gli altri incorli ſono, che il ritrovar la verità. Nocquegli più che altro ſommaméte in ben filoſofare nel lamedicina,l'averlui-troppa credenza. voluto preſtare alle opinionidel Teleſio ſuo maeſtro, per tacer della ſtrologia, e d'altre vane ciurmerie,c.indovinelli, ove egli fanciulle ſcamente dilettavaſi; e l'averfi dato follemente a credere, che cotali.coſe, o enti favoloſi da lui ſolamente immagi nati abbian parte nelle cofe della natura; perchè non è da maravigliare ſe'l ſiſtema della medicina, dalui fabbri cato, manchevole oltremodo, e difettuoſo riuſciffe. Al la qual coſa fu egli anche cagione il non aver lui eſercitato gianmai cotal meſtiere: ficome anche nocque a Cornelio Celſo; perciocchè aflai per avventura ſarebbonfi vantag. giati, ſe per pruova ſperimentato aveſſero i lor diviſamenti. Ma ſopra tuttonocqueal Campanella il no eſſerfi eglipũ to conoſciuto di nocomia; perchè egli poi traſcorfe in co tanti errori, e aggiramenti, dicendo il fegato efferfonte, c origine del ſangue e la milza del fiele: e che tutto dal cervello provenga: Organum fpiritus, dice egli, cor Jan guinis jecur,fplen fellis, & alia aliorum; omnia autemiſta cerebrocauſsam habent;arteria vocalis manifeftè ex.com pite oritur, ubi et ftipitem amplisfimum haber:igitur& alia; Junt enim ejufdem fubftantia, d originis. Etanti, e tantal. tri falli egli preſe nella notomia anche in coſe manifeſtiffi me, e a ciaſcunconoſciute,che ragionevolmente di lui cb be a dire ilLindeno: Quid horum eft, quod fenfus teftis omni exceptione major manifefta fallitatis etiam Anatomi corumpueris damnate.convincit? Ma non però di meno fep pebenegliil Campanella da quel gran Padre di Chicas Santa,GiovanniCrifoftomo appararc, che'l nutrimento p una cotal cortiliffima foftanza; la quale ſpirito appella Cri foſtomo, dal cervello infieme colfenfo, e col movimento all'altre membra degli animali fi difpenfi;comechèpai egli di ciò dimenticato,altramente favelli..: Ma che direm nai del fiſtema di lui, della nuova arte di medicare,ch'egli ne compone? Vuole eglicol Telefio il caldo ſolamente, e'/freddo effer primi principj di tutte co fe, i quali egli chiamaagenti: e l'umidità, e la ſiccità ef fer ſolamente diſpoſizioni della materia, ceffetti di quelli; intanto che la materia delcaldo aflottigliata divenga umi da: e ſi rondafecca, ingroffata dal freddo. Ne l'umido có altro può accompagnarfi, fuor folamente che col caldo: nè'l ſecco con altro, che col freddo; perciocchè ſel'umido s'accompagnerebbe col freddo: 04 fecco col caldo, dice eghi, che ſarebbon da quelli toſto diſtrutti. Anzi dice egli, che'l caldo fia cagione dell'umido.: e'l freddo del ſecco; perciocchè il caldo ſolve le coſe, e le allarga, e l'aſſorti glia: e'l freddo per contrario le indura, le ſtrigne, e le co ftipa. E queſti due principj dice egli effer foſtanze, o for me eſſenziali, de quali accozzate alle lor materie formino il Cielo, c la Terra; perchè anche due, e non quattro vuo Ggg 2 fe egli, che ſian da dire gli elementi. E le forme dice efier nuovamente introdotte nelle coſe dalla potenza della na tura agente, non già dal feo della materia cavate. Maquel,che più è ridevole in lui ſi è,chc dice egli eſſer: altri principj incorporei, che régan parte nel componiméto delle colc; daʼqualivuol egli, che prenda dirivo ciaſcunas operazione la qualda'volgarifiloſofanti alle qualità occul te delle coſe s'attribuiſce. E queſti principj incorporei, o primalità, ch'egli chiama, vuol egli, cheſiano lapotenza, la ſapienza, e l'amore; onde ciaſcuna coſa voglia, poffaw, e conoſca:onde anche quella prenda naturalmente ſenſo della propia conſervazione. Ma quanto poco vero fia sì fatto diviſamento de’princi pj della natura,non fa meſtier, ch'lo ſpieghi; potendo cia fcuno per fe agevolmente avviſare, non ſolamente il caldo, e'l freddo effer nella natura, ma altre, e altre coſe diver filime da quelle; ſenzachè non ifpiegando il Campanella la natura del caldo, e del freddo in che veramente conſiſtay mal può inveſtigar poi, non che dichiarare, fe quelli vera mente operino, e come; imperciocchè ſovente egliſoftá ze chiamandole,par che ne voglia certamente uccclare; poichè egli medeſimo dice, la materia ſola eſſer propiamé te ſoſtanza, e non altro; perchè manifeſtamente s'avviſa, che il Campanella nel primo ſuo filoſofare, e in ſu la ſoglia appunto di quello ſconciamente fdrucciolando cadele: e grandiſſimo tratto dalla vera ſtrada della filoſofia forvia to erraſſe; perchè poicertierrori, e aggiramenti gliene ſeguirono, che nulla più; prendendo egli in cambio della mido il diſcorrente, che è ſuo genere, e non iſpiegando la natura di quello, ne del ſecco, o del dolce,, o dell'amaro, o di tuce'altre ſenſibili qualitadi. Negran fatto v’abbiſo gna a dimentirlo delle operazioni de'ſuoi principj;percioc chè per ciaſcun, che riguardiall'acqua, che per lo freddo congelata fi rarifica, agevolmente ſi può avviſare, che non feiapre il freddo condenſi le coſe. Mache è ciò ch'egli di ce, che le coſe inanimate abbian ſenſo certamente a ciò credere, per tutti gli argomenti del mondo, ne egli,ne il Tea lefio, ne l'Elmente,che in ciò volle ſeguirgli, m’indurreb bono. Ma ſpiegar poi non può egli in modo quelle ſue prima lità, c'huom finte da lui non le creda, e aver la loro eſiſté za tutta nel cervello ſolo dell'autore; perchè non sà cgli dir neanchecome vengan quelle a incorporarſi nelle coſe ſen fibili dell'univerſo,eda far tutte quelle maraviglioſe ope razioni, che da lor procedere tutto dinoi veggiamo. Ma per darci ad intendere, che le coſe tutte abbian ſenſo, do vea certainente egli prima farci vedere in quelle gli orga ni, i quali render le poſſano del ſenſo capaci. Vuole il Campanella,che l'huomo ſi componga del fal do, dell'umido, dello ſpirito, e dell'anima; e che la ſal dezza dalla denſità naſca, e queſta dallo ſpeſſo, e fulto ac eozzamento delle parti ſi componga; perchè dice egli, che le coſe condenſe, e falde, sì attamente, che di vantaggio più riſtrigner non fi poſſono reſiſtano al toccamento,e fem brin dure.E d'altra parte dice naſcer l'umidezza per diſa gio di parti;e per alkargamento diquelle che ſon diradate,e folute, dice eglieffer la ſpiritualità: la qual non che reſiſta al toccamento, anziella dileguiſ immantinente,e fugge da ognjintoppo. Ma purdice egli alcune volte gli ſpiriti operar faldamé te per l'unione non già corporale, ma ſicomeeglichiama, affettiva:dalla quale invigoriti incontro la forza, che lor fatta viene, riſcuotonſi quelli, e combattendo diſcacciano ciò, cheloro è d'impedimento. Soggiugne il Campanella, ch’alle parti ſaldefaccia me ftier dell'umide per dover nutricarſi delle parti di quelles più groſſe, e per non dover ſeccarſi, erõperſi:e per cõrra rio l'umide delle falde abbiſognare, come divafo, o di ri cetto, che loro dia luogo,e le ſoſtenga. Ma agli ſpiriti,di ec egli, far luogo le parti umide,acciocchè dalla lotti gliezza diquelleſi nutrichino: e le falde ancora, acciocchè appiccati quivi dimorino, e non ſi portin via; e per con trario l'umore abbiſognare dello ſpirito, acciocchè quello premendo il cibo, e traendone il fucco, il formi: e ſomi gliante, acciocchè per quello ſi riſcaldi, e diſcorra; e al ſaldo ancora convenirli loſpirito, acciocchè per quello ſo ſtener fi poffa, e muoverſiovein concio gli venga. E alla perfine dice egli che l'anima abbia ancor ella biſognodello ſpirito, acciocchè per opera di quello itu dioſamente muova il corpo, e la ſcienza delle coſe natu rali apprenda; perciocchè l'anima da'corporei oggettief ſer non può mofla,ſe nonſe permezzo dello Ipirito: dalle cui paflioni ella vien rattenuta, o reſa prontaalle ſue ope fazioni. Ma lo ſpirito allo incontro haegli ancor biſogno dell'anima in quanto egli è umano: e acciocchè maggior. mente egli perfecco ſi renda nelle ſue primalità, e più valo roſo nelle ſue operazioni, e più ragionevole nel reggimen to delcorpo. Main quanto eglièanimale,1100 chemeſtier gli faccia l'anima, anzi egli fortemente contro quella com batte, maggior capital facendo degli agj propj di ſe, e del fuo corpo,che de celeſtialidell'anima. Adunque dice egli, effer corali vicende fommamente neceſſarie a ben viverle genti; che le alcuna per mala ventura in quelle traſandaffe, toſto le malattie mettan fuora: le quali ſciogliendo l'uma na compoſizione, ne diſpongono alla morte. Ma quali ragioni adopererò lo per mádare a terra si fat to fiftema, e rintuzzare il diviſamento del Campanella? Egli non ha dubbio veruno, che nella maggior parte di quello cotanto egli dalla natura s'allontani, e trafandi,che ſenza ch'Io l'accenni agevolmente ciaſcuno per ſe medefi mo il può avviſare. Ma s'egli pure fondar voleva ſiſtema di razional medicina, conveniva in prima molto bene la natura del corpo inveſtigare, e di ciò che a quello avvenir poffa: ficome fecero quegli antichi greci filoſofanti, i quali egli follemente in quella piſtola,ch'egli ſcrive al Gaffendi forte biaſima, e riprende. La qual coſa egli certamente nonfacendo, comechè egli col ſuo acuto intendiméto mol ti, emolci errori di Galieno, e de ſeguacidi lui ſcoperti aveffe: pure per manchezza non poco danno gliene ſeguì; perciocchè egli così poco acconciamente della natura del le malattie, e delle cagioni,e de'ſegni e delle cure di quel le imprende a ragionare, che ineritevolmente ne fu ſghi» gnato, e carminato da tuttimedicide'ſuoi tempi;non pe rò dimeno fra cotante fue ſconcezze famoſa: ſenza fallo fi è quella ſentenza, ch'cgli reca intorno alla natura dellow febbre: ne ſaper puoffi, ſe egli dáll'Elmonte, o pur l'El, monte da lui tolia l'aveſſe; imperocchè ſcriſſero coſtoro nelmedeſimo tempo; ma ad amcnduc n'avez dato forfe cagione disì. Fattamente filoſofar della febbre Roderigo Veig... Io la rapporteròcolle proprie parole del Cápanel la: Febris, dice egli, eft fpontanea.extraordinaria fpiritas agitatio, inflammatioque ad pugnam contra irritantem mora bificam cauſam: quam fic.calefacit, agitar, digerisque, red ditque expulfioniapsan, vel extinétioni', velmeliorationi. Macomechè la febbre tutto ciò faceffe, nonperò di meno offendendo ella ſoprammodo le operazioni, è ella cert2; mente da dir malattia; ſenzachè Io non ſolo, come lo ſpi rito poſſa aver ſentimenti: e non altrimenti, che s'egli ani mal foſſe, quando gli metra bene, riſcuotaſi, e s'apparec chj di combattere contro ciò che'l molefta, e gli reca in toppoalle ſue operazioni. Cofia, la quale delcervellodel Campanella fofamëte,e:dell'Elmonte immaginar ſi poteva: Ma intorno a medicamenti, eglivuole,che la cura quan to a ſeda far ſia perli contrari: ma per accidente talora dal le cofe comigliantiancor ſi elegga; e alcuna fiata gli uni,ė gli altri meſcolando compor fi convenga, acciocchè il foa migliante appiccandoſi alfomiglianteaſe l'attragga;quin. di il contrario combatrendolo il difçacci. Orcome egli fti ma le genti disi groffa paſta, che ne vuol far Calandrinis dandone a divedere sì fatre favole x Reca égli in pruova il fapone: fiquidem, dice, Sapone ex oleo, cinere, da calces confefto maculas olei ex panno extrabimus: oleo invitantej oleum, & alliciente: cinere, calce fimul expellentibus, Quare, ſoggiugne poi, maculas vini ex calce, di vino fa. pone confecto educes; fihanc nofti magiam. Ma doveva av viſar pure il Campanella, non già per la fomiglianza, che pulla opera, l'olio con l'olio fi meſcola, el vino col vino; i mil 424 Ragionamento Sesto 1 1 ma per la figura, e per la diſpoſizione delle loro particel le; e doveva egli pure inveftigar la cagione, per la quale la cenere, ela calcina radendo l'olio della veſte,allettaco. come egli dice, dall´altro olio, quello ne portin via; per-. ciocchè ſe a ciò egli badato avrebbe, ben ſarebbeſi accor. to coral purgamento altronde non naſcere, che dalla figu ra delle particelle de'ſali di quelli, i qualiſe mai loro ven gono colti, la calcina, ne la cenere, ne anche il ſapone, che di lor fi lavora, non ſaranno d'efficacia alcuna; ſenza. chè fe per fomiglianza è, che l'olio del ſapone attragga l'olio dalle veſti, e con la ſua amicizia ne lo ſpegoli, e dia vella:qual ſomiglianza giammai ritroverà il ſapone in curtº altre macchie de' panni lini, che così gli imbianca so puc Laſciando il ſapone, qual ſomiglianza avrà egli il bucato con quelle: 0'1 fummo del ſolfo colle macchie de'veli? cer tamente non altra, che quella,che ha la granata colla ſpaz zatura della caſa, o l'erpice, elamarra colle zolle. Soggiugneil Campanella, che quando ſi vuol preſcrive re purgativa medicina, ineſcolar ſi debbano talora i ſimili co’contrarj, appunto come il ſapone da lui diviſato;accioca chè i ſimili ateraggano'a ſe gli umori, ei contrari poi ſcac ciandogli fuora gli purghino. E quinci, dice egli, nella compoſizion dell'utriaca ſi meſcola la carne della vipera, acciocchè dal veleno di quella il veleno s'attragga, e dagli aromati poi ſi diſcaccj. Ma alla Croce di Dio, chi non ſa, o chinon ha per pruova avviſato,che la carne della vipera non ſia veleno? Perchè falſo, e vano eſſendo affatto il ſuo diviſamento intorno alle compoſizioni de’medicamenti: come, e quando de ſomiglianti,ede'contrarj, o ſemplici, o meſcolatinelle cure delle malattie ſervir nc convengu: a'conſigli di lui certamente in niun modo attener nedob biamo, fe a liero fine delideriamo i noſtri medicamentido ver riuſcire. Fu egli ancora cotanto poco fcorto della natura de' me dicamenti, che per tacer d'altri falli in ciò da lui preſi,dif ſe egli, che le coſe fredde non ſi convengano puntoal le cargo: perciocchè eſtinguino gli ſpiriti; e pure il caltoreo, il quale è argomento acconcio aſſai ad affrenar la violenza di quel folto, che cagiona il letargo, avvalora gli fpiriti. Dice egli ancora, che l'antimonio crudo gagliardiffimaw medicina ſia. Mapiù ſconciamente egli trafanda in pre ſtando fede alle fraſche del Maeſtro Agoſtino del Roſli in quella ricetta, in cui colui dice, che ſi tragga il mercurio dell'argento, e che quello ſi meſcoli, e s'uniſca con l'arien to vivo volgare per dover lavorarne il precipitato da cura re il mal franceſe. Ma ridevole ſopra tutto ſi è quel ſuo di viſo di dover colle ventoſe d'oro trarre il inercurio dall'of ſa degl'infermi:fi Hydrargyrus,dice egli, offa penetrarit,nec expellipoffit, cucurbitulisex auro confectis facilè educitur, tractione vacui; Sympathia fimulnaturarum. Ma comechè in molte, e molte coſe, ficome accennato abbiamo falli il ſiſtema del Campanella, e ſia ſopra de boliſſime fondamenta murato; impertanto non è affatto da ſpregiare quel ſuo libro della medicina; perciocchè può egli a chi ſaggiamente l'adoperi non poco giovamento recare; eſſendo nel vero egli ſtato un de' maggiori inge gni e più valoroſi, che la noſtra Italia, e'l noſtro ſecolo ab. bia alleyati. Ma Roderigo Caſtello anch'egli della debolezza della medicina di Gilicno reſo avveduto,imprende forte a com batterla, e mandarla al ſuolo; e proteſtando di dovere gli inſegnamenti del ſuo Ippocrate ſeguitare, ſi biaſima oltre modo delle dottrine d'Ariſtotele, e di Galieno, e diſtinta mente egli i loro falli ſcoprendo va dagli antichi Greci filo fofanti ad accattar contezze di buona medicina; ma non gli venne cotanto fatto, chenon deſſe anch'egli in iſconcj, e biaſimevoli errori, giudicando follemente in prima eſle re gli atomi delle prime qualità forniti; quindi in tanti, e sì grandi vaneggiamentie' traſcorre,che lungo ſarebbe quì ad uno ad unoannoverargli. Ma ſopra tutto fi ftudia egli di darne a divedere ciò che il Paracelſo prima di lui inſegna to n’aves: cioè a dire, che il mondo picciolo ritenga in fer tutte le parti, e tutte l'apparenze, che nel mondo grande ſi veggono. E mentre egli da ciaſcuno qualche ſentiinento Hhh imbolando s'argomenta da cotanti meſcolamenti ſconcj, e mal conformi far forgere un nuovo ſiſtema di medicina propio di ſe, filoſofandoora col Paracelſo, e ora con Ga lieno, avviluppa il tutto, e comediſſe colui, Confunde le dueleggi a ſe mal note. Ma egli convien ora far parole dell'ingegnoſiſſimo ſiſte ma di medicina diGiovan Battiſta Elmonte; il quale,a vo lerne liberamente dir ciò che me ne paja, aſſai più felice lun go tratto fu in abbattere, e ſpiantare gli altrui edifici,che in fondare, e in iftabilir fermamente i ſuoi, comechèdimol ti, e molti nobili, e utiliſſimi ritrovati venifle fatto alla ſua induſtria d'arricchir la medicina. Il materiale principio di tutte le coſe ſenſibili dell'univerſo, appo l'Elmonte,è l'ac qua, non intervenendo nella compoſizione de'corpi miſti altramente l'aria, ne il fuoco, come quello, che non è ſo ftanża, ne accidente, ma morte delle coſe; argomen taſi provar una cotal fua opinione, con dire, che ciaſcuno corpo del mondo poſſa ſempre che ſi voglia in ſale căbiar fi; e'l ſale poi per opera del circolato del Paracelſo, in ac qua d'altrettanto peſo ridurſi. Oltre a queſto dice l'Elmo te l'acqua eſſer ſempliciſſima, e benchè contenga ella in qualche modo il ſale, il mercurio, e'l ſolfo,i quali da quel la per natura', e per arte ſeparare giammai non ſi ponno;ne ſono veramente ſale, folfo, e mercurio, come tali da eſſo appellati, per eſſer a quelli ſimili, e per non ſapergli altri menti ſpiegare; no vuolc egli però, che l'acqua di ſolfo, di fale, e di mercurio coinpoſta venga. Ma che che ſia dicið egli ſcorgeſi apertamente, che l'Elmonte non manifeftis pūto, come far ſenza falloe'douea, che coſa l'acqua vera mente fiafi; ne fpiega di qual natura fornita l'aveſle L'alta cagion, che da principio diede A le coſe create ordine, eftato; anzi egli manifeſtamente confeſſando di non ſaperne boc cata, conforta, e rimuove chiunque d'imprender la natura dell'acqua s’affatica: così di quella dicendo, Quis unquam mortalium novit quid fit aqua? qua tamen creatorum eft maximè obvia, aperta,viſibilis,atranslucida? tantum enim de ea fcit rufticus, vel idiota quantum philofophus:něpè æquam liter illam concipiunt per obſervationem fenfuum: quod fit.corpusgrave, liquidum, humidum,digitocedens, fluidum, amotoque digito ſerecludéns, calorisſuſceptivum,attenuabia le in vaporem:nemo tamē novit internam aquaquidditatem, vel quare liquida fit,anhumida. Ma in vero egli ha il corto l’Elmonte a ragionar sì fatra mente dell'acqua; imperocchè s'egli così ſolamente di.com loroſchiamazzatoaveſſei quali a coſto dicicalecci apprefa fo il volgo,il nobile, e laudevol titolo di filoſofanti compe rar ſi vogliono,vero per avventura egli detto avrebbe; im perciocchè affermado eglino l'acqua eſſer un tal corpo dal la natura compoſto,e meſcolato d'atto, e di potenza, ei freddo, e umido, ne ſpiegundo poi qual ſia l'atto, per lo quale l'acqua a partir ſi viene da cuce'altre coſe, che acqua non ſono, e in che conſiſta la potenza, e come ſi maturi nell'atto, e venga a perfezione, sì che acqua, se non altra coſa più coſto quella divenga: ne diviſando, che coſa las freddezza fia, ed onde avvegna il diſcorrimento, ne per qualcagione alcuni de'corpi liquidi, e corſoj, umoroſi an. cor ſiano, ed altri no:nulla certamente vengono ad inſe ghare intorno all'acqua, ne più di ciò che'l popolazzo mi nuto ſenza il lor diviſamento ne ſappia. Ma fe l’Elmonte aveſſe mai ben fiſamente riguardato 2 * dialogi di Platone, e a que'pochi mnaraviglioſi avanzi del le divine opere, ch'ancor fi riſerbano di Democrito, o al diviſar degli altribuoni filoſofanti: o pur s'egli, ficome conveniva, dagli effetti rapportati, di penetrar poipiù ad dentro nelle cagioni di quelle ſottilmente ſtudiato ſifoffe: o alla natura de' corpi diſcorrenti aveſſe poſto mente: Io ſon ben certo, che in cotal guila dell'acqua egli ragiona. to non avrebbe: e altro certamente egli principio di tutte coſe naturali, che quella,la cui natura di non ſaper libe raméte cõfeffa,determinato avrebbe;perciocchèconvenen do tuor d'ogni dubbio all'acqua il diſcorrimento, a queſta guiſa poteva ben egli riuſcir nella più ſicura ſtrada da avvi. far la natura di quella. E certamente in ciò, che ſi apro Hhh 2 no, e ſi fendono agevolmente i corpi diſcorrenti, e da cida ſcuna parte anchemenomiſſima, in ogni tempo ſon pene trabili: e dallo ſpargerſi di quelli, e diſcorrer liberamente per tutto: e dal riempiere gli ſpazj, e adattarſi agevolme te alla figura del vuoro, che ingombrano, intanto che al tra forma non hanno fuor ſolamente quella, che loro da vali, che gli contengono, e chediſcorrer non gli lafciano, vien preſcritta: e dall'avviſare, che ogni particella loro participando delle medeſime propietà di eſli, diſcorrentes anch'ella fia: ottimamente raccoglier egli poteva dovere eſſer icorpi diſcorrenti compoſti di menome particelle, i1f ſenſibili, e tra eſſo loro in atto partite, e fpiccate per un.. cotal movimento continuo, che non mai le laſcia appicca re, e congiugnerſi inſieme. La qualcoſa egli avviſando agevolmente fatto gli veniva di poter la natura dell'acqua apparare, e si riparare all'ignoranza, ch'egli di se medeſi mo ne confeffa; concioffiecoſachè eſſendo l'acqua oltre modo diſcorrente, egli è da dir che ſia un'accoglimento di menome, e inſenſibili particelle, le quali sì fattamente fixo no accozzate,eammaſſate inſieme, che ſembrino a'noſtri ſentimenti una ſola coſa: avvegnachè in atto elle ſiano fe parate, e partite,intanto che inſieme non maiforte fi ſtrin gano, ne meno per alcuno de’loro lati: e ſeguentemente continuo ſi muovano. E ſcorto egli avrebbe altresì noi avvenir loro sì fatto movimento dal caldo; concioffiecofa chè l'acque, comechè fredde elle fiano, e poco mé che ag ghiacciate: non però di meno non ſono elle meno diſcor rentije-ſdrucciolevoli delle calde,ſe non già ſiano in ghiac. cioammaſſate;perchè avrebbe eglicertamente detto che'l movimento, checosì l'acqua ſciolta ritiene, abbia le par cicelle ſue, o da ſe medeſimo, o altronde che dal caldo a: quelle comunicate;: perciocchè l'acqua, almeno perquel che noi avviſiamo, cede cheta al toccamento, e da luo go a ’ ſaldi corpi ſenza vederſi. ella punto muovere: e di lataſi a'raggi della luce: e riceve entro di ſe particelle di ſale marino, e d'altri corpi cheper la ſomiglianza, che hā no con quello, parimente eſſi vengono ſali appellati: avve gnachè muovēdo in noi molre,e diverſe varietà di ſentime ti nell'organo del guſto, convengano eſſer diverſamente foggiati; i quali corpi penetrando per mezzo effe particel le, ingombrano gli ſpazj piccioliſſimi tramezzati: o pure ingombrano gli angolije i cătoncelli che quelle colle for fi gure formano, intanto che vi ſi poſſano acconciamente le diverfe figure delle particelle faline allogare. E moltise molti d'effi tramezzamentiper tal maniera compoſti, e or dinari ſono, che agevolmente per entro, e ſenza niun rite gno diſcorrer vi poſfä fa luce. E oltre a ciò riguardando l'Elmõte all'operazioni dell'acqua, avviſato ben'egli avreb be eſſer quella un di que' corpi diſcorrenti, ch'agevolme te a'ſaldicorpi s'appiccano, i quali tanto, o quanto fier poroſi: e che fi fpargano ſopra tutti quelli, e penetrino lo ro dentro, c talotta anche in parte, o in tutto gli ſolvano; perchè comunemente diceſi l'acqua eſſer umida. E come chè egli nc ſembrieſſer l'acqua tenera oltremodo, e molo le; non però di meno egli alquanto d'aſprezza avviſato an che v'avrebbe, avvegnachè dipoco momento elia fia:non iſpiccadofi l'acqua agevolméte da'corpi ſaldi sì, e talmen te,che quelliaffatto sgocciolati nerimągano; e quincianch ' egli comprender avrebbe potutonó effer le particelle dellº acquada tutte parti cotanto terſe; e liſciatesquali per av vécura iminagina ilDeſcartes.Alle quali coſe tutte ſe l’El mõte ben fiſamente riguardato aveſſe, certamente egli ar gomentata n'aurebbe la figura d'effe particelle, ficome ferono già ne’primi tempi Pittagora, Timco, Platone, altri, i quali la immaginarono icafoedrica: 0 pure ſicome de’giorni noftri l'accennato Deſcartes, il quale giudicata l'ha cilindrica, e pieghevole, e guizzante a guifr d'anguil le: 0 ficome l'incomparabil filoſofante Gio: Alfonſo Bor relli, il qual.cosi'ne favella: lanugo quedam tenuis, &de bilis inveſtiens.quodlibet aqua minimum, ſcilicet concipide bet interna, & individua qualibet aquæparticula, ſolidad's &dura: cujus figura octaedra. E avvifato ancora l'Elmon te avrebbe eſſer le particelle dell'acqua d'una medeſimas foggia infra loro, o almeno poco diſſomiglianci; la qual forma loro, o affatto non ſi può in altra cambiarc, o egli è cotanto malagevole, che grandillima fatica meſtier vi fa rebbe a ciò operare; ne fino a'tempi noſtri ciò ad alcuno è venuto fatto, ne mai, per quanto Io poſſa comprendere, certamente verrà per innanzi:acciocchèin altra figura l'ac qua ſi tramuti. E ciò egli anche avviſa l’Elmonte, e vera mente per ognun yedeſi, che non riceva l'acqua fcambia mento alcuno ſenſibile:avvegnadio che a qualunque ingiu ria ella ſi eſponga., o di caldo, o di freddo,o di altra imma ginabile qualità; ſe non ſe riſerbandone ſolamente quella, che ella in agghiacciando riceve, o riducendoſi in vapore; per le qualiè coſa manifeſta, e all'Elmonte ben conoſciu che non già la figura delle particelle dell'acqua, ma il ſito ſolamente, e'l movimento di quelle ficam bia.Maſenza far tante parole, l'acqua racchiuſa entro una guaſtadetta ermeticamente, come ſi dice, ſuggellata das Criſtofano Clavio, la quale dopo cotant'anni nel Collegio Romano della Compagnia di Giesù dimoſtraſi: ella s'avvi ſa non punto dall'eſſer ſuo naturale mutata; e altre acque ancora per più,e più ſecoli intere,elane pariméte li fon mā tenute séza ricevere oltraggio veruno dal tépo; perchè ſen za fallo è da dire eſſer quelle di tempera dura, emalage vole aſſai a ſolverſi, dall'onnipotente facitore da prima fabbricate: Adunqueragionevolmente può dirſi dell’El. monte, che de'principi delle coſe naturali Nonpinſe l'occhio infino alla prima onda. E per avventura dobbiam noi confeffare, il medeſimo all’Elinonte eſſergià intervenuto, che in prima di lui al Pa racelſo fortito era: che ove maggiormente egli ſciarpillar figli occhi perpiù veder conveniva,quivi tralandındo,più, ch'altrove ſerrati gli aveſſe; ed avvegnachè di ſottiliſimo intendimento, emaraviglioſo foſſeſi l'Elmonte,pure abba gliato al troppo luine della natura per troppo veder rintuz zato ſi fofle și come ilſol, cheſi cela egli ſteſſo Per troppa luce, quando il caldo ha roſe Le temperanze de'vapori Speli: c firta e fatto groſſo dall'abbondantiſſimapiena de curioſi:fegreti di quella Quaſi torrente,ch'alta vena preme foverchiando il letto, ed allagando le prode;pertroppo ri goglio diſperſo ſi foſſe. E quinci certamente viene, che nello ſpiegar l'economia degli animali, qualche fiata ricorre ancoregli alle facoltà, nonmeno,cheGalieno fi aveſſe fatto; ne di ciò pago pro duce egli in mezzo alcuni ſtrani arzigogoli, e nuovighiri bizzi del ſuo cervello:altri ne toglic in preſto dal Paracel fo, come gli Archei, i Blas', i Magnali;e quelFormento, il quale per dirlo colle ſue ſteſſe parole, eft ens creatum form male, quod neque fubftantia, neque accidensfed, neutrum » per motum lucis ignis magnalisformarum conditumàmundi principio in locis fue monarchia, ut femina preparet;exiſtat, a precedat; con che', e con altre molte fue fantaſie, le qua li lo per non rediarvinon ridico, da apertamente a divedere l'Elmonte, ch'egli non già nel mondo noftro, di cui tutto di nuove, c nuove maraviglie egli ſcopriva,main un mon do da lui immaginato filoſofava. Tanto, e tanto poi egli involto fi fu nella notomia vita le, ch'egli traſcurò la morta, ne di queſta ſeppe altro di quel, che n'era ſtato già ſcritto; perchè alcuniaffatto non ſeppe', ed altri, poco curioſo non curò de’modernitrovati; i qualimolto approdato avrebbono; rendendo ad un'ora più credibili, e manifeſte alcunedelle ſue opinioni; perchè sé bra ', che forſe non abbia tutto il torto a morderlo, e biaſſa marlo il Gliſſonio, quando così di lui diſſe; hic auctor, utu eunque acerrimi ingenii,in eo fuitminus felix, quod.veteri placitis rariffime aſsétitur,& vix,nifi in iis rebus,in quibus il li ex certisſimis, demonftratis neotericorum obſervationibus manifeſte coarguuntur Ma ſe dalla maniera del medicare argomentar lece il va lor de’ſiſtemi della medicina, certamente in ciò quello dell' Elmonte tutt'altria molto ſpazio ſilaſcia addietro. Per ciocchè oltre alla contezza delle buone, e valevoli medi cine,, ch'egli ebbe pronte così ſempre fra le mani, cotan to egli vanraggioſli negli ſtudi del ſuo meſtiere, e di si acum to intendimento fu, ch'avviſando i graviflimi danni, che per li ſalaſſi, e per.le purgagionipoſſono intervenire: e'l veleno, che per entro quelle ſi naſconde: così nimico ne fu, e così ritroſo d'adoperarle, che come confeſſa Andrea Cel lario, comechè Galieniſta ', baud paucis medicam artem profitentibus oculos aperuit. Ne laſcioſſi in ciò menare alla piena del ſecolo,oalla famoſiſſima rinomea del Paracel lo, che non aveffe egli ſolamente intefo quelle medicine, operare, le quali ſenza recar moleftia, o noja alcuna allo in. fermo, fan vuotare ſolamente ciò che cagiona il male.Per chè egliin cotanto pregio,e onor crebbeneadoperando ciò anche nelle più gravi, e pericoloſe malattie, che daGalie niſti medeſiıni, non che da altri, ne venne ſommamente commendato, e quaſia miracolo tenuto. Così infra gli altri Andrea Cellario in facendo parole di lui, e del Paracelſo nel terzo tomo dei fuo Atlante celeſte, Chymicarum, dice, operationum adjumento admiranda hatte nus præftiterunt, ac talia medicamenta produxerunt quæin morbis illis natura humana penetrantibus arêtius, altius fe infinuantibus, & remediis à natura productis cedere ne Sciis, primas terent, &vulgaria medicamina longe ſuperăta E per tacer di Daniello Orftio, Nicolò Franchimorc famo fillimo maeſtro infra'Galieniſti nell'Accademia di Praga, in una piſtola mandata all'Arciveſcovo di Colonia,dilui di ce: Helmont pater tanti fiebat Bruxellis, ut non niſi deſperati ad illum quafi ad ſacram anchoram confugerent: quorum non exiguum numerum ab orcifaucibus eripiebat; enon ceſſaro no i rabbioſinimici d'orrevolmente commendarnelo, ſtret ti a ciò dalle maraviglioſe cure di lui,per tacer de’liberi mc dicáti Frāceſco Glišonio, cd Olao Borrichio, che nó ſi veg gion mai ſtanchi di ſommamentelodarlo. Ma cotantielo gj pur nulla fono in riſpetto di ciò, ch’in ſua loda vantano i più nobili filoſofanti del noſtro ſecolo, ciò ſono il Gallen do, elBoile, ed altrimolci di non poco pregio. Ma doler ne dobbiamo eternaméte dell'Elinõte,come di quello, che niuna delle ſue nobili, e prezioſe incdicinema 1 wifeſtar ci abbia voluto, e quancunque ilParacelfo nie al tri valenci Chimicigliene aveſſero dato eſemplo; non do vea pure egli, che sì corteſe, umano, e compallionevole dell'altrui miſerie unquemai moſtroflisin ciòimitargli. Ne da coſa, che di tanto pro era al mondo rutro,dovea diftos lui, lamalignità d'alcunimedicanti, i qualificome uſura parono ingiuſtamente gran parte de' ſuoitrovati ſenza fag di lui menzione, così parimente avrebbon fatto delle ſues medicine. Ma ſe egli più lungamente l'Elmonte viſſuto foſſe, con dar compimento alla ſua maggior opera, che la cera, ed imperfetra in man del ſuo figlio rimafe, avrebbes forſe di sì fátti medicamenti alquanto più apertamente fas vellato, Ma affai più tardi certamente di quel, che fi richiedev. per avventura miſeſi in alletto Pier Giovan Fabbri a dar cominciamento all'opera del ſuo novello ſiſtema della ra zional medicinazimperocchè egli da prima dietro la vanità dell'Alchimia per convertire in oroi più vili metalli conſu. mò lungo tempo, ed appreſſo trapaſsò ben ſei luftti medi. cando altrui, ſicome egli ſteſſo confcſſa, ſenza alcun fruta to mai ritrarne; ne maigli venne fatto di ritrovare in tutto quanto quel tempo medicina, chevalevole a domarfolie le malattie; e quantunque egli dì, e norte ſtudiato avelle attentamente ne’libri d'Ippocrate,e di Galieno, e molti cu daveri aperti d'huomini, e di bruti, per inveſtigar l'efficie ti, e le materiali cagioni dc’mali: non mai potè giugnere a ravviſare i luoghi de' putridi umori, ne in parte veruna di ſano, o d'inferm'huomo, o la collera, o la flemma, o la malinconia putrefacte ſcorger giammai. Il perchè pres'e gli per partito, di voler,laſciando le altrui autorità a nons calere,per ſe medeſimo metterſi ne'più cupi pelaghi della filoſofia navigando; e poi i ſuoitrovati al giudicio de'fa vj, e diſcreti eſtimatori delle coſe rimettere, così dicen do: Si rationes mea, cu experientia non optimę videan tur, trutinentur, &ponderentur diſquiſitione naturali, ut Aquid falſi continere videanturrejiciantur omnino, Celia minentur prorſus à fcholis: quod fi vero probe experiantur lii quid 1 1 434 * Ragionamento Sefto 1 quid ni. amplexabuntur,tutabuntur. Primieramente avviſa il Fabbrila materia, onde fon le Senſibilicoſeformate efferpalpabile, viſibile, e falda na giddiſtinguerſi dalla forma, la quale fecodo luisaltro no es cheuna propriedeionatæ, virtùnella materia,laquale poits chè è ufcica fuori sidiſtingueda lei,come dalla ſua cagio nel'effetto. Ondeagevolmente può ſcorgerſi,che ſefalſe andato il Fabbriin si fatca guiſa piùavantifiloſofando, faa rebbe egli per avventura a qualche buon terminepervenu po: ma egli appenamefſoli in camino, ſmarrì il diritto fen: tiero.. Immaginò il Fabbri la prina materia non eſſer.al extocheil fale dell’Vniverſo nelquale il folfo ilmercurio, ed'un'altro ſale ſi contêga: e credette ', che queſto medeſir no áveffe voluto dire Ariſtotele, la dove della priina mate ria cosiofcuramente favella. Vuoldivantaggio egli, chę tutte le coſe, omallimamente l'huomo abbiano dentro di ſe un tale fpirito volanto oleremodo, e diſcorrente, di cui tutteleſueparticompoſtebeno, ed'onde tutte l'operazioni della vita, e tutte quelle coſe avvengano, che ſi oſſervano nellemalattie. Queſto ſpirito, dic' egli, che nel fegato e alquantogre /fo: ma più ſottile nel cuore e ſottiliffimondi seżvello; naſcere:ad un parto colfeme, e nel'naſcere venir dalle ftelle arricchito della luce, la quale ſecondo lui èlau farma eſſenzialc, non ſolo dello ſpirito, ma di tutt'altres coſe del mondo... Stimapariméte il Fabbri:altro veraméte non effer. Ja na tura, falvochelaluce', e che dallaluce ilmovimento, e la quiete a'corpitutti dell'univerſo dirivi, e ſecondo più, o meno, che lo spirito participidella luce, tanto più, o me, noegli nelle ſue operazionivigoroſo, e potente divenga, Immaginaancora ilFabbricheentrije penetri l'anima dell? huomo allo ſpirito, e che lo ſpirito poia tutte le parti del ſuo corpo l'anima uniſcaaMa:Io pur troppo lūgone diver, reiſe volcliquitute'altri ſtrani ſuoi diviſaméti narrarvijne midarò impaccio di contraſtarglije gittarglia terra aduna ad uro ', facendomia credere, che ciaſcun da per ſe in ſen dendogliraccontare,o.in legendogli ſia per accorgerſi coſto della lorvanica. E cerramenteſe alcuna coſav'hadibuone no nel Fabbri yella è colta di peſo.al Paracelſo, all’Elmon të, e ad altri valorofi Chimici: marelle eſſendo poi da lui có altre volgariopinioniaccozzato vengono a perder tāto del lor valore, che ſembrano prezioſegemme dal vil fangoia cretate. Or quantoal fatto del medicare e'non ha dubbio, ch'al ſai dappoco ſi dimoſtraſſe il Fabbris imperocchè tralaſcian, doda parte tutt'altre mal fatte fue cure: nella peripneu. monia vuolegli, ch'abbondantemente abbia da principio a trarſi ſangueallo infermo, c poi collc viole; e collo fpiri to del vitriolos o con altri simili argomenti abbia z rinfre fčatli quel caldo, che collo ſpirito della vita di foverchio nc'polmoni ribolla: ed il feguente giorno coll'antimonio ábbia aprocacciarfegli il vomito, acciocchè con tal move mento venga ad aprirli alcunapoftema, ove vi ſia. Ein tãto fi cibi l'infermo d'orzate colſal della prunella, e collo { pirito del vitriolo.Orchi mai divifar potrebbe più folli di vifaméti di queſti e ben per'talie'medeſimo gli conobbes poichè altrove confeſſa, che le più valevoli medicine alla peripneumoniafianla verga del Toro,e'lſangue dell'Irco. E certamente dagli acetoſi medicamenti, che altro maiſe non ſe grave danno avvenirpotrebbe a coloro, che di pe ripneumonia patiſcono; la qualgiuſta i fencimenti del Fab bri,dall'acetolità s'ingenera; e oltre aciòcol purgare l'in fermo con sìpotente vomitivo, poich'egli è divenuto fpof fáto, e fievole per l'antecedente falaſſo, qualpro ſe nepos trebbe per lui fperare? mafopra tutto dal trar fangue, qual buono avvenimento ne potremo giammai attendere? Ed o quanto fe più ſenno il Fabbri, allorche dall'Elmonte ay viſato,de'ſalaffi altrove in altra guiſa favellando, ne diffes: MirorParifienfium medicorumpertinacitatem, curationem febrium, & ferèmorborum omnium in fanguinismisſione lar. ga, ocopiofa collocantium: cum fepe fæpius caulja moru. borum, & potisfimumfebrium tam continuarum, intermite sentium non refedeat in fanguine, imovirtus s proprietas: lii curana curandi morborum omniü in fanguine collocetur,cum arcbeūs visalis fanitatis economus, & morborum amniumcuratorin fanguine refideat: ea fublata,dlarga manu effufo effundan, tur etiam unacumſanguine vitalisſpiritus, undevires tola luntur, di diffunduntur, &perinde tota rotius corporis nad Cura debilis admodum fit, do curatio etiam morborum omniū, que ab ipſa naturadependetevaneſcit;ita ut loco illius fubfc quaturmors; aut incurabilismorbus, E quinciſcorger li puote altresìchiaramente,quáro bere gol fi foſſe,e incoſtante ne'ſuoipareri il Fabbri, e quanto malagevole; c dura impreſa lia lo ſcaricarſi delle falle opi nioni fin dalla prima giovanezza concette, e per vere al. cun tempoi fermamente credute; il che nella ſtoria della cure da luifatte più chiaramente ſi ſcorge;nella quale fto ria, e nel divilainento altresì delle chimiche medicine po trebbe da luiper avventuralealcămaggiore, epiù ſincerità d'animo ricercarfi; maciò traſändando, quanto al ſuo liſte maſo replicherò, licome poco addietro accennava, che troppo vacillante, e caduco e'fia,eche il Fabbri poco, o niente non badando ad inveltigar la natura de'ſuoi primi principj,forz'è,ch'egli abbia a rimanerſene fenza poter mai de’loro effetti aſſegnar la vera cagione. - Ma la SignoraD. Oliva Sambuco, della quale lodovea molto addietro, l'ordine de'tempi (erbando, far parolesar vegnachè ſtudiata ſi foſſe continuo di ſvilupparli dagli er: rori de’mueſtri, e delle dottrine già da loro imbevute: pur tanto non potè ella dimenticarle', che non vi frameſchiaffe qualche ſentimento di quelli talvolta entro al ſuo ſiſtema Svétura nella quale i più famoſi filoſofanti veggőfiancora incorrere; perchè la ſua medicina non altrimenti, che quel le deglialtri razionali, è manchevole, e difertuofa; edan co tale ventura certamente le avvenne, per non aver ellow avuta cortezza della chimica.Ma nocquenon poco a'ſuoi divifamenti l'aver ella più di quel, che fi dovea,preſtata... credenza alle parole di Platone; et non eſſerfi a que’rem pi aperca ancor la {trada della vera filofofia. Immagina la Signora D.Oliva effer l'huomo ana travol ta pianta, le cui radici fian nel cervello, onde un bianco fugo dipartendoſi ſe'n vada il tronco, i rami, è tutto il ri manence a mutrire, tal ſugo bianco vuol che ſia freddo, umido; mache nel fegato facendoſi roſſo: caldo, e umido altresìdivenga; e che nel cuor finalmente ſcambiato in să gue, in caldo, e fecco fi muri. Il calor del cuore crede ela la, che ſerva all'huomo, come it caldo del ſole alle pian te; e che'l bianco fugo faccia l'uficio de quattro elementis fcorrere dal cerebro cotal ſugo per la pelle, per li nervize per le dilicate pellicelle, o membrane, che vogliam dire, delle vene:mapoiin roſſo, e ſanguigno umor convertitos per altre vie, cioè per le vene, e per le arterie ritornare. Or queſto fugo ove ſia malignato,fuor delle proprie vie sboce cando per tutt'altre parti del corpo ſconvenevolmente an dar penetrando, contro il provveduto ordinamento della natura. Tutto adunque il Florido,e vigoroſo ſtato di queſtº arbore, vuolella, chedalle radici, cioè a dire dal cerebro avvenga: la dove fc quella, che pia madre fi appella, la dura madre toccando, ftiano ambedue ſollevate, e diſteſes e quali alcranio appiccare, allorvederſiverdeggiante, e fiorita tutta la pianta: ma ſe mai divengan vizze, o alqua to s'abbaffino, fanguire parimenre lei; e quando finalmen te la pia madre ſia dalla dura totalmente ſtaccata allor non poter avere a niun modo più vita. Con queſto trovato, o purcon queſta ſomiglianza dell'arbore, vaella tutti i con. venenti della vita, e della morte, e della generazione, u della corruttura dell'huomo, e de rimedi, e delle malatı tie acconciamente fpiegando. Tali ſono i divilamenti dietro alla medicina della Signo ra D. Oliva; i quali comeche pajanoin gran parte dal vc to lontani, purealcuni di loro ſon tali, che non poffeno. fenza lunghi encomj, enon ordinaria maraviglia guardar fi; edIomifarò lecito d'arrogare a sì valoroſa donnaquel che già della poereſſa Sulpizix diſfè Giulio Ceſare della Scala:ut tamlaudabilis heroina ratio habeatur non anime objicere ei iudicii ſeveritatem: Ma crapaſsado al ſiſtemadella medicina di Tomaſo Vil lifio; egli ſipare, ch'in fula foglia appunto diquello con ciamente fdrucciolandovaneggj. Imperocchèavendoegli Popinion d'Ariſtotele rifiutata intorno a' principj delle cos fe, ficome troppo groſſa, e ſciocca: e quella di Democri to, e d'Epicuro, ficomefoverchiamente ſottile, e da’ſenli lontana: alla perfinc egli alnuovo diviſainenco de'Chimi ci tutto s'appoggia, e vuolche ciaſcunacoſa di ſpirito (co sì chiama egli ilmercurio ).di ſale, di ſolfo, d'acqua, e di terra formata ſia; perciocchè in quelli ciaſcun corpo ſenga bilmente ſi riſolva. E con quelto cinque ſoſtanze, in ciò, che elleno ne'corpi compoſtihanmovimento e proporziou ne, ſi ſtudiacgli, e s'affatica di dar ragione dell'apparen ze cutre della natura, e ſpezialmente diquelle,ch'alla mc dicina s'appartengono. E comechè egli apertamente con felli cotali ſoſtanze non eſſer ſemplici, ma comporte, e me ſcolate; pur tutto il ſuo diviſamento quì egli fermando,no fi prendepiù avanti briga di ſpiar di cheforte priacipj fora fono quelli, onde le ſue prime cinque ſoſtanze ſon compo fte; anzi egli dice, che non avendoviragionc, o ſtrada al cuna da potergli avviſare, ſciocchezza ſia l'entrar nel fara netico didoverciò fornire:e qualunque coſa ſe ne dica eller più coſto un grazioſo diviſamento, e voler giudicarc allas ventura, ea riſchio delle.cofe del mondo, che conſaldez za di buona filoſofia ragionarne. Ma quantochè egli con ciò di ſcagionar la ſua dappocaggine s'argomenti, imper: tanto maggiormente in altri, e altri ſuoi divifamenci egli s'accagiona; perciocchèa chiben vi ponga menre, tuttoil fuo filoſofare, avvegnachè egli contro i buoni filoſofi fa vellando, dica procudere,autfomniare philofophiam me nola le, lubens profiteor; altro nel vero egli non è, ch'un andare alla cieca, e taftonc,ſenza certezza alcuna. Ma ciò laſcia do ſtare, o non s'avvede egli, o s'infigne di non accorgerſi in dicendo chelo ſpirito una coral ſoſtanza fortidiguna, ë voláte Gia; che spiegar uc doveva come cotal ſostanza s'av valli, e fi deprima, c come poi ſi cſalti, e come con gli al tri principj ſi meſcoli: c comc ammendi, e affreni i ftraboc chevoli diſordinamentidel ſolfo', e del ſale: é comequela to tante, e tant'altre operazioni faccia, le quali egligliat tribuiſce. Certamente non mai egli ſaper potrà diche. for te particelle quelle: fiano, ondela ſottigliezza dello ſpirito diriva; e colcoccare, che colmuovere ora in uno, oras ialtro modofogliono negli altri corpioperare. Eben'e gli dovera (ficomca buon filoſofante ſi conviene, ilqual fondar voglia ſiſtema di cazionalmedicina) dalle appareze degli effetti la natura delle loro cagioniinveſtigare: cav vifare, chenon puòlo ſpirito effer diſcorrevole, ſe di pre fente nonceda atutti corpi ſaldi, che perentrovi paſlino je perchèeglièda dire', cheloſpirito ſia in molte, e moltes particelle diviſo: le quali continuo movendo infra loro sé.. pre ſeparate ftiano;ne lo ſpirito,foctile,c volante efferpuðn e per cutto perretrare, ſe le ſue particelle picciolitime non fono, esì fåttamente foggiate, che molti gomiti 20 angoli, non abbiano. Neper darragione dell'opere del ſolfo giova ſapere eſ fer quello, licomc egli dice, di coſtruttura alquauto più groffa', emaggioredi quella dello ſpirito; e che da quello nafca il calore, cla varietà de'cofori, e degli odori alle co fe, e l'a lor bruttezza, e bellezza: c per la più parte la di verſità de' ſapori; perciocchè quantımqne tutto ciò vero fi foffe,cheegli ſenza niuna pruova farne grazioſamente, afferma, ben potevaeglidall'apparenze,che dal fólfo vega giamo, argomentar, che le particelle diquello comeche, in continuo movimento anch'elle fteano;ficome quelle dela 16 fpirito e fiano peròmeno pulite, e ſdrucciolantii, calia quanto' famoſc. E què è danocare, come il Villiſio vada divifando dellacomplellion del fuoco; egli dopoaver ava vifato effer quello ſomigliantiſſimo alla materia prima de Peripatetici, in ciò che in tutto partire in niuna dice quel, lb allignare, così poi faggiamente ſi ſpiega:Ignis exfuina tura nullibi exiſtentiam, ac certum durationis modum obtin net. Quindifoggiugne: formaignir omninòdepēdet à para siculisfulphureis infubjecto quopiam agglomeratis.y - cona fërrimerumpentibus a quodque ignis nihil fit aliud, quam ejuſmodiparticularum impetuofius concitarum motus, deras ptio.Ma s'egliaveſſe mai poſtomente alle particelledel fol fo, le qualieſſendo di neceſlità ramoſe, per la loro figuras non così acconce ſono a muover velocemento, e a penetrar ne'corpi più duri, e fpeffi, ficome far veggiamo al fuoco: il qual perciò dice Democrico aver gli atomi ſuoi ritondi: non avrebbe certamente eglicosì di quello filoſofato. Ma Signori ancor Io immaginava una volta cosi andac la biſogna del fuoco, qualla giudica il Villiſio: e acciocchè ceſſar poteſli le malagevolezze propoſte, mecomedeſimo penſava doverſi i ramidel ſolfo piegare in ingenerando il fuoco, e in ſe medeſimi ravvolti formar cotante ſperette, acciocchè agevolmente muovere, e penetrar poteſſero; ma meglio poi il mio divilamento vagliando, ricreduto, igannato inutaiparere. Convien dunque dire, chele pare ticelle componenti il folto diduefogge ſiano, una ramoſa, e un'altra ritonda. E cosìſomigliante doveva egli delle particelle de'fali filoſofare, e ſpiar le vere cagioni dell'o perazioni di quelli,e di que’loro ftati, ch'egli chiamafram fionis, volatizationis,& fluoris:quali egli ſpiega co ſole pa role ſenza recarne giovamēto alcuno. E certaméte non per altro ciò egli adopera, cheper non curar d'inveſtigare la na túra, e la propietà de'componenti di quelli. E doveva bé egli quanto più ciò era malagevole a fornire, cotanto mag giormente argomentarſi perogni ſtrada diaggiugnere infin dove colla mano, ecol ſenno arrivarpoteffe: e cið mallima mente egli col conſiglio dell'incomparabile Boile, edal. tri valorofiffimi filoſofanci fornirpoteva; ma egli per cele far farica non volle di cotante biſogne imbrigarſi: perchè poi diſguiſata, e ſconcia la ſua filoſofia ne divenne. Eles non da altro, almeno dagli effetti de'ſali,ch'e' continuo da vanti agli occhi avevasben egli in ciò, che quelli folvonli nell'acqua, e a temperato fuoco ſeccanfi, ca gagliardo fi fondono avviſar poteva la natura delle loro particelle, e di quelle di tutt'altre generazioni de' ſali: e ancora in ciò che quelli,davolanti divengono fiſſi, e da fiffi di nuovo volar ti. E Gimigliante da ciò ben'egli inveſtigar poteva in che convengano le particelleinfra loro, le qualicotante gener razionidifali compongono; e in ciò ancora, che i volanti ſali agevolmente le loro propierà lafciano, divenendo da aſpri, e amari, e acetofi: dolci, e foavis e per contrario da dolci,e ſoavi:acetofi,e aſpri, e amari; e alla per fine inciò, che i ſali di qualúque ſorte ſiano, ftranaméte cambiadoli, e laſciádo illoro natie ſapore, e ditutt'altre propietadiſpo gliádoſisin ſalfezza ſolamēte ſi rivolgano;perciocchè da ciò tutco ben'egli argométar poteva eſſer i ſali compoſti dipar ticelle acconce a cambiar figura: 0 pure non eſſer quelle in loro d'una medeſima forma, madivarie, e diverſe figuu te foggiate. Quindi oltre paſſando avviſare' poteya', iſali acetofi, in ciò che recano acerbiflimi dolori, eſfer d'acutif fimc particelle compoſti: e l'altre generazioni de' fali cſfer più, o meno di quelleforniti, ſecondainenteche più o me no il palato nepungono. E così anche dell'acqua, e della terra dannata certame te a lui faceva meſtierdi filoſofare, ſe aggiugner voleva al ragguardevol nome di buon filoſofante. E comechè negat non fi poffa che per la maggior parte riuſcir ſogliano gli ar gomenti tanto, o quanto probabili folamente, e ragione. voli ſenza ſaldezza alcunadicerta verità; non però dime. no egli è il migliore affai, ſtudiarſi, e affaticarſi per via di conghietture,ed'argomenti d'aggiugnere a ciò, cheper noi non ſappiamo: checosì ſenza nulla imbrigarfi d'inve ftigarne, laſciarlo vergognoſamente in non calere pernou Ara dappocaggine: Ne lo al preſente midarò briga d'eſaminare il poco lo devolfiloſofare del Villiſio intorno alla formentazione, al ſangue, alle orine,alle febbri, e ad altre malattie; percioc chè ognuno agevolmente veder può, che non è altrimenti ſaldo filoſofare il ſuo, ma ſolamente ragionarea riſchio, e a voto ſenza fondamento alcuno; e ben potrebbe per buo monegarſi poco men ch'ogni coſa, ch'egli afferma, ſenza timore d'eſſer dalle ſue anfanie, e da'ſuoi aggiramenti rim beccato. Ma non però di meno montò egli in qualche buo nome dei ſuo meſtiere, per eſſere Atato egli molto avventurato ne’luoi emoli; perciocchè de’ſuoi tempi abbatteſt in tal, che nulla ſappiédo delle coſe della natura, volle ſcioc camente e con fanciulleſchi argomenti carminarlo; per chè non durò molta fatica il dottiſiino Lovero ſuo ſegua ce', non tanto d'inframmetterſi della difeſa di lui, quanto per ricredere, e rintuzzare la tracotata beffaggine dello ſciocco Galieniſta; e nel vero ſe filoſofo ſtato foſſe il Mea La, avrebbe egli minutamente ciò che lo ho accennato del la medicina delVilliſio in prima detto. Ma nella notomia il Villifio fu molto ſcorto, e avveduto, intanto che non v'ha notomiſta alcuno, che meglio di lui, e più ſottilmente le parti del cervello ſpiare aveſſe;ma da cià altro certamente noi raccoglier non poſſiamo, che la pro poſta da noi cotante fiate dimoſtrata,ora maggiorméteper fuadere: cioè a dire che vano, e inutil ſia il diviſar di me. dicina razionale: ne medico poter giainmai in quella tane to, o quanto vantaggiarſiz.conciolliccoſachè dalla lunghif fima, e inolto ſcorta diſaminazione, ch'egli fa dell'uficio delle parti del cervello, non altro certamente ora ne ſap piamo,chequello, che in prima fapevamo:: cioè a dire nulla di certo. Quanto alla maniera del medicare fu egli ſenza fallo ſciocco,, e infelice aſſai; perciocchè dopo aver appreſa, ed eſercitata la medicina a quella guiſa, che in Inghilterra comunemente coſtumavali:volendo egli filoſofare ſopra quella, ſi perſuaſe, che le continue ſperienze, così.dover fi medicare additato aveſſero; perchè non guari egli lontan facendofia'comunali rimedi, nel ſuo ſiſtema,ſtudiof ſi di darne a credere eller quellii veri argomenti da raccato tarne la ſanità, ricoprendo con sì fattoavviſola ſua beſſage gine, c non rinvenendo nulla per giovamento de'cattivelli, inferini'. Anzi vi fu di peggio nella ſua medicina, che non che valevole argomento egli mai ritrovato aveſſe: anzi in qualche biſognatalvolta, ove i volgarimedici bene ado peravano, egli diverſamente ſentendo dipartiſlene. Ma prima difar parola della maniera del ſuo medicare, egli conviene avviſare, cſſer poco ragionevole ciò che 1 1 d egli giudica, cioè, che la febbre finoca puerida,ficome egli dice, per eſſenza ſempremaiſia: e che la pleureſi, la peri pneumonia, l'infiammagion della gola, e altri fomiglianti mali ſiano effetti, e non cagioni della febbre; conciollie cofachè ciò manifeftamenteripugnar ſi vegga all'evidenza: avviſandoſi fempremai tratto tratto avanzarſi, e ſcemarla febbre, ſicome Icema, o creſce l'enfiagione; anzi talora prima d'apparir la febbre: il dolore, c l'enfiagione appa fiſcono: e cominciandoſi poi la ſoſtanza ivi cntro racchiu fa'a formentare, e a comunicarſi al ſangue, e far ſaccajan comincia altresì la febbre. Ma più manifeſto ciò s'avviſa nelle ferite, e allor che qualche ſcheggia, o ſpina, o altrás ſomigliante coſa nella-carne ſi ficca;perciocchè ivi a poco accendefi la febbre nella piaga ſolaméte, enelle parti prof ſimane, e talor anche pertutto il corpoſi fpande; e leav vien, che le fibre alcuna fiata enfino, ciò nulla rilievaan dover far pruova del ſuo diviſamento; perciocchè quella medeſima cnfiagioneſarà anch'ella cagion della febbre, no già effetto, ſicome immagina il Villilio; concioſliecoſachè manifeſtamente s'avviſi in sì fatte eiffiagioni rattenerſi il ſangue, e dal ſuo uficio rifturfi; perchè poi naíce la febbre; ne ciò potrebbe in piun côto negare il Villifio, confeſsado egli medeſimo quefta verità: Ab ejuſmodi tumore,dice egli dellenfiamento delle fibre, calor, e dolor in parte intendű. tur: fanguis in motu ſuo magis perturbatur: adeoque febris accenfa plus aggravatur. Ma non men vano, e falſo è ciò ch'egli giudica dell'ingencrazionedelle febbri, che chir mano intermittenti; la quaic opinione potrei lo agevolme te rifiutare:ma perciocchè egli è manifeſta aſſai la ſua fal lanza, e per non dilungarmitroppo me ne rimango.Sola mente dico ciò lui fare perpoternella cura delle febbrila biaſimevol coftuma de ſalafi ritenere; nella qual certame te cotanto egli è più de'Galieniſti medeſimi tracotato, che ovei più avvedutifra loro nella terzana intermittétenõ ar diſcono a trar sāgue, egli pur vuol, che trar fi debba, accioce chè col ſuo mcnomamēto il sāgue fi rinfranchi, e ſi rinfre ſchi, e mcnos'accenda, e più liberamente ſenza riſchio ď K k k incendimento diſcorrer poſſa, e riandar perla perſona.Ma ſe aveffe avviſato il Villiſio le terzane intermittenti divenir talora per li falalli contine, certamente cgli non avrebbe così follcmente ragionato. M2 apertamente ſi vede, ch'egli dictro alla bruzzagliai de’volgari medicanti, più negli effetti de’mali, che nelles cagioni di quelli s'indugia. E per favellar con lui, ſecon do iſuoi medeſimi ſentimenti, ſe la terzana s'ingenera, per ciocchè il facgue ſtrabocchevolmente mordace, e punge te,non intride, e matura toſto il ſucco nutritivo: mala maggior parte di quello in una cotal materia nitro - ſulfurca corrompendo muta: come potrafli ella maiper lalafo am mendare, ſe il ſangue, che riman nella perſona, anch ' egli mordace, e pungente vi rimane? certainente egli ancora, ſe non ſi addolcia, farà valevole a corromperc, e guaſtare il ſucco nutritivo, e ingenerar la febbre; anzi tanto mag giormente, quanto per lo ſuo fcemo, più debole, e fpoſfato diviene a rintuzzar quella mordacità, che'l corrompe,me nomandoſi in lui quella nobiliſſima ſoſtanza,che ſolamente poteva nel ſuo intero affinamento ritornarlo; perchè poi il ſangue, che di nuovo s’ingenera, diverrà ſenza fallo pig. giore: e non ben digeftédoſi il cibo, il ſucco nutritivo yer rà anche a ingenerarſi cattivo: e manterrannc quel calo re, checol ſalaſſo iinmagina di ſcemare il Villiſio;ſenzachè è egli inolto di riſchio il ſegnar nella terzana; perciocchè tra per lo cibo, che dentro dallo ſtomaco de’inalaci ſi cor rompe,e per lo sfoggiato calore,ch'allottigliando, e diradi. la collcra nel ſuovalo avvić,chequella nello ſtomaco ſi tra sfonda, e cotanto mal cagioni: ſicome a quel giovinetto nobile intervenne, di cui narra il medeſimo Villiſio,che no oſtante la cardialgia avendolo cgli fitco ſegnare, piggioró ne sì fatcamente, chequali ne fu per debolezzamorto, gliene ſeguirono fieriſſimivomiti,e ſpalime, c rivolgime ci d'inceſtini: ne alleggioll in lui il dolore, ſe non ſe nel de clinamento del male. Vuole ancora il Villiſio, che trarſi debba fangue nello febbri, ch'egli chiama efiimcre, e nella finoca putrida, ac ciocchè perlo falaſſo diradandoſi il ſangue fia ventato: e le particelle calde di quello per affoltata non ſi accendano; ſi. coinc adoperar veggiamo a contadini, i quali rivolgendo, e ſcioperando il fieno difoverchio riſcaldato, fannogli pré dere rinfreſcamento. Ma egli è certamente ſogno del Vil lilio, che liquorsche continuo muova, e diſcorra, ficome il ſangue, abbia quelle particelle, ch'egliſcioccamente chiama calde, le quali poſſano ſtare ammonzicchiate,e af faſtcllate, ficome ficno in palco, maſſimainente, che pic cioliflime, e ritonde quelle fono, e ſi muovon rapidiſſim.2 mente allor che fanno il calore; perchè malagevolmente ſtar poſſono inſieme, ſe da qualche materia viſcoſa, e tenz ce non ſianoben prima appiccate. Perchè è da dire, che fconcio, e ridevole oltrcmodo ſia il paragon del fieno dal Villiſio apportato,in cui lo ſtrignimento premendone il fucco cagiona la formentazione, e'l riſcaldamento. Maw oquanto meglio egli avrebbe adoperato, ſe non già con falalli, ma con rimcdj acconcja ciò fare, ſicomealtrove per noi è detto, ſi foſſe argomentato di ſventolare il ſangue, edirinfreſcarlo. Ma egli più oltre traſandando vuol che da ſegnar fiano anche i fanciulli: quandoil medeſimo Ga lieno, che de ſalaſli fu cotanto amico, e altri antichi medi cistutti ad una giudicano efſer quelli ſommamente a' fan ciulli dannevoli, e da fuggire. E avvegnadiochè egli molce novelle ne racconti d'alcuni febbricoli da lui felice mente col fataſſo guariti; non però di meno, ficome egli medeſimo teftimonia, non pochi ancora ne poſe per la ma la via; ne è da credere, che coloro che ne camparono,fof fcro da falaſiajutati: anzi per qualche altro argomento, o cagion da’lui non conoſciuta celsò loro la febbre: e fuma raviglia, che infermo, chenon potè reſiſtere alla febbre ', aveſſe poi la febbre inſieme, e'l mal del falaſſo contraftato. Che ſe veggiuno noi alcuni avvelenati ſenza cóſiglio niu no campare, e altri cadere ftraboccati da alto ſenzafiaccar fi il collo: ele ſcoppiate delle bombarde alcuna volta non colpire, perchè dobbiam noi dire i ſalali ſolamente, per chè talvolta non ammazzino, non effer mali? Ma ben disi travolto diviſamento portonne egli la pena il Villiſio; per ciocchè co'ſuoicari ſalasſi-egli-medeſimo s'ucciſe. Ma gľ Inghilefi, huominicotanto pertraffichi, e per uſanze co noſciuti di tutte coftume della maggior parte del mondo, Io non sò lo come ſi laſcino ciecaméte portare alle beſlag gini de’loro medici, e non più toſto rimirino alle varie, ¿ diverſe nazioni, colle quali eglino uſano, che ſenza laper mai di lanciuole, o dimignatte, e ſenza 'logorar goccia di ſangue ſtan bene delle perſone: e ſe pure infermano, altri argomenti coſtumano a raccattar la ſanità, che i nocevoli ſalaffi. E per non andar ricercando detl’Indie, e d'altres a noi rinnotiſfime partijagevolméte ciò potrebbono avviſa re da’Mori: i quali, ſicome teſtimonia quel gran Maeſtro in divinità Tomaſſo Campanella, le malattie tutte col ſolo di giuno, e colle unzioni, e co ' tropicciamenti curama. Ma non meno ſciocco, e poco avveduto nelie purgagio niegli ſi fu il Vihiſio; concioffiecofachè egli talora ſenza riguardare al tempo delmale toſto le purgative medicine,e le vomitative impor foglia, con graviffimo danno degli in ferini; e ciò egli vuole anche dove la febbreſia grande, d'accendimento dentro agevolmente temer fi poſſa. Ma quanto poco fermo e' ſi foſſe nelle ſue regole il Vil lifio, manifeſtamente egli medeſimo il ci da a divedere, al for che dopo averdiviſato ſecondo fua poſſa a che debba il medico riguardare per dovere acconciamente i ſalaſſi, e le purganti medicine adoperare, maſſimamente nelle feb bri peſtilenzioſe, e maligne: alla per fine avviſando egli la vanità de'ſuoi diviſaınenti, e dimentito della certezza della medicina razionale, non altrimenti, che ſe volgare impi rico e' fi foffe, conſiglia imedicifuoi ſeguaci, che ſi laſci. no ſolamente in ciò alla ſperienza guidare. In his cafibus, ſon fue parole, prater medicicujuſque privatum judiciums; experientia potiffimam mededi rationem fuppeditat; cã enim hæ febres primo graffantur,finguli ferèfingula tētăt remedia: diex eorum fuccesſibus una collatis facilè edifcitur, qua li demum methodo innitendum erit, donec ultimo crebro ten tamine, feu tranſeuntiuin veftigiis via quafi regia, « Lata ád bujuſmodi affectuum rationem texitur, variiſque obſerva tionibus, monitiſquemunita, Or quinci manifeſtainente comprēder puoſli quanto po co egli affidato nel fuo fiſtema di medicina, il tutto nel ſens; no, e nell'intendimento de'mediciavveduti roveſciaſſe, giu dicando non eſſer rimedio cotanto certo, di cui noi poffil mo vivere a ſicuranza. Ma non ſi dec egli nondimeno privar della meritata lo de il Villiſio, per eſſes e' ſtato certamente il primiero tra' Chimicimedicanti,ch'abbia avuto ardimento, rendendo giuſta ogniſua poſſa cagioni veriſimili di tutte le coſe, di fabbricar un ordinato ſiſtema di medicina razionale, e ſopra tutto per quelbel libro, ch'ei compoſe della Farmaceutica razionale; ove egli s'ingegna di dar ragione dell'operazio ni tutte, che ſi fanno ne'corpi umani dalle medicine. Ma non già egli però, come par,chemillanti con queſte paroleg. Spartam hanc fcilicet operationis pharmaceutice Ætiologiam, prius fere intactam, fi nunc temere agreflus, non dignefatis abfoluero, veniam utcunque merebor, quia terram non modo: incognitam,fed, GvaldeSalebrofam,&quafi labyrintheam peragrare. incumbebat, fù’l priino aqueſta opera; poichè il Paracelſo, e l'Elmonte, ſopra i diviſamenti de'quali áp-, poggia tutta la ſua machina il Villiſio, ne trattarono, tut tochè non ordinatamente aſſai n'aveffero eglino favellato Ma ne a queſti, nc al Villiſio, per non aver eglino conſide rata innanzi tratto, e riandata con diligenza la natura del la coſa, cioè que’principi primi, ondederivano immedia tamente le operazioni de'medicamenti, riuſcì il-finir una sì commendevoleimpreſa, con quellafelicità, che le avca no eglino dato principio. Malaſciando dipiù ragionar del Villiſio, e del ſuo liſte ma, a quel di Franceſco delle Boe Silvio trapaſſeremo;egli fin da primi anni il Silvio, licome di lui narra Luca: Schache negli ſtudi d'Ariſtotele, e di Galieno involto, do po lungo tempo a ciò logorato, veggendo alla fine, la Chi mica di que' tempi a grandiſſima altezza ſormontata per le maraviglioſe cure dell'incomparabile Giovan Batrifta El monte, di cui ſopra è detto, a quella apparare con tutto il ſuo intendimento, e con non ordinaria fatica ſi rivolſe; e conoſciuti i grandillimi errori, e ſconcezze delle volgári dottrine, per non dovervender la ſua ſcienza a minuto, ne? più ſaldi ſtudi delle buone arti sì, e tanto innoltroffi, cher grandiſſimo, e famoſo ne divenne: e di molte, e laudcvoli conoſcenze arricchito miſeſi a diſcorrere pergli ſtrabocche voli campi della medicina. Ma ſicome ardito,e poco cſper co Nocchiere, avvegnachè di ſarte, di - gomene, di ve le, di boffolo, e di tutto ciò, ch'a ben corredata nave fac cia meſtiere, ſufficientemente ſia fornito: impertanto per nuovi, e nonconoſciuti mari navigando, no ſappiendo egli poi ben quelli adoperare, miſerevolmente inghiottito vi muore; così il Silvio, comechè dibuona filoſofia,per quel ch'e' medeſimo dice: e di non ordinaria medicina fornito, non però dimeno non ſappiendo egli quelle adoperare,ſcó- - ciamente fallovvi, e quaſi nocchier mal pratico negli alti maroſi del ſuo meſtiere appena ſciogliendo, fortunolamen te annego. Ma potrebbe alcun recare in dubbio, ſe ſcor ro in filoſofia si bene il Silvio si foffe veramente itato, co me eglinevuoi dare a divedere; e nelvero per quel che comprender poſſiamo dalle fue opere, egli ſembra, che no molto addentro e' la ſpiaſſe, comechè una fiata dalla ra dezza, che adopera il fuoco ne'corpi,cgli argomēri le parci celle di quello effer piramidali; non però di meno egli po co conoſcendoſi eſſer profittato nella buona filoſofia, co mechè,i per quel, ch'e'nedica, trentatrè anni continuo in appararla e' ci aveſſe logorati, proteſtando le ſue dappocaggini, manifeſtamente dice: optabile foret naturalium rerum principia vera, eorundemque numerum certum, qualitates legitimas via,methodoq; mathematicis demõltrari. Ma nella medicina razionale più alquanto egli ardimé toſo, volle il ſuo ſiſtema diviſarne, dicendo tre umori prin cipali eſſer ne'corpi degli animali: cioè il ſucco pancreatico, la collera, e la flemma; i quali nel ſottile inteſtino adunā. doli inſieme, e meſcolandoli, quell'umor poicompongano, che da lui è detto triumvirale; che il ſucco pancreatico di ſangue, edi ſpiriti animali dentro al pancrea s'ingenere quindi agli inteſtini per la celebre 'doccia del Virfungio diſcorra; chela collera ſi formi di ſangue dentro alla ve ſcica del fiele; e che ſia ella abbondevole aſſai diſale ama ro, e volante, e comee'dice, liffiviale, da poča acqua foo Luto: in cui alquanto d'olio, e di volante ſpirito anche s'av viſi; che la flemma ſi crii della ſaliva, la qualdegli ſpiriti animali, e della più ſalda, e tenace parte del ſangue com pofta, dalle glandole delle maſcelle per le docce, che falia vali diconft, alla bocca trapeli, e continuo tranghiorten doſi dentro allo ſtomaco diſcenda: e quivi le ſue tuniches ainmorbidando digeſtiſca i cibi; quindiallinteſtino fottilc pianamente trapelando ivi s'accolga,c per la più gran par te dimori. Venir la flemma di molta acqua, e di poco fpi rito aceroſo, e volante se dipochiſſimo olio, e ſale lillavia le compoſta; perchèin quella una gran virtù formentantea ritrovarſi; il ſucco pancreatico ingenerarſi degli ſpiriti ani mali, e del ſanguenel pancrea: e che fia eglialquanto ace toſo: ne dalla flemmadiffomigliante, ſe non ſe più alqua to ſottile; che ſi tragittiegli perlo canal del Virſungio al fotcile inteſtino, la dovenel meſcolarſi ch'egli fa colla collera, perla contraria diſpoſizione dell'amaro di quella, edell'acetofodi eſſo,a riſvegliàr fi venga un cotal bollimé to, per lo quale la parte più groſſa, e limacciola ſi ſeparije queſta giù per gl'inteſtini s'avvalli: e quella per le venes lattce diſcorrendo al cuore aggiugna; e la flemma anco ra nel fuo ribolliméto fi ſolva: e che la parte ſua più diſcor rente, e ſottile inſieme colla maggior parte della collora, e del fucco pancreatico traſcorrano parimente al cuore: ove la fermezza, e’lcompimento deano al ſangue; e'l lor rima nente diſcendendo giù per gl’inteſtini groili, e alle fecces! meſcolandoſi, quelle maggiormente colorate, e tenaci ré. dere, Cosìavendo formato con queſti tre ſoli umori il fi ftema tutto della ſua medicina il Silvio, dal guaſtamento, e perturbazione di effi vuol, che tutte le febbri dirivino; concioſliecoſachè ritrovandoſi talvolta per qualche cagio ne il pancrea oppilaco, quivi il pancreatico fucco oltre all' LII uſaço dimorando, maggiormente acetoſo divenga, e mor: dace; perchè egli poi faccia negl'inteſtini un bollimento grande, c ſtrabocchevole aſſai più dell'uſato: e naſcerne la febbre, qualdicono intermittente. E ſe quella parte della collora, della flemma, c del ſucco pancreatico, la quale al cuor ſi tragetta, non ſia ben condizionata, ella nel deltro ventricolo di quello un'altro diverſo ribolliméto riſ veglj, e le contine febbri cagioni. Ma troppo lungo fa rebbe il voler qui raccontare comedal rimeſcolamento di tutti, e tre queſtiumori vuole il Silvio, che ciafcuna maa, lattia ne*corpi umani s'ingeneri. Io non ſaprei lo di leggier narrare quante miſchie, quan te conteſe, eriotte abbia riſvegliate infra' medici un cosi ftrano ſiſtema, così vivendo il Silvio, come anche dopo ſua morte; ma lo diciò non curando al preſente, folamente per quanto a mio propoſito s'appartiene, dico eſſer vera mente ingegnoſo, claudevoleil diviſamento del Silvio, e quale appunto a un cotanto valent'huomo conveniya; ma perciocchè egli tutto grazioſamente afferma ſenza nium pruova fare delle ſue ſtranezze farà quello da dircertamēte una ben compoſta novella per tener a bada con ſue ciarle l'ignoranza del vulgo, e preffo quello accattar titolo di va lorofo filoſofante;machi ſpia più addentro, non veggen do comepoffano effer tali quei tre umori, quali e' glide fcrive, ecome poffano aver poſlanza di cagionare i bolli menti, e le febbri, e tutt'altre malattie, che egli racconti, poco certamente a capitale il ciene. Anzi radillime volte nella flemma, e nel ſucco pancreatico l'acetofità egli avvi far ſi puore; ſenzachè nel pancrea non ſi è giammai per al cuno acetofità, ne poca, nemolta avvifara: e pure dovreb be ad ognora quella trovarviſi, le nel Pancrea s’ingeneraf fe, e s'accoglieffe veramenteil fucco acetofo; perchè ra de volte ancora quel bollimento, ch'egli immagina,negli inteſtini da quelli riſvegliar puoſli; anzi è egli imposſibi le, che per l'acetoſità il bollimento avvegna: ficome per pruova veggiamo, che il liquor del fiele collo ſpirito del vitriolo, o delſale, o con altro acetoſo umore meſcolato ri bolla: che che in contrario fi dica Olaaldo Crollio, da cui peravventura ciò apparò il Silvio: il qual contendendo co tro la manifeſta ſperienza, ne vuol dare adivedere, chelo ſpirito del vitriolo a ſtomaco, cheabboudi in collera,bol Jimento cagioni. Maſenza fallo egli di gran lunga s'aggi, 1.3 il Silvio a dir, che gli ſpiriti animali ſiano aceroſi; per ciocchè, fe ciò foffe, inervicontinudrattratti, e in malei Itato ne ſarebbono: ſappicndo ben ciaſcuno, che l'acctori tà, ſicomc (triguente, e lazza, e pugnereccia, a’nerviol tremodo contraria, e nimica fia. Ma chela ſaliva allo ſmaltimento de'cibinelnostro ſton macobaltevol fia, comechè ella pur gli ſia diqualche gio vamento, chiunque al maraviglioſo artificio del digeſtimé. to non abbia poſtomente, potrà folamente crederlo. E ſopra tutto è da maravigliare di ciò ch'e dice delle febbri intermittenti; perciocchè ſe quelle dall'acetofità fi cagionalſero, ſenza dubbiogl'Ipocondriaciad ognorafi vch drebbono, e terzane, e quartane patire; poichè in loro fo pra tutti il ſucco delPancrea, ficome anche il medeſimo Silvio confefla, oltremodo acetoſo s'avviſa. Ma riſerbando a più agiato tempo sifatte conſiderazio ni: ciò che toglie maggiormente l'eſſere razionalmedico al Silvio, e'l fiſtemadilui manda a terra, fiè, che egli trasa dando le fondamenta, a niuna cura prende l'inveſtigar la natura di quelle prime ſoſtanze de Chimici, ſule quali egli fonda la fua medicina. Mache che Gadella ſua filoſofia, il modo certamente del ſuo medicare, comechèpovero, e manchevole degli arcani dell'Elmonte, e del Paracelſo, non poco dee effer commendato; perciocchè egli usò le volgarichimicheme. dicine, e masſimamente l'alloppiate connon ordinaria fe licità,, e pregiodel ſuo nome; fe non ſe quanto egli preſtò alle purgagioni troppa credenza: ele pole talora in opera, ove in tutto, e pertutto diſconvenivano: avvegnachè pur guardingo, e ritrofo alquantoegli ſtato ne foſſe. E come chè cgli dicoloro, che così volonteroſi ſono a ſegnare, só mamente ſi biaſimaffe, non però di meno per non dipartir LIT 2 ſi dall' folo può contrariare almale. Oltre a queſto la formentl fidall'uſo comune, andò a bello ſtudio accattando cagioni di ſegnare ancornelle febbriintermittenti: ove egli affer ma non aver luogo niuno il fataſlo.Immagina poi egli, che faccia luogo il ſegnare nelle febbri finoche,acciocchèilsā gue ſtrabocchevolmente radificato non rompa i vaſi,o fac cia qualche altro gran male; non avviſando, che con altri ficuriargomenti, quandociòpur s'aveſſea temere, dar vi fi può compenſo, ſenza tor via, col trar ſangue, ciò che zione,tutto che grande, nel fangue,non li dee con -iſpogliar lo della ſua vital ſoſtanza impedire, poichè per quella ſteſ ſa formentazione, grande eccitandoſi, o fenfibile, o inſen fibile vacủazione, fi difcaccian fuori del corpo le cagioni delle malattie, il che s'impediſce certamente col ſegnare. Dopo il Silvio,mi ſi fa davanti Lazaro Meffonieri, il qua le troppo libero, coltre alconvenevole ardito, imprende a determinar delle più ardue', epiù ripoſte quiſtioni, di cui piatiſfer mai con lungo ſtudio ifilolofanti. Primieramente egli ſtabiliſce effer principidelle coſe il mercurio, il fales, e'l folfo, e dice quefti, licome in cotante arche, o matrici contenerſi negli elementi; i quali ſecondo l'avviſo di lui, fon quattro:cioè il fuoco, efficiente cagion di tutte altre coſe, in cui niun principio egli v'alloga; l'aere, in cui ri fiede il mercurio;l'acqua, ove ſtanzia il fale; e la terra in cui dimora il ſolfo. Il fuoco ond'ogni altro elemental mo to deriva, vien dal folto ajutato, ed eccitato dal mercu rio; e ſue proprietà ſono il dar movimento al mercurio, il riſplendere, il riſcaldare, l'attrarre a fc le cofe oleaginoſe, e Peſſere attutato dall'acqua; l'aria colfuo mercurio fa fare a ſegno il fuoco; il mercurio è un certo ſpirito aeree, il qual coagula l'acqua, e'l fal volante rappiglia, e che afo fai bene col fuo ſal fiſſo s’uniſce,ed al ſolfo cótraſta.Dimo ra ilmercurio ne'luoghi piùdalle vie del ſole rimoti, fico me ſono amendue i poli;l'acqua tiene una ftrettiſſima ami, ſtà col ſale, e nimiſtà grande allo incontro poi colſolfo. La terra opprimeilfuoco, e quanto ella è del ſolfo amica, altrettanto ſi moſtra nimica del fale. Indi deltemperamento il Meſonieri vegnendo a favel lare, così ne divifa: il temperamento è un'armonia delles quattro prime qualità, avvegnente dalmeſcolamento de gli clementi, e de’naturali principj:(Delle qualità, che gli elementi compongono, due ne ſono attive, e due paſſive: attive ſono il calore, e la freddezza, paflive l'umidità, e la ſiccità. Tre coſe vihan nell'univerſo manifeſtamente calde, il ſole nelmondo celeſte, il fuoco nel mondo ele, mentale, e lo ſpirito vitale nelmondo animale, e tre allo incontro manifeſtamente fredde, la Luna, il mercurio, lo ſpirito animale. Alcune ſtelle divantaggio vi han nelmo do celeſte,dilornatura calde, e altre freddo, ma occulta mente; e altresì nel mondo elementale altre coſe calde fredde, macelatamente, o accidentalmente ſi trovano: umidifſime ſoſtanze fon da per ſe l'acqua, e l'olio; ſecchiſ fime la terra, e'l fale. Maicorpimiſti divengono umidi,o ſecchi, allor che conalcuna delle già dette coſe 's accop piano. Le ſeconde qualità daglielementi, e da principi naturali variamente fra eſfo loro meſcolati dirivano. I 12 pori ditutte coſe naſcon dal ſale, gli odori dal folfo, lam durezza dalla terra, e dal fale: la mollezza, e tenerezza, dall'acqua. Ed ecco in brevei lunghi diviſamenti del Mel fonieri ridotti:ne'quali egli nel vero indarno tenta diridur re in un corpo folo, membra cotanto fra effo lor diſcorda ti, che non poffono a niuna guiſa acconciarfi. E quinci ſcorger puoli, che quantunque egli molto ſtelle in fu l'av vifo pernon laſciarſi trarre, e cader col yulgo de filoſofan ti in errore; pur nondimeno non potè affatto obliar le ſcon ce, e falſe opinioni, che cotanto tempo han tenuto maga gnate le ſcuole; le quali ', come faggiamente,il Verulamio avviſa: Elementorum commentum, quod avide à medicis acceptum, quatuor complexionum, quatuor humorum, qua juor primarum qualitatum conjugationes poft fe traxit, tan quam malignum aliquod, infauftum fidus infinitam, & medicine,nec non compluribus mechanicis rebusfterilitatem attuliſje, Maciò che egli poivi aggiugne del ſuo il Meſfonieri, in tut curto,e pertutto inverigmile fembri; ficomcè il dir; che il mercurio freddiffima, emobiliffimafortazaſi ſia;e che ſte colà ne paeſi al polo vicinijed alorcedaltre sì fatte fanfalu che', che lo non mi do briga diriferire, per non logorare fuor di propoſito il tempo. Mada tanti, e sì varj,e sìftra ni ſuoi arzigogoli, nonmai vien fatto alMeſfooieri di co glier coſa che vaglia a dar ragione di quelle apparenze,ché tutto dì nel grande, e nel picciolo li fan vedere.i ': Vuole oltre a queſto il Meffonieri, che di tutte l'azioni del noſtro corpo ſien cagione gli ſpiriti animali, e vitali; lo fpirito animale, dic'egli,è della natura del mercurio, aereos freddiffimo, e dalcervello perlinervi, e perle membrane penetra, e fa il ſentimento, ed ogn'altra azione animales; fi nutriſce della ſalſa, e acquola parte del ſangue; lo ſpiri to vitale è della natura del fuoco, ed egli è il primo a muo vere, e a far impeto nel corpo, e a ſuegliar lo ſpirito anima lé, il quale da per ſeimmobile,e privo di ſentimento farebo be; tragittaſi dal cuore perle vene, e per le arterie infieme col ſangue, e forma i dibattimenti de'polli. Nell'uniones d'amendue queſti ſpiriti conſiſte la vita dell'huomo, e nella ſeparazione, perlo coptrário,la morte. Maconcedaſi, che dal ver lontano non ſia ciò, che divi ſa il Meffonieri,vorrei fapere, onde argomenti egli eſſere lo ſpirito animale freddiffimo, ed immobile, e participar del la natura di quel mercurio aereo da lui ſognato, e paſcerfin. enudricarſi del fale foluto dall'acquoſa parte del ſangue; e come parimenté egli provar poſſa aver lo ſpirito vitale na tura di fuoco, e dar lui il moto, e'l vigore allo ſpirito ani male. Ma formentandoſi continuo il ſangue nel corpo dell'huomo, e comunicando egli ſempremai più, ome no calore a cucce le parti delcorpo, come, e dove por trà mai l'animale ípirito olcremodo freddo, e inmo bile ingenerarſi? Coavien parimcnte poi, che'l Mcf ſonieri ci additi il modo, col quale s’uniſcano fralo ro, el diſuniſcano si farciſpiriti; e altresì, che ſaper egli cifaccia, onde avvenga,che'l caldo eſtremo dello ſpirito yitale non difrugga, e diſlipi lo ſpirito animale; ccoine al lo incontro l'ecceſſivo freddo dello ſpirito animale non am morzi, ed eſtingua lo ſpirito vitale. Laſcio di narrare,quanto il Meffonieri nell'aſſegnare gli uficj alle parti del corpo umano, vada ſovente errato; e quanto egli poco felicemente lt vaglia (non riconoſcendo Je tali ) d'alcune falſe opinioni di Galieno; ma accennerò fol tanto ciò che follemente va diviſando dietro allo in generarſi delle malattie: dicendo, che qualor l'azione dell' animale, o del vitale ſpirito ſia impedita, gli huominiven gano damaloritravagliati; sì che le malattie propriamen te favellando fien tutte negli ſpiriti, e meno propriamente poi negli humori, e nelle altre parti delcorpo; e la cura delle malattie tutte in altro non conſiſtere, ſalvo che in tor via quelle cofe, che impediſcono l'azioni degli ſpiriti je conchiuder, che tutto ciò con cinque generazioni ſole di medicamenti fare agevolmente ſi poſſa. Ma a queſti, cad altri diviſamenti, ch'egli poſcia produ ce in mezzo in facendo parole delle particolari malattie,no fa certamente luogo d'argomenti per moſtrargli fall. Fi, nalmente la maniera delmedicare del Meſfonieriaſſai roz za nel vero, e materiale effer ſi vede. Ma poichè da uno in un altro ſiſtema paſſando fin quì lią giunti lo non voglio trafandar tacitaméte Franceſco Mea. ra celebre medicante nell'Ibernia. Fu coſtui della ſchiera deGalieniſtiin prima: ma avviſando egli poi quanto all'o pera del medicinare mal veniffero ad huopo le vane ciance di Galieno, impreſe a metter fuori un'altro ſiſtema di ra zional medicina; nel quale egli fu tutto inteſo ad accozza. re inſieme le dottrine di Galieno con quelle di Paracelſo, in quella ftrana guiſa appunto, che pittor farebbe, ſe mai te Ita umana fopra un collo di cavallo tutto coperto di penne di varj, augelli e dipigner voleſſe. Forte egli rimproccia tutti coloro che ichimici principj ofano dinegare: cô que fte parole. Et miror profecto qua fronte quiſquam experien tia Scientia omnis, & cognitionis inventrici) repugnare prefumat, nifi pro ratione fufficiat, multos pudere, cos pige me quiequam denovo admittere, quod confirmat& eorum upinioni adverfetur, à quo ne látum quidem unguem recedere Suftinent, ne prius non recte fapuille videantur: multos taria ta cum fatuitate, ne dicam Idololatria, Hippocratem, Ari ftotelem; aGalenum venerari videas,utquicquid ab illis non dictum, non dicendum, quicquid abillis incognitum, no cognofcendum putent; e molto appreffo fi briga in moſtrar, che in natura v'abbiano sì fatti principj; sì veramente però, che non debba a crederſi, che ſian primi; imperocchèegli vuole, che della materia,della forma, e della privazione i quattro elementiſi formino, c'di queſti facciali il ſale, il ſolfo, e'l mercurio, che ſon terzi principi; i quali finalmél te col vario accozzamento loro, quanto v'hanell'univerſo coinpongano, Ed ecco, ſecondo lui, onde formanſi le parti ſalde, e di. ſcorrenti del corpo umano: e particolarmēte i quattro umo ri di Galieno; ne’quali, allor, che il ſale, il ſolfo, e'l mer curio ſtan così bene adattati, che non vengano fra ello lo ro a tetizone, n'avviene la ſanità, e per contrario lemalat tie. Diviſa egli, ſecondo l'avviſo dechimici, lungamente de'ſali; dicendo, che altri ſe ne ravviſano nella flenna ſas lata, come è il fal comune, e'l ſalgemma; altri nella flem ma acetofa, e in cerca fpecie di malinconia parimente acç. tofa, come è il ſale armoniaco; e così ancora diſcorre ra gionando degli altri ſali, che ſono negli altri umori. Vna sì fatta dottrina fu introdotta primieramente nelle fcuole per alcuni ſeguaci del Paracelſo;immaginado eglino con ciòfare,che celtaſſero le perſecuzioni chelor faceano i Galieniſtis ma lor non venne fatto il diſegno; anzi, come in tute gare civili avvenir ſuole, cui non voglia ad alcuna delle fazioni attenerſi, eglino divennero d'ambedue le par ti nimici; e come alga, o ondamarina, che da'contrarjvé. ti ſia, or quinci, orquindi agitati, così l'opinioni di coſto ro furono da'Paraceláſti, e daGalieniſticótraſtate. Il per chè anche noi ſenza quì intertenerci immaginamo, che da quel, che di Galieno, e di Paracelſo addietro abbiam di: viſato, rimanga ilſiſtema del Meara baſtantemente impu gnato; imperocchè, ſe ne con gli elementi, ne co’principi chimici poſſono i varj avvenimenti del corpo umano fpię garfi: di ſeguente è da dir, che ove ancor vero foſſe (il che non potrebbe a niun modo concederſi)che i princpj chimi ci daglielementi ſi formino, ne men coſa, che monti una frullo Gi farebbe mai a pro della medicina ſcoperta. Quanto nocimto recar poſſa a ben filoſofare il non eſser l'huomo'da prima indirizzato per diritta via, il ci fa mani feftaméte vedere Frāceſco Gliſſonio;il quale comechè d'ala tiffimo intendimento fornito, e nella notomia, e in alte cofe alla medicina appartenenti oltremodo avanzato fi foſ: fe; impertanto non ſeppe egli sì, e tanco ſchivare le ſcom ee opinioni nella gioventù appreſe, che intriſo alquanto, e guaſto non ne rimaneſle. E ben ne diè egli manifcfti ſegni nel ſuo ſiſtema di razional medicina, allor che veriſſimo giudicando il diviſamétode'Chimici dictro a’principj del le coſe naturali,vuol, che il mercurio, o ſia lo ſpirito, e l'olio, c'l ſale, ela flemma, e'l capo morto, o terra dan nata fian l’ultime particelle, nelle quali le coſe o per ingen gno, o per induſtria umana folver li poſſano. Ma dicia avendo lo altrovci miei ſentimenti paleſati, qon fa luogo al preſente, che lo di vantaggio ncragioni. Credeegli accordar queſte cinque ſoltanze con gli ele menti d'Ariftotele, dicendo l'elemento del fuoco allo ſpiri to riſpondere, e quello dell'aria all'olio, e quel dell'acquz alla flemma, a quel della terra alla terra dannata, e allale. Ma in buona fe,Signori,chi non avviſa, che'l fuoco non abbia punto che fare col mercurio il quale comechè foco siliflimo ſia, e che le particelle, che'l compongono lian, piccioliffime', nonſono però elle tali, che tutte quelle ope razioni, chedalfuoco naſcer veggiamo, adoperar poſla ao. E ne men certamente l'olio potrà mai quella attegné. za coll'aria avere, la qual peravventura immagina il Glif fonio; perciocchè l'aria, comechè diſcorrevole, c vagas oltremodo ſia, non è perciò umida, ne ad accenderſi,o bru, ciare acconcia, Ma avvegnachè l'acqua alla flemma ſia pure in qualche parte conforme: che compenſo prenderà egli il Gliſſonio a voler duc diverſillims cofs, quali ſono il Mmm file, slaai Cáte jela terra dannata, porre d'accorto, e far ch'una coſt fola, e un ſolo elemento elle fiano E fe pur v'ha infra loro qualche attegnenza, nondimeno fallò egli no poco Ari ſtotele a porre quattro, e non più toſto cinque elementi, e principj delle coſe; perchè ſcompigliata', e ſconvolta ner diviene oltremodo la filoſofia d'Ariftotcle: la qual folle mente il Gliſſonio con quella del Paracelſo ſi ſtudia di ri conciare. Ma ſufficienti non parendo si fatti principj al Gliſſonio a falvar l'apparenze della natura, egli in luogo di ſpiar ſottile mente,ſicome far doveva,i vcri principj onde fiicópongono quelli, al Paracello, e all'Elmonte per dappocaggine ſi ri fugge, e togliendo da foro ciò, cheeſli degli Archei mil lantando dicono: e giugnédovi di vantaggio molte altres fraſche del ſuo, ſcioccamente con si fatti ripari di riſtorar la ſua cadente Gloſofia s'argomenta: dandone apertamente a divedere con quanto poco ſenno imbolato egli aveſſe il piggior di que’libri di que'valent huomini','tralandando d? altra parte coranti buoni, e pregiatiſſimi diviſamemi, chę coloro in altre coſe,e fpezialmente intorno alla via da do ver curar gl'infermi han laſciati Almondo, che giacea pien d'alto errore.". Dice adunque il Gliffonio eſſer l'Archeo un cotale ſpi rito reggicore, il qual negli ſpiriti di qualunque coſa,il.ca lor vitale, e attuale riſvegli: e muova, e rilievi tutte le cor loro facoltà natūrali: e altri ſoſtegna: e ciaſcuna natural parte dal corrompimento difenda: tenendola buona fperā. zagli fpiriti, iquali egli in feſta, e lietamente fa vivere. Quindi il Gliffonio le varie generazioni degli Archei di ftintamente va rapportando, ein prima quella dell'Archeo dell'uovo»; il qual primieramente eglidice, che habbia lo fpirito ſuo innato, il quale a tutt'altri elementi dell'uovo fi gnoreggi; e oltre a ciò contenga ancora, ma ſol virtualmé te l'infiuffo vitale, e animale, e che fia ancora delle tre prime facoltà naturali fornito, le quali egli percipientes, appetente, e movente chiama, da una ſpezial diſpoſizione circonſcricte, c terminate. La facoltà percipiente, dicu, egli, che l'Idea dell'uovo, e quella ancor dell'animale dam ingenerarhi, o della pianta in ſe comprenda; imperciocchè l'Archeodi quelli, non ſolamente ſemedeſimo,e gli effer, ti, i quali egli può produrre, conoſce; ma l'idea ancora dell'animale, o della pianta ravviſa; ſappiendo oltre a ciò il modo' ancora, e l'ordineditutta ſua formazione, e qual fa tempo acconcio a mandır avanti le ſue operazioni. La diſpoſizione della facoltà appetente compréde in ſe l'amor della natura rappreſentata per l'idea,e una cotal brama di quella limitata, sìche ſoſpeſa reſti laſua potenza infino al sempo opportuno. E ultimamente, la diſpoſizione della faç coltà movēte porta con ſçco la ſua virtù formatrice, euna tanta operazione valevole, e acconcia, maches'indugi all'opportunità dell'attualeformentazione. Oltre a ciò vuole egli, che l'Archeo nell'uovo anche dopo l'eſſer fuoriquello uſcito dall'ovaja,ligato alquáto ję pigro nerimanga; perciocchè le ſenza il conſiglio della chioccią, o d'altro ſomigliante ajuto la formentazion dello animale rentaſſc, ad infelice fine ogniſuo ſtudio riuſcireb be. Quindi egli alquante propoſizioni pertinenti alla na. tura di quello va ſpiegando, facendoſi a credere ſe averba ftantemente ogni ſuo diviſamento ſpiegato per gli avvifi dell'ingegnoſo Malpighinell'uovo. L'Archeo, dice egli,di tutto il corpo già formato è di tre maniere: naturale, vita le, e animale; il primo in due ſole coſe è differente da quel ch'egli è già ſtato nell'uovo: l'una fiè, che egli in quello avca già ſolamente la forza d'operare: e poi nel corpo for mato, in atto già opera; e l'altra ſi è, che al preſente egli in un caſamento già fabbricato abita, e dimora: al quale in, acto egli fignoreggia. Ha cgli due miniſtri generaliſciò for no l'Archeo vitale, e l'Archeo animale; e oltre a coſtoro di diverfi altri particolari miniſtri egli è fornito, quali ſono ſenza dubbio gli Archei del fegato, de’polmoni, del ven tricolo, della matrice, e d'altre parti del corpo a qualche uficio dalla natura dell'animal ſorteggiate. L'Archeo vi tale, licoine il ſole è di tutto ciò, che la terra produce prin çipal cagione, così eglią tutte parti del corpo l'effetto iq Mmm 2 fluiſce, comechè da le ſolo niuna coſa egli ſpecificar polfa. L'Archeo animale agli ſpiriti animali tutti è ſopraftante, i quali nel ſucco nutritivo abitano, e dimorano. E dalla perturbazione, e rimeſcolamento di coteſti Archei vuole egli, chele malattie tutte ne avvengano. Ma egli ſarebbe un logorar vanamente le parole, ſe fil filo annoverarc Io vorrei i diviſamenti tutti del Gliffonio intorno agli Archei. Dirò ſolamente apparer manifeſto, ch'egli in luogo di ſpiegar, ſicome egli intende, la natura degli Archei, il che traſandato a ſtudio venne dall’Elmon te, vie più oſcura, e inviluppata la rende. E doveva pure cgli avviſare, che di quelle cofe, che nonci ſono, ne eſſer poſſono, quantomaggiormente ſe ne favella, tanto men ſe i nedice;ne ſi può ſenza maraviglia conſiderare, come uns sì ſottile, e avveduto notomiſta, qualſenza fallo ſi è il Glif ſonio, eſſendoſi ſottilmente argomentato d'inveſtigar con fua fatica anche le più merome bazzecole da altri poco curate, foffe poi sì vocolo, e traſcurato in ciò, che folle mente ammannare aveſſe potuto cotante ciuffole,e giunte rie, non meno a' ſentimenti, che alla ragion lontane. Ma non tanto del Gliffonio, quanto di tutti quali i va Ient huominiun tal fallo ſi è ſtato; i qualiper aver più mi nutamente le maraviglioſe operazioni della naturaavviſa tc, diffidando per for manchezza d'inveſtirne le cagioni corporali, e far che da quelle tutte dipender poteffero,fi rifuggirono a sì fatte fraîche, e ne compoſero cagioni fia tc, e favoloſe, onde natura. Diſdegnofa fen 'duole, e fene'ricbiama. Maſopra tutti in ciò è certamente da biaſimare il fallo del Gliffonio; il qual manifeſtamente affermando, fe cfſer pago, e contento a ' principj chimici, e a que primicorpi, che coloro chiamano componenti, avvegnachè egli con felli poterſi più olere coll'intendimento procedere traſcor: se egli poi ſconciamente a favolar degli Archei, e sicon fondere, e invituppar la fua filoſofia con arzigogoli, non men vani, e ridevoli di quelli de'folleggianti peripatetici Ma che è ciò, ch'egli dice de’pori di noitra buccia,negan do affatto quegli eſſerci mai? c pur dice egli, che perquel la ſottiliſſimeloftanze fuor del noſtro corpo continuo tra pelino. La qual coſa nel vero cotanto ridevole fiè, quan to le pruove ancora ridevoli ſi ſono, leqnali egli ſciocca mente a ciò raffermar va cogliendo. Ma chi non iſmaſcel berebbe delle riſa in avviſare i forciliſfimi argomenti, co' quali ſi ſtudia, e s’affatica il Voffio giovane di fare in ciò le fue parti? Tralaſcio a bello ſtudio, comeche aſſai vi ſarebbe da di re, ciò che egliintorno alle maniere di ſeparar le parti de corpimiſti ragiona · Solamente accennerò quanto egli di que’ſcioglimenti diviſa, i quali, ficome egli dice, avvengo no per congregationem, vel attractionem magneticam, fi ve fimilarem. E in prima va egli rapportando quelcomun proverbio: che'l ſomigliáte del ſuo fomigliante goduzquint di egli loggiugne, che ſicome gli animali dilettanli oltre modo di quelli della tor generazionc, così anche eſſer ra gionevole ad argomentardelle coſe, che nonabbiano ani ma; imperciocchè ciafcuna coſa del mondo per narurat tz Jento la confervazion di se difidera,la quale da’ſomiglianti avviene: e fugge il ſuo diſtruggimento', il quale per li ſuoi contrarj le incontra. Finalmente cglicoichiude: ex dictis conftat, quod per attractionem fimilarem, five magneticam intelligam.nempe alle &tationem, five incitamentum, quo cora pus naturale ad aliud fui fimile fertur. Ma qual coſa in buona fe più ſciocca, e ridevole può per travolto, e ſcempiatocervello immaginarfi giammaisquí to queſta del Gliffonio, il quale a cutte inſenſate foſtanze il conofcimento, e'l poterf a fua balìa muovere actribui ſce? certamente fe di baona ragione voleva egli filoſofare, dovea pure avvifare,che le cofe, che ſtanchete, e fenzów movimento, ſe già non fono animate, tali ſempre fe ne ſtao no, infin che per urto da altricorpi tocche, e fofpinte di fuo luogo non partano.Eſe non piace pure al Gliſſonio ciò, che naturalmente filoſofando ragionan que' valent' huomini, de qualiegli l'opinion rapporsa incorno all'an dar del ferro alla calamita, doyea ben egli alcra più ragio nevol inaniera inveſtigare, onde ciò ayviene. Ma direbbő per avventura coloro iquali follemente avviſa il Gliſſonio aver con ſue ragioni abbattuti, infra l'altre coſe eller nella calamita una tale ordinanza di pori dirittamente dall'aſſe, il qual dicon magnetico, del quale eſcan continuo fuora particelle ſottiliſſime, e ſpiritali aſſai: e che ſian nel ferro i pori pieni di particellemagnetiche travoltę infra loro, inviluppate per maniera, che entrandovi le ſottiligime para ticelle fpiritali, che efcon fuora della calamita, faccian, l'uficio della formentazione riſvegliando in quelle il movi mento; le quali poi movendo verſo il polo magnetico, dis rizzino, ci fianchidel ferro forte percuotano: e sì quello co’loro colpi innanzi {pingano; ma nella calamita -ancora farſi un cotal rimeſcolamento di particelle ſpiritali, le qua. li urtano in eſſa, e ancor la ſpingono intanto, chevicende volmente incontro moyendo dagl' innumerabili corpice ciuoli d'entro ſoſpinti, corrano a cozzarſi. Ne ciò deves punto recár maraviglia, che la calamita ancorada ſua parte fi muoya, comeche più tarda, e lenta i perciocchè ſe nel acqua il ferro, e la calamita ſi pongano,da qualche legno o altrá ſomigliante leggiera ſoſtanza ſoſtenuti, intanto che ſopránocanti poſſano andarea gall.2, ſcorgefi toſto il ferro notar verſo la calamita, e la calamita d'altra parte verſo il ferro. E ſe ciò pure non ſoddisfaceſſe al Gliſſonio a voler cotanta maraviglia ſpiegare, dovrebbeegli in alera, e altra maniera-la cagione di quella inveſtigare. Maad altro fac cendo paſſaggio, èegli ſommamente damaravigliar della troppo ſcimunita ſchiettezza del Gliſſonio; perciocchè có tro i propjſentimenti talvolta alle comuni opinioni del vul. go laiciali ſcioccamente traportare: ficome,per tacer d'al tro, manifeſto avviſaſi in ciò che egli de'quattro volgari umori va ragionando; cioè;che con util grande della media cina un tal diviſamento rinvenuto foſſe: e che ragionevol mente damedici feguir debbafi, ficome loro molto pro fittevole, e acconcio a dover porre in opera le purgagioni, e altre ſorte di votamenti; eche Galien d'altri diviſamengi degli umori infrămetterſi non volle, ficome poco utili alla medicina. Madi ciò egli toſto pētuto dice eſſervi un quin to umore, cioè a dire il ſucco nutricāte, il qual giudica egli effer soinmamente a ſaperſi neceſſario,no che utile a chibe neje lodevolmente apparar voglia la medicina; e pure il fuo Galien di quello nulla ragiona, ne moftra certamente pun to ſaperſene. Ne è vero ciò, che egli millanta di Galieno, eſſer quello non poco commendevole per avere cotal divi ſamento da primaritrovato; concioſliecoſachè poſto che loda pur nedoveſſe all'inventor ſeguire, certiſſima cofa. ſia, che la dottrina de’quattro umori molte centinaja d'an ni, anzi che Galien naſceſſe divulgata già foſſe nelle ſcuo le della medicina. Ma ſe il Gliſſonio intéder vuole di que. gli uinori, che in varie, e varie parti del corpo fan dimora, non mica già quattro, ne cinque, ma molti, e molti egli no ſono, de' quali alcuno non ſi è forſe ancora ſcoverto. Nelle vene, e nelle arterie poi non trovarſi queſti quattro umori, ſi è moſtro già; ed i più ſcorti,e celebri fra'Galienia ftimedeſimil'han conoſciuto. Vn divifamento poi quaľ è quel di Galieno dietro agli umori, che non ſi da niuna cu. ra d'inveſtigar la natura delle coſe, non ſolamente utile niuno, ma danno graviſſimo alla medicina ha recato Maquanto al medicare, comechè ſcorto molto, eave veduto egli ſi moſtri il Gliffonio in conſiderando una fiata, che'l trar fangue nella Rachitide niun giovaméto rechi allo infermo;nonperò di meno non ardiſce eglia riprovare una sì biaſimcvolcoſtuma dagl'Impirici in Inghilterra, ficome cgli afferma, introdotta. Non propone egli medicamen to, che volgar non ſia; ne contento d'un ſol medicamento, molti e molti inutilmente nemeſcola inſieme non men che gli altri medicanti ſi facciano;e in ciò,per cacer d'altro, da egli manifeſtamente a divedere quanto mal fornito'lia d'efficaci, e valevoli medicine. E ciò baſti avere al preſen té del ſiſtema del Gliffonio accennato; il qual per altro è certamente non poco da commendare; maſſimamente per la ſomma, e maraviglioſa diligenza, e ſollecitudine da lui pſara nelle coſe dellanoromine Ma di troppo lungo tempo abbilognerei, fe lo voleli eſaminare i fiſtemi cutti dellamedicina dell'Ogelande, del Regio, del Moebbio, del Carlettone, delBartoli, e d'altri ſcrittori. A baſtanza potrà ciaſcuno in leggêdo le loro ope re da ſe fteſſo accorgerſi, che il più di loro poveri d'intendi mento, e ſcarſi di partito per quanto facica vi duraſſero,ra de fiate han potuto dar paſſo ſenza la ſcorta d'altri ſetteg gianti,l'opinioni de'quali tutto cheda loroſtravolte,abbia mo noi a ſufficienza conſiderate,e riandate; e altri di loro, fra'quali il Tacchenio,il Travagino,il Sualve,ilFlúdize'l Fo lio fon così groſſi, e materiali ne'loro diviſamenti, che non fa huopo,che ſe ne abbia a far menzione alcuna particola re: Adunque chiaramente conoſccſi, che da que primi tempi, che ebbecominciamento la razional medicina lino a giorni noſtri,per quanta induſtria, e diligenza, che da'fi lolofanti antichi, emoderni vi ſi fia adoperata, e per qua te coſe per la morta, e per la vital notomia liaoſi nelle ani. mali, nelle minerali, e nelle vegetali ſoſtanze novellamen te ſcoverte, e per quantepruove, e ſperienze da'ſaggi, u avveduti medicanti in sì lungo proceſſo dicempo nelle cus te delle malattic fieno adoperace, non ſe n'è potuto giam mai rierar nulla di ſaldo a ſtabilir per cercano conoſcimer to, e per vera ragione dottrina niuna. Ma non dee ciò re car maraviglia a cui tanto, o quanto alle ragioni pongas mente; per le quali, s’Io pur non vado errato,apercamen-, te conoſceſi quanto ad huom’malagevole, anzi impoffibile affatto riefca lo ftabilir luftema alcuno di razionalmedicin na; e ſe pure dalle preterite.coſe giudicar delli di quelle, che debbono avvenire, per tanti,e canti, che infelicemente, vi ſon naufragaci non mai ſi vedrà capitarne a ſalvamento ſeggettante alcuno; e ficome... Chi folca il lido perde l'opra, e'l tempo, così avverrà certamente a ciaſcun' altro, che tenterà una ſimile impreſa 3 ne potrafli così nel filolofare in medicina, comenell'adoperarla prometter ficuramente d'aggiugnere a ſaper la natura de'mali,e come, e perchè ne noftri corpi s'ingenerino, e come riparar vi ſi polia. Anzi, o infeliciflia condizione di noi mortali ! nel continuo ſu buglio, e rimeſcolamento dellamedicinaper fatica, e di ligenza, che adoperata viſia, chi mai fin'ora avviſare ha potuto, che coſa ſia un piccioliſſimo catarro, che ne mo-. leſti? e. venne queſta veritàmolti, e molti ſecoli avanti co noſciuta per tacerdi Pitagora)da Empedocle,da Acrone,da altri antichi filoſofáci:e da Platone, il quale della incertezza della medicina favellado ebbe a dire ήν δε καλούσε μενΙατζικής βοήθεια δε πε και αύτη χεδόν όσον ώρεψύχα καύμαπ ακαϊρα, και πάση τοίς τοιούτοις ληίζονταιτην των ζώον φύσιν, ευδοκιμον δε ουδέν τούτων είς αφίαντην αληθειάτην άμεσα γαρδόξοις φφάται τοπιζόμα. Venne altresìconoſciutaqueſta verità, oltre a Seſto Empirico, da Cornelio Celſo:allorche diſſe della medicina favellando: eft enim bęc ars conjecturalis,neq;ei refpondent,non folum có. jecture ſed nec etiã experientię per; nulla diredel Cardi-: nal Cuſano, e d'aleri moderni. E a ciò ſenza fallo riguar dádo i più ſaggi, e ſcienziati popoli della Grecia, quali ve ramente fur gli Acenieſi: allor che maggiormente in Aten ne fioriva la filoſofia, e le buone letterc, traſcurarono la medicina, no facendone niun capitale, come ſi può vede re nel Pluto d'Ariſtofane Ούκούν ιατρον εισαγωγών έχρήν τινο Tis dñi iarsós ész vũv šv tñ wóriet;.. Ούπ γας ο μιθος ουδέν έσ', ούθ ' η τέχνη.. E dietro agli Atenieſi anche iRomani; i quali avveduti, c ſagaci in yotar dalla Grecia il copioſo teſoro di tutte le buone arti, e ſcienze, la medicina ſolamente d'imprender non curarono; anzi dice Plinio: Populus Romanus neque 46-; cipiendis artibus lentus: medicinæ etiam amicus: donec ex pertam damnavit; e dagli Eccleſiaſtici ſcrittori vien anco l'uſo di sì fatto meſtiere ſommamente abborrito, e danna to; infra'quali il Balſamone Patriarca d'Antiochia così dela; le manchevolezze di quello avveduto, ne manifeſta: avve-, gnachè la medicina pur quella veramente fia, che produces © riſerba la ſalute ſecondo lo intendimento de laggi: non dimeno non può ella al ſuo fine aggiugnere; ed Arnobio;, Medici curătanimal humi natū, ut confisú fcientia veritate; fed in arte ſuſpicabilipofitum, conjecturarum eſtimationi bus nutans; e'l medelimo ne ſcrive llidoro Pcluſiost: clo Nnn niin 1 406 Ragionamento Sesto migliantemente con molra vaghezza Stefano Veſcovo di Tornaja: Hippocratisin ebo Galeni diſcipulos, ut mihi confu lant conſulo: incerta famper ab iis oracula deportans, qui in vafevitreo coloris, & fubftantiæ peccata diſcernunt. Perchè 9. Chieſa, come l'apportaro Patriarca Balfamone ne nar ra,Puro, e'l meſtiet del medicare a fuoi Cherici interdiſſe: adunque, egli dice, non è certamente ragionevole, che il Sacerdote, oʻI Diacono, o altro qualunque Cherico tra fcurando un minifterio irrepréfibile, che già impreſe y oraw s'impieghi ad er meſtice mutevole, edubbioſo, e alfai fo vente fallace. E S. Bernardo volle, chei fuoi MonacidiS. Naftagia nelle loro malattie non fi ſerviſler: punto de' me dici; al che riguardando per avventura Franceſco Petrarca huom di ſaldo, e intero giudicio,ſcrivédo a un ſuo amicogli diede queſto ſalutevol conſiglio: Nulla eft rectior ad falute via,quă medico caruifje. E certamente, molto ben per mio avviſo venne conoſciuto al Petrarca,quel che dopo lui avvi sò l'avvedutiſſimo Franceſco Berni, 2.4. La medicina como fue erbe, e coſe diri Che fa? caccia carote a tutti mali..'.... Infin che l'huom perſempre fa ripoſe. Queſtofece ella al figlio d'un gran Rede noftri tempi; il qualeavvedutofi de vaneggiamentidella medicina, alla fine fece boto scomedarra Giorgio Orni: Si Deus aliam prolem largiatur, nullo se ampliusmedico ufurum. E per ciò oltremodo fu ſaggio l'avvifo diquel profodo cd ampio pelago d'ogni più rara, ed antica doctrina Giuſeppe della Scála, il quale ricusò,come narra Daniele Einlio,ognicoſi glio de'medicāti nell'ultima fua inferinità; ptaceredi quel gran filoſofante Franceſe; il qualecoll'altezza del ſuo inté. dimentoporè montar ſu la vetta del più belſapere; Io di co Michel diMontagna, che nelle ſue infermità rifiutò sê premai l'operade’medicanti: defichepoſcia valevoliflime's ragioni e' ci reca ne'ſuoibelliſſimi volumi. Neparmi qui da dovere trapaſſar lottó filenzio quel convenente di Do menico Sala, celebre lector di medicina nella famofiffima ſcuola di Padová; il quale canto non potè tenerli, che alla fine, un giorno non apriffe a' fuoi fcolári quel che e' del la Del Sig.LionardadiCapoa. 467 la medicina ſentiva, inqueſta difinizione: Medicina ef ars * illudendimundum, &à qua totus mundusdelufus eft. La qual definizione porſe cagione a Rafael Carrara di chiarir, ſi affatto della vanità d'effa, di tralaſciarne l'eſercizio, e di cantare in quel ſuo giocoſo ſonetto Ben diſe quel grand'huom lettor primero Nela Città d'Antenore fondata, La medicina deve eſſer chiamaja Arte da mincbionar il mondo intero. Ma chealtrondegir richiedendoteſtimonianze di colo ro, che a faccia ſcoverta abbia la medicina guarata. Non folea Mario Zuccaro (a ciaſcun di noi ben conoſciuto ) no ſolea, dico, ſovente dire a' ſuoi ſcolari: miferi, ed infer lici noi, félmondo arrivale a faper maile,debolezze nofire, che ne meno ne poffiam promettere colla noſtra médicina d'a yere a guarir un picciolo carbõcello,certamēte chene cõverreh be apparar altro meſtiere? E quinciè avvenuto poi,c'huomi ni d'acuto intédiméto, e di ſano giudicio, e di profondo fą. pere, e di nobil'animo forniti,pulla abbian curato d’eſer citarla; infra i quali per tacer.canţi antichi diligenti inve ſtigatoridelle coſe, ſavj interpetri della natura, ed altri huomini inſigni dc'tempi noftri, lol faro menzione del no ſtro Col’Antonio Stigliola, riſtoratore della Pitagorica filoſofia: e di Gio; Alfonſo Borrelli chiaro, ed eccellente in ogni ſcienza. Anzi quinciè egli avvenuto, che i medeſimi razionali medici,i quali moſtrano che più diciaſcun'altro tengono a gran capitale la mcdicina, l'abbjan, nel maggior hyopo mcNain son çalere. Intorno allaqual coſa miricorda d'un medico infra’più venerandi di queſta noftra Città,ch'eſſen do non ha guari dell'ultimo ſuo male infermato, e vani veg gédo riųſcire,e ſenza pro gli argométituttidella ſua medi cina, diſperato alla fine miſeſi in mano d'un famoſo fpe -ziale; ed eſſendoſicolui una volta rimaſodi viſitarlo, egli impaziente entro una carrozza fattoſi, un picciolo in atc raſſo allogare, comepotè il, inen male; alla bottega delo ſpeziale andollene a richiamarſi agram ente della graſcura tezza dilui; cd avendogli par iſcurarſi colui detto: A voi Nnni non fa meſtieri la mia opera, imperocchè quando vi foffe in grado porreſte avereil Sig. tale (così un principaliffimo medico nominandogli, e di'lui amiciſimo) allora tutto crucciato l'infermo ripigliollo dicendo, io vo'da voi ſola mente effer medicato; e ſareiben folle, ſe volelli mettere in balia delle ciarle di lui la cura di mia ſalute. E dalla medelima incertezza della medicina avvien,che P lo più i medici, ſe'l vero avviſanomolti,e graviſſimi autori Sien così ingorda, e sì crudelcanaglia; poichè non potêdo mercè della lor opera promettere alcu na coſa dicerto, abbiſogna loro, che alle giunterie, e alle frodi abbian ricorſo peraccattar lode,ed eſtimazione. Ne fon elleno mica nuove le loro aſtuzie: ma fino a'tempi di Galieno, per tacer de’più antichi, eran ſommamente in vi gore.E cui non è noto quel celebre diviſamento di Galicno, tolto per la più parte da Ippocrate, ov'egli mette nella via chi che ſi voglia, acciocchè buon medico divenga: in que. fta guiſa? In primad'ogni altra cofa è da diviſar delle viſi tazioni de' medici; perciocchè alcuniinfermi rade, e altri ſpeſſe volte deſiderano eſſer viſitati.Non dec egli il medico ove il malato riposādo dimora étrar facédo romore co'pie di, ſicome fanno alcuni; o alzando di ſoverchio la voce: acciocchè ſvegliato colui non abbia a lagnarli, che gli ſia rotto in teſta il ſonno. Ma i ragionamenti de'medici in al cuni ſono ſciocchi, e ſenza ſenno, ſicome per rapporto di Bacchio, d'un cotal Callinatte racconta Zeuſi: il quale ef fendo da un infermo domandato,' ſe di ſua malattia morir doveffe, rifpofe con quelle parole, ει μή σε λητωκαλλίταις γά yato, e ad un altro infermo ſomigliantemente riſpoſe: Κατθανε και ΠάτροκλG- όπερ στο πολών αμάνων. Morio Patroclo ancor di tepiù degno. Oltre a queſto dee effer il medico affettatuzzo della per ſona, e grazioſo in entrando, e in ſedendoſi, acciocchè nó gli ſiano fatte le ſcherne; ma non cotanto tronfio, e traco tato, ina mezzanamente grave, ſe non ſe per avventura amaffe meglio l'infermo vederlo alquanto modeſto, e umi le, o di ſoverchio altazzoſo. E ſomigliante dobbiam noi dire de’veſtimenti del medico, i quali ancoramezzanamé te debbono eſſer foggiati, ne cotanto ricchi, e nobili, che troppo tracorato il dimoftrino: ne cotanto ofcuri, eruſti cani, che il facciano poco a capital tenere dove egli ufaw; ſe non ſe ancora agli infermi, otroppo ornati otroppo vie li piaceffero. Così anchela tonditura de'capelli eſfer dee a grado degliinferini, i quali egli medica; perciocchè ins corte d'Antonino padredi Commodo,ciaſcun famiglio per imitar la coſtuma dello Imperadore, fino alla cuticagnato, devafi; perchè Lucio chiamavagli tutti Mimi; e per con trario i famigli di Lucio lūghe,e belle chiome nudrivano. I medici ancora aver debbono l'unghie nette, e ben forbice; e fe per avventura putiffe loro il fiato, o le dicella, o tutta la perſona,a modo di becco, fpiacevole odore gittaſſe, fi debbon eglino d'odoriferi unguenti, od’acque nanfe for nire, prima che ad altri medicar fi preparino. Ma purvoleſſe Iddio, che queſti, e non altri foſſero i lo ro artificj; eglino di vantaggio ricorrono alle frodi, alle in vidie, alle maladizionije ed altre illecite ſtrade, acciocchè fopra gli altri avanzarfi poffano, e maggiormentein pre gio, e ſtima ſorinontare. Così vedeli, che un medicobia fima; e danna i medicamenti dell'altro; tutto che que'me deſimi ſiano, ch'egli appunto diviſati n'avrebbe, s’a lui foffe toccata in prima la volta. Al quale, ed anche pega gior misfatto non vergognoſli Aſclepiade di confortare i fuoi ſcolari, fe vogliam dar fede a Celio Aureliano che'l rapportascosìdilui dicendo. Primo etenim invidiosè jubet fi qua ante ipſum medicus adhibuit, repudianda. At fi non adbibuerit,tuncprobanda, tanquamlegitimaputans ut hæc aliis adhibentibus noceant, ipfomedeantur. Earrab, biato ſeguace & Afclepiade moſtrolli il famoſo Gabriel Zerbi, allor, cheſcriffe: Medicus aliorum remedia ne lave det,utſupra vulgaresfapere videatur; e l'aſtioſo Teſſalo fpinſe l'Imperador Nerone a diſpregiar tutt'altri: rabies quadă,comenarra Plinio, in omnisævi medicos perorans. E d'un tal medico ne narra il giuriſconſulto Alfeno: medicus libertus, quod pataret, fi libertiſui medicinam nonfacerevt, multo plures imperansesſibi habiturum, poftulabat, ut feques rentur fet; netie opus facereni, Ed'un altro medico narra Calliodoro, che delbarbaro Tiranno Teodorico un sì fat, to privilegio iinpetraffe: inter faburis magiftros folusbabea, ris eximius: & omnesjudicio quo cedant, qui fe ambitiones maruzcontentionis.excruciant; eſto arbiterartis egregie,e04 rumquediſtingue confli& us, quos judicare folusfolebat affe Etus. Or li potea penſarmai ſcimunitaggine maggiore di queſto maeſtro Scimmione? Egli aveva a ſedere a ſcrannaa giudicar le più intratriate quiftionidella natura, come ſe la medicina forſe arte da mattonar le ſtrade, a da far bambuc cj; o comeſemonna Natura ſtata foſſe una maſſaja fante, ſcá, preſta a ſeguire icomandamenti del Sere. Ne è da die favolofa affatto la novella di que’medici, che per uggia ze mal talento guaſtarono, e atterrarono diſpetroſamente; bagni di Pozzuoli; e di que'ribaldi ancora, che il mede fimo ferono alle pregiatiſime acque medicinali della valle d'Anfánto, di cui ancor vive la famaappreſo que delpae ſe Irpino. Perchè ragionevolmente forte l'avvedutiſfuno Pietro d'Aponamorde, e sfregia il medico, chiamandolo talora: Invidie pelagus, derrationis organum, ambitionis perforatam clepſydram;aliena veritatis contradictorem gar. rulum, propriæ ignorantia conftantiffimum defenforem, & inexcufabilem ægrorü neglecturē:c ancor faggiamente avvila il Magati colà ove fi lagna, che'l ſuo govello modo dime dicare non avrebbe trovato gran fatto ricevitori: da che no- sébrava di molto pro.aʼmedici,i qualimzi ſempre fono alla propia utilicà,e al vil guadagno intefi;foggiugnédocgli: denociniis, atque affentationibus, ut potentium gratia uti ad queftum poffint, facram medicinam fædare,c libiitfis æter nas infamiæ notasinurere nihili faciunt. E Giulio Celules della Scala nella fua poetica, de’medici parlando: turban, dice, videmus à primis literarü rudimentis continuo ſe ipſam eo fenomine venditantem, invidam, maledicam; cbtrecta tricem; novam ſpeciem cynicorum yavaram, temulentamus Supinam, ignavam fimul,asq; ignaram. E GirolamoCar dano di finiſſimo giudicio; e più che altri del meſtier della "incdicina intcndcnte, vuol; che da eſa neceflarianente 5 avvegna,che taliticnoquei, chefeſercitaiio: medicina ! facit, ſono le ſue parole,nonreruin memoris, fed verborü:1 callidos y verſatiles ingenio;inuidos avaros; idolofos, las boriofos, non ingeniofos, de minime graves s opus enim coni rúm, d exercitatio minusquam liberalis eft: e altrove pa rimente de medici avea detto: funt autem improbi fermèi omnes noftra ætate, adeò ut nihil pejus excogitari poffit. Perchè gli ftrolaghiallogando la medicina conſervatrices ſotto labalia del Toro, e di Venere, onde huom fi consi dace, per quel che eſſi dicono,ad ogni force d'impudicizitz e di diſonore: c la medicina curativa ſotto quella diMarte, edello Scorpione, fer gran fenno a dovere sì fatti fregj in veſtire, come ne diviſa il mentóvato Conciliatore; il qua-> le ſoggiúgne, chedalle ſtelle medefime, onde venir ſuole l'eccellenza de’medici nel for meſtiere, vēga anche loro la malvagità de'coſtumi; perchè finalmente ei conchiude,um", eccellente, e perfetto médico nonpoter eſfere ſe non fer fcellerato huomo, e malvagio; ed avvegáachè vani, efol li fien ſempremai da giudicare i cicaleccj.delfa ftrologia: è nondimenodacredere, chegl’intendenti dell'arte,ciò cut to a bella poſta fingeffero per adattár le coſtellazioni a quelle coſe, chetuttogiorno nel meſtier della medicina', e ne’profeſſori diquella s'offervano's Má chi mai ilmaltalento, e l'uggia demedicinarrar ba ftantemente potrebbe, e come ſtizzoſamente l'un l'altro tutt'ora ſi carminano, efimalmenano. Egli è coſa pur manifeſti a ciaſcuno l'avere gli aſtioſi medicidi Danimarca tracollato dalla grazia del loro Rè it benigniffimo,e inge gnofifſimo Ticone della perduta ftronomia famoſiſſimo ri. ſtoratore, intanto, chegliene fư tolta l'Iſola, e la Rocca d'Vraniburgo, di cui egli era Signore: e sité tanto mara vigliofe operazioni', é ordignidella ſtronómia, ele nobi lißime chimiche fucine rovinarono, che appená oggi,non ſenza lagrime, fe neriſerba la memoria: E l'ombra foldi si gran corpo appare. Ma ſcelleraggine così grande di tradir nemichevolmente la patria, ſpogliandola di quello fplendentiffimo lume, non pur delSettentrione,madel mondo tutto, onde foſſe sõi moſſa a commetterla la cagneſcatabbia di que'ribaldi me dici, da cheIo non potrei ſenza lagrime narrarlo, dicalo in mia vece Pier Gaſſendi: Erant in his medici quidam, qui videntes non modo exDania, fed ex regionibus etiam cete ris maximam egrorum turbam ad Tychonem confugere, cu Spagyrica illiusremedia, quę quibuslibet gratis largiebatur expertifeliciter, ac morborumetiam valgo habitorum infa nabilium levamen fentire, livore inſigni cxardefcebant, cu quapotenant apud quoslibet,procereſquepotisſimum, quibus preftabant operam,ipfius nomen traducebant, E o quanti ale tri eſempli della coſtoro invidia rapportar potrei, ſe non che troppo ne ſarei per andare alla lunga. Apollo crudca liſſimamente ucciſe il celebre medicante, e, pocta Lino, la qui inorte pianſero eziandio le genti barbare; per lo che gli Egizi una flebile canzone ſopra tal convenente com poſero, appellato in lor lingua Emaneco, ci Greci Lino, la chiamarono. Ippocrate, comeſcrive Andrea antichiſe funo medico, inſidioſamente brụciò la nobile, e ricchiffima Libreria diGnido; e quindi egli poi per tcina fuggiſli. A Quinto, medico famofiffimo, dice Galicno, fu meſtieri gombcrar Roma di prelente, per ceſſarele ribalderic d'al tri medici. E in Roina pure attoſſicato da’rivali luentura.. tamente moriffi un grandisſimo medico, come narra Gin lieno, ilquale anco di ſe narra, che egli fieramente perſe guitato yenne da parteggiantimedici di quel tempo. E per nulla dir quì delle occulte inſidie, c machinazioni, e delle trappole, e frodi ordinate dagli Arabi medicanti inverſo Avicenna, Avanzavarre, e Raſi: quai vili trattamenti nó fi ferono poi a Raimodo Lullio, ad Arnoldo da Villanova, a Pier d'Abbano, c ad altri molti letterati di vaglia, perli maligni medici di que' tempi? il dicano pure le fughe, gli elilj, le prigionie; per tacer delle ſatire, dell'invettive del le falſità, delle tradigioni, onde que’valent huomini có punti oltremodo, e travagliati ne vennero; imperocchè di sì fatto memorie per la tralcutaggine degli ſcrittori di que tempi Debil aura di fama appena giugne. E laſciando da parte ftare, come coſa dinon tanto rilie? vo, quanto i limiti dell'oneſtade oltre paſſafle in favellan do, é in iſcrivendo Maeſtro Gio: della Penna, (chea 'di ſuoi con aura di grido popolare in queſta noſtra Città eſer citar fi vide la medicina, contro Maeſtro Frāceſco Zannel li; egli è ben certo, che più d'un buonno ſcienziato, e il. luſtre trafſe già a fondo l'ardente, e peftifera invidia di Maeſtro Dino dal Garbo medico Fiorentino. Ma quandº altri, e quanti nobili e illuſtri medici, oltre al Veſalio a mal partito menòla velenoſarabbia, e le cupide ambizioſe voglie di meſſer Giacomo Silvio ! collacui eſtrema aya rizia ſcherzando quelgran Poeta Scozzeſe finſe, che ſcola piti foſſero nella lapida della ſua ſepoltura i ſeguenti verke Sylvius bic fitus eft, gratis,qui nil dedis unquam, Mortuus, & gratis quod legis ifta,doles. Ma quali onteper Dio, o quali ingiurienon ſoftenner que! virtuoſi,che con eſfolui cócorrevano alla cura degl'infermi, dallamaladizione, e dall'altezzola, e sfrenata tracotanza delGalieniſta ineffer Frăceſco Rabalefio così reoze malva gio huomo,che d'accordo col Marotto motteggevol Poeta egliosò di gittar le prime födaméta dell'ercſia nella Frácia? e da Michel Servetto, la cuiempietà era inteſa a rinovellar gli errori di Paolo da Samoſata, e di Marcello Ancirano: e dall'empia, e ſopraſtante arroganza di Giorgio Biandra ti, e di Franceſco Stancato pur esli Galieniſti;per opera di cui ribellando ſi fottraffe alla cattolica fede il giovanetto Principe Giovanni Sepuſio, e quindi ſen? vennead infeſtar dell'Arianeſimo colla più parte dell'Ongaria la nobilisſima Proviácia tutta della Tranſilvania. E che non fe contro i poverimediciſuoi emoli la barbara fierezza di Giacomo da Carpi; il quale rinovando la lagrimevol carnificina d'E raſiſtrato, e d'Erofilo,osò, come narra Paolo Giovio, far notomia, non già d'un reo alla morte condennato, come i già detti due Greci facevano, ma vie più ſpietatamente d'un innocente infermo alla ſua cura commeſſo. E per far omai paſſaggio a coſe più note, e men forſe moleſte: che Ooo non oſarono, che non imprefero, che non machinarono a danni del Paracelſo i Galieniſti medici della Germania? Necertamente è da credere il Paracelſo averſi lui ſteſſo tal briga adoſſo recata perricredere, e rintuzzare il lor rives ritisſimo Ser Galieno: conciosficcoſächè così fieramentes ancora eglino perſeguitarono, e malmenarono Lionardo Fuſio, Giovan Cratone, e Andrea Mattioli; il quale con meche Italiano, e di patria. Sanefe, con eſfo foro dimora. va; e altri', e altrimedici,purGalieniftige della formede, fima banda parzionali; e fomigliáte ferono i Galieniſti me dici Italiani a Gio: Battiſta Montano, a Girolamo Fracaſto. ro, ea Matteo Curzio, comechè queſti tutti afpada tratta la dottrina di Galieno difendeffero: e nel medeſimotempo eglino unitamente contro Giovanni Argenterio diGalien nimicocongiurarono. Nedi coralrabbia innocenti ſi ſer barono quegli altri pur Italianimedici,che ſtizzoſamente & 'avventarono contro il dottiſſimo Girolamo Cardano. Ne dágli Italiani altresì, c daʼFranceſimedici tralaſcioffi quá lunque ſtrada d'oſcurarc, e deſtinguere quel chiariffimo lume dell'eloquenza e d'ognidottrina incendétifſimo Gilt, lio Ceſare della Scala;'eche non tentarono imaeſtridella famoſt ſcuola diMöpelieri per abbattere il celebraciſſimo Rondelezj, e'l Giuberti, la cuiimpareggiabile, e non or dinaria dottrina ſopra tutt'altre ſcuole d'Europa di gran lunga poggiar gli facea?Ne tono nuove le rabbioſe invidie, el'affrontarebattaglie d'e’medici di Parigi controil Quer eetano ', il Torqueto, il Baucineto, l'Arveto, il Libaviowe tiaſcun'altro Chimico di que'tempi, da noi in parteancor più addietro accennate. È chinon falacruccioſa invetti va compoſta in Parigi da Germano Cortin contro i Para eelliſti fornita dicalunnie'ye di fofiſmi tutti fanciulleſchi, fenza fermezza:niuna didimoſtramento? Matroppo lungo ne verreišs’Io diſtintamente narrar vo leffi le travaglie; e le noje;che nella Lamagna,nella Dania, nella Franciada’rabbioſi rivali fofferirono Pier Severino, Michel Tofſite, Bernardo Perotti, Girardo Dornei,Mar tino Rolando,, Oſualdo Crollio, ealtri infinitimedici doro tiffimi, e avveduti affai; i quali ſempre, o nella fama, a nell'avere, o nella perſonalungamente fur'oltraggiati. E fenza andar mendicando eſempli di fuora, laſciando das parte ftare le non meritare perſecuzioni del noſtro Antonio Altomari,abbiam purnoi con gli occhi, o congli orecchi baſtantemente per addietro compreſo la rabbia de'medici nella noſtra Città contro il Ferrillo, e lo Schipani, e'l For tunato, e'l Ricci, per tacer d'altri, e malmenato da rabbio. filime trafitture d'invidia il Macaone delle noſtre contrade Marc Aurelio Severini (le cui doctiflime opere in molte, varie lingue traportate non mai per tempo diincaricate la ranno) così egliperaccuſad'invidiofi rivali,ſenza riguardo alcuno averli a'meritidella fua perſona, fu prima incarcerz to, e poſcia toltoglilo ſpedale ove eglia cocantiſpacciati infermi già la ſalute maraviglioſamente avea riportata, alla fine de' ſuoi beni ſpogliato, Ma delle malvagità de'. medici, quali coſe tralaſcerò lo, o quali ne ridiro? E pero chè non fo lo côte ad una ad una le ingiufte uccifioni, che medici innocentiffimi há per altio d'altri medici miſcrevol mente patito: fra le quali mi rammenta prima di tutt'altre quella ſpietatiſlimaal celebre Virsūgio data da quell'infa me medico Scozzeſe,nó peraltra cagione, come ſcrive Giz no Leoniceno, ſe non ſe, per dirlo colle parole di lui: ob con munem in praxi novatam operam, &à Virſungio non teme re traduct am tăta in virum honeſtisſimum flagravitinvidia. Ma in paragone di tutte queſte, lagrimevole oltremodo è la narrazione del gloriogfimo martire, che ora beato gode nella preſenza di Dio,Pantaleonc: a cui tanto, e si fatta -mente porè l'invidia de’mcdici, che accuſacolo all' Impe cradore di Roma Maffimiano, non mai fi: rimaſero, finchè " non videro per man del manigoldo dal buſto l'onorata te Ita ſpiccarſi. Mache dalla medicina medelma avvenga, che i medici fian così,comeabbiam diviſato malvagi,polliam farne più chiaro argométo,perciocchè eglino no pur nelle noſtre par ti, dove parch'abbiſogni più d'un artificio ne'medici: ma anche la dove gli huomini ſon grosſige materiali, anzi che Ooo 110, 1 2  no, ufano altresìi medici malizie; ed inganni per accie ditarſi nelfor meſtiere. E per tacer d'altre parti: nell'Ia die Orientali, come riferiſce Francefco Silvio, Solent muka ti medici ad febrium variarum curationem acus aureas lone gas, ac tenuisſimas in varias corporis partesintrudere, atq; ita putant febres miraculofe curare; e nel Tapui danno a di vedere a' cattivelli infermi, che la cagion di lor malattie fian certe pietre, o animali, o ſterpi, o coſe fimili, le qua li e'dicon, che gliele traggon dicorpo a forza di medicine, e vomitivi; e in tal guifa fi fanno a credere per grandiflimi bacalari; e in tanta reputazione ne montano, che anche i Re loro invidiandofa, voglion effer diloro ſchiera. Nel ta muova Francia poi, ficome teſtimonia il Padre Brel fani, i medici danno ad intendere a que’popoli, che tutti i medicamenti infallibilmente le infermità guariſcano: ed ove no’l facciano dicon'eſfer il mal ſovranaturale, a cui ſovranatural rimediofaccia meſtiere; e tali aggiungono ef fere per la più parte le vomitive medicine, e só quei volpo. ni sì deſtri, checol vomito vi meſcolan di botto, ſenza che altri lor tolga in fallo, o ciocchetta di capelli, o pietra, o legno, o altro ſimile; il qual ſenza durar molta fatica per fuadono altrui eſler la malefica fættura, la quale anche ta tor fan veduta di cavarlz fuori colla pūca d'un coltello, che tengono infra le dita, o altrove naſcofo; e ſe poiavviens, che piggioril'infermo, cglino ſoggiugnendo, che il mal d' un altro Demonio fifaccia, il rimedio replicano; e quando finalmente lo infermo fe ne muoja, ſi fan loro ſcuſe, con dir, ch'il Demonio,che l'uccide, è del lor più potente; c in cal guiſa quei ghiottoncelli queſte, e millalcre novelluzze da ridere a quegli imboccano. Or ſe la medicina è tales, che da per fe delle frodi, e degli ingamni abbiſogna, deb bonſi ſtimare certamente oltremodo felici que'popoli, che cosi zorîchi, c barbarida noi vengon detti;.poichè a loro è conceduto privilegio sì grande di non avere a provar l'o pera dicoſtoro. Felicisſimi furono adunque i terreni del · la Libia y dell'Arcadia, e d'altre fimili Regioni, in cui si dannofa gente allignar per alcun tempo non ſi vide: felicisſimo per fei ſecoli il Popolo Romano, il cui fenno che pote da debolisſimi iniz; ſollevare alla ſignoria del mondo la fua Repubblica,faggiaméteper lo detto ſpazio di tempo vietò affatto l'uſo de'medici. Felicisſima in ciò la gente del contado, che il lor conſiglio non curando,della vita allus ga il dubbio corſo; onde dieron cagione ad Ercole Bentis voglio di cantare in loro loda Però ſaggioilvillan, chiam'io,che quando Égli ba la febbre,che più arde se bolle Non va cura di medico cercando; Ma nelgran parafiſmo il fiaſco tolle De l'acqua,.e tanto bee chepoi diviens Diſalubre ſudor fovente molle: Overa l'ombra de la viti amene Il Settembre o l'Agofto a luva mezzo A fare il corpo lubrico fen ' viene; E la manna, el Riobarbarodiſprezza, La piumangbiunti, il ſervizial, la curi, Che tolgon l'appetito, e la fortezza, DifeLafcia diſporre a la natura: Che ſe dato è diſopra,chetu mora, Non ti guarrà dieta,o lunga cura. E più avanti E narraci un villan nofiro canutog Ch'altro nonmangia, cheformaggio,mentre Ha febbre; emai non hamedico-auuto. E nonvoglio (foggiunse egbi) che m'entre Nojofo, e diſpiacevoleGriflero, Neamara medicina in queſto ventre, Ede la febbre nel'ardor più foera Votai fovente in vece di ſillopa Di moſto un capacisſimo bicchiero. E forſe,che farà queſto qualchenovellar dipocca, o da orator menſonieros Michel diMontagna filoſofante,un de più grandi', che peravventura abbia avuto la Francia, o fommamente veridico,non cinarr'egli, che in un villaggio, ove inai non vi bazzicavaalcun medico,conmiglior ſanità, ch'altrove vivevafi? Maſenza entrare in alcie provincicis ciò non veggiamoa pruova rutto dìnell'Italia echiepper Dio di noiche, non ſappia ciò, che molt'anni avveniffe in quella terra, chenon avendo mai per addietro ravviſata faccia dimedicoil Signor di effa immaginandofarle ungrá pro un ve n'introduſe, ilquale co'falaslijpurgagioni, cve Icicanti, e altri rimedj, ivi non primanominati, non che praticati, ſeppe sì ben pelarla, ch'eravicino ad eſſer vo ta d'abitatori: ed avvedutiſene i vafſalli,a guiſa di cani mordenti ſi ferono a doffo al padrone, e lo sforzarono ad mandarne via il medico. Manon ſo come caduto dalla. memoria mi'era ciò che al noſtro propofita avviſano il fan moſisſimo Adriano Turnebo, huomio di fingolar giudicio, e di chiara fede: Animadversi, ſctive, in dyfenteriæ popu • larimorbo, in vicis de pagis, qui medicina non utuntur, mortuos, aut nullos,aut paucos: in quibufdamurbibus plu. rimos elatus à medicis maximofumptu:e Pier Gaffendi huo mo inſignede'tempi noftri: ex iis; qui medicas adhibent, aliquiſanantur, aliqui moriuntur;pari modo aliqui Sanar jur, aliqui moriunturex iis qui non adhiberi: avvegnachè eglipoinell'ultimaſua infermità per non diſpiacere aʼme dicanti ſuoi amici ciò traſandandoſi facefle da loro con re plicati ſalasſi uccidere; e quel celebre medicante Lazaro Meſfonieri ache dice: multi fineullis auxiliis fpontè fanátur. in agris, & pauperes medicis deftituti. Malaſciando que ſto ſtare al preſente, tra per la dubbiezza dell'arte, tra per la varietà delle opinionidelle ſette; e per la nequizia; e malvagità degli artefici fu egli ſempreragion di ſaggio, e avveduto governo il non darloro orecchja determinar fol lemente coſa alcuna in medicina; e infra tanti ſubugli di ſchiere, e fazioni non ſi yide mai faggio Principe, o ben, ordinato reggimento vietar a mediconiuno, che con paro le, e con fattinon paleſaſſe iſuoi liberi ſentimenti. Così con loro ragioni non poteronmai o Erafiftrato ſommamé te caro al Re Antioco, o Aſclepiade amato aſſai, e tenuto in pregio dal gran Pompeo, o Antonio Mofaonorato, e careggiato da Ottaviano Ceſare, o Vezio valente adultero dell'Imperadrice Meſſalinamoglie di Claudio, o l'am, inicislimo dell'Imperador Nerone, Teffalo, far sì, che a medici di contrarie fette gi per comandamento de loro Principi foſſe il medicar vietato e in lor diſpetto liberer fempremai fr tennero le fchierenemiche. Cosi fempremai in Romàse in tutt'altre parti delmondo, nomeno i Razio nali, che i Metodici, e gl'Impirici liberaméte il lormeſtie re eſercitavano, ciaſcun di loro ugualmente il privilegio della cittadinanza di Romagodendo. E dopo le rovines dell'Impero Romano noir ſi videinfragli Arabimedico vā caggiato ſopra altri: ne a'feguaci d'Avicennafu maiper opera de ſeguaci diRaſi', o d Avenzoárre il medicarvieta4 to. Ne infra''noftri ancora, comeche cotanto l'Arabeſche dottrineper tutto ſormontalfero, comeaddietro è narrato, non però di menonon poterono far sì, che affatto abbats tutane foſſe la ſchiera de’lornimicisſimi Galieniſti;ned'al tra parte poreron mai coſtoro dallor buornome pūto far gli cadere; e avvegnache con ſátire, einvettive lungamen te piatifféro; nondiineno di nulla mai', o reggimento, o maeſtrato, o Signoria vi s'inframmiſe, ne Principe', che faggio, oavveduto foffe's colle maia parteggiarncalcunod Ein vero, non Sommo Pontefice, o Re delle Spagne, o Imperadore;o Re della Francia, o dell'Inghilterra; o della Suezia,o della Dania; o altro Principe;oRepubblica mai; ch," Io ſappia, ſi legge nelle ſtorie, che voluto aveſſe prēder bri gadellegare; o dellediffenzionide’medici. Ne il Re della Francia soi.parlamenti diquella ',e ſpezialmente queldi Parigi, città in cui fivide lapiù lunga', e la piùfieracon tefa infra i medici Chimici', e Galieniſti; avvegnachèmols to ſtimolato ne foſſedalla ſcuola di Parigi, volle mai inan dare avanti i decreti diquella, nulla curandole ciarle di PierGregorio da Tolofa (il qual ſe tanto nella filoſofia,e negli altri buoni ſtudi del Lullio foſſefi innoltrato,quan to nella Loica di lui s'avantaggiò, certamentenon aureb be egliuna sivergognoſa briga impreſa ) diedeagio a ' Pas racelfifti di liberamente ſempremedicare;e ad ontapure del Galieniſta Riolanoilvecchio, edi cute'altri nimici, tư di 480 Ragionamento Seſto di quel gran Principe ſempre in grazia il dottiffimo Giu ſeppe Quercetano medico, e conſiglier dilui: e come egli certamente il valeva, ne fu da lui ſommamente onorato; e quantunque perquella ſcuola infra l'altre chimiche medi cine foffe affatto vietato il dover dare l'antimonio per en tro: pure non che tal divieto aveſſe avuto effetto alcuno, a i Miniftri del Parlaméto Paveſſer mai co' loro arrefti raffer maco, anzi l'ancimonio per ciaſcun medico liberamente adoperavaſi,comechè nelle cure delle medeſime perſones reali. Ei Miniftri, e ireggimenti tutti de’noftri Invitriffa mi Redelle Spagne, così ne'paeſi balli, come in tuce'altres Provincie della loro Monarchia ſempre hapermeſſo,le tur tavia permettono l'uſo libero del medicare a' ſeguaci del Paracelfo, e dell'Elmonte, e del Silvione del Villifio, fen-) za ritegno alcuno; ſpregiando ſempremai, e rifiutando de maladizioni, ei rapporti de Galieniſti. Che ſe mai Prins cipe, o Maestrato inframmetter tałora s'ha voluto, e por mano in affare pertinente alla medicina,e alcuna ſua cola, comechè menoma a certa, e determinata legge ligare, bea fiè veduto perpruova, che ogni loro ſtatuto, a ſconcio, e non laudevolefine ſempremai è riuſcito; come ſi vide av venire, oltre a quel, che è detto, allor, che perconſiglio de Napoletanimedici venne perla Prammatica del 15620 Puſo della manna sforzata, qual dicono, come velenoſo vietato; la quale fa meſtiere rivocarla nel 1573. con per metterſi çſprettamente l'uſo della manna dell’Orno, e del Fraſſino, che poco prima era ſtata ſeveramente proibita. E no poffo no arroſsare in leggere que'rimproveri fatti dal Clufio, e dalMattioli, il quale in cotalguiſa favella: Er. rano non poco i medici Napoletani co’loro Protomedici; i qua li fanno proibire ſotto graviſſime pene, che non ſi debba ven. der la manna, che riſuda dalla ſcorza del frasſino, e dell'ora 10, la qual chiamanomanna sforzata, immaginandofis cle nonſia buona acofaveruna, imperocchè queſta, oltre che pur ga ſenzamoleftia alcuna, e daffi ficuramente alle donne gra videin ogni tempo della gravidezza, è fantiffima, ed eccel, Lentisfima medicina nelle petecchie, e febbri maligné, e pelli, lenzia DeSig. Lionardo di Capod 487: Jenziali,eſſendo che il fraſſino ha manifeſta virtù controtua ti velewi; però laſcimo omai iProtomedici Napoletani di peria reguitar coloro, che cavano lamanna dalfrasſino, e non pris vino gli huomini dicosì prezioſo medicamento non conoſciuto da loro, febene viforopiù propinqui di Noi. E ben ſi vede altresì in quanti errori ſieno ircorſi alcuni Giudici in laſciandola guidare a' ſentimenti d'alcuni medi ci: che ben lungo catalogo recar ne potrei. Macontente rommi al preſente di mentovarne ſolamente un'eſemplo di non poca conſiderazione, che facendoſi troppo ſemplice mente alcuni Dottori di legge a credere, i bambini nati di otto meſi non potere naturalmente vivere, come avviſavali Ippocrate, del quale il loro Bartolo portando opinione i diviſamenti della natura cſfer non guari diffimili alle leggi umane, dice: ftandum eft libris Hippocratis tanquam ad théticis: giudicarono quelle eſſere vere ſconciature, e das dover eſſere d'ogni eredità incapaci; nel quale errore laſciaronſi traportare l'Alciato, e'l Cujacio, e altri au tori di lieva in legge. Perchè il noſtro Matteo degli Af flicti ne rapporta una deciſione; ove in modo giudicoſlinel noſtro tribunale per haver data intera credenza a' medici, che dal Caranza dottor di legge ſpagnuolo ne fu ripigliato con queſte parole: venit improbandum judicium Protomedi ci Ferdinandi Regis primi Neapolis, & aliorum quos Affli Etus decif. 236. num.4, valentisfimos Philofophos appellat: eorumque ductu Sacrum Confilium Neapolitanum octavo mē fenatum materna fucceffionis incapacem declaraffe afferit; ut meritò decifionem iftam, d predictorum judicium impugna verit Boërius dec. 220.in fine,neque enim ita magnifacien dum eft judicium illud Confiliis philofophorum, medicorü relatorum ab Afflicto fup.ut ab eo quiſquam non malit diſce dere, quam à veritate. Maciò ſopra tutto ſi ſcorge da quel,che narra quell'av veduto,e giudicioſo ragguardator delle coſc Giacomo Tua no; dice egli, che d'ordine d'Errigo Quarto Re di Frácia, il gran Lemoſiniere, e altri ſuoi famigliari, che co'i may giori valent’hu onini di ciaſcun meſtiere tenner conſiglio ppp i dair  1 3 di dar compenſo agli abuli della famoſa accademia di Pa. rigi, e che infra l'altre leggi, e ſtatuti diviſarono delle bi. fogne della medicina: ordinando, che i medici di quella ſcuola doveſſero legger l'opere d'Ippocrate, e ogni ſua opinione puntualmente ſeguire:medicos ſono, parole del, to ſtatuto, rapportate dal Tuano, ut leges fibi prafcriptas tee neant, divinum Hippocratem diligenter legant, præcepta ejus religiosèfervent. Empiricam caveant, neque ea ullo modo utantur. Ma cotale ſtatuto non potè giamınai eſſer poſto in opera; e in vero, ſeque’valent’huomini aveſſero innan zi tratto conſiderata, e riandata cotal biſogna, e riguarda to alla varietà delle ſette, e delle opinioni, e all'incertez za di tal profeſſione, non avrebbono così ſciocco divieto mandaco fuora. E tanto più, che que' inedici, che con figliarono una cal legge, ne prima, ne poi i diviſamen ti d'Ippocrate oſſervarono; e in iſpezialità nel purgare, e nel ſegnare,come nel ſecondo ragionamento avviſam mo; ſenzachè il non valerſi dell'empirica medicina è contro l'ammaeſtramento del medeſimo Ippocrate; e an zi tutti medici vengono di neceſſità aſtretti a yalerſi delle impirica, come da quel ch'è detto agevolmente coglier fi puore; perchè gli ſteſſi riformatori convenne certamen te, che alcuna fiato, per non dir altro, veniſſero con em piriche medicine curati, ſpezialmente ſe furono morſi da can rabbioſo, o daſcorpioni, o da altri velenoſi animali. E già parmi o Signori, ſe'l mio avviſo non m'ingannnas che per quel che da noifin qui ragionato foſſe de tantidi vieri della medicina, che ſaldinon nai ſono fungo tempo durati: delle diverle, e ſoventi fiate contrarie guiſe di me dicare, e dalle si varic, e tante opinioni, che fra i medici di tempo intépo ſono venute inſư, impoſſibili a porſi mai im alcun patto d'accordo: dalla lunga incertezza disì dubbio fo, ed inviluppato meſtiere, il quale non ha in ſe dottrina, o principj, ſui quali huomo unquemai poſta porre alcun menomo fondamento: e dal maltalento demediciinvidio fise maligni, affai manifefte fi pajano le grandi malagevo lezze, acui s'avvengono tutti coloro,che d'ordinar lebis ſogne della medicinafi danno alcuna cura. E perciò lag. gio ſembrami lavviſo di quella Città, o di que'Regni, ch' avendo forſe a pruova legià dette verità conoſciute, non vogliono in alcun modo prenderfene briga, ſeguendo in queſta guiſa la coſtuma dell'accorto poeta, il quale, coine Orazio faggiamente avviſa, que Deſperat tractata nitefcere poffe, relinquit. Talfu il fano conſiglio del Signor Duca diMedinaceliVi cerè nella Cicilia; il qual non che andar voleſſe a ſeconda di coſtoro, anzi prendendole a gabbo, ſcheroù le ambizio ſe,e avare bramedi Filippo Ingraſſia Protomedico di quell' Iſola; il quale a diritto, ed a roveſcio volcva i maliſcalche ſoggetti alla ſua giuriſdizion ridurre; perchè pubblicò unu libro, ove ingegnofli di far chiaro (ne v'ebbe per avventura a durare la maggior fatica del modo) che la medicina degli huomini,edelle beſtie in nulla foffero fra ello lor differéti, * e che fra medico, e maliſcalco altro di divario non v'abbia, che ſolamente nel pome. Ma lo finalmente non lo fe altri poſla più a propoſito metterci innnanzi agli occhj l’infelice fine, a cui pervengono tutte le ordinazioni in affári di mc dicina; e ſpezialmente quelle che fatte ſono a richieſta, o a conſiglio de'inedici, quanto Trajano Boccalini: allor che narra, aver Apollo per ſecondar le perſuaſioni d'Ippocrate tenuto a conſiglio alquantimedici,a cagion di voler ripa rare ad alcuni diſordini ch'avvenivano nel medicare: ma per l'ordinazioni di tali riformatori, non pure no iſcemaro no in alcun patto, ma vie più moltiplicarono le malattie; e le morti giunſero a tale, ch'egli rimaſe forte maravigliato: (ſon parole del Boccalini) ch'una diliberazione fatta con ze lo di tăta carità aveſſe potuto fortire il fine infelice d'una tan to calamitofa confuſione; onde bruttamente da Ippocrate chia mandoſi offeſo, eſchernito, che ſotto zelo d'apparente carità verſo il benpubblico, con quel pernizioſoricordo aveſſe volu to aprirſiſtrada all'eſercizio della ſua ambizione: inpubblica udienza, con indignazionegrande disfece il collegio, con ani Ppp 2 mo dia 484 Ragionamento Sefta mo diliberatififimo di far contro Ippocrate qualche notabile rifentimento". Orecco le riufcite di que'riſolvimenti, ches goglion prenderſi d'un arte cosìfallace, e manchevole, Eche ix ſuobaso mai por ha certezzha 1 RASr 220 Bbiam finora fufficientemente diviſato, o Signori; delle dubbietà,.e incortezze del la medicina,malagevoliaffaiperhuomo, anzi impoſſibili a ſuperare:'infra le quali ondeggiandociaſcuno continuo s'aggirai; non altrimenti, che picciola, e malforni ta barca irr tempeſtoſo pelago dimare da'fortunoſi ventije dalflottar dell'onde dibattuta', e percoffa'traballa; o mal pratico viandante il qualecoleo da oſcura'norte,in folta, non conoſciuta ſelva;per travolti-bronchi, e fterpi andan do, quafiin cófuſo-laberinto s'aggiri, séza potermai riuſci re a dritto ſentiero, ch'a falvamento il conduca'. Perchè non potendoſi in così intralciato meftiere via, o modo al cunoavviſare, convienr'certamente, che'l tutto a poſta, e ad abitrio didifcreto, e'ayveduto medico fi rimetta. Aduna que avendo ilmedicoperle maniun sì grave affare, chento ſenzafallo è dagiudicar la vita, e la ſanitàdi ciaſcuno,dse egliconogni ſollecitudine,e con ogniarte ingegnarſi di far: giovamentoagl'infermi commeſt alla cura dilui, al mio gliormodo cheſi poſſa; çfecondochè la condizione d'un tal meſtiere comporta. E (come a coloro, cherompon per tempeſta in mare, i qualiad ogni picciol cravicello, o pan chettirgi appigliano,così parimente dee il medico negl'ince: uob; maroſi della ſua profeſſione valerſi di que’tutti i Jabuli argomenti, che gli li fanno avanti; an corchè non ben ſicuro egli ſia,che con quelli sì degna im preſa poſſa ridurre a quel fine, al quale l'avrà indirizzita. E quinci ſi è, che quantunque poco,o niuna certanza recar poſlano al ſuo meſtiere le corezze,che per le cofe,o vedute, olette, o perlo imperfetto, emāchevole umano modo dific loſofare s'acqui &ano; egliimpertanto deein tutte quante Je coſe alla medicina perrigenti eſerbene ſcorto, e cono ſciuto, chiunque voglia con qualche profitto, e laudevol mente cſercitarla; perchè fa meſtiere, che lo attenendo le promeſſe già fatte in ſu’l principio di queſti ragionamenti, vegga minutamente chente, e quali coſe a fare un buon medico, e perfetto,in quanto ſi poſſa umanamente, c quan to la condizione d'una tal biſogna comporti, ſi riclrieggia no e per tutti diviſatamente diſcorra. Egli ſembra certamente che non vada err ato Ippocra te, o chiunqueegli (i foſſe l'autor del libro dell'arte, quan do dice, ch'a coloro, che vogliono all'altezza della medi cina mόrare faccia meftieri φύσεG-, διδασκαλίας, τόσο ευφυές, tendopatíns,Qinomovins,xpóvx,cioènatura acconciaze nobilize vira tuoficoſtumi, e luogo allo ſtudiarconvenevole, e buon alleva mentoinfin da fanciullezza, einduſtria, e tempo. Richiedeſi in prima natural genio, ſecondo lui; conciolo fiecofachè mancando talvolta, vano affatto, e inutile ogni ftudio, e ogni diligenza riuſcirebbe. Ne è vera l'opinione del vulgo, cheſolo alla poeſia vuolch’abbiſogni quella na, turale inclinazione, dache alla medicina apparare, e tute? altre ſcienze ancora convien favorevole averla; vero fem premai ciò che dice il noſtro Dante ſperimentandoſi: Sempre natura,ſefortuna trova Diſcorde aſe, cum'ogn'altra ſemente Fuor di ſua region fa mala prova; Eſe'l mondo la giù ponce mente Al fondamento,che Natura pone, Seguen. Del Sig.Lionardodi Capoa. 487 Seguendo lui auria buona la gente. Ma voi torcete a la religione Tal chefu natoa cignerſi la ſpada, E fare Re ditalcb'è dafermone Onde la traccia voſtra è fuor di ſtrada. Ma più ch'a tutt'altri meſtieri, alla medicina natural ta lento richiederſi, egli ſi porrà chiaro a chiunque badar vo glia,ch’afmedico talora improvviſo, ſenza aver potuto in prima dello infermo, o della natura di lui molto diſtinta contezza, o eſperimento, convenga diviſar me dicamentijanzi che dal malore iľvigore almalato ſia colto, o le forze; eďove ancor queſte ſiano all'ultimo ſcemo per venute,no perciò sbigottire allora, ma prendendo cuore, e ardire a novelle cure lollevare lo intendimento. Alla qual coſa fare, chi non avviſa, che fano giudicio, e ſpedito in gegno, e natural ſagacità v’abbiſogni, c tale appunto qual fa meſtiere per avventura a'gra Capitani, e a'comandatori diguerra. E mi ricorda a tal propoſito, che il Signor di Molluch chiariſſimo capitano dir Tolea, ch ' ove il general della battaglia, iit veggendo rotte le ſue ſquadre', e ſcon fitto l'eſercito,egli, o da vergognago da timore oppreſſo, il ſenno, e l'ardir non perdeſſe ad'un ora, ſempremai buo na ſperanza gli rimarrebbe da poter raccozzare i ſparpa gliati, e fuggitiviſoldati, e incoraggiargli di bel nuovo a fronteggiar l'ofte vittorioſa. Ma potrebbealcun dire,che natura perapparar medicina punto non abbia luogo; o che fe per appararla vi pur biſogni, certamente cotale inchina. zione, eabilità ciaſcun di noi egualmente l'abbia; impc rocchè, direbb’cgli, quantunque lo ſappia molti, e molti eſſer coloro, che per naturaľripugnanza di genio, o d'ate titudine in altre arti, appena aſſaggiatele, dalla impreſa fi fian riſtati: pur d'uno normi ricorda', ch'avendo l'a nimo alla medicina rivolto, non ne fia medico poſciano e'n buono ſtato divenuto. Eforſe ciò avviene, perchè eſ fendo la medicina al mondo rominamente neceſſaria per riparare a cotante malattie', il ſommoProvveditores n'ab bïaciaſcun baſtevolmente d'attitudine fornito per apparar lized eſſerne da tanto; ma a ciò ſi riſponde i ſovrani conli gli dell'eterno facitore dell'univerſo non eſſer dato di po tere ſpiare al corto intender noftro, come temerariamente altri pur s'attenta di fare: ma ſe a qualche conghiettura ne fi daiſe mai luogo, lo direi che anziperchèdi ſommo pro, c di gran pregio èla medicina, perciò non eſſer peſo di tut tebraccia, ma di pochisfime; ſicome avvien delle coſe più perfette, le quali ſono altresì più rare. Maintorno abuonicoſtumi,che fiorir debbo in colui che d'eſſer medico intéda, fu egli queſto sétiméto del méziona to autore,ſeguito comuneméteda tutti;anziGalieno mede fimo in un luogo dice,cbe colui, ch'èxibaldo, e di mala co ſciéza no puòmainegli Studi d'un tal meſtiere vataggiarſi. Ne lo ſtenderommi al preſente in ragionar del.conoſci. mento delle lingue; imperocchè della Greca, della Latina, e forfe acor dell'Arabeſca,e dcHa Tedeſca egli è allai chia ro,che p iſtudiar ne’libri in quelle cópoſti,bone,e interame te delle medeſimedobbiamo eſſere inteſe: anzi il dottiffimo Samuel Bocciardi porta opinione chesõmaméteal medico ſia neceffaria la lingua Ebraica. Eforſe anche con qualche ſoverchio di diligenza per lo riſchio, chedal non pienamen té intenderle ne può ſeguire; il che avviſando l'avvedutiſ fimo Arnaldo da Villanova ſtrettamente ne l'accomandò; cne lo diè per regola nell'apparar medicina, con queſte parole: Notitia nominum prodeft ad doctrinam. Et nulla profeéto ars, curiofius, cautius vigilantius homini diſcenda, traétanda, meditanda eft, quammedicina, qua nulla eft pe riculofior: quippe quum in ea verſetur falushominum, vi ta; per tacer della Loica, che richiede Galieno nel medico; il troppo ſtudio della quale nuoce, non ch'altro, a chiun que veramente approfittar ſi voglia nella filoſofia, eſpe zialmente nella medicina,poichè eſſendo l'intelletto avvez zo a quelle coſe finte, non fa poſcia dipartirſene allor, che delle vere, e ſenſibili ſoſtanze imprendea filoſofare; onde faggiamente quella grand’alına del ſaggio Galileo folea paragonare i Loici agli artefici degli ſtrumenti muſia cali, i quali tutto dimaneggiandogli, non ſanno poi quan doloro biſogna, ſe non ſe rozzamente valerience Ma la norma ſicura de'perferri, e dimoſtrativi fillogiſmi ſolamente dalla Geometria ci ſi porge: e malamente al ſi curo fornito loico, e conſeguentemente buon medico ſarà colui, a cui per le mani gcoinetriche dimoſtrazioni tutt'orx non ſono. E certamente avea la ragione, l'autor della pi ftola a Teſſalo di tanto iſtantemente quello confortare, e fpignere allo ſtudio della Geometria, e dell'Arilmetica: poichè la notizia di cotali ſcienze, oltre agli altri concj,che arrecar ſuole, dice egli: tlu fug'us o &uréple FE xxA THA Qvyesépleas a & ti tò év inagixí óvño Jou răvő mi yeusercioè,apporta chiarezza, e fortigliezza nell'intendimento, acciocchè poffa ben rintraca: ciar tutte quelle coſe, che all'uſo della medicina abbiſognano. E diſtintamente poi va dimoſtrando di quanco pro fia ad un medico faper Geometria, affermando ancora lommamen te giovevole, e neceſſaria eſſere a ben comprendere le deslogate offa, e l'altre biſogno nella medicina. Mamol to avanti avrebbe egli certaméte della Geometria detto: ſe oltre a ciò ſaputo aveſſe,che séza quella, poco, o nulla inté der ſi può delmovimento de'muſcoli, e de’mali della viſta, e d'altre belliſſime dottrine molto alla notizia dell'ordina mento del corpo umano utili, e neceſſarie. Ma fe (come più avanti dimoſtreremo) giammai non può eſſer medico, chifiloſofo in priina non fia: c per apparar filoſofia, la Geo metria è ſommamente di meſtiere;egli è pur manifeſto,che il medico debba efter Geometra. Ne può punto dubitara ſi il convenir cotanto a ' filoſofila Geometria; concioſſicco ſachè abbiamo nelle ſtorie, che gli antichi filoſofanti, tan to biſognevole ſtimaſſero la Geometria nelle loro ſcuole, che no volcan,cheniuno in quelle entraſſe,ſe prima inGeo metria ſtudiato pienamente non aveſſe. E'l gran Galileo de’ Galilei, grandiſſimo maeſtro di coloro, ch’alla vera, e dalda filoſofix attendono, diſſe; In un vaſto volume farfe ne'lafiloſofia tutta deſcritta: e quello eſserne ſempreinnanzi agli occhi aperto, cioè a dir l'univerfo; ma non mai poterviſe leggere, fc in prima la lingua, e i caratteri, co' quali egliè Scritto, perfetiamente non s'apparino. Egli è ſcritto, dics in lingua matematica, e i caratteri ſono triangoli, cerchi, - Q29 altre 1 > altrefiguregeometriche,sēza i qualimezziè impoffibile adin të der umanamenteparola: ſenza queſti, è un'aggirarſi vana. měte per un'ofcuro laberinto. Comendaſi adunque oltremo do il ſaggio conſiglio dell'avvedutiſſimo Cardano, il qual mi ricorda, ch'avrebbe voluto, che niuno in medicina non ſi foſſe mai convertato, il quale, mathematicas perfecte no calleret, per dirlo colle ſue parole; del che recandone la ragione, ſoggiugne: Nam his folum, nec fallere, nec falli contingit; unde qui in illis peritusfuerit,non eſt veriſimile in propria arte velle ſuperioribus, &fuis, ac fibi ipſi impo were. Ma oltre alla Loica, e Geometria, la Stronomia, la Mu fica, e altri nobili, e liberali ſtudj in un perfetto medico Galieno richiede; e della Muſica favellando Tomaſſo Cá panella dice:medicusnon ignoret, qui foni, quos motus in (piritu,adquas bonas operationes excitět,ut medicinales fint;i quali ſtudj,ſecodo lo ſteſſo Galieno, il primo luogo appreſſo Mercurio ingombrano; e con molte, e ben compoſte pa role l'utilità, che da quelli ſi trae, va egli ne'ſuoi ſcrit ti diviſando, e quanto egli avanzato ſe ne foſſe; ſenzachè, dic'egli, ſe il medico, non è di ſtronomia intendente, gran tratto ei ſi dilungherà da’ſentimenti d'Ippocrate, il qual non pur conforta i medici tutti ad appararla, ma molte co ſe ha egli ne'ſuoi libri ſcritte, le quali ſenza ſaper di ſtro nomia, impoflibil certamente fie, che per huomo s'inten dano. Ma nel vero lo non ſaprei mai comprendere, come ben ſi poſſa medicare, ſenza ſapere, il naſcimento, e loco caſo delle ſtelle, e la varietà de climi,e altre ſomiglianti co le, neceſſarie al meſtier della medicina, le quali tutte la ftronomia ne inſegna. Eragionevolmente tutti coloro ch ' un tale ſtudio, come vano, e inutile a'medici biaſimano, punge, e proverbia il buon Franceſco Vallefio, dicen do, che la ſtronomia vien da alcuni giudicata coſa alla medicina affatto inutile, non per altra cagione, ſe non per chè poſſano in cotal guiſa ſchifare lo ſvergognamento, che dal non ſaperla gliene naſcerebbe. Perchè il non mai abaſtanza lodato Ipparco aſſomigliava ilmedico ignorante di ſtronomia ad occhio privo della viſiva potenza; e'l famo fiſſimo infra gli ArabiAlbumazar,dice chela ſcienza delle ſtelle a quella della medicina, principio, eguida ſia. Ma fe la Stronomia richiedefi a'medici, non men di quella certamente fa loro meſtieri il ſaper le ſtorie delle coſe, che avvengono al mondo; concioffiecofachè oltre al ſaper di quelle, i principi, egli avanzamenti delle piſto lenze, e d'altre aſſai malattie, manifeftamente talvolta an che comprendonſi le cagioni de’malije i rimedj, ch'a quel li talvolta hanno approdato, e ciò, che per pruova ha noc.ciuto, e giovato agli huomini: e aſſai pienamente ſi com prende quanto dalla lezion di Tucidide aveſſe Galieno tratto di profitto, e altri aſſai medici di gran lieva, e malli manente da quello artificioſo narramento di lui della fie ra, e lunga peſtilenza del Peloponneſo, traportato poi co tanta eleganza, e così ben da Lucrezio nel luo natio idio mi. Ma ſopra tutto ſenza dubbio la natural filoſofia al medico ſi richiede; imperciocchè, fe perfettamente egli ſaper dee la natura, è l'economia tutta del corpo uma no, le cagioni, così d'entro, come di fuora delle malat tie, le qualità, e le coinpleſſioni dell'aria, delle acque,de' vegetali, degli animali,e de’minerali turti: conſeguente méte egli ďee ſtudiare in filoſofia,nó come dicono, di primº occhio, e diſcorrendo: ma in quella con ogni intendimen to, e ſtudio involgerſi, e riconcentrarſi, e in apprenderla, pienamente con ogni sforzo, e con ogni opera affaticarſi. Perchè il Paracello chiamar folea la filoſofia madre, e fon damento della medicina; e Ariſtotele n'impone, che il me dico cominciar debba, ove il filoſofo finiſca; che altro non vuol dir, per mio avviſo, che il medico dal filoſofo non dif feriſca, ſalvo che nell'operare: e che la medicina altro no fia, ch'una operatrice filoſofia. Folle adunque, e danne vole oltremodo è da giudicar certamente il conſiglio d'A vicenna: che il medico ſenza più avanti ricercare, appa gar ſi debba a' detti de filoſofiintorno alle coſe naturali; Raq 2 ne logorar punto di tépo in abburattargli,e far pruova del la verità; concioffiecoſachè il medico in eſaminandogli no che dall'arte ſua fi diparta giammai, come ſcioccamente s'avviſa Avicenna, anzi allor maggiormente vi s'interna, e profonda, e più maturamente l'apprende. E bene imma gino lo, che a ciò riguardando eſfo Avicenna, avviſaffe pienamente il biaſimo grande, che di tal conſiglio guada gnare egli medeſimo ſi poteva i perchè altro non te in tue to il corſo della ſua vita ',' che attentamente ſpeculare, e contemplar le coſe della natura. Miglior ſenza fallo fu l'avviſo di Galieno, il qual ſopra ciò ben’un libro inte. ro compoſe con queſto titolo densos iarbós, og QorbootG.per * chè e' medeſimo dille altrove, il medicare una piaga non, effer impreſa da tutte braccia, ma di color ſolamente che le coſe tutte della natura hanno davanti agli occhi. Ma dove lo traſandava il buono Ippocrate: il qual giudicò fi loſofia, e medicina eſſer compagne ſtrette, e ſorelle,giua te, ed avviticchiate; e ſimigliantemente Cornelio Celſo afferma, amendue coſtoro d'un medeſimo parto eſſer nate, così ſcrivendo: Primomedendifcientia pars fapientia habe batur; ut &morborum curatio, dow rerum nature contempla tio fub iiſdem auctoribus nata fit;c di ciò ne apporta ragio ne: fcilicet his hanc maximè requirentibus, qui corporum fuo rum robora inquieta cogitatione, nocturnaque vigilia mi nuerant. Ideoque multos ex Sapientia profeſsoribus peritos ejus fuiffe accepimus. E egli è pur troppo manifeſto,quan to Pittagora, Empedocle, e Democrito, e Platonc, e altri grandiſſimi filoſofi più di qualunque altro Greco nel le ſecrete coſe della natura innoltrati, più di tutt'altri me dici della Grecia ancor s'avanzaſſero; ſenzachè i fonda tori, e i Principi di ciaſcuna ſcuola di medicina, eziandio della Metodica, e della Impirica, eilor più rinomati ſe guaci, tutti concordementenegliſtudi della natural filoſo fia s'eſercitarono. Perchè il fimile certamente ciaſcun al tro mcdico de’tempi noſtri dovrà fare; e di lor direbbeſi po ſcia con quelle voci d'Ippocrate innsós gap Quómo, iostec, cioè a dire: il medico filoſofo è ſomigliante a un Dio. E 1 1 quantunque,come ſopra abbiamodimoſtro, aſſai poco al baſſo, e loſco intender noſtro nelle coſe naturali di ſaper ſia conceduto; nondimeno queſto ſteſſo ci da a divedere effer neceſſario al medico lo ſtudio della filoſofia, acciò egli pof fa agevolmente accorgerſi, non aver la medicina certezza alcuna; e a queſto avendo certamente riguardo, diceva Cornelio Celfo: natura rerum contemplativ, quamvis non faciat medicum aptiorem, tamen medicine reddit perfectum. Oltre alla naturalfiloſofia, la morale ancora a'medici ſi conviene; concioſGecofaché, ſe come di ſopra è detto per ſentimento d'Ippocrate, di buoni, e laudevoli coſtumief ſer dee fregiato il medico, Io non ſaprei già, come a tal pre gio mai aggiugner poteſſe colui, che coile natural filoſofia la moraleancora non accoppj; ſenzachè la moral filoſofia è quella, cha per oggetto Panino dell'huomo, e in quello ſuol riconoſcere i malori,e lecagioni,e gli effetti di quelli,e darvi baſtante compenſo, ed efficace ajuto. Orcome po trà il medico adoperando il ſuo meſtiere, con valevoli me dicamenti fanar gli ammalati del corpo, ſe in prima le ma lattie dell'animo loro non toglie? cioè a dire, ſe non fa di filoſofia morale a Imperciocchè i mali tutti del corpo, come da prima, e principalcagione, da alcuna paſſion dell'ani mo ſovente naſcer ſogliono, la qual certamente ne cono fcerc, ne rimuover potrà il medico giãmai, fe dalla moral filoſofia no ſia fcorto. Tanta enim,dice Sinforiano Cãpegio, per tacer altri, eſt animi, &corporis neceffitudo, ut ſua om nia bona, ac mala, velint nolint, invicem communicent. Per chè della nostra anima facendo parole cantò il Guarino. Qwell’immortal, che null'ha di terreno A terrenidifetti ancor foggiace. E Platone nel Carmide lungaméte ciò va diviſando; la qual coſa ancora, ficome teltimonia Ippocrate avea in coſtu me di fare Eſculapio s il quale appreſa certamente l'a vea da Chirone ſuo maeſtro: e ſe pure dopo ſi è co minciato a feparare l’un meſtier dall'altro, non èmara viglia, dice Malfmo Tirio: perciocchè la medeſima artu di curare il corpo, così in fc ftella diviſa, e lacera ſi vede,: chic 494 Ragionamento Settimo che altri ha cura dimedicar ſolamente gli occhi, altri law veſcica, e altri altra parte del corpo. Ma con quanto di fcadimento, c danno dell'arte, e de’maeſtri di quella, per nulla dir de’poveri infermi, ciò avveniffe,che partite, e ſceverate queſte due profeſſioni abbiano i medici, ſolamen te inteſi a curare il corpo, ſenza badar punto alle malattie dentro, lo dicano tante, c tante malvagità, e ribalderie operate daʼmedici, come di ſopra dicemmo; concieſlico fachè non ſon per altra cagione i biaſimi tutti a' medici, e alla medicina medeſima proceduti,che dall'aver clli traſcua rata l'arte dirender ſe medeſimi in prima, e poi gli alţri tute si della verità, della giuſtizia, e dell'oneſtà lodeyoli ama, tori. Ne per altro chiama Ippocrate, per mio avviſo, il medico filoſofo ſomigliante a un Dio, fe non perchè dal medico filoſofo non ſia da ſcompagnar cotal parte cotan 10 eziandio giovevole, e neceſſaria alla medicina. Per chè guardando a tutto ciò Galieno, cercò di riparar ſe condo ſua poſla a tanto diſordinamento, e di riunir di nuovo, e rannodar la medicina colla morale filoſofia: onde compoſe quel libro, ove e' moſtra, comes’abbiano a cono ſcere,per doverſi guarire,i difetti dell'animo; e quell'altro, del ravviſare, e del medicare dell'anime le malattie. Ebé chiaramente ſi vede quanto in ciò, che inſegna altrui e' me defimo profittaſle; concioſſiccoſachè, come di ſe medeſimo egli narra, era egli avvezzo a ſoffrire, e a portarein pace i caſi.umani, e d'animo grande, e immobile, ne ſi crolla va punto agli urti di rea fortuna: ne perdita di beni, o altra maggiore ſventura era per farlo ſmagare:ne movealo onor di gloria, o burbanza divana ambizione, o qualunqne altra coſa maggiormente al mondo ſi pregia.. Mail medico avendo a guwar le malattie de' corpi uma ni, ea provvedere a quelle, che ſono a venire,non ha dub bio alcuno, che ſopra tutto egli della natura del corpo umano aſſai pienamente dee eſſere doctrinato, e di quelle coſeancora, che riſtorare il poſſano dalle cagioni, ovale. volmente ceſfarle. Or chiunque voglia,per quanto glifia dalla debolezza dell'umano intendimento conceduto, per venire a qualcheconoſciméto della natura del corpo uma no, gli conviene in prima il ſito, la figura, l'ordinamento, e la grandezza,e l'uficio delic parti di quello diligétemente inveſtigare: alla qual coſa manifeſto è, che ſenza l'ajuto della notomia egli aggiugner non poffa: perchè della me dicina folea dir faggiamente Cello: incidere mortuorum corpora difcentibus neceffarium. La qual neceſſità inolto bé gli antichi medici conſiderando, come pienamente nete ſtimonia Galieno, a ufare i noromici ſegamenti fin da fan ciullezza diligentemente s'avezzano. E oltre a ciò egli dee bene inveſtigare, e con ogni ſtudio maggiore andar rintracciando la propietà, o la natura dell'Erera,dell'aria, dell'acqua, della terra, della Luna, del Sole, e di tutt'al tri Pianeti del Cielo; da'quali corpi tutti continuo fotti liffime, e non vedute ſoſtanze ſgorgano, quali a pro, e qua li a dannodell'umane vite. Quindi s'andrà egli pian piano innoltrando a ricercar le naſcoſe virtù de'minerali, de've gerali, e degli animali tutti, oide il cibo, e imedicamenti per gli huoinini ſi coinpongono. Cola,la quale cotanto al medico è neceſſaria, che d'effa ſola ſi vanta Apollo preſſo l'ingegnoſo Poeta latino Inventum medicina meum eſt: opifexque per orbem Dicor: &herbarum fubješta potentia nobis. E'I Mantovano Omeroper unico fregio del ſuo lodato Medico riconoſce Scire poteftates herbarum, ufumque medendi. E l'altiſſimo Toſcano Poeta E già l'antico Erotimo, chenacque In riva al Pò, s'adopra in ſuaſalute: Il qual de l'erbe, e de le nobil'acque Ben conoſceva ogniuſo, ogni virtute. Intorno alla qual coſa folea ben dir Oribaſio, che fenza un tal conoſcimento non fi poſſa dirittamente mádare ava ti la medicina έχ οίόν τε είναι χωρίς ταύτης ιατρεύαν όρθώς. Ε gia molto prima di lui la notizia de'ſemplici in più luoghi de' ſuoi libri affai avea accomādara Galieno, i quali paſſo pal ſo potrannoſi da’curiofi ſcolari vedere: e ame baſterà al preſente per raccorciar la lunghezza in così chiara materia d'apportare un ſolo, over'dice: chiunque nel medicare vorrà da tutte parti eſſer ajutato,egli coviene in prima eſser molto bene ſcorto, e auſato nelle piante, e negli aniinalise ne'metallize in ciaſcun'altra cofa terreſtra, delle quali ſervir noi ci ſogliamo ad uſo di medicamenti, e infra quelle, le più eſquiſite ſceglier ſappia; concioffiecoſachè non eſſen do egli in sì fatte coſe dottrinato, ſe mai oferà un talme Aiere imprendere, ſappiendo, ſolamente in ciarle la nor na del medicare,non mai ſaprà adoperar coſa degna di me dico, Quinci ſi pare quanto errino i medici, comequelli, che pongono queſta parte, cotanto alla medicina necella ria,in mano degli ſpeziali; concioſſiccoſachè, come avvi fa il doctiſſimo Fabio Colonna: in quo ille medebitur medi. cusiſilocis contingat pharmacopolis carentibus, artem exerce re? an ne verbis? c più avanti trapaſſa l'avvedutiſlimo Pier Caſtelli a minacciarne i mali, che di cotal traſcuraggine agevoliſſimamente ne poſſono ſeguire: medicus, dice egli, neſcit quod agro præfcribit: Pharmacopæus ignorat preſcri ptum medicementum: Rufficus herbarius, qui fæpèlegere ne fcit, &à nemine doceripoteft, cafu colligit fimplicia: &hoc modopreparatamedicine rarò fanitatem, fepiffimemortem afferunt, ignorantiæ finem; e quàforſe egli li parrà ad alcu chc per troppo afpri, e faticoſi ſentieri avendo il me dico condotto, omai delle tante, e tante malagevolezzo, che noi diviſate gli abbiamo, ſenza altra fatica durare ſia per venire a capo. Ma egli va alcrimenti la biſogna, rima nendo ancora dopo tanti viaggi nuovi altri pachi lontani troppo, e non conoſciutia piè volgare: oye fra bålzi, e di rupi, per iſcoſceſi, e avviluppati ſenticri con gran ſudore, e biftento giugner ſi dee. Egli è il vero, che giunto poi quivi, trova ben cento, e mille vaghezze allettaprici, luſinghiere. Già parę di udirvi dire concordemente, che lo voglia favellar della Chimica, nella qual ſi comprende tutto il bello, tutto il vago, tutto il maravi glioſo, che può mai operar la natura,o l'ingegno umano. Ne 10, zia 2 Del Sig.Lionardo di Capoa. 497, Ne Io fe cento bocche,, e lingue cento Avesſi, e ferrea lena, e ferrea voce, alcuna menoma parte de' pregj di sì iluſtre, e glorioſo me ftiere potrei narrare.Ditelo intáto voi in mia vece, o arti il luftrio, rare fcienze, o nobilisſimi ſtudi di quella figliuoli'; voi dilettoſe, giovevoli, e neceſſarie al gencre umano arti dell'agricoltura, del fabbricare, del navigare, della mili della ſcultura, della pittura, della filoſofia, della me dicina: voi facendo teſtimonianza della grandezza, e dellº eccellenza della Chimica,narrate pure, come da effa -i vo ftri natali, il voſtro accreſcimento, ilvoſtro ſplendor trac fte: dite come a'voſtri intendimentiporſe la materia, age volò l'opera: Netacete pure, o ultime pruove' dell'uma na induſtria, gloriofiffime memorie dell'antichità d'Egittor prezioſo nepente commendato dalla ſonora troba de gra deOmero, che co’ſentimenti inſieme i dolori, e gli affan ni de’greci Campioni potcſti aſſonnare; ricchiſſime coppes allanſonti; e voi cento,e cento altre Egizie maraviglie, che tolte a noi dal teinpo, appena chi vi preſti fede ritro vare interamente potere. Voi ſuperbe piramidi di Mem fi, voi effigiati obeliſchi di Tebe,che all'eternità confc crati Roder non può del tempo invidalima, fare pur chiara l'eccellenza della Chimica; e ne'metalli, e nelle gemme, cnegli artificioſi ordigni da quella portivi raccotate i ſuoi pregj,e le fue glorie eternaméte innalzate. Ne mé taccia il tépo quanto a capital tenuta foſſe la chini ca dagli antichi,chegiudicando Diocleziano baftar quella ſola agli Eğizj per frõteggiare, e mandar giù le glorietutte del Romano Imperio, comenarra colui appo Suida,diedes alle fiame tutti i volumi di sì nobil meſtiere, va reixnucios χρυσού, και αργύρε τους παλαιούς γεγραμμένα βιβλια διερευνησαμG έκαυσε και προς το μηκέτι πλούτον Αίγυπλίοις, έκ τ τοιαύτης προσγίνεσθαι τέχνης, μηδέ χρημάτων αυτουςβαρβούν ας πρεσία του λοιπού Ρωμαί oss auliceiv. Ma quanto la Chimica faccia meſtieri alla medicina, da ciò pienamente ſi può ravviſare, che ſenza quella non può Rrr valevolinente operare, ne è da dir arte ſicuramente la mes dicina; perciocchè, fe come abbiamo di ſopra lunga mentedivifaro, in cicchi, e confufilimi laberinti: invi luppata la medicina, nulla mai dicerto fermamenteriſer ba, non v'ha più valevol lucerna, o più ſicura guida da poter giugnere a qualche veriſimil conoſcenza delle coſe, che la vera, echimicąſperienza. Enel vero, che giove rebbe mai al medico il ſapere ad una ad'una le partitutte annoverare, e ſcernere del corpo umano, ſe.poi della nas tura, e del miniſtero diquelle digiuno. ſi foffe..? certo, che nulla; licome nulla ancor monterebbe, che notii fiini glifoſſero i ſemplici tutti, eivegetali, e gli aniinali, ei minerali, ſenza ſapere lui la propietà', e l'efficacia di quelli. Perchè a inveſtigar la propietà, e Puficio delle par ti del corpo umano lungamente affaticandoſi gli antichi fi loſofanti, fenza la traccia della chimica a poco felice fine le loro opere riuſcir fi videro: e ciò, tra perchè iſegui,į le conghietture, onde di prenderle immaginarono, poco men che ſempre fallaci, evane fi erano: e ancora perchè parecchj di coloro, il tutto a quelle,, che chiaman prime qualità diridurre s'ingegnarono, dovēdoſi per loro più to fto altre, edaltre qualità ſpiarc,dalle quali molto più,che dalle prime, le operazionidelcorpo umano, come è detto, dipendono. Matroppo malagevoli alcune di quelle fono, e ad intendimento umano moltonaſcoſe; così ayviluppatou fono, e infra lor intralciate le particelle cutte, onde s'in generano:: 0 per la troppa debilezza de'lor movimenti, o per la picciolezza;,.e cenuità di quelle, o per altre fomi gliati cagioniagli organi de’noftri ſentiméti celandoſi,non ne laſciano alla verità pienamente penetrare; Namneque pulueris interdum ſentimusadhæfum Corpore, nec membris incuffam fidere cretam, Nec nebulam noctu, neque araneitenuiafila Obvia fentimusquandoobretimur euntes. Così ancor vanamente ſtudiandoſi gli antichi filoſofanti di comprender la natura, e la propietà dell'aere, dell'ac que, della terra, delle piante, degli animali, e de' mine rali, DelSig. Lionardo di Capoa 497 rali, in non pochi errori inavvedutamente incorſero:; maw pur della loro dappocaggine ricreduti Ippocrate, Teofra 1to,, Diofcoride, e altri famoſi antichi filoſofanti, sfidan doſi di poter quella con piena, e perfetta ragionegiam mai ſcoprire, ſenza più addentro vanamente innoltrarſi in fu la lola corteccia ſi riſtarono., quel ſolamente ſcrivendo ne, che per lungapruova già ſperimentato:n'avevano. H che diè cagiondi iclamare a quel gran lume della filoſofia, edell'eloquenza Romana: mirari licet, quæ fint animad venfa à medicis herbarum genera, qua radicum ad morſus beſtiarum, ad oculorum morbus, ad vulnera; quorun uim, aique naturam ratio nuſquam explicavit: utilitate, con ars eft, &inuentor probatues, &indi a poco ſoggiugne:quod ſcămone & radix ad purgandum,quod ariſtolochia ad morfus ferpentum poffit, videmus, quod fatis eft; cur posſit,nefcimus. E comeche altri filoſofanti, emedicidi grido, dallapore, dall'odore, e daaltre ſimiglianti qualità d'inveſtigar ſi ſtu diaſſero, come, o caldi, o freddi, o ſecchiidetti ſemplici foſſero, onde poila virtù di radificare, o di ſtrignere, o di riſtorare, o d'altro argomentar poteſſero: inutilenondime no,e vano ſempre da'brioni filofotanti il loro ſtudio fu giu dicato; e'l medeſimo Galicno, non che altri dice, queſta eſſere una ſtrada, oltre ad ogni creder dubbievole., c falla ce; ſenzachè ben rade voltc dal caldo, dal freddo, dall'u ! mido, o dal ſecco -naíce: ma vifan la più parte l'amaro, e l'acetofo, ed altre fomiglianti qualità, che ſeconde chia mano. Oltre a ciò, v'ha parecchi de'ſemplici,chène odo re alcuno, ne ſaporc, ne altra manifeſta qualità avendo, só poi di grandiſfime virtù, eziandio belzoardiche, e veleno ſe dotati. E chi mai colla ſola guida de' ſenti potrebbe av viſar, che l'acqua ftigia, che in niuna ſenſibil qualità dall acqua comunale differente fi ſcorge, cosi peſtilenzioſa, en mortal poi ſia? Solola Chimica con ſue pruove faccendio manifeſti i naſcoſi veleni di quella potrebbe avátiagli occhi di ciaſcuno quegli acutiſſimi ſali porre,che già valevoli furo nel fior degli ani, e'nel caldo delle vittorie a roder crudelmé te al grande Aleſſandro le viſcere ed ogni altra coſa conſu R.15 2 mano, fuor ſolamente l'unghie degli aſimi, come dice Plu tarco: e.de'cavalli avea detto Pauſania,, Trogo, e Curzio; ed Eliano delle Corna degli aſini della Scitia; e di quelle delle muledice Plinio:ungulas tătùmmularum repertas, ne que aliam materiā, quæ non proderetur à venena ſtygis agudo E Vitruvio: conſervare antë eam, &continere nihil aliud po teſt nifi mulina ungula. Machi potrebbe mai credere, cheſotto la dolcezza del miele, e dei zucchero cotanto piacevoli alguſto,e ſoavi, a covino poi alcuni ſpiriti pungenti, e roditori non molto dall'acqua forte, e dall'acqua.regia diſſomiglianei? delle quali gli acutiſſimi ſpiriti net vitriolo, nel nitro, nell' allu me, e nel ſal comune s'appiattano; e che nel ſolfo diqua, lunque ſapore ignudo, c digiuno dimori un ſale oltremo do acecolo, c roditore; e che nell'olio delle ulive due fali fi ragunino, uno acutiſſimo, c aſſai valovole a rodere, e l'altro ſoprammodo piacevole, e ſoave; e che l'acqua pu ra, e ſchietta, che continuo ſi beve, e ſembra al guſto co tanto inſipida, ritengi un fale sì fattamenteacuto, e pene trevole, che ben balta egliſolo in minutiſſime particelle a fminuzzare, e ſtricolare quel duriſſimo metallo, ch'alle fiąmme, ed a'fuochi punto non cede; echenelle viole, nel ke lattughe, nelle roſe, ne'papaveri,, e in altre ſimiglianti ierbe, e fiori, giudicati anzi freddi che no dagli erranti medici, un cotalc ſpirito-affocato, ed ardente mícoſo li ftia, dallo ſpirito del vino non punto diſſomigliante. Vanillimi adunque, e fallaci i ſentieri ſono, ch’a ravviſar le qualità de'ſemplici gli antichimedici s'impreſero: e per giugnere alyero conoſcimento delle coſe, cgliè di meſtiere,che pré-. diamo ad avviarci Per ſentier nuovi a nullo anco dimoſtri: cioè (viſcerando, e minutamente partendo ciaſcun corpo per opera della vitaf notomia, la quale Sempre a vincer ſe beffa oprando intefa noi veggiamo oggidi a sì bello ſtato eſſer condotta. E quanto sì nobilc,e glorioſo meſtiere per aggiugnere a'no Itri intcadimenti aveſſe luogo, ben conobbelo il curiofiſla mo Ga. for mo Galieno, allor che con ogni sforzo la natura dell'accto ftudiandoſi d'inveſtigare, lungamente indarno diſiderando fi, così ebbe a dire: In queſta coſa Io non ſon per tentar tutte le ſtrade, e tenterò di far ogni pruova, acciocchè poftafi qualchearte, oqualche ingegnoritrovare, col qua le ſeparar ſi poſſano le parti contrarie nell'aceto, ſicomeſuol farſi nel latte. Macertomala pruova vi fe egli Galieno,na giugnendo a ciò, che per ogni menomo ſcolaretto dell'ar te agevolisſimamente s'adopera. Or quat maraviglia fa rebbe all'orgogliofoGalieno,c quáto da inenoora li ftime rebbe', fe nel meſtier della medicina dopo tantiſtudj,e tan ti fudori daun giovane Chimico frvedeſſe a lungo ſpazio avanzare? nonpur ſappiendo coſtoro in due diverſe ſoltan zel'aceto partire, il che grandisſimo vantaggio reputave Galieno, main altre, ed altre molte quello agevolmente freverare: le quali ſottopoſte poi al ſottile,e profondo eſa minamento de filaſofi, con dar probabile,e verifimile con tezza delle lor varie; e diverſe propietà, le tante, e tanto maraviglioſe operazionidell'aceto ne vengono a manife ftare. Oltre a ciò lo immagino altresì, che s'egli aveſſes mai il curioſisſimo Galieno qualchemenomacontezza del la Chimica, comeche rozza; e imperfetta aver potut?, 11011 đì -ſarebbe certainéte maieglimaravigliato, come ſotto una sì grande virtù di riſtrignere, quanta è nel vitriolostanto, tanto calorc covar fr poteffc.- Imperocchè egli con far di quello notomia agevolmente,el’una, e l'altra ſoſtanza ri. trovata v'avrebbe, onde poi d'amendue gli effetcidi riſcal dare inſieme, e di riſtrignere pienamente n’avrebbe la ca gion compreſa. Efeaveſſemaidiviſar voluto come il me deſimo ſpirito del vitriolo dueeffetti in - fra le contrariope rar mai poteſſe, ſciogliendo aleuni corpi caldiſſimi, e rap prendendo d'altra parte alcuni liquidi, e fortili, e.volanti troppo, ch'a qualunque oſtinato ghiaccio ligar non lila fciano: 0 como manchevole, e imperfetto il ſuo filoſofar..conoſciuto avrebbe. Or di queſta nobilisſima arte non meno per avventura, che già ſi ſtimaſſe anticamente il pe netrar la, dove F101 902 RagionamentoSettimo Fuor d'incognito fonte il nila muove, tra per le tenebre folte disì antica età, e maggiormente per la non poca cura, che ebbero ſempre i ſuoi maeſtri di ferbarla a bello ſtudio naſcoſa a' più altiingegni;o punto no iſcrivendone, o ſcrivendone purcon ritegno, e riguardo, accennandola con ignoti geroglifici,c.con intralciati eniin. mi, e con oſcure allegorie, e favoloſi racconti inviluppan dola:malagevolemolto,e confuſo per certo, e poco mē,che impoſſibile rendeſi a volerne il ſuo primo incominciamento rapportare; cofa,la quale in tutt'altre biſogne di conſidera zione avvenir fimigliāteméte ſi vede. Ma che che di ciò Gia,.che di sì nobil ritrovato deali la gloria all'antica Paleſtina, o pure alla Fenicia,o all'Egitto, o alla China, o a qualū quealtra parce forſe più ragionevolmente la contraſta: egli è coſa ben certa,e ben da ſe medeſima appare eller la Chi mica antichiſſima, e da’più rimoti tempi eller ritrovata nel mondo, avvegnachè alcuni non affatto il concedano; e Sao muelBocciardi dica: novum effe inventum della Chimica favellando, nec illius quenquam meminiffe ante Iulium Firs micum; il che pienamente teſtimoniano Euſebio,e Zoſimo; e Suida, c ſpezialmente il Firmico, il quale tutto che fio tilſe a'répi di Coſtantino, pure traſſe le ſueſcritture, come ei medelimo ne narra, dall'opere antichiſſime de'Caldei, es degli Egizj; onde dice il teſtè menzionato Euſebio, che aveffe la Chimica apparata Democrito:Aquóxer Qu Abdueírris φύσικο- φιλόσοφG- ήκμασεν εν Αιγύπου μυηθας υπο Οσάνς του Μήδε σαν λέντG- έν Αίγυπω πα αξε τών τηνικαύζ Βαπλίων Περσών άρχων 7 εν Αι. γύπω ιερών εν τω ιερώτΜέμφεως συν άλοις ιερεύσι και φιλοσόφους, εν οίς ήν και Μαρία της εβραία σοφή. Και Παμμένης συνέγραψε περί χρυσού, αργύρα, και λίθων, και περφύρgς λοξώς'. ομοίως δε και Μαρία εσ ηγέθε σαν παρ' ο'τανε, ως πολσίς και σοφούς αινίγμασι κρύψαντες την τέχνην. Μa che Democrito ſapeſſe la chimica, ſi può apertamente ve dere in quel che dice di luiSencca in una ſua piſtola: exce dit porro vobiseundem Democritum invenifle, quemadmodūs decoétus calculus in fmaragdum converteretur, qua hodieque coétura inventi lapides coctiles colorantur; le quali parole di Seneca fan.conoſccre quanto vada.crrato Giuſeppe della Sca For conto Scala; in facendoſi a credere non avere ſcritto altrimenti Euſebio, che Democrito nell'Egitto foſſe ſtato in Chimie ca addourinato,ma aveſſe ne'libri d'Euſebio un tal racco to, aggiunto, untal Pandoro monaco; e comcchè ſi conce deſſe a Samuel Bocciardi, Oſtane non eſſere ſtato giammai in Egitto, e ch'eglimorto {ifoffe gran pezza innanzi, che colà andaſſe Democrito; impertanto qualch' altro di cotal nomepotrebbe effere ch’aveſſe qualche operazione chimi ca a Democrito inſegnata. Ma ſe pure Euſebio errato aver ſenel nome, da ciò non puòargomentarſi eflerturto il rac Ma ben l'antichità della chimica affai: appieno dimoArano le fabbriche degli iſtrumenti dell'agricoltura, las qual ſenza dubbio, niuno colmondo medeſimo nacque adi un'ora:: e'l modo di coporre il pane, o dipremerdåll'uva, od'altre frutte il vino, e l'artificio veramente maraviglioſo di fabbricare i vetri, e diformar le gemme, e'l meſtier del la milizia, e d'altre antichisfimearti giovevoli non poco, e neceſſarie al genere umano; le quali ſenza la Chimica non fi poteron mai certamente ritrovare.. Edella ſua antichif lima lega collamedicinaben ſi può ravviſar qualche veſti gio appreſſo Teofraſto, ed altri antichi ſcrittori: e da qualche medicamento ancora delle volgari botteghe ſi può co prendere non eſſer sì nuova cotal arte, e da’moderni inge gni ritrovata. Mache che ſia di ciò: egliè certamente l'uo. ficio, o'l meftier dell'arte chimica di ſciorre i corpi unici, e di congiugnere inſieme i diviſi.. E quantunque ella ſia uns fpezial arte, che da ſe medeſima reggafi, ne le faccia ne ftieri, o la medicina, o alcra arte, di cui dipender debba; non però di meno per li molti, é diverſi fini, in cui gli ar tefici le loro chimiche operazioni talora indirizzar ſoglio. no, ella infra varie altre arti ſovente s'acconta;, ma in tre ſpezie principalınente è partita. La primaſiè, che ſolve, ed uniſce tutti metalli imperfetti p condurgli a quellaper fezione (come coloro s'avviſano j che l'oro in ſe contiene:e queſta vien chiamata da’Greci aepurunanida, La ſeconda ſi è la filoſofia,per la quale sì fatte operazioni s'indiţizzano a fin 1 dico di conoſcere, e ravviſare la natura, e la propietà delle co fe a' ſenſi ſottopoſte. La terza- ſi è la medica, che il mede fimoſimigliantemente adopera per iſpiare; e conoſcerpie namente la patura de corpiumani, e- giudicar delle ſanità, e delle malattie, e dell'arie, e dell'acque, e demedicamć ti, e di tutt'altre coſe schad huomo faccian meſtieri: e an cora acciocchè i medicamenti per quella ſoavi, e grazioſi fi rendano, e di maggior efficacia,e ſicurtà per noi ſi ſpe rimentino: e ſi poſſa ad un'ora più felicemente il veroje conyenevole loro uſo inſegnare. Comunque però ſi dica no, o ſi faccian gli artefici, egli è ben chiaro -effer la Chimi ca una cotal arte da per ſe fola; colla quale tanto ha che far la medicina, quanto delle matematiche, o d'altri ſtudij e virtù certamente s’inframinette; ſe non ſe per avventura dobbiam dire,che maggiore, e più manifeſta utilità recau alla medicinata Chimica, che tull'altri ſtudi di ſopra ac cennati unitiinſieme, e rannodati ſi facciano. Perchè come medico Chimico -ſuolchiamarſi dal volgo colui, che del la Chinica tanto quanto per lamedicina ſi ſerve, così ſo migliantemente o ſtronomico, o geometra, o muſioo chia mar colui-fi vorrebbe, che per maggior profitto inmedici na trarre, di sì fatti ſtudi picnamente fi conoſce. Ma noi nondimeno del comuni favellare l'ulo ſeguendo, chimnico medico, o chimico filoſofante-colui chiameremo, che del la chinica arte, o per medicare, o per filoſofare quando meſtier gli faccia ſervir Si fuole. Madall'uficio, edal fin della Chimica chiaro'fimiglia temente ſi comprende quanto quclla ne vaglia, e n'ajusi,a1 ži ſicuramente détro alle ſecrete coſe della natura metter ne poſſa. E ſe veriſſimo cgli mai ſeinpre ſi crede, ch'allej naſcoſe coſe Non trova ingegno-umano aperto il varco: chi può mai porre in dubbio, che lo ſcioglimento de'corpi naturali - il più ſcuro, e'l più agevol modofia da pervenirea qualche conoſcimento dique’principj, onde compoſti, e formati i naturali corpi ſono: come appunto dallo ſciogli incnto dc'corpi artificioſi, comed'orioli; o d'altri ſimiglia. ti ingegni fi vengon toſto a ravviſar le parti, che quei comº ponevano; il che ben conoſcédo i primi padri,e maeſtri del la natural filoſofia, Pittagora, Parmenide, Anaſimandro, Democrito, e altri ſaggj filoſofanti dalle continue conſide razioni, che attentamente ſempre facevano nello ſciogli mento delle coſe, che daʼnoſtri ſentimentiſi comprendo no le quali noi diciam corpi naturali,di quelle iprimi prin cipj inveſtigar mai ſempre ſi ſtudiarono. Ne d'altro argo méto fervifli Ippocrate a forınar l'opinione de'quattro pri mielementi, ſe non ſe di quello della reſoluziou del corpo umano; nella qual coſa egli fu poi da Ariſtotele ſeguito: dicendo, nella carne,nel legno, ed in altri ſimiglianti cor pi contenerſi virtualmente il fuoco,e la terra, poichè aper tamente ſe ne ſeparano; ma nel fuoco poi noneſſervi altri menti legno, ne carne, ne in atto, ne in potenza; imper ciocchè le vi foffero, certamente ſe ne ſeparerebbono. E tal ſentimento dalla torma tutta de’lor feguaci vić abbracó ciato; a'quali ſeinbra aver aſſai bene ſtabiliti i quattro pri mi clementi, con dire, in bruciandoſi una pianta aver vi, oltre al fuoco la cenere, che è terra, e'l fumino, che è aria: e la groinma, la qual riſudando n’addita non mancar vi anche dell'acqua. Ma quanto ſpoſata, e fievole una sì fatta pruova fia,ben pienaméte il coprede ogni meromo ſcolaretto in chimnica, cui troppo ben ſi manifeſta il macaméto, e i difetti di cota le ſcioglimento; concioſliecofachè in ardendoſi sì fatti corpi,molte, e varic favoleſche, oltre a quelle, che per la picciolezza in conto verun çavviſar non ſi poſſono, aperta mente per l'aria ſparpagliar-ne veggiamo: ne è da dire la cenere, il fummo, la fiamma, e l'umidore eller corpi ſem plici, e non compoſti, che queſti ancora ove più minu tainente fi folvano, e inſino a primi ſenſibili componenti fi partano, ravviſanfi compoſti di particelle di natura, en d'operazione diverſi, come quelle, che contengono un'ac qua ſemplice, ed infipida, ſenza altra virtù, falvo che d'u mettare: e un'olio puro, ed acceſibile,e uno ſpirito ſottile, e penetrante, e un ſal volante, che ha in ſe, non micno il ſapo Sss re, che  le che la virtù tutta del legno: le ceneri altresì fon com poſte di ſoſtanze diſſimili, ciò ſono un ſale fiffo acconcio a fonderſi nel fuoco, ed a ſcioglierſi nell'umido, ed una ter ra priva di ſapore, e di efficacia. E corale ſcioglimento no come il volgare degli antichi in pochi corpi ſi può dimo ſtrare, ma col conſiglio della chimica, poco men, che in tutti corpinaturali adattar puoſli; oltre a ciò poi più addé troil chimico facendoſi argomentar potrà i ſapori di tutte coſe dal ſal venire in quelle contenuto, egli odori dal ſol, fo, e dal mercurio la penetrazione; e per tacer d'altro,più oltre ancora procedendo ritroverà, che i ſemi del liquido, e ſottiliſſimo fuoco nel ſolfo alberghino; o che ſian quellia guiſa d'acutiſſime piramidette, o dipiccioliſfimi globi: e che il ſolfo ſia d'uncinute particelle, e aggavignate com poſto. E così pian piano ricercando la figura delle parti celle del fale, è degli altri chimici principj trapaſſerà a {piegare con probabili conghietture tutte le operazioni di quelli. Così pariinéte dalle chimiche oſſervazioni avviſato, po trà chiche ſia inveſtigare,come far ſi poſſano le piovese i grā. dini: come s'ingenerinoi tuoni,i lápise le ſaette:come dalla forza delle folgori fi dileguise fi föda il ferro della ſpada,rie manédo illeſa la guaina: come piovano foventi fiate pietre, ſangue, elatte, e come alla fine ſi formino le ſtelle caden o; le cagionidelle qualicole, e altre molte, potemo ogo gi col giovamento della chimica, non ſolo aſſai veriſimile mente conghietturare, ma coll'opere, e coll'eſercizio prat tico imitare; imperocchè fifaccia dell'oro una polvere nel la fornace chimica; che dagli effetti oro fulminante appel laſi, la quale acceſa, fa non folo lo ſtrepito, e lo ſtroſcia del tuono, ma anche ilcolpo, e la violenza della faeţea; il che fa altresì quella polvere da ' chimici parimente ri trovata, la qual tonante chiamano. Così parimente raccoglieſi dall'evaporazioni dell'acque piovane eſtives, un ſale, chemeſcolato con egaal porzione di ſalnitro,e có una particella di ſolfo fa an coral meſcolamento, che ac celo li fonde in pietra. Ma di troppo più tempo avrei bi fogno ſe voleffi Io far parole ditutte altre maraviglie dela le quali le cagioni naſcoſe per addietro, e inviluppare agli intendimenti de’noftrimaggiori ora per argomenro delle chimiche ſperienze ne fi rendono in qualche maniera pia ne, e manifeſte. Perchè non è forſe dadubitare, che ſe l'arte Chimica pervenuta foſſe a notizia degli antichi greci filoſofanti, non avrebber certaméte coloro nelle loro ſcuo le huom ricevuto, che prima in quella non foſſe alcun té po uſato, e ben lungo vantaggio tratto n’aveſſe; e per mio avviſo con maggior ragionedi quella, onde Platone, e se nocrate volean, che nel filoſofare non foffero ammelli com loro, che della Geometria digiuni foffero, come teſtimo: niano Laerzio, Suida, ed altri; perchè nella fronte dell'an drone dell'Accademia quelle famoſeparole ſcolpite legge váli oudéis ayemjétentos sioitw. Concioffiecofachè la chimica fola il più certo, e ſicuro fenticro lia,da condurre alla na tural filoſofia; edella ſola porger ne fappia le chiavi, con cui quelle ſalde,e diamantine porte differrar in qualche modo ſi poffano, ove i più cari, e ricchi tefori deita natu ra fon riſerbati: perchè a ciò riguardando non ebbe il cor to certamente il famoſiſſimo Meſue di chiamare per van. taggio, e per eccellenza floſofi, e ſapienti coloro, che del la Chimicaconvenevolmente s'intendono. Ma per diſcendere al più particolar giovamento, che della Chimica raccor fucle la medicina: Io dico primiera mente, ch'a bene ſpiarla natura de’viventi, e ſpezialmente delcorpo umano, e la ſua ben regolata economia,la chimi ca lommamente abbia luogo, e la ſua vital notomia; im perciocchè ſiafi pure coll’opere della morta notomia a mol te, emolte coſe aggiunto, le quali gli antichi ſapicaci ravviſar non poterono; e lungo tratto vi crrarono: e ſap piaſi pure per quella il vero movimento del cuore, e del ſangue: e che il ſangue non s'ingeneri nel fegato, o nelle vene, fecondochè con molti altri, così antichi, comemo derni porta opinion Galieno: ne men nel cuore,ſicome im » magina Aristotele: c ſappiaſi anche, che il chilo tragittiſi non per le vene miſeraiche, ficome vollono gli antichi me Sss dici; 508 RagionamentoStrimo dici; maper le vene lattee al ſacco latteo; onde poi meſco laro col ſangue trapaſſa al cuore: e ſappiaſi eziandio, che vi ha le vene acquofe: c come, e per quali ſtrade l'orina per le reni trapelando alla veſcica s'ayvalli: ecento, e mille altri moderni trovati degli ingegnofi notomiſti de’noftri tempi, de qualierano affatto digiune Legentiantiche ne l'antico errore; anzi concedaſi altresì volentieri (il che non mai sì di leg gieri conceder dovremmo ) che la notomia già all'ultima mano ſia giunta; e che de'tempi noſtri ſe ne ſappia quanto mai per tutti i ſecoli ſe ne potrà per innanzi ſcoprire, o fa pere:non per tanto non potrà di tutto concio ſervire al me. dico per farlo a quella perfezion ſormontare, che al ſuo meſtier.Sirichiede; anzidopo tante, e tante fatiche ſaprà cgli ſolamente una vaga, c dilettevole ſtoria delle parti del corpo umano: utiliſſima certamente, anzi neceſſaria a do ver ſapere; ma non baſtevole già, ne meno a poter in par te fondare, e mandare avanti una verifimile razionalme dicina: per la quale fa meſtieri ſaper le cagioni dentro, ele probabili ragioni delle coſe, non già la ſola ſtoria, e'l ſem plice racconto di quelle. Ne da dir egli è ſaper pienamen te l'economia del corpo umano quel medico, il quale non potrà render ragione della natura della generazione, del movimento delcuore, del ſangue, del chilo, degli umori acquoſi, e d'altre parti così correnti, come ſaldodelcorpo umano, c della propietà,e operazione di ciaſcuna di quel le; le quali coſe inveſtigare impoffibile certamente è ſenza dovere a chimici ſcioglimenti ricorrere; per virtù de'quali Avicenna d'inveſtigare ſtudiosſi l'umidore dell'oſſa, e de' peli: ed affermò,cheavendo egli ſtillato nella boccia parti eguali d'offa, e di peli, uſcì dell'offa maggiore abbon danza d'acqua, e d'olio, e minor di feccia: perchè dic'egli, che l'oſſa più umide, c più ſuccoſe fieno. Ma no pure a ben filoſofare i Chiinici dello ſcioglimēto de corpiſervir fi debbono,ma co argométo ácora ditutt'al tre operazioni dell'arte,bé poſſono veriſimilmente ſpiegare, come tanta varieti di cibi nella ſoſtanza, e nel colore dilli mili ſi traſmuti ſoventi fiate in un bianchillimo, & unifor me licore, che chilo appellaſı; come poſcia il candore del chilo in ſanguinoſa roffezza ſi trasformi; e donde il cuore abbia il ſuo movimento, e'l ſuo calore, cioè aſſomigliana do la concozion de'cibial diſcioglimento, over disfacimé to decorpiſolidi, in virtù di convenienti liquori; la gene razione della bianchezza nel chilo, e del roſſore nel fan gue, alla trasformazionedel colore nel latte vergine, e nell'eſſenza del fatirione, e altre ſimili coſe; la continua produzione del calore nel cuore, e nel ſangue: al fervore, che per la formētazione s'ingenera ne’liquori de' corpi ve. getabili. E cotanto montano per mio avviſo sì fatticono ſcimenti, che ſenza quelli nonſi può coſa del mondo intor, no alle malattie, a’lor effetti, e cagionigiammai diviſare; ne in altre faccendo delcorpo umano, coſa alcuna di con ſiderazione potrà per huom maidirſi, fe minutamente les dette coſe, e molte, e molt'altre per virtù della Chimica in prima diligentemente non s'inveftighino, le quali tutte lungo ſarebbe al preſente volerle quìfil filo narrare. Ma non men utile, non men giovevole, e neceſſaria cgli è certamente ancora al medico l'arte de Chimici,colla qua le egliponendo ad una rigoroſa, e ſottile eſaminazione l'aria, le terre, l'acqua, le piante, e gli animali, eimine rali corpi, attentamente poine ſpia, e ne conghiettura la natura di ciaſcuna coſa; e di qualunque lor menoma parti cella le propietà, elevirtù, ele maniere tutte dell'adope rare con probabili, e ſimili conghietture ravviſa. E nel vc ro queſto, che ciaſcun di noi, e tutt'altri corpi di quà giù ſempremai circonda, penctra, avviva, emantiene, valtiſ fimo, e diſcorrente, e lieve, e ſereno, e ſottiliſſimo cor po dell' aria: la quale l'acutiſfimno infra gli antichi Ita liani noſtri Timeo di ſgretolate, e minucillime particel le di ben venti facce compone, non è egligià miga ſem, plice corpo, come il volgo follemente s'avviſa;ma di varie, e diverſe ſoſtanze compoſto inſieme, emeſcolato. Sorgo no queſte dalla baſſa terra talora, edall'acque, che quella, irrigano, e forſe anche dalla luna, dal ſole, c da altri corpi superiori vi piovono; per li qualil'aria, o più, o menoalla reſpirazione, e agli altri biſogni degli animali acconcia fi rende, poichè nelle cimedegli altiſimi monti, ove non giungono l'eſalazioni dell'acqua, e della terra, gli animali fi foffogano; perchè poi in coloro in varie guiſe le malattie naſcer veggiamo; perchè canrò Virgilio ſubito cùm tabida membris Corrupto cæli tractu, miſerandaque venit Arboribufque,fatiſque lues,lethiferannus. Ma tali particelle meſcolate inſieme, e nell'aria coufuſe aſſai malagevolmente per certo, aozi in niun modo ravvi-, far ſi poſſono, ſe non ſi partan prima', ſolvendoſi ciaſcu na di loro ne' ſuoi primi componenti. Il che con ma raviglioſo artificio da alcun de'più eſercitati, e più intens denti Chimici felicemente operar ſi ſuole: e ben ſi ſcorges omai a tal ſegno la coſtoro induſtria avanzata, che per ope: ra del famoſo Drebellj,parche vi ſi fia già ritrovato perre ftituirlo all'aere, qualora ne veniſſe egli privo,quelnobilif ſimo eliſlire, che giuſta i ſentimenti di Paracello vita infó de a quanto Qui nel mondotra noiſimuove, & fpira; che perciò egli vitale l'appellasper cui l'aere non ſolamente agli animali,maalle piante cziandio oltremodo neceffaria eller li conoſce; e ben di eſſo felicemente avvaler ſi vide to ſteſſo Drebelli, allorche egliquella maraviglioſa bar chetta da lui fatta a richicſta del Re Giacomo della Gran Brettagna con iftupor di tutti ſotto acquanel Tamigi fena vigare; coméchè il detto eliſfire altro ancor faccia, cioè folvå, e precipiti giù quelle ſoſtanze nell'aere, che'l ren dono mai atco alla relpirazione. Ma l'acqua, la quale per bevanda, e per altri infiniti ug è cotanto biſognevole, quantunque chiariſſima, e traſpa rente, c pura a tutta poffa fi ſcelga, eli proccuri; e che al fapore, all'odore, e alla leggerezza, ea tutt'altri ſesnali ſempliciſſimo corpo in prima neſembri; pur riandata poi, oltre a diverſe foſtanze, che meſcolare vi ſi trovano, ſe ne cava ancora un tal ſaie sì fattamente acuto, e pugnereccio, che JEI che di nulla ha che cedere in forza aque'ſali,onde per l'ac qúa regia quel duriſſimo metallo fi ſcioglie, comediſopra accennammo, che a qualunque violenza di fuoco, ſaldo, e oftinatiſſimo mai ſempre contraſta; perchè è dacredere nó bene operar coloro, che il diſtillar acqua per limbicchi di metallo, e maffimamente di piomboagli ſpeziali permet tono; conciosſiecofachè roſicchiato alquanto dallamorda cità di quel fale il piombo, e trameſtandoſi l'uno all'altro, vengonoinſieme a corrompere,e meſcolare; e guaſtar ma lamente la ſoſtanza diquell'acqua, che ftillaſi:e allora veg giamo coforarſi a poco a pocol'acqua, e a guiſa di latte biancheggiare, quando diſtillata a campana di piombo có altra femplice, e non diſtillara acqua ſimefcola; ilche fag giamente avvifarono già i dottiſſimi Accademici del Cinně 80. Ma che che fia di ciò, oltre al ſale, il ſolfo altresì, e'l mercurio, e la flemma, ela terra dannata ritrovò nell'ace qua il dottismo medico, e chimico filoſofante Borricchio. E che diremonoi de ſemidi tantis e tanti vegetali semine rali, e animali, cheper la glorioſisſima induſtria d'alcunº altro Chimico nell'acqua ancor ſi avviſano: il che diede per avventura cagione agli Egizzjdi giudicarla primera, e univerfal materia ditutte coſecreate, da'quali tolſe Ome ro a dire: Ωκεανόν πθεών γίνεσαν και η μητέρα τηθε ePautore di que' verſi attribuici ad Orfeo Ωκεανόόσπερ γένεσις παντεσσι τέτυκάι. Ωκεανών πεώτG», καλιρρόσυ ήρξαι γάμοια oʻpos saoryvártee góptopýtoege TyIwTHEY, E’I noſtro poeta, per tacer Virgilio, Catullo, ed altri, ſe. condo il medeſimo ſentimento avendo egli al fuo Filagli teo fatto ragionare in prima della terra, Pur non è ella il gran principio immenſo, Ilgranprincipiodele coſeeterno, Benchèmadre fichiami, e velta: & vanti La reggia, ei figli ſuoidivize giganti, fa poi, che coluiſoggiunga: Mafo degna di fede,èfama antica L'Ocean de le coſe.è vecchio padre. Il qual ſentimento fu anche di Talerc Mileſio, il qual ncl. la ſcuola de ſapienticosì preſſo Auſonio va dicendo Milefius Thales, aquam qui principem Rebus creandis dixi. E ciò dal vedere egli, come fasſi a credere Ariftotele, effer umido, così il ſeme, onde s'ingenera l'animale, come il cibo del qual ſi nutrica: e dal credere, come riferiſce Plutarco, il ſole, e le ſtelle da'vaporidell'acqua nutrirſi, o dall'avviſare ch'ogni qualunque coſa dall'acqua nafca, ed in ella diffolvafi, comc racconta Euſebio. Malo immagi. no, che Talete non già principio delle coſe abbia voluto eſſer l'acqua, ma giudicato aveſſe aver d'acqua in primas avuta ſembianza e, forma quella materia, onde poiſecon do il ſuo avviſo i corpi tutti ſenſibili del mondo si formaro no; ciò parimente ravviſar ſi puote dallo ſcoliaſte d'Efiodo, allor che dice, il caos d'Eliodo, altro non eſſere, che l'ac qua. Ma non men dell'acqua, e dell'aria ſi dee ancora prender cura delle terre, c con attentisſima eſaminazione conſide rarle, ove certamente infra tante, e tant'altre ſoſtanze,che Vallignano foglion diverſe, e varie ſorti di minerali' ritro varſidagli; aliti de'quali reſa talora peftilenzioſa, e corrot ta l'aria, o l'acqua, o le piante, o le frutca, nuove, edi verfe guiſe di malattie ſovente cagionano: ne altronde, per quel che già Io ini creda, quelle gravisſime febbricomor tal riſchio degli ammalati in cotali ſtagioni dell'anno accé der fi fogliono, che per cambiamento d'aria avvenir comu nemente fi giudicano, ſe non ſe da sì fatti aliti, e ſuapora menti de'minerali, che pervenendo al noſtro corpo, e dall' aria, ed all'acqua, e da' cibi quivi racchiuſi, e ingozzati, ſcoppiano poi per la loro abbondanza, e ſoverchio vigore in ardentisſime malattie; imperoccliè in quelle ſtagioni il fervor del fole facendo venir ſu gli alitį arſenicali, vitrio lati., nitrofi, e ſulfurei dalle occulte miniere della terra, rende l'aria dannoſa, e nociva alla unana ſalute; concioſ fiecolachè in ponçido noi mente alle chimiche operazioni e 1 o ravvifarido, come alcune ſoſtanze, le quali comechè ſc parate ſi prendano ſenza alcun nocumento per la bocca, im pertanto confuſe formano un mortifero veleno, come nel ſolimato ſi vede, del quale ogni qualunque menoma parti cella mortalmente offende, potrasſi agevolmente conoſce re, come reſpirādofi ne'viaggi ora aliti mercuriali, o a'mer curiali equivalenti, ed ora ſalini, pofſa produrſi nel cor. po noſtro una ſoſtanza non guari disſimile al ſolimato ed indi poi quelle mortali infermità di cambiamento da ria appellate agevolmente s'ingenerino. E ciò vien conferinato dalla ſperienza, come quella, che ci dimoſtra, ivi avvenir le malattie di cambiamenti d'aria, ove ravviſa fi maggior varietà diminerali, ed ove il calor del ſole per cuota maggiormente; ne da altro, che da aliti velenoli, e nocevoli de'minerali da crederè, che s'accendano ancora quell'altre febbri non men malvagc, e non men peſtilenzio ſe delle prime, che avventandoſi tratto tratto con lor vio lenza alle Città, e a' contadi, e a’villaggi tutti, fogliono così infra breve ſpazio di tempo impoverir d'abitatori le contrade. Ed abbiam noi pure con gli occhi proprivedu to quanti, e quanti da sì fatte cagioni nella noſtra Città miſerabilmente morti ſiano, e ſpezialmente ne'meſi addie tro, quando crudelmente diſcorrendo in alcuni luoghi la peſtilenzial febbre, laſciò vuoto, e diſpopolato il Borgo Sant'Antonio, ed altre terre,non ſolo della Campagna Fe lice, ma d'altre Provincie ancora del Regno noſtro. Ed è egli neceſſaria ancora ſoprammodo a'mcdici la chi mica acciocchè eglino con l'ajutodi quella valevoli a ſpiar la natura, e la propietà de'cibi, e de'ſemplici medicamen ti render ſi poſſano; conciosſiecofachè quantunquc vero egli foſſe ciò che Galieno medeſimo coſtantemente niega's c rifiuta;che i ſapori, e gli odori, ed altre ſoiniglianti qua lità, certi, e ſicuri ſegnali della natura de'cibije deʼmedica menti ſiano, pure perciocchè gli organi de’noſtri ſentimen ti di sì ſottiltempera, c di sì acuto intendimento non ſono, che poſlan ſempremzi ben comprendergli, egli ne fw certamente meſtieri per iſcorta de'ſenſi rintuzzatil'Ermetica notomia, la quale partendo i corpi, ed eſaltandone le qualità (per ſervirmi d'una voce dell'arte ) quelle poi ma nifeſte a'curioſi, e ſenſibili maggiormente offerir poffa. E quale avviſo potrebbe mai per huom' prenderfi dal ſolo fpiamento de ſenſi intorno a que'cibi,e a que'medicaméti: che pur ven'hà molti: edanche intorno a que'veleni, che privi affatto,e ignudi d'odore,e di ſapore,e d'altre ſimigliá ți qualità, di tanto vigore, e di sì inaraviglioſa efficacia ſi conoſcon poiper pruova, qualia danno, c quali a prode gli huomini, chc nulla più? E quale argomento prenderem noi dal ſapor di quelle coſe, che di ſoave dolcezza maſche. rate in prima, come già altra volta abbiam detto, ne lufin gano il palato, e la lingua, e poi tranguggiate, nello lo maco formentandoſi, le viſcere, cgl'inteſtini crudelmeute, n'offendono? Coſa,la quale nel zucchero, e nel mele, e in ciaſcun'altra ſimigliante coſa manifeſtamente fi ſperiméra, Che dolce al guſto, a la ſaluteè rea; perchè facendo le beffe a' volgari medici il motteggevol Berni, così proverbioſamente ne favella: Il melperchèmangiato altrui diſtempre, E’n collera ſi volti; a cui l'amaro Danno coſtor, che fan tutte le tempre: Queſto ſecreto così degno, e raro Maſtro Simon ftudiandoil Porcografo Scoperſe a Brun, che gli fu già si caro. Or fa tu l'argomento o Babualo, Edì, fe'l mele in cullera ſi volta, Segno è, che d'amarezza non è caſo. Ma comechè così alla ſcoperta n'ingannino i ſentimenti ilmele, e'lzucchero con far veduta d'eſſer cotanto dolci, foavi; pure de’lor falli agguati ne fan pienamente avveduti le chimiche machinazioni, con darnemanifeſtamentea di vedere, nel zucchero, e nel mele un ſale acutiffimo naſcon derſi, nonmolto a quel dell'acqua forte, e dello ſpirito del nitro dicimile: Quis mellis dulcedinem nefcit? dice Pier Severino: nibilominusin tanta dulcedine latent Spiritus illi acutisfimi, qui ubi exaltantur, & ad extremitatem ducuntur,venenatā perniciē represētāt.Eprima dilui Baſilio Vale. tini già detto aveva:jā vero ex illo fuavisfimiq;faporismeile Corroſivă peffimü, atq; præfens venenum præpararipoteft. Or va medico ingannato, e ſciocco, e giudica pur dalle qua lità, ch'a prima faccia viſcorgi,le cofe della natura; con danna la rigidezza nel ſal comune per la rabbiofa ſete, ch ' accenderſi da quello sformatamente rimiri: ch'ad ontz pur della tua mellonaggine han ſaputo i Chimici un fales aceroſo rinvenirvi ad attitare anche agl'Idropici più ane lanti la fete. E che direm poi del pepe, che così mordace; e pungente, puré un dolciſimo, e ſoaviffimo fale in ſe na fconde? E che d'altre, e d'altre pruove infinite, che per interamente fpiegarle vi vorrebbono lunghi volumi, non che piccoli diſcorſi di ragionamenti? Sarà dunque da con. chiudere, che noi per quanto con tutta noftra poffa a ſpia: rei ſegreti delle coſe del mondo ci adoperiamo, pur nonui ne poſſiamo fe nonſolamentele priincbucce comprendere; perchè ſe chimica mano non le parge, c riſolve, e diſtinta mente elaminandone le parti, le naſcoſe interiora di qucl le non ci addita, e le operazioni, e'l convenevol modo di farlo, certamente chiunque ciò follemente intende Ne l'onde folca, é ne l'arene femina. Eben di ciò fe manifeſta pruova il Cardano,che col lim. bicco, e colla Chimica giunſe a ciò che comprender mai non poterono, o Ariſtotele, o Galieno; e ciò fu, che nó fappiendo coſtoro la cagione, perchè cotanto noccia il vi no,maſſimamente generoſo, e pretto a colui, che paciſca di mal caduco,egli ſolamente colla ſcorta della Chimica potè a fuo credere affai veriſimile ritrovarla:hoc verò dico (sõ ſue parole) nõ cõvelli puerosà vini potu ob caliditatem;quum neq; pipere,neq;aliis aromatibus id eveniat: neq;quod fithumidū; nă vel noeft, vel lac longè humidius, à quo tamen non convel tuntur. Caufsa ergo eft aqua ardens, quæ in illo continetur: que quum latuerit Ariftotelem; & Galenum, meritò in Aris fotele admirationis cauffam præbuit, in Galeno multa perpe tam commentandi; eftautem abundantior, quo vinum craf Ttt. 2 pius eft. Ma ſe'l Cardano ſtato e’li foffe meglio inteſo nelle faccende della chimica, aurebbe certamente una aſſai più veriſimile cagione di ciò nel vino ſcorta, e avviſata: im perocchè oltre allo ſpirito ardente, che giova anzi che no al mal caduco, evvi un ſal fiffo acetoſo nemiciſſimo delle parti tutte nervoſe, del qual aſſai più, che dello ſpirito ardente egli è il vino groſſo abbondevole, e copioſo. Ma intorno alle fattezze, così dentro, come fuori delle coſe, giovevoli oltremodo a raffigurarne anche le vir tù dc'ſemplici, non comporta al preſente la ſtrettezza del tempo, ch’lo tanto quanto ne ragioni;le quali per non dir d'altri vedeſi aver tolte dal Paracelſo, e da altrichimici au tori, comechè di lor non faccia punto mézione,e averle de ſcritte nella ſua Pitognomica il noſtro curiofiffino, emol to de’ſegreti della natura intédente Gio: Battiſta dalla por, ta. Maniuno certamente ha, che con maggior diligenzas per quel che me ne paja, e più felicemente ne tratti (per ta cer del Crollio, e del Quercetano) quáto Federigo Elvezio, E coinechè noi fin qui de'ſemplici medicaméti detto ab kiamo, non però di meno è da credere la Chimica a'com poſti, clavoratimaggiormente abbiſognare. Furon que fi ingegnoſi trovati del mondo già adulto; imperciocchè negliannidell'oro, e nella felice etade, quando i pomi, e le ghiande Eran del corpo umanlodevolpaſto: nelle ſemplici piante la germogliante medicina ſolamentes confifteva; e allora non men che le ſchiette vivande, i me dicamenti ancora Vſar le fortunate antichegenti; ma creſciuta poi oltremodo col tempo, e comprenden doſi dagli huomini eſſer nclle piante qualche parte inutile per avventura, c qualch'altra forſe nocevole, eglino di par tir l'une dall'altre per lor biſogne avvedutamente propoſe ro; quindi tra perchè non ſi fapeva, o non ſi potea purlaw parte nociva, è inutile dalla buona ſeparare, e anche per chè così diviſe, debile molto, e sforzata la parte medicinal He rimaneva, qualch'altra pianta forſe ſaggiamente v’ag 1 4 giunſero valevole ariſtorare i mancamenti, e i difetti del la prima, é a far sì, che quella nulla, o poco nocer potef fe; anzi ſe pur Pabbiſognaſſe, quindi la ſua virtù notabile mente avanzar nedovefle. Così tratto tratto cominciaro no nel mondo a comporſiinſieme, e meſcolarſi i medica menti; e ſarebbe pure aſſai bene potuta riſtare in tale fta to la biſogna, ſe già tanti, e tanti indiſcreti, e ſmo dati medicinon aveſſer quindi preſo agio di ſtrabocchevol mente ſcompigliare, e confonder la medicina tota, con ac cozzare inſieme; e meſcolar cotanti medicamenti per ren der la medicina, o più malagevole, o di maggiorpregio al mondo; e componendo inſieme una lunga ſchiera di cento ſemplici medicamcnti, ne formarono talora uirconfuſo, e inviluppatiſſimo guazzabuglio. Cofa, la quale ſommoſſe i più faggi, e avveduti medici, ed inveſtigatori della natu ra a lūghisſime quercle,come d'Erafiftrato narra Plutarco con quette parole: Ερgσίστρατοδιέλεγχε την ατοπίαν, και περιεργίας με μεζλικα, και βοτανικα, και θηeμακα, και τα από γής, και θαλάθης εις Te Quroovyzeegwúras oxandryce Citocécouvlas iv mitocrívy, og díxua, και εν ύδρελαίω τηνιατζικην απολιπε. ΜαEragrafo biamo ol tremodo l'indiſcrezione, e la curiofità di coloro, che i minera Li infieme, e le piante, e gli animali, e ciò che mena laterra, o naſce in marein unomeſcolarono; che più fennd af'ai avreb ber fatto, fe daparte laſciate cotantecoje folamente co’farri, colle zucche, e coll'Idreleo aveſſer l'arte della medicina ter minaia. E l'avvedutiffimo, e bé parlante Plinio.fraudes ho minum,&ingeniorum capture officinas invenere ifas, in quibus ſua' cuique homini venalis promittitur vita. E chi non maraviglierebbeſi di tante, e tante coſe, ch'a com por la Triaca, o'l Mitridate, concorrer debbono, dan ftancare i ſpeziali,non che a raccorle,maſolamente in leg. gendone le ricette/ Theriace, diſſe altrove il medeſimo Pli nio, vocatur excogitara compofitio luxuriæ; fit ex rebus ex ternis, quum tot remedia dederit natura, quę fingula ſuffi, cerent. Mithridaticum antidotum ex rebus quinquaginta quatuor componitur, interin nullo pondere equali, & qua. rundam rerum fexagefima denarii unjus imperata. Que Deorumperfidiam iftammonftrante? hominum enim fubtilin tas tanta effe non potuit. E avvegnachè cotali medicamen ti fiao poi nell'opera buoni, ed efficaci riuſciti, non ne ſom però mai da troppo commendare i primilor ritrovatorizim perciocchè nel comporgli da prima, e nel lavorargli non con avveduto, e ſano giudicio certamente adoperarono, ma a riſchio, e a caſo alcune di quelle coſe togliendo (che pure alcune vi ſon ſoverchie ſenza pro niuno, c viſi potreb. bono anche dell'altre, e forſe con maggior ſenno, più ef ficaci aggiugnere)il tutto e nella ſceltage nel povero,e nels la quantità di ciaſcuna ciecamente alla ventura riniſero, non guardando minutamente comeſi richiedeva, al valor di quelle, ne punto efaminandole. Impreſa per molti ca pi malagevol troppo, e quaſi ad huom diſperata; ſenzachè nel meſcolarſi,nel diſporſi, e nel formentarſi inſieme i sé plici,varj, ediverſi mutamenti ſovence avvenir ne foglio 110; iqualicertamente non è da dire, ch'aveſſer mai que primi ritrovatori di quelli pienamente avviſar potuto. Per chè comenell'incendio di Corinto quel ricco metallo co tanto dalle ſtorie celebrato nella fortunofa meſcolanza di altri metalli alla vçntura formofli, così nõ meno il caſo an cora ha parimente portato, ch'il Mitridate, la Triaca, o s'altra v'ha fomigliante compoſizione, giovevoli, ed effica ci rimedi per molte, e graviſſime malattie fortunoſamente fian divenuti. Ma che che di ciò ſia, manifeſta coſa è poterſi molto be De l'antico ufo rinovando, colle ſole piante medicare; la qual forte di medicina, dirò con Adriano Turnebo,huom di varia, ed eſquiſita letteratura: fortaffe ad morborum fani taiem efficacioreft,quam illa confuforum miſcellanea compo fitis; magno mortalium, & difpendio, & damnointroducta. £ noi per tacer de' bruti animali, che felicemente ad ogn ora l'adoperano il veggiamo pur fare alla giornata a parec chj de'noſtri contadini, ne ha guari,cheil Caritrero, famo filimo medico Tedeſco, con ufar medicando le ſemplici piante, non ordinaria lodå guadagnoſli; e i popoli inge gnofillimi del Braſile,iſicome riferilce Guglielmo Pifone, medi DelSig.Lionardo diCapoa. $19 medicamentis fimplicibus utuntur, noftraque derident, quia compofira; e degli abitacori del Mellico, Fra Martino Igna zio ne' ſuoi viaggj, così dice: los Indios fon grandesberbo-, larios, ycuran fempre con ellas, demanera, che cafi non hay enfermedad para la qual no ſepan remedio, y le den:ya eſtacaufa viven muyfanos, y cafi per maravillamueron, que noſea quando el humido radical ſe conſuma: ed in quel va ito, e quaſi immenſo tratto dipaefe della China, comete ſtimonia il Padre Matteo Riccio, fi è medicato permolti, e molti ſecoli, e ſi medica tuttavia, ed aſſai felicemente coll uſo delle folc erbe. E certamente come la natura delle ſchiette, e non meſcolate vivandeoltreinodo ſi dilecta, Nam varieres Vt noceant homini credas, memor illius eſcę, Que fimplex vlim tibi federit; at fimulaffis Miſcueris elixa, fimulconchylia turdis; Dulciafe in bilem vertent,ftomacboque tumultum Lenta feret pituita: vides ut pallidus omni Cæna deſurgat dubia? quin corpus onuftum Heſternis vitiis animum quoque pregravatuna Atque affigit humo divineparticulam aura. Così anche ſchietti, e non compoſti medicamenti per riſtorarſi richiede; perchè Plinio: non fecit, diffe, ceraia, malagmata, emplaftra, collyria, antidotaparens illa, ac di vina rerum artifex: officinarum hæc, imo veriusavaritia commenta funt. Pure, poichè la coſtuma de’meſcolati, co me de'ſemplici medicamenti, è tanto oggidà nel modo avā zata, che per legge è quafi da ciaſcun ricevuta, e ſi veggo. no sì fatti rimedinelle botteghedegli ſpezialicötinuamen te a calca difpenfare: convenevol cofa egli certamente, anzi neceffaria mi pare, dovere il medico degli unis e degli altri piena, e ficura contezza avere; e oltre a ciò nelle ma niere del lavorare i compoſti medicamenti eſſer ottiinamé te ammaeſtrato. E certamente, o quanto farebbe egliil migliore, ſe il medico medeſimo i rimedj, che diviſa, po • neſſe in opera, e non ci foſſero ſpeziali, i quali tri per l'in gordigia del danajo, e per la loro ignoranza il tutto traſcu rata:  1 1 ratamente abborracciaffero; o almeno lavoraffcro imedici qualche medicamento dimaggior conſiderazione, laſcian-, do ſolamente in man degli ſpeziali i più volgari, e meno vili: come già coſtumavano (ſecondo il narrar di Galieno ) Archigene, Andromaco, Apollonio, Critone, Pacchio,e altri famoſiffimi medici antichi; i quali non iſdegnarono ď. ufar ſovente un così giovevole, e aobil meſtiere; an, zi lo ſteſſo Galieno vantaſi oltremodo d'aver lui mede fimoa ſue mani la triaca lavorata; avyegnachè di que’tein pi, come e'medeſimo ne fa teſtimonianza, e molto addie-: tro ancora, il meſtier delmedico da quello dello ſpeziale diviſo anche trovaffefi,come avvifa infra gli altri Plinioidid cEdo, che alcunimedici de'ſuoi tépi no li davan cura niuna dicoporre imedicaméti,gefepropriú,ſono ſue parole,medie cine ſolebat:ene'répia noi più vicini ebberoi medici ancora le lorbotteghe;avvegnachè conventati, e onorati molto ſi foffero, e in quelle alcuni medicamenti ad uſo di vende re riſerbaroro: come dal Decameron delBoccaccio nel la novella del Maeſtro Simone agevolmente ſi può cópren dere; a cui Bruno dicea: e ſappiate, che quelle camere ſono nonmenoodorifere che fienoi boffoli delleſpeziedella bottega voftra, quando voi fate peftare il comino. El Fernelio, ed altri famofiffimi medicihan coſtumato pure di comporno alcuno s perchè l'avvedutiſlimo Orazio Eugenj loda foin mamente coloro, che imedicamenti pe’loro ammalatian ſue mani lavorano. Ne dovrebbe ilmedico certamente vergognarſi a pur farlo 3 perciocchè,comedice Primeroſio, remedia abfque medico curant,non autem medicus abſque re mediis; præftantior igitur medico erit remediorum natura: quare ea præparare, &componere medicum non dedecet, qui naturæ tantum miniſter eft. E nel vero egli è queſo un meſtier sì nobile, e lodevole, che non che i filoſofi di mag gior lieva, e ſpezialmente Ariſtotele l'abborriſſero, e l'a veſſero in diſpregio, anzi i Principi d'alto affarc ſovente l'adoperarono, e'l tennero a conto. Or ſe il medico medeſimo a pro de'ſuoi infermi lavorar dee ser deeimedicamenti,e ſconvenevol coſa non è a ſalvamento degli huomini l'adoperarviſi; come potrà giammai, quan tunque faggio, e avveduto egli ſia ', porre in opera, e com porre i più malagevoli rimcdj, ſenza avere in prima bene, uſate, e ſperimentate lungo tempo le maniere, e gli artifi cj, co’quali ſi compongono? iinperciocchè l'efficacia, e'l valor di quelli dal niodo dell'apparecchiargliin gran parte depende. O come potrà mai pienamente diviſar de'ſempli ci, de'inodi, co'quali tra loro quelli accozzar ſi debbono, e tramcſtare? perchè Giacomo Silvio intendentisſimo di cotali affari vuol, che chiunque a bene imprender l'arte della medicina indirizzar ſi voglia,debba alinen per lo ſpa zio di quattro anni avercontinuo in prima uſato, ebazzi cato con gli ſpeziali nelle botteghe loro; & quidem exifti mo, dice anche Pier Caſtelli, oprimum medicum hujus fu cultatis debere effe expertiſſimum: alioquin fore, utfere fem. per in præfcribendis medicamentis compofitis erret. Mari tornando, onde partiti eravamo: ch’al inedico faccia biſo gnola Chimica, quanto al fatto delle compoſte medicine, egli non è da porre in forſe; poichè ſi ſcorge omai di per; tutto eſſer in uſo le chimichemedicine; perchè ſe'l medico non aurà piena corezza delle faccéde pertinenti a coral ar re, come potrà inai quando meſtier glie ne ficcia, o colle fue propic manicomporle, o adoperarle, o conoſcere al meno, c riparare aldanno, che quelle aveſſero per avven tura cagionato; o ſe forſe da altri medici diviſati foffero, raffermare i loro sériinéti, o rintuzzargli,ſecodo egligiudi chcrà, che ſi convegna per lo miglior dell'ammalato. E nel vero come potrà mai adoperar medicinenti un medico, ſe non ſe intendentistimo della natura, e delle propietà delle parti, chic’lcompongono, e degli effetti ancora, e del mo do del loro operare? E come potrà mai egli ſaggiamente ordinargli ad argomento d'una, o d'altra malattia; e divi. farle ſtagioni, e itempi, in che fan da dire, c alle conj: pleſſionidegl'infermi, e all'età ragionevolmente adattaro gli? o comcpotrà mai loro ordinare il inodo di prenderglis e diviſarne la quantità: 0 temendo di qualche riſchio rin Vuu tuiz Ragionamento Settimo tuzzarne, e attutarne la troppa violenza, o contro quella agli ammalati di qualche yalevole ajuto di preſente ſoccor rere; o toglier lenoje, ei fastidi, che ſovente ingenerar ſo gliono? Non è certamente cosìagevole, ſecondo i ſenti menti del medeſimo Galieno, il poter medicamenti adope rare a colui, cui conoſciuta in priina, e manifeſta molto bé non ſia la virtù di quelli, e la forza per la quale gli effetti n ' avvengono. Or che di grazia avrebbe detto Galieno, re: qualche contezza pur delle chimiche medicine, comechè leggeriffima, gli foſſe all'orecchio pervenuta? Certamente conſiderando egli le ſtrane maniere, e malagevoli del loro operare, ayrebbe ne' medici ricercato ſtudio, cavvedia mento maggiore; e non che piane,e facili, e ſenza trop po riguardo giudicate l'avrebbe, ma pericoloſiſſime a ſpe rimentare, e da troppo più, ch'a popolar medico non lico viene. Or vadano pure coteſti medici di cromba marina, e colla ſola doctrina del lor macſtro Galieno a far pruova de'chimici medicamenti a coſto della vita dc'inileri amma lati ſcioccaméte s'attentino,che vedran pure a funeſto, e la grimeyol fine le loro mal ardite follie sépremai riuſcire;im, perciocchè ne dalle ſcritture di Galieno, o d'Ippocrateme defimo, ne da altri lor ſeguaci, che della chimica medici na nulla certamente s'inteſero, comprender mai potranno coſa alcuna intorno a'chimici medicamenti; ne dalle rego le, che già coloro ne laſciarono fi può trarre argomento 2 comporne alcuno; ſo per quelle le propietà de'inedicamé timedefimi della lor comunal medicina, nc anche avviſar fi poſſono: perciocchè, ficome è detto, in quelli ancora il chiariſſimo lume della Chimica ne fa meſtieri.Ne quelno biliſſimo pronipote del gran Re di Damaſco, Giovanni fi gliuol di Melue nella chimica medicina, e in quella di Ga lieno, maſſimamente intorno alle purgagioni eſercitato, n' avrebbe mai conſigliato, cſfer ſempre da leggere, e ſtudiar ne’libri de'fapienti (cosìchiama egli per eccellenza i chi mici) s'aveſſe giudicato averfi ciò potuto baſtevolmente in que' diGalieno, c dc ſuoi ſeguaci apparare:netanti, etā ti valentillimi Galicniſti avrebber poi il conſiglio di Meſue qual DelSig.Lionardo di Capoa. qual legge ſeguito c, con molta fatica ne'volumi, e nelles fucinc de'Chimici lungamente ſudatinon ſarebbono. E licomc ad huom poco giova l'eſſere nell'antico meſtier dell'armi baſtevolmére eſercitato, ſe poi ad abbatter Roc che, e Caſtella,e ſorprender Città:dimine, d'archibugj, di bombe, d'artiglierie, e d'altri nuovi, emoderni ſtru menti, ed ordigrida guerra dalui per addietro nô mai più veduti, o ſperimentati, ſervir ſi vuole; ma conviene in pri mache da nuovo maeſtro, e intendentiſiino di quelli pic namente apprefi gli abbia,e come,e quando, o per offefa, periſcherno da adoperar ſiano: così nulla ancora a'medici approda il ſaper coloro compiutamente quanto mnai nell’: antica, e volgare fcuola diGalieno apparar ſi poſſa, ſe mai chimici medicamenti uſar ſaggiamente intendono; ma egli fa di meſtieri, che ben anche in prima da Chimico macſtro apprcli gli abbia, e la maniera d'adoperargli, e l'arte di bé comporgli pienamente abbia apparata; imperciocchè fe così sfornito dell'arte, e ſconſigliato ſi vorrà ad impreſa çotanto matta, e malagevole arriſchiare, certo mala pruo va vi farà il ſuo orgoglio; e rimettendo il medicamento al Izventura, e alla cieca andando, a manifeſto, e certiſlimo pericolo la ſua fama iuliemc, e'l falvamento dell'anmala to alla fuacura commeſſo porrà. Così quella famoſa ſci mitarra diquell'invittillimo Eroe Georgio Caſtriota, la cúi memoria ancor teme, e trema l'infedel popolo ſaracino, diceſi, che in man di Macometto Re de’Turchi le ſue glo rioliflime pruove laſciate aveſſe: ita plerique medicine, dice a noltro concio Teodoro Chercringio, chymice præſertim, aut mortue,aut (quod deplorandum magis) mortisfæpè cauf ſefunt, quando non animantur periti Doétorismanu, qui no verit eas tempore, &loco adminiſtrare. Così anche dopo l'infelici pruove per lui fatte nella gioſtra, Colui ch'indoffo il non fuo cuojo haveva, Come l'afino già queldel leone, il viliſfimo Martano, lo dico,ritornato in Damaſco fu qui vilungamente ſcherno delle femmine, e de'fanciulli. Ma tanto più da piangercè, comechèdirifi ancor degna ia,la Vull liioc ſciòcca tracotanza dicoſtoro ', quanto in malamente uſan do le chimiche medicine, quantunquc ſicure, e piacevoli quelle ſieno, pur n’ammazzano crudelmente gli ammalati. Così il dotto Galieniſta per altro, e avveduto molto To waffo Eraſto collo ſpirito del vitriolo un cattivello infer mo empiamente a morte conduſſe per no aver lui nel fuo maeſtro Galieno la natura, e l'uſo di cotal medicamento apparato; che ſe egli dal Severino, dal Penoto, dal Dor neo, o da altro profeffor della Chimica medicina;da lui cos tanto biaſimatas appreſo aveſſe, e pienamente conoſciuto come, o quando lo ſpirito del vitriolo da dar ſia, certame tc eglicotanto misfatto comıneſſo non avrebbe. 's E forſe, che nel medeſimo fallo appunto dell'Eraſto no ſi è quì bruttamente cader veduto non ha guari un credu to, e molto ſtimato Galienifta, il qual collo ſpirito fimi gliantemente del vitriolo un miſerabile infermo, cui, per troppo ghiottamente eſſerſi riempiuto di freddi, e aceto ſi liquori, fi era riſerrato il perto, infelicemente ſtrago Jandolo licciſe? E piaceſſe pure al Cielo, che per l'abuſo di sì fatto mc dicamento non fi vedeſſero tutto giorno miſerabilmente molte, e molte perſone morire. Egli è coſa troppo mani fefta, ſe pur merita fede la ſtoria rapportata dal Checher manni, di quell'Elettor Paladino, cui per l'uſo dello ſpirito del vitriolo l'interiora tutto guaſtc, e roſe ritrovaronfi. Ne giova punto a cellare il pericolo de'ſuoi peftilenzioſi effet zi l'adoperarlo con ritegno, e riguardo, e ſcarſamente uſar lo, teinperandolo anche talvolta con acqua, o altriſomi glianti liquori; concioſiecoſachè dato più, e più volte co minciapianamente ad operare, ea poco a poco rodendo, infin le tuniche del ventricolo, ſpietatamente alla per fine conſuma, c divora. Così talvolta al continuo ftillar d'ofti nata goccia mancano finalmente i duri macigni. Et leviter quamvis quod crebro tunditur ietu, Vincitur in longo ſpacio tandem, atque labafcit. E pur lo ſpirico del vitriolo per altro cosìbenigno,e pia cevole ſi ſperimenta, che ben felicemente a'fanciulli anco:. ra da Del Sig.LionardodiCapoa 525 1 ra dacolui, che cautamente ſervir ſe ne ſappia fuol darli.? E ſe'l vitriolo baltevole a guarir la quarta parte de'rnali da quel grand'huomo in medicina Teofraſto Paracelſo vienu giudicato,ben da colui ancora il ſuo ſpirito vien fomma mente lodato con chiamarlo quartampharmacopolii partēs & lapidem angularem in officinis pharmacopoeorum; avve gnachè cotefto ſpirito, che comunalmente nelle botteghe degli ſpeziali per ciaſcun fi diſpenſa, non fia veramente quellofpiritodi vitriolo cotanto da Chimici commêdato na altro più groffo, e di minor virtù, e giovamento di fuello.: ! is Ma per ritornare a' grofliffimi errori, ne'qualiper nons aper di Chimica fogliono i medici, comechè faggj, e av veduti, talvolta ſmucciare, egliè pur manifeſto a ciaſcun quanto fcioccamente, e fanciulleſcamente dell'antimonio il dottiſſimo infra’ſeguaci di Galieno, Mercuriale favelli. E chi non iſcoppierebbe delle rifa in conſiderando la mel ionaggine di quel famoſiſſimo Gåſieniſta, e cotanto nella lottrina del fuo maeſtro eſercitato, Aleſſandro Maffaria? vvegnachè più toſto da pianger fiat, che da ridere la com fioro ignoranza per li ſconcj avvenimenti, e funeſti, che ne fuguono. Egliadunque intorno al medeſimo antimonio dopo averne cosìinfelicemente favellato, venendone all' lifo del darlo, e diviſando in che quantità da dar fia,in und fua cotal ſciocca ricetta,cosi ragiona: Recipe antimonii pre parati 8.3. Orchi Domine giammai il fentimento compré der ne potrebbe ſenza andar dalle gabbolc a ricercar ſe de fiori, o del gruogo, o del vetro, o d'altre, e d'altre molte medicine, che foglion farſi dell'antiinonio, abbia intender voluto? Ecco appreſſo il nottro Antonio Santorelli nella volgar dottrina de Greci, e degli Arabi maeſtri famoſifli moſcrittore, diviſar dell'acqua arzente in una delle fue opere così ſcioccamente, che nulla più. Ecco il dottiſſimo Galieniſta Giovanni Eurnio così traſcurato in favellar del fale del vitriolo vomitivo, cheda piacevoliſſimo chequel, loè, facendolo fomigliante nella violenza all'ariento vivo precipitato, ed al vetro dell'antimonio, lo riftrigne, eris fpar ' 526 Ragionamento Settimo. ſparmia a nôn darlo all’ammalatosſe non nella quantità ſo la di due minutiſſime granella digrano. Ecco d'altra parte il più illuſtre, e famoſo medico de'ſuoi tempi Guglielmo Rondelezji doftar forte, e temere, non la raſchiatura del dente del Cignale rattenga talvolta nelmal della punta lo fputo;nel qualviluppo certamente egli involto non fareb be, ſe nella maniera del filoſofar de chimici in medicina baftevolmente avanzato fi foffe; concioffiecoſachè cota li rimedi per lo loro Alcali volante mai ſempre operiuo; il qualpenetrando, e trameſtandoſi colfale aceroſo, che nel le vene, e nella punta s'accoglie, eſciogliendo le dutez ze dell'apoſtema, agevolmëte quindi per ogni via così aper ta, come occulta,non che per quella ſola dello ſputo,ne fa ſpiccar fuora la inateria tutta inſaccata. E ſe cotal via di filoſofare quell'altro famoſiſſimo Medico Prevozio te nutå aveſſe,certamente, che ne anche eglicosì ſcioccamé te temuito ayrebbe di dar nelle febbri maligne agli ainma latiil.corno del cervio. Ma come, o in qual guiſa a sì no bilmente filoſofar'nelle maraviglioſe operazioni della chi mica potrebbon mai indirizzarſi i tondi, c goccioloniGa lieniſti, ſe nelle coſe più piane, e più manifeſte di quellow, anche v'ha infra loro chi Come notturno augel nemico alſole cieco affatto ', e rintuzzato d’intendimento vive? Egli non può narrarſi certamente ſenza ſmaſcellar delle riſa la peco raggive di quel famoſo conventato Galieniſta nell’Acade mia diGroninga, il qual troppo fanciulleſcamente giudica va lo ſcoppio, c'l tuono dell'oro fulminante per opera de ' Diavoli avvenire: e ciò turto pauroſo attendeva, non altri menti, che il Macſtro Simon fi faceſſe, quando ſu la beſtia imperverſata, e nabiffante inyer la Conteſſa di Civillari ini corſo andava. Nuper aurum fulminansracconta il Chippe ro, cujus fi granum unum, aut duo carbone defuper lentè ac cendas, bombardam minorem fonitu aquat,ſi non antecellit; ut meritoridenda fie Freitagii focordia;&contradicendi ftu dium; dum tale quid fieripofle naturaliter denegat, ctſi oma ninò effectus evidentia cuvincatur, ad Dæmones hujus cauſam refert: dignum certè hac patella operculum, & hoc philos fopho hæcphilofophia., Egli è dunque da conchiudere eſſer la chimica ſomma mente neceſſaria alla medicina tra per li medeſimi volgari medicamenti de'Galienifti, e più aſſai per quelli, che di el fa Chimica ſon propi, e che per opera diquella, e de' ſuoi ftrumenti ſolamente ſi compongono; e maggiormente in quelli l'arte ſottiliſſima della Chimica fi conviene; che co me è già detto, così pericoloſi ſono,e da temere inmaneg giarſiper le ſtrane, e non ordinarie maniere del loro opera re. E concioſliecoſachè v'abbia cotali rimedj non iſcorti alla lingua, e alle nare, e d'ogni ſenſibile qualità affatto ignudi, che per regole d'ordinaria medicina non può la lor natura agevolmente comprenderſi: egli è di ineſtieri certa mente per non fallar nell'avviſargli, alla chinica notomia ſopratutto ricorrere;ſenzachè havvi alcuni particolari me dicamenti, detti ſpecifici, i quali convien fenza fallo, ch'a chiuſi occhi, e ſcioccamente lavori, e maneggi chiunque del meſtiere, c del modo del filoſofar de Chimici non è bé dottrinato, e intendente affui; perciocchè sì fatte ricettev: nella pratica della medicina, così brevis ce ſecche, ecalor confule, e incerte ne'buoni ſcrittori ſi trovano, che per im broccarnela quantità, o'l tempo, o la maniera d'uſarle, o le malattie, nelle quali da adoperar ſono, malagevole cer tanente ſarà ad intendimento umano; ed è ſolo de' Chi miciragionevolmente, e ſenza fofpetro alcuno l'adoperar lc, e ſervirſenic calora, dove lor faccia meſtieri, con effer in prima fotcilmente filoſofando nella lor natura ben penetra ti; e per quel che permeſſo ad huom ſia, con aver le loro qualità baſtevolmente compreſc. Cofa, la quale quanto monti a dover ceſare i riſchjge i danni, cheda sì fatti me dicamenti naſcer poſſono, pur troppo è a ciaſcun manife fta. Ne è già punto maraviglia, ſe gli arditi, e poco avve duti Galieniſti ſcioccamente inframmertédoviſi,la lor par te ancor vifanno: ſe come è detto, anche nell'adoperare i. Jor medeſimi medicamenci van carponi, e brancolando per l'incertezza,quaſi ciechi al bujo; e in quelli maſſimamente, a’quali dan nomedi virtù occulta, cioè a dire di ragion no conoſciuta, e non punto da lor compreſa, credendo così la lor groffezza, e laloro ſciocca pecoraggine coprire. Ma d'altra parte i chimici medici filoſofanti innoltrandoſi quá to per huon ſi puote nella contezza demedicamenti,eco noſcendo aſſai veriſimilmére la natura dc'mali, e le cagioni, onde avvengono, ſicome con avveduto, e probabile divi famento fortilmente ragionar ne ſanno, così con loro no bili, ed efficaci argomenti digran vantaggio riparando ſo-, vente al genere uinano, degni d'immortal gloria, ed'eter na fama ſirendono..., mily Magià baſtevolmente dimoſtrato quáto a color, che me. dicare intendono faccia meſtier: la Chimica: a divilar de' chimici medicamenti, e quanto ſovente ne lian neceſſari. trapaſſeremo. Ma comechè lo di ciò fivellar per comuns giovamento m'ingegnj, e ne renda maggiormente avvedu-. ti gli huomini delmondo, pur dubito, non alcuni dannā- ) do,ebiaſimando sì fatti rimedj inalgrado per avventura me ne fappiano. Dunque dirà taluno, queſt' altra nuova ſorte dipeſtilenza all'uman genere mancava? e non baſta va forſe a impoverir di gente le provincie, e i Regni, il vuo tar di quel prezioſo liquore,a cui s'attiene la noſtra vita, per, ogni menomacagion le vene; e co'duri cauterj, e con crui deli veſcicanti, e altriricroyati di barbare, e ſtrane nazioni martoriar miſerabilmente le genti:e a toglier alle parti più ſodedel corpo umano il debito nutrimento, e la virtù di ravvivarlo, e di riſtorarlo alle liquide: uſar le ſcamonces, gli elaterj, le colloquintide, ilatirj, i pepli, gli Elleborin, iTurbitti, iMezerj, le ſquame del raine, le pietre lazule, e tante, e tant'altre forţi di nocevolislimi veleoi più ches, di riſtorativi argomenti dell'antica volgar medicina, ſe non vi congiuravano ancora a noſtro comun danno i potentiffi mi precipitati, i mercurj divita, 0 Alcarotti, come altri gli chiama, i verri, i fiori, e altri cento violentiffimi vomi tivi tratti dell'antimonio,del vitriolo, del mercurio, o d'al tro qualunque più peſtilenzioſo minerale? Deh piaceſſo pure al grande Iddio, che, o non mai uel mondo foſſeliin he trodotta la medicina; o almen, che non inai ella ſtata ſi for ſe colla ſpagirica arte accoppiata, e delle nuove, e ſtrane fortide'medicamentidiquella dannevolmente accreſciuta: che mé malcerto ne farebbe dalle malattie medeſime inter venuto di quel, che tutto dì oggi per mā de’medici miſera bilmente proviamo. Or s'accreſcano pure a ſtruggimento, e ſterminio delle noſtre vite nuovi, e muovi ſtrumenti di mora te; e gl'ingegniumani s'aſſottiglino,e s'affannino, e ſudina a gara per imprédere un'eſercizio così in fauſtojcosì crudele, che nemeno a'ſuoimedeſimi artefici ſuol perdonare, che im appreſsãdoſi ſolamëte a'fornelli no debban ſovente correr manifeſto pericolo delle perſone. Così morifli ancor gio vane il Tedeſco Teofraſto, non già da’maligni Galieniſtip invidia atroflicato, ficomecomunemente per tutto allor buccinavaſi,ma al parer dell'Elmonte,buo giudice in sì fata te coſe,da’medeſimi minerali; che continuamente e' manego giava; dal cui nocevole, e peſtilezioſo fummo l'Elmon te medeſimo confeſla ſe eſſere ſtato più fiate in grandiſſimi riſchj della vita condotto. Così anche a ' tempi noftrive duto abbiamo quel cattivello nella ſtrada delle Campane dagli ſpiriti del nitro, e del vitriolo, e da altri minerali do po continuo tremore, ch'e' n'apprefe, e dopo lunghe, e gravi malattie miſerabilmente alla fine morirſi. Orqual danno dovrà egli intervenirne a colui, che quaſi cibi inno centivolentier gliſi tracanna, fe cotanto nocevole, e dan noſo è l'avergli ſolamente davanti Ripone tra' ſuoi egregi vanti la Chimica di ſapere oltremodo i medicamenti delle parti inutili, e nocevoli ſpogliare, e di rendergli benigni aſſai, ed efficaci; ma per tacere, che alcuni di quelli (e'l confeflano comechè mal volétieri i loro artefici medeſimi) deboli, e ſpotſati, e di niun momento dal ſuo maneggiar diventano, parecchi, e parecchj (coſa la quale certamé te è peggio aſſai, e dura oltremodo a ſofferire ) di mezza Haméte nocevoli, che in prima erano, o pur tali ſi dimoſtra vano, rendegli la chimica col preparargli non altrimenti, che imedeſimipiù fieri toſſichi, crudeliffimi, e micidiali. Dica pur queſta nobiliflima Città: quanti, e quanti nel tempo della paſſata peſtilenza con dolori acerbiffimi di vi. ſcere n'aveſſe fatti morire quel velenofiffimo ariento vivo precipitato, ch'angelica polvere allora chiamavano, pro poſto allordal Protomedico di que'tépi a comun ſalvamé. to degli ammalati,e co pubblico editto diyolgato colle ſtá pe. E ragionevolmente per avventura dubitonne alcuno, ſe più huomini allora per la potentisſima violenza di quet medicamento, o per la medeſima peſtilenza mancaliero. Edo quanti, e quanti alla giornata veggonfi privi di vi ta, o cagionevoli reſi della perſona per opera di chimici ri medj, de’quali la maggior parte conſiſte in lavorare i mine sali;i quali dalla noſtra natura affatto rimosſi,altro mai, che dolori, noje, malattie, e morti recarnon poſſono. Odafi per Dio ciò, che di coteſti Chimici, e della loro ſcuola di dica ildoctisſimo Erafto, l'eloquentisſimo Cortino, il ſot tilisſimo Riolano il padre, e la ſcuola famoſisſima tutta di Parigi. Odaſi come con ſaldisſimeragioni nuovamente gli rintuzzi, e mandi giù l'acutisſimo peripatetico filoſofo, e Galieniſta Ermanno Corringio; e ſopratutto ſi riguardi a ciò, che dalle genti pe’mal capitati infermicontro a'chi ci medicamenti tutt'or querelando ſi dica, e le beſtemmie atroci, che per tutto contro lor ſi ſcagliano. Deh sbandi ſcafi per Dio da queſta Città, sì nocevole, c dannoſo me ftiere, e con rigoroſisſimi divieti ſi mandin fuora delle bota teghe degli ſpeziali, e da tutt'altri luoghi le chimiche me dicine. Ne già mé ſaggj nel vero, e avveduti eſfer dobbiam noi de'medici Melaneli, che il dannevole uſo dell'Alcarot to vietarono; e ſe ſono, e con ogniragione, da' noſtri fta tuti proibiti gli uſi degli archibugetti e degli ſtili, e d'altre ſomiglianti arme,come nocevoli algenere umano, quan. tunque tal volta a ſchermo dell'onore, e della perſona pur buone fiano; perchè non ſaran da yietar poi medicine sì fie re, emaligne,che ſe mai pure di recar qualche giovamento fan ſembiante, allor più crudelmente inſidiar la vita fi fpe rimentano. Sono o Signori, sì fatte querele, e rimproccj in grā par te per opera dc'malvagj Galieniſti contro la Chimica, ei ſuoi DelSig.Lionardo di Capoa. 530 ſuoi medicamenti fovente adoperari; i quali gittando la polvere innanzi agli occhi della balſa,minuta,e troppo cre dula gēte, fan loro a vedere che ichimici medicamenti più ch’altri ammazzar fogliano, e che tutto il malc, che nel cu rare altrui intervenir ſuole, da color ſolamente avvegnavi perchè la ſciocca torma del popolo da for moſſa lamente volmente gli biaſima; e con torti, evani giudizj ſovra i chimici, i misfatti de'Galieniſti medeſimi, o le violenze del male empiamente riverla; E parla più di quel, che meno intende. Ed è egli certamente cotal diſavventura a tutt'altri me. dici ancor comune d'eſſer sépremai accagionati della mor te degl'infermi: non moritur æger fine infamia medici: diſse Plinio e pural tépo dilui, o no v'era, o no avea púto che fır nelle noſtre contrade, o in quelle de Greci,colla medicina la Chimica. Così non giugnendo i medicamenti a rintúż zar la violenza del inale, ed eſſendone diterminata alla per fine la meta della noſtra vita', è certamente da dire có quel valent'huomo, che nella medicina tutt'altro avvenir ſoglia, che in ciaſcun'altro meſtier ſi coſtumi; perocchè dove i mã. camenti degli Artefici a'difetti dell'arte comunalméte s'im putano, ſolamente in medicina il mancamento dell'arte aʼmedici cattivelli ſovente fi riverſa; e fon talvolta inde gnamente accagionatidi ciò, che per argomento umano imposſibile ad operare. Perchè certamente intorno a ' misfatti de’medici da prudente huomo, e aſſennato non è da preſtare agevolmente fede a’rapportati masſimamente da altri medici per malavoglienza, o per nimiſtà, ficome di ſopra baſtantemente diviſato abbiamo con l'eſemplo d ' Aſclepiade; eſſendo pur troppo vero quel detto di Curzio: iai diverſis rebus id folet fieri,ut alius in alium culpam refe rat. Ne già è mio intendimento, che di cocal quereia al cun de'noltri medici al preſente fi punga, come a ſe pro piamente inveſtita; perciocchè lo quì in general ragionare intendo del cattivo coſtume d'alcuni medici; cben ſo, che così quì, comealtrove v'ha de'medici dabbene, c onorati affai, e di qualunque gran loda dignisſimi: avregnachè talvolta pur alcun di loro daʼfalſi rapporti ingannato, NÓIL. già per altio, e permalayoglienza, maper troppa ſua dab benaggine vi falli. Pur male a noſtr’huopo comincia tal volta leggeriſſimavoce, non ſo donde, o falſa, o vera, ch' ella fiali, che roſto per tutto ſi buccina, c s'accreſce:intan to, che agevoliſſimamente dalla bafla plebe, e dalle troppo credulaperſone vi ſi preſta fede; i quali non che vogliano ſottilmente caminar comela biſogna paſſata ſia, anzi tal volta ſenza ſaper come, o quando, c da chi cominciata ſia, volentier la s'inghiottono: & fepè etiam quod falſo creditu eft, veri vicem obtinuit. Perchè poiveggiamo della mor te di taluno accagionarſene medico, che non che viſitato giammai l'aveſſe; anzi ne men chi colui foffe, o dove ſi foſſe dimorato per avventura fapeva; pure comechè a sì fatta diſavvetura ciaſcunmedico ſoggiaccia,nó però di meno ſo pra tutt'altripar ch'a’miſerichimici maggiorméteella con traſti, quantunque certamente maggiori, e più gravi dan ni da'volgari medicamenti alla giornata avvenir veggiamo, che da’Chimici; e pure quelli ſovente alla gravezza incon traftabile del male, non alla dappocaggine del medico ac tribuir ſi fogliono: dove di queſtinel contrario, laſciata dw parte qualunque altra cagione, folamente i chimici medi camenti s'infamano; maſtimamente per coloro, i quali nul la fappiendone, come di nuove, e non conoſciute coſe ſo ſpettando, ſempre ne temono; follemento mai ſempre,e in tutte le faccéde vera ſtimado quella séréza di Cornelio Ta cito:fuper omnibus negotiis melius,atq;rectius olim provisü:et quæ cuvertuntur in deterius mutari. Ed è pur da aggiugnere a ciò quell'altra cagione che per opera de’malvagi, e invi dioſi Galieniſti s'accrefcon mai ſempre i timori della ſcioc ca plebe, intanto che ne men poſſono ficuramente i chimi ci medicide' più volgari, e comunali medicamenti talor fer virſi; che pur diquelli il vulgo ignorante teme; dove d'al tra parte fe dalla greggia de creduti Galieniſtichimiche medicine, comechè violenti, e pericoloſe loro fien porte ', tantoſto alla cieca, e ſenza tema alcuna le fi tracannano, volendo pertinacemente anzi che a'chimici,ne'loromedeſig 1 mi medicaméti, ſtarſene agli ſtrani, e talora ſciocchi Galie niſti, cui ne men per nomequelli conoſciutiſono: non che ne ſapeſſer mai le qualità, e glieffetti, che ne'corpi umani quelli adoperar ſogliono. Non niego però, che tal malavventura ne' Chimici di non eſſer agevolmente creduti, eglino medeſimi talvolta la ſi procaccino, quando o per ſoverchio dicompasſione, che han de’miſeri ammalati, o per vaghezza di dover gưa rire gli abbandonati da'Galieniſti, ambizioſi s'inframmer tono di medicare i diſperati, e voglion quaſi dall'orlo del feretro trarre i morci.È la ſciocca géte n’aſpetta pur le ſtra vaganze, quaſi foſſe propio de Chimicil'adoperare i mira coli; quando forfe i Galieniſti non han faputo per poco co figlio la creſcente malattia attutare, con dar loro al tempo iconvenevoli medicamenti; perciocchè Principiisobſta: ferò medicina paratur, Quum malaper longas invaluere moras. Anzi con avere i Galieniſti medicati talvolta a roveſcio, e alla cieca gli ammalati, malignamente poi, ea gran tor to ne vien ripreſo,e cacciato il Chimico,e i fuoi rimedi bia fimati. E a tal fegno pure giugner veggiamo la iniquitoſa malizia d'alcun medico, che di quel medeſimo infermo, cl egli ſpacciato in prima, e già laſciato aveva, attribuiſce poi difpertoſamente altruila morte, e i chimici medicamé te di colui empiamente n'accagiona. Così non vergognof fi il Foreſto a ſcriver purc, che colgruogo di Marte un co tal’Empirico ammazzato aveſſe un'ammalato tutto mar cio, e corrorto, e com'egli medefimo narra, già moribon do, e fpirante. E piaceſſe pure a Iddio,che non foſſe giūrå a tāto l'affocata malavogliéza di sì fatti ſquafimodei, che già reputādofia vergogna il falvaméto,che allo infermo da loro ſpacciato avvenir puore per cófiglio de'chimici, e già temédone gli avāzi,nó prédeſſero alcuna briga di far pruo va delle loro bugie, con dar qualche ftorpio a’riſtoramenti dello infermoze ſe pure in lor diſpetto neguariſce l'āmala to,nó folaméte delmedico, che'l fanò, madi lui medeſimo capitali nimici rimangono; ficome di quel Cote diffe quel motteggevol Satirico Italiano: Ha buon ز occhio, buon vifo; buon parlare, Bella lingua, buon / puto, e buon toffire; Queſti fon ſegni, che non vuol morire; Maimedici lo voglion 'ammazzare: Perchè non ci ſarebbe il loro onore, S'egli ufciffe lor vivodalle mani, Avendo detto, egli è Spacciato, e more. Ma come teftè ragionavamo con la lor ſoverchia pictà in voler curare infermidiniuna ſperanza, danno agio i Chi mici a i ſoffiamenti degli invidiofi Galieniſti, e cadono tal volta dal buo nomedivaléti medici. Ne certaméte p altro Ippocrate vieta aʼmedicanti il dover por mano agli infermi difperati; e quell'altro famoſo ſcrittore Arabo ne conſiglia a non doverci arriſchiare a prender cura di malagevoli, sfidate malattie, ſe non vogliamo pure guadagnar titolo di cattivi medici; e anche avviſa Cello, prudentis hominis eft, eum, qui fervari nonpoteſt, non attingere: nec fubire.fufpia cionem ejus, ut occifi, quem forsipfius peremit. E a ciò an che riguardado Galieno parimente ne conſiglia a dover la fciare alſolo predicimento cotali infermi, ſenza dar loro niuna ſorte dimedicaméto, per no logorare indarno.i rime. dj,e fargli infam uea torto preſſo il vulgo, õde poi ſi laſcian via, quando forſe ad altri ammalati di minor riſchio giove voli ſono. E nella medeſiına guiſa Aleſſandro de Benedet ti: prudentis medici, dice, ef,inſanabiles, &defperatos mor bos nun curare;ne hominem occidiſſe, quifua forte interitu rus erat, exiſtimetur. E che direm noi di que'chimici medicamenti, che talor de perſone ſi lavorano, e ſi diſpenſano, che dichimica, ne dimedicina ne ſan boccata? Enel vero eglitāto omai è cre ſciuto l'abuſo delfabbricare malamente, anzi abborrare i rimedjchimici, cheda'Ciurmadori, e da Cerretani, edas viliflime femminelle uſar pubblicamente ſi veggono, e ven dong a macco in ſu le panche, e per le fiere abbondanteme te li ſpacciano, e ben ſovente fi comprano anche dagli ſpe ziali, e da’medici per diſpenſargli poi a 'loro ammalati;šć zachè da Galieniſti medeſimi calor s'imprendono, e teme ruri. rariaméte dagli ſciocchiffimi uccelloni yeggőli ordinare, e lavorare alla cieca. Navem agere ignarusnavis timer: abrotanum ager Non audet,nifi quididicit dare.Quodmedicorum eft Promittuntmedici;tractant fabrilia fabri. E s'attendono purecoteſti medici di tromba marina de' noſtri tempi a maneggiar biſogne di cotanta conſiderazio ne, e di cotanto riſchio: certamente ſe ad infelice fine poi rieſcono, e veggonfiatcriſtar le caſe, e le famiglie, non gli innocenti rimedi biaſimar ſe ne vogliono, ma color ſola doperano; non altrimenti, che ſe ſpada, o archibuſo daw furioſa mano moſſo fia, non n'è lo ſtrumento da accagionas. re, ma la follia ſolamente dello ſcherano. Ne ſan coſtoro quanto ſenno abbiſogni in medicare, e ſpezialmente con argomenti chimici, a cuicertamente di maggiore avvedi mento e di più ſaldo giudicio fa luogo; che le malamente s'adoperano, maſſimamente le purganti medicine, ove il medico non abbia in dandole riguardo al tempo, lità del male, all'età dello infermo, o alla natura di lui, o alla ſtagione dell'anno, certamente colui mal ne capiterà: Temporibus medicina valet: data tempore profunt, Et data non apto tempore vina nocent; Quin etiam accendas vitia, irriseſque vetando, Temporibusfinon aggrediareſuis. E o quanti per Dio ſe neſon veduti e fe ne veggono tut tavia correr pericolo, e morirne talvolta anche col medica mento in corpo per traſeutaggine, e colpa de’ſoli medici ignorāti,e ſciocchi? Quante volte per beſſaggine degli ſcé pj Galieniſti ſono ſtate biaſimate le manne, le roſe, le caſ. fie, e anche l'aloé, di cui non ſi trova al comun parere mę. dicamento più innocente, e benigno? E ſe alcun prende rebbe cura di guarire ammalato, ſe egli nel cominciar d'in terna infiammagione, o nell'acerefciinento, e nel vigor di quella deſſegli ſcioccamente a tracanar chimica purgagio ne, qual colpa poi ſarebbe egli dell'arte, ſe coluimalamé te adoperandola l'ammalato n'uccideffc? Certamente niu. najper. alla qua: 51 na;perciocchè come Ippocrate medeſimo, e Galieno di viſano, anche le lor purgative medicine allora ſon peſtilen zioſe, e da non uſarſi; perchè a' mali precipitoſi,e ftraboc chevolmente imperverſiti non ha certamente la medicina più ſicuro conſiglio, che il guadagnar tempo con iſchermi readagio, e tenere a bada la foga del male, ſenza voler glili alla rincontra oſtinatamente opporre có purgative me dicine, masſimamente gagliarde; che alla zuffa,che in un medeſimo tempo due si oſtinati,esì poffenti nimici dentro dall'ammalato farebbono, certamente egli n'andrebbe cof peggio:neq;ulla alia fpes,diffe avveducillimaméte Cello, ir malis magnis eft,quã utimpetum morbi trahendo aliquis effum giat, porrigaturque in id tempus, quod curationi locum pre Stet:così parlavano que'buoniantichi, che ne'ſalafli, e nel le purgative medicineſolaméte credeano eſſer ripoſte le cu re de'più gravi malori; ma i moderni da'chimici addottri nati bé fanno co'rimedj valevoli, e generoſi,ına che non of fendono punto lo infermo, eche in ogni tempo ſicuriffima mente ſi poſſono adoperare darvi compenſo, ſenza ſtarſe neſcioperati, e neghittofi ad afpettare il ſoccorſo, che non è dalla natura forſe per venir giammai. Ma ciò da parte laſciando noi pur troppo veduto abbiamo nelle febbriche delpaſſato anno han malmenato, e quaſi abbattuto il Bor go Sant'Antonio,e altri luoghi vicini, effer così malaméte riuſcite le purgagioni, e altri ſomigliāti rimedi;perchè a grā ventura recaronſi poique' poveri infermi, che non ebber agio di comperarſi la morte a contanti ne'medicamenti,che uſavanſi; e ſtando alla bada ſolamente della natura,così sé. za rimedj la lor vita ſerbaronſi. E per cacer d'altri, il me deſimo anche eſſeravvenuto novellamente in Francia, rac conta l'Autor della giunta all'oſſervazioni di Lazaro Ri yerj. - Éfe egli è dannevole oltremodo, e di riſchio lo - Atuzzi cargli umori crudi, e non debitamente maturati, certamé te il medico ne farebbe da biaſimare, non l'arte, ſe contro i giuftiffimi divieti d'Ippocrate, e di Galieno s'inframmet. teſſe di purgare ammalato, in cui fian crudi gli umori ſex 2:2 en za enfiamento alcuno: in morbis quoquenihil eft magis peri culofum, quam immatura medicina,comechè non medican-. te, avviso Seneca; perchè ſeguendo i ſentimenti de' ſuoi maeſtri avvedutiſſimaméte in queſto capo Aleſſandro Maf ſaria, danna, e sbandiſcenelle febbril'uſo dell'Antimonio, come nocevole oltremodo agli ammalati: e allora, egli di ce maggiormente farſi a conoſcere il danno, che dalle purgagioni, oltre al convencvol tempodate ne fiegue,qua do più gravoſo, e di maggior riſchio fiè il male; concior fiecofachè nelle lievi malattie, che molto non piggiorano dal ſuo naturale ſtato l'inferino, poco nocimento ricever, certo egli ne foglia; perciocchè o ſe n'allunga il male,ficc me Ippocrate,e Galieno diviſano, o pursì poco cagionevol della perſona coluinerimane, che nulla il medico quan tunque accorto, ed eſercitato Gali, comprender mai ne puote. A torto anche vien biaſimata la Chimica d'adoperar fo laniente i minerali; e ben detto è a baſtanza contro la ſci munitaggine di alcuni,quanto ricca, e abbondevole di ine dicamenti ella ſia; c nel vero, ne l’Ericina ebbe mai,o l'Ar denna, o s'altra al mondo è più vaſta, e più folta ſelva,tã ti alberi, tante belve, quanto ricca, e abbondante è la chi. mica di cofe a’luoi medicaméti accóce;e prédöli a loro uſo, non ſolamente i minerali dalla terra,madagli animali anco ra, e dalle piante abbondantemente i rimedi ſi formano; perchè troppo ſcarſa, e mendica pur ſarebbe da dire la rapportata ſomiglianza; perciocchè quanto cuopre il Cies: lo, abbraccia l'aerc, nutrica la terra, e'lmarchiude, tutto alla Chimica giuridizion ſoggiace: e'l meno di che ella s'inframmette ſono i minerali; concioſliecofachè non abbia ſolamente in fua balia i falnitriji ſalicomunisi vitrioli, i fer ri, i rami, e gli argenti, c gli ori, e le gemme, comcchè di queſt'ultime coſe ſolamente i perfettiſſini Chimici, o icat tivi, non già i inczzani ſervir li fogliano;ma e radici anco ra, c tronchi, e frondi, e ſughi di cento, e mille infra lo ro diverſiffime piante, e anche tutte parti ſalde, e diſcor renti di tanti, e sì varj animali,di cui la Chimica i ſuoi me Yyy dica 538 RagionamentoSettimo dicamenti in sìvarie, e tante guife ordina, e lavora.: Ne perchè la chimica medicina ne' minerali talora s'a doperi,e s'affarichi, è per huom da tacciarne: anzi fom mamente da efferne commendata lo la giudico; concioffie coſachè non ſono i minerali altrimenti, comealcun di loro follemente ſognoſli, veleni, e toſſichi:anzi non poco in vero molti e molti diesſi all'umangenere giovano,e approdano; e ciò a tutti buoni ſcrittori aſſai manifeſto egli fi è, anche antichi, che liberamente, e fenza niun ſoſpettomettevan gli in opera, e così fchietti, comecon altre coſe meſcolati l'uſavano; il che ſenza troppa fatica durare agevolmente moſtrar potrei: maſſimamente, cheper tutti manifeftamé te ſi ſa quanto Ippocrate della ſquama del rame fovente fi ſerviſle; e Dioſcoride no conſiglia, e conforta a dar per bocca liberamente il vitriolo: e ne'tempi antichi anche s'a doperava il mercurio: e ancora a' dì noftri nella colica, e ne'vermi, e in altri ſimiglianti mali ordinaſi da tutti medi ci, anche a'fanciulli del lactime, ſenza ſofpetto dinocimé to alcuno;e ſe fra’minerali v'han di que', che velenofi fo no, ve n'haparimente di queſti, ed in maggior copia fra' vegetabili. Maſe egli avvien mai pure, che alquanti deʼnedicame ei de'Chimici,compoſti divengano fpoffati, e debili, egli ciò non dee a colpa della chimica aſcriverſi:ma de’poco av veduti artefici, e de’medici, i quali intendenti non ſono delle chimiche preparazioni, e ravviſar non ſanno quai mea dicamenti ſenza alcun preparamento fiano da porre in ope ra, e quali gli richicggano. E ſe divantaggio i Chimici da'vclenofi, emicidiali ſemplici ſoglion trarre ſalucevoliſ fimi antidoti, ciò loro a fomma gloria dee riputarſi, che ciaſcun di loro fuor d'ogn’uſo Pieghi natura ad opre altere, e frane. E ſe'l precipitato, e'l ſolimato, che potentiſſimi veleni ſono, cavanfi dalmercurio, e da altri minerali, non ne ſon però quelli da biaſimare, ne i chimici medeſimi, che gli compongono; concioffiecofachè anche l'oppio, e altres molte comunali medicine, avvegnachè rieſcan poi vele nofc Del Sig.Lionardo di Capoa 539 noſeall'opera, pur da ſemplici non mica velenoſi compon ganſi, ne perciò tanto quanto ilor fabbricatori ſe n'acca gionino: e ne balti ſolo al preſente fapere, che ciò non, lia ſpezial biaſimo della Chimica; e ſe da quella i pre cipitati, ci ſolimati fabbricaronſi al mondo, no fu già,per chè s'aveſſer quelli ad operar mai ad uſo alcuno dimedici na, ma per altre, e altre biſogne; ne perſona ſe non priva affatto d'intendimento per dover medicar giammai gli la vorò;perchè ſe quel temerario Bacalare aveſſe púto in chi mica ſtudiato, non avrebbe egli giammai ardito ad impor re agli infermi per coſa delmondo il precipitato, il qual da tucci buoni ſcrittori vien daʼmedicaméti sbadito, come ma nifeftiſfimo veleno;e ſpezialmére dal Quercctauo,có queſte parole:precipitatú in aqua furti à nobis omninò improbatar: 0 có quell'altre,ch'e' ſoggiugne:hæc, & fimilia effe Empiricorii fecreta, quæbuccinatorum inftar pro maximismyfteriis pro mulgant. Ne perchè i minerali lian da noſtra natura citra: nci, e rimoſi, dovrà ciò darne punto di briga; e ſe pur co tal ragione aveſſe luogo, dovrebbervi eſſer a parte anche i Galiçniſti in rintuzzarla, i quali non men deChimicime defimila pietra lazula,e l'oro, el’ematite, ci giacimi, e'l bolarmcnico, e le pietre giudaichc, c altre, e altre ſomiglia. ti medicine lovente adoperano. Ma lo per non darmene troppa briga ſervisõini al preſente di quelle parole del Tā.chio là dove d'un cotal balordo, che con ſimiglianti fanfa luche ftuzzicavalo così cgli al ſuo Oiſtio ſcrive: oppugnant, dice egli,medicamenta ex metallis parata, ideo quia non iis alamurfed; nec cornu cervi nos alit,neque uniones, aliaque pleraque. Quænos alunt impura ſuntimnia, do quefacilē mutationem ſuſcipiunt,fed quotidie agunt in balſamum na turæ, cum corrumpendo in fenium; labefactatis viribus noftri corporis facile illareficiuntur vegetabilibus; fed fixio illa in fixa; mineralia figuntſpiritus, purificant, & exaltant. E prima di lui Avdrea de'Mattioli, così del biſogno de’mi nerali ne ſcriſſe: ibi tum alibi, tã in chronicis morbis eſt ani: madvertendum, ubi tota malafanguinea in univerſo vena rum ambitu corrupta eft, & referta multorum morborum fe Yуу 2 minariis, tunc ii inquam morbi citra metallica devinci vix pollunt; avvegnachè egli poi faggiamente ne configli a non dovere i Chimici medicamenti adoperare colui che di chi mica pienamente non ſi conoſca; il che noi baſtantemente altrove dicemmo. At qui, dice egli, ejufmodi morbos ci tra ſcientiam res metallicas tractandi aggrediuntur, ii ple rumque re infecta cummagno dedecore, & fui, &artis me dicine defiftunt. Ma ſopratutto baſti recar qui le parole di GiacomoPrimeroſio Galieniſta di primo grido: Cauffa eft, egli dice,cur plurimi Chymica hec reformidēt;quia creduntur ſcilicet sti metallicis. Et fanè certum eft plurimos Nebulones, qui hoc pallio technas ſuastegunt, metallicis fæpè, &malè præparatis, & malèadhibitis uti; verum ut jamfupra dixi mus, eadem eft materia, & fubjeétum uperationis Pharma copæi utriuſque tàm Chimici, quàm vulgaris; neque minus vegetabilibus utitur Chymicus, quàm qui dicitur Galenicusze non guari appreffo foggiugne. Nonne maximè probanda eft ars illa, qua fi quandoiis utitur, variè, &eleganter pre parata,non integra exhibet? Ne meno è da dire, che perchè i foro fummi ſian peſtile zioſi, e nocevoli liano anch'eglino tali i minerali; percioc chè apertiffimamente veggiamo ſenza punto di danno il falnitro, e'l vitriolo, elfal comune alla giornata ufarli, e'l fal comune maſſimamente in tutte vivande da ciaſcun porſi; i cui fumıni certamente, come que d'altri,e d'altri minerali, nocevolilfinni fono. Pure non è coſa cotanto utile, e gio vevole al genere umano, che nonnepoiſa talvolta anches nuoceren Nilprodeft, quod non læderepoffit idem. Igne quid utilius? fi quis tamen urere tecta Cæperit, audaces inftruit igne manus. Eripit interdum, modo dat medicina falutem. Le ragioni poi, e le teſtimonianze dell'Eraſto, del Riola no, e d'altri sì fatti Galieniſti han canto dello ſceno,che da lor medeſime a baſtanza ſi rifiutano; e comechè per mani feſta, coftinata malavoglienza fianfi queſti ftudiati dimor der la Chimica, e ſozzainente lacerarla, e quaſi metterla 1 in fon Del Sig.Lionardodi Capoa 541 1 in fondo; pure non han potuto far sì, che ſtretti talvolta dalla propia coſciēza, o dalle nimiche ragioni abbattutis no l'abbianomanifeſtamente approvata. Così l’Eraſto medelia mo, che moſtroffi più ch'altro Galieniſta acerbo, e fiero ni mico della chimica, purnel proemio di quell'operc,ch'eico tro il Paracelſo fcriffe,nó potè no commendarla;e la ſcuola tutta di Parigi pur la permette,e l'adopera,ficome raccota il Riolano; il qual comechè nimico a ſpada tratta le fi dimo ſtraſſe, pur delle chimiche medicine,comeãcorfece l'Eraſto, ſerviſſzavvegnachè talora p loro ſcimunitaggine ad infeli cc fine gli uſciſſero. Ma côtro a’piacitori, e a'maladicéti Ga lieniſti adoperarono gloriofaméte le péne a ſchermo della chimica nelle loro dottisſime Apologie il regio Protomedi co Torqueto, e l'Arueto, e'l Baucinero celebri e famoſiſſimi maeſtri in medicina: e oltre ad infiniti altri il famoſo, e ben parlante Libavio nella ſua Alchiinia trionfante,di cuicon ) aringa di lode diſſe il Caſtelli: Alchimie dignitatem adeo re Kituit Libavius contra fcholă Parifiensë,ut nihil amplius addi polje videatur; ma ſopra tutti imalzi, e difende la chimica il ſottiliſſimo Borricchio, non men celebre, che dotto let tor di quella, nella famoſa reale Accademia d’Afnia; il qual sì fattamente rimbeccale ciance del Corringio, che nulla più. Ma quanto poco ſenno aveſſer facto i medici meſaneſi in proibendo l'uſo dell'Alcarotto, apertamente ſi vede dalla poca ſtima in cui vennetenuto il loro divieto; poichè non men,che prima in Melano, e altrove le genti tutte l'adope rarono; e oltre alla gloria molte ricchezze guadagnoſſi Vittorio Algoreto per sì fatto medicamento, il quale altro * non è, che il mercurio di vita;comechè p naſcõder sì caro fegreto il nieghino gli eredi del medeſimo Algoreti; e forte mi maraviglio, che alQuercetano, sì bene ſcorto nelle chimiche operazioni, e che tutto dì l'avea fra le mani, non veniſſe fatto ciò ravviſare. Ed è egli pregiato l’Alca. rotto, eziandio daʼmedici volgari, e Galieniſti, e per buo na, e giovevol medicina per tutto ſtimato; ma pur ſi vuos le in ufarlo aver riguardo a' tempi,alla quantità,e agli ama · malati; ne fi dee prendere ſenza conſiglio di medici faggi in chimica, e conoſciuti affai; perciocchè ſe da perſone dappocomallavorato folle, o foſſe pur ſenza riguardo at cuno preſo, certamente nuocer potrebbe, e a riſchio della perſona talvolta ancorcondurre; ſicome non ha guari, ava venne a un Barone d'alto affare, il qual per conſiglio d'un corale ſciocco,e temerario Galienifta avendone trangugis to ſoverchiamente, con acerbiffimi dolori, feno'l receva di preſente, certamente nemoriva. Ma di ciò ſenza dubbio, non n'è dabiaſimare il medicamento, ma la follia più coſto del medico, cheoltre al dover l'iinpone; e più quella dell' ammalato, che alla cieca, e ſenza riguardo alcuno ſe'l tra caima. E ben ſarebbe il migliore, ſe laſciando da parte i volgariGalicniſti sì fatti medicamenti,non s'inframmettel ſero púto di ciò, che non ſanno; e come cantò colui Velperfectèartem diſcant, vel non medeantur; Namfialiæ peccant artes,tolerabile ceriè eft: Hæc vero nifi fit perfecta, eft plenapericli, Et fævit,tanquam occulta, aique domeſtica peſtis. Ma noi luiluppati dasì fatte conteſe, trapaſſereino intanto a far qualche parola dell'antimonio, come di quello, ch'al noftro parlamento diede in prima cagione, L'ancimonio, che da alcunicertamente non fuor d'ogni ragione chiamato viene colonna, e baſe della medicina,egli sébra nel vero una corale ſtrana; e nuova ſorte di minerale di variege fra loro diverſe parti copoſta, e si lazza,e acerba, che ragionevolmére alle poma anzi che mature fiano è raf ſomigliata;imperciocchè tra per la troppo meſcolanza, che in ſe ritiene, e per l'inegual proporzione delle parti,che'l co pongono, non eſſendo potuto alla debita maturità, e per fezion di inccallo pervenire, così trameltato, e inal com poſto ſe ne giace. La ſua ſtrana natura ', c le ſuc maravi gliole qualità malagevolmenteravviſar ſi poſſono, non che per huom narrare; concioliecofachè quaſi Proteo de'minc rali in facendoſi dilui notomia, in tante, e sì fatte guiſc fi ſcambi, e traſmutische inviluppativi i più famoſi maeſtri della 1 Del Sig.Lionardodi Capos. 543, ikclla chimica, dopo molci, e diverfi argomenti, e ſperien ze, ſtupidi alla per fine, e d'ogni loro avviſo ricreduti ſi ri mangono. Ma perquanto col noſtro intendimento com prender ne poſſiano, due forri di zolfo par che abbia nellº Antimonio: l’una fiffa, e pura oltremodo, in cui le ţinture tutte,e i ſemi de'metalli e ſpezialmente dell'oro ſi rinvégo ao: pchè daalcuni degli ſpagirici filaſofati,matrice de'me talli vié chiamato l'Antimonio; l'altra fiè di zolfo dalla sé biáza del comun zolfo poco o nulla diverſa; perciocchè no filla, mainquieta y e volante, e oltremodo vaga ella è;per chè potentiſſimage:ſoperchievole nelleſue operazioni viene da ciaſcun giudicara. Havvioltre a ciò un cal mercurio me, tallico indigcfto, il qual corto più, che ſe mercurio vivo non foſſe, della natura del piombo alquanto ritiene;e as queſta parte, che certamente è la maggiore nell'ancimonio, alori la violenza attribuiſcono, e'l poter, ch'egli ha nell'o perare; anche havvi alcune parti arſenicali, in cui ſecondo. chè altri ne dicano, il ſuo veleno veramente ſi ſerba; c per fine havvi nell'Antimonio una cotal ſoſtanza groffase terre ftra, la qual della ſua matrice ſommamente participando, con quella inſieme,e con ſue particelle congiugoc,emelco la le parti arſenicali, e quelle del primo zolfo, c delmercu rio indigeſto, e del ſale ancora di natura vitriolato, che pur ven’ha: a cuila malvagità tutta, e'l veleno altri aſſegnò, che tanto all'uſo, e all'operazione ſconcio lo rende. Ma l'Antimonio crudo non inuove punto vomito, ne tanco, o quanto a colui, che'l prenda offender ſuole; perchè ne Galieno medeſimo, ne Dioſcoride, ne altri buoni Autori de'ſecoli addietro l'allogară mai infra’veleni, o nel catalogo delle vomitive medicine l'ānoverarono anzi Diofcoride medeſimo ne conſiglia, e conforta a toglier via la poſſanza vomitiva dell'Elacerio, con meſcolarvi deutro dell’Antimonio,e così temperandolo ammendarlo; percioc chè ſenza dubbio ha l'Elarerio più del veleno, che del me dicamento, ſe violento, e rigoglioſo il ſenciamo, che se vorrai purgare, ſono le parole di Dioſcoride, ove egli nar ra dell'Elaterio, meſcolavi altrettanto di ſale ed'Antimonio, 444 - 544 Ragionamento Settimo 1 quanto farà meſtieri,laſciandoall'altrui diſcrezione il divri Jarne la doſe: seisn &è mois diam vooõoty aj di autoữ xabagors. ei pea ούν θέλεις κα το κοιλίαν καθαίρειν, διπλάσιον αλών, μίξας, και είμ plaws over gewoon e Il che eglicertamentefatto non avrebbe, s'aveſſe mai, comechè leggiermente, ſoſpettato, non forte velenoſo, enocevole l'antimonio. Nicolò Mirelio poi, it qual con accuratezza non ordinaria accolſe inſieme le ri cette più nobili de’medicamenti, ch'adoperaſſer mai ne’té pi antichi ipiù famoſi medici Greci, annovera l'antimonio infra iſemplici dell’Antidoto,ch'egli del Gengiovo chiana. E Baſilio Valentini narra, ch'a' ſuoi tempi dell’antimonio ingraſſavanſi i porci: e nell’Efemeridi, o giornalieri dell'In ghilterra abbiamo, che tutto dì oggi i porci, le vacche, ci cavalli ſe n'ingraſſano,al peſo d'unadráma,e anche di mez za oncia per volta prendendone; e in molte contrade del noſtro Regno coſtumaſ a prender l’Antimonio dalle donne gravide in quantità d'unanocciuola, ſenza danno, o noci mento niuno, e'l chiamano volgarmente allegra cuo ré; e nella inedeſima noſtra Città in molte malattie uſali a ber l'acqua dell'antimonio con grandiſſimno gio vamento degli ammalati; e nella Francia, e anche altrove, l'Antimonio crudo, ſicome per M. de la Febure di ciò pie namente inteſo ſi racconta, fe donne tout les jours tout crud par la bouche fansaucun accident, emeſmes aux enfans à la mammelle: e que de plus on le met boüillir juſques au poids d'une demie livre dans les decoctions contre la verolle, &qu'on le met de meſmes en infufion à froid dans de l'eau pour ouvrir le ventre gepour ofter les obſtructions des viſce 1 5 Ma ſciolte da quegli intoppi, c da'legami, chea freno, e a bada la lor violenza tenevano le nocevoli particelle dell'antimonio, o ſaligne, o ſulfuree, o mercuriali, o arſe nicali, ch'elle ſieno (perciocchè grandisſime quiſtioni, ei contefe intorno a ciò infra'Chimici filoſofanti tutt'or vifo no ) non ſi può di leggier credere quantenoje, e ſconcisſi mi danni quelle recar ſogliano,con fondere, e diſtruggere, e liquefar non ſolamente le parti umide, ma le falde ancora del corpo umano'; riſvegliando anche vomitiimpetuofif fimi, e purgando per baffo,finattanto,che colvigor talvol ta lo ſpirito, e la vita miſeramente ne manchi. Ma tacer non fi dee, che ritrovali talora in qualche miniera, Anti monio, cheſenza niuna preparazione voiniti, e fluffi ſoglia cagionare; ſenzáchè'talora nello ſtomaco di colui, che'l prende, può eſſer coſa, che ſciolga da’legami lalparte ve Jenofa, perchè l'antimonio d'ogni miniera, parimente può ciò fare; e quel'è la cagione, che ſpinge alcuni autori a fa vellar così variamente della facoltà dell'antimonio crudo: Ma che che ſia di ciò, ſe per opera, e argomento d'avve dutiffimo maeſtro reprimuto alquanto, e rintuzzato il loc nocevoliſſimo veleno neſia, certamente allora valevole e Pantimonio a vincere, e ſgomberare ogni peſtilenzioſo ma lore, ove a tempo, e acconciamente, e con riguardo per huom ſi dea; concioffiecofachè non ſolamente egli ne pur ghi, cvuoti dentro, ma ſovente ancora diſſolva, e miglio ri, e ſgomberi ciò che nel corpo di maligno, e cattivo così nelle falde, come nelle diſcorrenti parti peravventura ritrova; il che certamente a niuna altra forte di medicamé to, o purganre, o vomitivo, ch'egli fia agevolmente ſi co cede. Nec conftat, dice il Zuelfero, ex vegetabilibus unicũ emeticum, grad nainore cum periculoexhiberi pifit, quàm aniimonium dextere, ac debitè præparatum; nunquam enim tormina ventris, convulhones, hypercatharſin, fluxumque nimium colliquativumcauffabit, etiam fi frigida ſuperbiba tur. E egli però quelta malagevoliſſima impreſa,e difficil molto, p mio avviſo, anzi impoſſibile affatto ad artificio umano; perciocchè la parte velenoſa nell’Antimonio ſi è quella, che muovelo ſtomaco a recere, e ſcioglie il ventre: la qual certamente quantunque volte vi rimane, non ſi può in modo alcuno accutare, che a qualche perſona alla fine,o in qualche tempo non abbia gravemente a nuocere. Nej per altroʻi Chimici autori ora in biaſimo, or in lode de'varj apparecchiamenti dell'antimonio purgante, o vomitivo fa vellar ſempre ſogliono, ſe non fe per lo grare, e ftraboc chevol riſchio, che agevolmente vi ſi corre. E quel ſapientiſſimo nuomo nella Chimicafiloſofia, e nella medicina pas rimente ſublime, e ſingolare Giovan Battiſta Elinonte ſolea dire: Antimonium,quandiu vomitum, aut fedes movet, mercurius revivificaripoteft, venena funt: non boni virirea media. Soglioſi dell'antimonio ſublimare i fiori;e ſi fôde egli an che in vetro, e in regolo; e'l mercurio di vita, e'l gruogo ancor ſe ne forma: purganti inſieme, e vomitive me dicine. E per cominciar dal vetro, il qual comechè in viſta di nulla ſi paja dall'ordinario vetro differente; pure comunicar ſuole minutiſſime, e però inſenſibili, e cieche particelle velenoſe al vino, o ad altro ſomigliante liquore, in cui per qualche ſpazio di tempo ſia dimorato. Egli è il vetro dell'Antimonio commendato aſſai da quel nobiliffi mo Vicerè dell'Olſazia Enrico Ranzovio, Strolago infie me, e medico famofiflimo, e Guerriero, e Poeta; e dalGeri neri ſomigliantemente, e dall'Andernachi, e dal Langio, e dal Mattioli è ſommamente lodato. Ma Pietro Severini d'altra parte grandiſſimo maeſtro in Chimica, e in medici na, forte il biaſima, e danna; dicendo, che avvegnachè in quello cotanto fuoco trapaſfato ſia, non ſe n'è però il buon giamai dalcattivo potuto ſeparare.E de'ſuoi ſentimenti an cora ſi fan feguaci altri, ed altri famoſi medici, e chimici con apportarne molti eſempli d'infelicisſimi avvenimenti. Vitrum antimonii, dice Giuſeppe Quercetani, quo bodie multi imperiti maximo cum damuo utuntur, perniciofum eft medicamentum; quod ſwoarſenicali fpiritu facultatem irri tandoexpultricem, perſuperiora, einferiora magna cum perturbatione ducat, evacuetque; quod ego probare nullo mom do poffum. Dal che moſſo Duncano Borrero anch'egli ri fiutandolo, affatto dalla medicina il bandiſce, dicendo: Vitrum hic antimonii fciens omitto, tanquam pernicioſum medicamentum; e'l dortisſimo medico, e Chimico Teodo ro Cherchringio parimente del vetro dell'antimonio dice, che comechè alcun guarito pur ne ſia, non eft tanti ifta for. tuita quorundam fanitas, ut propterea, vel unius hominis vita exponendafit periculo. Vidienim quum ager tantùm femiun. DelSig.Lionardo diCapoa. $47 Jemiunciam fumpfiſjes infafionis, eum poft ingenies vomitus, & fupercatharticasvacuationes,fubito efflare animă. Ata binc ille lachryma, hinc clamoresifti contra Chymicos inſur gunt; tanquamfiarti imputanda effet aliquorum Pſeudochya micorum impia temeritas, quorum nihil refert quotfuneribus impleant domos; modo unus; alterve fanatuseorum ebuccines fama, &illi audiant magni Doctorės, emungantque rufticis pecuniam. Ma avvegnachè egli medeſimo una cotaltem pera, ecorrezione del vetro dell'antimonio rapporti, la qualdice egliefſer ſicurisſima, e séza riſchio alcuno in ado perarlı; purecomeegli biaſima ſommamente', e riprova quella; che dal Ranzovio, e dal Mattioli, e da altri uſa vali, così verrà un tempo chi da qualche finiftro avve nimento moffo, dannerà, e riproverà anche la ſua. Mi Ιο quanto a me intorno a' vetri dell'antimonio non fa prei certamente che dirmene; non avédo mai fatta pruo. va di quell'avvertimento del Rolfincio, ove c'dice: quane do coctio inſtituitur, favellando del vetro dell'antimonio col vino bollico, fupernatan'scuticula arſenicalis aufertur;" E foglion certamente sì fatti veli naſcer da'ſali, comenel bollir del ranno manifeftainente oiſervali; perchè ſomiglia temente potrebbe dall’Alcali ingenerarſi il velo nel vetro dell'antimonio, e non dall'arſenico, ficome il Rolfincios avviſa. Ma che che di ciò ſia, in biſogna dicotanta confi derazione, lo conſiglierei i lavoranti ad eſſer anzi ſover chianente ſcrupololi, che no, e a ſeguire il conſiglio del Rolfincio, e a dubitare non forſe così foſſe, come cgli dices - Defiori dell'antimonio dal Zappata, e da altri cotanto commendati,così il teſtèmentovato Quercetano favella: Antimonii vitrum idem ferociterpræfat,quod ejus flos;idq; obe Spiritum quendam album, & arſenicalem ipfi infitum quě nec à floribusego exulare exiſtimem; quippe quos adeo afro citer corpus concutere, ac devexare foleant tìm vomitu, tùm dejectionibus, ut res non caréat periculo. E con lui anche ac cordãdofi Baſilio Valentini,dice pariinente i fiori dell'anti monio effer nacevolisſimi, e velenoſi. Z z z Mai Regolo anche dagli antichimedici imperocchè coa hoſciuto, ne fáno ſpezialmézione Dioſcoride,e Plinio (av, vegnachè vi fallaſſero no poco in giudicar, che quello altro non foſſe, che Antimonio in piombo cambiato ) è da’buoni Chimici avviſato per medicaméto violentisſimo ancora,ed oltremodo di riſchio. E ciò anche a' Galieniſti medeſimi fu purtroppo conoſciuto; infra’quali il Priineroſio,così dan nandolo nefavella; omnem retinet antimonii malignitatem, qua antea fub terreo excremento sopita latebat: edindi ap preſſo: fed quum omnes pravas, e horrendas antimonii vi res adhuc posfideat, poculum indè confeftum perniciofiffi mum effe neceffe eft; ideo puriores Chymici hoc ab ufæ me dico amninò ablegarunt. Ed un della ſcuola di Lazaro Ri verj parlando del Regolo, così per ſentiméto del fuo mae ftro ne ragiona: Calix chymicus toties in obſervationibus no Bris nominatus, communiterque adeo omnibus confectus non eft, ut nonnulli arbitrabantur, & arbitrantur ex regulo An timonii vulgaris. Exregulo quidem eft:fed tertii gradus, qui longè differt àvulgari; quamvis etiam multi boc utan zur non finepericulo bibentium. Ma il gruogo de metalli, col cui uſo cotanto avantaggiar fi potèl'imperial medico Martin Rollando, e in tanto ono re, e ricchezze formontare, è così chiamato dal Querceta no, perchè ſecondochè egli ne dica, dell'antimonio tutti metalli s'ingenerano, e fpezialmente l'oro, l'argento, e'l piombo: egli è comunalmente da’buoni ſcrittori il mens violento, e men pericoloſo infra le vomitive medicine an rimoniali giudicato.Ma perocchè l'Alcali del nitro nőben? anche tutta la parte velenofa dell'antimonio ha tolta e pur gata, o p me dirc legata:la qual certaméteè quella cheare. cer muove, ben li può di eſſo dire, che comechè per ope ra d'eccellente, e ſperimentata mano nel meſtier della chi mica temperato fi foffe, pure pofftan dire che L'ira s'intiepidi, ma non s'eftinfo perchè ſoſpettar fempre dee l'accorto, e prudentemedia co, non ne ll'adoperarfi,alcun ſiniſtro avvenimento ne ſe gua; perci occhè pure, comechè di rado fortir ne fogliono, Ed havvi un'altra malagevolezza nel gruogo, imposſibil quafi a ſuperare; perocchè quantunque con la medeſimas proporzione del nitro, e dell'antiinonio diſpoſto fia, c quá ¢unque con tutte le medeſime circonſtanze lavorato į pure, talvolta più;o men vigoroſo ſortir ſuole, e sì da ſe mede fimo differente, che in dubbio ſempre, e in timore delle ſue ſtrane qualità ne tiene, ne per accorto, e ſperimentato che l'Artefice fia, potrà maicome, o perchè ciò avvegna baſtantemente comprendere; ſenzachè cotalimedicamen ti recar fogliono talora uſcite copioſisſimedi ſangue, o la egli, perchè fi rompa qualche apoſtema dentro dall'huo mo,e con quello alcun vaſo grande ancora’del corpo: o che tra per la violenza del vomito, e quella del medicamento alcun altro ſe n'apra, e ſi roinpano, e ſquarcino l'interiora: oche partendofi dalle viſcere, e dibucciandofi la mucilag gine, la quale infra gli altri ſuoi ufi, a guiſa di veſte copré dole, difenderale dagli oltraggj de’ſali acuti, e pugnerec cj, o d'altre ſoſtanze, quelle ignude,e ſcoperte rimanendo, dal medicamento s'offendano: e rodanſi anche dalla me deſima violenza del medicaméto gli orli de’vaſi delſangue; i quali aperti, eſquarciati, comechè picciolisſimi, pure così numeroſi quivi ſono che ſgorgar oc può in ranta copia il fangue, quanto n'uſcirebbe per avventura dal rompime to di qualche vaſo ben grande. E comechè di ciò n'abbia parecchi eſempli; masſimamente nella noſtra Città; purs baſterammi al presēte rapportarquì una ofſervazione dell' avvedutis ſimno Vartone recata dal Gliffonio con queſte pa role: Huc referamus hiſtoriam, quam mihi communicavit clarisfimus V varton, mulieris cujuſdam, quæ à fumptu pharm macoafperiore in enormem fanguinis vomitum inciderat,cui, que ventriculum poft obitum vocatusaperuerat. Nulla com paruit vena, fivèrupta, five exefa; cæterùm in cavitate ventriculi adhuc nonnihil fanguinis reftitit; fiquidem multò maximam ejus partem ante obitum rejecerat. Fortè dum mi ratur unde ea fanguinis copia promanaret, dorfo.cultri inte riorem tunicam, ut penitiusreminfpiceret deterfit: boc facto innumera fanguinis pūčtula in ſuperficie deterfafenfimcomo pare Ragionamento Settimo parebant; ipfa quoque funica quaficutis derafa: cuticules 1. E che diremo noi de'copiofiffimi ſudorifreddi, e viſcoſi, ch'uſcir fogliono dagli ammalati per opera dell'antimonio sì fattamente lavorato i Certamente cotali ſudori,che chia man diaforeticizangofce,e noje, e ſvenimentirecar foglio no, e talora anche con toglier agl'infermi miſerabilmente la vita; avvegnachè cotali effetti non dall' antimonio fo. lamente, madalle manne ancora, e dalle roſe avvenir fo gliano, ed eziandio da altremedicine, che per comun conſentimento più ſicure, e piacevoli, e innocenti tenu te fono: memini non defuiffe, dice il Libavio, qui Caffia fumpta omnia pateretur, que illi,qui venenum hauferuns. Nedi ciò è daprender maraviglia; perciocchèil medeſimo veleno, che è nell'antimonio, è anche nella Callia, non che nella manna, e nelle roſe, e in altre ſomiglianti media cine; perchèſoverchiamente preſe, o fuor del convenevol temporecar ſogliono talora gli effetti medeſimi dell' anti monio. Neq;enim,dice il medeſimoLibavio,in favellando pur della Caſſià,parum acrem inde elicimus liquorem: tur batorem nimirumillum alui. E finalmente il mercurio di vita è egli vero, e legitimo parto dell'Antimonio, non men di quel, cheſiali il gruogo; comechè il Billicchio vanamente li perſuada eſſer quello operadel mercurio, non dell'antimonio. Ma egli è ſenza dubbio men temperato, emen gaſtigato del gruogo; e fe guentemente maggiorinoje, e moleſtie recar ſuolea'corpi umani per la parte maligna, e velenofa, che in eſſo preva le; perchè men certamente agli ammalatidar ſe ne vuole; che non ſi dà del gruogo. Ecomechè be fi poſſa in eſſo co tal vizio perarte.correggere, e ammendare, e più forfes chc da'volgari maettri non ſi coſtuma; tuttavia per quanto diligentemente per huomo lavorato ſia, temer fempre, e fofpettarne dobbiamo; ſenzachè il mercurio divita, come Cutt'altre medicine d'antimonio vomitive, ſovente imediči da' loro avvifi ingannar ſuole, o nulla, o ſoverchiamente operando. Ma non perchè dannoſi talora, e pericoloſi ad uſare co tali medicamenti ſiano, ſi vuol perciò dalla medicina l'uſo dell'antimonio affatto sbandire; conciofliecoſachè ben an che fabbricar ſe ne potranno nobilisfini rimedj dadover darſi ſenza tema di nocimento niuno anche a’vecehj e a'bā. bini, e alle donne groſſe, ficome agevolmente compren der ſi può dall'opere del Valentini, delParacelfo, e dell? Elinonte. E comechè non ſia impreſa da tutti il compor cotali poderoſi medicamenti, ma innocenti però, e piace. voli e di qualunque veleno difarmaci;non però di meno sér za troppafatica durarc potrannoſi agevolmentelavorarda chiunque mezzanamente uſato ſia nella Chimica, que'po chi inedicamenti, che vanno attorno; come il belzoardico minerale, l'antimonio diaforetico, e altre ſomigliantime dicine, nelle quali comechè attutato affatto,e ſpento il ves Jen ſia, pur sifattamente ligato ſe ne giace, Ch'a guiſa di leon quando fopofa: non ſogliono, anzi non poffono perpoter ch'elle abbiano, colle lor pungentiffime particelle offender giammai, ne ad huomonocimento alcuno apportare; non altrimenti, che innocenti anche in alcuni legni, e nellolio, e nella pietra focaja que piccioliſſimicorpicciuoli ſi giacciano,de'quali il concorſo, il movimento, la figura, l'ordine, e'l ſito formano il fuoco. Eben diſs’Io non effer anche nell'antimonio dia foretico eſtinta, e fmorzata affatto la ferocia; concioffieco ſachè fondédoſi quello inkegolo,cagagliardiffima forza di fuoco ſtaccadoſi allora gli alcali,o pur cábiádo sebianza, i quali il vigor del veleno affrenavano,e'ltenevano a badari ſvegliaſi di nuovo, e riforge la fua primiera,e natia fierezza. Quinci ſi vede,quanto dal ver fi diparta il Villiſio, il qual vuole, che l'antimonio diaforetico, altro non ſia, ch'unw ſemplice terra dannata, e che come tale ad altro e' non và glia, ch'ad aſforbire, ea dar luogo nelle ſue vacuità a que' fali acuti,chefogliono travagliar le viſcere: e che egli non abbia niuna facoltà diaforetica; ma ſe al Villifio foſſe ved nuto fatto d'avviſare i maraviglioſi effetti dell'antimonio diaforetico, certamente in altra maniera n'aurebbe favellato,comeche Pantimonio diaforetico ſi ſia veduto nellofte: maco d'alcuno non men,che la polvere di Sicilia, detta del Chiaramonte, e altre terre ſimiglianti,per la gran forza de faliivi dimorāti talora impietrarſi; il che però da béiſcor to chimico ſcanfare aſſai bene ſi puote. Maciò laſciando di parte ſtare: e'manifeſtamente fi comprende eſſer nell'anti monio la parte velenola fiſſa; e forſe arſenicale,e non come altri vanamenté s'avviſa, volante, e vaga. Ma ſe ciò è ve ro, potrebbono per avventura ritrovarſi nelle viſcere delle ammalato ſughi così potenti, che colla loro efficacia vale. voli foſſero ad operar quivi tutto ciò, che far ſuole violen tiſfimo fuoco ne'fornelli, ſciogliendo nell'antimonio diafo retico gli alcali, e riſvegliando la parte arſenicale ad ope rar dentro le viſcere la ſua uſata peſtilenza: e allora chin? aflicurerà dell’acerbiffime noje, e dolori, e ſtracciamenti di viſcere, che recar ſuol l’antimonio, non altrimenti che ad uſo de'fiori, o di vetro lavorato ſia. Così ſperimentiamo talora,che lo ſchietto, ed innoccnte mercurio, meſcolato dentro dall'huomo,coll'acetoſo ſale, che vi ritrova, gua ftali agevolmente, es’aguzza, a guiſa di violentisſimo pre cipitato; intanto chei medeſimi effetti di quello crudelmé te adopera; e ciò manifeſtamente ſi può comprendere dal le pillole del Barbaroſſa,e da’fumi, e dalle unzioni, e da al tre ſoinigliantimedicine. Ma poſto che lavorato per ogni verſo l'antimonio sépre nocevole, e velepoſo all'uman genere rieſca, non ſono però da biaſimare cento,e mille altri medicamenti chimici giovevoli affai, e falutevoli ſommamente ſperimentati.Ma qualunque pur fieno i violenti rimedi della Chimica medi cina, maggiori nondimeno, e più peſtilenzioſi aſſai ne ha ſempre la volgar de Galieniſti, ſecondo il ſentimento cos mune di loro medeſimi: Magis igitur familiare eſe medicis (dice il Primeroſio ) qui Galenici dicuntur, ideft qui veterē Sequunturdiſciplinam,validisfimis. uti medicamentis, quæ Chymici,aut raròin ufum adhibent, autſaltem melius pre parata. Nec verum eft à Chymicis omnia valentisfimo ignis calore præparari; fapillimè mitiffimus calor adhibetur. Sed præterea ipſe Galenus docet igne valido pharmaca plurimai acrimoniam, mordacitatem omnem deponere. Etcertum eft, egli poi ſopraggiugnc,arte hac fpagirica ditta, & fero ciſſima medicamenta edomari, & plurima alias venenata ademptis deleteriis partibus evadere cardiaca. Perchè an che ſecondo i ſentimenţi d'un sì nobile, e valoroſo Galie niſta, e d'altri affai,ch'Io non rapporto pernon tediarvi, gli ellebori, le colloquintide, gli elaterj, le ſcamionee, e al tri non pochi violentiſſimi medicamêti diſegnatine dall'an tica gróffal medicina, i quali già ella più forſe ad offende reinteſa, che a riparare all'umana ſalute,fin da barbaré có trade a carisſimo prezzocomprando recati avea, ora incr cè ſolaméte della Chimica raddolcito il natio amarore, e pofta giù l’nfata fierezza, Ambrofios præbent fuccosoblita nocendi. Aft ego, dice quel fedeliſſimo ſegretario della natura cotan te volte da noi, coniechè non mai a baſtanza commendato Gio: Battiſta Elmonte: aft ego volens paterno animo corri gere furiofam medicaminum vim, intelligo rerum vires pri ftinas manere debere, infui radicem introverti, vel fub ſui fimplicitate transformari in dotes illas ibidem latitantes clanculum fub cuftode veneno: vel de novo partas ratione additaperfectionis. Quopacto colocynthislaxativam,atque deletericam qualitatem introvertit; emergitque ex imo vis. reſolutiva, morborů chronicorum curatrix egregia. Id enim Paracelſus in tintura Lilii antimonii cum laude attentavit; filuit tamen, vel neſcivit fieri idimin omnibus prorſus anima tium, &vegetabilium venenis per falem ſuum circulatums: Siquidem omne venenum ipforum perit,fi in entia prima re dierint. E queſto è appunto quel veramente maraviglioſo artificio, di cui favellando Giovan da Bagnolo una volta diſſe: Generata naturalia inferiora loco durioris compaginis conflata, & alta magnifactione, propter duritiem nequeant abhominum mentibus diruiabſque magnorum philofophorum artificio. Perchè ritornando al propoſto di prima, è da co chiudere, utilisſime molto, e neceſſaric al genere umano Аааа effor Ragionamento Settimo 1 eller lechimiche medicine. E nel vero có quali valevoliar gometi poreron mai cotanti miracoli operare, eguarir ma li giudicati per addietro indomabili, e sfidanzati, l'Elmon, te, e'l Paracelſo, ſe non fe per opera delle chimiche loro medicine? Eglino certamente con queſto meſtier poteronſi guadagnare il glorioſo titolo de'inaggiori medici del mon do: e per queſto ſentiero in tanta altezza di pregia monto il Paracelſo, che ragionevolmente meritonne il famoſo no medimonarca della medicina. Ma oltre a ciò ſono i Chimici intendentiſlimi de'ſempli, ci, e della lor natura: e ben ſanno ſciogliergli a tempo cô trarne la parte inutile, e nocevole, e ſerbar folamente pus ra, e intera la medicinale: ne loro punto naſcoſi ſono i gra. di, e le qualità del fuoco, e gli ſtrumenti tutti, egli ordi gni acconci a lavorare, e'l tempo, e l'altre circonſtanze a ciò confacenti oſſervano. Quindi dal loro faggio, e avve durisſimo operare forgon poi tantiprezioſisſimi medicamé, ti: e fanno dal vino, e di altri vegetabili, e viventi, e miş nerali corpicavar ricchisſimielisliri, e olj,e tiņture, e fali, ed eſſenze, e ſpiriti ſottilisſiini oltremodo, e ſommamente penetranti, e valevoli a riſtorare, eadar dipreſente ripa ro alla mancante vita; e a richianare addietro i ſpirie ei vaghi, e fuggitivi negli sfinimenti, e nelle ſincopi, e ne più gravi, e mortali malori; in cui convien di preſente con prelto, c valevole argomento ſoccorrere. Nea ciò fare al tro che la Chimica efficacisſimamedicina è valevole, cbi ftāte; perciocchè a’ınali gravoli, e non agevoli ad effer vinci fembran certamente bazzicature i volgari, e comunali rią medj; ne a tuto ſenzadubbio le più ſquiſite ricette di Ga, lieno poſlono aggiugnere. Inde illa, gridaforte ſtupidito il principe degli ſpagnuoliGalienilti LodovicoMercati,pro dierant miracula in diuturnis malis,quaprofunda ele ſolens, diſtillatorum aque ardentis, quinie eflentia, auripotabi. lis, fi ſcuſi nel Mercati, ignorante dell'arte, la follia del preſtar credenza all'oro potabile: e la manchevole ragione, ch'egli reca de’mąraviglioſi effetti delle chimiche medici, ne, così ſoggiugnendo, Chymica enim arte fumma compan ratur Del Sig. Lionardodi Capoa. 555: ratur miſtis tenuitas, quæ duplieiter malis peritioribus profi cit, quia cedit ad imum, radiceſque mali penitus evellit, do quia cum toto affecto luco penitusconverfatur, &mifcetur; ità ut facilealteret, &devincat. E quindi ancor moſſo quel gran inaeſtro in divinità, e in ragion civile Martin del Rio, comechè egli per altro non ſappiendo bé la coſa, creda col Mercati, econ altri mal pratici del meſtiere; che ſia vera mente oro potabile quel liquore che alcuni chimici ſoglio no chiamartale: ſommamentela Chimica loda, e innalza, ei ſuoi valevoli medicamenti commenda. Quam ego arré, dice egli della Chimica, qua medicine adminiculatur janë laudo, &venerur, ut phyſiologie fatum præftantifimum, in ventricem auri porabilis, reinonminusutilis adſanandum, quàm ad alendum, ac quoad fieripoteſvitam prorogardam. Ma che cerco lo co raccor tutti quegli autori,chelodanole chimiche medicinezánoverar col poetasqual degl'alti boſelti a terra caggia Numero delle ſparſe aride frodi? trapaſſero dunque a diviſardell'altro capo propoſto, cioè a dire a clti lavorare, e compor le chimiche medicine fi convenga. - E in prima dico, che chiunquc lavorar chimici medica menti intenda, e meſtier di tuo riſchio, è di tanta confi derazione imprender voglia, egli della chimica filofofia, è della medicina ancora intendentisſiino eller debbà, eco noſcer appieno, e comprender lanatura, e gli effetti di ciò che s'abbia a comporre; concioſliecoſachè quantunque di tutto il chimico filoſofo aver piena contezza poſa', e cia ſcun medicamento ottimamente comprendere, pure ſenza lungo, e avvedutiflimo guatamento delle coſe,e ſenza ofat la medicina, mal fenza dubbio i ſuoi medicamenti faprà fabbricare. E ciò bene avviſando il Valentini, e’l Para celſo, e l'Elmõtese'l Quercetano, e'l Dornei, e'l Penoto; e'l Severini, e'l Crollio, etutt'altri famoſimedici Chimici, no ofarono mai confidare, fe non ſe allemedeſimelor manile compoſizione delle lor medicine; anzi que' due gran lumi della Chimica medicina, il Paracelſo, e l'Elmonce foven te d'alcuni lor famigliariforte fi biaſimano ', ch’ardiſſerò a comporre', e difpenfarc i Chimici inedicamenticon gravey Аааа 2 dan 55.6 Ragionamento Settimo danno, e riſchio deglinfermi, e con non poca taccia della Chimica. Ne per altro in vero in tanta infainia,e ſcherno cadde cotal meſtiere, e tuttavia ſi biafima, e fi vitupera dalle genti, quanto, che i ſuoi graviſſimimedicamentiin man tutt'ora di ſciocchiſſime, e temerarie perſone ſon mal menari. Perchè meritainente idetti valent'huomini, e altri Chimici aſſainon laſcian maidi continuo conſigliare,econ fortare i medici a non commetter traſcuratamête all'altrui cura, e talento i ragguardevoli lor medicamenti; dicendo alcuni di eſſo loro, coluiſolamente effer vero medico, che a ſue propie mani le ſue medicine ſi lavori. Quo circa illum demum cum Crollio, dice Criſtoforo Glucradt, verè genui num elle medicum cenfemus, qui medicamenta debitè cogni ta, non ratione, ut rationalesmedicifaciunt, fed propriaſua manupreparare, & à veneno, & feculentiis ſuis feparares repurgare, &ad puram fimplicitatem reducere didicit; eaque imperito non committere coguo; e prima di lui n'avea recata la cagione il Penoto, facilius eſt, R. fcribere, do ad im peritum coquumablegare agrotum, quàm in ipſa naturę pe netralia carbonibus, cineribuſque ſordidum ingredi,& pro mereindè magno fudore, quod ipſe egro exhibeat. E ſe'l lavo rio de' grandi antidoti licome, avviſa Galieno, propiamé tc al medico s'appartiene: perchè narrali, ch’i Romani Im peradori nel comporla triaca il ſervigio de’baſſi ſpeziali ri fiutando, a valorofi medici ſolamente il commetteſſero:Io non lo comead altrui, chc a medico il lavorar le Chiniche medicine impor ſi debba; perciocchè molte, e molte di quelle di maggior vigore, ed efficacia fornite ſono; perchè certamente maggiore avvedutezza, e intendiméto richieg gono, che la triaca medeſima,o qualunquealtro più famo jo antidoto, che gliantichi medici componeffer inai; eres la lor compoſizione malne ſortiſce, aſſai più certamente ne può di danno, e di nocimento avvenire; imperciocchè molti, e molti de chimicimedicamenti ſon così dilicati, e pericoloſi in lavorarſi, cheper ogni menomo fallo, o tra ſcutaggine, che vi ſi commetta, graviſſima certamente, e mortal rovina ne può ſeguire. Perchè l'incomparabile Resnato delle Carte così alla Principeffa Palatina ſua diſcepola ſcrivendo ragiona: Caurè etiam fecit celfitudo ſua, quod non luerit Chymicis remediis uti; nàm quantumvis longa expe rientia illorum vires comprobatę fuerint, tamen, vel minima in eorum preparatione, etiam quum optimè fieri creduntur, variatio, poteft illorum qualitates ità immutare, ut non re media fint, fed venena; ſenzachè, ſe'l medico non vorrà pu re apparare a fabbricare,e comporre le chimiche medicine, come egli potrà mai i diverſize iſtrani mutamenti avviſare, che alcune di quelle, eziandio ottimamente compofte, e apparecchiate far fogliono? come afficurarſi mai delle pe ricoloſe qualità dell'antimonio diaforetico? il qual ſecondo gli avviſi dell'avvedutiſſimo Zuelfero, quocunque modo fe và cum folo nitro, aut addito etiam tartaro præparatum fit, traétu temporis aëri expoſirum pravam, da quaſ maligram induit naturam, fumptumqueintrà corpus, cordis anguſtias, lipothymias, vomitufque, & fimilia prava ſymptomata pro creat. Come potrà egli mai d'altri medicamenti comedel gruogo del metallo, comprenderla vera, e giuſta quanti tà, ch’ad ammalato ſia da dare? la qual certamente non da altro li miſura, e conoſce, ſe non ſe dal ſaper l'operazione dell'Alcali, che in ſu le parti arſenicali dell'Antimonio più, o meno è fatta: e quella ſenza dubbio comprender non fi può, fuor ſolamente per iſperienza, e per pruova, con far ne ſaggio in darlo ſcarſamente agli ammalati, e con rite gno in prim?: quindi a poco a poco andarlo accreſcendo finattanto ch’alla ſua convenevol quantità giuſtamente ſi pervéga: oltre a queſto havviancora alcune virtù di medi camenti, che come di ſopradetto è, avvegnachè nella me deſimacompoſizione, e qualità de'ſemplici, cnelmedeſi mo tempo,e gradidi fuoco lavorate ſiano, pur diverſame te o più, o men vigoroſe, e valevoli ſortir ſogliono; in torno alla qual coſa non è tempo ora acconcio a filoſo fare,comechè molto da dir vi ſarebbe; ma pur come potrà egli tante, e sì fatte ſorti di lavorj comprendere,ſenza aver le in prima ne'fornelli, e con fottiliſſimoocchio ſpiate? co me poi diviſarne agli ammalati i medicamenti, lenza pun to conoſcergli? Ma 558 Ragionamento Settimo Maperciocchè infinitirimcdj a'medici pur s'apparten gono, iquali eglino nonpotrebbono certamente tutti fora nire feinza tralaſciar le viſite più neceſſarie degli ammalati; o altre lor bifogne: dico, chenon haluogo al medico cur ti rimedj a ſue man lavorare, ma que' ſolamente, che di maggior conſiderazione, e di maggior riſchio agl'infermi fono; commettendo ſolainencei medicamcnti piùmenovi li, e più ſicuria ' pubblici, e fedeliſpeziali, da lui per pruo va già in primaconoſciuti dattanco; eſſendovi anche egli talvolta in fu'llavorio per maggior ſicurezza, quando la biſogna peravventura il richiedeſſe. Ma convienmiritor: nar addietro; imperocchè caduto dalla mente miera di ri ferire a fuo luogo, quanto la Chimicas'appartenga fapere, a coloro, che ben intender vogliano gli ſcritti demedici; certamente non che altri, ma i libri medefimi de' Galieniſti la richieggono.E nel vero chi mai potrebbe séza riſchio di groſiſſimi falli,malfornito a tal meſtiere,pormano a'volu: mi d'Arnaldo, o d'altri antichi, e moderni Galieniſti? E ' no è peravvétura purtroppo manifeſto,quáti falli preli abbia no i troppo séplici, e feiocchiGalieniſti in iſpor l’opere di qualche autore per non eſſerſi da loro laputo diChimica perchè ragionevolmente Giovani da Bagnuolo, Galieniſta medico, e chimico eccellentisſimo, cosi querelandofi ſcla ma: Hoc voluit Ioannes Damafcenus in herbarum decoctio nibus; diſtillationibus, quamvis corruptê, di impiè intel bigatur abignorantibus diftillaturiam artem,nefciétibus evela bereelementa à fimplicibus, tantum affumuns aquam endi: viæ primam,oprojiciunt aërem, ignem; non fpretos à doctis medicis benèintelligentibus naturæ principia, & fecres ta: à doctisſimo viro Ioannéa Rupe feiffa: hoc voluit in selligere Ben Cene in tertio lib.fen. 20. cap. 18. de fingular. med. ad augendum coitum, ubi toquitur de commiſtione falis Strucorum cum vitellis ovorum, &patentiffimum eft falem no poffe confici, nifi perdiſtillationem; ducum prima aqua dif folvere cinerem, abluere primam aquam, terram albifi cando, ut docent fapientes. Ma prima di lui ciò ravviſato avea Antonio de Ferrariſuo maeſtro, c compatriota'nelle fue chiofe ſopra la cantica d'Avicenna. Vadiinoſtrando egli poi quanto lia meſtier la Chimica a 'medici per ben in tender gli Autori, con produrre in mezzo molti, emol ci altriluoghid'Avicenna male iſpoſtiso mal preſi daʼmedi ci, per non conoſcerli di chimica; e centoaltri ne potreme míonoi quì ſomigliantemente annoverare, ſe dal tempo ne foſſe permeſſo. Maperchè ho laſciato lo anche di rammo tare la Chimica efferoltremodo neceſſaria aʼmediciper po ter ben conoſcere, e ravviſare tante, e sì fatte guiſe dime dicamenti, che fabbricar tutto giorno, edifpenſar da mol ti, e molti artefici fi fogliono / intorno aquali i ſemplici Galieniſti in nulla fappiendoſi delle lor vircùconoſcere, ſom vente a' rapporti de’medeſimi componitori diaeceſſità les ne ſtanno digiuni affatto, e privi ritrovandoſi di qualunque contezza dichimica; ſenza la quale comporcocali medica, menti, ne in quali forti di malattie, in qual' età, in quales ftagione convenevolmente da uſar fieno, appieno compré der potráno:cõciofſiccofachè cotali ricette fovéte appreſſo i buoni autori s'incontrino, i quali appena ſi pare,che l'ab. biano ne'lor volumi groſſamente accennate, non che par. titamente ſpiegate, e deſcritte, coprendo a bello ſtudio, e inviluppando imiſterjpiù pregiati, e più profondi dellar te, per non logorargli yanamente infra le genti volgari,cu dibaſſo intendimento. E quinci poi ingannati da’loro fal fi avviſi impongono vapamente agli ammalati alcunisime dj, che chiaman prezioſi; facendoſi a crederc, che fien tali, quando veramente fon viliffime bazzicature, e fanfaluche di niun pregio; fe non vezzatamentele impongono per aver parte poiall'ingordiffime baratterie degli ſpeziali. Ma coſtuma fu mai ſempre de' medici il dar a divedereu effer di pregio grande i loro medicamenti; ficomc per ta cer di Pallada, teſtimonia Sereno Samonico: Multos pratereamedici componere fuccos Afuerunt; preciofa tamen quum veneris emptum. Falleris,fruftraque immenſa numifmatafundeso E per non dir nulla del file dell'oro, che cotanto alcuni ſopranmodo millantano: come potrà egli un buon medico diſpor 560 Ragionamento Settimo diſporſi mai ad ordinare al ſuo ámalato beveraggio di quel che chiamāſale d'argēto,ſenza pūto le qualità diquello fa pere? Oh ſep chimica conoſceſſero i Galieniſti giámai,che cofa ſia quel malvagio medicamento, certamente non ne ſarebbono cotanto a'ſuoi infermiliberali, perciocchè non è egli, ne eſſer può giammai ſal d'argento; ma sbriciolati, e ſottiliſſimi ſcamuzzoli del medefimo metallo uniti inſie me, e rappreſi dalle particelle di quegli eſaltati fali acuti, e peſtilenzioſi, onde già roſi, e ſgretolati furono; perchè cer tamente la medeſima qualità riſerbar debbono di que' fali, e'l'medeſimo effetto peravventura adopererebbono, che dal vitriol del rame far fi ſuole; perchè Giuſeppe Don zelli nell'arte della Chimica conoſciuto aſſai, così ne dice: Quanto al mioſentimentoſtimo vanità le virtù, cheſipredia canodel ſald'argento; e credo, che abbia indebolite più bor fe, che corroborati cervelli. Anzi tanto più velenoſo,e mal vagio cotal ſale fi è, quanto più del vitriolo del rame, o ď altro peſtilenzioſo veleno rode,e morde le viſcere, e ſpie tatamente ſtracciandole ſtrabocchevolmente ne muove a recere gli inteſtini, e l'anima; perchè con dolori acerbillimi correr ne potremmo anche mortal pericolo, ſe non che co tanto poco dar ſe ne ſuole, che agevolmente, o la natura medeſima, o altri medicamentiviriparano. E’lmedeſimoancora da dir ſarebbe dell'olio dell'oro, e dell'oro, che chiaman potabile, del qual certamente niun mai ſervir dovrebbeſi, ſe non aveſſe egli in prima per più d'una pruova baſtantemente compreſo non poterli quello in niun modo ne'primicri ſembianti ritornare, e prender di nuovo forma di metallo,laſciato avēdo affatto d'eſſer tale. La qual coſa da quel grā maeſtro dell'arte Elmõte ben con. ſigliata ne fu allor, che diſſe: ne metallicum ullum arcanu intra corpus accipiatis, nifi prius redditum fit volatile, din nullum metallum reduci poffit. Eche direm noidelle tinture de coralli, delle perle,del le quint'effenze, che millantar fogliono,degli ſmeraldi,de zaffiri, e de’rubini, cd'altre ſomiglianti gemme, le quali veramente,ne filoſofiche tinture, nc eſſenze non ſono con cior sor ciosfecofachè a farle tali, egli convenga in prima ſcioglier filoſoficamente que'corpine'primicris loro principj collo pera, e col conſiglio degli Alchaeft, e d'altri ſomiglianti li quori: le qualicoſe altro veramente non ſono, ſecondo il ſentimento d'alcuni valent' huomini, che Sogni d'infermi, e fole di Romanzi; e nõ men vane, e bugiarde, che l'eroiche sbracciate del Rc Artù, e lemillanterie di Lancillotto, di Triſtano, ed'altri crranti Cavalieri,che dimenzogneempion carte. E ſepur vere coſe, e non vanisſime dicerie elle fono, ficome al quanti guari autori han voluto pur credere, cgli però ſo 110 sì inviluppate; e cieche, e rimoſſe dal noſtro intendi mento, chemalagevoliſſimamente per huom ſe ne potreb beorma rinvenire; così, ſe pur lealmente ne diviſano i mae Itri, e Senatori della Chimica Repubblica, come il Valen tini, il Paracelſo, l’Elmonte, e altri, l'han ſapute co' loro riboboli, ed cninmisì bene avvolgere, e intralciare, che impoſſibile omai ne ſembra l'impreſa. Perchè lo ſciogli incnto, che comunemente far pe veggiamo, altro certa mente non è, ch'un minuto ſtrirolamento, o ſceveraniento delle parti, fatto, come è detto,da’ſaliacuti elaltati,e per ciò ſoinmamente velenoſi, i quali meſcolativi per entro, e forte appiccativi non ſe ne potrebbono per tutte le bucate del mondo toglier giammai; ſenzachè i bricioli dell'oro, o delle gemme,o d'altra ſomigliante coía dura, ſcioltije ſgre tolati, e a que’ſali appiccati, ceſano, e fraſtornano l'ope razioni degli Alcali; intanto che non potendogli quelli da tutre parti inſiemeunire, no rieſcono valevoli ad iſpogliar glidella lor natia acrimonia,con rendergli ottuſi affatto, e rintuzzati delle lor ſottiliſſime punte; ficoinenel tartaro vitriolato far ſogliono, ove sì fatto intertenimento non hí 110. E ſe i fali pur non vi rimancſſcro, ma per opera d'ec cellente, e ſaggio maeſtro già tutti interamente ne goin beraſſero, certamente iminuzzoli dc'corpicciuoli ſciolti, c sbriciolati non reggerebber pure a galla nuorando in ſu i pori delle umide ſoſtanze, ma tantoſto in fondo al valo sõ. mergerebbonſi; ne meno ſcioglicrebbonſipunto per gli Bbbb wwin 502 Ragionamento Settimo umidi aliti nel deliquio; come gli intendenti del meſtier fa vellano. E di ciò ben fi può far manifeſta pruova,conme ſcolarvi dentro l'Alcali del tartaro; concioffiecofachè bcn allor di preſente fi vegga l'argento, e l'oro, e le gem me calar giù, e far toſtofondaccio: comechè alcuni cotali paltonieri, e giuntatori de’noftriſecoli pur ſi ſtudjno di di moftrarne il contrario: circumfuranei fallaces,come dice il grand'Elmonte,qui aurum, & argentum furripientes aliud in borum locum fuppofuere; incontro a’quali giuntatori al trove riſerberommia ragionare. Ma de' lavoratori di sì fatti medicaméti,così dice lo ſteſ fo Elmonte, huomo per univerſal conſentimento di tutti letterati intendentiffimo di ciò giudicato. Pudendam pa riter deploro fimplicitatem illorum, qui foliatum aurum, gē maſquecontufas hominibusmagnaſpepropinant,magno ven dentesfuam ignorantiamfinondolum; quafi ftomachusinde, welminimum expectetfubfidium. Subtilior, ideoque magis condolendus efterror eorum, quiaurum, argentum,coralia, perlas, atque fimilia per liquores acidos corrodunt, atque dif folvere videntur;putantque hoc pacto intra venas admiffum iri, verè ſuasproprietates nobiſcum communicatura.Nefciät enim, ah neſciunt acidum venis hoſtile; ideoque peregrina diſſolventiúfuperata, & tranſmutata aciditate,ejufmodi me talla,& lapides pulveré effesatante; qui utcunquein tenuiffi mum pollinemfit redaétus,nihil tamen à ſtomacho conficitur, aut nobisfuas vires partitur. Ed Angelo Sala nel meſtier della Chimica ofercitato affai, e ferino, e veritiero ſcritto Te: omnes illi, ſclama, qui talibus portentofis promifis, quo rum ne minimum re ipfa præftare pofunt, multum gloriantur, Banquam.agyrta, &impoftores babendi funt; licet ab aliqui bus, intendendo egli di coloro appunto, de' quali noi ra gionato abbiamo: ſciocchi,e ignoranti della Chimica, qui facilè vanis perſuafionibus ducuntur, tanquam profundi ar. canorum naturæ fcrutatores fufcipiantur,magniquefiant, da contra ab iiſdem ingenuisfine oſtentatione quantum in artis poteſtate eft exhibentes negligantur. E prima di ciò avea egli detto: meritò fufpeéti habentur, qui primam dari materia philofophorum tùm ad quorumcunque morborum curationem, tùmadmetallorum tranfmutationem, multis, jiſque ad oſtë tationem, & fraudem comparanis rationibus probare conan tur. Qui ex auro, quod necfummaignis violentia, autul lo corroſivo cogi poteft, ut vim fuam metallicam exuat, se liquorempotabilemverum fine peregrina miſtura conficere poffe jactitant. Qui non folùm colorem, innatam tin &tu ram ex omnibus metallis, lapidibus presiofos, fed etiam fpi ritus, olea, & ſales non minus, ac exvegetabilibus fe fepa rare poffe profitentur: Qui ex.talco, corpore illu metallico, & incombuſtibili, balſamicum, &temperatumliquorem ad per petuam faciei venuftatem promittunt. Qui veram tincturam coraliurum ejufdem cumipfis coraliis coloris, faporis, &tem peramenti, majoris tamen virtutis ad Epilepſie, & Melan cholie curationem vendunt; du ex ipfis margaritis talē quin tamellentiam,quæ humidum radicale confumptum meliusquá ullumaliud fimplex,aut compofitumreftituat. E quancunque gli acuti lali ſoglian talor raddolcirli al quanto, o per me'dir mitigarhi accozzádoſi in modo co'mi nuzzoli demetalliſciolti, che le lor fottiliffimepunteaca biar fito ne vengano, come nel vitriolodel ferro agevolmé te fi può vedere; non,però di meno il più delle volte il con trario n'avviene; perciocchè le punte delle particelle, che compongono i fali, accozzandoſi talvolta con gli sbricio latiminuzzi de’metalli, vengon si fartamente a ſchierarſi, e comporſi, ch’a guiſa di pungentiſſime ricciaje, od’aſpri riccj fieramente aguzzandoſi, ed arruffandoſinefquarcia no le viſcere ', e con mortali punzecchiamenti talor n’ucci dono; ficomealla giornata nel ſoliinato, e nel precipitato, e achenell'oro ſciolto p l'acqua regia avvenir veggiamo. Perchè l'avvedutiflimo Chimico Ofualdo Crollio, dicoral oro favellando, dannandone ſommamente l'uſo,non datur, dice, illo nocentius toxicum. Ed io porto pur ferma opi nione, che da sì fatti medicamenti, ſe non ſi deſſero tanto miſuratamente, e a ſpiluzzico, non nien gravi, e manifeſti danni ſeguirebbono, che dal ſolimato, e dal precipitato avvenir ſogliono; perchè non ardirebbono imedici ſcioc Bbbb 2 chi, c 564 RagionamentoSettimo chi, e ignoranti, ſe nella chimica eſercitati foffero, cotali medicamenti, anzinocevoliſſimiveleni, a'loro ammalati per cagion veruna imporre; e comprenderebbon pure che corali, che chiaman riſtorativi, in luogo di dovere agli in fermi sfidati lc ſmarrite forze ravvivare, inaggiormente gliele abbattono. E ſappiano pure, che ſecondochè nes dicano i più veritieri Chimici, più agevole aſſai è a fabbri car di nuovo l'oro, che'l già fatto diſtruggere. Ne è dacredere, che quell'olio d'oro tanto celebre, e famoſo in Portogallo, curi, e ſaldi le ferite con altro, ches co'ſali roditori, ed acuti dell'acqua regia, che if diffolve; perciocchè corrugando quelli, e riſtrignendo i vaſi acquo fi del noſtro corpo, nó fanno alla ferita umore alcuno trape lare; perchè gli ſpiriti de ſali frizzanti, e lazzi la virtù dell' olio dell'oro, o ſia egli oro potabile, è certamente da attri buire; che per altro, ficome diceva colui, l'oro sì fattamé. te ſciolto troppo ſpoſfato, e di niun momento ſenza il fal roditore egli riuſcirebbe: ma affai a ingordo pregio paghe rebbeſi quel poco d'utile, che rade volte ricever fe ne ſuo le, ſe paragonafial riſchio, in cui la vita del malato mani feftamente incorre. Ne altrimenti è da credere degli ap parecchiamentidelle perle, de’coralli, e dellc gemme; perocchè, come di ſopra detto è, sì fattamente nel loro Atritolamento gli acuti fali vi s’appiccano, che per quindi torgli vano affatto, e inutile ogniſtudio riuſcirebbc.' Emi ricorda pure eſſer capitato una volta alle mani del Donzel li un talmagiſtero di ſmeraldi, che manifeſtamente di que' ſali, onde compoſto era, putiva; e quelvalent'huomoall? aperto riſchio della perfona colui ſottraffe, che di preſente predere il doveva. Perchè i buoniChimicisépre dal far co tali apparecchiamenti ſono ſtati oltremodo guardinghi; e'l Gluctradio medeſimo ne'cométi, ch'ei fe in fu'l libro delſuo Beguino, forte gli biaſima, e danna. Anzi quantunque il Cratone nel meſtier di cotali medicine ragionevolméte da ſeguitar non fia; non però di meno in ciò, chcnarra delle perle, egli ſenza dubbio ſembra dir vero. Acetum radi catum, ſon ſue parolefua, acrimonia, & vi corroſiva, atq; cauſtica non modo margaritas, verum alia etiam diſolvere; &in cinerem quafi redigere, atque quemadmodum Chymiſte loquuntur, calcinare polje nemini dubium eft. Huc autem no eft fpiritum margaritarum elicere, fed totam earumfubftan. tiam corrumpere. D.Vaoylelius ſenior mihi narravit Epiſco pumn Vratislavienſem Gaſparem Logum, magiſterium hocper larumperſuaſum à fratrefepèporrectum à Paracelfifta quo dam ebibife, atque eo demortuo tunicas ventriculi nigras, egy corruptas apparuiſe. Eodem eventu ufam effe Marchionis Iohannis conjugem, in qua ventriculi tunicæ planè fuerunt erofa. E ciò certamente avvenir debbe dal non aver ſapu to il componitore di quellavorjo qual cofa apprèffo'l Para cello ſia veramente l'aceto radicato, e dall'averſi egli ſervi to in luogo di quello d'un cotal liquore minerale oltre modo acuto, e roditore. E quantunque diciò per avven tura non ſi poſſa ne'magiſterj delle perle, e decorallifac ti per opera d'alcuni piacevoli fali, o liquori vegetabili dottare,tuttavia comechè ſi cõfacciaio a qualche āmalato, pure in molte,e molte malattie comuneméte ſi dánano;per chè in luogo d'abbeverarſi di quel ſale acetoſo, che nelle noſtre viſcere calor ritrovano, accreſcendolo maggiormen te, le cagionidelle inalattie ne multiplicano. Ma chi baſtevole ſarebbe giammai a raccontar le frodi, c le baratteric, che in sì fatte materie tutto giorno com metter fi fogliono? Ed è egli recente ancor la memoria in queſtaCittà di quel Polacco, chevedeva a carisſimo prez zo lo ſpirito del nitro per l'Alcacſt; e di quel gran Barbar ſoro Ciciliano, ilquale con ſue ciarle, e giunterie molti, e molti ne preſe faccendo Calandrini gli huomini, e dando a diveder loro l'elitropia fu per lo mugnone, vendendo, e di fpenſando la tintura del verderame per quella degli ſme raldi, c'l biſmuto calcinato con acqua forte, e ſciolto, co me dicono, per deliquio, in luogo di veraciſſimo latte di perle; e f quel che minor male certamente era ) Peliſſire di propierà per balſamo di Criſto, e la cintura del Chermes per quella de'coralli. Così bé ſapea falſeggiar sì fatte ma raviglie, come colui, cui fa dire il noſtro Dante la giu nella: decima bolgia dello Inferno: Sì vedrai ch'Io fon l'ombra di Capocchio, Che falfaili metalli con Alchimia: E ten deiricordar ſeben, t'adocchio, Com'Iofui dinatura buona foimia. E non ha guari di tempo; cheda qualche malvagio fpe? ziale comunemente vendevali (edimedici pur l'imponeva no a'loro infermi ſotto nome d’eſtratto di caffia ) la caffia medeſima, ineſcolatovi dentro gutgummi: e queſto mede fimo pure meſcolar ſoleva nell'eſtratto del Rabarbaro per renderlo maggiormente efficace, e vigoroſo, con quel dá no, e nocimento de’miſeri ammalati,che immaginar poſfia mo; e gli ſcimuniti, e balordi medici ignoranti affatto dela la Chimica, ingaonacine reſtavano,giudicando ſcioccamé te maggiorſempre, e più vigoroſa negli eſtratti l'efficacia dellemedicine dover riuſcire. E ſomigliantemente dall'ignoranza della chimica anco ra avviene, che i baccelloni, e ſemplici medici credendo di foverchio agli Artefici, veggonfi tutto dì mandar fuora varie, e diverſe moſtruoſe, e ridevoliricette di medicines, le quali o non inai fi videro al mondo, o folamente ne’libri di poco pregio, o dalle bocche, o dalle penne di chi trop po lor crede furono appreſe; ma quanti danni ne fian ſegui ti a’poveri infermi, chi potràmairaccontare:Dirò lo fola mente, ch'un celebre Galieniſta de'noftri tempi per aver lerro forle egli il Tirocinio delBeguino, o altro ſomiglia te libro di Chimica, ftimandofi egli già gran maeſtro in quella, preſe ardire d'ordinare a una cattivellainferma lo fpirito del nitro volgare fchietto; e comechè lo ſpeziale tá to quanto intendente della biſogna a tutta ſua poſſa il con traſtafle, pur colei preſolo, dopo acerbilliini dolori nabif fando, e rabbiando fe ne morì. Ma di sì ſciocche, e irra gionevoli ricette ben ne potrei Io un lungo catalogo qui diviſare, ſe non che per troppa modeſtia me ne taccio; temendo non diciò ſe n'adiraſſe alcuno, come di fallo per avventura da ſe maffimamente commeflo; ſenzachè v'ha perſona, ch’avendonc finora un lunghisſimo ordine intel R 1 iuto, ne, futo, infra non lungo tempo forſe divolgandolo, farà intors, no aciò la vaghezza de'curioſi interamente paga. E dall'ignoranza della Chimica medefinamente avvic che tutto di daʼmedici il ſale del vitriolo ordinar ſi co ftumi; il che certamente non avverrebbe, fe ſapeſſefi qua to eglioltremodo malagevol fia il comporlo; e che gli ſpe ziali in vece del ſale del vitriolo, dar fogliano il vitriolo medeſimo bianco, o pure il vitriolo riprodotto dal capo: morto, ſicome dicono; il quale talvolta aſſai più del vetro medeſiino, e de'fiori dell'Antimonio violento ſuol riuſcire; cagionando acerbillimi dolori nelle viſcere, e talora anche manifeftamcnte uccidendo. Così non ha guari di tempo per pochi granelli di cſſo moriſli in Caſtel nuovomiſerabil mente rabbiando Gio:Battiſtade'Benedetti ftrolago di gra grido. Ma i noſtri ſciocchi, e baccelloni medici immagi nando di porre in opera un benigniſſimo, e piacevol medi camento, in luogo di quello un crudelifimo, c micidial ve leno ne vengono talvolta ad ordinare. E ſon' anchei medicinegli ſpiriti de'corpi vegetabili da? mueftridiſtillatori, ſommamente beffati; perciocchè colo ro cavar gli ſogliono per limbicchi di rame con gravilli mo danno di colui, che prender gli dec; conciolliecoſa chè la flemma di que' corpi formentati, gravida di quel ſale acetoſo, che non mai partir ſe ne può, trae ſoven te qualche nocevol particella della campana, e con la ſua mordacità tanto quanto la rode, e la ſminuzza. Quinci poi a poco a poco, ne l’huom ſe nc può in prima avvedere,[con volge, e morde le viſcere, e diſtempera il corpo, cagione vole oltremodo, e difettoſa l'economia di quello renden do. Ma veggo Signori che s’lo diſtintaméte narrar vi volei gli errori tutti ne' quali incorrono i medici p nó ſaper pūto di chimica troppo lūgo, e ſtucchevole ne diverrebbe il mio ragionaméto; perchè ritornando di nuovo ad avvercirglin confortargli, e ſcongiurarglia non inframmetterſi d'impre ſa di tanto riſchio, fe pienamente non ne fan riuſcire, dico di nuovo, che laſcjno da parte ſtare le pericoloſisſime medicine della Chimica, e ſolo alle lor menovili, ccomunali attendano: Ludere qui neſcit campeftribus abftinet armis; Indoctuſque pila, diſcive, trochive quieſcit, Ne ſpiſſa riſum tollant impunècorona. E perchè dirò lo non reſterà anche un medico della Chi mica ignorante d'ordinarchimichemedicine?masſimamé re, che non ne fieguono le ſcherne di lui, ma la morte de gli infermi; perchè a ragion lagnavaſi il Sennerti d'alcuni maeſtriScimmionide'ſuoi tempi, i quali, com'egli dice, quum rerum Chymicarum planè ignari fint,ne tamen Chymi cis aliqua ex parte inferiores videantur, chymica medicame ta, quorum vires, & præparationis modum ignorant, fatis periculosè ufurpant. Or che direbbe egli, s'ancor vivendo vedeſſe la tracotanza del noſtro ſecolo, e ſcorgeſſe pures in queſta noftra Città, in queſto Regno non eſſere ſpeziale anzi no eller barbiere, non eſſer cerrerano,non doniccico: 1a, che non componga Chimicimedicamenti:non effermc dico, che non gli ordini, appena che ne ſappia il noine, o bene, o malc, in tutte ſortidimalattie? Anzi, che direb be egli pure, ſe vedeſſe cotali Squaſimodei de'noftri tempi andar tronfj, e pettoruti biaſimando la Chimica in cotali, che forſe ſaggiamente, e con prudenza l'adoperano, quan do eglino ignoranti, e non punto intendenti di quella più ch' alcun' altro poi follemente delle chimiche medicinc fi ſervono? E comechècotalimaeſtri zucche al vento diſa per tutto miliantino; pur nulla conoſcendoſidella vecchia, e della nuova medicina, abborrano, e meſcolano alla groſ ſa il tutto, con danno, e rovina di chilor crede. Ma per favellare appunto de'tempi noſtri, dice l'avve. dutisſimo, eingegnoſisſimo Roberto Boile,Obfervo noviſ fimis annis Chymiam ceptam efe (uti meretur) à viris doctis, quiprius eamfpreverant, excoli; ejuſquefcientiam à pluri bus, qui ipfam nunquam coluerunt, arrogari,ne eam ignora. re exiſtimentur. Vndè faftum quodplures Chymicorum de rebus philofophicis notiones fumptæ fint pro conceſis, atque in uſum verſa; & fic ab eximiis admodum ſcriptoribus,tiim phyſicis, tùm medicis adopsate. E finalmente anche ſe alla medicina non foſſe meſtier la chimica, a che ragunarſi a giornate tāti parlamenti, e tante ſcuole di Chiinica nella Germania, nellaFrácia, nell'Inghil terra, e in altri molti famoſisſimiluoghi d'Europa? A che tanti valentisſimi medici (de'quali alquanti più famoſi Ga dieniſti per brevità ſolamente rapporterò ) avrebber durate tante fatiche, ſparſi tanti ſudori, vegghiate tante notti per imprenderla, per appararla? E per racer d'Avicenna, di Rali, di Meſue, d'Abulcafi, e d'altri famoſi medici Arabi, e ſomigliantemente di Ramondo Lulli, d’Arnaldo da Vil lanova, e d'altri di que'barbari, e infelici tempi: quanto ſudor vi ſparſero Giovanni da Bagnuolo,Gio:Battiſta Món tano: Giacomo Silvio grandiffimo parteggiano diGalieno, Giovan Fernelio, Corrado Geſneri, Teodoro Zuingero, Andrea de'Mattioli,Gio: Giacomo Veccheri, Gabriel Fal loppio, Felice de' Platteri, Martin Rollando, Anſelmo Boezio, Girolamo Cardano, Giulio Cefare della Scala, Gregorio, e Daniello Orftio, Pietro Caſtelli, Marco Aure lio Severini, Daniel Sennerti, Girolamo de'Roſli, Andrea Cefalpini, e Giovanni Eurnio, e Giovan Cratonc? il qual, come alcun'altro deʼmentovati, comeche con ogni sforzo in prima ſtudiato li foſſe di contraſtare, e abbatter la Chi mica, pure alla per fine tratto dalla verità volle appararla, e ſeguirla; e introduſſe in Vienna, com ' egli narra, nel la Corte Imperiale molti ſalutevoli, e nobili medicamē. ti; perchè poi ne fu da altri medici fieramente perſeguita to, e biaſimato. Ed egli ſembra certamente ſventura ſin golar della Chimica, fe pur egli non è anche di tutt' altre cofe grandi, e magnifiche: poichè non s'arri fchia alcun giammai a tacciar coſa, di che pienamente non ſappia, e non ne ſia in prima a baſtanza informato:ma folo la Chimica fi biaſima, e s'accagiona da chi men n'in-. tende; e giugne a tanto l'invidia,e la malavoglienza de'bef fardi, che con arrabbiati morſi fan lacerare empiamente un meſtier,dicui appena fanno il nome.: Machi baſterebbe giammai ad annoverar tutti coloro, Сccc chc 570 Ragionamento Settimo che le chimiche medicine adoperano? certamente non è medico a'tempi noſtri, ch'abbia fior di ſenno, che per be ne ciò fare, con ogni ſtudio diligenteméte nó appari la chi mica; e ſi è ciò ſolaméte vantaggio della noſtra ctà, o della noftra fioritiffima Italia nella quale anche a'tempiaddietro la Chimica da tutte genti,che tanto quáto n’ebber contez za avidiſſimamente fu ricevuta. E Pier Caſtelli ad un co tal meſtolone, che inutile, e ſoverchia a'medici giudicava fa, fciat,diſſe, in Germaniamedicină exercere Chymiæ igna rum non poffe, &vixin Gallia, & in Italia; e'l teſtè men tovato Daniello Orſtio: encomia Chymie non opus eft, ut hic recenfeam: quia verum eft, quod habet alicubi Heur nius: ceſpitat, jam profecto fine hacarte medicina. E prima dicoſtoro avea già detto il Mattioli: medicum abſolutum effe non poſſe; immo nec mediocrem quidem, qui in Chymica non fit exercitatus: nella qual ſentenza fu dopo ancora Da niel Sennerti, e in varj altri luoghi l'accennato Caſtelli, tant'altri valenti ſcrittori, Ch'a nominar perduta opra ſarebbe. Ho traſandato a bello ſtudio di avviſare quanto l'uſo della Chimica ſi diſtenda nella maggior parte dell'arti più curio fe, e più utili al genere umano: imperocchè l'acqueodori fere, gli olj, tanta varietà di liſcj, che lavoranſi per orname to delle donne, le gioje artificiali, che dalla Chimica, qua fi emula della natura produconſi, la varietà de'colori, che formanſi per uſo della pittura, le paſte da indorare, e lac que da partire i metalli, che continuamente adoperanſi dagli Orafi, tutti ſono effetti, coperazionidella Chimica; delle quali la ſola operazione della menzionata acqua da partire i metalli, diè cagione di tanta maraviglia a quel grā lume delle buone lettere Budeo, che nel terzo libro de Af se, ebbe a dire: hujus eft id artificium, ut vi aqua medicata, quam Chryſulcam appellant,quantulamcunqueauri partem argento, aut cuivis metallo illitam, aut confufam,nullo di Spendio abſtrabat, ita ut inauraturis nibil jam depereat mă do, niſi quod ufu interteritur. Res omnino fupenda auri ar gentiquequotamcunque portionem ex ære eximere, etiã, quod magis mireris manente vafculi forma quaſa interdum, a inani, veluti quadam idea à materia abſtracta. E l’Alciato ammirò pariinente la medeſima acqua in chiolando il teſto della legge Idem Pomponius, S. fed fi D. de rei vind. nella quale ſi dice, che'l rame miſchiato con argento non può ſepararſi,e però nõ vi può aver luogo la vindicazione, qual dicono: onde e' ſcriſſe potuit hæc sētētia Vlpiani têpore obſer vari, hodie forte aliud erit, etenim inventa eſt ars,qua Chry ſulcæ aqua viaurum à quocunque alio metallo fepararipoteft, cujus rei quamvis pauci ſintartifices, vixque finguli in ma gnis Civitatibus, cum tamen ſeparatio fieri poffit, apparèt non effe fuprafcripta rationi hodie locum. Ma cotali brighe a'cervelli più ozioſi de' noſtri laſciana do:poichè la chimica eſſer così giovevole, e oltremodo ne cellaria alla medicina baltevolmente è detto, trapaſſeremo ora a diviſare delle ſtrade, perle quali aggiugner ſi poſſa alla contezza di sì nobil meſtiere. Primieramente colui che nel faticoſo meſtier della Chimica eſercitar ſi voglia, conviene, che non ſolo, comc Teobaldo avviſa, ſia nel latino idioma ben addottrinato: ma d'altri, e d'altri ancora egli abbia conoſcimento:concioffiecoſachè in molte lingue del la Chimica i volumi ſiano ſcritti, e con tanti eniminio eri boboli inviluppati, come altrovc dicemmo,che ben richie dono ſottiliſſimi, c.alti cervelli per iſpiegargli: Ea fuit om nium hactenus invidia, dice di lor querelandoli Geremia Bartio, idque præpofterum occultandi ftudium, ac labor, ut non tantum à fe inventa artificia ſpagyrica, tanquam eleuf, na facra celarint: ſed veterum etiam arcana, fimpliciori, apertiorique orationis genere propalata, impofioria perplexi tate, do notarum hieroglyphicarum obſcuritate, in tenebras ipfis Cimmeriis, & Ægyptiis denfiores conjecerint. E oltre a queſto deeil Chimicoper lo ſciogliméto e per l'inneſtamé. to de’naturali corpi aver diligentemente ſtudiato in fiſica, e conſeguentemente in Geometria, e in tutte altre ſcienze ad imprender filica ſommamente neceſſarie; ſenza le qua li mal certamente può egli il ſuo intendimento fornire,quáa tuinqueavveduto fit, e valoroſo aſſai: così quel famolin C cc c 2 mo medico; e chimico Arnaldo da Villanova: quicunque ad hancfcientiam vultpervenire, &non eſs philofophus, fa tuus eft; per tacere il Morieno, e altri. Maconviene oltrº a ciò,che per internarſi nelle cupe, e profonde ſpecula zioni della natura, ne' tre vaftiffimi reami di quella con ra pidiffimo ingegno traſcorra, e molto in eſli ſpii, molto co prenda, e avviſi tutte quelle coſe, ch'e' continuo aver dee tra le mani, e vada pure per inveſtigare nuove coſe; cer cando per lande, e per valli, e per colli, e per fiumi, e per nuovi mari Fior varj, e varie piante, erbe diverſe, c oltr'a ciò augelli, e peſci, e altri infiniti animali, e minic re, e gemme, e altre, e altre fatiche a sì lungo meſtiere appartenenti volentieri imprenda, come già fecero que chiarisſimi lumi dell'arteRamondo Lullio, e Teofraſto Pa racelſo. Oltr’a ciò egli è di meſtieri al chimico eſſer otti mamente avviſato della natura, e delle qualità di tutti gli ordigni, e ſtrumenti del meſtiere, e ſopratutto del fuoco; € fottilmente anche comprendere checo’ſemi di quello sé premai ſi vengono ad accoppiarealquãte particelle, o fali gne, o d'altre ſorte di quelle coſe, che ſi lavorano; perchè poi vengono oltremodo a variarſene gli effetti, e l'opera zioni delle chimiche medicine. Macertamente Nõ è pareggio da picciola barca, e troppo fuor dimiſura n’allungherei il ragionamento,fee tutto ciò,ch'ad un perfetto Chimico abbiſogna recar quà partitamente lo vi volesſi; ſolamente non laſcerò di nuovo d'avviſar coſa importantisſima a mio credere a cal meſtie re: ed è, che il voler da’ſoli libridegli autorila chimica ap parare, è impreſa oltremodo malagevole,e dura affai,mal ſimamente a colui,cheper la filoſofia, e per la medicina ſervir ſe ne yuole. La qualcoſa, ſicome dicemmo,ſopra tutto naſce dall'aver quella gli avveduti ſcrittori a bello Audio con enimmi,e viluppi intralciata; e ciò fanno per. non manifeſtare a tutta gente i ſegreti più profondi dell'ar te; nella qual cofa adoperano certamente gran ſenno, ſe guitando i conſigli degli antichisſimi padri dell'arte gli Ege. Del Sig.Lionardodi Capoa. 573 Egéziaci ſapientiperciocchè;, come cancò quel giocondo ſatirico Fiorentino nel ſuo Orlando rifatto, Le cofe belle prezioſe, e care, Saporite, foavi, e delicate Scoverie in man non fi debbon portare, Perchè da'porci non ſiano imbrattate. Perchè poi molti, e molti, che ſi ſono affaticati, e s'af fatican tuttavia di ſpiegare gli aſcoſi ſentimenti de’Chimi ci maeſtri, ne rimangono certamente di gran lunga ingan nati, e ſovente ancora ne' loro errori traggonnon volendo coloro, che creduli troppo preſtan lor fede; masſimamen te nelle bifogne di maggior conſiderazione della medicina, come fon quelle intorno alle qualiora noi ragioniamo. E quel, che maggiorméte accreſce la malagevolezza fiè,che fpesſiſlime fiate, quandofan ſembianza di parlar manife ſtamente, e alla ſcoperta ſenza aggiramenti di parole, al lor maggiormente n’inviluppano. Omnium rerum, avvi fa il gran Claudio Salmaſio, quæ ad hanc fcientiam perti nent vocabula, ab ufu, & confuetudine communifubmoveritt auctores fui, &peculiarem fibi dialectum vindicarunt, fa lis myſtis tanti arcani intelle &tam. Fornaculam fortem, ve caminum, in quo argentum,& aurum fundebatur,quod ore hiāti, &patulo effet.E fu ancora conoſciuto dal ſapiêtisſimo Boile,dicédo egli quelle parole.Hæcpropterea adjicio, quod qui vel ullatenus in rebus Chymicis eft verfatus, non poteft no ex obſcuro corum ambiguo, & ferè ænigmatico tradendi, que docere præſe ferunt,modo percipere; ipfis. confilium non effe, st intelligantur,nifi à filiis artis (utvocant, nec vel ab iis quidemfine difficultate, & incerti ſucceffusexperimentis;adeo ut eorum nonnulli vix unquam tàm candide loquantur, quă guando trita inter ipforum fententia utuntnr: ubi palàm la quuti fumus, ibi nihil diximus. E’l dottiſſimo Samuel Boc ciardi in favellado della chimica, ars enim ipſa tam eft abdi ta, ut in ejus cognitione adipiſcenda oleum, & operam miſe rè perdant pleriquemortalium. Et qui adeptos ſe putāt quaſ cæteris hanc gloriã inviderët,tot verborü involucris,atq; am bagibus artis arcana obtegunt;ut videant, ideo folü fcripfiffe ut nõ intelligerent? E peraddurre di ciò un ſolo efemplo, chi non crederebbe interamente al Beguino, ea tant'altri moderni autori eſſere lo ſpirito del nitro diſtillato coi bo lo, quelmedeſimoappunto, che gli antichi Chimiciin, molte malattie di darper bocca uſavano? Epur la biſogna non va così; perciocchè quel degli antichi d'altra,e più sé plice maniera componevali; e lo ſpirito rapportato dal Be guino, non ſolamentenon giova, anzi n'offende notabil mente le viſcere; perchè molti della lor perſona mal capi tati ne ſono, per avere i medici ſoverchiamente al Beguino preſtato credenza; come dicemmo teſtè di quella cattivel. la inferma: ecento, e mille altri eſempli addur ſe ne po trebbono. E quinci avvien poi, che non ſi veggono a’dì noſtri quelle maraviglioſe cure, che ſi leggono già per iná degli antichi Chimici eſſer fatte;avvegna pure,che que'me deſimi lor medicamenti ne’loro ſcritti ſi ritrovino, ma sì in viluppati, e alla groſſa diſegnati, che inal certamente per huom ſi poſſono adoperare. E a ciò ben dovea riguarda re Pier Caſtelli, che troppo mal conſigliato, il libro de mendaciis Chymicorum, con ſua poca loda compoſe. Or veggali di grazia chente, e quali fian le malage volezze; le quali intorno a un sì faticoſo meſtier s'in contrano, e come ſe ne poffa in ſoli due meſi huom mai ſuis luppare, ficome non meno ſciocco, che malizioſo fi ſtudia di darnea divedere, il Billicchio; quando egli ſotto gli ann maeſtramenti di Angelo Sala per imprender quel poco, ch' ei ne feppe, tanto tempo infelicemente logorovvi. E concioſliecoſachè cotalarte più operativa, che ſpecu lativa fia: egli è di meſtieri all'avveduto Chimico,anzi coll' uſo, e colla ſperienza, che col rivolger de’libri appararla; perchè poco ragionevolmente colui i ſuoi ſcolari confor taya, dicendo Vos exemplaria Gebri Nocturna verſate manu, verfate diurna; perciocchè quantunque in ſui libri diGebro, e d'altri fa. moſi Chimici molto li poffa apparare, non però di meno ſe non ſi pruova col fuoco: econ altri chimici ſtrumenti,ciò, che Del Sig. Lionardo di Capoa che ne'libri ' de’valét'huomini ſi legge indarno di pienamen te ſaperlo vantar huom puore; perchè il Chimico prudéte, e avveduto è da dir, che più co'carboni, e co'fornelli che coʻlibri uſar debbia; ne per altro certamente detto viene il chimico, filoſofo pe'l fuocò. E comechè dura oltremo, do, e malagevole talcoſaneſembri, pure chiunque d'in tendere a sì glorioſo ſtudio preſume, ſappia innanzi tratto, ché Της δ' αρετής ιδρώG θεοί πτοπίροιθεν έθηκαν Α'θάνατοι, μακρος δε και όρθιG- ομG-επ' αυτίω, Και τζηχυς το πρώτον:επήν δ' εις άκρονίκητα, Ρηϊδίη δ'ήπατοι πέλα χαλεπήπτε εούσα. Innanzi a la virtù poſto i ſudori Hannoglieterni, & immortali Dü: Aleiper lungo, ed erto calle vaſſi, Che duro inprima appar, ma quando alfommo Si giugne, agevol èquel, ch'aſpro apparve; ma per paſſar ad altro non fa certamente meſtiere, ch'Io avvili, potendofi agevolmente da quel ch'è detto cogliere, che dee colui, che pretende avanzarſi in medicina ſtudiar in tutte le ſette di quella; ne in meſtier di tanta conſide. razione, quant'è la ſalute, e la vita degli huomini haw egli a riſparmiar fatica in rivoltar qualunque libro, ne ar roffarfi di ſpiarne da qualunque perſona, per appararne co ſa di comun giovamento, e di qualche pro-alla inedicina; perciocchè ſicome avviſa l'intendentiſſimo Plinio: nullus adeò malus liber eft, ex quo non quidpiam utilitatis erui pof fit. E Giuſeppe della Scala: ego ſum is, qui ab omnibus di Scere volo,neque tam malum librumeffeputo, ex quo non alia quem fruitum colligere poffim. Ne è perſona cotanto ſcioca ca, e balorda, da cui talvolta non poſſaſi apparare qualche coſa, eſſendo vero il detto d'Eſchilo πελάκι του και μωρος ανήρ κα @ καίρον είπε, che per tacere altri, il Padre della giocoſa poeſia toſcana nell'Orlando rifatto, così gentilmente cantando ſpiegò Haqualche volta un Ortolanparlato, Cofe molto a propoſito a la gente. Ma particolarmente de’medici favellando ſcriſſe a tal pro, poſito Conſalvodi Toledo famoſo medico de'ſuoi tempi, e Arciveſcovo di Lione: prudens le&tor, vel auditor, omnes libenter audit, omnia legit: non fcripturam, non perfonam, non doctrinam Spernit:ab omnibus indifferenter, quod fibi deeffe videtur querit, non quantum fciat,fed quantum igno ret, confiderat. E'l Quercetano anch'egli dice, ch'un co tale ſconoſciuto contadino tolſe d'addoſſo d'un gran per ſonaggio la ſeccaggine d'un moleftiffimo capogirlo, cui no aveapotuto porre alcun compenſo, e vani erano riuſcitii molti, e varj conſigli de' valentiſſimimedici. E fenza dia partirſi da queſta noſtra Città, egli è gran tempo, ch'ado perar folevanſi dalla gente volgare efficaciffimi rimedi per li bozzoli della gola, e perle ſcrofole; e al mal della pun ta guarire alcuniuſavanocon feliciſſime riuſcite,aftenendo ſi da’ falafli, l'olio del lino, l'olio dell'olive, il ſangue del becco, il ſalnitro, l'incenſo, la pece, la raſchiatura delde te del Cinghiale, i fiori del papavere roſli, la calce, il gen giovo, e'l zafferano; nella colica la cenere d'alcuni legni, nella riſipola il ſangue della lepre, il ranno, e l'acqua del vitriolo, e della calce, e altrimolti medicamenti, che non fa meſtieri, ch'lo quì rapporti;il perchè ſembra degno, an zi di commendazione, che no l'avviſo del Paracelſo, il qua le vuole, che'l medico non ſempre debba uſare co'letterati, e bazzicar nelle ſcuole, come ſe da lor ſolamente, e non altronde ancora s'apparaſſe tutto ciò, ch’alla medicina ri chiedefi; ma gli convenga anche girne dalle vecchiarelle, dalle zingane,da'ciurmadori, e da’vecchj, e ſperimentati contadini; dalle cui ſcuole talvolta apprenderanne aſſai più, ch’altrove per avventura non farebbe; e quinci fi coglie, the'l medico, non menche del chimico è detto, debba an dar ſe poſſibil fia,per dirla co'verſi del poeta Peregrinando da'piùfreddi cerchi Del noſtro mondo a gli Etiopi acceſi. E queſto ancora, acciocchè egli avviſar poſſa la varietà, o la natura delle terre, delle minicre,dell’acque, degliani mali, dell'aria, delle ſtagioni, de'coſtumi, de'cibi, delle bevande, delle medicine, delle malattie, e delle maniere di ciaſchedun paeſe. Ma con tutto, che tanto, e tanto af faticato egli s'abbia il medico per apprender le contezze già dette,no dee ftimar già ſe eſſere al fommo grado della medicina pervenuto: concioffiecofachè ne men vero ſia ciò che l'Elmonte dice, che in tutta l'Europa appena un ſolo medico ſi trovi:imperocchè queſto ſteſſo ne'maggiori bi ſogni troveraſſi dal ſuo ſaper ingannato; come ſi vide, per tacer del Paracelſo, nell'Elmonte medeſimo, che forſe quell'uno ſi era, il quale non potè ſe medeſimo del mal del la punta guarire;e pure di queſto male,e de'ſuoirimedj egli più d'ogn'altro medico ragionevolmente filoſofaro avea. Ma laſciando ciò daparte ſtare, mi par tempo omai, che veggiamo, quali efſer debbano i maeſtri, i quali introdur poſlano lo ſcolare al conoſcimento di táte ſcienze, quali ab biamo avviſato ellerneceſſarie alla medicina. E conciofi ſiecoſachè di ſopra ſia per noi detto, infra l'altre coſe al medico la notizia dell'erbc ſommamente abbiſognare; conveniente coſa mi parrebbe, acciocchè gli ſcolari in ciò avanzar ſi poteſſero, d'un compiuto, eperfetto giardin de femplici lenoſtre ſcuole ornare, e quivi un'eſpertiſimo er bolajo ritenere, il quale gliele doveſſe ad una ad una ad ditare, con iſpiegar loro la natura, i nomi, e gli effetti di quelle; acciocchè avveduramente poi ciaſcuno uſar le do velle. E ciò tanto monta al comun deila medicina, che ragionevolmére il Caſtellicosì ne ſcriſſe: ficutmedicus fim plicium ignarus non eft bonus medicus, ita Academia, quæ horto fimplicium publico caret, non eft perfecta Academiae. E poco addietro egli medeſimo avea molti, e molti danni annoverati, che per non eſſer nelle ſcuole della medicina il giardino de'ſemplici, avvenirnefogliono. E certamente niun maiſaprebbe, comechè ſagace, cavveduto molto ſi foffe, giugner al vero conoſcimento de ſemplici alla me dicina appartenenti, ſenza aver huom, che d'efli affai pie namente informato innanzi tratto diligentemente gliele inſegnale. La qual coſa fu da Galieno avviſata, allorche dilic, parlando de'ſemplici: Convien certamente, che non Dddd nina, una, o due, o tre volte,ma tratto tratto gli vada minutame te offervando con qualche'maeſtro, il qualgliele additi,come bocca gliele inſegni. E altrove: Quinci immagino i giovani valorofi eller non pocoſpronatia comprender la materia de medicamenti; eglino medeſimi non una, o due, e tre fiates ma ſoventi volte ravviſandola; concioficofachè la vera co tezza delle coſe apparenti coldiligente gratamento de ſenfi ap prender fi foglia. Ed altrove ancora biaſimando coloro, i quali di ſapere per veduta le coſe lordiſegnate non curano: diſſe:Sonocoſtoro fomigliantiffimi a Banditori, i qualii ſe gnali tutti, e i marchi d'unoſchiavofuggitivo, comeche mai non l'abbian veduto, a ſuon di tromba vanpubblicando; im perciocchè apparando ciò eglino daaltrui, comecanzone il vă per tutto poirecitando; che ſe per avventura intervenije, cbe il pubblicato a bando loro dinanzi capitale, eglino certa menteper tutto ciò no'lravviſerebbono. E ciò tanto mag giormente avviene, quanto,che da’libri ſolamente degli Icrittori non ſi poſſono agevofmente apprendere, tra perlaz traſcuraggine di coloro nel dipignergli, e diſegnargli,e per le contele, ch'intorno a quelli ſovente infra ſe hanno go anche pe’molti, e moltinomi, che i ſemplici hanno, chia mandoſi diverſamente da ciafcuno. Coſa, la qual cotanto fe ſudare, e affaticare il doctiſſimo Ruellj; perciocchè, co mc egli dice: in berbulæ cujufdam facie repreſentanda, no tas tam variè delineant, utquidvisaliud potius, quam ſtir pemipfam demonftrare videantur: aut cerie eandem multi plici prorſus effigie: quæ antalis ufquam effe poffit pleriqaw omnes dubitant. Quare me tantorum impulit virorumdift fidium, per vaftas ire regionum multarum ſolitudines, invia montium juga peragrare, lacus inacceffos Inftrare, abditas terra fibras fcrutari, hiantes vallium ſequi ſpecus, vel cum corpufculi bajus periculo præcipitia nonnunquam tentare, ut inſpectu eriam, ne dum cognitione res ipfas comprehenderem. E ciò certamente fu non poca fatica d'un tanto valenthuo mo, e convenevole a ciaſcuno, ch'a sì fatro meſtiere in tender preſuma.Se non ſe noi in ciò riſparmiar ne potrem ino, con apparar quì in un ben fornito giardino tutte l'era be da ! be da confarſi ad ulo di medicina, ſenza andarle raccoglie do con tanto ſconcio, e riſchio delle noſtre perſone. Ag. giungafi a ciò, ch'abbiamo detto che l'orto de'ſemplici tão to più nelle noſtre ſcuole, ed entro queſta medeſima noſtra Città biſognevoi ne fia, quanto che, come ben Dioſcorido avviſa ad acquiſtar pienamente cotali conoſcenze ne con vegna, e nel tempo,che germogliano, e nel tempo, che creſcono, e nel tempo, che languiſcono le piante diligen temente confiderare: τον δε βελόμενον εν τούτοις εμπειρίαν έχεις deti na to ye try agtsQuñ Erasnov ix tūs gãsexuá(over, aig ade Ogexedeafso παρτυγχάνειν • ούτεγαν ότι βλάση εν πτυχηχώς μόνον δύναται το ακ μαζον γνωρίσει ούτε έωes κως το ακμάζονα και το αρτοφυές επιγνώναι.. Perchè a ciò riguardādo ilComū di Piſa,di Perugia, di Bo. logna, di Mompelicri, di Parigi, e d'altre molte Città d'Eu ropa,hánocógrádiſſima loda nelle loro ſcuole i séplicitut tiin ragguardevoli giardini piātati.Maſopra tutti in ciò s'a váza il famoſiflimo, e comendevole Orto di Padova find a ducento anni addietro di tutti i più ſtrani, e ſconoſciuti sé plici, ch'a medicina ficcian meſtieri compiutamente forni to; del qual mai ſempre han tenuto cura huomini in tal meſtiere, e in tutt'altre parti di medicina intendentiflimi: ficome certamente fu Luigi Mondelli, Luigi dell' Anguil Jara, Melchior Guilandini, Giacomo Antonio Cortufio, Proſpero Alpino, Giovan Prevozi, il Cavalier Veslinci Giovanni Rodio, ed altri molti per le lor famoſe opere in iſtampa pubblicate almondo chiariſſimi. Ne certamente con táto ſtudio ciò fatto avrebbono que fapientiflimi huomini, cotanta ſpeſa, e tempo logorandovi, fe a più d'una pruova il grá biſogno di sì fatto giardino pie namente avviſato non aveſſero; il qual ſenzadubbio più, ch'altrove, in queſta noſtra Città, in queſte noſtre ſcuole apertamente ſi ſcorge, non avendovi ne pur uno mezzana mente inteſo de’ſemplici, a cui per una, comechè non mol to ſtrana, e ſconoſciuta pianta ricorrer ſi poſſa; da poi che la paffata piſtolenza tutti gliene tolſe. Intanto, che l'av vedutiſlimo Giuſeppe Donzelli, che in ciò pochi ebbe a ſc pari, infra i ſemplici, de'quali in una cotal bottegaalai fi Dddd 2 1 -mofaa compor s’avea la Triaca, fei, o ſette adulterini un giorno riconobbene. Or che della noſtra Città, e delle no ftre ſcuole quel famofo ſcrittor direbbe, che sì ebbe a ſcla mare? Conveniens in omnibus V niverſitatibushurtus fimpli ciumpublicus non folum ad warięweden perfectionem Academia, &ut diſeantjuniores medici, atque Pharmacopei,feu ad ur bis ornamentum, decus, fed quod maximum, quod optă dum, ad civium ſalutem neceſſarius omninò eft. Quot nãq; quafo errata à pharmacopæis in fimplicium delectu committi tur? quot agri indè necantur? E cócioſliecoſachè ſia dimoſtro ſopra più,e più altre con tezze a un medico abbiſognare; e ſpezialméte lo ſtudio del le lingue, farebbe meſtiere introdurre ne'noſtri ftudj, mae Ari di lingua greca; perciocchè séza quella malagevolmére potrà ne’libri degli antichi huom vātaggiarſi;eſlendo quel li in greca favella compoſti; e comechè nel latino traporta ti già tutti or ne ſiano; non però di meno molte fiate i vol garizzatori non a baſtanza eſſendo, o della materia, o del la lingua intendenti, in non pochi errori ſono incorſi; e per tacer d'altri, o quante, e quante fiatc vien ripigliato da' Galieniſti, e tolto in fallo ſconciamente Avicenna peraver Jui troppo di leggieri preftato fede a coloro, che nell'ara beſco idioma avevano i greci autori traslatati.E certamen te qual inai Xi!rem noi per ficuro, e fedel traslatatore,ſe an che Plinio, anzi il inedefino Cicerone,che così pratico fu della greca favella, pur malamente alcune delle greche pa role nel latino trafportando,da molti avvedutiſſimi ſcritto ri ne vien forte accagionato? Ma meſtier anche farebbe ri ſtorar la vuota ſcuola della filoſofia, ein man de'medici ri porla, come già prima coſtumavaſi. Ma della notomia lo non ſo che dir mi debba; certiſtima coſa eſſendo, che do po Marco Aurelio Severini le noſtre ſcuole mai non abbia no Notomiſta avuto; ſenzachè il medeſimo Marc Aurelio, o perchè di fcco cotal biſogna le riſpondeffe,o che gli fta tuti, no’l richiedefſono, pochiſſima cura ei ſe ne dava. Egli, silo non vado errato, una faccenda di tanta conſiderazio ne, e di tanta lieva si dovrebbe eſſer ordinata, che un di ligen Del Sig. Lionardo di Capoa 181 ligéte notomiſta alle ſcuole s'introducefle, e facédofi ada giare di tutto ciò che biſogno a lui fia,un giorno alınen pec ogni ſettimana la notomia diqualche particolar membro d'animal faceffe; perciocchè in sì fatta guiſa non ha dub bio, che a'giovani, perchè perfetti notomiſti diveniſſero, agevole ſtrada fi ſcoprirebbe. Non fo poi lo fe ben fitro vino inſieme unite le due cattedre della notomia, e della cirugia, e come di due peſi cotanto gravi un medeſimo let tore acconciamente ſcaricar fi poſſa; perchè loderei, che queſte due ſcuole amendue di ſomma conſiderazione, e d' igual fatica ſi partiſsero, e dibuona ragione da due valen ti maeſtri ſi reggeffero. E fomigliantemete anche direi del. le matematiche, le quali cotanto biſognevoli fono al co mune, che non ſolamente per la medicina, e per la filoſofia fan meſtieri, ma per l'arti della guerra ancora, c per la na vigazione, e per le mercatanzic, e per tutto il civil con mercio. Ma oltre a tutte queſte ſcuole, che noi abbiamo dovrebbeſila ſcuola della Chiinica imporre; la quale per quel,chie già ne fia baſtantemente per noidetto, così gio vevole, e neceffaria è al genere umano, ne da'folilibriſen za la guida d'un buono, & cccellente maeſtro apparar mai baſtantemente ſi puote; e non ha il torto l'avvedutisſimo, ed aſſai ben conoſciuto di sì fatte coſe Monſignor Giovan ni Cianpoli, a vituperare, e biaſimare la dappocaggine delle ſcuole p no avervi la chimica introdotta; ma ſpezial méte al noſtro ſtudio la ſcuola della chimica fa meſtiere: avédoſi a far notomia dell'acquc minerali di Pozzuoli, e d ' Iſchia, alle quali i noſtri medici ſenza eſſer della lor natura conoſciuti grå novero d'ammalati poco faggiamente códá nano; quátúque talvolta non pocx ſciagura necoglieſſe ad alcuno; alcheanche por mére dovea il noſtro Capaccio, quãdo diſſe: Medici hoc têpore (Sed quis medicus? quiGaleni tantum methodum legerit?qui impunè homines occidit? ) cum mihil reliqui habeant medendis corporibus, vel cum re ipfa. ignorent, quo morbigenere ægri fins affecti, ad aquas Baja. nas eos rejiciunt, quas nemini unquam prodeffe cognovi. No. vi tamen ftolidos noftræ ætatis homines, quificaci eò profici Scan ' 582 RagionamentoSettimo fcantur, jam ſe videre, caciores indè reverſicontendunt. E certamente una cotal biſogna a comun giovamento fornir fi dovrebbe; perciocchè non abbiam noi fin'ora ſcrittor di lieva avuto, ilqualdiſtintamente eſaminate l'abbia, come chè il Iaſolino ſcriva eſſerſi valuto dell'opera d'un certo Chimico per eſaminare i bagni d'Iſchia; dal quale ingan nato, follemente credette eſſer non ſo quali miniere di fo le, e diluna in quelle acque. Ma per accennar qualche coſa dell'altre parti della mea dicina: Io richiederei, che i Lettori di ella, oltre alle yolgari opinioni d'Ippocrate, e diGalieno ſpiegar dover fero tutt'altre ſentenze degli antichi, e moderni autori,ac ciocchè gli ſcolari, ſicomeGalieno, c altri famoſi valend huominigià ferono, di tutto ciò chenella medicina ſi trat: ta,appieno inforınar ſi poſſano; e ſe bene sì fatte contezze di poco, o niun momento fieno alla medicina, avendo noi a fufficienza dimoſtrato eſſer quella per ſe ſteſſa incerta, e fallace, e che niuna ſetta di quella abbia in ſe dottrina, che vi ſi poſſa per huom alcuno ſtabile fondamento porre, ne coſa di certo mai determinare; impertanto potranno agevolmente ayviſare i giovani in ponendo mente alla va rietà delle ſecte, e dell'opinioni, e alle varie, e ſoventi fia te contrarie maniere di medicare, che fra i medici ditem ро in tempo ſono venyte in ſu, qual via nel meſtier del me 'dicare debban genere, Ne in queſta guiſa alcun contraſto allo ſtatuto del noſtro Regno mai fi farebbe, ficome alcuni daquelle parole: li bros authenticos tam Hippocratis, quamGaleni in fcholis da Geant: vorrebbono argomentare, c ftabilire; e che altro, che la dottrina d'Ippocrate,e di Galieno nons’avelſe a inſegna: re; cócioſliecofachè col dipartirli talvolta da Galicno,i sé timenti di Galieno medeſimomaggiormente fifoguano; ne potrà a buona ragionechiamarli ſeguace di Galieno colui, il quale non faccia, come Galieno adoperò, ſcegliendo datutti libri il migliore, ſicome a ciò fare egli i ſuoi ſcola. w inſtantemente conforta. Solo - nó laſcerò d'avvertire ſo pra l'accennato ſtatuto, ſecondo le fpoſizioni d'alcuni, che sion vietò la legge per quelle parole,il ſeguire, einſegnare; ancoraaltri nonininori autori; coſtumando le leggi, qua do vogliono riſerbare, e vietar tutt'altre coſe, diſegnarle con quelle particelle duntaxat, tantummodo, folum, che i Dottori chiamano taſſative; ſenzachè, ſe colla mente del Legislatore vogliam noi ſporre la legge, come ragio, nevolmente è da fare, certamente non che lo ſpiegare an, che altri nomen famoſi autori vietato ne fia, anzi egli n'è apertamente conceſſo, o per medire impoſto; conciollie cofachè l'intendimento del legislatore in ordinando una si fatta legge,, altro certainente ſtato non ſia, ſecondo che da quella ſi puòcomprendere, ſe non ſe di formare un, perfetto ge valentemedico; il quale, conte già abbiam di moſtrato,cal divenir non potrebbe, s'egli di tutto ciò che fin'ora in medicina è ſcritto piena contezza non abbia. E. certamente ſe l'Imperador Federicoamici!limo, e bene in formato delle buone lettere', che fe lo ſtatuto, e Pier delle Vigne,per quanto cõportaffer que'barbari tempi, ſciéziato huomo, che ſcriſfelo, econrpilollo, aveſſer mai potuto di tantie sinobili ritrovati, e dottrine de" novelli medici, e filoſofanti alcuna concezza avere, eglino ſenza dubbio non pure permeſſo,ma commendato anche avrebbono,che nelle ſcuole a pro del Comune ſpoſti, einſegnati ſi foffero. E tanto più del noſtro avviſo ora noici rendiam ſicuri, qua to che riguardando alla volgar coſtuma di quel barbaro, e rozzo ſecolo, veggiamo apertamente, che corale ſtatuto, o no mandolfi mai di que’tempiad effetto;o pur ſe andò avā ti, fu preſo ſempre in quelmedeſimo ſentimento, nel quale ora noi lo ſpiegamo; inperciocchè in Padova, e altrove la dottrina degli Arabiallor pubblicamente ſi ſponeva; e ab biamo, chepiù che d'Ippocrate,e di Galieno,i medicaméti di Ralis,d'Avicena,c di Meſueallor ſi coſtumavano; anzi in queſte noſtre ſcuole medeſime,laſciati da parce i Greci maeſtri, con comandamento đe’noftri maeſtrati il trattato delle febbri d'Avicenna allor leggevaſi,per racer del nono di Rafi: cum publico bujus almeCivitatis juſu ordinariams Avicennale &turam de febribushoc anno interpretarer, fcrifle già 584 Ragionamento Settimo 1 gia Paolo Tucca, famoſo maeſtro in medicina di queſta noſtra Città. Ne altre doitrine in vero, o diviſamenti,ſe nó que'degliArabi,quà sépre ſono ſtati ſeguitati in medicá do, licome già baſtantemente per noi ſi diffe; e tuttaviade' noftri cempi ancor ſeglionfi; ſegnal certiſſimo, che i me deſimi ancora ne ſiano ſtati ſempre nelle ſcuole de maeſtri inſegnati. Ne Giovanni degli Argentieri, oftinatiſlimo nimico di Galicno, e de'Galieniſti tucci,havrebbe quì midi potuto liberamente mandar giù le loro doterine, aper tamente cozzandovi, ſe per legge ne foſſe ſtato impo ſto a dover āzi Ippocrate, c Galieno,che la verità medeli ma, e la ſperienza ſeguire. E che direm noi di cotanti al tri autori, che da ſentimenti di Galieno traſandando, ove la verità il richiedeva apertamente il contraſtarono? certa mére male a lor huopo táta tracotáza impreſſa avrebbono, ſe contro i divieti imperiali altronde, che da Ippocrate, e da Galieno raccolta l'arte faticoſisſima della medicina nel - le ſcuole inſegnata aveſſero.E lo mi fo a credere,che tāto ito doposì fatto ſtatuto,comeche foſſer preſi a leggerfi i di ſegnati autori, pur tutt'altro chequelli ſpiegar dovevanſi;ne in modo alcuno da’ſentiméti di coloro la medicina tutta di pēder poteva: poichè allora pochisſime opere d'Ippocratese di Galieno dall'arabeſco nel latin linguaggio ſconce,e gua íte, e tutte piene di barbarie erano traportate: e l'opere d'Ippocrate poco certamente a capital tenute furono dagli Arabi; de'quali la doctrina allora per tutto trionfando fio riva; intanto, che Avicenna per comun yoce era principe della medicina chiamaco. E tanto parmial preſente della traccia, che tener debbano nell'inſegnare i pubblici mae ſtri della medicina aver baſtantemente accennato. Ma lo ben m'accorgo, che alpreſente ne verrebbe a huopo, chu attenédo le promeſſe già fatte, diviſar de’mnaeſtri della filo Cofia, comeanch'esſidebbiano eſſer liberi, e non appiccar-, fi all'altrui autorità nell'inſegnare; ma di ciò nel ſeguente ragionamento farem parole, Rai più illuftri, è più glorioſi pregidi que ſta oltre ad ogn'altra d'Italia,belliſſima,e amena Città,è da giudicare: p mio avviſo laver ella ſempremai, o prodotti, o al tronde a lei venuti corteſeinente accolti, % 9 e albergati pellegrini ingegni, e ſaggi, ſcorti, e liberi nello inveſtigare i ripoſti, e profondimiſte rj della natura. E nel vero per non far parole de' più anti chi tempi, chi è di voi, che non ſappia, che quìBernardi no Teleſio, cui diede ilcuore innanzi ad ogn'altro di fron teggiare i maggiori tiranni della filoſofia, che quella avea no a vile, e duriſſimo fervaggio miſeramente condotta, co poſe, e diè fuora que ſuoipregiatiſſimilibri della natura delle coſe? Chi è di voi che non ſappia, che quì pariméte poi Sertorio Quattrománi, Aſcanio Perfio, L.atino Tácredi, Tomaſo Cápanella,Vincézo,c Giovan Battiſta della Por ta, Col’Antonio Stigliola,Frāceſco Muti,e altri, e altri egre gj filoſofanti ſcosſero virilmente il giogo impoſto alle ſcuo. le dell'autorità degli antichi mnaeſtri, della quale dubitar Еесс punto non che farle alcuncontraſto avrebbe il coinune cõ lentimento delle genti a ſomma ſcempiezza recato? Vlti mamente, chi è divoi, che non ſappia, e che non abbia co’propi occhjveduto, che quì cbbe cominciamentoquel la nonmai baftevolmente commendata accademia, che de. gl'inveſtiganti appellofli, ſol perchè era intendiméto di lei, poftergata ogni qualunque autorità d'huomo mortale, alla ſcorta della ſperienza ſolamente, e del ragionevol diſcorſo andar dictro per iſpiar le cagioni de'naturali avvenimentia Echi giammai potrebbe colle dovute lodi tutti i nobili fpi riti, che in tal famoſa aſſemblea felicemente filoſofar fi vi dero rammentare? Ella ricoveroſſi, come voi ben ſapete, ſotto la protezion di D. Andrea Concubletti già Marche fe d'Arena, ch'ebbe l'animo intefo a vincer la virtù de’luoi maggiori, i quali fur ſempremai larghiſſimi favoreggiato ri delle lettere più eſquiſite; e annoverò ella fra'ſuoipiù ca si un Monfignor Caramuele, un Daniello Spinola,un Frá ceſco, e Gennaro d’Andrea, un Gio: Battiſta Capucci, un Luc' Antonio Porzio, un D.Michele Gentile, un To maffo Cornelio, e altri, e altri curiofi, e ſagaci interpreti della natura, che collor fenno, e ftadio,e gloriofe fatiche generoſamente s'oppofero all'impetuofo torrente delPabu fo, chegià ſtabilito, e accreſciuto diforze dal conſentimen to deglihuomini,e dallautorità che gli avea data il tempo, alvero, e alla ragione ſovraftar avviſavanſi; huomini vera mente d’immortal gloria degni, e certamente da commen dare, e da avere in pregio vie più di que' primi, che alla fi Jofofia diedero operá, ecominciamento; conciofficcoíachè; fe eglino difcorrendo regolatamente, e oſſervando con dili genza saperfono la ftrada alla contezza delle coſe naturali, altro veramente noh fecero, ſaluo chc fecondare quef rego lamento, per lo quale caminar fogliono l'arti, e le fcienze, e l'altre coſe tutte di quaggiù, le quali cominciando da roz zi, e baffi principi, dal cattivo, e men buono, al buono, indi al migliore e alla fine a qualche ſtato di perfezione aggiuo gono; ne a queſta opera fare altra malagevolezza s’incontra di quella dell'applicazione,e della fatica,ſenza le quali non è dato agli huomini acquiſtare utile, o onore veruno. Ma ove p rammendare ciò che p fatal legge delle coſe umane, o per altro accidente fia venuto una fiata in dichinamento, e corruttura, primieramente hanſi a ſuperare i gravi impedi menti del mal abito già fatto per lo conſentimento della moltitudine, e per la lunghezza del tempo fortemente ra: dicato negli animi; e dopoauer ciò operato durar fi debbom no parimente le medeſime fatiche, ſe non maggiori, che durarono que'primi autori, e padri della filoſofia; perchè non è lingua,non è penna,che gli poſſa a baſtanzacommen dare. Maio perchè tante volte pazientemente avete degna to d'aſcoltarmi,o Signori,in queſto ultimo mio ragionamen to, che dovrò fare, ſe non ſe incoraggiarviad una sì bella impreſa di liberamente filoſofare, e diviſarvi altresì quanto di liberi filoſofanti, e maeſtri le noſtre ſcuole abbiſognino; ne a ciò fare veruna induſtria, veruno ſtudio, veruna fati ca reputerò vana, e inutile: imperocchè ove ſia ſeguito il mio avviſo., ſpero, che a voi ſomma gloria alcomun ſom mo pro, camefelice termine di queſte poche fatiche, che per altrui utilità ho durate, ſia per ſeguirnezeper dare omai comincianento,dico, ch'egli ſembrerebbe ad alcuni ben fatto aſſai, che s'aveſſe a rinovellare l'antico, e ormai per lungo ſpazio in tralaſciato uſo di ſporre a parola p parola il teſto d'Ariſtotele. E quancunque il miglior partito ſareb be,intorno a ciò imitando le più famoſe ſcuole d'Europa,ri pigliare l'antichiſfima traccia già tenuta da’ Greci nello in ſegnare, Oye poi queſta non li voleſſe ſeguire, certamente giudicherei il men male, che ſi faceſſer le chioſe in ſu'l già detto teſto d'Ariſtotele; imperocchè in sì fatta maniera grande ſcemo ne verrebbe il numero innumerabile di quel le quiſtioni, in cui, e'l tempo,e'l cervello, non men de’mac ſtri,vilogorano tutto di milerevolmente gli ſcolari; sì ve ramente, che poi i maeſtri a quella guila, e con quella li bertà l'opere d’Ariſtotele aveſſero a trattare, colla quales cgli quelle di Platone, e d'altri antichi trattar ſolea. E co me a ſuo eſemplo fecero poi delle ſue mcdefime Tcofraſto, Ermia, Filopono, caltri, e altri ſuoi più nobili ſeguacije Ессе 2 clio 588 Ragionamento Ottavô chioſatori, cioè a dir, ch'egli s'aveſſe minutamente a cri vellare ogni fuo detto, diſaininar a fpiluzzico ogni ſua ra gione, econ nuovi,ė nuovi ſaggi provare, e riprovare ogni fperienza, ch'egli aver fatto teſtimonia nelle coſe della na tura; e ficomene'miſterjdalla Divina eterna fapienza, che ne ingannar ſi plote, ne ingannare altrui a noi già rivelati, nő dobbiamo più oltre inveſtigare; così nelle dottrine in. fegnatene da’šiloſofi,e particolarmente dallo Stagirita,egli fi dee ſempreinai ſtare in ſu l'avviſo,ed aprir, come fuol dir fi, mille occhi, e mille, per veder ſe ciò,che egli nel ſuo indice ne ſcriſſe ficonformi coll'ampio, e immenſo volun medell'Vniverfo. Ma perchè chiaro appaja, e ſi poſſa quaſi diſli toccar cô mani quáto mal ſicurain quallivoglia materia ſia la dottri na d'Ariſtotele,ne daremo ora, comechè breve, qualche faggio; e primieramente in que ſentimenti, che da criſtia no orecchio fenz'orrore no potrebbongiammai udirſizcioè, che l'eterno Dio non ſia il gran fattore dell'Vniverſo, e de gli huomini: ne di noi punto fi brighi, ne con noi voglia, o poſſa uſare in alcunaguiſa, ne in ſonno, ne in vegghia: e ch'egli non ſia colui, ond'ogni bene avvenga. Che la per fertabeatitudine fol nella preſente vita neli conceda, ſen za alcun godimento nellaltra poterfi ſperare. Che la det ta beatitudine nella fola virtù non confifta: ma le fac cia meſtiere de'beni della fortuna: dipartendoſi dal parcr del ſuo Macſtro Platone (cotanto commendato dal gran Padre Agoſtino ) colà ove diſſe, cſſere la perfetta beatitu dine non altrocheil godimento di Dio. Che buona ſia l'é pia legge di Minoffe,il quale volca, chelecito foffe il pec car cótra a natura, acciocchè nó creſceffe oltre al cõvene vole il numero de'cittadini. Che gli huomini abbian la vera fapienza: burlandoſi di Simonide, che detto avea effer Dio folamente il ſapiente; e ftizzandoſi contro Platone, ches ſcriſſe eſſere l'umana ſapienza vile, e bazzeſca. Che igio, vani debbano fraftornarhi, comcincapaci, dalle morali dio fcipline. Che la modeſtia non fia virtù: nc virtù di fortez za ſia il ſofferir pazientemente le ingiuric, la povertà, gli 1 efilj, la morte, o altri infortunj: le quali coſe, come em pie la medefima gentilità condannerebbe, che fortiſſimi sé, za contraſto ſtimò Meltiade nel ſoſtener la prigionia,Temi ftocle l'eſilio, Socrate la morte. Ma che direm poi di quel ſuo ſentimento dietro all'eters nità del mondo,tante, e tante volte da lui ridetto, e pro varo, facendo contro il vero arme i ſofiſmi?Che dell'empie fuc beſtemmie intorno alla natura del grande Iddio, il qua le ſcioccamente egli chiama (wor, cioè a dire animale. E a lui di vantaggio egli l'onnipotenza, ela providenza, elas libertà dell'operare empiamente toglie; oltre a ciò non potendo talor la fuafolle, e pertinace miſcredenza celare, apertamente dice eſſere la religione un politico ritrovato da tener a freno le genti, e che la dignità del Sacerdozio debba compartirli a' ſoldati veterani. E che diremo intor no alle pene, e premj, che dila ſi danno ſecondo l'operes che di quà per noi fatte fono: E che direm’anche dello in ferno, il qual egli dice effer certamente novella da vegliar de; morendocon noi l'anime ancora, ne altra coſa di noi reſtando dopo morte, fe non ſe il freddo cadavero, ſenza, fentimento niuno? e tali alla per finc Ariſtotele ne trattadig come Se fate foſſim’anime di ferpi. Ma non verrei mai a fine, ſe tutte quì diſtintamente re car lo voleſſi le fue empie, e peſtilenzioſe doctrine, dalle quali contaminato il miſcredente Arabo chioſacore in's prima; e poi altristolſero l'occaſione di comporre, e di co pilare quell'infame libro,de'tre ſeduttori del mondo. Quin ci apertamente fi pare con qualita ragione detto aveſſe già Lattanzio Firmiano: Deum non colit, nec curat omninò Ari Hoteles: e prima di lui il grande Origene nel libro, cli’ei ſcriſſe cótro Celſo Epicureo,avea già detto eſſere Ariſtote le piggiore aſſai d'Epicuro; e dipiù biaſima Origene mole? altre malvagità,e ſcelleratezze inAriſtotele,e la peripateti ci ſcuola tutta ne taccia; e'l beato Serafino da Fermo, e S. Vincenzo Ferreri abboininando, e maladicendo la dottri na d'Ariſtotele, e quella d'Averroe ſuo ſeguace ſoleva.gri dareeffer quellephialas ire Dei projectas fuper aquasfapië tiæ chriſtiane, unde facte furtamare, ficut abfynthium; per chè anche la venerabile ſua ordine avca ſeveramente proi. bito a’ſuoi frati il leggere l'opere d'Ariſtotele. E ben ſi paa re, cometeſtimoniano Laerzio Diogene, Ammonio, Cle mente d’Aleſſandria, e altri, ch'Ariſtotele rivolto fi foſſes agli ſtudidella filoſofia per ordinazione di quel Diavolo, che ſotto il mérito nome d'Apolline già dar ſoleya le riſpo Ite in Delfo;ne altra cagione ritrova San Girolamo alla Arriana ereſia, che dottrine d'Ariſtotele: Arriana berefis argumentationum rivos, de Ariſtotelæo forte mutuatur: fic enim Arrianos inperfidiam iviſse cognovimus,dum Chri Si generationem putant ufufaculialligandam, relinquunt Apoftolum, fequuntur Ariſtotelem, E S. Baſilio il magno ſchermendo, e vituperando oltremodo l'Ereſiarca Euno mio dice, che coll'armi d'Ariſtarele tentava egli d'abbat tere, e diſtruggere Criſto; e ſpezialmente in un luogo, ov? egli dice: deh laſcia forſennato il malvagio, e danneyole gærrir d'Ariſcotele: laſcia io c'avverto quel velenoſo, e pe ſtilenzial ſuo favellare intorno alla natura dell'anima: è in tutto caccia via da te quelle ſue mondane ſentenze, copi nioni. Or ſe nelle coſe, che abbiam noi di certo, come loni quelle della noſtra ſanta Fede, così manifeſtamente Ari ſtotele graſandò; certamente dovremmo noi anche nell'al tre tenerlo ſoſpetto, e dubitarne continuo degli uſati ſuoi crrorijanzi dovremmo pure giudicar falſo apertamente tut te quelle ſue premeſſe, dalle quali egli pervia di neceffarie cõſeguéze ſuol cavare gli ſciocchiſſimi ſuoi falli intorno alla noftra sáta Fede.E veraméte il ſiſtema in ſu'l quale egli ap. poggia, o tutta, o la maggior parte della ſua vana filoſo fia,egliè l'eternità della materia, del movimento, del mon do, delle intelligenze: la neceſſità di Dio nell'operarc,e la virtù finita di lui: e altri, e altri ſentimenti a queſti fomi glianti. Ma che dire noi di quelle coſe d’Ariſtotele,le quali quã tunque per la noſtra S. Fede non fi determinino,pur la Ipe 1 ricn DelSig. Lionardo di Capoa اور rienza così manifeftamente ora a noile dimoſtra, che nulla più èda dubitarne? O forſe negando noi fede agli occhi noſtri medeſimi, e dimentendone i ſentimenti, e le dimo ſtranze, crederem noi oſtinatamente ad Ariſtotele, e non ne prenderem pure faggio da altri più avveduti, e men cre. duli ſcrittori i quali in buona verità affermino ſe avere fpe rimentato tutt'altro di ciò, cheAriſtotele nefcrive: Adun que perchè credere noi,che l'arco celeſte nó poffa maggior d'un mezzo cerchio apparere, quando contro l'avviſo d'A: riftotele, Franceſco Pico della Mirandola, il Campanella, il Gaſſendi, il Blancani, ed altri molti maggiore affai l'of ſervarono? Anzi Io l'ho purriguardato, che non ſol mag giore, del mezzo cerchio apparir foglia, ma talvolta anco ra in un cerchio compiuto, e intero, dove il Sol fia alto, e l'huom da qualche monte aſſai rilevato ilriguardi. E dell' arco celeſte lunare,perchè'giudicherem noi eſſer quello co tanto malagevole aformarſi, che ne' plenilunj ſolamente apparer radiſfime volte ne foglia: anzi le egh è pur vero (perciocchè vien comunemente giudicato, maffimamente da Alberto Magno per una delle più favolofe novelle d'A riſtotele ) cgli dovrebbe pur più ſovente apparere, che non Polervòcolui in due fole volte per lo lunghiffimo ſpazio di cinquant'anni; quafi egli in ciaſcuna notte dicotanto tem po ſenza prender mai ſonno foſſe ſtato ſempre a bada al ſe reno per riguardarlo; non altrimenti che Fra Puccio ftayaſi digiuno orádo alle ſtelle, mentre la fua donna rinchiuſa có colui troppo alla ſcapeſtrata ruzz.ava. Ma degli errori d'A riſtorelein si fatte materie ne diſcorrono appieno il Tele fio, il Campanella, ed altri eccellenti autori. Ma che direm noi della proporzione, e convenenza,che infra fe hanno nel mondo peripatetico quaſi in ben librata bilancia in andar ſu le coſe leggiere, e giù le gravi? E la fciando per ora ad Ariſtotcle il creder, ch'ei fa fuor d'ogni ragione effere la leggerezza non men che la gravezza me delima, qualità delle coſe: e come poi per ſua dappocag gine lafciando di ſpiegare d'amédue la natura ad altro tra paſli: dirò ſolamente della ſua fciocchilimatracotanza il non volere far pruova di ciò, che ſogna, che una pietra di mille libre fcenda mille volte più preſto, ch'un altra d'una libra; potendo con durar poca fatica,ravviſare, che que due mobili, tutto che tanto diſuguali di peſo, diſcendano però eguali in velocità. E chedirem noi intorno aciò, che Ariſtotele vaneggia do ne vuol dare a divedere delle coſe, che poſte in acqua, o ſcendano giù, o galleggino? e come egli tratto dalla ſuaſciocca maniera del filoſofare, vuol,che peropera della larghezza, o ſtrettezza della figura, o fendan l'acqua,o nuo tino a galla coſe più gravi aſſai dell'acqua medeſima, non riguardando egli punto alle vere cagioni, che in ciò con venir poſſano. Intorno alla qualcoſa così ſmentito, eri creduto ne fu egli dal noſtro ſottiliſſimo Galilei, che nutta più ne ſarebbe il favellarne. Ma che direm noi dell'acque del mare? onde egli appre. ſe il noſtro Ariſtotele eſſer quelle più dolci aſſai, e men fan late nel fondo,che di ſopra li ſieno? Ahi quanto cauti gli huomini efer denno Preſso a color,che non veggon pur l'opra; Ma per entro i penfier miran col fenno. Così traſcurati, e bambi ſi ſon laſciati trarre a ' ſuoi ſco cj, e difettoſi fillogiſmi i poco avveduti,e troppo creduli ſuoi ſeguaci, che nulla curandodi vederlo per pruova,giu rano, ch'egli ſia infallibile verità: quum hoc, dice Giulio Ceſare dalla Scala, pro comperto,veroque habeatur, in fun do maris aquas dulces effe. Ma Franceſco Patrizio huomo di maraviglioſo ſapere, e di non ordinario avvedimento così operando pur con tutte diligêze diviſarene dallo Sca ligero, ritrovando alla per fine il contrario, ne ſcrive: quñi mare ftaretplacidiffimum, nec itineris tantillum navis confi ceret, nullo Spirante vento experiri libuit, vafe cattitering ejufmodi, quale ipſe deſcribit, funi longiffimo alligato, quem nautæ fcandalium vocant, & altero leviore funiculo operculo accommodato, ita ut attractus illud aperire poſſet. Itaques manibus propriis utrumquefunem in mare demifimus: vas cafu plumbo pilotico fenfim ad fundumpervenit altiffimum, ſcilicet CXLVII.: quum fenfiterramtenere, minorem funem traxi, operculum referavi. Extraximus opertum mari ple. num, falfo, amaroque, baud majorefalfedine, vel minore quàmquod in ſuperficie pofitum vafe alio guftabamuscompa rando. Ma finalmēte intorno a ciò n'ha rimoſſa ogni dub biezza il chiariſſimo Boile, il qual dice, che non ſolo i tuf fatori moderni inghileſi han fempremai aſſaggiata l'ac qua nel fondo del mare ſalſa, non men, che quella diſopra; anzi dipiù in cerci luoghi della zona corrida ritrovato no una fiata nel fondo del mare pezzolinidiſale, e ſe ne ſervirono a lor agio per condir le vivande i peſcatori. Nó diffimile altresì da queſto dell'acqua ſalſa è quel, che Ari {totele apporta ne’libri delle ſue metcore, intorno al vino; affermando con franchezza grande, che i vapori del vino ſi vengano a cambiare in acqua toſto che ſi riſtringano. Ne men groffa di queſta è quell'altra ridevol balordag gine del noſtro natural filoſofante,intorno al rame; la qual parimente nelle ſue meteore volle, che ſi leggeſſe;cioè, che'l ramenon ſi poſſa per coſa del inondo įn altro color tignere. E quinci veggafi pure quanto male a lor huopo i filoſofi nan turali non ſappian di Chimica. E che direm noi intorno a’mari, i quali dice Ariſtotele eſſer molti, e molti, che non ſi congiungano inſieme, trat tone ſolamente il mar roſſo; il qualſecondo il ſuo avviſe, p piccioliſſime focinell'Oceano Atlático entrar ſi vede Nar ra ancora egli, e follemente giudica i Beti, e la Dannoja naſcer da’monti Pirenei; e nel Parapamiffo l.2 lor prima fő te avere il Battro, el Coaſpe, e l'Indo, e l’Araſle, cche da queſto poi li venga eglia diramareil Tapai. Coſe tutte manifeſtamente falle, e impoſſibili;concioſliecoſachè fap pia ben ciaſcuno tanto quãto di ciò intendente, che'l Coal pe per la Perſia diſcorra, e di la dalla Perſia il Battro allin Battriana Provincia dea nome, e l'Indo naſca nell'Indiwi perchè non è da credere, che fiumi diſcorrenti in Provin cie cotanto infra fé lontane, e rimoſſe, in un modelimo luogo tutti, e da una medeſiına fonte ſorgano; c'l Tanai ſa ben ciaſcuno, che naſca ne'inonti Rifci. Ma di più dice Ffff Ariſtotele, che nella Liguria un fiume grandiflimo; e non minor del Po s'inghiotta tutto, e fi divori dalla terra, e quindi dinuovo poi rinaſcendo diſcorra altrove. Ma in corno al primo naſcimento de'fiumitutti,egli molto ſcioc camente parlando dice, che ciaſcun fi formi, es’ingeneri negli altiſſimi monti dal vaporoſo aere per virtù del freddo a viva forza riſtretto, e condenſo, e diſtillante continuo in acqua nelle naſcoſe caverne, e nelle picciole buche della terra; e quindi poi fa che prendano perpetuo movimento con una cotal gravezza, la quale perrocce, e per burrati, eper lande, e pervalli faccendo l'acqua diſcorrere, eca dere La fa inquieta, inftabile, e vagante. Nel qual modo follemente filoſofando fa egli nafcer non folamente piccioli fiumicelli, e fonti, e poveri rivi, ma no ne ferba anche i più ſuperbi, e vaſti fiumi del mondo. La qual coſa quanto ſia ſciocca, e da ridere, ben può comprenderlo chiunque ha favilfuzza d'intendiinento, fen za ch’lo più ne dica. Eche direm noi di quella così ſmiſu. sata, e incredibile altezza del monte Caucaſos Baja, ch'avanza inver quante novelle, Quante mai differ favole, ecarote Stando alfuoco a filar le vecchiarelle. Eglimillantando delle cime di quello dice, che fino alla terza parte della notte ſian dalfole illuminate; che fatta ne la ragione ſecondochène ſcrive il ſottiliſſimo Peripate tico filofofante Giacomo Mazzoni, farebbe il monte dal tezza almen di ſettant'otto miglia noſtre Italiane per linea perpendicolare; c quì non può non gridar eoli: papa in quos aculeos imprudens me conjeci! rident enim hoc Ariſtotelis dictum Mathematici; putant enim eum pueriliter lapfum efle. Cæterum ego dico eum ſequutum effe famam. La quale ſču fa del Mazzoni Io non lo ſe maggiormente debba fcagio nare, o tacciare il noſtro veritiero, e accortiſſimo Filoſofo. Ma d'altra parte Giuſeppe Blancani famoſifſimo Matema tico, cercando a biftento di menomar cotanta altezza del Mazzoni, la riſtrigne ſolamente a miglia cinquantadue; qua DelSig.Lionardo di Capoa. 509 quia tamen, ſoggiugne poi, adhuo omnem veritatem nimium exfuperat; e biaſimandoſi forte della ſcuſa del Mazzonifa piertiores judicent, dice, num recte philofophus, cujus eſiree condita, &abditadocere, excufetur,fedicatur eum popula. rem famamfequutum effe. Ma fe falla così ſconciamente Ariſtotele in narrando con ſe falſe per vere, non meno errar ſuole egli talora in rifiu. tar come mentite, e falſe quelle, che manifeftamente ſon vere. Così egli nega efſer il vero ciò che cutto dà ſperimé €2 avvenire nelle contrade della Paleſtina, e propriamente in quel miſerabil luogo, in cui già cadde Fiamma dal Cielo in dilatate faldea E di natura vendicò t'offeſe Sovra le genti, in maloprar sì falde. Fu già terra feconda,almopaeſe; Hor acque for bituminofe, e calde, E fteril lago, e quanto ei volge, e gira, Compreſs'èl'aria, egrave il lezzo fpira. Di quel fetidohumorgiammainon beve L'affaticato peregrina, e laſo, Non greggia, non armento:e cofa greve, (Benchefia gravepur, qual ferro;of affo,) Sornuota quaſi abete,od orno leve: L'huom non s'attuffa mai, ne giugneal baſſo. Cosìagevole egli è Ariſtotele a negare, e ad affermare a fuo talento tutto ciò, ch'e' vuole, fenza aver riguardo niuno alla verità. E volle Ariſtotele anche oſtinaramente contendere, e negare contro l'avviſo di molti valent'huo mini, fotto la torrida Zona la terra eſſer abitabile. Ma che direm Noi della Galaſſia, o vogliam dire cerchio di lat te, il quale fecondo Ariſtotele è un incendio perpetuo bruciate nella region dell'aria per l'eſalazioni, che dal le baſſe valli, e dagli alci monti vi manda continuo la cerra; errore così grande, che anche i più cari ſeguaci di lui ſe n'avvidero, e apertamente ne'l ripigliarono; in torno alla qual coſa, ſon veramente degne da notar quel le parole d'Olimpiodoro avvedutiſſimo ſuo interpetre, colle Ffff 2 quali 1 596 Ragionamento Ottava quali egli comincia a chioſar quel luogo: il Reo (dic' egli, fervendoſi del volgar detto ) è di miglior condizione dell attore; concioffiecoſachè allegando tutti gli antichi filoſo fanti nel ciel la Galaffia, ſolamente Ariſtotele portando falſa opinione, nell'aria ła pone; perchè il Campanella eb be a dire:hancfententiam nemo fequacum ſectatur, nifi ftul si quidam:fra' quali non vergognoſli di porre il ſuo nome CeſareCremonini:mathematica,et rationis expertes;e Aver roe, il quale così a capital tiene la reverenda autorità del ſuo caro Ariſtotele, che tranguggiar volentieri fi fuole tutte ſuc bagatelle, e ſue bugie, quantunque groſſe,e fmi ſurate elle fieno, pur ciò non potè a niun inodo inghiottire. Ma che direbbono a’giorni noſtri il Cremonini, e gli altri oſtinati fuoi ſeguaci, fe mercè del Teleſcopio guataſfero quelle tanto picciole ſtellucce, ch’ammucchiare inſieme, e riſtrette laſsù formano la Galaſſia, edi quà ne fembrano per la lor picciolezza una confufa liſta appena di mal di ſtinto ſplendore; il chefenza conſiglio del Teleſcopio be conobbe il fottiliſſimo Democrito, allor che, come Plu tarco, e Macrobio teſtimoniano,difſe eſfer la faſcia del latte non altro,che moltitudine di ſtelle fiffe in quella parte tan to picciole,e non vedute diſtintamente a noi per la lor pic ciolezza, non già perchè allumate non fian dal ſole per lo tramezzamento della terra, come falſamyente ne vuol dar a diveder Ariſtotele ch'abbia detto Democrito, per avval lare il buon nome di quello, con accagionarlo d'un mani feftisſimo errore. Ma chi non fa quanto egli fiafi apertaméte aggirato Aristotele intorno al luogo, e alla generazion delle stelle comete, e quanto fanciulleſcamente e'ne diviſi; e già n'è prie troppo a ciaſcun manifefta la verità, avendone sì ben fa vellato il noſtro Ipparco (che tal meritamente dal Gaſſer di vien chiamato Ticone ) e l'ingegnofisſimo Chepleri, e cotant'altri moderni Aſtronomi, e filoſofanti, i quali n’hā così dimentito, e ricreduto Ariſtotele, chenulla più. E che direm noi intorno all'incorruttibiltà,come dicono del Cie lo, intorno alla natura del ſole, e dell'altre ſtelle? E che direm noi della favoloſa novella della sfera del fuoco? Ne. mi farò ora a voler dir della Terra, la qual ne’libri del Cie lo avendo Ariſtotele poſta ritonda, pure ſpagato, dice ne’ libri delle meteore,ch'ella inverſo Settentrione, alquanto più rilevata, e alta filia. Nedi ciò anche contento, ne’li bri medeſimi delle meteore, come ſe caduto gli foffe della memoria, ciò, che non guari addietro n'avea ſcritto, portas opinione eſſer la terra, non già ritonda,ma da due lati pia na a guiſa ditamburo,o di cilindro, o dirottame di colom na: ftando ella, ſon ſue parole, non altrimenti,che tamburo; perciocchètale è lafigura della terra: equantunque ſi paja ch'eifavelli della terra abitabile, di queſta anche aveans favellato gli antichi filoſofi, i quali egli biaſima travolgen do i lor ſentiméti;mache che ſia di ciò, falfo pariméte ſi è, la terra abitabile efſer a guiſa di tamburo; ondeebbe a di re il Tallo, comechè peripatetico e' fi foffe: Tal che nonſembra l'habitata terra Timpano più,come affermando inſegna Il gran Maeſtro di color,chefanno. Ma delle contradizioni, e mutamenti d'Ariſtotele,i que. li quafi in ogni carta delle ſue opere s’incontrano, lun gofarebbe ora a dire; le quali così manifeſte, e così ſpeſ fe ne'ſuoi libri ſono, chei inedeſimiſuoi parziali non oſan negarle. E conciosſiecofachè molti famoſi ſcrittori s'ab biano preſo briga di fcoprirgliele, tralaſcerò lo al preſen te di più divifarne. Solamente non vo lafciar di trarne a noſtro concio, cheAriſtotele avvegnachè tutt'altro inoſtrar volefle,filoſofar folea non meno incerto e dubbioſo, che il luo maeſtro Platone, e Socrate ſi aveſſer già fatto; e feco dochè più in concio gli rendevali ſerviva delle opinioni al trui; e quelle, e queſte, or abbracciando, or rifiutan do a ſuo talento, non altrimenti che noi nelle varie ſta gioni dell'anno de' noſtri veſtimenti facciamo. E certa mente lo direi co'l dottisſimo Ramo,la filoſofia d'Ariſtotele da quelle vane ciance in fuora, che dir ſi poſſono propia mente ſue, eſfer una confufa meſcolanza de ſentimene ti degli antichi ſoventemente da lui non troppo bene capi 598 Ragionamento Ottavo 1 2 4. 4 capiti, e malamente ſpiegati; ficome in più luoghi delle ſue opere manifeſtamente fi fcorge. Collecta femel iftafunt, dite l'accennato Ramo, de multis, magnis infinitorum authorum; & operum vigiliis; recognita nufquam funt. E piaceſſe pureal Cielo, ch’a’tempi noftridurati pur foſſero imalandati libri di quegli antichivalent'huomini,che più agevolmente ſenza fallo ne ſarebbe creduta cotanta verità, E quinciſi pare, con quanta ragione detto aveſſe l'iſtorico Timeo appo Suida, eſſer Ariſtotele ditardo, ed ottuſo in tendimero: Tίμαι φησιν κατ ' Αριστοτέλες,είναι αυτονευσχερή,θρα συν, πιοπιτή,αλ' ου σοφισών,όψιμαθή.μισον υπάρχοντας το πολυήμητου ιαπιείον αποκεκλεικόG, και στις πασαν αυλήν, και σκηνήν έμπισηδηκόα. Timeo diſse contr’Ariftotele, efser lui impronto, orgoglioſo, rintuzzato d'intendimēto,eda ciaſcuno odiato: il qual con ſue maladizionifi fe ftrada in tutte le corti, e per ogni ſcena pro verbiava; che che ſi dica il Cauſabono: il qualpoco, o nul la inteſo di sì fatte faccende dice, in favellando di Timeo, falfifima enim omniaquæcunq; dedivino viro epitimæus ifte nugatuseft. E le inai ſidee dar alcun luogo alle conghiet ture, più balordo, e ſciocco eſſer veramente ſtaro di quel, chc Timco, ed Eliano ancora ne raccontano e ſembra cer tamente Ariſtotele;perciocchèegli ben vent'anni conſumo nella feuola di Platone,e periſtudio,e ſudor, ch'e'vi logo raffe,nó potè mai avāzarne più che forſe ſi ſarebbe approfit tato il più minutoícolaretto. E ciò maggiormente ſilaſcia credere dall'aver lui molto ſcioccaméte apprefe alcune sé téze del ſuo maeſtro, e molto ſtorpiatele, e malmenatelei. Ma di ciò forte altrove più agiatamente diremo. E ritor: nando ora a ciò, che propoſto avevamo, cioè a rapportar come ſconciamente Ariſtotele cerca talora di contraſtare, ed abbattere gli altrui veri ſentimenti: maraviglioſo certa mente, e degno aſſai da notarſi e' miſembra qucl, che egli dice del ragnolo: ed è,che avendo già detto in prima De mocrito, che le ſottiliſſime fila, onde ilragnatelo con arti icioſo lavorio teſſer ſuole maraviglioſamente le fuc tele, egli dentro le ſue viſcere le ingenerise per lo fondo le trag ga per quella parte ch'è bello il tacere;levofli incótanente fuſo Ariſtotele, e opponendoli orgogliolamente a un tan to huomo, diſſe, che Democrito in ciò manifeftamente fal lava, e che le fila forminſi dal ragnatelo per tutte parti del ſuo corpo, a guiſa di corteccia, o di lanugine, chetut ta gli vadano coprendo la buccia; o non altrimenti che s? avventino le penne dell'Itrice: ου διμύανται δ ' αφιέναι οι αράχναι το αράχνιον, ευθύς γεννώμενον, ουδ' έσωθεν, ως αν περιθωμα, καθάπερ φησί ΔημόκριτGάλ ’ από του σώματG- οίον φλοιόν, ή του βάλον τοίς Dertiv,oi'or ai uspiges: cioè i ragnateli nati appena mādan fuq ri le fila,non già dalleparti dentro aguiſa di fecce d'anima li, come falfamente immagina Democrito, madalleparti di fuori, aguiſa d'una ſcorza, opur di quegli animali, che ſono gliano, Jaettano i peli, come è l'Iſtrice, Ma quì non ſi può ſenza maraviglia coſiderare la traſcu raggine,e lentezza de’poco curioſi peripateticisi quali se zabadar puntoalla verità del fatto,confarne pruova han cosìvergognoſamente ſeguito il parere d’Ariſtotele, laſcia do daparte quello di Democrico;ilquale tutto il corſo del la ſua vita, che fu affai ben lungo, in far eſperienze avea logorato; e tanto più degni di biafimo ſi rendono, quanto che l'impreſa non richiedeva cotanto fenno, e avvedimen to, o fatica per venirne a capo: che ben ancora le feminel le delcontado, e imuratori, e gli ſpazzacamini avveder ſe ne poſſuno, allor, che ne’lor piccioli abituri veggono fa re il tombo agl'induſtriofi ragnuoli, per inteſſer le ragne alle moſche. Ma fu egli certaméte cagioned'un sì folle errore l' aver eſli dato intera credenza ad Ariſtotele.E nel vero, chi mai ſoſpettar avrebbe potuto, eſſere ſtato Ariſtotele così fciocco, e ardimentoſo nel ſuo lcrivere, che manifeſtame te aveffe voluto contraddire al divino Democrito ſenza aver lui in prima ſottilmente conſiderata la biſogna, e ſpe rimentata per più d'una pruova co’propi occhj. la ſua ragio ne; maſſimamente,che a doverne far ſaggio non gli era me ftieri inviar mefli ad Aleſsandro, e farli venir dalla Media, o dall'Ircania, c dalle più rimoſſe contrade dell'Indie nuo ve, e non più conoſciute belve; che ben poteva egli nella camminata della ſua caſa propia veder ne*cáconi i ragnuoli filare; Coo Ragionamento Ottaud; filare;pchèvalſe tátol'autorità d'Ariſtotele,che in coſa co tāto manifeſta ſe ne ſarebbe per avvétura ancoroggi ſepol tala verità, avédo ad Ariſtotelecreduto l'Aldovrádi,e cota. ti altri famoſi ſcrittori,ſe la ſperienza nõ aveſſe nõ ha guari moſtro pienamente aver Democrito la ragione, peropera del curiofiflimo Giuſeppe Blancani in prima, e poi di Tom maſo Moufeto: acceptomanu bacillo Araneum quendam:dia ce il Blancani: ex iis, quicirculares telas, quas nonnulli, & quidem aptè labyrinthos appellant, ingenio utique mathe matico contexunt,fic adii, ut Araneuspro arbitrio ſuper bar cillum liberè inambularet; dum ipſe interim curiofius illums obfervarem quanam videlicet ex parte filum foras ederet: cum ecce tibiaraneus experienti mibi ultro favensfefe exba culo demiſit, ita tamen ut ex filo fuoin aëre fufpenfus rema neret: cum primum obferuo ipſum inverſum, hoc eſt capice deorſum, ventre ſurſum pendere; ut autem acutius cerne rem eum opacecuidam rei oppofui, ne pre nimia luce tenuiffi mum aranei filum aciem oculorum effugeret; quo facto cla riſfimè videbam filum ſeceſſu Aranei prodire. Mamolti ſe coli prima del Blancani avea ciò parimente ravviſato il ſa gaciſſimo Plinio; mane a Plinio, ne al Blancani volle pre ítar credenza il Vosſio padre: così poco acconcio egli eb be l'intendimento a diviſar delle cole della natura. Ma poichè deʼragnateli facciam parole,non tralaſcerò di conſi derare quanto dietro al partorire di quegli il noſtro Ariſto tele vanamente anco s'aggiri, dicendo partorire i ragnoli cotali vermicelli vivi, e non già le uova, come alcuni im maginano; ma quanto ciò ſia dalvero lontano, dicalo in miz vece il diligentisſimo Redi; il quale narra, che per tut te diligenze, ch'egli ulate v’aveſſe, non avea mai veder po tuto ne’ragnateli ſe non l'ovare, e dalle lor uova poi nalce. re i piccioli ragnolini; Ma non meno è da notare ilgravif fimo fallo d'Ariſtotele intorno al Canclo in dicendo efferli ingannati coloro, tra'quali fu Erodoto, che diceano il Ca melo aver più di quattro ginocchjie pur chiaramente ſcor geli, il Camelo, comc Erodoto dicea,aver ſei ginocchji e le cotāto intorno a coinunali e ben conoſciuti aniinali ſcioc chinen camente Ariftotele travede che dovrem noi credere di que's più rimoſſi alle noſtre contrade, e meno uſati,de quali egli nátrâ cotante ſtrane, e incredibili novelle, e più affai, che me diceffe mai fra Cipolla a que’ſemplicicontadini da Cero taldo? Narra egli del Lione Ariſtotele, che non abbia mi dolle alcune nell'offa maggiori del ſuo corpo; ma che ſola mente in alcune delle picciole, cioè delle gambe ne abbia, avvegnachè sì ſottili, e poche quelle ſiano, che par,che af fatto eglinon ne aveſſe; onde egli avviſa poi naſcere l'in vincibil fortezza del Lione. Ma quanto ciò falfo fia, non pure per Ateneo, che forte ne ’ ripiglia, ne ſi fa chiaro;ma dopo lui ancora più apertamente fu dimoſtrato dal chiarif fimo Borricchio; il quale aperti due gran lioni in Afnias, reggia di Danimarca,vide egli avere in molte delle loroof ſa copia grandiſſima di midollc; e prima del Borricchio fu ravviſato in queſta noftra patria in un Lione del Signor D.Tiberio Carrafa, Principe di Biſignano: il quale fu tro vato parimente pieno di midolle; e quinci apertamente fcorgeſi, quanto a torto ſiano accagionati, e biaſimati da’ critici ſeguaci d'Ariſtotele il noſtro dotiſfimo Stazio,paver lui poſto in bocca ad Achillo que'verli nec ullis Vberius fatiaffe famem, sedſpiſſa Leonum Viſcera ſemianimefque libens traxiffe medullas: et gran Lodovico Arioſto, quando fa egli, che la maga Melilla affacciandoti nella forma d'Atlante, all'effeminato Ruggicri così dica: Dimidolle già d'Orſi, e di Lioni Ti porſi.io dunque li primi aiimenti; perciocchè dicono non aver midolle i Lioni; il che an che credendo ad Ariſtotele il Mazzoni, ricorre per difen der l'Arioſto, giuſta il ſuo coſtumein quella ſua infelice di feſa di Dante, a ſottigliezze così vane, e puerili, ch' egli ſteſſo vien aſtretto a chiamarle altrove ſofiſtiche, e cavillo fe: Ma non meno ſciocco è quell'altro crror d'Ariſtotele, diccndo egli aver i Lioni così dure, e falde l'offa, che fre gandoſi inſieme, agevolmente ſe ne tragga il fuoco; non altri oli 12 ull Do le Gggg 602 Ragionamento Ottavo altrimenti, che avvenir loglia nella pictra focaja. Ma ciò manifeſtamente fperimentoſli falſo in que' menzionatiLio ni d'Afnia, i quali comechè fortis e gagliarde l'offa avelle ro, non però di meno per diligenza, chevi fi adoperaffe, non ſe ne potè trar mai picciolisluna ſcintilla di fuoco;, fen zachèſe ciò pur foſſe vero,non ne dovea però cavare Aria ftotele per via d'argomento l'invincibil durezza di cotali offa; concioſliecofachè anco in fregandoſi due tron molto dure, e pieghevoli canne d'India, o due molliflimc ferole, o altri simili legniaccender ſi foglia il fuoco anzicorpi, che fian talmente duri,che in fregandoſi no li roinpano in qual che parte, non poſſono accender in niuna maniera il fuoco. Dice oltre a ciò Ariſtotele, eſfer l'olla del collo del Lione, comeanche quelle del Lupo non rotte, e partite, ficome tutt'altri animali le hanno, e poi per opera de’nodi con giunte; ma tutte intere, e diſtefe in ſu lo ſchenale sì fat taméte, che in niun modo ſi poffan piegare; ma in ciò, oltre a Giulio Ceſare dellaScala ritrovollo in fallo ed apertame. te lo convinſe di bugiardo, il Borricchio; dicendo, per ve duta fermamente di que’Lioni,quorum colla vertebris ſuis, & articulis pulcherrimè diſtincta erant. Finalmente afferma Ariſtotele eller l'orina del Lione di ſconcio, e ſpiacevolisſimo'odore; ondeavvien poi, dice egli, che i cani fiutar fogliono gli alberi, perciocchè il Lio AC, come il cane appoggia una delle coſce al pedal dell'al bero, quando e' vuole ſtallare; c più appreffo ſoggiugne: e lafcia il Lionegrave, e iníopportabil puzzo negli avan zi de cibi, ch'egli divorar ſuole; e ciò avvenir Ariſtore Je ſoggiugne dal peſſimofiato, che il Lione fpira; percioc che, come e narra, le interiora oltremodo putono al Lio ne. Coſa, la quale manifeſtamente da a divedere nõ aver mai Ariſtotele alcũ Lione aperto, o teſtè occiſo,veduto.Ma troppo lúgo ne diverrei, fe tutt'altre novelle d'Ariſtotele in torno alLionerecarlo què voleſli; pchè tacerò acheciò, che: Ariſtotele fognò del Camclo; immaginado egli ſu'l dolfo di quello ungrá gobbo;non avvisādo, il Camelo no averlo maggiore deporci,e de'canize che quella eminéza,la quale nel DelSig.Lionardo di Capoa. 603 nel Camelo ſi ſcorge fia formata da'peli; c ciò, che e' fogaz del Camaleõte,dicédo no averil Camaleõte ſangue, ſe no ſe vicino al cuore; ed eſſerdi carne prive le ſuemaſcello; e'l principio della coda. Ne addurrò per la medeſima ra gione i ſuoi ragionamenti dietro al Coccodrillo alle Aqui le, e ad altri molti animali, che manifeftamente per prud va ora falſiffimi eſſere fi ſcorgono;e tuttavia da'famoſi ſcrit tori de’tempi noftri ne fon notati; me ſolamente è qucftas ventura del noſtro ſecolo; imperocchè nc'traſandati tempi ancora v’hebbe degli affennati, e diligenti ſcrittori, i quali de'ſuoi groſi, e infiniti falli intorno alla ſtoria degli animali manifeſtamente Ariſtotele dimentirono; ed Afinio Pollione, quel famofiffimo, e ſaggio oratore rivale di Mar co Tullio Cicerone, incontro a’lunghi volumi d'Ariſtotele ben diece libri compoſe della natura degli animali; il qual fe pur egli affatto non era ſenza giudicio, e ſcimunito, ben è da credere, che con chiare, ſalde, e ragionevoli fpcricn že n’aveſſe fgannati, e ricreduti de' grandisſimi crrori prefi in quc'libri per Ariſtotcle: c più veritieramente narrata la natura, o le factezze di corali animalida lui ben conoſciu ti; ma la rubberia del tempo netolle cotali fatiche. Ebé s'avvide ancheAteneo dell'infinite bugie narrate da Ari ftotele; ond’ebbe a dire; con qual cura, ö diligenza, potè mai egligiugnere a fapere, che coſa fi facciano i peſci nel ma re, come dormano, e qual ſia il lor vitto,o qual Proteo, o qual Nereo uſcito fuori del pelago alla riva andò araggua. gliargliene. Come gli porè effer noto lo spazio della vitae dell' Api, e delle Moſche; ove mai potè vedere un' edere nata da corni d'un cervio; e dopo aver narrato queſte, e cent'altre novelluzze da ridere, e da tenere a bada la bruz zaglia deʼlettori, dette da Ariſtorele in fu la ſtoria degli animali, riſtucco alla per fine di più annoverarne, trala fcio 1o, dic'egli, di narrar molte coſe,e multe,nelle quali ma nifeftamente lo fpeziale, cioè Ariftotele fi vede avere ſconcia mente delirato. Ma quanto al fatto della ſtoria degli ani mali, Io porto fermislima opinione, non effer vero ciò che narran dilui alcuni, e che buccinavaſigià (ficome riferiſce Gggg 2 Atenco) nella ſua patria Stagira; cioè, ch'egli avuto aveſſe Ariſtotele dalla liberalità del Magno Aleſſandro, per po refla più acconciamente fornire ottocento talenti, che ſo condo la ragion del dottisſimo Budeo giungono alla ſom ma di quattrocento ottantamila ſcudi de’noftri tempi: e che per una sì glorioſa, e mirabil opera gli foſſer deſtinati, co me narra Plinio:aliquot millia hominum in totius Afic,Gree ciæque tractu parere juffa,omnium,quos venatus,piſcatuſque slebant,quibufque vivaria, armenta, piſcine, aviaria in cura erant, ne quid ufquam gentium ignoraretur ab ea quospercontando quinquaginta fermèvolumina de animali bus condidit. E’n queſto parer ini conferma in prima la va rietà degli ſcrittori in narrar queſto fatto; imperocchè Elia no ſagaciffimo ſcrittore, e raro nell'inveſtigar le greche an tichità, dice, che la ſomma de’danari, non già da Alellar dro, ma da Filippo ad Ariſtotele foſſe ſtata donata. Co fazla quale affatto inverifimil ſi pare; conciosliecoſachè a Filippo tra per le continue guerre, ch'e' fece in Grecia, e perle grandi impreſe, ch'e' diſegnava contro la poderoſif kima Monarchia Perſiana, gli faceva meſtiere, anzi d'accu mudar danari, che di ſpendergli,e ſcialacquargli in peſchie rejo vivaj, in uccellami, in cacciagioni, o ſomiglianci co fe. Aleſſandro poi,priina d'incominciar la guerra contro Dario, ad altro certamente dovette badar, ch'a ſomigliã ti ſcacciapenſieri; fcozachè non avea sì gran dominio daw poter ſeguire ciò,chc Plinio millanta; manel tempo della guerra, oltrechè la cura dell'armi era valevole a fraſtornar gli ogn'altra impreſa egli di più era allor divenuto si nimi co d'Ariftotele, che per fargli onta, e diſpetto,mnādò Am baſciadori, e doni a Senocrate ſucceſſor di Platone, e fie ro emulo d'Ariftotele. E dirò ancora, che ſe mai Ariſto tele ebbe parte ne’teſorid Aleffudro, in tutto altro certa mente l'aveffe inveſtico, che in acquiſtar notizia, e contez za delle coſe della natura. Neglimancò agio da farlozim perocchè egli era, come ne da teſtimonianza Tineo:760578 γαςείμαργον, έψαρτυτήν, επ σάμα φερόμενον εν πάσιν: cioè gram paraſito, e divorator delle più ghiotte vivande, ne fi ritene va di gos va difvögliarſi di qualunque cibo. E in oltre non gli mann cò quel pizzicore, per cuii giovani male il loro avere ſpé, dendo, le più fiate miſeramente ne capitano; e tinto s'in veſchiò nella pania, che per amor venne in furore, e matto; e come narra Laerzio,sì fortemente innamoroſli della con cubina d'Ermia, che a leicosì immolò, come a Cerere Eleuſina folean già fare gli Atenieſi; e per tali cagionia tal ſegno di miſeria pervenne, che alla fine riduſſeli vergo, gnoſamente a tradir la patria a’Macedoni: poi tolſe a fare il foldato,ove ne meno eſſendoviſi niente avantaggiato, vode le far borrega di ſpeziale; e anche per civanzarſi nonver gognavafi di vender quell'olio, ove in prima bagnandoſi avea depoſto le ſozzure tutte del corpo; e con fimili ſtiti. chezze s’avvisò di dar compenfo per avventura agli ſcia facquamenti di quella prodigalità, con cui difperfe,e con fumò tutto il paterno retaggio. Io adunque mi fo a cres dere, ch'egli non nai vedefle notomie di morti, non ches di vivi animali; e che folamente ne ſcriveſſe per udito yes per ciò, che ne’libri degli antichi fconciaméte forſe appre lo n'aveva, o immaginato. Perchèpoi così alla rimpazza ta confonde, é meſcola il tutto, ragionando de' nervi, es delle vene, cheben'a lui fi potrebbe adattare quel verſo di Orazio Delphinum ſylvis appingit,fluctibus apram. Così cgli follemente immagina naſcer i nervi,e le venej tutte dalcuore; il qual dice ſolamente eſſer quello, onde il ſenſo, ei movimenti negli animali fi facciano; ne ad al tro fervire il cervello, fuor folamente, che ad alleggiare, e temperare l'abbondevol caldo del cuore. E ſomiglianti altre balordaggini, e fcipitezze narra: anzi maggiori affaiz in ſomma intorno alla fabbrica, diſpoſizione, ed ufici del le parti del corpo umano tanti,e tanti falli commiſe,che ben potè dir Ateneo: coſe tali ſcriffe Ariftotele, parlando della ſtoria degli animali, 'che come dice il Comico, daglá ufcempiati,e pecoroni quaſi a fravaganza,quaſi a miracoloſ gredoro. E ben fi parc, che Galicno medeſimo foffeſi con lui portato modeftamente, anzi che no, allor che diſſe po + 1 CO Ariſtotele conotcerti di notomia. E ben’a noftr'huopo di que' ſettanta libri, i quali, ſecondochè Antigono ne ſcriva, Ariſtotele intorno agli animali compoſe, ſolamen te que’pochi ſe ne leggono, che il tempone laſciò; per ciocchè maggiori cagioni di fallare i ſuoi favorevoli avrebbono; fi enim,dice ſaggiamente il Borrichio,compen dii peccata numerari vix poffunt, illa operis totius modo ex tarent, effent fortaſſis innumerabilia. E queſte adunque só ic gran pruove dell'ingegno maraviglioſo del divino Ari ftotcle queſte le riuſcite delle tante ſpeſe, del tanto aju to,ch'egli ebbedalla liberalità del grand'Aleſſandro? que Ite le ripoſte notizie, ch'egli acquiſtò dalle tante fatiches da lui durare? Ma ſenza venir tinto buccinato, fenza tan ti ſoccorſi, e ajuti, o quant'oltre, non dirò Democrito, no dirò Eraſiſtrato,non dirò Erofilo,non dirò altri antichi, ma un folo Arveo ne'confini d'un Iſola riſtrerto, o quant'oltre avanzoſli, sì chemeritevolmente, e ne ſtupiſce l'aman ſa pere, e l'amira il preſente ſecolo, el celebrerà il futuro, Ma che direi noi intorno all'altre coſe della natura, cu gencralınére in tutta la filoſofia naturale? Eglicosì ſciocco, e gocciolonc fu Ariſtotele, che diffidandoſi di parteggiar lo in ogni ſuo fallo,iſuoi medefimi ſeguaci,talor vergogno ſamente l'abbandonarono. E per nulla dir de' Greci; o d' Avicenna, d’Algazele, e d'altri Arabi filoſofanti,qualno ftro buon peripatetico per Dio fu così teſo, e oſtinato,che talor da lui apertamente non fi partiſſe? cper tacer d'altri, ilBeato Alberto, lume della Criſtiana ſapienza, e della venerabile Ordine de'Domenicani, avendo l'opere d'Ari ftotele ſpiegate, niuna delle ſueopinioni approvar volle; anzi così proteftando i ſuoi ſentimenti alla per fin conchiu de: in his nihil dixi ſecundum opinionem meam propriam, fed juxta pofitiones peripateticorum; & ideo illos laudet, velre prehendat, non me.E quel gran maeſtro in divinità e in peri patetica filoſofia Benedetto Pereira della Compagnia di Giesù, il quale in quel ſuo libro de rerum naturaliums, principiis, dopoaver largamente conſiderati i poco fermi argomenti, c fillogiſmi, con cui le coſe dubbic, e incertes. fievolinente egli tratta, cosi:della ſua natural filoſofia dice: doctrinam rerum naturalium, quam nobis fcriptam reliquit Ariſtoteles, fi quis velitbeneſentire, propriè loqui, nous poteft dici abfolutè,din totum ſcientia; perciocchè riguar dando alle fondamenta di quella, e ravviſandole,che falſe, e che dubbie, e malamente con falde, c naturali ragioni raf fermate, ficome il medeſimo Ariſtotele teſtimonia, dicendo eſſer quelle ſolamente dialettiche: ragionevolmente poi e': ne tragge, e conchiude alla fine: quum igitur phyſica Arifto telis fit falfa pars, pars autem topica tantum probabilia.. contineat, non poteft dici abfolutè, & in totum fcientia. Ma acciocchè perciaſcuno ſcorger (ipoffa, quanto inu tile, quanto vana, quáto priva d'ogni falda dottrina egli ſi fia la filofofia d'Ariſtotele, conviene innanzi tratto da più alto principio imprender la cola. Dico adunque, che per due ſtrade ayviar fi foleano coloro, che agognavano alla ſublime altezza della natural filoſofia pervenire; una, ches quantunque falli, è nondimeno agevole, e piana, echiun que per quella prende il camino, non fida cura veruna di cſaminare, e riandare minutamente le coſe naturali, ma sē. preinai fe ne ſta fu l'univerſalità de'termini, e de' vocaboli, quali a ragionar di tutte apparenze della natura ſenza du rar molta fatica adattar ſi poſſono; e comechèſembri, che tutto dicano, che tutto ſpianino:impertanto, altro non ſo no veramente eglino,ſalvo che vanillime ciance,fra le qua li non altrimenti che ſi faceffero un tempo, ſe'l ver dice l' Arioſto, que’franceſchi, e faraceni cavalieri nel palagio in cantato d'Atlute aggirar tutto dì veggiamo confuſi gl'in cauti, e poco avveduti, fenza mai venir a capo d'alcuna ve rità; ma l'altra ſtrada, quanto più erta,ſtraripevole,e ardua, altrettanto nel vero è più nobile, e più gloriofa. Queſtas calcar generofamente li videro i diligenti inveſtigatori del le coſc, ei ſavj interpetridella natura; i quali diſcorrendo regolatamente, ed offervando con diligenza, guatavano quaſi a ſpiluzzico le coſe naturali. Dopo queſti incomin ciarono a poco a poco ne'tempi ſeguenti gli altri a traviac da queſto diritto ſenticro, ed a tenere la falfa ſtrada;o che ſe'l faceſſero perdebolezza d'ingegno, o per non durar fiatica,o p vana ambizione di farſi capi più tolto in quel cores rotto modo, che eſſer ſeguaci degli altri nella vera, c legit tima maniera di filoſofare. E fu tanta certamente loro ſchiera, e sì copioſa, che ben pochi ne rimaſero nell' arin go del buono filoſofare; di cui potrebbe ben dirdi Pochi fon, perchè rara è vera gloria: i quali per quelche già da quelle ſcarle memorie, che noi rabbiamo comprender fi poffa, furono Anafſagora,Empe docle, Leucippo, cd altri pochi, Che colle dita annoverar fi ponno; perchè ragionevolmente ebbe a dire quel ſatirico: Rari philofophi: numerus vix efttotidem,quod Thebarum porta, vel divitis oftia Nili. Ma ſopra tutti l'incomparabile Democrito adeguando il tutto col ſuo vaftiliſimo ingegno (ini giova dirlo colle pa role di Petronio Arbitro ) etatem inter experimenta con fumpfit; e con principj veramente naturali, cioè a dir ſenli bili,così maraviglioſamente ragionò di ciaſcuna coświ ch’alla natura appartener fi poffe, che a gran ragione nel vero Seneca dopo averlo detto antiquorum omnium fubtilif fimum,antiſtitem literarum.ſapientiæ caput: a chiamar l'ebbe lingua della natura; perchè non guari dopo venendo Pla tone, e diffidandoſi di poterlo col ſuo ingegno ragguaglia re, per uggia, e per invidia volle rabbioſamente dareallo fiamme tutte le divine opere di lui; poſe in non calere co tal vero, e lodevol modo diſpecular diritcamente le coſe della natura, e con univerſali, c apparenti ragioni avvilup pò il cutto. La qual maniera difiloſofare, concioffiecofa chè agevol foffe, fu poi ſeguita,e abbracciata da ciaſcuno, rimanendo quaſi morta,e ſpenta la natural filoſofia; ſe non ſe dopo la morte d'Ariſtotele levoſſi ſuſo il ſaggio Epi curo, ecol ſuo avvedutiſſimo ingegno ripreſe, e riſtorò la morta filoſofia, e la fece di nuovo fiorir ne' ſuoi doctiſſimi orti, ove rinaſcendo viffe, e morio. Perchè non ebbe il torto per avventura Dionigi d'Alicarnaſſo in chiamando il filoſofofar di quei tempi un vano berlingare, e cinguettar di vegliardi ozioſi, e ſcioperati, a ' giovani ignoranți. E Cleante ancora faggiamente ebbe a dire, che gli antichi aveſſero nelle coſe filoſofato,ei moderni ſolamente in pa role. Qualdunquefia maraviglia, ſe così mal concia, malmenata la filoſofia, non potea vantaggiarli nella Grecia. Perchè ragionevolmente diſſe quell'Egeziaco San cerdote nel Timeo, chei Greci eran ſempre giovaniſlimi,e fanciulli: emlwes del muides is ', gépur di enlew oux iso, certè ha bent, dice Franceſco Baccone, id quod puerorum eft, ut ad garriendum prompti fint; generare autem nonpoffint. Così perduta, e ſpenta la buona filoſofia, poco a capi tal tenendoſi i libri diquella, nc punto per huom riſerban doſi, o traſcrivendoſi, avvennc, che infra breve ſpazio di tempo con comune ſcoſcio delle buone lettere, affatto fi perderono; rimanendo ſolamente que’libri de' yani çiarla tori, che al guaſto, e corrotto ſecolo erano in pregio; ne? quali poteſe ben paſcerfi,e nutricar l'ambizioſa vanità de Greci. Ea tanta caduta della buona filoſofia s'aggiunſes poi l'allagamento de'Barbari nell' Imperio Romano, nel quale andandone a ruba ogni coſa, que'pochi libri, che pur v'erano rimaſi, fi perderonſi,; e come dice il teſtè rap porcaco Bacconc, doctrina humana velut naufragium per. pefa eft; & philofophia Ariftotelis, o Platonis tanquam, tabula ex materia leviori, minus ſolida per fluctus tem porum fervatæ ſunt. I qualilibri dapoi imbolati, lo non ſo come, dagli Arabi ſi tramandarono inſiemecolla ſerya, e apparente filoſofia, come altra volta fu detto alle noſtre contrade; e queſta è quella filoſofia,che infino a' dì noftri con tanta loda è ſtata ſempremai ſeguita, e tuttavia nelle Icuole comunemente s'inſegna: e a cui dicevam, che già poneſſe le prime fondamenta Platone; il quale avvegna chè ravviſaſle il yero, e diritto modo difiloſofare: percioc chè difficil molto, e malagevole gli ſembrava a ſeguirlo, lalciofſi talora anch'egli portare alla corrente de' ſofiſmi Ma non però di meno non laſciò talvolta il vero modo di filoſofare; comeagevolmente egli ravviſar fi puote ne'ſuoi Dialoghi, e malimamente in quello, ch'egli intitola il Ti Hhhh.. meo, o della natura. Perchè ben ſi pare, ch'egli ſaggia mente foſſeli attentato di gir anche per quel medeſimo sé tiero, per cui già Democrito, e gli altri primipadri, e ve rije ſovrani maeſtri della filoſofia avviatiſi erano;ma come sébra ad Ariſtotele, no ſegui egli troppo felicemente l'im preſo aringo, e di gran lunga a Democrito addietro reſtoffi. Πλάτων μεν, fono parole d'Ariftotele, περί γενέσεως έσκέψατο,28 φθοράς όπως υπάρχει τοϊς πάγμαστεκαι σερί γενέσεως ού πάσης, αλλα της ή στοιχείων πώςδε σάρκες, ή όσα και η άλων και των τοιούτων, ουδεν·έτι, ουδε. περι αλοιώσεως, ουδε περί αυξήσεως, ένα τρόπον υπάρχει τους πράγμα στν · όλο- δε παρα τα έπιπολής περί ουδενός ουδείς επίσησεν, έξω Δημα reíte;cioè Platone cöfiderò la fula generazione e'l corrõpimēta delle coſe;ne già di tutte,ma degli elemêtifolamēte; trabaſcia doariguardare, come formifla carne, el'offa, e gli altrifo miglianti corpi; ne demutamenti, o come s'accreſcano,o pig giorino cotai corpi feceparola alcuna. Finalmëte nonfu niuno, fe non ſe alla rimpazzata,e lentaměte, che ragionaſſe mai de' mutamēti delle coſe,da Democrito in fuora.Ecomechè que Ito riprédiméto fatto da Ariſtotele al ſuo maeſtro egli sébrë all'intendentiſſimo Patrizio un manifeſto, e falfſſimo appo ſtamento, e maladizione dell'invidia dilui; pur non ha tut to il corto Ariſtotele in così fattamente ragionare; imper ciocchè quantūque Platone in molti luoghi delle ſue ope re baſtantemento favellato aveſſe della generazion delle pictre, de'venti, delle gragnuole, de’nuvoli,del criſtallo, della neve, della rugiada,delvino, dell'olio, e d'altri fi ghi: e ſomigliantemente filoſofato de ſapori, degli odoris e de'colori delle coſe, e detto altresì de’mutamenti e degli accreſcimenti di quelle; e quantunque anche ſpezial mé. zione aveſſe fatta della carne, e dell’oſsa, ecome quelles s'ingenerino; pur no così addētro innoltroſi ne'ſuoi ragio namenti,che toccato aveſse diſtintamente, come con que? ſuoi quattro corpi fi doveſſono mai formar cotante coſe; perchèparve,ch'egliaveſse cominciato a filoſofar colmo do vero, che ſi conveniva; ma poifmagato a mezzo corſo foſſe ricoverato all'apparente. E queſto è quel, che vuole dir di lui Ariſtotele, biafimatone a torto dal Patrizio nella difeſa del ſuo Platone. Ma fu egli anche Platone traſcu rato a ſpiegar comeſi doveſſero partire, o accozzar que fuoi primi corpi, pereffer valevoli a produrre negli organi de' noftriſentimenti gli odori, e i ſapori, e i colori delle coſe; perchè ragionevolmente ſoggiugne Ariſtotele, niun maeſtro in filoſofia, fuor ſolamente Democrito, aver ad dentro ſpiato fino agli ultimi fondi i principj delle coſe. E ciò agevolmente fi può comprendere dallemedeſime paro le di Platone; il qual così nel ſuo Timeo dice: To dº osoīvowle φησιν ώδε γίώ διατρήσας καθαρgν, και λείαν ανεφύρgσε, και έδευσε μυε λώ, και μετα τούτη άς πύρ αυτο εν τίθησι μετ' εκείνο δε εις ύδωρ βάλει και πα Αιν δε εις σύρ,αύθις τι εις ύδωρ"μεταφέρον δ ' ούτως πολάκις εις εκάτερονυπ ' se je Dowăsnutev dzepyáo mo. L'offo vēne formato in queſta guiſa; minuzzădo in prima la terra pura, é netta,meſcolalla, e inu midilla colle midolla;quindila poſe nel fuoco;quindiattuffolla nell'acqua;quindidinuovo la poſe nel fuoco;e cosìriponendola molte frate or nel fuoco, or nell'acqua, sì, e tanto fece, che dell'acqua, e del fuocoquello alla per fin venne a ingene. rarfi. Or chi domine, non direbbe con Ariſtotele, eſſer que. Ito filoſofare alla groſſa colle fole parole, ſenza veder più in là, che la ſola buccia delle coſe perciocchè ſe la terra, come vuol Platone, era pura, e ſchietta, non era, meſtier certamente di sbriciarla; che ſe i cubi, de' quali, ſecondo lui, ella è formata, così ammaſſati, e riſtretti ſta vano, che ſegnale alcun di partiinento non avevano, già quelli veritieramente non eran mica da dir cubi; e ſeguen temcntc non era dadir terra quella, ma una cotal maſſa, che tritata, e minuzzata così ſe ne poteva formar terra, come acqua, comeanche qualunque altra coſa del mondo, ſecondo le particelle,in cui partir ſi poteva. Perchè me ftier certamente non era d'accattare altronde fuoco, o ac qua per lavorar quaſi in fucina, temperando l'oſſo,ſe tutto abbondevolmente in ſe aveva. E ſe i cubi eran partiti, e affacciati nella lor debita figura, che coſa mai potea cosi divili, e sbriciolati tenergli non il vuoto,che perlui coſta - tcinente ſi niega; non altra diſcorrente ſoſtanza, e irrego Hhla h 2 lar un 0121 Ragionamento Ottavo Jarmente figurata; imperocchè ne diquattro foli corpiscos meegli vuole verrebbono a comporſi le coſe cutte del mo. do; ne la terra pura farebbe, e da niun'altra coſa non tra meſtata. O forſe i già detti cubi poteva il ſolo moto tener diviſi? nia dovendo ciaſcun di loromuoverſi,ed eſſer d'ogni banda ſceverato oltre molte altre inconvenienze, n'occor re queſta, che non già un corpo ſaldo, ficomeè la terra: main diſcorrente verrebbero a comporre. E lomigliāte anchea queſta maniera di filoſofare fu quel diviſamento del medeſimo Placone intorno alla generazion. della carne, e de' nervi;ch'egli narra nel medeſimo Dialo go del Timeo; il qualccrtamente non è altro, che una va ga, e ben compoſta diceria; che con vane parole allettan do i ſemplici, e poco intendenti delle coſe naturali, fa, ch egli faccia ritratto di gran filoſofante Al vulgo ignaro, & a l'inferme menti. Perchè non haegli il torto Ariftotele in dir,che il ſuo mae ftro non trapalli più, che la prima buccia delle coſe in filo fofando, e nons'immerga troppo ne'naſcondigli più ſco noſciuti della natura. Di più, dice Ariftotele, e libera mente confeffa, che ſciogliere i corpi fino alla lor ſuperfi cie, come fa Placone, ſia coſa affatto ſconvenevole; per ciocchè dalle ſuperficie non ſi poffono generar qualità, altra cofa, ſe non folamente corpi faldi; il chepuò ben far Democrito co’fuoi acomi. E non molto dopo ſoggiugne: Democrito fembra aver certamente ſpecolata con propia, e convenevol ragione la natura delle coſe. E comechè in parte ingannaſſefi Ariſtotele in ciò dicendo; perciocchè bé fi ſpiega nelTimeo, come talora il caldo s'ingeneri ſenza ricorrere alla ſuperficie: non però di meno ha egli per al tro non poca ragione in biaſimarne il ſuo maeſtro, ſembraa do a ciaſcun ' ch’abbia ſenno, ſoverchio alfai, e ſconvene vole quello ſcioglimento de corpiinfino alla ſuperficie. E noi, le il tempo ce'l concedeffe, ne ragioneremmo per av, ventura più alfai, e forſe altrove ne diremo; ma non è al preſente da traſandar, che ſei quattro corpi di Platone poſſono più ſottilmente ſtricolarli, e minuzzarſi in altre fi gure, come ſi pare,ch'egli in qualche fuogo de'ſuoi ſcritti accennar voglia; vano certamente, e foverchio è a dire, che que'cotali corpicciuoli colle lor figure, e facce dean cominciamento alle coſe tutte del mondo; e non più tolto un ſolo corpo, il qual poi in molti corpicciuoli di moka te, e varie figure partito foſſe. Ma fe pur vogliams contendere, che ne ftritolar, ne partire in modo niu no que' corpi li poſſano, lo.non fo come quattro cor pi ſolamente a formar tante, e tante diverſe coſe, che noi ci veggiamo, baſtanti pur ſiano. Ne meno fo lo certa mente comprendere, come poffan que'quattro corpi cial cun luogo affatto ingombrare. Il che anche avvisò Ariſto tele; comechè egli troppo fanciullefcamente in ciò fallaffe, portando opinione, che le piramidi foffer valevoli a riem piere ciaſcuno ſpazio; nel qual manifefto errore ſmuccian do poi incorfero dietro a luituttiſuoi interpetri, e feguaci; e ne fur forte biaſimati dal P. Giuſeppe Blancani, e prima di lui da Gio: Battiſta de' Benedetti e dall'impareggiabil Geometra Franceſco Maurolico. Ma in cotanti fdruccioli, e malagevolezze abbattendo fi l'avvedutisſimo Platone, riſtando in fu le primeormes del ſuo ſpeculare,non ebbe ardimento d'innoltrarſi d'avā. taggio ne'maraviglioſi ſegreti della natura;e quaſi nocchier rotto per tempeſta in mare, che lentamente vada ridendo i più ſicuri lidi, non s'arriſchio d'ingaggiarſimaggiormen te nell'aſprezze del filoſofare, e folo andò pian piano, e có ritegno palpando le prime facce delle coſe. Ne ciò ba Stando a renderlo ſicuro da' pericoli, non volendo ne ans che affermare alcuna, comechè leggeriffima cofa, feces quaſi in iſcena comparir perſonaggi a favellar diverfaméter ciaſcú ſecodo il ſuo ſentiméto, delle coſe del mondo,e for mò Dialoghi,e ragionamenti in nome altrui per ceſſare i m ordimenti delle varie ſcuole della filoſofia. Ma lo ſcal trito, e fagace Ariſtotele all' apparence filoſofia con ogni sforzo, e con tutto lo ſtudio del ſuo ingegno riyol gendoſi, cercò artificioſamente la coſa naſcondere: e tanto operò, che venne in grado di primo filoſofante del mon 614 Ragionamento Ottauo mondo appreſſo il vulgo;ma qualeſi foffe il ſuoartificio lo brevemente vi dimoſtrerò. Compofe egli quel libro cotão to pregiato da' ſuoiparziali, nel quale delle ſole cores aſtratte impreſe a favellare: e ad eſemplo degli antichi, or di Teologia, or di ſapienza, or diprima filoſofia altiera mente chiamollo; i quali titoli fur tutti poi da' ſuoi inter petri nel ſolo titolo della Metafiſica cambiati. Intorno al qual libro ſarebbe molto da dire;ma chi pur n'è vago di qualche contezza, vegga Franceſco Patrizio, e MarioNi zolio, e Pietro Ramo ilquale con l'uſata ſua libertà,e di ligenza eſaminandolo, trovollo alla fine non eſſer altro, che la medeſima loica d'Ariſtotele, con diverſe parole, e nuovo ordine travolta: e una ſconcia, emalcompoſta me ſcolanza, e guazzabuglio di ſoli vocaboli; perchè manifc ftamente avvedutofene Nicolò da Damaſco, il cui faggio intendimento iguale a quel di Teofraſto, o d'Ariſtotele medeſimo fureputato, comechèegli de'parteggianti d'A riſtotele, c Peripatetico ſi foffe: pur giudicollo inucile af fatto alconoſcimento delle coſe; e de'medeſimi ſenti menti fu anche Plutarco. Ma che che di ciò ſia, immagi nò Ariſtotele aver baſtantemente con cotal libro dato a divedere, ch'egli aveſſe diſtintainente diviſato delle coſe univerſali, e ſtratte, per non doverle poi meſcolar colle fi fiche, come avean fatto gli antichi,i quali perciò ne furda lui gravemente biaſimati,e ripreſi: comechè a torto, fico mei medeſimi ſuoi peripatetici confeſſano. Ma poco cer tamente in ciò approdogli la ſua ſcalterita avvedutezza; perciocchè non è huomo tanto quanto intendente delle coſe del mondo,ch'abbattendoſi ne' libri della ſua natural filoſofia non s'avviſi tantoſto a’primi foglieffer quella tutta apparente, e ideale, ne ſerbare in fe coſa alcuna di ſaldo. Pur piacque oltremodo a no pochi sì fatto modo di ſchera zar filoſofando, parendo egli vago aſsai, e ingegnoſoallas ſembraglia de'giovani; i quali s'avviſavano concotali va ni, e folli diviſamenti, e millanterie già pienamente ſaper tutto, quando per avventura non ſapevan nulla.E la ſcioc ca torma del popolo vi pur correva, maravigliando ſommamente di cotanti termini ſtratti, e fantaſtichi, comes nuovi, e non ancor comprehi dagli ſcolari di baſſo inten dimento, e da dover richieder più profonda, e ſottil dot trina, checoloro non aveano; Semper enimſtolidi magis admirantur, amantq; Inverfis qua fub verbis latitantia cernunt. E per maggiormente farci veder la luna, come ſuoldir fi, nel pozzo, cominciò eglimalizioſamente a voler ragio nare di coſe naturali; e in ogni ſuo capo imprende a dir có qualche menoma faldezza di vera filoſofia; ma toſto ricor re agli uſati fofifmi,non iſpiegando mai nulla di vero,ne manifeſtando qual foffe la natura delle coſe, di cui egli fa vella; ne come di nuovo naſcano, o yengan meno, ne co me patiſcano, o operino nel mondo. Al che riguardando infra gli altri Plutarco, comechè egli non fofse cotanto ſao gace, pur delle vane ciace di lui avveduto; l'allogò di gran lunga dietro al divino Democritose co-maggior ragione in vero di quella pla qualeAriſtotele al fuo maeſtro Platone medeſimaméte Democrito átepofto avea. Ne in ciò cota to teneri,.e parzionali d'Ariſtotele i moderni filoſofanti fono, che reſi talvolta avveduri de'ſuoi trafandamentisan che i pià cari ſeguaci di lui, forte non l'accagionino: e infra gli altri quell'avvedutisſimo fuo Chioſatore, il Padre Ni colò Cabbei; il quale,comechè peripatetico di gran rino meanpur volle apertamétemanifeſtarlo in chiosådo le me teore del ſuomaeſtro.Quia iſte Philofophus (dice ) maximè pollebat ingenio metaphyfico, edapprimè ei arridebatphilofo pbariper metapbyficasabſtractiones: ubi adres phyſicas de venitur, quia ad hos ingenio fuo nonferebatur, ingenii vires nonacuit; ed in un altro luogo: Ariſtoteles magismetaphy ficis obſervationibus affuetus, quam phyficis obfervatur. E finalmente egli conchiude: fed fenties in rebusphyſicis Ari Stotelem non potuiſje metamſapientiæ attingere. Enelvero chi ſarà maicolui, che riſtucco forte, e faſtie dito delle ſue vane dicerie no'l biaſimi, e rimproveri, rin venendo in lui più, e maggiori tacce affai', che non vi rava viſa il Cabbei? Egli primieramente togliendo ad imitazio ne d'O 616 Ragionamento Ottavo ned'Ocello Lucano(ſe pur egli è l'autore di quel libro,che gli viene attribuito ) e diPlatone, oſia di Timeo, a fabbri. car la grandiſſima maſſa dell’Vniverſo tutta fantaſtica, tut ta metafiſica, e apparente, prele per principi delle coſe sé. fibili, e vere, terminitutticonfuli, e generali, e da' noftri sétiméti affatto rimoſſi;del che forteegli è da accagionare; mallimamente, ch'egli medeſimo avvisò pur una fiata, do ver delle coſe ſenſibili effer ſenſibili parimente i principj; e ciò cotanto egli giudicò vero, che preſene ſconciamente a carminare gli antichifiloſofapti. Egli ſono i principi, onde Ariſtocele vuole, che forma te le coſe tutte ſenſibili ſi foſſero, così larghi, e lontani, che ben yi ſi poſſono agevolmente ricoverare curci que'fiſici principi, che varic, e diverſe ſchiere de'filoſofanti,così an tiche, comemoderne alle coſe naturali impongono. E ciò ben ne diedea conoſcere il famoſo ChenelmoDigbinobi lillimo filoſofante del noſtro ſecolo, allor che con lodevo le artificio volendo prender gli oſtinati; e provani peripa terici, fece ſembiante d'effer anch'cgli cocale. Il qual arti ficio dopo il Digbi, molci valenc'huomini d'uſare anche ſi Audiarono. Ma laſciando ciò al preſente ſtare, non iſpie gando mai Ariſtotele ciò, che in fiſica ſia quello, a cuive ramente poſſa adattarſi quella generale, e confuſa ſua difi zione della materia, e della forma:nulla certamente ad in ſegnare e' viene. E nel vero, chemonta per Dio a ſapere, che ciò che di nuovo in queſto vaſto teatro del mondo ap pariſce, e s'ingenera, e li forma, non era in prima tale, po tendo eſservi? ed ecco la gran maraviglia, naſcoſa in prima a tutt'altri antichi filoſofanti, che egli con tante bel faggini millantando innalza, chiamandola privazione; più ragionevolinente forſe da Platone detta occaſione, e non principio delle coſe. Ma che direm noi degli altri due non men ridevoli principi delle coſe, cioè a dir materia, e forma, ſopra le quali fondamenta egli la generazion tutta dell'univerſo va fabbricando? Poveri filoſofanti antichi; voi per iftudio, e ſudori non ſapeſte trovar diviſamenti sì bclli; Ariſtotele ſolo ſeppela nateria delle coſe cſser po 1 tel  tenza, overo in potenza a divenir tali coſe, e la forma alla per fineeſſer un cotal-atto, che dandoalla materia perfe zione, la mandi avanti, e la faccia eſfer propiamente tale. E queſto è quel, che con tanti riboboli, e aggiramenti, e lunghe dicerie eglide’principj delle coſe ragiona. Ma per Dio, ſe non fi fa in che conſiſta la fiſica natura della mate ria, cioè a dire iti cui cada cal potenza a divenir quefta, o quell'altra coſa., come potrà mai ſaperſi poi la fiſica natura della forma, e ciò che abbia afarſi, acciocchè la materia imprender poffa o queſta, o quell'altra diterminata coro per informarſi? e ſe queſte pur non ſi fanno, comepotrā. mai ſaperſi le qualità, l'opere, e le paſſioni delle coſe., come, e che, c perchè l'operazioni ſortiſcano? Se a giovane, il quale apparar voleſſe a fabbricar glio riuoli,dopo molte, e molte vaneciance e' diceffe per fine il maeſtro: attendi figlio, e nota ben tutte mie parole, ch' Jo brievemente ora intendo di manifeftarti il maraviglioſo modo da compor gli oriuoli: egli primieramente convienu ſapere., che l'oriuolo fabbricaſ d'una cotal coſa, che non è mica già oriuolo; perchè ſe oriuolo ella già foſse, non potrebbe divenir oriuolo;ma agevolmente ella può venir oriuolo per.coſa acconcia a farla co effetto coral divenire: certamente,che udédo cotali novelle lo ſcolare, e avveden doſi d'eſler uccellato, Goaffe direbbe, maeſtro voi dite bene; ina quel che lo volea ſapere Io,era qual coſa è quel 12 cotal materia, che voi dite non eſser mica oriuolo, ina agevole a venir tale; e quali ſono quelle coſe, per le qua lidivien tale; ma non ritraendone alla fin riſpoſta, fe pri mieramente di faſso, o di legno,o di ferro,od'altro l'oriuol fi debba comporre; e poi con quai mezzi, e lavorj ſi fac ciz, ſchernito, ed ingannato il ' laſcerebbe colla ſua mala ventura. Or così appunto ſcherniſce, e beffil Ariſtotcle. i luoi peripatetici. Ma Eudemo un de’più cari, e più famoſi ſcolari d'Aristotele, ponendo in non cale l'autorità del maeſtro, çome in altre coſe già fatto aveva, diſse la materia delle natura li coſe eſser vero, c propiamente corpo; la qual ſentenzas fu poifermamenteabbracciata da quel famoſo, e ſortii pe Iiii 018 Ragionamento Ottavo 1 ripatetico noſtro ItalianoAndrea Ceſalpini.Ma comechè il Cefalpini in ciò moltoſi ſtudiaſſe, pur non ritrovandolive Itigio alcuno dell'opere d'Eudemo, ove appiccar fi potef fe, reſtò di farſi più avanti, e l'impreſa in ſu'l buono abbadono. Nemenopotè ſeguirſi il diviſo d'Averroe intorno a cotal biſogna; il qual diſſe doverſi aſſegnare alla materia, comeaccidentile dimenſioniincerte, e indeterminate; per chè non potendoſi a niun partito ſcufare ciò, che dice Ariſtotele intorno alla materia ', ne men riparando in par te gli errori di lui, con iſtorcere, e piegar le fue parole in altri, e diverſi ſentimenti, ragionevolmente il bialima, e'l proverbia il dottiſſimo greco Padre S. Baſilio Magno,dice do: ſe la materia d'Ariſtotele eſsendo incorporea non è, ne: che, ne qualc, ne quanto, ſarà certamente ella, come S.. Giuſtino parimente conchiudc, unacoſa.finta: cioè a dire: una fantaſima, una chimera. Ma avviſando pure Ariſtotele, che in sì fatta maniera fia. fofofandode primiprincipjdelle coſe; perdeva affatto il no me di natural filoſofante, ricorre finalmente', ma troppo tardi a coſe ſenſibili; e pone egli i quattro volgari elemen ti, come ſecondi principj decorpidiquaggiù; ma non ave do ſpiegata la fiſica natura della materia, e della forma,on de fecondo lui compoſtivengono gli elementi, no può ſpie gare (come avea fatto in prima Empedoclc, Tinco;e Plizo tone, componendogli dipicciolillimi corpicciuoli) natu ralmente procedendo, la vera eſſenza diquelli; perchè gli va diſegnando', e deſcrivendo colle lor qualità; maegli poi, come a natural filoſofo conveniva fare, le nature del le qualità non infegna; anzinepure dar briga ſi vuole d'in veſtigarle; ed appenadeſcrive, rozzamente narrando al cunipochi loro effetti aperti, e manifeſtiad ognuno; ed'in quegli anche talora sì ſconciamente e'fallar ſuole', che nul fa più; ficomeallor, che francamente egli afferma, che'l freddo uniſca tutte le coſe diqualunque genere elle ſi lie no; e pur dovea egli avviſare, che'l freddo ralora coniſce. mare il movimento all' acqua, chenon le facea calare a fondo, ſepara quelle coſe, che non convengono nella gravità, e.che di diverſo genere ſono. Così parimente erra Ariſtotele allor chedice, il caldo fceverar le coſe, che di diverſo genere ſono,, da quelle, che convengono inſieme nel genere medeſiino; imperocchè uficio del fuoco ſia col fuo rapidiſſimomovimento di ſceverar l'unedall'altre, cut te le coſe,, che ſiano di qualunque genere, comechè talo ra (il che ingannòAriſtotele )ritrovandoſi rimoſſo il cal do, non vieri, che le coſe più gravi calando più giù ſi ſepa rino dalle men gravi. Manon meno fallar {i vede Ariſto tele allor che egli imprendendo a narrar la natura dell'us mido, definiſce contro a'ſuoimedeſiınidiviſamenti la ſpe zie colla definizione del genere; dicendo: ma l'umido è quello, che dileggieri ricevendol'altrui termini, non può in ſe ſteſso.contenerſi: uygóv dè, tè dóessevoixdin õp.com evőeisov or. E no ha dubbio, che una coral definizione non avvegua al di fcorrente, di cuiegli è ſpezie l'umido.; poichè il diſcorren te altro non ſignifica, ſe non ſe quel.corpo, il quale diſcor re, s'inſinua, e penetra agevolmente, compreſo cede's e non fa reſiſtenza; perchè non eſſendo da ſe terminato prende dileggieril'altrui termine. Ma l'umido, oltre a queſto s'avviticchia in sì fatta guiſa a ' corpi ſaldi,che:ſi ré de ſenſibile; laonde altro.nonè, ſe non che una ſpecie di diſcorrente. E fe l'umido pure è tale, quale il ci.deſcrive Ariſtotele, certamente egli non dovrebbeſi poſcia dirſi fec,.co.il fuoco.con Ariſtotele, maumido; anzi umidiflimo con Bernardino Teleſio, ed Antonio Perſio converrebbe chia marſi. Ne vale a pro d'Ariſtotele ciò che dice Giacomo Zabarella, l'umido convenire in qualche guiſa al fuoco, no già per ſe, eſſendo il fuoco ſecco per fe, ma per accidente: cioè ricevere agevolméte il fuoco il termine altrui,non già per la ſiccità: non convenendo il ciò fare a tutti i corpi fece chi: ma per la tenuità delle parti di quello; anzi contra ſtando la ficcità del fuoco a quel corpo, che terminar lo yo leſſe, avvien, ch'egli non riceva così agevolmente, come i corpi umidi far fogliono, il termine altrui. Ma ſc noi il contrario ſperimentiamo di ciò, che dice il Zabarella, adattandoſi aſſai più dell'acqua, cdell'aere il Iiii fuoco a quel termine, che da altri corpi preſcritto'gli vie ne: oltre ad ogn'altro elemento umido dovrà dirſi il fuoco; che non per altro nel vero Ariſtotele, e i ſuoi ſeguaci affer inano cfler aſſai più dell'acqua, e fominaméte umida l'aria, perchè ſe la ſomma umidità conviene al fuoco, egli non aurà certamente parte niuna in quello la ſiccità; laonde ne anche per accidente il fuoco potrà ſecco mai dirſi. Enel vero la narrazione del fecco da Ariſtotele rapportata,in cui egli in vece del ſecco par che deſcriva il corpo ſaldo, in di cendo, il ſecco eſſer quello, che ſi contiene agevolmente da ſe ſteffo, c malagevolmente prende l'altrui termine: Engordà, no evóerson pèr cireiw opw, duodessor dè, egli non può con venire in modo veruno al fuoco. Or come adunque il Za barella oſa affermare, che'l fuoco fia per ſe ſecco? Oltre a ciò,ſe'l fuoco è per ſe tenue, ſarà anche per fe umido i e ſe il tenue, per quel, che ne dica Ariſtotele,è ſpecie dell'u mido, e’l fuoco non ſolamente da per ſe è tenue, ma nella tenuità l'aria, non che gli altri elementi,vince d'aſſai; con verrà ſenza fallo confeſſare giuſta la dottrina d'Ariſtotele, per fe,e vie più d'ogn'altro elemento eſſer umido il fuoco. Ma vorrei faper quì da Giacomo Zabarella, e da Ar cangeloMercenario, che volle darſi ſpezialmente una si fatta briga: onde, e come potraſli giugnere mai a ſaperes che'l fuoco fia ſecco forſe daglieffetti? ma ond'è, che il folc, per tacer d'altri, giuſta il ſentimento d'Ariſtotele non è altrimenti caldo, comechè produca calore? ſenzachè il fuoco, come afferma Ariſtotele medeſimo,ſovente ingenc rar ſuole l'umidità; come nel ghiaccio, ne'metalli, einu altre coſe molte ſcorger e' li puote; e ſe ogni qualunque corpo, o pure i più di eſſi,fi poſſono fondere in vetro, chi ardirà di dire, che'l fuoco non ſia valevole a inge nerar l'umidità > E fe mai tutte le coſe, o la maggior parte di eſſe in vetro per ſua opera fi cambiaffcro, non di rebbe ciaſcheduno, che'l fuoco le rendeſſe umide primadi fermarle in vetro? oltre a ciò allora quando l'acqua, ſecon, do Ariſtotele immagina, vien dal fuoco cambiata in aria, certamente quella maggior umidi à, per cui aria l'acqua divie Del Sig.Lionardo di Capoa. 621 diviene, in lei s'ingenera dal fuoco. Ma forſe ſarà ſecco il fuoco, perchè, come fcioccamente ſi da egli ad intendere un barbaro autore, ſi ſente da noi ſecco? Ma dal noſtro sé. ſo apertamente ſi ſcorge, che il fuoco ha tutte le propietà agli umidicorpi da Ariſtotele attribuito. Ma forſe per fi nirla argomentar fi potrà la ſiccità del fuoco dal ſuo calo re; ma eſſendo propio del calore, comc Ariſtotele dice, il rarificare, certamente da ciò umido più coſto, che fecco dovrebbe il fuoco argomentarfi. Dice altri, Ariſtotele non l'umido, ma il diſcorrente aver definito; e che fi legge umido nelle fue opere, per colpa di coloro che dallaGreca nella Latina favella trasla tarono i ſuoi libri; poichè eſſendoſi valuto e’della parola sygov nella menzionata definizione, che appo iGreci ora ſignificar vuole qualſifia corpo difcorrére, or fi riſtrigne ad aſprinier ſolo quel, che tra corpi diſcorrenti tien vigore do umidire, e chehumidum, vien detto da’latini. Eglino non bene intendendo i ſentimenti d'Ariſtotele, immaginaro no aver fui l'umido definito;perchè foggiūgono poi: a torto anche vien accagionato Ariftorele d'incoſtanza, e di co traddizione; perchè d' talora dica,Pacqua eſfer più umida dell'aere, e talora affermi (il che una fiata ſembrò pazzia a Galieno ) l'aria eſſer più umida dell'acqua. Ma quanto poco, anzi nulla rilievi a pro d'Ariſtotete ciò, che fingono coſtoro, chiarainente ſi conofce; imperocchè Ariſtotele in coſa appartenente a' fondamenti della ſua filoſofia non dovea ſervirfi di vocaboli ambigui, e dubbiofi; e ſe non v'erano i propj nella fua lingua, il che appena mi ſi laſcia credere, che aveſſe potuto avvenire, eſſendo ella così ric ca, e copiofa divoci, non gli avrebbon mancati modi, e vie di chiaramente fpiegare ciò che cgli dovea dire. Ne li può Ariftotele ſcufaredelle contraddizioni;impe rocchè, per tacer d'altro, dice egli una volta, che la tera ra ſi trovi in tutti i miſti, perchè i corpimiſti, fpezialmen te i più grandiper lo più nel luogo propio della terra ſi tro vano; ma Pacqua, perchè fa ellameſticre a terminare i cor pi compofti, effere lei ſola di que’ſemplici corpi, che terminare dileggieri dale poſſonoyn rifugão ivendéggumasaza έκαςον είναι μάλιστακαι και πλείστον έντων οικείων τόπω·ύδωρ δε δια το δείν μεν δελζεται το σύνθε % και μόνον δε είναι των απλών ευόμισαν το ύδως. Dal le quali parole chiaramente fi coglie., che o abbia Ariſtote. le definir voluto l'umido, o pure il diſcorrente; attribuen-. do egli all'acqua, come propia dote, e non comunea verun altro elemento il potere agevolmēte da ſe terminare; il che certaméte contro quel,ch'altre volte detto egli avea, viene a determinare l'acqua ſola, eſcludendone l'aria, eller o umida, o diſcorrente, M,a nella ragione, che Ariftotele di ciò indi a poco rapporta, ſi vale ſenzafallo della parola vypov a denotar l'umido; e dice eſſer quello, il quale ha, forza dicontenere, riſtrignere, e coaglutinare la terra,la quale ſenza l'acqua verrebbe a diſſiparl.; perchè eſſer:cgli.conchiude, l'acqua parimente neceſſaria alla compoſizio. ne de'miſti, con queſte parole: én dè ry Tosningav ávev Tš vggs μη δύναθα συμμένειν. άλα τούτ' είναι τοσυνέχον ή γαρ εξαιρεθείη - λέως εξ αυτής το υγρόν διαπίστοι αν• Ovc fcοrgerfi puote, che alla terra ancora convenga la definizione dell'umido data per Ariſtotele; nell'opinione del quale ſi pare, che a niuno degli elementi convenga la definizione,ch'egli del ſecco rapporta; ma di ciò ad altri laſciando il diviſare, es Jaſciando ad altri eziádio la briga di moſtrare, ch'Ariſtore le dagli effetti ſtelli,comechè pochi ch'egli rapporta nelles incnzionate definizioni,potca agevolmente cogliere la na tura di ciò ch'egli dice freddo, e umido: caldo, e ſecco: e così poi far anco di que', che chiama lor differenze; accen però ſolamente ch’Ariſtotele alior che fa parole del tenue, in dicendo, che il tenue compoſto fia di picciolo parti,per che ricampie το δε λεπον αναπληρικόν(λεπτομερές γαρ και το μικρομε. pès avænangıxóv.)noſtra ſeguir l'opinione di Democrito e che nella guiſa, che detto abbiamo,filoſofare, comechè rozza mente e ſi vede del tenue; il che dovea certamente c'fare, anche dell'altre qualità. Ma vediamo ora come Ariſtotcle a ſpiegar infelicemen te imprenda la natura del movimento, in cui non ha dub bio, che conllte cutta la nzural filoſofia. Primieramente cyli cgligiúdica eſfer ilmovimento un cotal genere,il qualej comprenda l'alterazione, l'accreſcimento, la diminuzione, la generazione, e’Imovimento, che chiaman locale. In di diſegna, e definiſce ilmovimento nel primo, e nel ſeco do capitolo della fiſica, in cotal guila: rov Suv áués.Övr. ÉVTE. dexaci, ģTovorov, cioè endelechia di quella coſa, la quale è inpotenza, in quanto ella è tale; ed altrove: aivos, évtené.. geta toī XIVSTOU, xuvytor, cioè, il movimento egli ſi è endelechia della coſa, la quale tien potenza a muoverſi, in quanto ella tien la detta potenza. Orchi domine non comprende ſe eſ ſer beffato, e uccellato da: Ariſtotele?maſſimamente, che: egli medeſimo inſegna dover eſſerela definizione più mani feſta, e più conoſciuta affiidella coſa, che ſi definiſce;per chè diceGiovanniMagiro, famoſo peripatetico, eſſere cotal definizione biafimevole', e vizioſa: atque ob eam.cau-. fäm in nonnullorum reprehenfiones incurrit. Ma. Simplicio nondimeno dice', effer quella ſommamente artificioſa, e quaſi divina; ſpiegandoli, emanifeſtandoſi con eſlå in una certa maniera maravigliofamente la natura del movimen to. MaCicerone, e Porfirio affermano ', effer quella voce ŁYTENÉXAtjun vago, e artificioſo ritrovato d'Ariſforele, per uccellar le genti; e nel vero di cotal voce ſoven ti fiate ſervisſi Ariſtotele, non ſolamente per ifpiegare il moviinento, ma l'anima ancora, e quella ſua nuova mtura: anzi ilmedeſimoIddio (coſe ſenza fillo fra eſfo lo ro aſſai diverfe ) con talnomee' ſcioccamente chiama. Per chè ben diffe l'avvedutisſimo Ramo: Entelechiæ fue Ariſtoteles nimium conceſſit nimium indulſit. Ma ſu conceda fiad Ariſtotele così bel diviſo, ne s'atté ti aſcun di privarlo della ſua endelechia; e reſti a quellas comedice motteggevolmente il medeſimo autore, inveſti to in dore il rcametutto della filoſofia; e che più? 'perdonili anche a lui ', che contro le regole della dialettica con voci equivocoſe, e oſcure le definizioni formar fi poſſano:'ela vocc iv terémax",prendaſi pure nella definizion del moto,non già per perfezione acquiſtata, e compita, mache tuttavia fi vadi acquiſtando, comepar che e' voglia: o per me”di re, per la ſtrada p la quale la perfezione s'acquiſti; la qua le ſtrada certamente anch'ella in qualche modo è perfezio ne; perchè meritevolmente è da chiamar con nome di at to della coſa, comechè imperfetto; la qual li è in poten za a mandarſi all'atto perfetto, cioè a dir alla forma, in quanto alla materia la coſa è in potenza,cioè a dire in qua to può ella effettualmente imprenderla. Or dove eglino ſono, dove conſiſtono quelle tante, e sì ſtrane maraviglie, millantate da Simplicio? Quid dignum tanto feretbic promiffor hiatu? Parturient montes, naſcetur ridiculus mus. Apporta Ariſtotele per ifpiegar maggiormente la coſa, l'eſemplo dei rame, il quale comechè poffa divenire ſtatua, nondiincno quel movimento, col quale egli poi vienead acquiſtar la perfezione, e la forma di {tatua, non appartic ne punto al rame, in quanto, ch'egli è rame, ina folame te in quanto egli può divenire, o eflere ftatua xaaxos, dice egli,κίνησίς έσιν ου γαρ το αυτό το χαλκώείναι, και διωάμει τινί κινητώ, έπει & αυτον ω απλώς, και κατα τον λόγον, ω αν και του χαλκού, και ganzes, ÉV TERÉNHO, xívyos, Mache montano alla filoſofia si fatri ravvolgimentidiyaneparole, echiè per Dio, cheno ravviſi,e non ſappia, appartener propriamente al muro, che può eſſer bianco, la ſtrada,o'l mezzo di dover eſſer tale, in quanto cgli eſſer vi poſſa > Chi ciò mai ardà a negare? Ma dell'atto, e della potenza, non ſolamente ſervir ſi voller Ariſtotele per iſporre, e ſpiegare la nariua del movimento; anzi in molte, emolte altre opportunità egli sì fattamente gli ripete,che ragionevolmente infaſtidito Bernardino Te. lelio ebbe a dire: Magnos mehercule Ariſtoteles, ut ingenuè fatetur ipſe, actus potentiave diſtinctioni gratias debet;cu jus nimirum upe ex anguftiis quibuſvis evadere nibildefpe rat; il che parimente venne avviſato da Antonio Perfio. E nel vero Ariſtotele ſpelle volte ſi ſerve dell'atto, e della potenza per rattoppare, e rabberciar le ſue Idruſcite does trine; e certamente quelle duc voci il traggono da’più ma lagevoli,e intralciati laberinti della națural filoſofia. Ma ſe finalmente definir mai voleſs Ariſtotele quel movimento, che chiaman locale, certamente egli converreba be ricorrere alla general definizione del moviméto, có giu gnervi d'avantaggio qualche diviſamēto proprio del moto locale. La qual coſa: ſecondo lui,non ſarebbe molto ma lagevole a fornire; comeeper raffermar la ſua ingegnoſif lima definizione del movimento ne fa pruova nell'altera zione, così definendola: l'alterazione, è atto di quella coſa, la quale ſi può alterare, in quanto ch'ella alterar fi puote: αλλοίωσης μεν γαρ, και του αυλοιωτού ή αλοιωτών, εντελέχω. Adunque così ancora andrebbe, ſecondo Ariſtotele,nelmo vimento del luogo la definizione: egli è il movimento del luogo, endelechia, cioè atto della coſa, che ſi può lotal méte muovere, in quáto ella ſi può localmente muovere; la qual definizione,ſe accóciaméte ſpiegherebbe la natura del movimento locale, dicalo in mia vece il medeſimo Ariſto tele, che in trattando del moto locale, a valer non ſe n'ebe be. Matacer non fi dee certamente quì, che Pier Ramo avviſando non dovere effer il genere d'una coſa, genere anche delle ſpecie di quella, perciocchè troppo rimoſſo, e lontano le ſarebbe: preſe agio di gravemente punger Ari ftotele collarori di lui medeſimo, così dicendo: Hic ende lechia rurſusnon imperfecta,fed abfoluta exprimitur; &ta mrenfo genus effet motus, non poſsetefseproximum genus cui libet motusfpeciei. Ma chi poi voleſſe eſaminare, e riandare le altre definizioni d'Ariſtotele, rinverrebbe veriſſimo sé. za fallo l'avviſo di Lodovico Vives; il quale, comechè non fi vegga mai pago di lodarlo, impertanto ebbe a dire: Ari Stoteles eſt in definiendo vafer, occultus adeo, ut pleraquefine idcircò in ejus philofophia incerta, da perplexa, parum etiam vera; dum magis curat quem in modum reprehenfionem ex cludat, quàm ut afserat verum. E perciò funneanche da Attico, eda Temiſtio alla ſeppia aſſomigliato. Ma tanto e tanto Ariſtotele dell'oſcurezzaſi compiacque, e così ſo vente in iſcrivendo uſolla, ch’ebbe a dir di lui ragionevol mente nel vero il P. Elizzaldi: Summa laus Ariſtotelis ob fcuritas fuit. E quantunque Ammonio s'attenti di ſcuſa re Ariſtotele, dicendo Ariſtotele eſsere ſtato oſcuro a bel Kkkk lo ſtu 626 Ragionamento Ottavo rezza, lo ſtudio, non per altro, ſe non ſe per iſpaventar coll'oſcu ed eſcludere dagliſtudi della filoſofia, e dalla lezio de'ſuoi libri gli huomini d'ottuſo, e baſſo intendimento; il che ſi pare, che'l medeſimo Ariſtotele dir voleſle in quel la lettera, fe pur fu ſua, e non da' ſuoi ſeguaci finta, ch'e gli ſcritta l'aveſſe ad Aleſſandro, che da Aulo Gellio venne nella latina lingua traslatata s'ngoja nixovs libros, quos edi tos quereris, non perinde, ut arcana abfcondiros,neque editos ſcito effe, neque non editos; quoniam iis ſolis, qui nos au diunt, cognobiles erunt; impertanto sì malamente venne fatto ad Ariſtotele d'aſcădere la vera cagione del ſuo ſcri yere così oſcuramente, che fu ravviſata da ognuno in gui ſa, che non poſſon far dimeno i medeſimi peripatetici ta Jora di non confeſſarla apertamente; e per tacer di Simplią cio, diTemiſtio, e d'altri molti: l'autor della cenſura de'libri d'Ariſtotele dopo averlo ſtrabocchevolmente commenda to, alla fine purdice in facendo parole delle ſue oſcurez ze: Accedebatad hæc ingenium viri te&tum, & callidums, &metuens reprehenfionis, quod inhibebat eum ne proferret interdum aperte, quæ fentiret; inde tam multa per ejus ope ra obſcura, & ambigua. Ma laſciando ciò ſtare alpreſente, nomeno che nella definitione,egliſi ſcorge eſſer Ariſtotele infelice nella diviſione del moto.Vuolegli,comeè detto,ſei eſſere le ſpezie del moto: cioè generazione, corruttura,al terazione,accreſcimento,diminuimiento, e moto locale; ma a chiunque bene, e ſottilmente la coſa ragguarda, niuna altra forte di movimento ſi fu avanti nella natura, ſe non ſe locale; e nel vero tutte le ſpecie addotteperperAriſtotele, altro non ſono,ſalvo che movimenti locali; e ſi pare,che'l medeſimo Ariſtotele ciò anche confelli; concioſliecoſachè dica egli una volta, che'l moto locale ſia il primo de’moti, eche niuna delle p lui mézionate ſpezie del moto ſi poſſa no ritrovar " inquemai diſcopagnate dalmoto locale; ed uną altra fiata apertamente affermi, che il ſolo moto locale ſia quello, che dir ſidebba propriamente moto. Divide Ari ſtotele primieramente ilmoto locale in ſemplice, e miſto; ſemplice chiama egli quel movimento, il quale è ſempre mai uniforme,e fimile a ſe medeſimo. Il moto semplice è di due maniere, retto,e circolare;cöcioffiecoſache di due mas niere ſiano le grádezze séplicirerte pariméte,e circolari; la qual ragione,quáto frivola,quanro yana fazlaſciù a voi a conſiderare, Il moto çircolare, il quale ſolamentegiuſta il ſuo avvilo, è perfetto, e regolare; vuole Ariſtotele eller quello, che fi få intorno almezzo; ma il retto allo incon tro eſſer quello, che faffi in ſuſo, ed alla in giù, Mataçé do, che avviſar dovea Ariſtotele que’movimenti, ch'egli immagina farſi intorno al çētro della terra, non eſſer altra mente circolari ', ma ellittici, follemente nel yero egli fi da ad intendere avermoto ſemplice nell'univerſo, che retto non ſia; imperocchè qualunque corpo, cheſi muove convien certamente, che ſe'n vada ad occupare il luogo a ſe più vicino; perchè ſarà mai ſempre ogni ſuo moto ret to, e formerà mai ſempre col muoverſi linee rette; laonde i moti obbliqui tutti,cácora que’che circolari ſi chiamano, altro non ſono, che moltiſſimi, e poço men chę infinitimo vimenti retri; i quali ad ogn' ora facendo angoli, a formar vengono moltiſlime, e poco men, che infinite linee rette; laonde niun moto del mondo farà circolare; imperciocchè niun moto, che in giro fi faccia mantener il corpo maiſemi pre potrà dal centro ugualmente lontano; il che richiede Ariſtotels nel inoto circolare. E quinci ſcorgeragevolme. te li puorc, quanto dal ver ſi diparta ciò che appreſo Ari ftorelc diviſa, poço faggiamente, confondendo i membri della diviſione, dicendoil moto ſemplice eller di tre ma niere: l'una di quello, che ſi fa intorno al mezzo, o lia centro: l'altra diquello, che ſi fa dal mezzo; e l'altra di quel, che ſi fa almezzo; ma degna ſenza fallo è d'aſcol tarſi con grandiſſime riſa la cagion,che di sì fatta diviſio ne cgli reca,françamëte affermando tre eſſer i ſemplici mos vimenti; concioſliecofachè abbiano i corpi tre dimenſioni, Quinci li coglie eller falſa, e vana del pari la menzionata diviſione del moto d'Ariſtotele; enon aver moto veruno nell'univerſo, che compoſto eſſendo del retto, e del circo Jare, miſto con Ariſtotele dir veramente ſi poſſa. Ma trapaſſando a quella diviſione del moto, così cele bre ne’libri d'Ariſtotele, in naturale, e violento:veramen te in iſpiegare i membri di quella oltremodo vario, ed in conſtante e ' li moſtra; perciocchè una fiara dice, il moto violento eſſer quello ch'altrõde vien comunicato; il che ſe vero fofſe, vana ſarebbe la fua diviſione; imperocchè ogni moto, giuſta Ariſtotele, altronde procede; e un'altra vole ta poi, no badado a ciò che prima avea detto,egli afferming comechè da altri cagionato effer poffa, trondimeno alcun movimento eſſer naturale. Vltimamente Ariſtotele vuole, che quel moto djr ſi debba violento, il quale venga cagio nato da eſterna cagione in un corpo, che il ripugni; maſe il moto altro veramente egli non è, fe non cambiamento di luogo, e al corpo non meno è natural queſto, che quell altro luogo: certamente al corpo niun moto ſarà mai vio lento; e ogni qualunquemoto, che nell'univerſo ſi faccia, dovrà dirfi naturale. Ne la terra, o altro corpo dique'che chiamanli gravi da ſe, comeinſieme col vulgo immagina Ariſtotele gripugna il ſalir in alto, quantunque ſi paja a noi, che non veggiamo que' corpi, che la ſpingono giù, e fan ch'ella ripugni il ſalire. Non ſembra finalmente conforme a quel ſuo famofo detto, ch'ogni coſa, che ſi muove, per alrri ſi muova, la diviſione,ch’Ariſtotele reca del movime to, in quel, che vien fatto da fe, e propio chiamato, e in quel, che da altri faſli, e per accidenteè detto. Ma una cotal diviſione mi fa ſovvenir, come ſconciamente fallò Ariſtotele nel dire, che'l generante muova ancor quando è lontano; anzi ancor quando più non è; e che le ſue intel ligenze muovano moralmente; il che ancora di colui che'l tutto muove empiaméte oſa egli affermare; che tanto egli è nel vero, quanto dire, che le intelligenze muovano non movendo le ſpere celeſti dalui ſognate. Ma dovea Ariſto tele avviſare, chela maniera dell'operare del Sovrano Mo narca dell’Vniverſo è molto lontana, e differéte da quella, che'l più acuto umano intendimento poſſa vnquemai im-, maginare;e comeegli già traſſe dal nulla le corporee ſoftá ze colla fola volőtà, colla quale potè dar loro il moro anzi gliele diede ſenza fargli puntomeſtier di toccamento veru no; e che Iddio ancora fa, che gli Angioli parimentes. comeche inviſibili fpiriti,pofanomuovere, avvegnachè nă tocchino le corporee ſoftanze; e laſciando di riferire, che dican di ciò Guglielmo da Parigi, l’Aureolo, e altrimae Ari in divinità, iquali non fi prendon briga più che tanto di venir a' particolari: Io vado conghietturando, che: dar poſſano il moviméto gli Angioli a ' corpi,in quella gui ſa per avventura, colla quale fuole l'anima ragionevolea allor che muove il ſuo corpo; la quale certamente altro nā fa allorche muove qualche membro, ſalvo che dar altra determinazione per opera della volontà a que' rapidiffimi movimenti di que’minutiſſimicorpicciuoli, che continuo dal fangue vengon per l'arterie a'nervi compartiti. Argo mentali eſser vero ciò dall'oſservare, che ficome ſcema, o creſce in cotalicorpicciuoli il movimento, così più o me no all'anima di muovere le mébra del noſtro corpo vié per meſso; non altriméti forſe l'Angelo, comechè non ſia lor forma, come è l'anima del corpo, muoveicorpi determi nando altrimentii moti de'piccioliſſimi corpicciuoli,ch'en tro lor fono, o pure que' dell'aria, o dell'etere, che gli penetra,e gli circonda; e'n quella guiſa, che'l vento soľ acqua muover logliono le piume, e le frondi, faccian ancor cglino cambiar luogo a queſto, e a quel corpo; ed eſsen do il moto delle particelle, che l'etere compongono, rapi diſſimo:può l’Angela determinandolo condurre in brevif fimo tempo da un luogo a un'altro,comechè lontaniffimos icorpi. Ma laſciando queſta curioſa digreſſione a ' facri Teologi, e al noſtro Ariſtotele ritornando, lo dico,che no men, che s'aveſse fatto del moto, ſcioccamente falla in di viſando del luogo: imperocchè egli dice eſsere il luogo quella immaginata ſuperficie delcorpo, ove la coſa allo gata ſia; la quale opinione, comechè egli la toglieſse di peſo comealcun giudica daPlatone, o da Archita,dal quale tolſe anche quella fconcia diviſione dell'ente cotanto da Lorenzo della Valle, e da altri deriſa, pure egli sì disfor mata la ci reca, che nel vero ſembra, che più toſto egli ab. + bia 630 Ragionamento Ottavo bia ſecondarvoluto l'opinionedelvulgo, il quale non fa diſtinguere il vaſo dal luogo: che adombrar i ſentimenti di que'valent'huomini; e sì ſciocca, c irragionevole parves una sì fatta opinione a Filopono, per tacer d'altri Peripa tetici, che acerbamente ne ripigliò il maeſtro; e nel yero ſe'l luogo, comeragion perſuade, e Ariſtotele medelimo inſegna, appartiene a qualſifia minima particella del corpo locato, dovrà ſenza fallo il luogo aver parimente riſpetto a qualunquc minima particella del corpo locato,e farli da quella ingombrare dimaniera; che a tutto il corpo locato corriſponda tutto il luogo, ea qualunque minima particel la del corpo corriſponda ugual minimaparticella di luogó. Conie potrà mai dunque conſiſtere la natura delluogo nels la ſuperficie più vicina del corpo contiguo, la quale a cir condare, e ad abbracciar viene il corpo locato, ed è affat to fuora di tutte le particelle di eſſo corpo; perchène ſegui rebbe, chemoyendoſi un corpo, non ſi moverebbono tut te le parti di eſſo, per tacer d'altre; e d'altre ſconvenevo lezze a'peripatetici medefimimolto ben conoſciute. Ma per nulla dir di ciò, che dice Ariſtotele del tempo, il qual ſe la mente noftra non ſi deſfe brigadi partire, e di numerar il movimento; in niun modo ſecondo lui ci ſarebbe: chen ti,per Dio ſono i diviſamenci d'Ariſtotele, dietro allana tura, e alla propietà del corpo? E laſciando ciò ad altri cô ſiderare, accennerò ſolo quanto egli vanamente s'aggiri in yolendo filoſofar, oltre alle qualità menzionate, della ra rità, e della denfità prime, comedicç'una volta ditutte ale tre qualità del corpo,Si fa egli follemente a credere, mora ſo da leggeriſſime ragioni, poter un corpo rarificandoſi in grandire, e ſenza giunta d'altro corpo ingombrare mag gior luogo, di quel che prima egli ingombrava, e maggior di fe divenire;e allo incontro poi ſenza eſſer in nulla ſcema 10, e ſenza entrar l'une delle ſue particelle entro l'altre,po tercondéſandoſiingombrar il corpo minore ſpazio di quel, che prima egli ingombrava, e divenir minore di quel ches prima egliera, Machi potrà mai ridire, come ſconciamē. te egli poi favelli della luce, come de' colori, come de? (1 pori, come degli odori, comedell'altre ſenſibili qualità.: Ma non è mio intendimento di volervi quì ad uno ad uno tutti i fallimenti d'Ariſtotele narrare; che ſe un tal filo pré delli di ragionare, certamente non ne verrei mai a capo; c nel vero ov'egli follemente non aggiroffi in filoſofando di que'corpi,ch'egli chiamaſemplicide’miſti, edelle lor qua lità? E quanto ſpiacevoli in verità ad udire ſon que’lunghi, e fuor di propoſito diviſamenti, ch'egli fa del Cielo, dell'a. nima, e delle ſue operazioni, dell' aere, de' venti, delle piove, de'fulmini, dellaneve, del tremuoto, dell'altera zione, dell'accreſcimento, della diminuzione delmeſcola mento, della generazione, della corruttura, c d'altre coſe naturali non iſpiegate certamente da lui naturalmente, fi come facea meſtieri: chenti, ſono le diviſioni, chenti, gli argomenti, in che fu egli sì infelice, che ne meno eb be ventura di poter le più vere propoſizioni provare. Ma ſopratutto in Ariſtotele mi par da notare, ch'egli in tutte le ſue opere ſi ſtudia colla ſua loica d'avviluppar mai ſem pre la verità, e di crollare, e mandar a terra i buoni, e veri ſentimenti de' più celebrifiloſofanti; perchè da Santo Am brogio venn'egli chiamato:ftudiofus impugnāde veritatis;ç molto avātidi lui per le medeſime ragioni l'antichiſſimoPa dre Tertulliano avea detto la dialettica d'Ariſtotele:artificē Aruendi, &deftruendi verfipellem in fcientiis coactam in co jecturis duram, in argumentis operatoriam contentionum ', moleftam etiam fibi ipfiomnia tractantem, ne quid omnino tractaverit. Ma non ſo come fuggito mi era dalla memoria ciò che Io avea determinato di dirvi del bel diviſamento, ch ' Ari ſtocele fa delmondo. Afferma egli il mondo di neceſſità eſſer perfetto, avendo egli larghezza, lunghezza, eſpel ſezza;dalle quali dimenſioni in fuora, altra grandezzaw, non v'abbia, dache queſte tre ſole ſon tutte le coſe; e ove fiano due, allora non diciamo tutti,ma ambodue,& aggiu gnendo a tre, allora in prima diciam tutti; il che effer di sì fatta maniera, la natura il ci inſegni, ece l'additi: c.chę per tal cagione,ci ſoggiugne cotal numero uſavali ne'ſacri ficj; nel che Ariſtotele fra tantiaggiramenti avviluppofli, non per altro, ſalvo che per iſpiegar alcuni ſencimenti de Pittagorici, da lui malamente inteſi. Quindi apertamé te appare, quantograndefata ſi dia la cracotanza di quel miſcredente Arabo Vano immaginator d'ombre, e di fole: d'Averroe in dico, il quale privo affatto d'intendimento ärdì a dire eſſer Ariſtotele la norma, el'idea a noi prepoſta dalla naturaper maraviglia di tutti iſecoli, e per addicar ne l'ultimo sforzo, e l'intero compimento d'ogni umanaj perfezione: e che egli venne a noi conceduto dall'eterna providenza per noſtro ajuto; nelle cuiopere non s'è potu to per lo travalicamento di quindici ſecoli error alcuno ri trovare; e in fine ch'a miracolo Natura il fece, e poi ruppe la ſtampa; anzi tanto s'avanzò oltre la follia d'Averroe, che diffe, fe ad Ariftotele folo voler dare intera credenza infra tutti gli altri huomini del mondo; e ne meno eccettuonne il fantili. mo Profeta Moisè, qualor difle aver Moisè dette molte coſe, ma niuna provata; al che aggiugner volle, per tacer d'altro, quell'altra beſtemmia; che coloro, i quali affer mano Iddio ritrovarſi per tutto, ſian fanciulli, e che di ſtruggano, e mandino a terra l'ordine tntto delle cagioni naturali. MacomechèAverroe foſſe di sì ottuſo, e ballo intendimento: impertanto valſe tanto la ſua autorità appo gli Arabi, che vennero a gara da tutti abbracciare, e come verità infallibili credute furono le dottrine d'Ariſtotele; laõde cõvēnè aʼnoſtri Teologi, p.poter cõvincere i ſeguaci di Macometto,quella dottrina,che appo loro era in pregio, ed iſtima apparare; e introdurre nelle ſcuole la filoſofia di Ariſtotele, o pure quella, che ſi contiene ne' libri, che ſi leggon ſotto il ſuo nome; căcioffiecoſachè dietro a tal con venente gran piari fieno infra gli ſcrittori. E veramente alcune di quelle non pajono d'Ariſtotele, come p teſtimo niāze di Tullio,di Laerzio, di Suida, e d'altri antichi ſcrit tori,e di Mario Nizolio, e di Frāceſco Patrizi, e d'altri mo derni autori fi può affermare; nondimeno però nei, co une que me que', cheveggiamo concordevolmente in tutte quell opere, che portano in fronte il nome d'Ariſtotele, da libri neobanuárwv in fuori, l'iſteſſo modo di filoſofare: portiai moopinionceſfer tutte d'Ariſtotele, o pure da qualche ſuo ſcolare ſcritte ſecondo i diviſamenti del maeſtro: Mala ſciando ciò ſtare al preſente, chiaro da quel che ſi è fin'o ra detto fivede, non eſſere conſentimento comune degli huomini in eleggere Ariftotele per primicro filoſofante; perciocchè nel lungo travalicamento di cotanti anni, dopo le prime voci del ſuo nome, forte vanamente infra gli Araa bi per dappocagine, e ſciempiezza del loro intendimento, gli altri tutti corſero lor dietro Qualcapra all'altra perſentiero alpeftro: non con fermo, e ragionevole avviſo, perchè non eſſendo vi elezione d'animo faggio, e avveduto, è da dir con Bac cone, coitio, non confenfus; e come dice il Ciampoli, copia comune, non già opinione comune. E nel vero ponendo in no cale l'originale, ad altro non badarono le ſcuole, ſe non ſe a far copie continue di quelle ſconce; e mat fatte copie del lor primiero maeſtro Ariſtotele: cd a ciò anche fare i ſemplici,e rozzi ſcolari coſtrignendo;perchè non ſenza ca gione fu detto dc' peripatetici da Lorenzo della Valle, il quale veramente fu ilprimo, che liberò la filoſofia da quel cieco,e miſero fervaggio,in cui miſerevolmére giaceva fot topoſta:Pudet referre apud quofdam elle morem initiandi di fcipulos, &jurejurando adigendi, nunquam ſe Ariſtoteli re pugnaturos: genus hominum fuperftitiofum, atque vecors, defe ipfo malè meritum; cum ſe facultate fraudent indagă då veritatis; quos fi reprehendere jure optimo poſſumus, quod hanc ſibi legem impofuerunt, qua tandem infectatione caſti. gare debemus, fi hanc legem in alios transferunt; ſenzachèno dee giudicarſi opinion comune in filoſofia quella, che nella fchiera de volgari filoſofi ſoli, avvegnachè innumerabi le, alligna; ma più dalla qualità degli avveduti ragguarda tori delle coſe, che dalla copioſa ſembraglia del popolo è da ſtimare; perciocchè, come teſtimonia il Romino Ora tore, la filoſofia, dipochigiudicatori s'appaga, cabello L111 ftudio ſchifa la moltitudine a lei ſoſpetta, e odioſa: eft phia lofophia paucis contenta judicibus, multitudinemque conful ty fugiens, eique ipfi, & fufpe ta, & invifa; eragionevol mente in verità; imperocchè, come ſaggiamente avviſa il Baccone: nihil multis placet, nifi imaginationem feriat, auf intelleétum vulgarium rationum nodis adftringat;perchè dir ſoleva Ariſtotele folamente in favellando la parte maggio re, ma nel giudicar poi la minor parte doverfimai ſempre {eguire. Ma ciò, che de' Peripatetici abbiam noi ſin ora diviſato, deſli ſenza fallo anche dire degli altri parteggian çi; de'quali tutti ebbe a dire quel valent'huomo, noneſſer credenza infra’filoſofi così ſtrana, e rimoſſa dalla ragione, che non abbia ritrovati i ſuoi difenſori. E sì abbondevole fu nel vero la greca filoſofia di sì fatte ſconce, e inveriſi mili opinioni, che non ſenza cagione fu detto da Varrone nemo ægrotus quicquamfomniat Tam infandum, quod nonaliquis dicat philofophus. ma prima potrei col Poetacotar nella diſerta piaggia l'are nege nel mar turbato l'onde,che gire ad uno ad uno anno verando degli antichi filoſofi i fallimenti; de quali più forſe ne ſarebbon conoſciuti, ſe a noi foſſero pervenute tutt'altre opere di coloro, dicui Già lunga notte involve i nomi, e l'opre. Maavendovi, come di ſopra avviſammo, infra' greci me. dici alcunivalentiſſimi maeſtri, i quali ſi valſero dell'opi nioni di Zenone, e d'Epicuro in filoſofando delle coſedel la medicina, nõ farà per avventura fuor del noſtro propo fito il brievemente accennare i miei ſentimenti intorno al la ſtoica, ed epicurea filoſofia. E per cominciar dalla ſtoi ca: grande certamente ſi fu la follia di Zenonedella ſetta ſtoica primo maeſtro, e fondatore, il quale avendo ben potuto fcorgere quanto ſi foffe oltre avanzato ſopra tutti i greci filoſofantiDemocrito nella vera ſtrada del filoſofa re, volle nondimeno più coſto gir dietro alla traccia di co loro, che apertamente avean da quella traviato; e Com? mechè men vaneggiante affai d'Ariſtotele Zenon fi mo Atri in iſpiegar le coſe della natura, non però di meno egli ancora nelle maggiori ſtrette fuolentrar nel pecoreci cio, ſenza divifar nulla di ſaldo. Così in ragionando delo la mareria la delcrive largaméte con termini (tratti e genes rali,come appūto diviſato in prima n'avea Pittagora, e Pla. tone,e Ariſtotele; della qual coſa ragionevolmēte ne fu egli force biaſimato da Seſto Empirico; eavvegnapure,ch'egli cófesſaſſe eſſer vero corpo la materia, e chiamaſſe la forma nõ cagione, ma parte delle coſe:nondimeno non iſpiegando appreſſo, che coſa veramente la formalia, e in che conſi ſta la natura del corpo, e come formar variamente fi poffa, e ne meno ſcendendo poialparticolar delle qualità, mani feſtando, e dichiarando chente fia la lor natura, ecomes ingenerino: è da dir, che neile medeſime ſconvenevolezze egli ancorcada, nelle quali già in prima detto abbiamo eſ. ſer Platone, e Ariſtotele vergognoſamente caduci. Ma non ſembra vero ciò che Cicerone, e altri fcrittori riferiſcono di Zenone, che egli aveſſe per efficiente cagio. ne conoſciuto il ſolo fuoco; imperocchè egli coinpone le coſe de’quattro volgari elementi; e alle loro qualità attri buiſce, o tutte, olamaggior parte dell'operazioni natura. li, comech'egli in ciò poco felicemente s'adoperi, per nốt aver inveſtigato in prima, come certamente conveniva, la propietà diquelli; e quinci avvien poi;che Zenone di quel le, che ſeconde qualità chiamanſi, così confuſamente an che favelli, comeſipuò vedere allor ch'egli dice, eſſer i colori le primediſpoſizioni della materia. Dice ben egli Zenone, che ſon due i primi principi delle coſe: paſ ſivo l'uno, cioè la materia, ſoſtanza ſecondo lui priva di qualità: Paltro attivo, quale ingenera ogni coſa, e vienda lui col nome d'Iddio, e di natura chiamato; e queſto vuol Zenone, ch'altro non fia, ſe nõ ſe un ſottiliffimo fuoco do. tato di ragione, e di ſapienza, il quale per tutto diſcorra, il tutto abbraccj,il tutto penetri; e che dalle varie, c varie materie in cui egli ſi trovi,varj,e varj nomi poſcia egli rice va.Ma quanto ciò ſia lõtano dalla ragione, nofa certamen. te meſtieri, ch' lo duri fatica per darlovi a divedere. E Lill 2 nel vero ſe mai Zenone argomentato ſi foffe d'inveſtigar, comeché rozzamente la natura del fuoco,non avrebbe po tutomai concepirnella ſua mente così folle, e pazza opi nione; anzi ne men avrebbe egli detto eſſer l'anime noſtre, caldi, e ſottiliſſimi fpiriti, tratti, come rapporta Seneca: ex illisfempiternis ignibus,quæſidera, acflellas vocamus,, veluti ſcintillas quafdam afrorum interris defiliiffe, atque alieno loco exiife. Concioffiecofachè il fuoco, il quale al cro non è ſe non fe un'adunamento di piccioliffimi corpic ciuoli, o sferici, o piramidali,non pofſa ne ſentire, ne in tendere, ne far niun'altra operazione, che l'anima far ſuo. le; perchè non avrebbe poi anco detto Zenone l'anime ef fer mortali, e quelle dappoco, e baffe, qualieſſere giudica l'animne degli ſciocchi, e ignoranti Cbe viſſer fenza fama, e ſenza lodo col corpo infieme attutarſi, emorire; e quelle de’dotti fo lamente che, fon più vigoroſe, dover durare ciaſcuna ſe condo il fuo potere, come fiaccole acceſe in tenacemate ria fino all'ultimo ſcoſcio del mondo: fi ut fapientibus pla cet, dicea Tacito di Zenone, e degli ſtoici, non cam corpo re extinguuntur magnæ animæ; il qual luogo chioſando il dottiſſimo Lipfio: nota, dice, magnas arimas;minutæ igitur, & fatuæ pereunt,aut non diu manent. La quale opinione motteggiando l'eloquentiſfimo Romano: Stoici, dice, uſu ram nobis largiuntar tanquam cornicibus: dia manſuros ajūt animos, ſemper negant. E quinci follemente temevano gli Stoici ilmorir ſommerfi neĪPacque; imperocchè ſtimava no, che l'aniine, come quelle, ch'eran di fuoco,veniſſero cſtinte dall'acque. Ma cotal crcdenza ella mi ſembra, che molto più antica di Zenone ſtata fi foſſe; imperocchè non per altro certamente quel grand'Eroe, d'Aſia ter rore, e'l fagace Vliſe, e'l fortiffimo Duca Trojano moſtra no aver cotanto in orrore il morir affogati nell'acque: ingemit Æneas, dice Servio, non propter mortem, fed pro ptermortisgenus; grave eft enim fecundum Homerum perire naufragio, quia anima eft ignea &, extingui videtur in ma ri contrario elemento.Ma piacevole è nel vero a udire il di viſamento's ch'eglifa Zenone, intorno alla generazion del mondo; dice egli, che Iddio ſtava primieramente in ſe ſtel ſo raccolto, il che non ſo lo, come poſſa dirſi mai del fuo € 0; e che indi poi la materia tutta in aria prima, e l'aria ape preffo in acqua cambiafle; e che ficomenel ventre della femmina fi contiene il ſeme, così ſteſſe parimente nell'ae: qua una materia abile a ingenerar tutte le coſe; e che pri mieramente ingeneraſſe Iddio diquella materia i quattro elementi, cioè il fuoco, l'acqua, l'aria, e la terra; e poidi queſti,tuttii corpi miſti formati veniffero. Il fuoco ſecon do Zenone è caldo, e l'acqua è liquida, l'aria è fredda, e la terra è arida; ma l'ordine col quale, c lic ſtelle, e gli altri ragguardevolicorpi dell'univerſo s’ingeneraſſero; vie ne ſpiegato da Zenone in sì fatta guiſa. Afferma egli, che nel ſupremo luogo foſſe collocato quelfuoco, il quale per la gran fua: ſottigliezza vien detto ctere; e che in lui pri micramente naſceſfero le ſtelle fiſſe; indi appreſſo l'ervanti, indi appreſſo l'aria., indi appreffo l'acqua; e ultimamente la terra, la quale ſta in mezzo collocata; mafolte ben fa rei Io a logorar il tempo nel racconto di queſte, e altre sì fatte empiezze, che ci vuol dare ad intendere Zenone. Ma non meno ſtoltamente erra Zenolie in ſecondando i fentimenti d'Omero', togliendo non ſolo la libertà dell’o perare agli huomini; ına ſottoponendo alla violenza delFa to il: mcdeſimo Iddio; perchè cantò Lucano, per tacer Se neca, Fileinone, e Manilio: Sive parensrerum, quum primum informia regna, Materiamq; rudem flamma cedente recepit Tinxit in æternum caufsas, quæcunéta coërcent; Se quoque Lege tenens, & fecula jufa ferentem Fatorum immoto divifit limite mundum. E prima di Lucano, quel greco poeta, così traslatato da Cicerone: Quod fore paratum eft,id fummum exfuperat lovem; perchè dicono non poter nulla Iddio contro la violenza del Fato; ne lui medeſimo poter iftorcere; o piegar l'opere de gli eterni provvedimenti; laonde ſccodo i ſentimenti di Ze none 638 Ragionamento Ottavo 1 nonediſse Seneca,o qualūquefi ful'autor di quella tragedia Non illa Deovertiſe, licet Que nexa ſuis currunt cauſſis. E a ciò ponendo mente Luciano, piacevolmente deriden do,come è fua usāza, gli Stoici, fa,che l'orgoglioſo Ciniſco ſeguace di Zenone,tratto da cotali ſentiměti, temerariamć. te diſpregjGiove, e gli Dii tutti, non temendo punto del le ſue folgori, ſe dal fato non gli erano deſtinate; poichè gli Diitutti, e Giovemedeſimo erano al fato ſoggetti; u che così gli Dii come gli huomini erano ſervi delleParche; ne potere far coſa del mondogli Dii, per menoma,ch'ella ſi foſſe, che dalle Parche non foſſe in prima ordinata, e lun gamente compoſta. Perchè altro gli Dii non effer, che mi niſtri, e ſergentidelle Parche, o per mc' dire ſtrumenti di quelle, come la ſcure, e'l trivello. E con queſte ſtoiche beſtemmie fa ch'egli ſi rida di Giove; il quale oleremodo fi vanta di quella famoſa catena delle coſe del modo appreſ ſo Omero. Il medeſimo Stoico poi giudica appo lo fteſſo Luciano eſſer anzile Parchemedeſime, che Giove da pre gare, ſe lc Parche per prieghi pur ſi moveſſero; poichè al le Parche, e non a Giove l'imperio tutto del mondo, c'1 primo reggimento de' fatiè da attribuire. Mano è da in tralaſciar,ch'avviſando anche l'aſtutiſlimo Macometto,per nulla dir di Lutero, e di Calvino, eſſer corale opinione molto in concio a'ſuoi fatti, preſela, ed inſegnolla nel ſuo Alcorano, acciocchè preſti maiſempre, e arditi i ſuoi po. poli, ponendo giù ogni timor della morte, a magnanime,e pericoloſe impreſe prontamente s’eſponeſſero; perchè a co tal credenza riguardando il Taffo, pole in bocca al valo roſo Rede'Turchi, Solimano, Giriſ pur Fortuna O buona, orea, com'è laſsù preſcritto. Ma non meno ſciocca èquell'altra credenza di Zenone intorno a ' peccati, ch'egli follemente vuole, che tutti ſiano uguali, e che ne più, ne meno falli colui, che ſpogli cru delmente della vita il ſuo propio padre, di colui, che allor, che ciò far non convenga ammazzi un bruto anima le. Equell'altra intorùo al ſuo ſapiente;il qual'eglivuole, chenon altrimenti, che ſe la filoſofia l'aveſſe dell'umana natura poſto in bando,no’l muova amore,non ira,non odio, non timore, ne qualúque altra più violéta paſſione. Senti menti in verità, per dirla coll'Arioſto, Convenientia un huomfatto diſtucco; ed Io per me non ſo come s'aveſſe giammai potuto fognar - Zenone una sì fatta novella, ch'un huomopoffa viver nel mondo libero, e Sciolto da tutte qualitati umane. Manon queſti ſolamente ſono,ma altri, e altri i falli che Zenone, e iſuoi Stoici prendono, alla noſtra fede, ed alla natura ſteſſa ripugnanti; perchè non pocomimaraviglio, come cotato preſſo alcuno ſiano commendate, e in pregio tenute quelle memorie,chedi loro rimágono; e ſpezialmé te l'opere di Seneca; imperciocchè non è punto, com 'egli follemente s'avviſano le genti, quell’ aſtuto Stoico, re ligioſo, e dabbene; concioffiecoſâche, ſe ben fifamente vi fibadi, in altro non s'argomentiSeneca ne'ſuoi libri, ch'a toglier dal mondo ogni coſtuma dipietà, e direligione; comechè faccia ſembiante nelle ſue dottrine, di'rigorofilli mo Anacoreta, e poco men, che di perfettiſſimo Criſtia no; e a prima faccia appaja, qual farſi vedervolle anche il fuo maeſtro Zenone, Virtutis verd cuſtos, rigidus que ſatelles. Ma ritornando a Zenone, egliſi parve, che talora Ze. none fi foſſe avvicinato al ſegno in filofofando delle coſe naturali; come quando egli per iſpiegar la maniera, nella quale faſli la viſta, diſſe l'occhio valerſi della aria teſa, co med'un baſtoneper conoſcer le coſe viſibili; del quale esé. plo fi valſe poi così a propofito Renato delle Carte. Com nobbe ancora Zenone, comeche a durar non viaveffe mols ta fatica,, effer il ſole più grande della terra. Argomentò al. tresì egli da' ſuoi effetti non eſser altro il ſole, ſe non le fuoco; ma da quelli certamente avviſar non ſi puote, come egli immagina', eſser quel fuoco, ond' è forma to il ſole,ſincero, e puriſſimo. Ma non ha dubbio,che Zeno 640 Ragionamento Ottavo. Zenone s'ingannò grandemente, immaginando participar la luna aſsai più dell'altre erranti ſtelle, della natura della terra: per eſserella più di eſso loro alla terra vicina; im perciocchè non ha che far con ciò punto la vicinanza, e nó v'ha ragion alcuna, la quale perſuader ci poſsa, che la lu na differiſca púto dagli altri pianeti; e oltre a ciò mal inten dendo Zenone la ſentenza degli antichi filoſofi, i quali di cevano comunicarfra di eſso loro inſieme p via di piccio liſſimi corpicciuoli dall'une all'altre continuo mandati, le ſtelle erranti, e fiſse, e la terra: afferma, che le ftelle, co me quelle, ch'animaliſono, dal mondodi quaggiù riceva no il loro alimento; e venir il ſole nutricato dal mare, la luña dall'acque dolci, e l'altre Atelle dalla terra; m2 perta cer d'altri difetti della filoſofia di Zenone, in ciò ſopra tut to fu egli oltremodo manchevole, checoltivò molto più di quel, che certamente a natural filofofo fi conveniva, gli ftudi della Loica, onde conveme, che i ſeguacidilui, for ſe aſsai più di que'priini peripatetici,nelle inutili fortigliez ze dialettiche intrigati, vennero ragionevolmente da Ga lieno contenzioſi chiamati; e quinciavvenne, ch'eglino no poterono gran fatto vantaggiarſi nello ſpecular le coſe della natura; onde ebbe a dire il medeſimo Galieno, che gli Stoici nelle inutili coſe erano alsai eſercitati, ma rozzi poi allo incontro in quelle di momento,e poco eſperti ſi dimo Atravano. Malaſciando Zenone, trapaſseremo a ragionar d'Epicuro.. Primieramente per mio avviſo mai fi par certaméte, che convengano ad Epicuro quelle ſtrabocchevoli lodi, che, da pallionati luoi ſeguaci, c ſpezialmente da Lucrezio gli vengono attribuite icon dire jufra l'altre millanterie, ch' Epicuro non huom mortale, ma Iddio ſi foſse;e ch'egli pri ma di tutt'altri rinveniſse la vera ſapienza; e chc Epicuro anche fi foſse Quel, che i termini tolfe al vaſto mondo, Le fiammeggiantimura a terraſparſe, E'l vano immenfo col penſier traſcorſe. Imperocchè, per tralaſciar ch’Epicuro altro in verità nõ faceffe, che traſcrivere le ſentenze di Democrito: i falli menti del quale non maiegli diſcoverſe, non che rammen daſſe: anzi ſe mai egli da’ſentiméti di Democrito ſi diparti, incorſe in graviſfimi falli. E gliporrò opinione Epicuro, che da una infinita, ed immenſa corporea ſoſtanza, qual ſecondo lui altro non è, ſe non ſe un radunamento d'infiniti corpicciuoli di varie, ¢ varie grandezze, e figure, e da uno ſpazio parimente im menfo, qual'egli vuoro d'ogni corpo eſſer crede,fia copoſte l'univerfose che fenza regolaméto d'intelligenza veruna, a caſo, ed a ventura, dalmoto, dall'accozzaméto,e dall'or dinamento, ſolo di que'corpicciuoline fian nati,non ſola mente queſto, in cuinoiabitiamo, ma più, e più mondi, Aggiunſe egli al diritto movimento de corpicciuoli (che apparò da Democrito) di ſuo altresi quell'altro moto pie gato,ed obbliquo, acciocchè dalle varie maniere di quello poteſſero cotante coſe ingenerarſene: e cocal movimento torto, eglidiffe naſcer dalla chinacura de' corpicciuoli, quali movendo per diritto, ed in altri corpiceiuoli incop pando, neceflariamente doveſſero in iftrigando piegarlize non men dell'altre coſe del mondo empiamente eſtimò Epicuro eſſer compoſte le noſtre anime, come dice Lu crezio Corporibus parvis, do levibus,atq; ratundis. Ma fe noi riguardiamo, non ſolaméte alla diverſità del le coſe del mondo, ma anche alla lor vaghezzase perfezio ne, e come nulla non vi ſtia a bada, ma all'acconcio fine venga mai ſempre convenevolmente dirizzata: non può in niun modo da ciaſcun comprenderli, come a riſchio, per caſo, ſenza ſottiliffima macaria di gran maeſtro debba effer formata; e per non trarre argomenti dalle ſtelle, dad ſole, dall'huomo e da altre,e altre opere maggiori d'Iddio, mi contenterò ſolo di far parole di alcuni piccioli animales ti, come ſono le moíche, le zanzare, le formiche, l'Api, gli Acari, c altei afſai cotanto menomi, e ſottili, ch’appe col microſcopio, tanto quanto, cavviſar li poſſono; e pu re fono in loro da ammirar, ſomipamente quelle picciolilli M in m in me par 642 Ragionamento Ottavo 1 me particelle, così ben compoſto, e formate, come nella notomia degli huomini medeſimi, e d'altri animali più grā di fi veggono. Sono que'corpicciuoli anch'eglino forniti de’lor membri; ne mancan lornella teſta i piccioliſſimi oc chiolini, e negli occhi le palpebre, e le tuniche, e tutto ciò, ch’ad occhio ben compoſto per rimirar fi conviene; e nel capo è anche loro il cervello, le glandole, le membrane ', ei ſottiliſſiminerbolini; da' quali il poco ſugo nutritivo al rimanente del corpicciuolo ti dirama, e comparte. E che dirò lo dello ſtomaco, delcuore, e d'altri fomiglianti me bricelli? che dell'offa, e delle vene, e dell'arterie, e del facco latteo, e de'vaſi acquoſi, e di cotante altre menomif fime particelle, chente, e quali a ben fornito corpo ſi ri chieggiono? e che delle loro piccioliſſime anime, le quali anch'elle nel reggimento tutto del corpo dimorano, e ri fvegliano i ſentimenti, e fá chc muovano i membriceili alle fue opazioni:e céto, emillaltri maraviglioſi effetti in quel lo adoperano?Ma ſopra tutto è da por menteal loro indu ftrioro ingegno; e per non dire al preſente dell'api, è da maravigliar ſommamente dell'induſtre, e faticoſa formica, Che'l vitto onde fi pafca alfreddo verno Ripon la ſtate, ebenchè lunge ancora Sian difagion moleſta i giorni algenti, Neghittofa non ceffa,e non s'allenta La negra turba,, anzi ſe freſsa avvezza Ne le fatiche, e per gli adufti campi Fervel'opra nonmen, che l'ore,e'lgiorno, Fin ch’abbia ne fuoi ſpecchiil gran ripoſto. E avendo forſe quella per pruova appreſo effer la ſementa, onde poſcia germoglian le piáte, no altro, che le piáteme de lime dentro della buccia raccolte, e riſtrette, per ceſſar l'aſprezza del verno: come apertamente col microſcopio noiveggiamo: avvedutamente per non farle ſorgere a più piacevol ftagione Ela con l'unghie propie, incide, eſega I carifratti, e inumiditi al ſole Gli aſciuga, e ſecca, el bel tempo fereno Spiando già prevede i lieti giorni. Talche quand'ella i grani a'raggi eſpone Pioggia nonſtilla da lofcure nubi, Ediſerenità l'indicio è certo. Quinci ripor ne le ſuecelle anguſte L'aſciutta meffe, e poi la ſerba, e parte Cuſtode, e diſpenziera. E’ntenta a l'opre E nonfol mentre ilſoleaccende icampi, Ma le fatiche ſuenotturne ancora Dal Ciel rimira la rotonda luna: E quelle più ſerene, e calde nutti Tolte al dolce ripoſo, al queto ſonno Aggiugneal travagliar continuo, e lungo. Ne è da traſandare ciò che delle formiche oervò Clea te. Vide egli un giorno alquáte formichetrar dal lor for micajo il cadavero d'una formica, e portarlo a un'altro vi cin formicajo; e quivi giunte uſcirne;come chiamate,alerc formiche, e andar loro incontro, e accontarſi quaſi ragio nando di lor bifogne; e indi a poco ritornarſene quelle ch? erano uſcite nella lor buca, e di nuovo quindiriuſcire,e ri trovar le foreſtiere,come rientrate foffero nella buca a re car l'imbaſciata di quelle alle lor compagne; è conſiglia teſi del cadavere della lor compagna foſfer poi ritornate a patteggiarne la riſcoſſa: e ciò due, o tre fiate facendo, alla fine dopo cotante aggirare, quaſi eſſendo di convegna de loro piaci, andaronoalla buca, e fi recarono loro un verme per taglia della morta fórmica, il qual prendendoli quelle di fuora, e laſciando il patteggiato cadavere, n'andar via; ed elle raddoſsãdoſi il cadavere ritornarono nella lor tana, quaſi per dover quello ſotterrare. Néminormaraviglia è ciò che Io un giorno fattomi per diporto ad una fineſtra di mia cafi oſſervai. Era in quella una formica, la qual ripoſtali in guato, non altrimenti, chei'ragnuoli ſi faccia no, preſe per lo piede unamoſca, la qual forte dibatten dofi, e ſcooendoſi, indarno di fuggir slargomentava; ma pur la piccioliſſima formica non potendo portarſela, o uc ciderlai, ſtrettamente fiffa la riteneva, fiache giuntavi a ca Mmmm 2 ſo un'altra formica partiffi.di preſente, e ricornò con alire formiche a condurli a forza la prcda dentro dal lor formi cajo. Ma perchène G faccia maggiorméte manifeſto,qua to ſtolta fia ', cd'irragionevole la menzionata opinione d'E picuro,e quanto fia grave l'ingiuria, che per quella vien fatta all'autore dellanatura, egli ne fameâiere,che alqua to più di ciò, che per avventura abbiſognerebbe in diſami narla c'intertegniamo. Dico adunque, che una ſoſtanza fia quella, onde cotanti aſpetti, e sì diverſe ſembianze di coſe n'appajono in queſto gran Teatro dell'univerſo, eſle re egli ſtato parere, in cui non pur Democrico ed Epicu ro:mailmedeſimo Ariſtotele (il qual più,.chalari fa ve duta diportarne contrariaopinione,dicomun conſentimé to convengono. E tanto par che coſtui voleſse dire colà: nell'ottavo libro della metafiſica: ove feriſse eſsere una, medefima coſa l'ultima materia, e laforma; e fimilmente non eſser differenci nelfubbietto la materiais e la privazio. ne(del chc.a torto altrove egliavevaripigliato Platone ) e che ſolo l'incelletto fra:cſso lor le diſtinguaje nel ſecondo della fiſica; ſcrivendo, che la forma non maipoſsa dalla, materia fceverarfi, ſe non ſe in mente noftra,ficome a niū modo può fepararſi la ſchiacciatura dal naſo;:e nel ſecon do dell'anima: ove avvifa vano eſsere l'inveſtigar, ſe l'ani ma ſia altra cofa dakcorpo diverſa;ſicome non è da elami. nare, fe la figura, che imprende la cera, fia da quella di itinaa. E finalıncnte il medeſimo par che confermis quan do ſpeſso ſpeſso va affermando, la forma eſser quiddità della coſa; che a ſua favella vuol dire la formaeſser perfe zione dellamateria,la qualiove capace diperfezione,mām. deria s'appella:ovegià perfetta conſideriſi,forma:fi-dice. Ne altriméti in verità creder poteva: chiin Dio, nelibertà, ne cnnipotenza riconoſceva;ondepotuto aveſse dal niente criando le forme (le quali ſe-veramente altro foſser, che ka materia, folla creationepotrebbe dar loro Peſsere, che che in contrario nedicano i peripatetici ) e afuo talento la materia informarne. -Mache queſta ſoſtanza, di cui ragioniamo,altro,non ſia che corpo inminutisme particelle di grandezza, difigura; di fito, di moto, e d'ordine diverſe,sbriciolaco', e diviſo, fuinſegnamêto che da Fenicjappreſero i primi Greci filor fofanti scomechè Democrico, più ch'altri, in primachia ramente diviſato l'aveſse. Maqueſta ſentenza medefima ne fa vedere eſserci ne ceſsario un'infinita onnipotenza, e ſapienza valevole a dir ſporre, e ordinare in tante guiſe, e comunicare ivarſ mo vimenti alla già dettämateria. E ciò ben conobbe da pri ma, per quel ch’lo ſappia, il fapientiflimo Greco Filolo. fante Talete Milefio; e confeſsollo manifeftamente, di cendo appreſso Cicerone: Aquam efse initium rerum:Derim autem eam mentem, quæ ex aqua cuneta fingerei. E da lui l'appreſero poi Ippone, e Ippia,.e cotant'altri antichi filo fofi, i quali tutti concordevolmente giudicarono eſserci unamentc,o una fapienza infinitajlaqualpartédo,e fceve rando queſta maſsa comune, e ordinandola, c movendola, doveſse cambiarla in cotante guiſe, quali noiveggiamo.E cotalmente vollè anche il grande Anafsagora, che dalla materia lua ſimilare, comedicono g.componcise ciaſcunai coſa del mondo: comcchè a torto poinefoſse egliprover biato, e biaſimato oltremodo da Ariſtotele, cola ove diſ ſe, ch’Anaſsagora d'un sè fatto ritrovato ſi foſse voluto: ſcioccamente ſervire, per dar ragione dell'apparenze nas turali: non altrimenti, che ſervir fi fogliono i tragici Poc tidelle loro machine piſciorre i nodi più inviluppati del le favole; edelimedeſimo ſentimento di Talete furonoan che Platone, o Timeo'; ed è da credere pure, che dal fon datore dell'Italiana filoſofia, Pittagora, e damolt’altri fa * mofi,.e ſaggj filoſofanti ſtata foſse in prima inſegnata. Ma però tutti i sì fatti filoſofanti ad un tratto ſtrabocchevol mente fallarono in negando oftinatamente eſser cotal fox ftanza uſcita dalle mani onnipotenti dell'Eterno Fattore, dicendo eſser quella ſempremaiſtata ererna. E forſe non guari illoro errore fu avāzato da quel d'Epicuro,o di De mocrito;i quali ciò checoloro alla mente operatrice afcrifo ſero, attribuirono al caſo; imperocchè la divina, ed eter 1 li e ne be 12 2 na onnipotenza eltimarono deboliífimo artefice cheſol yao leſſe della già eliftéte materia varie machinazioni formar ne; e così attribuendole il poco: ilmolto, anzi il tutto negaronle, com'è il poter criare dal niente; perchè dicono follemente, che'l ſovrano Facitore in fabbricando il mon do, tutta la materia nell'opera conſumaſſe; e quinci avve niſſe poi, che un ſolo e'ne formafle. Ma ritornando ad Epicuro: non ci dee rucar maraviglia, s'egli sì ſconciarné te dell'onnipotenzadel grande Iddio favellaffe; imperoc chè egli nonmeno ſciocco, che empio, immagino Iddio eſſer un'animale di ſembiante umano, come quello, ch'è più bello di tutt'altri;ma nondimeno ſtimò noneſſer Iddio corpo altrimenti, ina quafi corpo: ne aver Iddio ſangue, maquaſiſangue: Dice Epicuro,oltre a ciò, che gli Dii ſian vaghi, adorni, e riſplendenti, e che le membra fieno umane; ma chenon abbian però uficio niuno; e che l'al bergo degli Diilia in quello ſpazio, che vuoto rimane in fra que’tanti, e tantimondi per luifognati. Toglie affat to Epicuro empiainente poi la giuſtizia,e la provedenza di vina; e afferma, che Iddio non cura punto di Noi, Nec bene pro meritis capitur,nec tangitur.ira; i ! e riinettendo Epicuro il tutto nelle mani della volubile, ei cieca fortuna,con iſcioccaggine, e ſcempiezza eſtrema le attribuiſce De la terra, e del Ciel lo ſcettro,e'l regno. Ma'laſciando di più diviſar di queſte, e d'altre fimili em piczze d'Epicuro, ad ogn’un conoſciute: Io non ſo per me. come difender mai fi poſſa di’kuoi ſeguaci ciò che Epicuro dice de'ſuoi atoini, chenon poffin dividerſi'; imperocchè, quantunqué menomiſfimi; oltre adogni umana credenzali concepiſcano, ben potranno dividerſi da uno, o da più ato mi, ch'a guiſa di piramide acuti, meno di loro piccioli fia no; ne fa punto luogo il dire, che non avendo nell'atomo vuoto alcuno, 110'l poſſan penetrare altri atomi, ne fender lo, ne dividerlo in parti;concioſliecofachè:ben potrà quell atomo, chefendere, e partire ilvoglia, con replicati colpi a poco a poco penetrarlo, e dividerlo, ma ſi può creder 1 1 1 1 impertanto, che ſia queſta una quiſtione vana, e che o no mai; o rariſſime fiate avvenir poffa, che un'atomo per al tro ſi fenda, e ſi divida; concioſſiecoſachè quantunque li tenti di fare la diviſione di qualche atomo, che in corpo faldo ſi trovi, non potendo'effer maiqueiľatomoaffatto có gli altri atomi avviticchiato, e congiunto, ſicome a chiun quedirittamente ragguarda la cofa, egli è manifeſto: gli riuſcirà aſſai più agevole in ricevendo i colpi cedere, e diſ giugnerſi dagli altri atomi compagni, a fe vicini, che'l romperhi.S'argomenta eſſer vero ciò che lo immagino,dal vedere, che alcuni corpi faldiſfimi ſi ritrovano, i quali per qualunque forza, che l'arte, o la natura viadoperi, non ſi pofſon giammai in altri cambiare; il che altronde certamé te naſcer eglinon puote, fe no ſe dall'eſſer que’corpicciuo li tutti, che gli compongono nella figura, e'nella grandez Za non guari diſſimili infra effo loro, e dal non venir que gli mai rotti, e in particelle diviſi. Ma non mi par, che lo clebba logorar il tempo in rifiutar l'opinione del Vacuod Epicuro, apertamente perognuno ifcorgendofi falfa; co mechè valentiſſimi filoſofi cerchino pure farla apparer vera; poichè per tacer altri imbratti, concedendoſi ilva. cuo,converrebbe, cheli toccaſſero, e non fi toccaſſero l'u nos e Paltro di que'corpi,infra’quali fi fingeffe inframmeſ fo il vuoto. Oltre a queſto, fe infiniti gli atomiſono, ſe condo Epicuro: faran ſenza fallo ripieni di corpi tutti gli fpazj;ne vi avrà ſpazio vuoto alcuno nell'univerſo; in cui, comechè iinmenfo egli il faccia: Io non veggio lo, come infiniti corpi, e ſpazio vuoto infinito immaginar mai poteſ fe Epicuro. Ma non in ciò ſolamente fallar ſi vede Epicuro: maal tri, e altri errori ancor egli commettc;infra i quali mi par certamente degno oltremodo da ridere quel, ch'egli,non già per aver troppo creduto a’ſeñfi, come Cartefio crede, maperfuafo da troppo fievoli argomenti, afferma,poter ef ſere il ſole o tanto, o poco più, o poco meno grande di quel, ch'a noi ſi faccia vedere; ne men certamente rideyo le ſi è ciò, che Epicuro immagina della figura della terra, del -0 vo 1 i 648 Ragionamento Ottavo - del naſcimento, e aell'occaſo dellole, della luna, e dell'al tre erranti, e fiſſe ſtelle:: degli Idoli, o ſian ſimulacri, che ci s'appreſentan, ſecondo egli penſa, allorche noi veggia mo, e immaginiamo, le coſe;matroppo.tedioſo diverrei, s'ogni fallimento d'Epicuro voleffi lo quì riferire: maſſi mamentequei, ne qualierrò egli inſiemecon gli altri filo fofanti della Grecia; perchè ragionevolmente forſe dir di tutti fi potrebbe ciò che d’Ariftotele, e di Platone dicea S. Giuſtino, con quelle parole: ſe l'invenzione della veri sà, come d'accordo ciaſcua vuole, è ilfine della filoſofia, Io non lo come coſtoro, i quali nonebber niuna-contezza della verità, fi debban veramente chiamarfiloſofi.E ragio nevolmente ancora S. Clemente d'Aleſſandria afferma che la greca filoſofia, a riſchio, e per ventura, come alcuni vogliono, ſuole rinvenir la verità; e ſe pur talvolta la ritro va:allora pur la prende lievemente, e alla sfuggita,ſenza troppo minutamenteconſiderarla; e come altri poicredo no, crae ella ſua origine dal Diavolo; edopo altri biafimi, conchiude egli alla fine, efſer tutti rubaidi,e huomini ſcel leratiſſimi coloro, i quali appo i Grecicol nome di filoſo fanti ſi chiamavano. Ma certamente troppo a lungo, e più diquel,che al fi 1o del noſtro ragionamento forſe conveniva ſon traſcorſo a favellar dell'antiche filoſofie;ma non ſi dee impertanto pe rò inutile, e ſoverchio ciò reputare; poichè un de' più ma lagevoli,e de'meno forſe conoſciuti impedimenti,ch’abbia arreſtato il corſo della filoſofia, Ga ſtato quello dell'averſe fatto a credere gli huomini, chei greci filoſofiaveſſero fco perto, e compreſo tutto ciò, chenel vaſtiſlimo reame del la natura ſcoprire, ecomprender li yola per intendimento umano; ne per aloro certa.nente, che per una tal folle cre denza egli è avvenuto,che quel tempo,checertaméte ſpé dercucco di dovea in inveſtigar con eſperienze, e con ragio ni le coſe naturali, fi fia vanamente ſpeſoin andar cercan do quali ſiano ſtati iveri ſentimenci, o di queſto,o di quel to zuore; perchè dicea il Signor di Montagna: car les opin mions des bommes font, recevesà la fuitte des creances an ciennes, par authoritè, &à credit, commeſi c'eſtoit religion Lloy.On reçoit comme unjargon ce qui eneſtcommunement tenu:on reçoit cette veritè, avec tout for baſtiment, de ato telage d'arguments, odepreuves, comme un corps ferme; ſolide, qu'on n'esbranle plus, qu'on ne juge plus. Au contraire, chacun à qui mieuxmieux, va plaſtrani, &con fortant cette creance receuë, de tout ce que peut fa raiſon in qui eft un útilſoupple, contournable, & accommodableà tous te figure. Ainf je remplit le monde, feconfit enfadeze; den menfogne. Ce qui faict qu'on ne doubte de guere des choſes, c'eſt que les comunes impreſſions onne les efl ayeja mais, on n ' en fondepoint lepied, où gitlafaute, älafois bleſſe: on ne debat, que ſur les branches: onne demande pas fi cela eſt vray, mais s'il a eſte cinſin ou ainfin entendu E quinci derivar anche ſuole quella gran malagevolez za avviſata da Galieno, la quale ſi ſperimenta da chiun que vuoi ritrarre i ciechi parteggianti dal torto loro, e fal hace camino; e nel vero cotanto danno apportar fogliono le falſe apprefe opinioni, che eziandio a coloro, che mene daci han ſcoverti, e ravviſati gli autori di quelle,non per mettontalora, che fiyantaggin nella buona filoſofia s co me apertamente ſcorger ſi puote in Pier Ramo, ed in al tri molti si quali, quantunque aveſsero ben conoſciute le ſconvenevolezze della filoſofia d'Ariſtotele, non poterono alla buona ſtrada giammai pervenire: ne in cotonjuno for trarſi dalla maniera del filoſofare d'Ariſtotele;ę ciò perche, çome avviſa Renato: opinionibus ejus jam imbuti fuerant in juventute, quia ea fola infcholis docentur; adeoq; illis præoc cupatusfuit ipforum animus, ut ad verorum principiorumid Hotitiam pervenire non potuerint. Anzi Ariſtotele medeſimo, leggendo i volumidegli an tichi filoſofi, concepctie alcuno di que'ſentimenti onde, inavvedutamente poi traſcorſe in cotanti crrori. Così logo gendo egli in Ocello Lucano il melc cffer dolcc,perché ca gioni in noi ſentimenti di dolcezza, tratto anch'egli dall' altrui errore, !! c a ciò punto badando, non dubitò di fer mamcareil medelino narrare, giudicando la dolcezza,co Nnnn me rute 1 650 Ragionamento Ottavo me tutt'altre qualità veramente nelle coſe, e non ne’ſenti menti confiftere. Che fe egliaveffe: avvilato, il medeſimo cibo ſenza punto dimutamento ad un palato, dolce,e foa ve: a un'altro poi amaro, e diſpiacevole parere, come la colloquintida amariſſima a noi,dolce oltremodo a’topi, e ſoave li fa ſentire: certamente egli non così improvviſo avrebbe raffermata cofa non vera; e avrebbepur dubitato, non forſe ne' cibi foſſer corali particelle, dital forma, e così ordinate, e moſſe,, che in diverſi palati, or di dol cezza, or d'amarezza faceſſer ſeinbiante. Enella medeli, ma maniera cento, e mille altre ſciocchiſſime opinionid'A. riſtotele potrei lo quì rapportare, le quali appreſe egli da. gli antichi filoſofanti. Ne ciò è maraviglia; perciocchè p iſtudio, e fatica, che vi ſi logori', non ſi poſſono così affac to sbarbicare dalla mentei già allignati ſentimenti,e ban deggiargli affatto che non ritornino talvolta, quando men ſi temano. Cosi avvien appunto ad una botte, o altro va ſo guaſto putente di vin ravvolto', o -inagrito, la quale av vegnachè forte fi’rada, eſilavi: non però dimeno non ſi puòella cotanto per diligenza purgare', che non ne prenda anche il nuovo vin',che vi ſi pone, e dibreve anch'egli non dia la volta, concioſliecoſachè quantunque bennetto, e forbito fipaja ilvalo', pur ne'ſuoi pori minutiſſime particel te ancora ſi naſcondono, le quali ſpiccatene da quelle del nuovo vino, o altro ſomigliante liquore, che vi ſi pone, trameſtandofi loro, agevolmente vi nuotano per entro, per opera della fermentazione poi creſcono",intanto, che infra brieve ſpazio di tempo tutto il corrompono. Così avvenir ſuole nell'anima,la quale priva, e ſpogliata affat to delle antiche notizic,da ſe medeliina in filoſofído nuo ve notizie proccuri in luogo dell'antiche introdurre; eri porre; poichè le nuove ſpezialmente, ſea ciò ſpinte ſono da quelmovimento, chenello ſpeculare neceſſariamente ſi fa, eccitano, per qualche ſomiglianza, che è tra loro, alcuna dell'antiche, che a caſo rimaſta, ma celata viftia; dalla quale poi sēzamolta malagevolezza infecte elle ne riman gono. E comechè ciò baſtantemente, per quel ch'Io micredaj a ciaſcun lia manifeſto, pur d'avantaggio ne può eſſer chiar ro per ciò, che nella memoria artificiale fortir ne ſuole Sogliono coloro, che all'arte,veramente maraviglioſa del ricordarſi ſtudioſamente intédono,d'alcuniſpeziali luoghi valerſi quali ſiá loro sépre ſenza fatica niuna nella memo ria, come uſati, e domeſticiaffai, e oltre a ciò ſiano in qualche guiſa ſomiglianti, o uguali alle coſe che ſi voglio no ricordare; acciocchè quando poi fia meſtieri, nel fuo proprio luogociaſcuna coſa appiccata, dipreſente rinven gano; e le coſe già alla memoria preſenti,loro facciano ve nire avanti le lontane. Delche certamente ne fa manifeſta pruovà ciò che ſovente noi ſperimentiamo; che in ragio nando d'arca, o di forziere, che in noſtra caſa ſia, ne fov viene tolto di libro, o di veſtimento,o d'altra coſa ripoſtavi; eda divifamenti de palagj,o delle terre, ſubito ne ſi rap preſentan coloro, ch’ividimorano, o che da prima gli fab bricarono, o che un tempo ancor vi ſono dimorati: Cosi anche un'amico né fa rimcmbrar d'altro amico: e anche de nimici di ciaſcuno, io nominandolo ne ſovviene. Perchè al noſtro amorofo M.Franceſco Petrarca, il ſolomovimé. to dell'aura, dolcemente faceva venire avanti madonna Laura, eltempo ch'e' da primamirandola ſe n'innamoro: L'aura ferens, che fra verdi fronde Mormorando a ferir nel volto viemme Fammiriſouvenirquard'amor diemme Le prime piaghe sì dolci je profonde; E'l bel viſo veder, ch'altri m'aſconde, Che ſdeguo, o geloſia celato temme. Ma veggio, e per avventura con qualchevoftra noja eſ. fermi troppo dilungato in ragionando, e affai più certamë te di quel, cheaveva lo già propoſto di fare; non per tan to prima d'imporre a’miei ragionamenti fine, mi convienu tirar la coſa un poco più avanti. Dico adunque, che non giová punto,cheſieno ben inteſi gli fcolariin filoſofia » in chimica, in medicina, e in tutte altre coſe, che diſopra diviſammo al medico far meltieri, ſe finiti i loro ſtudi egli Nnnn: 2 no per 052 Ragionamento Ottavo ao per convenevole ſpazio di tempo non ufino qualche ſpedale, con por mente ivi alle malattie, e alle maniere, che vengon tenute nel medicarle; e qual pro,e qual danno ricevan daʼmedicamentiglinfermi; ed egli è coſa nel vero queſta così rilevante, che non ſi dovrebbe certamente co ventar mai fcolare, il quale con fedi autentiche, e con te ſtimonj non provaſſe aver lui in ciò fare tutta la ſua indu ftria, e diligenza adoperata. Sidovrebbe oltre a ciò prima di conventarlo ftrettaméte eſaminar lo ſcolare per limae ftri delle ſcuole, a ciò deſtinati, in tutte le coſe all'arte ap partenenti, e ſpezialmente nella chimica; la qual cotanto dicemmo effer a' medici neceſſaria, e di tanto riſchio a co loro, chepienamente non la poſſeggono; e a ciò certamen te con ogni rigore, ligati con facramenti, econ pene do vrebbono intendere imaeſtri,oltrea queſto de coſtumian cora dello fcolare converrebbe, che minutamente fi ricer caſſe, acciò per ogni capo s'eleggeſſero medici, quali gli abbiam noi giuſta ogninoſtra pofſa al prefente diviſati; e sì forfe per innanzi cefferebbono, quanto l'incertezza di co tal meſtiere comporta, i fallimenti de'medici: e'l co mune in qualche parte ſe ne riſtorerebbe; ne da altro cer tamente naſce, ſe non fe dal non uſarhi queſte diligenze nell'accademie, allor che vi ficonventáno gli ſcolari, che così fortemente vengano elleno talora biaſimate:approba jiones,dice il Primeroſio, fapienterà majoribus inftitutæ,ele gantes ſunt quidem, & neceffaria, fed deberent diligentius obſervari. At jam omnia negliguntur, nam quibuslibet guantumvis ſeiolis gradus exbibetur doctoratus unde ft, utex quibuſdam Academiisredeant ductores parum da fti, nihil minus, quam apti ad medicinam, aut docendam, aut faciendam. Ne perciò giudico lo convenevole, come alcuni vogliono, che i medici giovani, ſpezialmente que', che in Salerno furono conventati, fian di nuovo daeſami nare; imperciocchè baſtar dee quell'eſaminazione, allas quale eſli foggiacquero prima d'eſser conventati, accioc chè fenz'altra pruova tare del lor ſapere poſsano per innan zi liberamente medicare. Nealoriinenti volle il Re Rug gieci Normanno, ove per legge comandò non poterſi il pericoloſo meſtier della medicina uſare ſenza ſpezial lice za de' regjminiſtri a ciò deſtinati; e l'Imperador Federi go pur v'aggiunfo, chei medici del ragguirdevol Colle gio diSalerno doveſſero effer teſtiinong, che colui, che aw medicare inprenda, da tanto ſia; perciocchè parlando de gli Impirici, folamente i conventati manifeſtamente ne ri ferbarono; ne vollono eſſere da eſaminar coloro, a’quali la cura d'efaninare altrui era per lor commeſſa. Così An drea d'Iſernia ſpiegando que’capitoli dice delle bollettes delle licenze: Doctor medicinæ practicabitfine literis, quia fuitexaminatus, quando fuit doctoratus, &approbatus; for cut ibi diximus de Advocatis.. E Matteo degli Afflitti. pa. rimente dice efferſi ciò mai fempre oſſervato, che iconvé tati di Napoli, o di Salerno fenz'altra bolletta, per tutto il noſtro Regno, poſlan liberamente andarmedicando:ne altrimenti effer mai avvenuto: eft fciendum,dice l’Afflitti, quod à tanto tempore, in cujus contrarium memoria hominio non-exiſtit,nunquam fuit fervatum, quod magiftri medicine approbati in Collegio medicorum Salerni, vel Neapolis ha beat quarere literas Officialium Regis, vellicentiam à Rege, vel vicerege medieandi in Regno. Perchè ſarebbe molto ſco cio il mādarſi ciò avanti; e larebbe certamente un togliere l'autorità a'noftri Collegj di più conventar perſona in me dicina; cioè a dire, di dar licenza di liberamente me dicare; ſenzachè non ſapreiIo certamente, quali medici farebbon da eſaminare; perciocchè egualmente i giovani, ei vecchi, anzi maggiormente nel vero i vecchj ne han data cagione di farne richiedere a parlamento. Ma come potrebbon le ſecrete eſaminazioni a buó fine giammai riu. fcire, fe per averle conoſciute ſcempie ', e manchevoli, i Principi, e le Comunità ne’loro reggimenti han,, per mio avviſo le pubbliche eſaminazioniinſtituite. Sogliono re carſi per eſemplo coloro, che queſta novella eſaminazione de’mediciintrodur vogliono, i legiſti; i quali da non mol to tempo in qua ſogliono eſſer eſaminati, quantunque co ventati:maben dovrebbono avvertire, che gli Avvocati non mai vollono ſoggiacere atale eſaminamento: eleggendo anzi d'abbadonare il meſtiere, quátūquel'eſaminazione aveſse a farſi da'ſupremi miniſtri, e in alfai orrevol maniera; e fol rimaſe,che coloro ragionevolméte nel vero vi foggia ceffero, a'quali, o alcun governo, o altro onore s’aggiu gneſſc. Ne mégiudico Io ragionevole quel diviſo di dover eſa minarſi almeno i noſtri medici in Chiinica; da che la Chi mica cotanto neceſſaria alla medicina eſfer narramıno;per ciocchè da cotali eſaminazioni grandi ſconcj certamen te al noſtro comun ne feguirebbono, per molte, e mol te cagioni, le quali lo taccio al preſente per eſſer ciò ba ftantemente, a ciaſcun manifeſto; ſenzachè i vecchj anco ra, anzi con maggior ragione, che i giovani, farebbon da eſaminare; richiedendoſi.comunemente a ciaſcun medico la chimica, ed eſsendo aſſai meglio i giovani, che i vecchi medici inteſi di quella. Ma de’volgari impirici farebbe da prendere, ſe pur si potesse, strettiſſima cura, acciocchè per lordappocaggine al cun nocimento al noſtro comune non ſiegua; e comechè intorno a coſtoro baſtantemente di ſopra la detto, pure fi dee por mente a ciò ch'avviſa Galieno, allor ch'eglidice, che il curar qualunque, avvegnachè leggeriſſimomale, d' altri non ſia, ſe non ſe ſolamente di coloro, i quali di tutta la medicina pienamente fian inteſi; concioſliecorachè uns male foglia ſovente con altro male eſſer congiunto; e ſo glian talora, o per.cagion delle medicine, o peraltro sì fat to accidente ſopragiugnere: cheda colui, ch'un ſol medi camento ſappia, non ſi poſſa dar compenſo. Oltre a que fto, nel conoſcerſi delle malattie, aſai ſovente glimpirici s'ingannano: togliendo in cambio ſcioccamente una per al tra, e contrarj rimed, talora imponiendo; nella qual mala ventura, comedicemmo, cadono talora, anche i più ſcie ziati medici per la dubbiezzade'ſegnali. Perchè ſarebbe certamente il migliore victar a coteſti volgari Empirici il medicare;e miglior séza fallo ſarebbe ſtato il provvedime to del Senato di Parigi, fe del tutto aveſſe agli Empirici il medicar proibito, e non permeſſo loro il farlo lol coll'ap prova poter mc provagione,e licenza de’dotti medici;ed ebbe il torto di la gnarſi di loro Anneo Roberto dicendo, che all’onta di tut te le proibizioni eglino il capo alzaſſero; imperciocchè no mai aſſolutaméte allo incotro furon: proibiti,ſë ſotto condi. zion ſi permiſero,perchè daʼmedicijnõoſtante il gran male, ch'ei fanno di leggieri ottengono la licenza del dicarc. Ma tacer non fi dec ciò, che degl'impirici racconta Giacomo Silvio: in montepeſſulano's clarifima, & antia quiſſima medicinæ academia, fi quis borum nebulonum feme: dicummentiatur, mox raptus in afinumftrigofum, fiin venitur fcabidum, ſublimistollitur, averfus, urbe tota cir. cumducitur,Scommatisundique incefitur, conſpuitur,pulfa; tur, laceratur, fordibusomnis generis conſpurcatur; ceu olim Sacra illa mafilienfium vittima:poftremo expiata urbe ejici tur, illuc nunquam rediturus, niſi malo ſuomaximo. Magià baſtantemente ſecondo noſtra possa avendo de medici ragionato, trapaſſeremo a diviſare al preſente de gli Speziali,i quali debbon lavorare i medicamenti; maffia mamente chimici; il quale fu il ſecondo capo, onde mofle il noſtro ragionamento. Veggiam dunque brevemente, quali coſe, e quante abbiſognino a colui che voglia van taggiarſi in sìnobilmeſtiere. Immagina il volgo, che age volitima faccenda fia a ſaper fabbricare imedicaméti; per chè in man di perſone di poco ſapere, edipoca licva ado perar ſi rimira. Mio quanto di lungo certamente coſtoro ingannati ci vivono! imperciocchè atal meſtier richiedonſi poco men, che tutte altre códizioni,ch'a coloro ſon d'huo po ) che il rimanente tutto della medicina apparar bene, e lodevolmente intendono; e ciò ſenza, che lo troppa fati ca vi duri, agevolmente ſi può comprendere per coloro che alle biſogne tutte d'una cotalarte fiſamente riguardano. Ma concioſliecolachè i guaſti, e biaſimevoli coſtumi del ſe colo ciò non comportino ', dovrebbe almen chi deſidera una tanta impreſa leguire,oltre alla ſua natura, e a'genero fi, c lodevolicoſtumi,eſſer mezzanamente, per tacer dell' Araba, almeno della latina, c della greca lingua inteſo, per dover poi intendere i varj, e diverſi ſcrittori, che nell' una, e nell'altra lingua materie a ciò appartenenti deſcri vono. Appresso egliè dimeſtieri aver continuo tra le ma ni pronta, e apparecchiata la conoſcenza, non folamente di que’vegetabili,o minerali, o animali, che maneggiar fo vente coſtuma, ma di quelli ancora, che nelle ſtrane, enon ordinarie compoſizioni de’medicamenti gli poteſſero tale ra dal medico venirimpofte. Dovrebbe oltre a ciò eſler pienamente informato degli ſtrumenti tutti, e ordigni dell' arte, e delle convenenze, e proporzioni ancora, che alcu ni di quelli han co’ſemplici, de' quali egli nel ſuo lavorio ſervir li dee. Ma ſopra tutto convien, che la propietà, e la natura del fuoco egli perfettamente ſappia; acciocchè poi comprender appieno,e ravviſar poſſa quelle alterazio ni, che indi le medicinali compoſizioni ricever fogliano; alla qual coſa certamente aggiugner non potrà colui, che non prenderà per guida, e per iſcorta la Chimica; ſenza la quale Io non veggio, come bene, e lodevolmente per huố li poſſa un sì malagevole meſticre adoperare; ſenzachè migliore aſſai, e di maggior giovamento all'uman genere farebbe, ficome altrove abbiam detro, ſe da ſoli medici i medicamenti li lavoraffero; perciocchè, quanto a me, lo non ſo a niyn modo comprendere, comemai perfettamen te fabbricargli colui poſsa, il qual non abbia in prima le manicre tutte del loro operare con gli occhj propi piena mente conoſciure. Perchè dovrebbono finalmente gli ſpe ziali, oltre alle ſopradetre coſe, avere in prima tanto qua to ſtudiato in medicina, ed in qualche ſpedale co ' pro pj occhj all' operazioni de’medicamenti riguardato. E ſcorgendofi omai in tutte botteghe di ſpeziali aver non poca quantità di chimici medicamenti, non ſi dovrà più avanti dubitare, convenir lo ſpeziale almen per queſto ca po eſser della Chimiea baftevolmente inteſo, e ſperto, In quanto alle Chimiche medicine poi, comcchè per noi fia ſtato di ſopra baſtantemente raffermato, che il fabbri. carle propiamente appartenga a medici; non però di meno da cheimedici, o non vogliono per lor tracoranza, o non fanno, o non poſsono invilupparvili,lo aſsai ben giudiche ici, rei, ch' a' ſoli speziali, e a tali, quali noi diviſamino ſe ne commetteſse ſtrettamente la cura; ne altra privata perſoni s'inframmetteſse di lavorarne alcuna; male compoſizioni de'più pericoloſi, e rilevanti medicamenti, o da medici lo li, come dicemmo lavorar ſi dovrebbero, o almen dagli ſpeziali in preſenza de'medici. Ne è da dir con alcuni, po terſi alle ſconvenevolezze tutte ripararare colla ſola eſa minazione, che delle medicine chimiche fi' faceſse allor che ſiviſitano, come dir ſi ſuole, le ſpezierie; concioffie coſachè vana ſenza dubbio, e inutile cotal eſaminazione riuſcircbhe: per non poterſi mai, per ſogno niuno, lorvir tù, e lor forza baſtantemente avviſare. Echi mai ne' bof foli delle botteghe, la bontà, e finezza del mercurio di vi ta, dell'antimonio diaforetico, delbelzoardico minerale, e d'altri, e d'altri sì fatti medicamenti d'odore, e di ſapore affatto privi,per pruova de’ſentimenti avviſar mai ſapreb be, e l'eccellenza, e la perfezione ridirne, ſenza eſsey irl prima cgli ſtato preſente al lor lavorio E tanto queſta ma iagevolezza dell'indovinare i chimici medicamenti anche per li macſtri di quelli è grande, che cziandio de'più me nomi,e comunalinon ſi può nulla di certo fovétemente di viſare; ſicome que'ſali, che fiffi diconſi ci danno apertamen te a divedere; imperocchè i fali fiſi, per nulla dire del fa pore, che in tutti il medeſinio appare,ne alle varie manie re, chcin criſtallizandofi, per valermi d'una parola dell' arte, ſoglion figurarſi: ne a' varj colori,de'quali veſtono il precipitato colcotare, ne ad altro ſegnale può niuno macſtro, comęchè ſperto, e ſaggio in chimica, certamente ravviſare, e ſicuramente de terminare di qual pianta, di qual animale ſieno; conciofficcofachè parecchj ſali di diverliſt me piante fra eſſo loro,prender ſogliano in criſtallizandoſi la medeſima figura, e del color medeſimo veſtir anche ſo gliano il colcotare; ma onde ciò avvegna, non fa iuogo ora, che lo imprenda ad inveſtigare, eſſendo oltre traſcor ſo tanto co’miei ragionamenti, che mi convien riſerbare, più d'una coſa al nostro proposito appartenente, ad altra, Oooo più agiata opportunità; la quale ſe miverrà mai, come pero, diviferonne forſe pienamente, e di vantaggio in uno ſpezial libro, il quale lo ora ſto intero a comporre.  DI CAPUA, Leonardo   Nacque a Bagnoli Irpino (prov. Avellino) il 10 ag. 1617, da famiglia agiata. Nella sua Vita di Lionardo di Capoa, l'Amenta ci dice che il D. si dedicò agli studi con passione, tanto da esibire all'età di undici anni una appropriata conoscenza dei fondamenti della fede, un retto uso della retorica e dello scrivere in latino. Seguì una sua sorella a Napoli, dove frequentò la scuola dei padri della Compagnia di Gesù, studiando per sette anni filosofia e teologia. A diciotto anni si dedicò agli studi giuridici e quindi alla medicina, dei cui fondamenti classici si mostrerà critico precoce. A ventidue anni, carico di libri e di progetti di ricerca, fece ritorno a Bagnoli, con l'intenzione di approfondire le sue conoscenze naturali e anatomiche. Negli anni seguenti prende forma il suo pensiero critico intorno al giudizio dei sensi, all'incertezza delle cose e alla fallacia delle apparenze e quindi alla inadeguatezza del giudizio secondo ragione. Degli anni di ritiro a Bagnoli non abbiamo ulteriori notizie biografiche. L'Amenta ci riferisce di una certa attività letteraria: duemila sonetti amorosi in stile petrarchesco, composti nell'arco di tre anni; due tragedie alla maniera di G. Della Porta, Il martirio di s. Tecla e Ilmartirio di s. Caterina; alcune commedie; una favola boschereccia; infine, innumerevoli scritti in prosa, tutti andati perduti a causa di un assalto di banditi, subito dal D. in viaggio per Napoli.  Non sappiamo quando si stabilì definitivamente a Napoli. Poiché, comunque, ciò non accadde anteriormente ai primi degli anni Quaranta, si può ragionevolmente ritenere che la sua venuta a Napoli fosse incentivata dal ritorno di Tommaso Cornelio, di cui era amico, reduce da un lungo viaggio a Firenze, Bologna e Roma, dopo una lunga preparazione alla scuola galileiana e un contatto col Torricelli nonché con un ambiente favorevole al libertinismo e alla nuova scienza. Dal Cornelio, che nel '53 otterrà una cattedra di matematica e poi di medicina teoretica, il D. viene indirizzato alla ricerca scientifica nella linea segnata dal Galilei e da Cartesio. L'opzione era senz'altro a favore di quel nuovo mondo che la filosofia sperimentale sembrava introdurre all'interno di una cultura legata al passato e organizzata politicamente. Ai primi degli anni Sessanta, gli animi già possono dirsi divisi da controversie e da uno spirito polemicistico per nulla produttivo. Particolarmente ostile la medicina ufficiale nei confronti dei "moderni", essa arriverà a far sopprimere la divulgazione di un libro di S. Bartoli così come osteggerà le lezioni di chimica e la difesa di essa quale scienza fondamentale per il rinnovamento della medicina.  È il periodo della lettura dei grandi filosofi contemporanei di Europa, da Bacone a Galilei, a Hobbes e Cartesio. La volontà di emulare quei grandi e di fondare anche a Napoli la "nuova filosofia" condusse il D., con il Cornelio, F. D'Andrea, P. Lizzardi, G. A. Borelli ed altri, a dar vita all'Accademia degli Investiganti. Di ritorno nel 1649 da un viaggio a Roma, il Cornelio aveva portato con sé a Napoli, anche per esplicita richiesta del D., quanti più libri possibile sui nuovi orizzonti filosofico-scientifici. L'Accademia veniva fondata l'anno successivo; fu poi disciolta nel 1657 a causa della peste e poi ricostituita nel 1662 sotto la protezione di Andrea Concublet marchese d'Arena. Essa ebbe un ruolo specifico nella vita intellettuale e civile napoletana, orientata negli anni Cinquanta ad un risveglio culturale. Si tenevano rapporti letterari e scientifici con sodalizi d'Oltralpe, in particolare con la Società reale di Londra e con l'Accademia delle scienze di Parigi. Si tenevano salotti, alcuni dei quali specializzati nelle singole discipline. La casa del D. era frequentata in particolar modo da medici antigalenisti. Lo stesso Vico, da giovane, frequentò la casa del D., tanto da essere ascritto al novero degli appartenenti al partito capuistico, durante la polemica iniziata verso il 1680 intorno alla natura dell'iride tra il D. e Domenico Aulisio. Uno degli scritti che contribuì a caratterizzare l'ambito della ricerca scientifica e il clima delle controversie tra l'Accademia e la cultura tradizionale fu il Parere.  L'opera è del 1681. Con essa, affrontando il problema della filosofia naturale e razionale, il D. si proponeva di dimostrare "quanto vana, quanto priva d'ogni salda dottrina fosse la filosofia di Aristotele" (p. 94). Questo è il punto centrale della disamina critica del D., nonché il motivo primo delle future polemiche. Di esse parlò anche il Vico nella sua Autobiografia. Il Parere manifesta la esigenza di un nuovo orientamento di pensiero. Vi si dichiara di condividere le idee dei "modemi nostri filosofanti", quali Copernico e Keplero, Bruno e Galilei, Bacone, Cartesio, Gassendi, Boyle, nonché il "dottissimo Obbes". Tutti questi filosofi, stimati per la loro opposizione agli aristotelici, i quali opprimono lo spirito e la ricerca scientifica, insegnano a "sostener la filosofica verità" e a "far mostra in ogni luogo d'esser libero" (pp. 57, 59, 61). E queste rivendicazioni, peraltro giuste, sembrano essere per gli Investiganti la cosa più importante, prioritaria anche rispetto alla necessità di far luce sulla incompatibilità di pensiero tra filosofi così lontani e così entusiasticamente accolti quali un Cartesio e un Hobbes. Il che può gettare il sospetto sulle reali possibilità degli Investiganti di andare oltre una senz'altro positiva, ma poco costruttiva, operazione di rinnovamento culturale di tipo sincretistico. Nella Napoli degli anni Ottanta, quella libertà dell'indagare, aprendo la possibilità di una riflessione generale sulla vita, si traduceva, invero, anche sul piano civile, in una critica degli eccessi nell'uso del potere politico, amministrativo e culturale delle varie classi dominanti. In breve si assiste ad una radicale politicizzazione della cultura, da cui lo stesso Parere non rimase esente.  L'Amenta ci riferisce che la pubblicazione del Parere fu proibita per il suo spirito di opposizione alla corte pontificia (p. 46). In questo contesto vanno lette le Lettere apologetiche che il gesuita G. B. De Benedictis aveva scritto per confutare il Parere. La polemica avrà notevoli ripercussioni, indirettamente anche durante il "processo agli ateisti", e coinvolgerà un Valletta e un Gravina. Il D. fu difeso dalle Lettere da uno dei più rinomati e colti avvocati dell'ambiente anticurialistico e antiaristotelico: Francesco D'Andrea.  Il De Benedictis rappresentava la parte più attiva della Accademia dei Discordanti, seguaci di Aristotele. Il gesuita, nelle sue Lettere pubblicate nel 1694 con lo pseudonimo di Benedetto Aletino (il processo agli ateisti durava già da sei anni), tacciava di "libertini" e "ateisti" i seguaci della nuova filosofia con i suoi due allettamenti: la "novità" dell'opinione e la "libertà" dell'opinare (Benedetto Aletino, Lettere apologetiche in difesa della teologia scolastica e della filosofia peripatetica dedicate al Sig. D. Carlo Francesco Spinelli principe di Tarsia, Napoli 1694, pp. 256, 258, 267). Egli presentava il D. e i suoi amici, quali il D'Andrea e il Grimaldi, come giansenisti, sebbene quelli avversassero il giansenismo ed ogni rigorismo morale, oltre al fatto che solo dopo la morte del Vico il giansenismo fa la sua comparsa a Napoli, e più nella forma dell'atteggiamento antigesuitico e regalista che come dottrina teologica. Tuttavia questi erano i principali capi d'accusa rivolti al D. e ai capuisti, colpiti indirettamente attraverso i loro allievi o simpatizzanti nel processo svoltosi a Napoli tra il 1688 e il 1697 per volere della Curia di Roma.  Già nel 1671 la congregazione dell'Inquisizione aveva scritto al cardinale I. Caracciolo, arcivescovo di Napoli, per metterlo in guardia dai pericoli derivanti dalla propagazione delle idee di Cartesio. Veniva consigliato di stroncare la diffusione di quelle idee e di comunicare alla congregazione il loro apparire. Alla lettera del cardinale fece seguito a Napoli la dispersione degli Investiganti e l'isolamento di quanti sembravano aderire alle nuove idee. Sappiamo anche che nel 1685, al tempo della visita di G. Burnet a Napoli, erano rivolte al D. e ai capuisti quelle stesse accuse che, a detta del Burnet, venivano rivolte al Valletta e ai suoi seguaci, i quali erano "vus de mauvais oeil par le clergé, qui les traite d'athées et de disciples de Pomponatius" (cfr. F. Nicolini, Aspetti della vita italo-spagnuola..., Napoli 1934, p. 202). Il processo agli ateisti fu visto da molti come un processo alle stesse idee propagatesi a Napoli in favore dell'atomismo, del gassendismo, del cartesianesimo. In tal senso lo intese il Valletta, il quale vide nella opposizione al pensiero aristotelico e in una nuova riappropriazione della tradizione platonica, non esclusi Pitagora e Democrito, il mantenimento della integrità della fede stessa. Il Valletta arriverà a sostenere che la filosofia aristotelica è l'unica causa e origine di tutte le eresie, opinione che venne sostenuta anche dal Vico nella sua Historia filosofica del 1714. Le affermazioni del Valletta facevano invero da eco a quanto scriveva D. nel suo Parere: e cioè che non si vuole negare l'autorità di Aristotele, ma si esige che essa sia convalidata e suffragata dall'esperienza.  Sullo stesso piano si manterrà la Risposta del D'Andrea alle Lettere del De Benedictis: essa, infatti, difendendo il pensiero del D., si profila nell'orizzonte di una polemica intesa in senso antiscolastico e non in senso antimetafisico. Il che equivale a dire che il vero oggetto della controversia era il "metodo" dell'indagine scientifica e non i fondamenti metafisici del conoscere umano. In aperto conflitto erano non singole dottrine ma due modi di vedere opposti, inconciliabili. Ne è prova la polemica sorta, immediatamente dopo la pubblicazione del Parere, tra il D. e l'Aulisio. Il Cotugno ritiene che la polemica, tra i fautori del naturalismo e i conciliatori del meccanicismo con la teologia, indicasse in realtà un atteggiamento orientato nel senso di un moderatismo. Ad ogni modo, non si andò, nei confronti del D., oltre le confutazioni dottrinali e gli attacchi polemici; per quanto riguarda il processo agli ateisti, poi, il D. non fu coinvolto personalmente, sebbene imputati, quali un Giannelli e un De Cristofaro, sostenessero di aver appreso da lui le prime nozioni della nuova filosofia. Né gli atti conclusivi del processo intaccarono la memoria del D., morto ormai da due anni.  Il D. aveva superato già i quarant'anni di età, quando si sposò con la giovane Annamaria Orilia. Abitarono nel rione di S. Gennaro all'Olmo, nei cui libri battesimali fu registrata nel 1673 una loro figlia, morta appena nata. Nella loro casa si discuteva anche di letteratura. Il Vico, nella sua Autobiografia, confermando il giudizio dell'Amenta, ebbe a scrivere del D.: "L'eruditissinio signor Lionardo da Capova aveva rimessa la buona favella toscana in prosa, vestita tutta di grazia e di leggiadria" (p. 21).  Invero, il D. diede il suo contributo per il superamento delle forme parossistiche del marinismo esasperato, che a Napoli aveva assunto la forma di un "secentismo del secentismo". Il D. darà egli stesso il modello d'una teoria letteraria con la sua biografia storica su Andrea Cantelmo, che ben presto fu assunta come manifesto letterario dai capuisti: ritorno all'aureo toscano del Trecento e del Cinquecento, quale necessità basilare d'un retto formarsi in prosa della lingua e dello stile di uno scrittore.  Il processo agli ateisti era ancora aperto e le polemiche di certo non mitigate, quando il 17 giugno 1695, a Napoli, il D. venne a mancare. Fu sepolto nella chiesa di S. Pietro a Maiella e sulla sua tomba fu tenuto un "elogio funebre", che ne esaltò non solo la figura morale e cristiana, ma anche la statura intellettuale di maestro e di guida.  La prima e più complessa opera è senz'altro ilParere del Sig. Lionardo di Capua. Divisato in otto ragionamenti, nei quali partitamente narrandosi l'origine e il progresso della medicina, chiaramente l'incertezza della medesima si manifesta, pubblicato a Napoli nel 1681; ristampato nel 1689 a Napoli, dove vide una terza ristampa nel 1695. L'ultima edizione, accresciuta delle Lezioni intorno alla natura delle mofete, in tre tomi, in 80, fu pubblicata a Bologna nel 1714. Esso ebbe molta risonanza nella cultura del tempo; contro di esso scrisse il già ricordato De Benedictis. Muovendo dalla tesi secondo cui Aristotele ha ignorato la prova sperimentale, il D. intuisce la necessità di orientarsi verso una nuova filosofia della "mente". Invero, il D. pensa la mente come realtà connessa con il processo della natura, non allontanandosi con ciò dai ragionamenti svolti dal Cornelio nei suoi Progymnasmata physica del 1663 circa la teoria dell'etere-mente. Fondamentale è per il D. il discorso intorno agli aspetti chimici della materia e ad una implicita metafisica, inerente alla originaria forza interna alla materia, ripresa ed ampliata nelle Lezioni sulle mofete. Il punto di partenza è la questione dell'"aria", sviluppata secondo la teoria dei corpi eterei. Questa è pensata come condizione di possibili attività implicite in ogni punto dell'universo così che la stessa cartesiana "res cogitans" conosce solo in quanto sollecitata dalle "sensazioni" provocate dal movimento materiale delle cose, necessariamente ordinato in senso teleologico. Bisogna dire che il D. non riesce a separarsi del tutto dalla tradizione sensistica e vitalistica del Rinascimento. Sebbene egli affermi di affidarsi, in ultima sede, alla "prova sperimentale", la sua teoria dell'etere-mente, che soprattutto gli impedisce una piena accoglienza e comprensione di Cartesio, è profondamente radicata nella tradizione di un Telesio e d'un Bruno. Consentaneamente al modello proposto dal Cornelio, il D. ascrive molta importanza alla chimica, alle scienze sperimentali e mette al primo posto la matematica. Nel Parere egli asserisce che per essere medico bisogna prima essere filosofo, ma per essere filosofo bisogna in primo luogo sapere di "geometria" (Parere..., Bologna 1714, II, p. 73). Ilmedico, dunque, deve essere ricercatore e teorico della scienza; a causa delle incertezze della medicina, cui fa riscontro la "oscurità" della filosofia, il medico deve prepararsi in tutte le scienze. E l'"eruditissimo" D. (il Vico mise in rilievo più la sua crudizione che una qualche originalità di pensiero) rimanda alla sapienza degli antichi, i quali si accontentavano del "solo probabile" nello spiegare le cause delle realtà naturali. Invero tutto il Parere è teso a dimostrare perché la medicina debba mantenersi entro i limiti dell'esperienza e della "debole" ragione. Tuttavia il pensiero del D. trova le maggiori difficoltà proprio in ciò che costituisce il rapporto tra esperienza e ragione.  Nel 1683 il D. stampa a Napoli le Lezioni intorno alla naturadelle mofete. L'opera è introdotta da una specie di filosofia della storia, in cui è sviluppato il rapporto tra storia e scienza. Nel 1689, obbedendo ad una richiesta della regina Cristina di Svezia, il D. aggiunge al Parere i Tre ragionamenti intorno all'incertezza deimedicamenti, pubblicato a Napoli. L'opera fu ristampata con l'aggiunta di una presentazione di T. Donzelli, a Napoli, nel 1695. Del 1693 è la Vita di Andrea Cantelmo, edita a Napoli. L'opera è legata al tema dell'individuo. Vengono descritti i rapporti tra virtù e fortuna, tra storia individuale e storia naturale, tra ragione e natura.  Fonti e Bibl.: N. Amenta, Vita di Lionardo di Capoa, Venezia; G. B. Vico, Autobiografia, a cura di B. Croce, Bari, Riccio, Cenno stor. delle Accademie fiorite nella città di Napoli, in Arch. stor. per le prov. nap., Cotugno, La sorte di G. B. Vico e le polemiche scientifiche e letterarie, Bari, Nicolini, La giovinezza di G. B. Vico,  Bari, Badaloni, Introd. a G. B. Vico, Milano, Mastellone, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà del Seicento, Messina-Firenze 1965, pp. 90, 157- 176; A. Quondam, Minima dandreiana: prima ricognizione sul testo delle "risposte" di F. d'Andrea a Benedetto Aletino, in Riv. stor. ital., Osbat, L'Inquisizione a Napoli. Il processo agli ateisti, Roma, Alcesto Cilleneo (arcade). Lionardo di Capoa. Leonardo di Capua. Keywords: filosofia romana, Aristotele, filosofia, ragione debole, La Crusca, comunicazione, platone. Incertezza, investigare, gl’investigante, vestigia lustrat. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capua” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Carabellese: l’implicatura conversazionale dell’arena e la pietra -- la sabbia e la roccia – il segno – filosofia italiana – Luigi Speranza (Molfetta). Filosofo italiano. Grice: “I love Carabellese; his masterpiece is ‘the rock and the sand,’ which reminds me of Tuke’s Cornwall! – Tuke captured some dialectic on the sand and rocks, which I’m sure were common in Ostia, too, back in the day! Carabellese speaks of a ‘semiotic scandal’ so it all connects with my pragmatics of dialectics or conversation.” Studia a Napoli e Roma. Insegna a Palermo e a Roma.A partire da una critica ferrata alla dottrina cartesiana (Le obbiezioni al cartesianesimo; il metodo, l’idea, la dualita; Il circolo vizioso in Cartesio) porta a compimento studi critici su diversi autori, tra i quali spiccano Kant e  Rosmini. Elabora la dottrina dell'ontologismo critico, in cui l'essere non è mero oggetto della coscienza ma è a essa intrinseco come fondamento irriducibile, cioè essere-di-coscienza, che in ultima istanza altri non è che Dio (che, come già asseriva Vico, "è" e non "esiste").  Difese l'oggettività essenziale dell'essere e la filosofia, non come sapere specialistico trincerato, ma come operatrice per l'umanità tutta così che la coscienza filosofica esplica quella teoria che nel diversificarsi concreto della spiritualità risulta necessariamente implicita. E allora lo sforzo della filosofia non potrà mai, quindi, essere compiuto atto seppure la teoria si attui sempre in una pratica, che è l'altro termine del concreto. Insomma Carabellese difese la filosofia come ascesa teoretico-razionale a realtà teologiche, o come sentiero che volge al fondamento comune della vita politica e che alla politica rimane irriducibile. Altre opere: Critica del concreto; Il problema della filosofia da Kant a Fichte; Il problema teologico come filosofia; L'idealismo italiano; L'idea politica d'Italia; Da Cartesio a Rosmini. Fondazione storica dell'ontologismo critico. L'essere e la manifestazione. L'essere e la manifestazione: Dialettica della Forme. L'essere. Filosofo della coscienza concreta, Ravenna, Edizioni del Girasole. La sabbia e la roccia: l'ontologia critica di Pantaleo C.. Il problema dell'io in C.. Metafisica in C.. Kant e C.  Dizionario Biografico degl’italiani. Autolimitazione della metafisica critica? Momenti della recezione italiana di Fichte con particolare riferimento all'ontologismo critico di Carabellese. E anche per lui lo gnoseologismo era il fraintendimento della vera scoperta di Kant, ed era all ' origine della moderna... intesa come « scoperta » deriva quell ' approfondimento dei concetti tradizionali che il Semerari chiama « lo scandalo...seDalla filosofia intesa come « scoperta » deriva quell ' approfondimento dei concetti tradizionali che il Semerari chiama “lo scandalo linguistico,” cioè la terminologia dell ' Ontocoscienzialismo, a prima vista sconcertante. See also the important chapter " Lo scandalo linguistico, " in G. Semerari, La sabbia e la roccia. Merleau - Ponty, Sens et non - sens, Paris, Nagel; It. trans. by  Caruso, Senso e non senso, Milan, Il Saggiatore. La ontologia di C., così, si prospetta come una ontologia della coscienza assiologica e semantica, ossia come una critica antinaturalistica e antipsiscologistica dei valori e dei significati dell’essere. L’importanza del lavoro filosofico carabellesiano, secondo Semerari, consiste nell’esigenza radicale di lavorare alle radici del linguaggio filosofico, di andare al di là della storia già fatta, come scrive Semerari citando C., scendendo sino ai suoi presupposti: ciò significa portandosi al grado zero della parola per reinventare il linguaggio filosofico e le connessioni che in esso si sono stabilite lungo la sua storia, a partire dalla cosa stessa, ossia dall’essere in cui la coscienza è già implicata. Scrive Semerari: «Sotto questo riguardo non si può trascurare la convergenza con la ontologia critica di quella parte della filosofia linguistica contemporanea per la quale, al limite tra fenomenologia, esistenzialismo e analitica, porre la questione del linguaggio è portarsi al grado zero della parola, al silenzio come radice di ogni possibilità linguistica, fare giudice della critica del linguaggio, com’è stato suggestivamente detto, la ‘coscienza silenziosa’. singolari di Coscienza si costituiscono come soggetti pensanti in comunicazione tra loro. L’alterità dell’altro io presuppone l’identità dell’io che lo esperisce come altro. Reciprocamente la coscienza della propria identità egologica richiede il rapporto di alterità come intrinseco all’essere stesso dell’io. L’alterità sempre afferma chi dice io, il quale ciò dicendo, anche trascendentalmente si distingue, senza per questo separarsi assolutamente, da un chi che riconosce di fronte a sé. Con questo chi egli afferma una relazione reciproca con la quale attua l’egoità. Soggettività ed egoità pura sono sempre pura alterità. L’alterità di ciascun io è, come scrive C., «l’insondabile residuo di meità intraducibile in esperienza dell’altro. Ma questa intraducibilità, che è il limite che la meità ha nell’esperienza, non prova che l’alterità sia soltanto di esperienza e non pura, ma prova, precisamente, il contrario, e cioè che, a fondamento dell’alterità empirica, c’è l’alterità pura come schietta egoità.. Alterità e non assolutezza dell’io L’Essere di coscienza richiede la compattezza non la relazione fra Oggetto universale, Dio, e soggettività molteplice. La relazione è fra i soggetti: infatti, l’io come uno esistente, implica necessariamente l’altro, che è sempre un altro io, sottolinea C. Diversamente l’io assoluto fichtiano, dilaga nella coscienza, identificandosi con essa, riducendo l’oggettività a negazione; ma resta così l’io nella sua solitudine e, senza l’altro, cade nel nulla del non pensare. L’io fichtiano, nell’interpretazione del C., elimina gli altri io dalla coscienza, assolutizzandosi, ma in tal modo perde la meità, approdando all’Unico, che egli vede come una nuova forma di eleatismo. C. sottolinea che se non è da percorrere l’identificazione dell’io con la coscienza, tuttavia questo non conduce alla cancellazione della meità; invece, pensare l’immediata appartenenza del me all’essere di coscienza, non assolutizzando il me, apre ad intendere gli altri. Non l’annullamento del me costituisce la base per la relazione responsabile in sede etica (Lévinas), ma proprio partendo dal me, per C. si giunge agli altri come altri “di” me, esistenti nella loro singolarità, non si giunge agli altri “da” me. Il me esistente nella purezza dell’Essere di coscienza apriori di cui parla C., in primo luogo non si identifica con il corpo, in quanto quest’ultimo trova il suo limite nell’altro corpo e, più in generale nell’altra cosa: «Io, come innegabile esigenza di coscienza non sono, o se volete, non sono affatto corpo. pur mio. Ora la differenza fra me, che pur sono uno esistente, e il mio corpo, che anch’esso è uno, sta proprio (non se ne può trovar altra) nel limite, che il mio corpo trova negli altri corpi, e che io non trovo, se non voglio cadere nell’assurdo di ritenere me il mio corpo» C. rifiuta l’ipotesi materialistica, perché se l’io si identificasse con il corpo non potrebbe affermare nemmeno la propria corporeità, ossia che il corpo è suo. Nella concezione materialistica l’io si identifica con il corpo che diventa la radice dell’opposizione con gli altri. Se si realizzasse questa identificazione in realtà si avrebbe la soppressione dell’io come uno di coscienza, e anche gli altri non sarebbero più altri uno di coscienza. Il nulla del non pensare si porrebbe contraddittoriamente come l’essere. Anche la concezione spiritualistica che intende l’io come spirito finito, ha come esito la riduzione dell’io a corpo, perché sostenere la limitatezza dello spirito implica sottoporlo al limite, come il corpo, eliminando così il me. Anche se Fichte ha evitato la riduzione dell’io al corpo, non ha tuttavia salvato la meità identificando l’io con la coscienza. Infatti nell’io empirico il me è sostanzialmente ridotto a corpo, a non-io. Solo l’Io, unico, assoluto pone se stesso. In Hegel, poi, ogni residuo di meità è tolta nel Soggetto assoluto. L’io perciò è spirito infinito, ma da questo non deriva per C. che venga eliminata la distinzione dell’io dal tu nella coscienza, ossia che vengano tolti gli altri, con il rischio di tornare a Fichte. Per il filosofo italiano «togliere il limite è affermare gli altri», non annullarli; infatti, per giungere alla negazione dell’altro, o degli altri, «bisogna prima ammettere – osserva C. – che gli altri, in quanto tali, escludano l’uno di tale essere, e che l’uno esclude gli altri; bisogna cioè cominciare proprio con l’opporre ad uno gli altri dall’uno, ritenendoli diversi ed opposti a questo e cioè col presupporre che uno (io) sia la coscienza, e gli altri no, e perciò siano non io, non coscienza. Cioè bisogna cominciare col presupporre la empirica limitazione dei corpi, la quale appunto, nella identificazione di me col corpo mio, fa ritenere me, col mio corpo, coscienza e gli altri, che col loro corpo limitano il corpo mio, non coscienza». Già ne Il problema teologico come filosofia C. afferma, polemizzando con Fichte, che la molteplicità soggettiva non è semplicemente empirica, ma pura, condizione trascendentale della “concretezza”; la singolarità non è solitudine, ma relazione reciproca nel pensare, sentire, agire l’Universale/Dio. L’io esistente, singolare, è uno, e come tale è ciascuno, essenzialmente altro. «Il singolare è quell’uno, di cui si sa l’alterità, ed è perciò ogni uno, ciascuno, unusquisque. Uno che non sia ciascuno, non è uno. E, ancora più incisivamente: «Io sono altro: solo così “sum qui sum”» L’altro, spirito infinito come l’io, per C. non è esteriore, né eterogeneo rispetto al me, non si risolve in una identificazione con l’oggetto realisticamente inteso. Nell’ultimo sistema C. sostiene l’“identità” dei soggetti pensanti, portando alle estreme conseguenze la determinazione dell’omogeneità, senza però indicare come possano differenziarsi i soggetti l’uno dall’altro. Il rischio dell’annullamento dell’alterità, pur se non voluto, è evidente; infatti per spiegare il darsi della molteplicità soggettiva egli parla di alterazione, come moltiplicazione infinita riferendola però non all’uno, al soggetto, ma all’Unico, ossia all’essenza divina, al che. Tuttavia, se la moltiplicazionealterazione è riferita da C. all’Unico, non all’uno: allora l’altro, è un altro uno, ossia un altro soggetto, oppure un impossibile altro Unico? Ed essendo l’Unico non soggettivo, come possono derivarne i soggetti? In realtà possiamo muovere anche al Carabellese l’osservazione di involgersi in una sorta di circolo fra Dio e io, in quanto se da un lato Dio è la qualità infinita di cui l’io è terminazione, moltiplicazione/alterazione, nello stesso tempo a Dio, in quanto non soggettivo, sono necessari i soggetti pensanti. L’uno di cui parla C. è l’io che immediatamente si intuisce singolare, e che altrettanto immediatamente avverte l’alterità: «Uno che non sia ciascuno, non è uno», afferma eloquentemente. Egli sente il pericolo di ricondurre e ridurre la meità ad una ciascunità di identici, perdendo l’originalità e l’inconfondibilità di ciascuno nei confronti degli altri. Tuttavia per C. invece proprio il recupero dell’altro consente la realizzazione di sé. Ma, se si andasse più profondo in questo amor di me spirituale, che è, o dovrebbe essere, l’amor proprio, se si sviluppasse ciò a cui esso mi costringe, si vedrebbe, che, se io veramente voglio dare una positività a questa negazione del “non tu”, se non voglio divenire un puro e semplice “non” devo considerare me come uno tale che possa e debba riversare l’amor di me uno in altro uno, che è uno come me, cioè devo riconoscere l’unità, che sono io, nell’alterità. L’amor mio proprio, che non voglia essere soltanto amor del mio corpo, è proprio amor dell’altro. L’amor proprio spirituale non mi costringe alla assolutezza (unicità e incondizionatezza) della mia unità, ma proprio alla sua alterità: l’amore è sempre amore di altro: è la grande scoperta di Cristo. La struttura dell’essere di coscienza apriori richiede l’alterità e Dio o, in altri. termini, l’uno molteplice e l’Unico: in tal modo è la stessa struttura coscienziale a dare fondamento alla carità. L’amor proprio e l’originalità di ciascuno si afferma e realizza nella relazione e nel riconoscimento degli altri: «Io facendo dagli altri riconoscere me tra essi, e riconoscendo me come altro, non tolgo ma affermo la mia originalità». Per C. l’amor di sé ha insita l’esigenza della relazione con l’altro; solamente chi concepisce l’io come l’Unico chiuso in se stesso, privo di meità e di relazione, il solo, parla di offesa dell’amor proprio, ma in realtà non si avvede che quell’Unico non è più nemmeno soggetto. Tuttavia i problemi restano: la relazione con l’altro identico rischia di essere più un narcisistico rispecchiamento, che una vera relazione, più una sorta di moltiplicazione dell’Unico, un suo reiterarsi che il faticoso cammino del riconoscersi. Fra i soggetti nella loro purezza, per cui sono infinitamente penetrativi e interi nella loro relazione, l’identità è già data immediatamente: ma allora non si comprendono gli erramenti, le lotte e gli scontri a livello empirico. L’altro per C. è un altro me, non la negazione del me. Ineludibile il riferimento al Parmenide platonico e all’opposizione che Platone pone tra uno e altri. Per C., sulla base dell’essere di coscienza, tale opposizione non si dà; alla domanda del Socrate platonico su quel che siano gli altri, quando io sia, si può rispondere, che essi, non sono altri dall’uno ma altri uno, sono perciò altri “me”. C. individua la causa della “cacciata” degli altri dalla coscienza nella erronea identificazione della coscienza concreta con l’io: per tale scambio l’io annulla la “qualità” di cui insieme agli altri è individuazione senza esaurirla. Nello stesso tempo si annulla la “quantità” pura, restando il solo, che cade nell’assurdo di non essere né soggetto, né oggetto. L’io infinitamente aperto, illimitato, identico, intero pur se nell’essenziale relazione, di cui parla C. è apriori, non si identifica con il singolo uomo vivente, limitato nello spazio e nel tempo: essere condizionato e limitata persona dell’esperienza, presuppone essere soggetto incondizionato e illimitato nell’essere di coscienza puro. Sembra presentarsi una scissione fra il soggetto in quanto pensante e l’uomo vivente spazio-temporalmente, fra “miglior coscienza” e “coscienza empirica”, per utilizzare in chiave euristica espressioni del giovane Schopenhauer, che riflette sulla duplicità della coscienza, non facendo ancora riferimento alla volontà come principio metafisico. Però proprio il pensare, da lui inteso in senso ampio come intendere, sentire e volere che si esplicano nell’attività spirituale umana, esige il livello della purezza coscienziale. Come abbiamo visto in precedenza, per C. l’assolutizzazione della. Cfr. A. Schopenhauer, La dottrina dell’idea, antologia a cura di Mirri, Armando, Roma. dimensione spazio-temporale, ossia del limite, condurrebbe all’annullamento dell’attività spirituale umana. Il Carabellese non intende semplicemente opporre la propria concezione a quella fichtiana, ma intende condurne all’estremo le conseguenze, ipotizzando una sorta di esperimento mentale. Infatti, se l’Io si ritenesse assoluto e si arrogasse il diritto di sopprimere il tu, riducendolo soltanto a sua esperienza, allora «rimarrebbe sì, solo Io, ma solo in quanto avrebbe soppresso il tu e quindi anche l’esperienza, che egli ne ha: non ci sarebbero più i tu, che egli dovrebbe dimostrare essere soltanto io empirici: gli altri non sarebbero empirici, non ci sarebbero. Or senza i tu (altri) ci sarei ancora io (uno)?»18. In realtà, per C. c’è un'unica soluzione, che esclude la fine tragica della disputa: «Non c’è dunque altra via d’uscita da esso, se non quella che io non mi contenti di ricambiare la tuità, ma gli ricambi proprio la meità, riconosca in lui non un tu posto da me (Fichte) ma un altro io, e perciò mentre gli riconosco la meità, che egli non mi riconosce, gli contesto il diritto di trasformarsi in Io assoluto, mostrandogli che così egli sopprime se stesso come io, e nega l’assoluto facendolo, lui, sapere e parlare come Io, Dio, ossia l’Unico, non è soggetto, ma come qualità infinita, costituisce l’essenza di cui i molti soggetti sono individuazione o moltiplicazione, con tutti i problemi che ne conseguono20, compreso il possibile l’esito fichtiano. Secondo C. si può dire che «sono l’identico io proprio perché siamo due»: se fosse eliminato il tu come altro me, riducendolo ad esperienza, sarebbe eliminato anche quel consentire in cui consiste la stessa esperienza. Non solo l’esperienza richiede la dimensione comunitaria, ma in generale il pensare, che è essenzialmente un convenire, un cum-sapere21 l’Universale, Dio. Quel cum non è un'aggiunta irrilevante, in quanto la dimensione intersoggettiva, comunitaria, è essenziale a tutte le forma dell’attività spirituale umana. «Ci sarà – afferma il Carabellese –, anzi c’è senza dubbio, quella empirica alterità, nella quale ciascuno di noi presenta all’altro un insondabile residuo di meità intraducibile in esperienza dell’altro, ma questa intraducibilità, che è il limite che la meità ha nella esperienza, non prova che l’alterità sia soltanto di esperienza e non pura, ma prova precisamente, il contrario, e cioè che, a fondamento dell’alterità empirica, c’è l’alterità pura come schietta egoità, prova che il limite empirico, che separa me da te, persone viventi, non è la stessa alterazione pura di noi altri due, ciascuno singolare; io, alterazione pura, per la quale ciascuno, con la propria unità è immesso nell’altro uno, Cfr. F. Valori, Il problema dell’io in C.. Cfr. in proposito C., La coscienza. immissione, senza della quale è assurdo non solo l’innegabile consentimento ma anche la divergenza di noi nell’alterità nostra; consentimento, e divergenza, per i quali noi, ciascuno come altro, siamo tanti soggetti dell’Unico, che è immanente a noi molti. La differenza fra le egoità si dà solo a livello empirico, a livello trascendentale e metafisico i soggetti sono identici, interi23 e, nello stesso tempo infinitamente penetrativi24. C. contrasted the rock of concrete, temporal, plural, relational being in the light of which the problem of the origin, of the foundation, of validity cannot be given up, with the sand of historicist becoming, of the historicist succession of the facts in which law and value coincide with the succession itself. The metaphor of sand and rock used by the same C. in his later writings is taken up by Semerari in the title of an essay dedicated to critical ontologism. This metaphor gives us a good idea of the fundamental theoretical instance relating to the problem of history. Such a theoretical instance is asserted by Carabellesian ontology in its opposition to historicism through the ontological recovery of time and of existence and by contrast as well with the interpretation, traceable in Heidegger, of time and existence as the outside, as the not of meta–temporal and meta–existential Being, that is, as its decayed phenomena21.”La responsabilita profonda, grave, se una se ne vuol trovare, e questo aver SCAMBIATA LA SABBIA DELL’IERI, OGGI, E DOMANI, SEPARATI, AVER SCAMBIATA LA SABBIA DEL “FUI” PER LA ROCCIA DELL’ “ESSERE”  -- l’eterno – nell’eterno -- nella roccia, l’ieri, l’oggi, e il domani non sono separati ne successivi – la copula S EST P – non S FUI P --. La responsabilita profonda e di questa coscienza storicista, che si resolve appunto nel credere che tutta la CASA umana sia FATTA SU SABBIA [on sand, not on rock]– e DI SABBIA. Abbandoniamo questa coscienza storicista di Croce, che spessso si nasconde, forse piu intransigente anche nel dommatismo ultramondano degl’ANTI-STORICI, che pur soltanto UNA SABBIOSA STORIA (la storia della semiotica, la storia di Vitruvio) concedeno all’umana attivita consapevole. CERCHIAMO LA ROCCIA al di sotto di questo SGRETOLAMENTE (la greta), che sono i successive e separati ieri, oggi, e domani. CI riuscira forse cosi di ritrovare il fondamento e di trarre anche dallo SCAVO DI FONDAZIONE, PER LA COSTRUZIONE DELLA NOSTRA CASA, materiale piu atto che non sia quello datoci dal SABBISO SUCCEDERSI DI ETA UMANE E COSMICHE. Certo nessuna costruzione noi uomini pensanti possiame fare SULLA ROCCIA se queso nostro PENSARE NON TOCCA LA ROCCIA. Nessuna costruzione possiamo fare se nostro pensare no ha LA ROCCIA A SUO INTIMO FONDAMENTO. Ma tanto meno potremo alcuna costruzione fare SE INTENDIAMO FARLA CON POLVERE di idee che si facciano sorgere o tramonatre con la storia. Su Polvere e di polvere non si costruisce. Si COSTRIUCE SOLO CON PIETRA [stone] DURA [hardened – D. Paul] SULLA ROCCIA. ROCCIA E L’ESSERE SPIRITUALE CHE *dura* -- durazione, duro – ETERNO.”  24 Omnis ergo, qui audit verba mea haec et facit ea, assimilabitur viro sapienti, qui aedificavit domum suam supra petram.  25 Et descendit pluvia, et venerunt flumina, et flaverunt venti et irruerunt in domum illam, et non cecidit; fundata enim erat supra petram. 26 Et omnis, qui audit verba mea haec et non facit ea, similis erit viro stulto, qui aedificavit domum suam supra arenam.  27 Et descendit pluvia, et venerunt flumina, et flaverunt venti et irruerunt in domum illam, et cecidit, et fuit ruina eius magna ”.Pantaleo Carbellese. Keywords: la sabbia e la roccia – il segno, lo scandalo del significato, io/tu, Husserl, intersoggetivita, intersoggetivo, interpersonal, interattivo – interazione, azione sociale – orientazione all’altro, razionalita strategica, razionalita comunicativa, complessita intensionale, il significato, i significati, l’nsieme, la comunita, il noi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carabellese” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Caracciolo: l’implicatura conversazionale del colloquio – filosofia italiana – Luigi Speranza (San Pietro di Morubio). Filosofo italiano. Grice: “I like Caracciolo – at Harvard, I joked on Schlipp, and stated that Heidegger was then the greatest (grossest, in German) living philosopher – as he then was, living --. Caracciolo has dedicated his life to translate Heidegger’s ‘Dutch’ mannerism into the ‘volgare’: and now I have concluded that Heidegger is perhaps the grossest dead philosopher – “in cammino verso il linguaggio: il dire originario” –“.  Grice: “Note that Caracciolo’s ‘cammino’ translates Heidegger’s ‘weg’ – my ‘way’ of words – but for Heidegger is ‘way to’ (weg zur) – as it should!” cf. Speranza, “in cammino verso la conversazione” – versus “il cammino della convresazione’ –“ Grice: “Note that in Italian, unlike German, you drop the otiose ‘the’ of ‘way – “Nel cammino” is o-kay, but “in cammino” is the choice by Caracciolo!” – cf. Aligheri, ‘nel cammino’ OF his life, towards heaven, or paradise, that is.” Studia a Verona e Pavia. Fa la conoscenza di Olivelli, con il quale collaborò alla stesura dei Quaderni del ribelle. Olivelli divenne uno dei più noti martiri della Resistenza e a lui Caracciolo dedica un saggio, “Teresio Olivelli: biografia di un martire” (Brescia). Insegna a Pavia, Lodi, Brescia, e Genova. La sua filosofia si sviluppa inizialmente all'interno della tradizione crociana, ma poi acquisisce tratti più originali a contatto con Jaspers, Löwith e Heidegger. In cammino verso il Linguaggio. Di particolare interesse e importanza sono i suoi studi sul nichilismo a partire da Leopardi e sulla dimensione religiosa dell'esistenza. Nella sua riflessione egli ha pure mostrato una forte attenzione per il rapporto tra pensiero e poesia, tra pensiero e musica. Altre opere: “L'estetica di Croce nel suo svolgimento e nei suoi limiti (Torino); L'estetica e la religione di Croce (Arona); Estetica (Brescia); Etica e trascendenza, Brescia); Arte e pensiero nelle loro istanze metafisiche. I problemi della "Critica del giudizio", Milano); Studi kantiani, Napoli); La persona e il tempo, Arona; Saggi filosofici, Genova); Studi jaspersiani, Milano); La religione come struttura e come modo autonomo della coscienza, Milano); Arte e linguaggio, Milano); Religione ed eticità, Napoli); Löwith, Napoli); Nichilismo, Napoli); Nichilismo ed etica, Genova); Studi heideggeriani, Genova); Nulla religioso e imperativo dell'eterno, Genova); Politica e autobiografia, Brescia); Leopardi e il nichilismo, Milano); La virtù e il corso del mondo (Alessandria); L'assolutezza del Cristianesimo e la storia delle religioni, Napoli); Filosofia della religione; In cammino verso il Linguaggio; Theophania. Lo spirito della religione antica. Filosofia umana. Esistenza e Trascendenza. Lo spazio della trascendenza. La prospettiva estetica ed etico-religiosa. Caracciolo. Sentieri del suo filosofare. Unterwegs zur Sprache. In cammino verso il linguaggio. Herrmann, Die Sprache. Il Linguaggio. Die Sprache im Gedicht. Il linguaggio nella poesia. Eine Erörterung von Georg Trakls Gedicht. Aus einem Gespräch von der Sprache. Zwischen einem Japaner und einem Fragenden. Das Wesen der Sprache. L’essenza del linguaggio. Das Wort. La parola. Il verbo. Der Weg zur Sprache. In cammino verso il linguaggio. Essere e tempo. La riflessione esplicita sul linguaggio. ζῷον λόγον ἔχον. Ermeneutica e metodo storico-ermeneutico. Il ‘non’ come fondamento. Più in alto della realtà sta la possibilità. La Kehre. L’essere: un problema che rimane problema. Poesia. L'arte come messa in opera della verità. Hӧlderlin. Il tempo della povertà. Il pensiero come Kehre. In cammino verso il silenzio. La differenza e il fondamento. In cammino verso il linguaggio: il dire originario. In cammino verso il linguaggio: il suono del silenzio. “Heidegger is the greatest living philosopher”.  Heidegger In cammino verso il linguaggio Curatore: C. Mursia. Heidegger scrisse In cammino verso il linguaggio. Ci sono alcune cose interessanti e volevo proporvele questa sera. Innanzi tutto l’esordio in cui è molto chiaro e molto deciso dice: L’uomo parla, noi parliamo nella veglia e nel sonno, parliamo sempre anche quando non proferiamo parola ma ascoltiamo o leggiamo soltanto perfino quando neppure ascoltiamo o leggiamo ma ci dedichiamo a un lavoro o ci perdiamo nell’ozio, in un modo o nell’altro parliamo ininterrottamente, parliamo perché il parlare ci è connaturato. Il parlare non nasce da un particolare atto di volontà, si dice che l’uomo è per natura parlante, e vale per acquisito, che l’uomo a differenza della pianta e dell’animale è l’essere vivente capace di parola, dicendo questo non si intende affermare soltanto che l’uomo possiede accanto ad altre capacità anche quella del parlare, si intende dire che proprio il linguaggio fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in quanto uomo. L’uomo è uomo in quanto parla, è la lezione di Humboldt, resta però da riflettere che cosa significhi “l’Uomo”. Ora considera una poesia di Kraus: Quando la neve cade alla finestra a lungo risuona la campana della sera, per molti la tavola è pronta, la casa è tutta in ordine. Alcuni nel loro errare giungono alla porta per oscuri sentieri, aureo fiorisce l’albero delle grazie, la fresca linfa della terra, silenzioso entra il viandante, il dolore ha pietrificato la soglia, là risplende in pura luce, sopra la tavola, pane e vino. La sua ferita piena di grazie lenisce la dolce forza dell’amore “o nuda sofferenza dell’uomo” colui che muto ha lottato con gli angeli. Ve l’ho letta visto che ne parla, che cosa “chiama” la prima strofa? Perché lui dice che il linguaggio è qualcosa che “chiama” le cose letteralmente dice “il linguaggio parla” ma come parla? Dove ci è dato cogliere questo suo parlare? questo già è interessante perché non è l’uomo, ma è il linguaggio che parla, dice: innanzi tutto in una parola già detta, in questa infatti il parlare si è già realizzato, il parlare non finisce in ciò che è stato detto. Qui sentirete a breve echeggiare anche molte cose di Lacan e di altri. In ciò che è stato detto il parlare resta custodito, in ciò che è stato detto il parlare riunisce il modo del suo perdurare, è ciò che grazie ad esso perdura, il suo perdurare, la sua essenza, ma per lo più, e troppo spesso, ciò che è stato detto noi lo incontriamo soltanto come il passato del parlare. // Lui considera la prima strofa e dice: che cosa “chiama” la prima strofa? Chiama cose, dice loro di venire, dove? Non certo qui, nel senso di farsi presenti fra ciò che è presente, sicché per esempio la tavola di cui parla Kraus venga a collocarsi fra le file di poltrone da loro occupate, il luogo  2 dell’arrivo che è con-chiamato nella chiamata, è una presenza serbata intatta nella sua natura di assenza, è questo il luogo in cui quel nominante chiamare dice alle cose di venire, in una assenza, poi preciserà fra breve il chiamare è un invitare tenete conto che sta dicendo della parola è l’invito alle cose ad essere veramente tali per gli uomini, la “caduta della neve” (qui cita un’altra strofa di Kraus) porta gli uomini sotto il cielo che si oscura inoltrandosi nella notte, il suonare della “campana della sera” li porta come mortali di fronte al divino, “casa” e “tavola” vincolano i mortali alla terra, le cose che la poesia nomina in tal modo “chiamate”, adunano presso di sé cielo e terra, i mortali e i divini, i quattro “cielo, terra, i mortali e i divini” costituiscono nel loro relazionarsi una unità originaria, le cose trattengono presso di sé il quadrato dei “quattro”, in questo adunare e trattenere consiste l’esser cosa delle cose, l’unitario quadrato di cielo e terra, mortali e divini, immanente all’essenza delle cose in quanto cose, noi lo chiamiamo “il mondo”. La poesia nominando le cose le chiama in tale loro essenza, queste nel loro essere e operare come cose dispiegano il mondo, nel mondo esse stanno e in questo loro stare nel mondo è la realtà e la loro durata, le cose in quanto sono e operano come tali portano a compimento il mondo. Nel tedesco antico “portare a compimento” si dice “bern, bären” donde i termini “gebären” “generare” e “Gebärde” “gesto”, quanto mettono in atto la loro essenza le cose sono cose, in quanto mettono in atto la loro essenza esse generano il mondo. La prima strofa chiama le cose al loro esser tali, dice loro di venire, tal dire chiamando le cose le chiama presso, le invita, al tempo stesso sospinge verso le cose, affida queste al mondo da cui si manifestano, per questo la prima strofa nomina non soltanto cose ma insieme il mondo, chiama i molti che come mortali fanno parte del quadrato del mondo, le cose condizionano i mortali ciò a questo punto significa: le cose visitano di volta in volta i mortali sempre e solo insieme col mondo. La prima strofa parla nell’atto che dice alle cose di venire, la seconda strofa parla in modo diverso dalla prima eccetera … qual è la questione qui? Importante perché ci sta dicendo che c’è il mondo che è fatto di che cosa? “dei, mortali, cielo, terra”, il mondo è ciò per cui le cose sono quelle che sono, adesso ve la dico in modo molto più semplice e capirete subito: “le cose” sono gli enti, il “mondo” è l’Essere. In questa posizione sta dicendo che senza il mondo cioè senza l’“Essere”, che poi questo mondo, lui è preciso qui quando dice “la caduta della neve” per esempio nel verso “porta gli uomini sotto il cielo che si oscura inoltrandosi nella notte e il suonare della campana della sera li porta come mortali di fronte al divino” cioè queste parole costruiscono la scena entro la quale la “cosa” può apparire, come se fosse, adesso preciseremo meglio, come se la “cosa” fosse una sorta di significante, adesso sto un po’ stravolgendo ma per farvi capire, il “mondo” il significato, senza significante non c’è significato e viceversa, il significato cioè ciò che questa “cosa”, questa parola produce, se lui nomina il “suonare della campana” è chiaro che questo suonare della campana evoca qualcosa, evoca il divino, evoca la religione, evoca tantissime cose, adesso lui ne cita solo una, ma potrebbero essere sterminate ed è all’interno di questo che l’ente compare, Intervento: come se le cose potessero apparire solo in questa scena che è il “mondo”. Esattamente, però senza gli enti il mondo non c’è. Intervento: il mondo è la totalità degli enti? Sì, esattamente, poi: Come il chiamare che nomina la cose chiama presso e rimanda lontano, così il dire che nomina il “mondo” è invito a questo a farsi vicino e al tempo stesso lontano. Cosa vuole dire che “chiama presso e rimanda lontano” questo “chiamare”? le chiama le cose parlando, io chiamo le cose quindi è come se me le avvicinassi ma mentre avvicino queste cose, queste cose si allontanano anche, si allontanano perché di cosa sono fatte? Intervento: c’è sempre quell’assenza di prima. Sì, queste parole sono assenti, nel senso che non sono lì in quanto tali, sono lì sempre in quanto riferite al mondo ecco: esso, il chiamare, affida il mondo alle cose e insieme accoglie e custodisce le cose nello splendore del mondo, il mondo concede alle cose la loro essenza. Quindi è questo mondo, questa scena, io adesso uso dei termini che lui non usa ma solo per rendere le cose più semplici, è questo “mondo” che dà alle cose la loro essenza, qui sembra essere ancora platonico, questo mondo  3 potrebbe essere pensato come il mondo delle idee ed è questo mondo delle idee che da alle cose, agli aggeggi la loro essenza. Le cose d’altra parte fanno essere il mondo, il mondo consente le cose. Il parlare delle prime due strofe parla nell’atto che sollecita le cose a venire verso il mondo e il mondo verso le cose- tenete sempre conto che sta descrivendo cosa fa il linguaggio: neppure però costituiscono soltanto una coppia, mondo e cose non sono infatti realtà che stiano l’una accanto all’altra, esse si compenetrano vicendevolmente, compenetrandosi i due passano attraverso una linea mediana, in questo si costituisce la loro unità, per tale unità sono intimi linea mediana e l’intimità, per indicare tale linea la lingua tedesca usa il termine “das …” il “fra” “fra mezzo” la lingua latina dice “inter”, all’“inter” latino corrisponde il tedesco “unter”. Intimità di mondo e cosa non è fusione - ora cominciate a pensare a queste due cose “mondo e cosa” come significato e significante e adesso vi dirò perché non è una fusione fra le due cose, pensate a De Saussure, L’intimità di mondo e cosa regna soltanto dove mondo e cosa nettamente si distinguono e restano distinti, nella linea che è a mezzo tra i due, nel fra mezzo di mondo e cosa, nel loro “inter”, questo “unter, domina lo stacco. ora adesso non so se è già il caso di dire qua, ecco qui comincia con la questione della “differenza”: L’intimità di mondo e cosa è nello stacco, “Schied” “del frammezzo” e nella “dif-ferenza” “Unter Schied”, il termine “differenza” è qui sottratto all’uso corrente e consueto non indica un concetto generico nella cui area rientrino molteplici specie di differenza, la “dif-ferenza” di cui qui si parla esiste solo come quest’una e unica, la dif-ferenza regge, non però con essa identificandosi, quella linea mediana nel modo e nella relazione alla quale, e grazie alla quale, mondo e cose trovano la loro unità, l’intimità della dif-ferenza è l’elemento unificante della diafora, di ciò che differenziando porta e compone, la dif-ferenza porta il mondo al suo esser mondo, porta le cose al suo esser cose, portandoli a compimento li porta l’un verso l’altro. Il termine “dif-ferenza” non indica per ciò più una distinzione posta tra oggetti del pensiero presentativo – Oggetti del pensiero presentativo sono quelli che il pensiero mostra, presenta – né la differenza è solo una relazione oggettivamente esistente tra mondo e cosa, che il pensiero presentativo venendovisi a imbattere possa constatare, né la differenza è comunque relazione tra mondo e cosa destinata ad essere in un ulteriore momento negata e trascesa – cioè non può togliersi – la differenza di mondo e cosa fa che le cose emergano come quelle che generano il mondo, fa che il mondo emerga come quello che consente le cose. La dif-ferenza è la dimensione in quanto misura nella sua interezza facendo essere nella sua propria essenza lo spazio di mondo e cosa, la differenza come linea mediana di mondo e cose rappresenta generandola la misura in cui mondo e cosa realizzano la loro essenza, nel nominare che chiama “cosa” e “mondo” quel che è propriamente nominato è la dif-ferenza. A questo punto è ovvio che ciascuno di voi ha pensato necessariamente a Derrida, il quale Derrida ha preso a man bassa da Heidegger ma tra breve sarà ancora più evidente, lui, Derrida ha preso Heidegger e lo ha riletto con De Saussure dice: “Questo chiamare” ricordate prima ha detto del chiamare: Questo chiamare è l’essenza del parlare, la dif-ferenza è la chiamata dalla quale soltanto ogni “chiamare” è esso stesso chiamato, alla quale pertanto ogni possibile “chiamare” appartiene. // Il linguaggio parla in quanto suono nella “quiete” (adesso dirà che cosa intende) la quiete acquieta, (ovviamente) portando mondo e cose alla loro essenza, il fondare e comporre mondo e cose nel modo dell’acquietamento è l’evento della dif-ferenza, il linguaggio, il suono della quiete è in quanto “la dif-ferenza”, è come farsi evento, l’essere del linguaggio è l’evenire della dif-ferenza. Il suono della quiete non è nulla di umano, certo l’uomo è nella sua essenza parlante, il termine “parlante” significa qui che emerge ed è fatto se stesso dal parlare del linguaggio. (lui è preciso su questo cioè non è l’uomo che parla, è il linguaggio che parla, e il linguaggio non è un ente, non è un oggetto al pari degli altri, infatti quando la logica parla di “linguaggio oggetto” compie un abominio per Heidegger, perché il linguaggio non è un oggetto, mai può essere oggetto dunque: In forza di tale evenire l’uomo nell’atto che è dalla lingua portato a se stesso, alla sua propria essenza continua ad appartenere all’essenza del linguaggio, al suono della quiete (cioè è l’uomo che appartiene all’essenza del linguaggio non viceversa) tale evento (il suono della quiete) si realizza in quanto l’essenza del linguaggio (il suono della quiete) si avvale del parlare dei mortali per essere dai mortali percepita come appunto “suono della quiete”, solo in quanto  4 gli uomini rientrano nel dominio del suono della quiete, i mortali sono a loro modo capaci di un parlare attuantesi in suoni. Il parlare dei mortali è un “nominante chiamare”, (questo è fondamentale in Heidegger lo ripeto “il parlare è un nominante chiamare”) è invito alle cose e al mondo farsi presso muovendo dalla semplicità della differenza. La pura del parlare mortale è la parola della poesia, l’autentica poesia non è mai un modo più elevato della lingua quotidiana vero è piuttosto il contrario, che cioè il parlare quotidiano è una poesia dimenticata come logorata nella quale a stento è dato ancora percepire il suono di un autentico chiamare. Ecco la questione che sta ponendo è esattamente quella che pone Derrida, questo suono, questo suono silenzioso che non si sente ma che tuttavia è ciò che costituisce la condizione della parola che chiama, beh è ciò che Derrida ha elaborato come “differance”, lui usa per indicare questo suono che non c’è, usa questo esempio, lui scrive in francese “difference” in francese si scrive così, però a “difference” sostituisce alla e una a, scrivendo quindi “differance” che in francese è scorretto perché si scrive “difference”, però dice anche cambiando la e con la a, il suono della parola in francese “differance” non cambia, è esattamente lo stesso cioè questa e non si sente, che metta la e o metta la a, è uguale, non si sente, cioè quella cosa che lui chiama la “differance” è esattamente questo suono muto, che tuttavia è quella cosa che consente alla parola di essere tale e cioè di, mettiamola così, lui, forse dovrei aggiungere qualcosa, lui, Derrida muove a queste considerazioni partendo da De Saussure, dal segno di De Saussure “significante/significato” e quindi ciò che dice è che questa barra è quella che divide il significante dal significato ma è quella che compone il segno, senza questa barra che distingue il significante dal significato il segno non c’è, però questa barra si scrive, si mette il trattino, come faceva De Saussure, ma non c’è, non suona né nel significante né nel significato ecco questa barra è la “dif-ferance”, è quella cosa che non compare, che non ha suono però è la condizione perché il segno sia segno, cioè perché la parola sia la parola è indeterminabile cioè questo suono di cui parla qui Heidegger il “suono della quiete” è questo suono, senza questo “cosa e mondo”, adesso la dico in modo molto rozzo ma si sovrapporrebbero l’uno altro, l’ente, cesserebbe di essere tale perché l’ente è tale perché inserito all’interno del mondo, e il mondo è tale perché esiste un ente che lo pone in essere, esattamente come il significante e il significato. Heidegger non parla né di significante né di significato, non gliene importa assolutamente nulla, per lui il mondo è l’essere, è l’esserci “Dasein”. Ciò che a noi interessa invece è intendere come anche in Heidegger si siano poste delle questioni molto precise intorno al linguaggio, soprattutto rispetto al fatto che il linguaggio non è un oggetto, non è una proprietà dell’uomo, non è una sua facoltà tra altre, ma è il linguaggio che parla, ricordate la famosa asserzione di Lacan quando dice “ça parle” cioè qualcosa parla, viene da qui ovviamente, è stato Heidegger a porre la questione in termini precisi, tali per cui ha preso atto del fatto che il linguaggio non è una proprietà, è questo che dice, non è una proprietà, non è un ente, non è qualcosa di cui gli umani dispongano ma è il linguaggio che parla. Che significa questo per quanto ci riguarda? Significa una cosa importante: è il linguaggio a parlare e a costruire l’uomo, e anche le cose, perché Heidegger dice che le chiama, le chiama alla presenza, però di fatto il linguaggio è quella struttura, come andiamo dicendo da tempo, senza la quale non sarebbe possibile per gli umani il dirsi tali, non sarebbe possibile costruire nessun pensiero, nulla. Quindi lui dice che il linguaggio “chiama le cose”, sì, le chiama nel senso che le crea, le produce letteralmente, e in effetti non lo dice, forse lo usa da qualche parte, non usa la parola “costruire” ma in ogni caso ciò che sta dicendo è che il linguaggio è quella cosa che in un certo senso, adesso permettetemi di dire questa cosa che ad Heidegger non piacerebbe, ma “preesiste” l’uomo in un certo senso, “preesiste” tra virgolette, perché è come se il linguaggio fosse da sempre lì, è questo mondo all’interno del quale qualche cosa può apparire. Ed è una posizione molto interessante che per altro moltissimi hanno ripreso, tutti coloro che si sono minimamente interrogati intorno al linguaggio in qualche modo hanno tenuto conto di queste asserzioni di Heidegger, questo testo è celeberrimo “In cammino verso il linguaggio”  5 Intervento: scusi, dicendo appunto dell’uomo e del linguaggio, non dice che il linguaggio “costruisce” o “inventa” l’uomo, ma dice che il linguaggio fa qualsiasi cosa, però non è giunto a dire che l’uomo non esisterebbe in quanto uomo, se non ci fosse il linguaggio? Nel senso che mantiene l’uomo un’entità che parla, che dice delle cose, o no? Dice in modo molto chiaro: Il linguaggio fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in quanto uomo, Dice ancora: La parola è cenno e non segno, nel senso di semplice denotazione la logica ma anche la linguistica ha sempre considerato la parola come un segno denotante qualche cosa, un segno linguistico che denota un aggeggio qualunque, lui dice che la parola è cenno, accennare a qualche cosa, alludere a qualche cosa, riferirsi indirettamente a qualche cosa, come dire lasciare che questa cosa appaia senza una determinazione precisa, cioè senza una denotazione, la denotazione appunto “de nota”, la denotazione dice qual è il significato di una cosa, ricordate la differenza fra denotazione e connotazione? Dicendo che la parola è cenno, qua nella parte in cui fa questo dialogo ipotetico con un giapponese, è come dire che la parola indica qualche cosa ma che è al di là della parola, la parola è un cenno in quanto indica il mondo all’interno del quale questa parola è inserita, ma lo accenna, non lo determina, non lo può determinare. Intervento: lo potrebbe determinare l’esserci, “Dasein”? è l’“esserci” nel mondo che determina la cosa, ovviamente di volta in volta. Sì, Heidegger oscilla però in genere tende a considerare che l’essere non può stare senza l’ente, altre volte invece sembra dire che, così notava Severino, che l’Essere possa darsi senza l’ente, cosa abbastanza improbabile, è come dire “un significante senza un significato” che cos’è? È niente. Intervento: non ho capito: che l’ente possa esserci senza l’essere, significante senza significato? Heidegger dice che l’ente e l’essere non possono darsi l’uno senza l’altro, così come, stavo dicendo, allo stesso modo come il significante e il significato non possono darsi l’uno senza l’altro. In questo senso dicevo, allora qui si riferisce a “Sein und Zeit”: Si trattava e si tratta, era ed è, di evidenziare l’essere dell’essente, certamente non più alla maniera della metafisica ma in modo che l’essere stesso si manifesti, l’essere stesso, ciò significa la presenza di ciò che può farsi presente, (la “presenza di ciò che può farsi presente”) vale a dire la differenza dei due momenti sulla base dell’unità, è questa differenza che esige l’uomo per la sua propria essenza … che è come dire cioè l’essere stesso, a questo punto se lui lo pone come la differenza dei due momenti “cosa/mondo” sulla base dell’unità, sulla base del fatto che sono inscindibili, dice che allora: è questa differenza che esige l’uomo per la sua propria essenza cioè questa differenza tra il fatto che mondo e cosa pur essendo assolutamente inscindibili sono tuttavia separati, è da lì che l’uomo trae la sua essenza, dal fatto che il significante e il significato cioè ogni parola che dice mostra si presentifica qualche cosa, nel senso che chiama qualche cosa ma mentre chiama la cosa, chiama anche il mondo all’interno del quale questa cosa è inserita e senza il quale mondo non esisterebbe neppure … Intervento: è molto vicino alla semiotica, in fondo parla di connessioni … Tutti coloro che si sono addentrati in queste questioni, e questa è un’altra cosa che forse compare in ciò che vado dicendo ultimamente, si sono trovati a interrogare questioni molto simili, perché quando si incomincia a riflettere sul modo in cui funziona il linguaggio è inevitabile accorgersi che la parola è all’interno di qualche cosa, per Heidegger è il mondo, per Greimas non è più il mondo ma un contesto di segni all’interno del quale il nucleo segnico acquista un significato, per la psicanalisi è la parola che non si può intendere se a questa parola non vengono associati tramite associazioni libere le connessioni alle quali è agganciata. Modi di interrogare una questione che sono sì differenti però incontrano molto spesso quasi una stessa direzione da seguire, quasi gli stessi elementi Intervento: però l’uomo incontrando il mondo lo simbolizza nella parola? Può accadere certo, siamo però già verso Lacan (lo evoca) sì evocandolo può anche simbolizzarlo, se vuole, non è proibito. Ecco qui parla del “non pensato” sempre riferendosi indirettamente alla differenza perché è l’impensato, non si può pensare la differenza in quanto tale, così come non può  6 neanche dirsi perché non c’è ma pur non essendoci in quanto ente costituisce, come dice Heidegger quel suono muto che tuttavia è ciò che consente a questi due elementi la cosa e il mondo di stare distinti ma al tempo stesso uniti. Intervento: non avevo conosciuto Heidegger su questo aspetto. All’Università … Su alcune cosa ha riflettuto attentamente, soprattutto intorno al linguaggio qui incomincia a parlarne in modo abbastanza esplicito già nel suo primo scritto “Essere e tempo” poi mano a mano riflettendo intorno all’Essere si accorge che una riflessione intorno all’Essere comporta una riflessione intorno al linguaggio necessariamente. Il parlare inteso nella sua pienezza significante trascende sempre la dimensione puramente fisico sensibile del suono ovviamente il parlare non è soltanto il suono ma il linguaggio come significato fattosi suono o segno scritto è qualcosa di essenzialmente soprasensibile, qualcosa che perennemente oltrepassa il puramente sensibile, il linguaggio così inteso è per sua costitutiva natura metafisico.) È la metafisica che rappresenta, badate bene: si parla, si rappresenta, se si rappresenta si compie un’operazione metafisica. Poi sul volere sapere: Il voler sapere e l’avida richiesta di spiegazioni non portano mai a un interrogare pensante, nel volere sapere si cela già sempre la presunzione di un auto coscienza che si appella a una ragione auto fondata e alla sua razionalità, il volere sapere non vuole che si stia in ascolto di fronte a ciò che è degno di essere pensato. Intervento: è una forma di controllo Esattamente, e poi c’è la seconda parte di cui ci occuperemo nel prosieguo perché ciò che stiamo facendo è straordinariamente vicino a ciò che qui Heidegger ci sta dicendo, lui non ha dubbi sul fatto che l’uomo è quello che è, perché c’è il linguaggio, non ha nessun dubbio lo pone proprio nelle prime pagine il che comporta ovviamente delle implicazioni, perché se l’uomo non è se non nel linguaggio allora, dice lui giustamente, occorre porsi in ascolto del linguaggio, che non significa ascoltare quello che qualcuno dice, ma porsi in ascolto del linguaggio e porsi in ascolto della domanda che c’è nel linguaggio, nella chiamata che il linguaggio è, il linguaggio è un chiamare le cose e fra le cose, chiama anche l’uomo nonostante che sia l’uomo la condizione perché ci sia questa chiamata. Questa è una questione sempre presente in Heidegger, infatti è stato accusato di “umanismo”, “accusato” tra virgolette, mentre lui si è sempre difeso da questo, la sua non è una posizione esistenzialista, ha dovuto attraversare l’esistenzialismo perché l’unico esistente è l’uomo, questo accendisigari per Heidegger non esiste, c’è, ma non esiste, solo gli umani esistono cioè soltanto coloro che sono in condizioni di porre la domanda, questo aggeggio, questo accendino non fa nessuna domanda. Per Heidegger l’uomo è il portatore in un certo senso del linguaggio, forse non necessariamente l’unico, però a quanto ci consta per il momento si, e questo, sempre per Heidegger, è fondamentale perché l’uomo può trarre la verità, cioè la verità sull’essere e quindi il fatto che l’essere non sia nient’altro che l’esserci dell’uomo in quanto progetto ciascuna volta, solamente nel dialogo. Nel dialogo tra umani ovviamente, ma un dialogo dove le cose si interrogano, dove si mantiene aperta la domanda non la chicchera, il parlare per il sentito dire, il sentito dire vuole dire anche averlo letto da qualche parte, ma non averlo interrogato in modo autentico. Interrogare in modo autentico e lasciarsi interrogare dalla cosa: una qualunque cosa pone delle questioni, per esempio “che cos’è?” o quando mi trovo all’interno di un progetto su come posso utilizzare quella certa cosa, pone comunque sempre delle domande, l’uomo è sempre all’interno di questo domandare, continuamente. Questo è il domandare autentico, quello che si lascia interrogare da ciò che sta dicendo, da ciò che sta facendo, le cose che sta incontrando, non da colui che invece si precipita a dare la risposta o come dicevo prima ha la fretta di sapere tutto dimenticandosi della domanda. Nella parte successiva ci saranno delle cose molto interessanti da dire. per esempio sulla poesia che per lui è importante perché la poesia accenna, e in questo accennare lascia che la parola chiami le cose, senza fermarle, senza bloccarle, senza mortificarle ma le lascia essere, lasciar essere questo è sempre stato fondamentale per Heidegger. Heidegger prosegue: La ricerca scientifica e filosofica mira da qualche tempo (siamo nel ‘59) in modo sempre più deciso a costruire ciò che viene chiamato “metalinguaggio” (qui ce l’ha con i filosofi analitici) giustamente pertanto la filosofia scientifica che si prefigge di costruire tale super linguaggio, intende se stessa come metalinguistica. Metalinguistica suona come metafisica, non soltanto suona “come” ma è, la metalinguistica è infatti la metafisica della totale trasformazione tecnica di ogni lingua in semplice strumento interplanetario di informazione, metalinguaggio e sputnik, metalinguistica e tecnica missilistica sono la stessa cosa. // (Poi cita una poesia, una poesia di Stefan George, il titolo è Das Wort (la parola). Meraviglia di lontano o sogno io portai al lembo estremo della mia terra e attesi fino a che la grigia Norna (Norna è la dea del fato, del destino) il nome trovò nella sua fonte, meraviglia o sogno potei allora afferrare consistente e forte ed ora fiorisce e splende per tutta la marca. (la marca è un territorio di confine) Un giorno giunsi colà dopo un viaggio felice con un gioiello ricco e fine, ella cercò a lungo e al fine mi annunciò “qui nulla di eguale dorme sul fondo”, al che esso sfuggì alla mia mano e mai più la mia terra ebbe il tesoro, così io appresi triste la rinuncia: “nessuna cosa è dove la parola manca”. Un numero infinito di persone considera non di meno anche questa cosa dello sputnik un prodigio, questa “cosa” che gira vertiginosamente in uno spazio del mondo ove non è mondo, e per molti essa era ed è tutt’ora un sogno, prodigio e sogno della tecnica moderna, la quale dovrebbe essere la meno disposta a riconoscere valido il pensiero che sia la parola a procurare alle cose la loro esistenza, non le parole ma le azioni contano nei calcoli dell’ossessivo calcolare planetario, lasciamo la fretta del pensare, non è proprio anche questa “cosa” quel che essa è, e così come essa è, in nome del suo nome? Certamente. Se l’affrettare nel senso del massimo potenziamento tecnico della velocità, di quella velocità nel cui spazio temporale soltanto le macchine e i congegni moderni possono essere quello che sono, (questi marchingegni sono quelli che sono perché esiste la velocità cioè esiste il concetto di velocità) se l’affrettare dunque, non avesse parlato all’uomo e non l’avesse posto sotto il suo comando, (sta parlando della tecnica ovviamente) questo comando non avesse spinto e disposto l’uomo alla fretta, se la parola di un tale disporre non avesse parlato non ci sarebbe nessuno sputnik, nessuna cosa è là dove la parola manca. La parola del linguaggio e il suo rapporto con la cosa, con qualunque cosa che è sotto il riguardo dell’essere e il modo di essere della cosa stessa resta un enigma. (l’enigma sarebbe il rapporto fra la parola e la cosa, ecco già questo dice delle cose perché nessuna cosa è dove la parola manca, beh la dice già lunga sul fatto che se non c’è la parola, se manca la parola non c’è nessuna cosa, non c’è nulla. Questo Heidegger l’aveva inteso molto bene ovviamente, non è un caso che riprenda questa poesia di Stefan George) Dice poi: l’ultimo verso infatti appunto “nessuna cosa è dove la parola manca” in tedesco “Kein ding ist wo das Wort gebricht” l’ultimo verso potrebbe allora avere anche un significato diverso da quello di un asserzione e costatazione volta nella forma del discorso indiretto che dice “nessuna cosa è dove la parola manca”, quel che segue i due punti, dopo la parola “rinuncia” (perché ci sono due punti dopo “così io presi triste la rinuncia: nessuna cosa è dove la parola manca”) non indica ciò cui si rinuncia, ma indica l’ambito entro cui la rinuncia deve immettersi, indica il comando a consentire e accordarsi al rapporto fra parola e cosa ora esperito, (“ora” esperito nel momento in cui si dice allora si esperisce la cosa, allora c’è la cosa, e la cosa è quello che è) ciò di cui il poeta ha preso la rinuncia è la sua precedente opinione nei riguardi del rapporto fra cosa e parola, rinuncia concerne il rapporto poetico con la parola a lui fino a quel momento consueto, la rinuncia è la disposizione a un rapporto diverso, nel verso “Kein ding sei wo das Wort gebricht” “sai” non sarebbe allora sul piano grammaticale un congiuntivo (“sai” vuol dire “sia”, l’indicativo è “ist”) al posto dell’indicativo “ist” bensì una forma dell’imperativo, un ordine cui il poeta obbedisce per rispettarlo anche in futuro, nel verso “nessuna cosa “sia” laddove la parola manca”, il “sia” significherebbe allora “non considerare d’ora in poi una cosa come esistente dove la parola manca” (è un imperativo categorico” e non so per quale via mi ha evocato le parole di Parmenide “sulla via del non essere non ti ci incamminerai, ma seguirai la via dell’Essere.” Con quel “sia” inteso come  8 comando, il poeta si dispone ad accettare quella rinuncia per cui egli abbandona la convinzione che qualcosa esista, già esista, anche quando la parola manca. (Non c’è già la cosa) Che significa rinuncia? La parola “Verzicht” Rientra nell’aria del verbo “verzeihen”; una locuzione antica dice “Sich eines Dinges verzeihen”, e significa “abbandonare qualcosa” “rinunciarvi”. Zeihen corrisponde al latino dicere, all’antico alto tedesco “sagan” (il sagen del tedesco moderno), da cui “saga”. La rinuncia è un Entsagen, letteralmente un “disdire”. Nella sua rinuncia il poeta dice “no” al suo precedente rapporto con la parola, questo soltanto? No. Nell’atto in cui rifiuta qualcosa, già gli è stato destinata una chiamata alla quale egli non si sottrae più. (nella sua rinuncia, dice, rinuncia soltanto all’idea che qualcosa ci sia anche senza la parola? già questa è una bella rinuncia. Rinuncia di fronte a ciò che incontro, a pensare che questa cosa che incontro sia già lì prima che io la dica, prima della parola, non che io la dica propriamente, però aggiunge no, non è proprio così, ciò a cui non si sottrae è ciò che gli è stato destinato “una chiamata alla quale egli non si sottrae più”. Chi lo chiama a quella maniera, se non la parola?) In termini più chiari il poeta ha capito che solo la parola fa sì che la parola appaia e sia pertanto presente come quella cosa che è, la rinuncia che il poeta apprende è della natura di quella compiuta rinuncia alla quale soltanto è dato attingere ciò che da lungo nascosto è propriamente già destinato. Il poeta esperisce la sua vocazione di poeta come una chiamata alla parola, ma cosa raggiunge il poeta? Non una semplice nozione, seguendo questa chiamata, egli giunge nel rapporto della parola con la cosa, questo rapporto non è però una relazione fra la cosa da una parte e la parola dall’altra (qui c’è la parola e lì c’è l’ente e la relazione è in mezzo) la parola stessa è il rapporto che via via incorpora e trattiene in sé la cosa, in modo che essa è una cosa. Sulle prime e per lungo tratto pare che alla fonte del linguaggio (poi dirà che è la parola la fonte dell’Essere) il poeta abbia bisogno di portare soltanto le meraviglie che lo incantano (qui sta sempre commentando la poesia di George) e i sogni che lo estasiano, pare che le parole che a quella fonte egli va, con non incrinata fiducia, a cercare siano solo quelle che convengono a quanto di meraviglia e sogno ha preso corpo nella sua fantasia, prima di allora il poeta, confermato in questo dalla felice riuscita delle sue precedenti composizioni poetiche, era dell’opinione (qui sta parlando di George) dell’opinione che le cose poetiche meraviglia e sogni avessero già, da e per sé, garanzia di esistenza (come ciascuno pensa) e che tutto consistesse poi nel saper trovare per esse anche la parola atta ad esprimerle e rappresentarle. (non è questo il pensiero comune?) Sulle prime e a lungo è parso che le parole fossero come pigli che afferrano ciò che già esiste, ed è per sé esistente considerato, e ad esso danno consistenza ed espressione portandolo così a bellezza. (qui ripete ancora una parte della poesia): Qui meraviglia e sogni, là nomi che afferrano gli uni e gli altri fusi in uno e la poesia era nata, tutto fuso insieme, bastava essa a quello che è il compito del poeta dar vita a ciò che permane, perché duri e sia? Ad un certo punto giunge però Stefan, per Stefan George il momento nel quale il poetare che fino allora gli era stato consueto, quel poetare sicuro di sé viene bruscamente meno riportandogli alla mente la parola di Hölderlin, ma ciò che permane fondano i poeti, infatti un giorno il poeta arriva il viaggio per di più è stato buono e anche per questo egli è pieno di speranza, dalla dea del destino carica d’anni e chiede il nome per il gioiello ricco e fine che porta sulla mano (questo gioiello ricco e fine è la parola) solo che lei chiede il nome della parola (e questo crea qualche problema) questo non è meraviglia di lontano e neppure sogno, la dea cerca a lungo ma invano, alla fine gli annuncia “nulla d’eguale dorme qui sul fondo” (non c’è la parola per dire la parola, “nulla d’eguale” cioè nulla che sia come il gioiello ricco e fine che gli sta sulla mano) la parola capace di far essere quel gioiello che sta semplicemente lì sulla mano quello che esso è, una tale parola dovrebbe scaturire da quella sicura custodia che riposa nella quiete di un sonno profondo, soltanto una parola veniente di lì potrebbe portare e fermare il gioiello nella ricchezza e gentilezza del suo semplice essere. (Ripete le parole del poeta) “Nulla di eguale dorme qui sul fondo” a tal dire esso sfuggì alla mia mano (questo gioiello) e mai più la mia terra ebbe il tesoro. Il fine ricco gioiello che era lì sulla mano non giunge all’essere di una cosa, non diventa tesoro cioè ricchezza custodita nella poesia di quella terra, il poeta non precisa la natura del gioiello che non poté divenire tesoro della sua terra ma che gli donò tuttavia l’esperienza del  9 linguaggio, l’occasione di apprendere quella rinuncia nella quale l’abdicazione corrisponde, da parte del rapporto fra parola e cosa, l’assenso a un disvelamento, l’oggetto ricco e fine è cosa diversa dalla meraviglia di lontano oppure sogno, se poi la parola canta il cammino poetico proposto proprio di Stefan George è lecito pensare che nel gioiello sia adombrata la delicata ricchezza della semplicità che nell’ultimo periodo della sua attività si presenta al poeta come ciò che deve essere detto “la parola della parola”. Qui Heidegger affronta una questione, poi diremo mano a mano, e se la porta appresso perché ovviamente non ha soluzione cioè quella parola che è all’origine della parola, e la Norna, la dea del destino, del fato glielo dice qui “sul fondo non giace nulla di simile”, non c’è, non c’è il fine, il limite del linguaggio, il punto da cui comincia. Certo che non c’è, Heidegger poi lo allude, lo allude nel dire autentico del poeta e il dire autentico del poeta è quello che ovviamente nel pensiero di Heidegger è quello che lascia dire l’Essere, lo lascia apparire, lo disvela, l’ἀλήθεια. Però ciò che qui il poeta cerca di fatto è la parola della parola, cioè l’essenza propriamente della parola, ma qui si scontra contro un qualche cosa che non c’è perché è la parola che dà l’essenza alle cose, dà l’Essere alle cose, e quindi ci vorrebbe un altro Essere che dia Essere all’Essere della parola, la cosa non avrebbe più senso. Heidegger lo pone come una sorta di enigma, però di fatto non possiamo parlare di enigma quanto piuttosto del tentativo di dare anche alla parola o meglio di trasformare la parola in ente, lui dirà tra un po’ che la parola non è un ente al pari di qualunque altro, è un'altra cosa, è ciò che da l’accesso all’ente, infatti lo dice utilizzando la poesia “nulla è là dove la parola manca”, se nulla è là dove la parola manca è ovvio che anche la parola potrebbe essere intesa come ente, ma a questo punto la cosa non funziona più. L’apparire di qualche cosa che è il λόγος, lo vedremo più avanti, λόγος non inteso come il discorso, il racconto, la ragione, nulla di tutto ciò, il λόγος è una delle forme dell’Essere per Heidegger, è questo logos che consente l’apertura cioè il linguaggio consente l’aprirsi della parola che nomina qualche cosa, nel momento in cui nomina qualche cosa questa cosa è. C’è. Intervento: la parola è ciò che differenzia l’istinto dalla pulsione. Intervento: l’uomo, diciamo, arrivando a possedere la parola nominando gli oggetti, qualificandosi come possessore della parola, identificandosi come ciò che padroneggia la realtà, come il bambino che si distacca dall’uniforme primordiale sia come essere sociale, essere sociale organizza la società che si differenzia dal gruppo indistinto dall’orda primitiva, o comunque dai gruppi degli animali. Intervento: dal branco degli animali, esattamente grazie, ecco possedendo la parola ecco io la intenderei così … Heidegger ha un’opinione differente, perché dice: “quando poniamo una domanda al linguaggio, una domanda sulla sua essenza, già del linguaggio deve esserci stato fatto dono, non possiamo chiederci qualcosa sul linguaggio se già non possediamo il linguaggio, se vogliamo porre una domanda sull’essenza, sull’essenza cioè del linguaggio allora anche del significato di “essenza” ci deve essere già stato fatto dono, domanda “a” e domanda “su” presuppongono qui, come sempre, che ciò cui e su cui va la domanda abbia già fatto giungere la parola sollecitatrice, ogni posizione di domanda è possibile solo in quanto ciò che si fa problema ha già iniziato a parlare e a dire di se stesso. // (cita ancora la frase: nessuna cosa è dove la parola manca) Accenna al rapporto tra parola e cosa prospettando il modo che la parola stessa risulti il rapporto, in quanto essa trae all’essere (la parola) e mantiene nell’essere ogni cosa (qualunque essa sia), senza la parola che si identifica con la forza del rapporto, il complesso delle cose, il mondo, sprofonda nel buio insieme all’io che porta all’estremo lembo della propria terra, alla fonte dei nomi ciò che ha incontrato di meraviglia e di sogno. Perché quel che ci interessa è un’esperienza, un essere in cammino, noi oggi in questa lezione che segna il passaggio tra la prima e la terza conferenza (in genere la seconda fa questo, il passaggio fra la prima e la terza) rifletteremo sul cammino, è necessaria al riguardo un’osservazione preliminare dato che la maggior parte di loro si occupa in prevalenza di ricerca scientifica, (il pubblico che aveva)nelle scienze la via al sapere va sotto il nome di metodo, “metodo” “μετα ὁδός” “attraverso il cammino” “lungo il cammino”, il metodo non è specie nella scienza moderna un puro strumento al servizio della scienza  10 anzi al contrario è il metodo che ha assunto a proprio servizio la scienza. Questo fatto è stato visto in tutta la sua portata per la prima volta da Nietzsche, che così ne parla nelle annotazioni che seguono, queste fanno parte del corpus degli inediti pubblicato postumo dal titolo “Der Wille zur Macht” “La volontà di potenza”. La prima dice “ciò che caratterizza il nostro XIX secolo non è la vittoria della scienza ma la vittoria del metodo scientifico sulla scienza”. L’altra notazione incomincia con la proposizione “Le idee più importanti furono trovate per ultime, ma le idee più importanti sono i metodi” in realtà anche Nietzsche è giunto assai tardi a scoprire questo rapporto tra metodo e scienza e precisamente l’ultimo anno della sua lucidità mentale nel 1888 a Torino. Nelle scienze non solo il tema viene posto dal metodo ma viene immesso nel metodo e vi resta sottoposto, la corsa folle, che oggi trascina le scienze verso mete che esse stesse ignorano, ha la sua forza propulsiva nel potenziamento e nel progressivo assoggettamento alla tecnica del metodo e delle possibilità a questo intrinseche, nel metodo è tutta la potenza del sapere, il tema rientra nel metodo. Bene vi lascio riflettere su queste questioni, mercoledì prossimo riprendiamo questo testo. Vi rileggo la poesia di Stefan George perché la riprende si chiama “La parola”, Das Wort: Meraviglia di lontano o sogno io portai al lembo estremo della mia terra e attesi fino a che la grigia Norna il nome trovò nella sua fonte, meraviglia o sogno potei allora afferrare consistente e forte ed ora fiorisce e splende per tutta la marca. Un giorno giunsi colà dopo viaggio felice con un gioiello ricco e fine, ella cercò a lungo e alfine mi annunciò “qui nulla d’eguale dorme sul fondo”. Al che esso sfuggì alla mia mano e mai più la mia terra ebbe il tesoro, così io appresi triste la rinuncia “nessuna cosa è dove la parola manca”. C’è da dire qui che la questione che sta ponendo questa poesia è interessante perché di fatto sta chiedendo alla Norna di fornirgli, dicevamo l’altra volta, la parola della parola, e cioè un qualche cosa che è fuori della parola e che dovrebbe garantire l’essere della parola. Ovviamente cercare la parola fuori dalla parola è un problema, tant’è che la Norna, saggia, dice “qui nulla d’eguale dorme sul fondo” e allora lui ha appreso la rinuncia: non troverà mai qualche cosa che da fuori della parola possa garantire la parola… Intervento: sarebbe il significato del significato? Non esattamente, perché il significato del significato è ancora un altro significato, quindi un altro termine, un altro elemento linguistico, qui cerca invece proprio la garanzia, cioè il qualche cosa che è fuori dal linguaggio e che dia alla parola la sua consistenza. “Nessuna cosa è dove la parola manca” accenna al rapporto tra parola e cosa, prospettandolo in modo che la parola stessa risulti il rapporto, in quanto essa trae all’essere e mantiene nell’essere ogni cosa, qualunque essa sia. // Infatti fra le primissime cose cui diede voce il pensiero occidentale rientra il rapporto tra cosa e parola e precisamente nella figura del rapporto tra essere e dire, questo rapporto sorprende il pensiero in modo così subitaneo e sconvolgente da dirsi in una sola parola, esso suona “λόγος”, ma ancora più sconcertante è per noi il fatto che in tutto questo non si fa un’esperienza pensante del linguaggio, nel senso cioè che il linguaggio stesso in base a quel rapporto giunga propriamente a dirsi. Cioè sta dicendo che il linguaggio non “si dice” nel senso che non c’è modo di aggirare il linguaggio, di uscire dal linguaggio e poi di lì parlare del linguaggio sapendo di che cosa si sta parlando, non c’è uscita dal linguaggio Se sempre il linguaggio ricusa, in questo senso, la sua essenza (cioè non dice mai che cosa realmente è, perché appunto dovrebbe uscire fuori dalla parola) allora questo rifiuto fa parte dell’essenza del linguaggio (il rifiuto della Norna). Il linguaggio non solo si trattiene così in se stesso nel nostro corrente parlarlo, ma trattenendosi esso in sé, con la sua origine nega la sua essenza a quel pensiero presentativo nel quale comunemente ci muoviamo, per questo non possiamo nemmeno più dire che l’essenza del linguaggio sia il linguaggio dell’essenza (come diceva prima) a meno che la parola “linguaggio” non indichi nel secondo caso qualcosa d’altro che cioè quel rifiuto dell’essenza del linguaggio a dirsi, proprio esso, parla. (In altri termini sta dicendo che il linguaggio non dice se  11 stesso, si trattiene dal dire di se stesso nell’accezione che indicavo prima, e cioè come se volesse parlare da fuori il linguaggio per dire che cos’è esattamente il linguaggio, si trattiene dal fare questo. Heidegger dice che non possiamo nemmeno più dire che l’“essenza del linguaggio sia il linguaggio dell’essenza” come diceva prima e cioè che l’essenza del linguaggio, ciò che è più proprio al linguaggio è il linguaggio dell’essenza, il linguaggio dell’essenza è quel linguaggio che parla di ciò che è proprio, a meno che, dice, questo linguaggio non lo si intenda nelle due cose in modo differente e cioè nel secondo caso intendendo che è proprio lui che parla e cioè il linguaggio dell’essenza è ciò che parla continuamente, il linguaggio dell’essenza vale a dire sarebbe, per dirla con Heidegger, il “dire originario”, quel dire cioè che muove nel momento in cui è qualcosa, qualcosa appare e questo dire lascia che ciò che appare interroghi, ciò che si dice, a questo punto, il “λόγος” ciò che fa esistere le cose, a questo punto è lui, è soltanto lui che parla. Qui c’è adesso forse qualcosa che è ancora più chiaro, dice:) “Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca”. Così suona la rinuncia del poeta e noi abbiamo aggiunto che qui viene in evidenza il rapporto fra cosa e parola. (Il rapporto tra cosa e parola è importante perché è ciò che la metafisica ha sempre cercato di stabilire con certezza, lì c’è la parola e lì c’è la cosa, però è un problema come dicevamo la volta scorsa, è la questione tipica della metafisica e cioè il problema del “terzo uomo” come diceva già Aristotele, cioè c’è un terzo elemento che deve fare da tramite tra i due, il problema è che questo terzo elemento che deve consentire il bloccarsi di questa relazione tra cosa e parola, anziché compiere questo rinvia la cosa all’infinito, perché poi dopo il “terzo uomo” c’è il quarto, c’è il quinto c’è il sesto e così via all’infinito e quindi non raggiungerà mai la cosa): Abbiamo anche detto che “cosa” (lui lo mette tra virgolette) indica qui ogni possibile essente quale ne sia il modo d’essere. (cioè qualunque cosa) Abbiamo detto ancora riguardo alla parola, che questa non solo sta in rapporto con la cosa ma porta la cosa che di volta in volta nomina, la cosa in quanto essente che è e tale, “è”(tra virgolette) in questo reggendola, trattenendola, dandole per così dire il sostentamento a essere cosa, questo sarebbe il parlare autentico (la parola che fa essere ciò che dice, nel momento in cui dice le cose è in quel momento che esistono, che sono quello che sono. È questo che sta dicendo. Conseguentemente abbiamo detto che la parola non si limita ad essere in rapporto con la cosa ma che la parola stessa è ciò che porta e serba la cosa come cosa. (che è ancora di più che “la parola stessa è la cosa”, perché la parola è ciò che porta e “mantiene” e fa perdurare la cosa in quanto cosa, dice che la “parola in quanto ciò che porta e serba è il rapporto stesso”. Qui badate bene che dice “è il rapporto stesso” anzi l’ha già detto varie volte, come dire che questo rapporto tra parola e cosa è la parola stessa, quindi non c’è più la parola e la cosa ma c’è una relazione tra parola e cosa, nel senso che la parola rende la cosa quella che è, e solo la parola può farlo, cioè il λόγος, e questo è la parola. Qui si potrebbe anche fare un accenno alla questione della metafisica, così come trascorre da Platone fino a Heidegger, non è altro che lo spostare una cosa presente a una cosa che presente non è, e che deve dare il senso, il significato a ciò che è presente, da qui tutte le distinzioni dalle più antiche alle più recenti: “sensibile – ultrasensibile”, “immanente – trascendente”, “significante – significato”, “enunciazione – enunciato”, l’ultimo in ordine di tempo: “conscio – inconscio”. Per questo dico che tutta questa struttura è metafisica, è metafisica sempre in questa accezione ovviamente, cioè ciò che questo significato di “metafisica” che, come dicevo, trascorre da Platone fino ad Heidegger, indica che ciascuna volta in cui qualche cosa deve la sua esistenza, la sua essenza, il suo significato, a qualche cos’altro, questa è una struttura metafisica. Che ha degli effetti ovviamente, perché comporta la supposizione che una certa cosa sia quello che è in base a quell’altra, quindi quell’altra dà alla prima il suo significato, lo ferma, lo blocca e che quindi questo secondo elemento costituisca l’essenza, potremmo quasi dire, del primo, bloccandolo nel significato, ciò che potrebbe, dico “potrebbe”, consentire un passo fuori, ammesso che sia possibile, dalla metafisica. È da considerare che invece ciò che dà il significato al primo elemento costituisca anche questo un elemento che trae il proprio significato da altro, poi da altro, poi da altro ancora e così via all’infinito, a questo punto non c’è la possibilità di bloccare un significato  12 ovviamente, ma questo significato, come ci dice la semiotica, non è altro che un rinvio continuo, infatti, a quella serie di contrapposizioni potremmo anche aggiungere quella di Greimas, cioè i sememi danno un senso ai semi nucleari ché da solo, di per sé, il sema nucleare non significa niente. Ora è chiaro che è il linguaggio che è strutturato così, per questo da tempo sto dicendo che la metafisica illustra il modo in cui il linguaggio funziona, né più né meno, per cui non hanno neanche tutti i torti i metafisici a dire che non c’è uscita dalla metafisica. Posta in questi termini in effetti non c’è uscita dalla metafisica, e neanche attraverso la via immaginata da Heidegger ovviamente): La “parola per la parola” non è dato trovarla là dove il destino dona il linguaggio (cioè se c’è il linguaggio allora la parola per la parola non c’è, una parola che dica la parola in modo definitivo, l’ultima parola sulla parola, non c’è, non si trova perché c’è il linguaggio, il linguaggio che nomina e fa essere, quindi non c’è), linguaggio che nomina e fa essere per l’essente, non c’è la parola che dica l’essenza del linguaggio, perché questa sia e come essente splenda e fiorisca la parola per la parola un tesoro certamente ma un tesoro non conquistabile per la terra del poeta, e per il pensiero? Può il pensiero? Quando il pensiero cerca di meditare la parola poetica (cioè la parola autentica per Heidegger) questo si rivela: la parola, il dire non ha essere. Il nostro modo corrente di concepire si ribella quando gli si propone un pensiero così audace. Scritte o parlate ognuno pur vede e sente delle parole, esse sono. Possono essere come cose, realtà afferrabili dai nostri sensi, basta solo per far l’esempio più banale aprire un dizionario è pieno di “cose” stampate, certamente puri vocaboli, non una sola parola, poiché la parola grazie alla quale i vocaboli si fanno parola, un dizionario non è in grado né di captarla né di custodirla, dove dobbiamo andare a cercare la parola? dove il dire? Dall’esperienza poetica della parola ci viene un cenno che può essere di grande aiuto: la parola non è cosa, nulla di essente, invece noi abbiamo cognizione delle cose quando per esse c’è a disposizione la parola allora la cosa è. Ma qual è la natura di questo “è”, “la cosa è”? e questo “è” è anch’esso una cosa sovrapposta a un’altra, messale su come un cappuccio, noi non troviamo mai questo “è” come cosa sopra altra cosa, per questo “è” la situazione è la stessa che per la parola, questo “è” non fa parte delle cose che sono più di quanto non lo faccia la parola. (sta dicendo che la parola non è, nel senso dell’Essere, cioè come lo intende la filosofia comunemente, e cioè come ente, qui allude al fatto che la parola non sia determinabile, così come lo è per esempio un vocabolo, un lessema, quindi intende con parola ovviamente un’altra cosa.) Improvvisamente ci risvegliamo dalla sonnolenza di un pensare frettoloso, e scorgiamo qualcosa di diverso in ciò che l’esperienza del linguaggio dice, riguardo alla parola gioca il rapporto fra questo “è” che per sé non è, e la parola che si trova nella stessa situazione che cioè non è nulla che sia, (qui sta cercando di complicare le cose, adesso vediamo se) né l’“è” nella parola hanno l’essenza della cosa, (l’abbiamo detto prima: non sono enti) l’Essere né ha il rapporto con l’“è” la parola al quale è affidato il compito di concedere via, via un “è”, (sta dicendo che né questo è, quando diciamo che “la parola è qualcosa”, questo “è” per lui costituisce un problema, diciamo “la parola è”, “è” cosa? infatti né l’“è” né la parola in questa frase hanno l’essenza della cosa, cioè non hanno l’Essere) né ha (soggetto l’Essere) il rapporto fra l’“è” e la parola, ciò non di meno, né l’“è”, né la parola e il dire di questa, possono venire cacciati nel vuoto del niente (non sono niente, qualcosa pur sono) Che indica l’esperienza poetica della parola quando il pensiero riflette su di essa? Essa rimanda a quel degno d’essere pensato, pensare il quale si pone al pensiero fino dai tempi più antichi e anche se in modo velato come suo proprio compito, esso rimanda a quello di cui in tedesco può dirsi “es gibt senza che possa dirsi “ist” cioè è, “gibt” “esso dà” “si offre”, di ciò di cui può dirsi “est gibt” fa parte anche la parola (adesso incomincia a intravedersi che cosa intende con quello che sta dicendo “la parola non è, propriamente, ma è ciò che si dà, ciò che si offre”.)forse non solo anche, ma prima di ogni altra cosa, in modo tale che nella parola e nella sua essenza si cela quello che “gibt” appunto “dà”, nella parola si cela quello che essa stessa da. Della parola pensando con rigore non dovremmo mai dire “es ist” cioè “essa è” ma “es gibt”, ciò non nel senso di quando si dice “es gibt Worte” “qualcosa dà la parola” ma nel senso che la parola stessa dà, non è qualcosa che dà la parola ma è la parola che dà, la parola: la datrice. Ma che dà la parola?  13 secondo l’esperienza poetica e la tradizione più antica del pensiero la parola dà: l’Essere (ecco perché prima diceva che la parola non è l’Essere, la parola dà l’Essere) Ma se così stanno le cose allora in quel “es, das gibt” “esso, il dare” noi dovremmo pensando cercare la parola come ciò stesso che dà e mai è dato. La parola “es gibt” si trova in tedesco usata in molteplici modi, si dice per esempio “es gibt an der sonningen Halde Erdbeeren” “ci sono fragole sul pendio soleggiato”, “là ci sono le fragole”, nella nostra riflessione “es gibt” è usato diversamente non “des gibt …” “si dà la parola” ma “es das Word gibt…” cioè “essa la parola dà”. Quando Freud dice “Wo es war, soll Ich werden” questo “es” può essere inteso benissimo come “qualcosa” “là dove qualcosa era occorre che io avvenga” è una delle traduzioni che sono state fatte di questa frase. Così dilegua completamente lo spettro dell’“es” davanti al quale molti e a ragione trovano sconcerto, ma ciò che è degno di essere pensato resta, si fa anzi evidente, questa realtà semplice e inafferrabile che noi indichiamo con l’espressione “es, das word, gibt” si rivela come ciò che propriamente è degno di essere pensato e cioè che “essa” la parola da, per la determinazione di questo mancano ancora da per tutto i termini di misura forse il poeta li conosce ma il suo poetare ha appreso la rinuncia e tuttavia con la rinuncia nulla ha perduto (la rinuncia era quella del poeta di avere quella parola che dice la parola stessa, a questo rinuncia perché la Norna dice che non ce l’ha) il gioiello però gli sfugge certamente ma sfugge nella forma comportata dall’esser per esso negata la parola (questo gioiello sfugge, ma sfugge in che senso? Sfugge perché gli sfugge la parola per dirlo) Negare è trattenere ma qui appunto si rivela l’aspetto sorprendente del potere proprio della parola, il gioiello (che è la parola) non si dissolve affatto nell’inerte insignificanza del niente, (qui si riferisce a quando prima diceva, che la parola non è Essere, non ha l’Essere) la parola non sprofonda nella banale incapacità di dire (non è che la parola non può dirsi perché non siamo capaci a dirla, dice:) no, il poeta non abdica alla parola tuttavia il gioiello si sottrae nel mistero che riempie di stupore … per questo il poeta come dicono i versi introduttivi al canto medita anche più di prima, compone ancora, compone cioè un dire e in forma anche diversa da quella di prima. (ecco qui dicendo che non è la parola che si dà, ma è la parola che dà, ovviamente pone la parola come già aveva fatto in precedenza come λόγος in quanto Essere, nell’accezione che indica Heidegger ovviamente, cioè di “Dasein” “esserci”) Se però l’affinità tra poetare e pensare è quella del dire, allora siamo portati a supporre che l’evento domini come quel dire originario con il quale il linguaggio ci dice della sua essenza, il suo dire non si perde nel vuoto esso ha già sempre raggiunto il segno, che altro è questo segno se non l’uomo? Che l’uomo è uomo solo se ha risposto affermativamente alla parola del linguaggio, se è assunto nel linguaggio perché lo parli (ovviamente, questo dicevo è importante perché la presenza dell’uomo è ciò che fa, per Heidegger, la possibilità stessa dell’esserci, “esserci” riguarda l’esistente, l’esistente è l’uomo. Per questo si trova a dire molto spesso che l’Essere è il dialogo da uomo a uomo, perché la parola abita l’uomo. Anche le nuove teorie cioè i metodi della misurazione dello spazio e del tempo, la teoria della relatività e dei quanti e la fisica nucleare, non hanno cambiato in nulla il carattere parametrico di spazio e tempo (in tutte queste discipline i concetti di spazio e tempo sono sempre esattamente gli stessi, quelli per esempio di Anassagora) e nemmeno sono in grado di produrre un simile cambiamento, se ne fossero capaci ne verrebbe a crollare l’intero apparato della moderna scienza tecnica della natura. (perché non avrebbe più questi parametri sui quali è stata costruita ogni cosa) Tutto parla contro, in primo luogo la caccia alla formula fisica capace di interpretare il cosmo in termini matematici, la famosa teoria del “Tutto”, sennonché ciò che spinge al perseguimento affannoso di tale formula non è primariamente la passione personale dei ricercatori, ché questi si trovano ad essere quel che sono in forza di un esigenza prepotente che coinvolge e domina il pensiero moderno nella sua globalità, fisica e responsabilità, “bello!” e nella difficile situazione di oggi importante, ma resta una partita doppia dietro la quale si cela un passivo che non può essere sanato né da parte della scienza, né da parte della morale, sempre poi che sanabile sia. (Naturalmente poi qual è questo passivo che rimane? La dico così brutalmente “è il non sapere ciò che stanno facendo”, con tutto ciò che questo comporta ovviamente, poi ecco l’ultimo capitoletto si chiama “la parola”. Qui fa delle domande, tre domande): (Ripete di nuovo il verso  14 finale “Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca) Si è tentati di trasformare il verso finale in un’asserzione “Nessuna cosa è dove la parola manca” dove qualcosa “es gebrit” “manca” cioè c’è una frattura, un danno, “recar danno a una cosa” vuol dire sottrarle qualcosa, farle mancare qualcosa, non c’è cosa dove la parola manca, solo quando c’è la parola per dirla la cosa è, (allora ecco le tre domande): 1) Che è la parola per avere tale potere? 2) Che è la cosa per avere bisogno della parola per essere? 3) Che significa qui “essere”, dal momento che appare come un dono conferito alla cosa dalla parola? (qui riassume in una parola tutto ciò che ha detto nel libro praticamente. Cioè l’Essere stesso appare come “un dono conferito alla cosa dalla parola”, qui è chiarissimo … Intervento: risponde alle domande poi, perché qui è un po’ antropocentrico? Si può dire anche di Heidegger che sia antropocentrico, anche se a lui non sarebbe piaciuto, infatti per lui l’uomo è oggetto di interesse, cioè l’esistenzialismo, solo perché si accorge che l’esistenza dell’uomo è la condizione per potere fare un discorso sull’Essere, cioè dice che non c’è l’Essere senza l’uomo, cioè senza colui che parla, senza colui che fa essere le cose.) Il primo verso della poesia dà la risposta “meraviglia di lontano o sogno” “nomi” per quello di cui al poeta giunge notizia di lontano come di cosa meravigliosa o per quello che lo visita nel sogno, l’uno e l’altro sono considerati dal poeta senza ombra di dubbio come realtà reali, come qualcosa che è, realtà che egli tuttavia non vuole tenere per sé ma vuole rappresentare, per questo occorrono i nomi. Tali nomi sono parole per mezzo delle quali ciò che già è e per tale è tenuto, assume così consistente concretezza che da quel momento splende e fiorisce e così facendo esercita tutta la regione e il dominio che è proprio della bellezza … i “nomi” sono le parole che rappresentano (Qui si può intendere in due modi, perché “i nomi sono le parole che rappresentano” può intendersi sia in questo modo e cioè che i nomi sono parole che rappresentano qualche cos’altro, ma anche che “i nomi rappresentano altre parole”. I nomi sono le parole che rappresentano parole rappresentanti altre cose, oppure i nomi sono le parole che rappresentano, sono le parole stesse che rappresentano i nomi,) Essi (i nomi) propongono all’immaginazione ciò che già è, grazie alla loro virtù rappresentativa i nomi testimoniano il loro decisivo dominio sulle cose, è l’esigenza stessa dei nomi che porta il poeta a poetare, per raggiungerli egli deve prima giungere con i viaggi là dove … Sono due casi, nel primo caso potremmo dire che “nomina sunt consequentia rerum” nel secondo “nomina non sunt consequentia rerum” “i nomi sono la conseguenza delle cose” nel secondo “i nomi non sono la conseguenza delle cose”. I nomi che la fonte custodisce (qui si riferisce sempre alla poesia di George) sono come qualcosa che dorme, che ha bisogno solo di essere destato per servire come rappresentazione delle cose, nomi e parole sono come un solido patrimonio finalizzato alle cose, che poi viene utilizzato per rappresentarle, sennonché la fonte, alla quale fino a quel momento il dire poetico ha attinto le parole cioè i nomi che rappresentano la realtà, non dona più nulla. Quale esperienza fa qui il poeta? Soltanto quella che quando si tratta del gioiello portato sulla mano il nome non si trova? (il gioiello è sempre la parola) soltanto quella che ora il gioiello deve sì restare senza nome, ma può tuttavia restare sulla mano del poeta? No, altro accade e ha dello sconcertante, ma sconcertante non è né il fatto che manca il nome, né il fatto che il gioiello scompare con il mancare della parola, è quindi la parola che trattiene il gioiello nel suo essere presente: (cioè la parola trattiene se stessa) la parola, nient’altro che la parola lo prende e lo porta a tale esser presente e in questo lo serba, la parola presenta improvvisamente un altro più alto potere, non è più solo la presa sulla realtà, come presenza già colta dall’immaginazione, quella presa che consiste nel dare un nome, non è soltanto mezzo per rappresentare ciò che sta dinnanzi, al contrario (qui veniamo alla questione) è la parola che conferisce la presenza cioè l’Essere, nel quale qualcosa si manifesta come essente, quest’altro potere della parola trae su di sé l’attenzione del poeta in modo brusco e improvviso, al tempo stesso però la parola che ha quel potere manca, perciò il gioiello dilegua, non per questo si dissolve nel nulla, resta un tesoro che poi il poeta non potrà mai custodire nella sua terra, (che cosa si dilegua, che cosa manca? Qui non siamo nella questione della “mancanza a essere”, siamo al fatto che ciò che manca è quella parola che da fuori del linguaggio finalmente dica che cos’è veramente la parola. Il nome che si dà alla parola è un’altra parola, non è qualcosa che da fuori  15 dovrebbe garantire che sia esattamente quella cosa. E qui insiste sul fatto che la parola fa sì che la cosa sia, cosa tutt’altro che irrilevante) Il tesoro e la terra del poeta mai giunge a possedere, è la parola per l’essenza del linguaggio, la potenza e la vita della parola scorta d’improvviso (qual è la potenza della parola? il fatto di fare essere le cose) il suo essere e operare vorrebbe pervenire alla parola, alla sua propria parola ma la parola, per l’essenza della parola, non viene concessa. La parola che dica che cosa veramente è, è questo che non viene concesso, è questo che manca, in questo senso diceva. L’ultimo capitoletto “In cammino verso il linguaggio” che poi dà il nome al testo. Ecco qui parla dell’¡λήθεια: il testo di Aristotele evidenzia con un dire chiaro e sobrio quella classica struttura in cui si cela l’essenza del linguaggio inteso come parlare, le lettere indicano i suoni, i suoni indicano le affezioni dell’anima, le affezioni indicano le cose che colpiscono l’anima, il “mostrare” “das Zeigen” è quello che costituisce e regge l’intera impalcatura, in modo vario, velando e disvelando, esso il mostrare, porta qualcosa ad apparire, fa che ciò che appare sia avvertito e ciò che viene avvertito sia considerato (cioè esista) quando riflettiamo sul linguaggio in quanto linguaggio già abbiamo abbandonato il modo di procedere rimasto finora consueto nella riflessione sul linguaggio. Non possiamo più andare alla ricerca di concetti generali come “energia” “attività” “lavoro” “forza spirituale” “visione del mondo”, espressione sotto i quali condurre il linguaggio come un caso particolare di tale generalità. Anziché spiegare il linguaggio come questa o quest’altra cosa fuggendone in tal modo lontano, il cammino verso il linguaggio vorrebbe fare esperire il linguaggio come linguaggio, nell’essenza del linguaggio, il linguaggio è sì compreso, ma afferrato per mezzo di altro da esso è il famoso metalinguaggio (di cui diceva prima il metalinguaggio come metafisica) se volgiamo invece l’attenzione unicamente al linguaggio come linguaggio, questo pretende allora da noi che mettiamo finalmente in evidenza tutto quello che fa parte del linguaggio in quanto linguaggio (è quello che ho cercato di fare in questi anni intendendo che cosa fa funzionare il linguaggio) Nel parlare rientrano i parlanti, ma il rapporto tra parlanti e parlare non è riducibile a quello tra causa ed effetto (se no sarebbe come dire che qualcosa dà la parola, mentre lui è stato preciso, “è la parola che dà”, ma cosa dà? Le cose, l’Essere.) I parlanti trovano piuttosto nel parlare il loro essere presenti, presenti a che? A ciò con cui parlano, presso cui dimorano in quanto realtà che sempre già li riguarda, è quanto dire “gli altri, le cose, tutto ciò che fa che queste siano cose, queste precise cose e quelli gli altri quei concreti altri” (questo fa la parola, fa esistere tutte queste cose qui) A tutto questo ora in un modo, ora in un altro già sempre è andato l’appello del parlare. // Ma come sono pensati il parlare e il “parlato”, nel breve racconto che si è precedentemente fatto del linguaggio? Essi si rivelano già come ciò per cui e in cui qualcosa si fa parola, giunge a farsi evidente in quanto qualcosa è detto. Dire e parlare non sono la stessa cosa, uno può parlare, parla senza fine, e tutto quel parlare non dice nulla, un altro invece tace, non parla e può col suo non parlare dire molto, ma che significa dire, “sagen” in tedesco? Per esperire questo è necessario attenersi a ciò che la lingua tedesca già costringe a pensare con la parola “sagen”. “Sagan” significa “mostrare” “far che qualcosa appaia” “si veda” “si senta” // Ciò che fa essere il linguaggio come linguaggio è il dire originario “die saghe” in quanto “mostrare” “die Zeige”, il mostrare proprio di questo non si basa su un qualche segno ma tutti i segni traggono origine da un mostrare nel cui ambito e per i cui fini soltanto acquistano la possibilità di essere segni. (Ma non sta proprio in questo mostrare, nel fatto che tutti i segni traggono origine da un mostrare che si impianta la metafisica stessa, la sua stessa possibilità? Ma ne riparleremo perché è una questione tutt’altro che semplice) // (siamo alla fine volevo riprendere le tre domande che faceva prima, adesso possiamo rispondere a ciò che si è domandato): Il dire originario è mostrare, in tutto ciò (ricordate: il dire originario è mostrare. Questo è il dire originario per Heidegger) in tutto ciò che ci volge la parola, che ci tocca come oggetto di parola o parola, che ci si partecipa, che in quanto non detto è in attesa di noi, non solo ma in quello stesso parlare, che noi veniamo mettendo in atto, che è operante il mostrare sempre e comunque, in virtù di questo che ciò che è presente appare, ciò che è assente dispare. Questo (è sempre il dire originario il soggetto) dischiude ciò che è presente nel suo esser presente (che sembra una ripetizione inutile “dischiude il suo essere presente nel suo essere presente” ma il fatto che qualcosa sia presente per Heidegger non è così automatico, occorre qualcosa che dischiuda, apra l’orizzonte entro il quale qualche cosa può essere presente, non basta che sia presente perché che sia presente da sé non significa niente se non c’è il linguaggio che fa essere presente.) il dire originario domina compone in unità la libera distesa di quella radura … da dove viene il mostrare? La domanda vuol sapere troppo e troppo in fretta (non è che possiamo sapere tutto subito) gioverà accontentarsi di osservare la natura e l’origine del moto presente nel mostrare, non è necessaria qui una lunga ricerca è sufficiente l’intuizione repentina, non obliabile e perciò sempre nuova, di ciò che, sì, è a noi familiare, ma che noi tuttavia lungi dal riconoscere nel modo che ci conviene neppure cerchiamo di conoscere, questa realtà sconosciuta e non di meno familiare da cui ogni mostrare del dire originario trae il proprio moto, è per ogni essere presente ed essere assente l’alba di quel mattino nel quale soltanto può trovare inizio la vicenda del giorno e della notte. Alba che insieme l’ora prima e l’ora più remota tale realtà appena ci è dato nominarla, essa è l’“ort” che non tollera “Er-örterung”. Il tempo che non concede di essere raggiunto perché è luogo di tutti i luoghi e di tutti gli spazi del gioco del tempo, noi la chiameremo con una parola antica e diremo: ciò che muove nel mostrare del dire originario è lo “Eignen”. Lo Eignen adduce ciò che è presente e assente in quello che gli è proprio, cosicché emergendone la cosa presente e assente, si rivela nella sua vera identità e resta se stessa. // Il linguaggio non si irrigidisce in se stesso nel senso di un narcisismo di tutto dimentico tranne che di sé, come sarebbe potuto apparire, (eventualmente) come dire originario il linguaggio è il mostrare appropriante, che appunto prescinde da sé per dischiudere così per mostrare la possibilità di rilevarsi nella figura che gli è propria, (cioè il linguaggio consente alla cosa di mostrarsi e permette anche alla cosa di mostrarsi per quello che è. Il linguaggio è questa possibilità delle cose di essere quelle che sono. Ma non toglie alle cose il fatto che sono quelle che sono.) Il linguaggio che parla dicendosi cura che il nostro parlare, ascoltare il dire che non ha suono, corrisponda a quel che esso (linguaggio) viene dicendo, in tal modo anche il silenzio che non di rado si pone a fondamento del linguaggio, come sua scaturigine, è già un corrispondere (corrispondere alla chiamata del dire, ovviamente, cioè del λόγος. La conclusione sarà a questo punto la risposta a quelle tre domande.) Poiché noi uomini, per essere quelli che siamo, restiamo immessi nel linguaggio, né mai possiamo uscirne e posarci a un punto da cui ci sia dato circoscriverlo con lo sguardo, noi vediamo il linguaggio sempre solo in quanto il linguaggio stesso già si è affissato su di noi (appoggiato su di noi, fissato su di noi) ci ha appropriato a sé, il fatto che del linguaggio ci è precluso il sapere, (perché per sapere sul linguaggio bisognerebbe uscire dal linguaggio e tutte queste storie) il sapere inteso secondo la concezione tradizionale fondata sull’idea che conoscere sia rappresentare, non è certamente un difetto bensì il privilegio grazie al quale siamo eletti e attratti in una sfera superiore, in quella in cui noi assunti a portare a parole il linguaggio dimoriamo come immortali insomma siamo fortunati ad essere parlanti. Allora le tre domande alle quali potete, a questo punto, rispondere voi stessi: Che è la parola per avere tanto potere? È l’Essere è il logos. Perché la parola ha tanto potere? Perché è ciò che in quanto Essere è ciò che consente alle cose di apparire, ma che è la cosa per avere bisogno della parola per essere? La parola ha bisogno della parola per essere la cosa, e quindi è quella cosa che diventa cosa soltanto se la parola la fa essere cosa. Terza domanda: che significa qui Essere dal momento che appare come un dono conferito alla cosa dalla parola? che significa qui Essere? Λόγος, nient’altro che λόγος e bell’è fatto. Ecco, io vi ho fatto considerare queste cose perché non è tanto il fatto del contenuto delle affermazioni di Heidegger quanto il modo in cui approccia la questione del linguaggio, in un modo che lui direbbe “non presentativo” cioè non mostra, non dice che cos’è il linguaggio come fa la linguistica, come fa la filosofia del linguaggio, come fa la filosofia in generale approcciando il linguaggio come ente, perché sta qui la differenza ontologica: ente/Essere. Il linguaggio è Essere non è ente. Sono considerazioni interessanti che possono portare ad altre considerazioni, possono aprire altre vie, per questo motivo vi ho letto alcune cose di questo testo di Martin Heidegger. The uttered speech of private life is fluctuating and variable. In  every period it varies according to the age, class, education, and habits of  the speaker. His social experience, traditions and general background,  his ordinary tastes and pursuits, his intellectual and moral cultivation are  all reflected in each man’s conversation. These factors determine and  modify a man’s mode of speech in innumerable ways. They may affect  his pronunciation, the speed of his utterance, his choice of vocabulary,  the shade of meaning he attaches to particular words, or turns of phrase,  the character of such similes and metaphors as occur in his speech, his  word order and the structure of his sentences.   But the individual speaker is also affected by the character of those  to whom he speaks. He adjusts himself in a hundred subtle ways to the  age, status, and mental attitude of the company in which he finds himself.  His own state of mind, and the mode of its expression are unconsciously  modified by and attuned to the varying degree of intimacy, agreement,  and community of experience in which he may stand with his companions  of the moment.   Thus an accomplished man of the world, in reality, speaks not  one but many slightly different idioms, and passes easily and instinc-  tively, often perhaps unknown to himself, from one to another, according  to the exigence of circumstances. The man who does not possess,  to some extent at least, this power of adjustment, is of necessity a stranger  in eveuy company but that of one particular type. No man who is not  a fool will consider it proper to address a bevy of Bishops in precisely  the same way as would be perfectly natural and suitable among a party  of fox-hunting country gentlemen.   A learned man, accustomed to choose his own topics of conversation  and dilate upon them at leisure in his College common room where he  can count upon the civil forbearance of other people like himself, would  be thought a tedious bore, and a dull one at that, if he carried his  pompous verbiage into the Officers’ Mess of a smart regiment. 'A  meere scholler is but a woefull creature says Sir Edmund Verney, in  a letter in which he discusses a proposal that his son should be sent to  Leyden, and observes concerning this— ‘ 'tis too private for a youth of  his yeares that must see company at convenient times, and studdy men as  well as bookes, or else his bearing may make him rather ridiculous then  esteemed ^   There is naturally a large body of colloquial expression which is  common to all classes, scholars, sportsmen, officers, clerics, and the rest,  but each class and interest has its own special way of expressing itself,  which is more or less foreign to those outside it. The average colloquial speech of any age is at best a compromise between a variety of different  jargons, each evolved in and current among the members of a particular  section of the community, and each, within certain social limits, affects  and is affected by the others. Most men belong by their ciicumstanccs  or inclinations to several speech-communities, and have little difficulty in  maintaining Ihhmsclvcs creditably in all of these. The wider the social  opportunities and experience of the individual, and the keener his lin-  guistic instinct, the more readily does he adapt himself to the company  in which he finds himself, and the more easily docs he fall into line with  its accepted traditions of speech and bc aiing.   But if so much variety in the details of colloquial usage exists in  a single age, with such well-marked differences between the conventions  of each, how much greater will be the gulf which separates the types of  familiar conversation in different ages. Do we realize that if we could,  by the workings of some Time Machine, be suddenly transported back  into the seventeenth century, most of us would find it extremely difficult  to carry on, even among the kind of people most nearly corresponding  with those with whom we are habitually associated in our present age,  the simplest kind of decent social intercourse? Even if the pronunciation  of the sixteenth century offered no difficulty, almost every other element  which goes to make up the medium of communication with our fellows  would do so.   We should not know how to greet or take leave of those we met, how  to express our thanks in an acceptable manner, how to ask a favour, pay  a compliment, or send a polite message to a gentleman's wife. We  should be at a loss how to begin and end the simplest note, whether to  an intimate friend, a near relative, or to a stranger. We could not scold  a footman, commend a child, express in appropriate terms admiration for  a woman’s beauty, or aversion to the opposite quality. We should hesitate  every moment how to address the person we were talking to, and should be  embarassed for the equivalent of such instinctive phrases as — look here, old  man ; my dear chap ; my dear Sir ; excuse me ; I beg your pardon ;  I’m awfully sorry; Oh, not at all; that 's too bad ; that ’s most amusing ;  you see ; don't you know ; and a hundred other trivial and meaningless  expressions with which most men fill out their sentences. Our innocent  impulses of pleasure, approval, dislike, anger, disgust, and so on, would  be nipped in the bud for want of words to express them. How should we  say, on the spur of the moment — what a pretty girl 1 ; what an amusing  play I ; how clever and witty Mr. Jones is ! ; poor woman ; that's a perfectly  rotten book ; I hate the way she dresses ; look here, Sir, you had better  lake care what you say ; Oh, shut up ; I'm hanged if I'll do that ; I’m very  much obliged to you. I'm sure ?   It is very probable that we perfectly grasp the equivalents of all these  and a thousand others when we read them in the pages of Congreve and  his contemporaries, but it is equally certain that the right expressions  would not rise naturally to our lips as we required them, were we  suddenly called upon to speak with My Lady Froth, or Mr. Brisk.   The fact is that we should feel thoroughly at sea in such company,  and should soon discover that we had to learn a new language of polite  society. In illustrating the colloquial style of the fifteenth century we have to  be content, either with the account of conversations given in letters, or with  such other passages from letters of the period as appear to be nearest  to the speech of everyday life.   The following passages are from the Shillingford Letters, to which  reference is repeatedly made in this book (see p. 65, &c.}, and are  extracted from the accounts given by the stout and genial Mayor of  Exeter, in letters to his friends, of his conversations with the Chancellor  during his visit to London.   Shillingford begins by referring to himself as ‘ the Mayer but suddenly  changes to the first person— in describing the actual meeting, again  returning for a moment to the impersonal phrase.   Jolm Shillingford*   ‘The Saterdey next (28 Oct. 1447) tberafter the mayer came to West-  minster sone apon ix. atte belle, and ther mette w* my lorde Chanceller atte  brode dore a litell fro the steire fote comyng fro the Sterrechamber, y yn  the courte and by the dore knellyng and salutyng hym yn the moste godely  wyse that y cowde and recommended yn to his gode and gracious lordship  my feloship and all the comminalte, his awne peeple and bedmen of the  Cite of Exceter. He seyde to the mayer ij tymes “ Well come ’’ and the  tyme “Right well come Mayer'’ and helde the Mayer a grete while faste by  the honde, and so went forth to his barge and w* hym grete presse, lordis  and other, &c. and yn especiall the tresorer of the kynges housholde, w*  wham he was at right grete pryvy communication. And therfor y, mayer,  drowe me apart, and mette w* hym at his goyng yn to his barge, and ther  toke my leve of hym, seyyng these wordis, “ My lord, y wolle awayte apon  youre gode lordship and youre better leyser at another tyme He seyde  to me ayen, “Mayer, y pray yow hertely that ye do so, and that ye speke w*  the Chief Justyse and what that ever he will y woll be all redy”. And thus  departed. A little later : —   * Nerthelez y awayted my tyme and put me yn presse and went right to my  lorde Chaunccller and seide, “My lorde y am come at your coinmaundc-  ment, but y se youre grete bysynesse is suchc that ye may not attencle ”,  He seide “Noo, by his trauthe and that y myght right well se”. Y scide  “Yee, and that y was sory and hadde pyty of his grete vexacion”. He  seide “ Mayer, y moste to morun ride by tyme to the Kyng, and come ayen  this wyke : ye most awayte apon my comyng, and then y wol speke the  justise and attende for yow ” &c. — p. 7.   * He seyde “ Come the morun Monedey ” (the Chancellor was speaking on  Sunday) . . . “the love of God ” Y seyde the tyme was to shorte, and prayed  hym of Wendysdey ; y enfourmed hym (of t)he grete malice and venym that  they have spatte to me yn theire answeris as hit appercth yn a copy that  y sende to yow of. My lorde seide, “ Alagge alagge, why wolde they do so ?  y woll sey right sbarpely to ham therfor and y nogh  Brews*   The following brief extracts from the letters of Brews, the  affianced wife of Jolm Fasten (junior) are like a ray of sunlight in the  dreary wilderness of business and litigation, which are the chief subjects  of correspondence between the Pa&tons. Even this Iove*letter is not wholly free from the taint, but the girl's gentle affection for her lover is  the prevailing note*   * Yf that ye cowde be content with that good and my por persone I wold  be the meryest mayclen on grounde, and yf ye thynke not your selffe soe  satysfyed or that ye myght hafe much mor good, as I hafe ujtidyrstonde be  youe afor ; good trewe and iovyng volentyne, that ye take no such labur  iippon yowe, as to come more for that matter, but let it passe, and never  more to be spokyn of, as I may be your trewe lover and bedewoman during  my lyfe .’ — Pas ton Letters^ hi, A few years later Mrs. Fasten writes to her 'trewe and Iovyng  volentyne ' : ' My mother in lawe thynketh longe she here no word from you. She is in  goode heaie, blissed be God, and al yowr babees also. I marvel I here no  word from you, weche greveth me ful evele. I sent you a letter be Basiour  sone of Norwiche, wher of I have no word.’ To this the young wife adds  the touching postscript : — ' Sir I pray yow if ye tary longe at London that it  wii plese to sende for me, for I thynke longe sen I lay in your armes.’ —  Paston Letie?-Sj  Sir Thomas More.   No figure in the eaily part of Henry VIII’s reign is more distin-  guished and at the same time more engaging than that of Sir Thomas  More* A few typical records of his conversation, as preserved by his  devoted biographer and son-in-law Roper, are chosen to illustrate the  English of this time. The context is given so that the extracts may  appear in Roper's own setting.   'Not long after this the Watter baylife of London (sonietyme his servaunte)  liereing, where he had beene at dinner, certayne Marchauntes^ liberally to  rayle against his ould Master, waxed so discontented therwith, that he  hastily came to him, and tould him what he had hard: "and were I Sir”  (quoth he) " in such favour and authoritie with my Prince as you are, such  men surely should not be suffered so villanously and falsly to misreport and  slander me. Wherefore 1 would wish you to call them before you, and to  there shame, for there lewde malice to punnish them.” Who smilinge upon  him sayde, " Watter Baylie, would you have me punnish them by whome  1 reccave more benefit! then by you all that be my frendes ? Let them  a Gods name speakc as lewdly as they list of me, and shoote never soe  many airowcs at me, so long as they do not hitt me, what am I the worse?  But if the should once hitt me, then would it a little trouble me : howbeit,  I trust, by Gods helpe, (here shall none of them all be able to touch me.  I have more cause, Water Bayly (I assure thee) to pittie them, then to  be angrie with them.” Such frutfiill communication had he often tymes  with his familiar frendes. Soe on a tyme walking a long the Thames syde  with me at Chelsey, in talkinge of other thinges he sayd to me, " Now,  would to God, Sonne Roger, upon condition three things are well estab-  lished in Christendome, I were put in a sacke, and here presently cast into the  Thames.” " What great thinges be these, Sir ” quoth I, " that should move  you $0 to wish?” "Wouldest thou know, sonne Roper, what they be”  quoth he? “Yea marry, Sir, with a good will if it please you”, quoth I,  “ I faith, they be these Sonne ”, quoth he. The first is, that where as the  most part of Christian princes be at mortall warrs, they weare at universal  peace. The second, that wheare the Church of Christ is at this present soare afflicted witli many heresies and errors, it were well settled in an  uniformity. The third, that where the Kinges matter of his marriage is now  come into question, it were to the glory of God and quietnesse of all parties  brought to a good conclusion : ’’ where by, as I could gather, he judged, that  otherwise it would be a disturbance to a great part of Christ endome/   ‘ When Sir Thomas Moore had continued a good while in the Tower, my  Ladye his wife obtayned license to see him, who at her first comminge like  a simple woman, and somewhat worldlie too, with this manner of salutations  bluntly saluted him, ‘‘What the good yeai'e, Moore” quoth shee,   I marvell that you, that have beene allwayes hitherimto taken for soe wise  a man, will now soe playe the foole to lye here in this close filthie prison, and  be content to be shutt upp amonge myse and rattes, when you might be  abroad at your libertie, and with the favour and good will both of the  King and his Councell, if you would but doe as all the Bushopps and best  learned of this Realme have done. And seeing you have at Chelsey a right  fayre house, your librarie, your books, your gallerie, your garden, your  orchards, and all other necessaries soe handsomely about you, where you  might, in the companie of me your wife, your children, and houshould be  merrie, I muse what a Gods name you meane here still thus fondlye to tarry.’'  After he had a while quietly hard her, “ I pray thee good Alice, tell me,  tell me one thinge.” “ What is that ? ” (quoth shee). “ Is not this house  as nighe heaven as myne owne?” To whome shee, after her accustomed  fashion, not likeinge such talke, answeared, “ Tilh valie, Tille valle ”  “How say you, Alice, is it not soe?” quoth he. Bone deus, bone  Deusy man, will this geare never be left?” quoth shee. “Well then  Alice, if it be soe, it is verie well. For I see noe great cause whie  I should soe much joye of my gaie house, or of any thinge belonginge  thereunto, when, if I should but seaven yeares lye buried under ground,  and then arise, and come thither againe, I should not fayle to finde some  Iherin that would bidd me gett out of the doores, and tell me that weare  none of myne. What cause have I then to like such an house as would  soe soone forgett his master?” Soe her perswasions moved him but a little.*   The last days of this good man on earth, and some of his sayings just  before his death, are told with great simplicity by Roper. We cannot  forbear to quote the affecting passage which tells of Sir Thomas More’s  last parting from his daughter, the writer’s wife.   ‘When Sir Tho. Moore came from Westminster to the Towreward againe,  his daughter my wife, desireous to see her father, whome shee thought shee  should never see in this world after, and alsoe to have his finall blessinge,  gave attendaunce aboutes the Towre wharfe, where shee knewe he should  passe by, eVe he could enter into the Towre. There tarriinge for his  coininge home, as soone as shee sawe him, after his blessinges on her  knees reverentlie receaved, shoe hastinge towards, without consideration  and care of her selfe, pressinge in amongest the midst of the thronge and  the Companie of the Guard, that with Hollbards and Billes weare round  about him, hastily ranne to him, and then openlye in the sight of all them  embraced and tooke him about the necke, and kissed him, whoe well likeing  her most daughterlye love and affection towards him, gave her his fatherlie  blessinge, and manye goodlie words of comfort besides, from whome after  shee was departed, shee not satisfied with the former sight of her deare  father, havinge respecte neither to her self, nor to the presse of the people  and multitude that were about him, suddenlye turned backe againe, and  rann to him as before, tqoke him about the necke, and divers tymes togeather  most lovinglay kissed him, and at last with a full heavie harte was fayne to  departe from him; the behouldinge whereof was to manye of them that were  present thereat soe lamentablcj that it made them for very sorrow to mourne  and weepe.’ In his last letter to his ' dearely beloved daughter, written with a Cole  Sir Thomas More refers to this incident :' And I never liked your  manners better, then when you kissed me last. For* I like when  daughterlie Love, and deare Charitie hath noe leasure to looke to worldlie  Curtesie   Next morning ‘ Sir Thomas even, and the Utas of St. Peeter in the yeare  of our Lord God, earlie in the morninge, came to him Sir Thomas  Pope, his singular trend, on messedge from the Kinge and his Councell,  that hee should before nyne of the clocke in the same morninge suffer  death, and that therefore fourthwith he should prepare himselfe thereto.   Pope sayth he, for your good tydinges I most hartily thankyou.  I have beene allwayes^ bounden much to the Kinges Highnes for the  benehtts and honors which he hath still from tyme to tyme most bounti-  fully heaped upon mee, and yete more bounden I ame to his Grace for  putting me into this place, where I have had convenient tyme and space to  have remembraunce of my end, and soe helpe me God most of all Pope,  am I bound to his Highnes, that it pleased him so shortlie to ridd me of  the miseries of this wretched world. And therefore will I not fayle most  earnestlye to praye for his Grace both here, and alsoe in another world, .And I beseech you, good Pope, to be a meane unto his Highnes, that  my daughter Margarette may be present at my buriall.’’ “ The King is well  contented allreadie*' (quoth M^’ Pope) ‘‘that your Wife, Children and other  frendes shall have free libertie to be present thereat “O how much be-  hoiilden” then said Sir Thomas Moore “am I to his Grace, that unto my  poore buriall vouchsafeth to have so gratious Consideration.*’ Wherewithal!   Pope takeinge his leave of him could not refrayne from weepinge, which  Sir Tho. Moore perceavinge, comforted him in this wise, “ Quiete yourselfe  good M^ Pope, and be not discomforted. For I trust that we shall once in  heaven see each other full merily, where we shall bee sure to live and love  togeather in joyfull blisse eternally.Wolsey.   The Ij/e of Wolsey, by George Cavendish, a faithful and  devoted servant of the Cardinal, who was with him on his death-bed,  gives a wonderfully interesting picture of this remarkable man, in affluence  and in adversity, and records a number of conversations which have  a convincing air of verisimilitude. The following specimens are taken  from the Kelmscott Press edition of 1893, which follows the spelling of  the author's MS. in the British Museum.   ‘ After ther departyng^ my lord came to the sayd howsse of Eston to his  lodgyng, where he had to supper with hyme dyvers of his frends of the court.  And syttyng at supper, in came to hyme Doctor Stephyns, the secretary,  late ambassitor unto Rome ; but to what entent he came I know not ;  howbeit my lord toke it that he came bothe to dissembell a certeyn  obedyence and love towards hyme, or ells to espie hys behaviour, and to  here his commynycacion at supper. Not withstandyng my lord bade hyme  well come, and commaundyd hyme to sytt down at the table to supper;  with whome my lord had thys commynycacion with hyme under thys  maner. Mayster Secretary, quod my lord, ye be-welcome home owt of  Rally; whan came ye frome Rome? Forsothe, quod he, I came home  allmost a monethe agoo ; and where quod my lord have you byn ever  sence? Forsothe, quod he, folowyng the court this progresse. Than have  ye hunted and had good game and pastyme. Forsothe, Syr, quod he, and  so I have, I thanke the kyngs Majestie, What good greyhounds have ye?  quod my lord. I have some syr quod he. And thus in huntyng, and in  lyke disports, , passed they all ther commynycacion at supper. And after  supper my lord and he talked secretly together until it was mydnyght or  they departed.’ Than all thyng beyng ordered as it is before reherced, my lord  prepared hyme to depart by water. ^ And before his departyng he com-  maundyd Syr William Gascoyne, his treasorer, to se these thyngs byfore  remembred, delyverd safely to the kyng at his repayer. That don, the  seyd Syr William seyd unto my lord. Syr I ame sorry for your grace, for  I understand ye shall goo strayt way to the tower. Ys this the good  comfort and councell, quod my lord, that ye can geve your mayster in  adversitie? Yt hathe byn allwayes your naturall inclynacion to be very  light of credytt, and mych more lighter in reporting of false newes,  I wold ye shold knowe, Syr William, and all other suche blasphemers,  that it is nothyng more false than that, for I never, thanks be to god,  deserved by no wayes to come there under any arrest, allthoughe it hathe  pleased the kyng to take my howse redy furnysshed for his pleasyr at this  tyme. I wold all the world knewe, and so I confesse to have no thyng,  other riches, honour, or dignyty, that hathe not growen of hyme and by  hyme ; therefore it is my verie dewtie to surrender the same to hyme agayn  as his very owen, with al my hart, or ells I ware and onkynd servaunt.  Therefore goo your wayes, and geve good attendaunce unto your charge,  that no thyng be embeselled.’ ‘And the next day we removed to Sheffeld Parke, where therle of Shrews-  bury lay within the loge, and all the way thetherward the people cried and  lamented, as they dyd in all places as we rode byfore. And whan we came  in to the parke of Sheffeld, nyghe to the logge, my lord of Shrewesbury, with  my lady his wyfe, a trayn of gentillwomen, and all my lords gentilmen, and  yomen, standyng without the gatts of the logge to attend my lords commy ng,  to receyve hyme with myche honor ; whome therle embraced, sayeng these  words. My lord quod he, your grace is most hartely welcome unto me, and  glade to se you in my poore loge ; the whiche I have often desired ; and  myche more gladder if you had come after another sort. Ah, my gentill  lord of Shrewesbury quod my lord, I hartely thanke you ; and allthoughe  I have no cause to rejoyce, yet as a sorowe full hart may joye, I rejoyce my  chaunce, which is so good to come into the hands and custody of so noble  a persone, whose approved honor and wysdome hathe byn allwayes right  well knowen to all nobell estats. And Sir, howe soever my ongentill accusers  hathe used ther accusations agenst me, yet I assure you, and so byfore your  lordshipe and all the world do I protest, that my demeanor and procedyngs  hathe byn just and loyall towards my soverayn and liege lord ; of whose  behaviour and doyngs your lordshipe hathe had good experyence ; and evyn  accordyng to my trowthe and faythfulnes, so I bescche god helpe me in this  my calamytie. I dought nothyng of your Irouthe, quod therle, tlierfore my  lorde I beseche you be of good chere and feare not, for I have receyved  letters from the kyng of his owen hand in your favour and entertaynyng the  whiche you shall se. Sir, I ame nothyng sory but that I have not wherwith  worthely to receyve you, and to entertayn you accordyng to your honour and  my good wyll ; but suche as I have ye are most hartely welcome therto,  desiryng you to accept my good wyll accordyngly, for I wol not receyve you  as a prisoner, but as my good lord, and the kyngs trewe faythfull subjecte ;  and here is my wyfe come to salute you. Whome my lord kyst barehedyd,  and all hir gentilwomen ; and toke my lords servaunts by the hands, as well  gentilmen and yomen as other. Then these two lords went arme in arme into the logge, conductyng my lord into a fayer chamber at thend of a goodly  gallery within a newe tower, and here my lord was lodged.’ Here are some short portions of dialogue between Wolsey and his  friends, just before his death :   * Uppon Monday in the mornyng, as I stode by his bedds' side, abought  viii of the clocke, the wyndowes beyng cloose shett, havyng wake lights  burnyng uppon the cupbord, I behyld hyme, as me seemed, drawyng fast to  his end. He perceyved my shadowe uppon the wall by his bedds side,  asked who was there. Sir I ame here, quod I. Howe do you ? quod he to  me. Very well Sir, if I myght se your grace well. What is it of the clocke ?  quod he to me. Forsothe Sir, quod I, it is past viii. of the clocke in the  mornyng. Eight of the clocke, quod he, that cannot be, rehersing dyvers  times eight of the clocke, eight of the clocke. Nay, nay, quod he at the last,  it cannot be viii of the clocke, for by viii of the clocke ye shal loose your  mayster ; for my tyme drawyth nere that I must depart out of this world.’‘ Mayster Kyngston farewell. I can no moore, but why she all thyngs to  have good successe. My tyme drawyth on fast. I may not tary with you.  And forget not I pray you, what I have seyd and charged you with all : for  whan I ame deade, ye shall peradventure remember my words myche better.  And even with these words he began to drawe his speche at lengthe and his  tong to fayle, his eyes beyng set in his hed, whos sight faylled hyme ; than  we began to put hyme in rembraunce of Christs passion, and sent for the  Abbott of the place to annele hyme ; who came with all spede and mynestred  unto hyme all the servyce to the same belongyng ; and caused also the gard  to stand by, bothe to here hyme talk byfore his deathe, and also to here  wytnes of the same ; and incontinent the clocke strake viii, at whiche tyme  he gave uppe the gost, and thus departed he this present lyfe.’Latimer.   The Sermons of Bp. Latimer present good examples^ of colloquial  oratory, and the style is but little removed from the colloquial style of the  period. The following are from the Sermon of the Ploughers, preached. ' For they that be lordes vyll yll go to plough. It is no mete office for  them. It is not semyng for their state. Thus came up lordyng loiterers.  Thus crept in vnprechinge prelates, and so haue they longe continued.   ‘ For how many vnlearned prelates haue we now at this day ? And no  maruel. For if ye plough men yat now be, were made lordes they woulde  cleane gyue ouer ploughinge, they woulde leaue of theyr labour and fall to  lordyng outright, and let the plough stand. And then bothe ploughes nor  walkyng nothyng shoulde be in the common weale but honger. For euer  sence the Prelates were made Loordes and nobles, the ploughe standeth,  there is no worke done, the people starue.   ‘ Thei hauke, thei hunt, thei card, they dyce, they pastyme m theyr pre-  lacies with galaunte gentlemen, with theyr daunsmge mmyons, and with  theyr freshe companions, so that ploughinge is set a syde. And by tne  lordinge and loytryng, preachynge and ploughinge is cleane gone . .   ^^‘But^iiowe for the defaulte of vnpreaching prelates me thinke I coulde  gesse what myghte be sayed for excusynge of them : They are so troubeled  wyth Lordelye lyuynge, they be so placed in palacies, couched m courte^  ruffelynge in theyr rentes, daunceyng in theyr dominions, burdened with  ambassages, pamperynge of theyr paunches lyke a monke that maketh his jubilie, moundiynge in their maungers, and moylynge in their gaye manoures  and mansions, and so troubeled wyth loy terynge in theyr Lordeshyppes : that  they canne not attende it. They are other wyse occupyed, some in the  kynges matters, some are ambassadoures, some of the pryuie counsell, some  to furnyslie the courte, some are Lordes of the Parliamente, some are  presidentes, and some comptroleres of myntes. Well, well.   Is thys theyr duetye? Is thys theyr offyee? Is thys theyr callyng?  Should we haue ministers of the church to be comptrollers of the myntes ?  Is thys a meete office for a prieste that hath cure of soules ? Is this hys  charge ? I woulde here aske one question : I would fayne knowe who comp-  trolleth the deuyll at home at his parishe, whyle he comptrolleth the mynte ?  If the Apostles mighte not ieaue the office of preaching to be deacons, shall  one Ieaue it for myntyng ? ’   Wilson’s Ar^e of Rhetorique (1560) has a section 'Of deliting the  hearers, and stirring them to laughter ’ in which are enumerated ' What  are the kindes of sporting, or mouing to laughter'. The subject is  illustrated by various ' pleasant ' stories, which if few of them would now  make us laugh, are at least couched in a very easy and colloquial style  and enlivened by scraps of actual conversation. The most amusing  element in the whole chapter is the attitude of the writer to the subject,  and the combination of seriousness and scurrility with which it is handled.   ' The occasion of laughter’ says Wilson, 'and themeane that maketh us mery  ... is the fondnes, the filthines, the deformitie, and all such euill be-  hauiour as we see to be in other? ... Now when we would abashe a  man for some words that he hath spoken, and can take none aduauntage  of his person, or making of his bodie, we either doubt him at the first,  and make him beleeue that he is no wiser then a Goose : or els we confute  wholy his sayings with some pleasaunt iest, or els we extenuate and diminish  his doings by some pretie meanes, or els we cast the like in his dish, and  with some other devise, dash hym out of countenance : or last of all, we  laugh him to scorne out right, and sometimes speake almost neuer a word,  but only in continuaunce, shewe our selues pleasaunt’. — ^p. 136.   ‘ A frend of mine, and a good fellowe, more honest then wealthie, yea and  more pleasant then thriftie, liauing need of a nagge for his iourney that he  had in hande, and being in the countrey, minded to go to Parlnaie faire in  Lincolnshire, not farre from the place where he then laie, and meeting by the  way one of his acquaintaunce, told him his arrande, and asked him how  horses went at the Faire. The other aunswered merely and saidc, some  trot sir, and some amble, as farre as I can see. If their paces be altered,  I praye you tell me at our next meeting. And so rid away as fast as his  horse could cary him, without saying any word more, whereat he then  being alone, fel a laughing hartely to him self, and looked after a good  while, vntil the other was out of sight.’ — p. 140.   'A Gentleman hauing heard a Sermon at Panics, and being come home,  was asked what the preacher said. The Gentleman answered he would  first heare what his man could saie, who then waited vpon him, with his  hatte and cloake, and calling his man to him, sayd, nowe sir, whate haue  you brought from the Sermon. Forsothe good Maister, sayd the seruaunt  your cloake and your hatte- A honest true dealing seruaunt out of doubt,  piaine as a packsadclle, bauing a better soule to God, though his witte was  simple, then those haue, that vnder the colour of hearing, giuc them selues  to priuie picking, and so bring other mens purses home in their bosomes,  in the steade of other mens Sermons.’— pp. 14X-2.   These two stories are intended to illustrate the point that ' We shall  delite the hearers, when they looke for one ansvvere, and we make them a cleane contrary, as though we would not seeme to vnderstand what they  would haue   ^Churlish aunsweres like the hearers sometimes very well. When the  father was cast in judgement, the Sonne seeing him weepe : why weepe  you Father? (quoth he) To whom his Father aunswered. ^What? Shall  I sing I pray thee seeing by Lawe I am condemned to "dye. Socrates  likewise bieing^ mooued of his wife, because he should dye an innocent  and guiltlesse in the Law: Why for shame woman (quoth he) wilt thou  haue me to dye giltic and deseruing. When one had falne into a ditch,  an other pitying his fall, asked him and saied : Alas how got you into  that pit ? Why Gods mother, quoth the other, doest thou aske me how  I got in, nay tell me rather in the mischiefe, how I shall get out.’   The nearest approach to the colloquial style in Bacon is to be found  in the Apophthegms, in which are scraps of conversation. A few may be  quoted, if only on account of the author.   ‘ Master Mason of Trinity College, sent his pupil to an other of the fellows,  to borrow a book of him, who told him, I am loth to lend my books out of  my chamber, but if it please thy tutor to come and read upon it in my chamber,  he shall as long as he will.” It was winter, and some days after the same  fellow sent to M^‘ Mason to borrow his bellows ; but M^’ Mason said to his  pupil, ‘‘ I am loth to lend my bellows out of my chamber, but if thy tutor  would come and blow the fire in my chamber, he shall as long as he will.”  —ApophtJi. There were fishermen drawing the river at Chelsea: M^* Bacon came  thither by chance in the afternoon, and offered to buy their draught : they  were willing. He askcvl them what they would take ? They asked thirty  shillings. M^ Bacon offered them ten. They refused it. Why then said  M^* Bacon, I will be only a looker on. They drew and catched nothing.  Saith M^ Bacon, Are not you mad fellows now, that might have had an  angel in your purse, to have made merry withal, and to have warmed you  thoroughly, and now you must go home with nothing. Ay but, saith the  fishermen, we had hope then to make a better gain of it. Saith M^’ Bacon,  ‘‘ Well my master, then I will tell you, hope is a good breakfast, but it is  a bad supper.” Otway^s Comedies have all the coarseness and raciness of dialogue  of the latter half of the seventeenth century, and a pretty vein of genuine  comicality. They are packed with the familiar slang and colloquialisms  of the period. A few passages from Friendship in Fashion illustrate  at once the speech and the manners of the day.    Enter Lady SQUEAMISH at the Door,   Sir Noble Clmnsey, Hah, my Lady Cousin ! —Faith Madam you see I am  at it.   Malagene, The Devil’s wit, I think ; we could no sooner talk of wh —  but she must come in, with a pox to her. Madam, your Ladyship’s most  humble Servant.   Ldy Squ. Oh, odious ! insufferable ! who would have thought Cousin, you  would have serv’d me so— fough, how he stinks of wine, I can smell him  hither. — How have you the Patience to hear the Noise of Fiddles, and  spend your time in nasty drinking ?   Sir Noble, Hum ! ’tis a good Creature : Lovely Lady, thou shalt take  thy Glass.   Ldy Sgu, Uh gud ; murder 1 I had rather you had offered me a toad.   B b   Sir N, Then Malagene, here’s a Health to my Lady Cousin’s Pelion  upon Ossa. [Drinks and breaks the   Ldy Squ, Lord, dear Malagene what ’s that ?   MaL A certain Place Madam, in Greece, much talk’t of by the Ancients ;  the noble Gentleman is well read.   Ldy Squ. 'Nay he’s an ingenious Person I’ll assure you.   Sir N. Now Lady bright, I am wholly thy Slave: Give me thy Hand,  I’ll go straight and begin my Grandmother’s Kissing Dance ; but first deign  me the private Honour of thy Lip.   Ldy Squ. Nay, fie Sir Noble 1 how I hate you now ! for shame be not so  rude : I swear you are quite spoiled. Get you gone you good-natur’d Toad  you. [Exetmti\    Malagene, . . . I’m a very good Mimick ; I can act Punchinello, Scara-  mouchir, Harlequin, Prince Prettyman or anything. 1 can act the rumbling  of a Wheel -barrow.   Valentine, The rumbling of a Wheel-barrow !   MaL Ay, the rumbling of a Wheel-barrow, so I say — Nay more than that,  I can act a Sow and Pigs, Saussages a broiling, a Shoulder of Mutton a  roasting : I can act a fly in a Honey-pot,   Truman, That indeed must be the Effect of very curious Observation.   MaL No, hang it, I never make it my business to observe anything, that  is Mechanicke. But all this I do, you shall see me if you will : But here  comes her Ladyship and Sir Noble.   Ldy Squ, Oh, dear M^ Truman, rescue me. Nay Sir Noble for Heav’n’s  sake.   Sir N, I tell thee Lady, I must embrace thee : Sir, do you know me ! I am  Sir Noble Clumsey : I am a Rogue of an Estate, and I live— Do you want  any money ? I have fifty pounds.   VaL Nay good Sir Noble, none of your Generosity we beseech you. The  Lady, the Lady, Sir Noble.   Sir N. Nay, ’tis all one to me if you won’t take ft, there it is. — Hang  Money, my Father was an Alderman.   MaL ’Tis pity good Guineas should be spoil’d, Sir Noble, by your leave.   [Picks up the Guineasl\   Sir N. But, Sir, you will not keep my Money ?   MaL Oh, hang Money, Sir, your Father was an Alderman.   Sir N, Well, get thee gone for an Arch-Wag — I do but sham all this  while i — ^but by Dad he ’s pure Company. Lady, once more I say be civil, and come kiss me.   VaL Well done Sir Noble, to her, never spare.   Ldy Squ, I may be even with you tho for all this, Valentine : Nay  dear Sir Noble : M^ Truman, I’ll swear he’ll put me into Fits.   Sir N, No, but let me salute the Hem of thy Garment, Wilt thou marry  me? [LTneels.]   MaL Faith Madam do, let me make the Match.   Ldy Squ, Let me die Malagene, you are a strange Man, and Fll  swear have a great deal of Wit. Lord, why don’t you write ?   MaL Write? I thank your Ladyship for that with all my Heart. No  I have a Finger in a Lampoon or so sometimes, that ’s all.   Truman, But he can act.   Ldy Squ, I’ll swear, and so he does better than any one upon our  Theatres; I have seen him. Oh the English Comedians are nothing, not  comparable to the French or Italian: Besides we want Poets.   SirN, Poets! Why I am a Poet; I have written three Acts of a Play,  and have nam’d it already. ’Tis to be a Tragedy.   Ldy Squ. Oh Cousin, if you undertake to write a Tragedy, take my Counsel : Be sure to say soft melting tender things in it that may be moving,  and make your Lady’s Characters virtuous whatever you do.   Sir N. Moving I Why, I can never read it myself but it makes me laugh :  well, ’tis the pretty’st Plot, and so full of Waggery.   Ldy Sgti, Oh ridiculous I   Mai But Knight, the Title ; Knight, the Title.   Sir N, Why let me see ; ’tis to be called The Merry Conceits of Love ;  or the Life and Death of the Emperor Charles the Fifth, with the Humours  of his Dog Boabdillo.   Mai PI a, ha, ha. . Ldy Squ, But dear Malagene, won’t you let us see you act a little  something of Harlequin? I’ll swear you do it so naturally, it makes me  think Fm at the Louvre or Whitehall all the time. [Mai acis.] O Lord,  don’t, don’t neither ; I’ll swear you’ll make me burst. Was there ever any-  thing so pleasant ?   Trwn, Was ever anything so affected and ridiculous ? Her whole Life  sure is a continued Scene of Impertinence. What a damn’d Creature is  a decay’d Woman, with all the exquisite Silliness and Vanity of her Sex, yet  none of the Charms ! [Mai s^peaks in PunchinelMs voicei\   Ldy Squ, O Lord, that, that ; that is a Pleasure intolerable. Well, let  me die if I can hold out any longer.   A Comparison between the Stages, wiih an Examen of the Generous  Conqueror^ printed in 1702, is a dialogue between ^ Two Gentlemen’,  Sullen and Ramble (see below), and ^a Critick’,upon the plays of the day and  others of an earlier date. The style is that of easy and natural familiar con-  versation, with little or no artificiality, and incidentally, the tract throws  light upon contemporary manners and social habits. The following  examples are designed to illustrate the colloquial handling of indifferent  topics, and the small-talk of the early eighteenth century, as well as  the treatment of the immediate subject of the essay.   Sullen. They may talk of the Country and what they will, but the Park  for my money.   Ramble. In its proper Season I grant you, when the Mall is pav’d with  lac’d shoes ; when the Air is perfum’d with the rosie Breath of so many fine  Ladies ; when from one end to the other the Sight is entertain’d with nothing  but Beauty, and the whole Prospect looks like an Opera.   Sull And when is it out of Season Ramble ?   Ram. When the Beauties desert it ; when the absence of this charming  Company makes it a Solitude : Then Sullen, the Park is to me no more than  a Wilderness, a very Common ; and a Grove in a country Garden with a  pretty Lady is by much the pleasanter Landscape.   Sull To a Man of your Quicksilver Constitution it may be so, and the  Cuckoo in May may be Music t’ee a hundred Miles off, when all the Masters  in Town can’t divert you.   Ram. I love everything as Nature and the Nature of Pleasure has con-  triv’d it ; I love the Town in Winter, because then the Country looks aged  and deform’d ; and I hate the Town in Summer, because then the Country is  in its Glory, and looks like a Mistress just drest out for enjoyment.   Sull Very well distinguish’d : Not like a Bride, but like a Mistress.   Ram. I distinguish ’em by that comparison because I love nothing well  enough to be wedded to ’t : I’m a Proteus in my Appetite, and love to change  my Abode with my Inclination,   Sull I differ from you for the very Reason you give for your change ; the  Town is evermore the same to me ; and tho* the Season makes it look after  another manner, yet still it has a Face to please me one way or other, and  both Winter and Summer make it agreeable, —pp. 1-3*   B b 2   Here is a conversation during dinner at the ' Blew Posts \   Critik, What have you order’d ?   Ramh. A Brace of Carp stew’d, a piece of Lamb, and a Sallet ; d’ee  like it ?   Crit, I like, anything in the World that will indure Cutting : Prithee  Cook make haste or expect I shall Storm thy Kitchin.   SulL Why thou’rt as hungry as if thou hadst been keeping Garrison in  Mantua : I don’t know whether Flesh and Blood is safe in thy Company.   CriL I wish with all my Heart thou wert there, that thou mightst under-  stand what it is to fast as 1 have done : Come, to our Places • . . the blessed  hour is come. . . . Sit, sit . . . fall to, Graces are out of Fashion.   Ramb. I wish the Charming Madam Subligny were here.   CriL Gad so don’t 1 : I had rather her P'eet were pegg’d down to the  Stage; at present my Appetite stands another way : Waiter, some Wine . , .  or I shall choak. . Suit, This Fellow eats like an Ostrich, the Bones of these great Fish are  no more to him than the Bones of an Anchovy ; they melt upon his Tongue  like marrow Puddings.   Crit Ay, you may talk, but I’m sure I find ’em not so gentle ; here ’s  one yet in my Throat will be my death ; the Flask . . . the Flask . . . ,   Ramb. But Critick, how did you like the Play last Night ?   Crit. I’ll tell you by and by, Lord Sir, you won’t give a Man time to break  his Fast: This Fish is such washy Meat ... a Man can’t fix his knife in ’t,  it runs away from him as if it were still alive, and was afraid of the Hook :  Put the Lamb this way.   SulL The Rogue quarrels with the Fish, and yet you cou’d eat up the  whole Pond ; the late Whale at Cuckold’s point, with all its oderiferous Gar-  badge, wou’d ha’ been but a Meal to him : Well, how do you like the Lamb ?  does that feel your knife?   Crit. A little more substantial, and not much : Well, I shou’d certainly be  starv’d if I were to feed with the French, I hate their thin slops, their Pot-  tages, Frigaces, and Ragous, where a Man may bury his Hand in the Sauce,  and dine upon Steam : No, no, commend me to King Jemmy’s English  Surloin, in whose gentle Flesh a Man may plunge a Case-knife to the tip of  the Handle, and then draw out a Slice that will surfeit half a Score Yeoman of  the Guard. Some Wine ye Dog . . . there . , . now I have slain the Giant ;  and now to your Question . . . what was it you askt me ?   Ramb. Won’t you stay the Desert ? Some Tarts and Cheese ?   Crit I abominate Tarts and Cheese, they’re like a faint After-kiss, when  a Man is sated with better Sport ; there ’s no more Nourishment in ’em, than  in the paring of an Apple. Here Waiter take away. . . .   Ramb. Then remove every Thing but the Table-cloth.’ , .   Ramb. Here Waiter — send to the Booksellers in Pell mell for the Generous  Conqueror and make haste . . , you say you know the Author Critick.   Crit. By sight I do, but no further ; he ’s a Gentleman of good Extraction,  and for ought I know, of good Sense.   Ramb. Surely that’s not to be questioned; I take it for granted that  a Man that can write a Play, must be a Man of good Sense.   Crit That is not always a consequence, I have known many a singing  Master have a worse voice than a Parish Clerk, and I know two dancing  Masters at this time, that are directly Cripples : . . . A Ship-builder may fit  up a Man of War for the West Indies, and perhaps not know his Compas :  Or a great Trpelier, with Heylin, that writ the Geography of the whole  World, may, like him, not know the way from the next Village to his  own House.   Ramb. Your Comparisons are remote M*^ Critick.   Cfit. Not so remote as some successful Authors are from good sense ;  Wit and Sense are no more the same than Wit and Humour; nay there is  even in Wit an uncertain Mode, a variable Fashion, that is as unstable as  the Fashion of our Cloaths : This may be proved by their Works who writ  a hundred Years ago, compar’d with some of the modern ; Sir Philip Sidney,  Don, Overbury, nay Ben himself took singular delight in playing with their  Words : Sir Philip is everywhere in his Arcadia jugling, which certainly by  the example of so great a Man, proves that sort of Wit then in Fashion ; now  that kind of Wit is call’d Punning and Quibbling, and is become too low for  the Stage, nay even for ordinary Converse ; so that when we find a Man who  still loves that old fashion’d Custom, we make him remarkable, as who is  more remarkable than Capt. Swan.   Ramb. Nay, your Quibble does well now a Days, your best Comedies  tast of ’em ; the Old Batchelor is rank.   Crit. But ’tis every Day decreasing, and Queen Betty’s Ruff and Fardin-  gale are not more exploded ; But Sense Gentlemen, is and will be the same  to the World’s end.   SulL And Nonsense is infinite, for England never had such a Stock and  such Variety.   Ramb. Yet I have heard the Poets that flourish’d in the last Reign but  two, complain of the same Calamity, and before that Reign the thing was the  same : All Ages have produced Murmurers ; and in the best of times you shall  hear the Trades-man cry — Alas Neighbour ! sad Times, very hard Times .. ,  not a Penny of Money stirring . . . Trade is quite dead, and nothing but War  . . . War and Taxes . . . when to my knowledge the gluttonous Rogue shall  drink his two Bottles at Dinner, and his Wife have half a Score of rich Suits,  a purse of Gold for the Gallant, and fifty Pounds worth of Gold and Silver  Lace on her under Petticoats.   Sail, Nay certainly, this that Ramble now speaks of is a great Truth;  those hypocritical Rogues are always grumbling; and tho’ our Nation never  had such a Trade, or so much Money, yet ’tis all too little for their voracious  Appetites : As I live — says he, I can’t afford this Silk one Penny cheaper —  d’ee mind the Rogues Equivocation ? as I live — ^that is, he lives like a Gen-  tleman — but let him live like a Tradesman and be hang’d ; let him wear  a Frock, and his Wife a blew Apron.   Ramb, See, the Book ’s here : go Waiter and shut the Door. — pp. 76-9.   The dialogue of Hichardson, ' sounynge in moral vertu ^ devoid of all  the lighter touches, is typical of the age that was beginning, the age of  reaction against the levities and negligences in speech and conduct  of the seventeenth and early eighteenth centuries.   The following conversation of rather an agitated character, between  a mother and daughter, is from Letter XVI, in Clarissa Ifarlozue{i*j4S):   * • * • My mother came up to me. I love, she was pleased to say, to come  into this appartment.— No emotions child I No flutters ! — Am I not your  mother F—Am I not your fond, your indulgent mother P-— Do not discompose  me by discomposixig Do not occasion me uneasiness, when I would   glveyau nothing but pleasure. Come my dear, we will go into your closet. . . .  PI ear me out and then speak ; for I was going to expostulate. You are no  stranger to the end of M^ Solmes’s visits — O Madam! — Hear me out;  and then speak. — He is not indeed everything I wish him to be : but he is  a man of probity and has no vices — No vices Madam ! — Hear me out child. —  You have not behaved much amiss to him : we have seen with pleasur *. that  you have not — O Madam, must I not now speak ! I shall have done pre.‘ fently,  —A young creature of your virtuous and pious turn, she was pleased ! say,  cannot surely love a predicate ; you love your brother too well, to wish p see  any one who had like to have killed him, and who threatened youri incles  and defies us all You have had your own way six or seven times : v|? | w^nt  to secure you against a man so vile. Tell me (I have a right to know)  whether you prefer this man to all others ? — Yet God forbid that I should  know you do ; for such a declaration would make us all miserable. Yet tell  me, a.re your affections engaged to this man ?   I know what the inference would be if I had said they were not You hesitate  — You answer me not — You cannot answer me — Rising — Nevermore will  I look upon you with an eye of favour — O Madam, Madam ! Kill me not  with your displeasure — I would not, I need not, hesitate one moment, did  I not dread the inference, if I answer you as you wish. — Yet be that inference  what it will, your threatened displeasure will make me speak. And I declare  to you, that I know not my own heart if it be not absolutely free. And pray,  let me ask my dearest Mamma, in what has my conduct been faulty, that  like a giddy creature, I must be forced to marr^r, to save me from— from  what ? Let me beseech you Madam to be the Guardian of my reputation \  Let not your Clarissa be precipitated into a stale she wishes not to enter into  with any man ! And this upon a supposition that otherwise she shall marry  herself, and disgrace her whole family.   When then, Clary [passing over the force of my plea] if your heart be free  — O my beloved Mamma, let the usual generosity of your dear heart operate  in my favour.^ Urge not upon me the inference that made me hesitate.   I won’t be interrupted, Clary — You have seen in my behaviour to you, on  this occasion, a truly maternal tenderness ; you have observed that I have  undertaken the task with some reluctance, because the man is not everything ;  and because I know you carry your notions of perfection in a man too high.  — Dearest Madam, this one time excuse me ! Is there then any danger that  I should be guilty of an imprudent thing for the man’s sake you hint at ?  Again interrupted! Am I to be questioned, and argued with? You know  this won’t do somewhere else. You know it won’t. What reason then,  ungenerous girl, can you have for arguing with me thus, but because you  think from my indulgence to you you may ?   What can I say ? What can I do ? What must that cause be that will not  bear being argued upon ?   Again ! Clary Harlowe —   Dearest Madam forgive me : it was always my pride and my pleasure to  obey you. But look upon that man — see but the disagreeableness of his  person — Now, Clary, do I see whose pei'son you have in your eye ! — Now is  M^’ Solmes, I see, but coinparatively disagreeable ; disagreeable only as an«  other man has a much more specious person.   But, Madam, are not his manners equally so 1 — Is not his person the true  representation of his mind ? — That other man is not, shall not be, anything  to me, release me from this one man, whom my heart, unbidden, resists.   Condition thus with your father. Will he bear, do you think, to be thus  dialogued with? Have I not conjured you, as you value my peace — What is  it that / do not give up ?*~-This very task, because I apprehended you would  not be easily persuaded, is a task indeed upon me. And will you give up  nothing ? Have you not refused as many as have been offered to you ? If you  would not have us guess for whom, comply ; for comply you must, or be  looked upon as in a state of defiance with your whole family. And saying  thus she arose, and went from me.’   Miss AusteiL.   The following examples of Miss Austen’s dialogue are not selected  because they are the most sparkling conversations in her works, but  rather because they appear to be typical of the way of speech of the  period, and further they illustrate Miss Austeff s incomparable art. The  first passage is ixomEmma^ which was written between i8ii and  3^5   i8i6. Mr. Woodhouse and his daughter have just received an invitation  to dine with the Coles, enriched tradespeople who had settled in the  neighbourhood. Emma's view of them was that they were ' very respect-  able in their way, but they ought to be taught that it was not for them to  arrange the times on which the superior families would visit them On  the present occasion, however, ‘ she was not absolutely w^ithout inclina-  tion for the party. The Coles expressed themselves so properly — there  was so much real attention in the manner of it — so much consideration  for her father/ Emma having decided in her own mind to accept the  invitation — some of her intimate friends were going — it remained to  explain to her father, the ailing and fussy Mr. Woodhouse, that he  would be left alone without his daughter s company for the evening, as it  was out of the question that he should accompany her. ‘ He was soon  pretty well resigned.’   ‘ I am not fond of dinner-visiting ” said he ; “I never was. No more is  Emma. Late hours do not agree with us. I am sorry and Cole  should have done it. I think it would be much better if they would come in  one afternoon next summer and take their tea with us ; take us in their  afternoon walk, which they might do, as our hours are so reasonable, and  yet get home without being out in the damp of the evening. The dews of  a summer evening are what I would not expose anybody to. However as  they are so very desirous to have dear Emma dine with them, and as you  will both be there [this refers to his friend Weston and his wife], and  Knightley too, to take care of her I cannot wish to prevent it, provided  the weather be what it ought, neither damp, nor cold, nor windy.” Then  turning to Weston with a look of gentle reproach — “Ah, Miss Taylor,  if you had not married, you would have staled at home with me.”   “ Well, Sir ”, cried Weston, as I took Miss Taylor away, it is incumbent  upon me to supply her place, if I can ; and I will step to M^’® Goddard in  a moment if you wish it.” . . . With this treatment M^ Woodhouse was  soon composed enough for talking as usual. “ He should be happy to see  M^*® Goddard. He had a great regard for Goddard; and Emma  should write a line and invite her. James could take the note. But first  there must be an answer written to M’^® Cole.”   “ You will make my excuses, my dear, as civilly as possible. You will say  that I am quite an invalid, and go nowhere, and therefore must decline their  obliging invitation ; beginning with my comj^limentsy of course. But you will  do everything right. I need not tell you what is to be done. We must  remember to let James know that the carriage will be wanted on Tuesday.  I shall have no fears for you with him. We have never been there above  once since the new approach was made ; but still I have no doubt that James  will take you very safely ; and when you gel there you must tell him at what  time you would have him come for you again ; and you had better name an  early hour. You will not like staying late. You will get tired when tea is over.”   “ But you would not wish me to come away before I am tired, papa ? ”   Oh no my love ; but you will soon be tired. There will be a great many  people talking at once. You will not like the noise.”   “But my dear Sir,” cried M^’ Weston, “if Emma comes away early, it  will be breaking up the party.”   “ And no great harm if it does ” said Woodhouse. “ The sooner every  party breaks up the better.”   “ But you do not consider how it may appear to the Coles. Emma’s going  away directly after tea might be giving offense. They are good-natured  people, and think little of their own claims ; but still they must feel that  anybody’s hurrying away is no great compliment ; and Miss Woodhouse’s doing it would be more thought of than any other personas in the room.  You would not wish to disappoint and mortify the Coles, I am sure, sir;  friendly, good sort of people as ever lived, and who have been your neighbours  these /en years.”   ‘^No, upon no account in the world, Weston, I am much obliged to  you for reminding me. I should be extremely sorry to be giving them any  pain. I know what worthy people they are. Peny tells me that Cole  never touches malt liquor. You would not think it to look at him, but he is  bilious — M^' Cole is very bilious. No, I would not be the means of giving  them any pain. My dear Emma we must consider this. I am sure rather  than run any risk of hurting and Cole you would stay a little longer  than you might wish. You will not regard being tired. You will be perfectly  safe, you know, among your friends.”   Oh 5^es, papa. I have no fears at all for myself ; and I should have no  scruples of staying as late as Weston, but on your account. I am only  afraid of your silting up for me. I am not afraid of your not being ex-  ceedingly comfortable with Goddard. ^ She loves piquet, you know ; but  when she is gone home I am afraid you will be sitting up by youiself, instead  of going to bed at your usual time ; and the idea of that would entirely  destroy my comfort. You must promise me not to sit up.” *   The next example is in a very different vein. It is from Sense and  Sensibility (chap, xxi) and records the mode of conversation of the  Miss Steeles. These two ladies are among Miss Austen's vulgar  characters, and their speech lacks the restraint and decorum which her  better-bred personages invariably exhibit. While the Miss Steeles’ con-  versation is in sharp contrast with that of the Miss Dashwoods, with  whom they are here engaged, both in substance and manner, it evidently  passed muster among many of the associates of the latter, especially with  their cousin Sir John Middleton, in whose house, as relations of his  wife's, the Miss Steeles are staying. Apart from the vulgarity of thought,  the diction appears low when compared with that of most of Miss Austen's  characters. As a matter of fact it is largely the way of speech of the  better society of an earlier age, which has come down in the world, and  survives among a pretentious provincial bourgeoisie.   ‘ ‘^What a sweet woman Lady Middleton is” said Lucy Steele . . . '‘And  Sir John too ” cried the elder sistei', “ what a charming man he is ! ” . . .   And what a charming little family they have ! I never saw such fine children  in my life. I declare I quite doat upon them already, and indeed I am  always destractedly fond of children.” "I should guess so” said Elinor  with a smile “from what I witnessed this morning.”   “I have a notion” said Lucy, “you think the little Middletons rather too  much indulged ; perhaps they may be the outside of enough ; but it is natural  in Lady Middleton; and for my part I love to see children full of life and  spirits ; I cannot bear them if they are tame and quiet”   “I confess ” replied Elinor, “that while I am at Barton Park, I never  think of tame and quiet children with any abhorrence.” *    “ And how do you like Devonshire, Miss Dashwood ? (said Miss Steele)  I suppose you were very sorry to leave Sussex.”   In some suiyrise at the familiarity of this question, or at least in the  manner in which it was spoken, Elinor replied that she was.   “Norland is a prodigious beautiful place, is not it?” added Miss Steele,  “We have heard Sir John admire it excessively,” said Lucy, who seemed  to think some apology necessary for the freedom of her sister. “ I think     MISS LUCY STEELE    B11   every one admire it ’'replied Elinor, “who ever saw the place; though  it is not to be supposed that any one can estimate its beauties as we do."   “ And had you many smart beaux there ? I suppose you have not so many  in this part of the world ; for my part I think they are a vast addition  always."   “ But why should you think " said Lucy, looking ashamec^ of her sister,  “that there are not as many genteel young men in Devonshire as Sussex."   “ Nay, my dear, Fm sure I don’t pretend to say that there an’t. Fm sure  there ’s a vast many smart beaux in Exeter ; but you know, how could I tell  what smart beaux there might be about Norland? and I was only afraid the  Miss Dashwoods might find it dull at Barton ; if they had not so many as  they used to have. But perhaps you young ladies may not care about beaux,  and had as lief be without them as with them. For my part, I think they are  vastly agreeable, provided they dress smart and behave civil. But I can’t  bear to see them dirty and nasty. Now, there’s Rose at Exeter, a pro-  digious smart young man, quite a beau, clerk to Simpson, you know,  and yet if you do but meet him of a morning, he is not fit to be seen. I sup-  pose your brother was quite a beau, Miss Dashwood, before he married, as  he was so rich ? "   “ Upon my word," replied Elinor, “I cannot tell you, for I do not per-  fectly comprehend the meaning of the word. But this I can say, that if he  ever was a beau before he married, he is one still, for there is not the smallest  alteration in him."   “ Oh ! dear 1 one never thinks of married men’s being beaux — they have  something else to do."   “Lord! Anne", cried her sister, “you can talk of nothing but beaux; —  you will make Miss Dashwood believe you think of nothing else."’   It is not surprising that ‘ “ this specimen of the Miss Steeles’" was enough.  The vulgar freedom and folly of the eldest left her no recommendation  and as Elinor was not blinded by the beauty, or the shrewd look of the  youngest, to her want of real elegance and artlessness, she left the house  without any wish of knowing them better   Greetings and Farewells.   Only the slightest indication can be given of the various modes of greet-  ing and bidding farewell These seem to have been very numerous, and  less stereotyped in the fifteenth and sixteenth centuries than at present. It  is not easy to be sure how soon the formulas which we now employ, or  their ancestral forms, came into current use. The same form often serves  both at meeting and parting.   In 1451, Agnes Paston records, in a letter, that "after evynsonge,  Angnes Ball com to me to my closett and dad me good evyn \ In the  account, quoted above, p. 362, given by Shillingford of his meetings  with the Chancellor, about 1447, he speaks of "saluting hym yn the  moste godely wyse that y coude ' but does not tell us the form he used.  The Chancellor, however, replies " Welcome^ ij times, and the tyme   Right met come Mayer'% and helde the Mayer a grete while faste by  the honde I   In the sixteenth century a great deal of ceremonial embracing and  kissing was in vogue. Wolsey and the King of France, according to  Cavendish, rode forward to meet each other, and they embraced each  other on horseback. Cavendish himself when he visits the castle of the  Lord of Cr^pin, a great nobleman, in order to prepare a lodging for the Cardinal, is met by this great personage, who ^ at his first coming  embraced me, saying I was right heartily welcome'. Henry VIII was  wont to walk with Sir Thomas More, ' with his arm about his neck \  The actual formula used in greeting and leave-taking is too often un-  recorded. When the French Embassy departs from England, whom  Wolsey has sb splendidly entertained, Cavendish says — ' My lord, after  humble commendations had to the French King bade them adieu'. The  Earl of Shrewsbury greets the Cardinal thus — ‘ My Lord, your Grace is  most heartily welcome unto me', and Wolsey replies ‘Ah my gentle  Lord of Shrewsbury, I heartily thank you '.   It is not until the appearance of plays that we find the actual forms of  greeting recorded with frequency. In Roister Doister, there are a fair  number: — God heepe thee worshipful Master Roister Doister; Welcome  my good wenche ; God you saue and see Nourse ; and the reply to this —  Welcome friend Merrygreeke; Good flight Roger old farewell   Roger old knaue ; well mef^ I bid you right welcome, A very favourite  greeting is God he with you,   God continue your Lordship is a form of farewell in Chapman's  Monsieur D'Olive, and God-den ‘ good evening occurs in Middleton's  Chaste Maid in Cheapside. Sir Walter Whorehoimd in the same play  makes use of the formula ‘ I embrace your acquaintance Sir \ to which  the reply is vows your service Str\ Massinger's New Way to pay  old Debts contains various formulas of greeting. I ain still your creature^  says Allworth to his step-mother Lady A. on taking leave ; of two old  domestics he takes leave with ‘ rny service to both \ and they reply ‘ ours  waits on you In reply to the simple Farewell Tom, of a friend,  All worth answers ^ All joy stay with you \ Sir Giles Overreach greets  Lord Lovel with ‘ Good day to My Lord ' ; and the prototype of the modern  how are you is seen in Lady Allworth's ‘ Hoiv dost thou Marrall P '  A graceful greeting in this play is ‘ Fou are happily encountered'.   The later seventeenth-century comedies exhibit the characteristic  urbanity of the age in their formulas of greeting and leave-taking.   ‘ A happy day to you Madam is Victoria's morning compliment to  Mrs. Goodvile in Otway's Friendship in Fashion, and that lady replies—  ‘ Dear Cousin, your humble servant'. Sir Wilfull Witwoud in Congreve's  Way of the World, says ‘ Save you Gentleman and Lady ' on entering  a room. His younger brother, on meeting him, greets him with ‘ Four  servant Brother", and the knight replies ‘ servant! Why yours Sir,  Four servant again ; "s heart, and your Friend and Servant to that \  Tm everlastingly your humble servant, deuce take me Madam, says Mr. Brisk  to Lady Froth, in the Double Dealer.   Your servant is a very usual formula at this period, on joining or  leaving company. In Vanbrugh's Journey to London, Colonel Courtly  on entering is greeted by Lady Headpiece — Colonel your servant; her  daughter Miss Betty varies it with^ — Four servant Colonel, and the visitor  replies to both — Ladies, your most ohedienL   Mr. Trim, the formal coxcomb in ShadwelFs Bury Fair, parts thus  from his friends — Sir, I kiss your hands ; Mr, Wildish— -S’/r your most  humble servant; Trim — Oldwii I am your most faithful servant;  Mr. Oldwit — Four servant sweet il/'* Trim, Four servant, madam good morrow to you, is Lady Arabella's greeting  to Lady Headpiece, who replies — to you Madam (Vanbrugh's  Journey to London). The early eighteenth century appears not to  differ materially from the preceding in its usage. Lord Formal in  Fielding's Love in Several Masques, says Ladies your most humble  servafit, and Sir Apish in the same play — Four Ladyships everlasting  creature^    Epistolary Formulas.   The writing of letters, both familiar and formal, is such an inevitable  part of everyday life, that it seems legitimate to include here some  examples of the various methods of beginning and ending private letters  from the early fifteenth century onwards. A proper and exhaustive  treatment of the subject would demand a rather elaborate classification,  according to the rank and status of both the writer and the recipient,  and the relation in which they stood to each other — whether master  and servant, or dependant, friend, subject, child, spouse, and so on.  In the comparatively few examples here given, out of many thousands,  nothing is attempted beyond a chronological arrangement The status  and relationship of the parties is, however, given as far as possible. We  note that the formula employed is frequently a conventional and more  or less fixed phrase which recurs, with slight variants, again and again.  At other times the opening and closing phrases are of a more personal  and individual character.   1418. Archbp* Chichele to Hen. V, Signs simply: your preest and bede-  man. — Ellis, i. i. 5.   142 5. IVilL Fasten to . Right worthy and worshepfull Sir. I recom-   maunde me to you, &c. Ends : Almyghty God have you in his governaunce.  Your frend unknowen. — Past. Letters, i. 19-20.   1440. Agnes to Will. Fasten. Inscribed: To my worshepful housbond  W. Paston be this letter takyn. Dere housbond I reccommaunde me to yow.  Ends : The Holy Trinite have you in governaunce. — P. L. i. 38-9.   1442-5. Dtike of Buckingham to Lord Beau 7 nont, Ryght worshipful and  with all my herte right enterly beloved brother, I recomaunde me to you,  thenking right hastili your good brotherhode for your gode and gentill letters.  I beseche the blissid Trinite preserve you in honor and prosperite. Your  trewe and feithfull broder H. Bukingham. — P. L- i. 61-2.   1443. Margaret to John Paston. Ryth worchipful husbon, I reccomande  me to yow desyryng her tel y to her of your wilfar. Almyth God have you in  his kepyn and sendo yow helth, Yorys M. Paston. — P. L. i. 48-9.   1444. James Gresham to Will. Fasten. Please it your good Lordship to  wete, &c. Ends : Wretyn right simply the Wednesday next to fore the Fest.  By your laiost symple servaunt — P. L. i, 50.   1444, Duchess of Norfolk to J. Past 07 i. Ryght tmsty and entirely wel-  bclovcd we grete you wel hertily as we kan , . . and siche agrement as, &c.  ... we shall duely performe yt with the myght of Jesu who haff you in his  blissed keping. — P. L. i. 57,   1444. Sir R. Ckamberlayn to Agn. Paston. Ryght worchepful cosyn,  I comand me to you. And I beseche almyty God kepe you. Your Cosyn  Sir Roger Chamberlain.   1445. Agnes to Edm. Fasten. To myn welbelovid sone. I grete you wel.  Be your Modre Angnes Paston.— i, 58, 59.     380 COLLOQUIAL IDIOM   1449, Marg, to John Paston. Wretyn at Norwych in hast, Be your gronyng  Wyfr.-~i. 76“7-   1449. Same to sa 7 ne. No mor I wryte to ^ow atte this tyme* Your Mar-  karyte Paston. — i. 42-3.   1449. John Paston, Ends : Be ^owre pore Broder*   1449. E Its. ^ Clare to J, Paston, No raore I wrighte to 50 w at this tyme,  but Holy Cost have 50W in kepyng. Wretyn in haste on Scynt Peterys day  be candel lyght, Be your Cosyn E. C. — P. L. i. 89-90.   1450. Duke of Suffolk to his son. My dear and only welbeloved sone.  Your trewe and lovynge fader Suffolk. — P. L. i. 12 1-2.   1450, IVilL Lomme to J, Paston, I prey you this bille may recomaunde  me to mastrases your moder and wyfe. Wretyn yn gret hast at London. —  P.L. i. 126.   1450. y. Gresham to ^ my Mats ter Whyte Esguyer\ After due recomen-  dacion I recomaund me to yow.   1450. J, Paston to above, James Gresham, I pray you labour for the, &c.  — i. 145*   1450. Justice Yelverton to Sir J, Fastolf, By your old Servaunt William  Yelverton Justice. — P, L. i. 166.   1453. Agnes toJ, Paston, Sone I grete you well and send you Godys  blessyng and myn. Wretyn at Norwych ... in gret hast, Be your moder  A. Paston. — P. L. i. 259.   1454. J, Paston to Earl of Oxford* Youre servaunte to his powr John  Paston. — P. L. i. 276,   1454. Lord Scales to J, Paston, Our Lord have you in governaunce. Your  frend The Lord Scales. — P. L. i. 289.   1454, Thomas Howes to J, Paston, I pray God kepe yow. Wiyt at Castr  hastly ij day of September, Your owne T. Howes. — P. L. i. 301.   1454. The same. Your chapleyn and bedeman Thomas Howes.— *i. 31 8.   1455. /• PoLstolf to Duke of Norfolk, Writen at my pore place of  Castre, Your humble man and servaunt. — P. L. i. 324.   1455. /. Cudworth, Bp. of Lmcoln^ to J, Patton, And Jesu preserve you,  J. Bysshopp of Lincoln. — P.L. i. 350.   1456. Archbp, Bourchier to Sir J, Fastolf, The blissid Trinitee have you  everlastingly in His keping, Written in my manoir of Lamehith, Your feith-  full and trew Th, Cant. — P. L. i. 382.   1456 (Nephew to uncle). H, Fylinglay to Sir J, Fastolf Ryght wor-  shipful unkell and my ryght good master, I recomniaund me to yow wyth all  my servys. And Sir, my brother Paston and I have, &c. . . . Your nevew  and servaunt — P. L. i. 397.   1458. John Jerningham to Marg, Paston. Nomor I wryte unto you at  this tyme. . . . Your owne umhle servant and cosyn J. J.— P, L. i. 429.   1458 (Daughter to her mother). Elh, Poynings to Agn, Paston, Right  worshipful and my most entierly belovde moder, in the most lowly maner  I recomaund me unto your gode moderhode. . . . And Jesu for his grete  mercy save yow. By your humble daughter. — P. L. i, 434-5.   1469. Chancellor and University of Oxford to Sir John Say, Ryght wor-  shipful our trusty and entierly welbeloued, after harty commendacyon. . . .  Ends : yo’-' trew and harty louers The Chancelir and Thuniversite of Oxon-  ford. — Ellis.   1477. John Paston to Ms mother* Your sone and humbyll servaunt P. —  P. L. iii. 176.   1481-4. Edm, Paston to Ms mother, umble son and servant. —   P. L. iii, 280.   1482. J, Paston to Ms mother. Your sone and trwest servaunt — P. h*  iii. 290.   1482. Margery Paston to her hushaftd. No more to you at this tyme, Be  your servaunt and bede woman.— iii. 293, 1485. Duke of Norfolk to J, Faston. Welbelovyd frend I cummaund me  to yow. . . . I shall content you at your metyng with me, Yower lover J. Nor-  folk.— iii. 320,   1485. Eliz, Browne to J. Paston. Your loving awnte E. B.   1485. Duke of Suffolk to f Paston, Ryght welbeloved we grete you well.  . , . Suffolk, yor frende. — iii. 324-5.   1490. Bp* of Durham to Sir fohn Paston* IH2, Xps*. Rygiit wortchipful  sire, and myne especial and of long tyme apprevyd, trusty and feythful frende,  I in myne hertyeste wyse recommaunde me un to you. . . , Scribyllyd in the  moste haste, at my castel or manoir of Aucland the xxvij of Januay. Your  own trewe luffer and frende John Duresme. — iii. 363.   1490. Lumen H ary son to Sir f Past on. Onerabyll and well be lov^^'d  Knythe, I commend me on to 5our masterchepe and to my lady 5owyr wyffe.  . , . No mor than God be wyth 50W, L. H. at ^ouyr comawndment.   1503. Q. Margaret of Scotland to her father Hen. VII. My moste dere  iorde and fader in the most humble wyse that I can thynke I recommaunde  me unto your Grace besechyng you off your dayly blessyngys. . . . Wrytyn  wyt the hand of your humble douter Margaret. — Ellis i. i. 43.   Hen. VI J to his Mother.^ the Countess of Richmond. Madam, my most  enterely wilbeloved Lady and Moder . . . with the hande of youre most  humble and lovynge sone. — Ellis, i. i. 43-5.   Margaret to Hen. VI 1 . My oune suet and most deare kynge and all my  worldly joy, yn as humble manner as y can thynke I recommand me to your  Grace ... by your feythful and trewe bedewoman, and humble modyr Mar-  garet R, — Ellis, i. I. 46.   1513. Q. Margaret oj Scotland to Hen. VI IL Richt excellent, richt hie  and mithy Prince, our derrist and best belovit Brothir. . . . Your louyn systar  Margaret. — Ellis, i. i. 65. (The Queen evidently employed a Scottish Secre-  tary.)   1515. Margaret to Wolsey. Yours Margaret R. — Ellis, i. i. 131.   1515. Thos. Lord Howard, Lord Admiral, to Wolsey. My owne gode  Master Awlmosner. . . . Scrybeled in gret hast in the Mary Rose at Plymouth  half o^' after xj at night . . . y^ own Thomas Howard.   c. 1515. West Bp. of Ely to Wolsey. Myne especiall good Lorde in my  most humble wise I recommaund me to your Grace besechyng you to con-  tynue my gode Lorde, and I schall euer be as I am bounden your dayly  bedeman. . . . Y^ chapelayn and bedman N 1 . Elien.   c. 1520. Archbp. Warham to Wolsey. Please ityo^ moost honorable Grace  to understand. ... At your Graces commaundement, Willm. Cantuar. —  Ellis, iii. I. 230. Also : Euer, your own Willm. Cantuar.   Langland Bp. of Lincoln to Wolsey. My bownden duety mooste lowly  remembrede unto Your good Grace. . . . Yo^ moste humble bedisman John  Lincoln.— Ellis, iii. l. 248.   Cath, of Aragon to Princess Mary. Doughter, I pray you thinke not, &c.  —Ellis, i, 2. 19, • . . Your lovyng mother Katherine the Queue.   Archibald, E. of Angus. Addresses letter to Wolsey : To my lord Car-  dinallis grace of Ingland. — Ellis, iii. i. 291.   1521. Bp. Tunstal to Wolsey. Addresses letter :— to the most reverend  fader in God and his most singler good Lorde Cardinal. — Ellis, iii. i* 273.   Ends a letter : By your Gracys most humble bedeman Cuthbert TunstalL  —Ellis, iii. I. 332 -   1515 or 1521. Duke of Buckingham to Wolsey, Yorys to my power  E. Bukyngham.   Gccvin Douglas, Bp. of Dunkeld, to Wolsey. ZgI chaplan wy^ his lawfull  seruyse Gavin bischop of Dunkeld.— Ellis, iii. i. 294- Zo^ humble servytor  and Chaplein of Dunkeld.— Ellis, iii. i. 296. Zo^ humble seruytor and  dolorous Chaplan of Dunkeld.— Ellis, iii. i. 303-   Wolsey to Gardiner {afterwards Bp. of Winchester)* Ends : Your assurjd  lover and bedysman T. Car^s Ebor.— Ellis, i. 2. 6. Again : Wryttyn hastely  at Asher with the rude and shackyng hand of your dayly bedysman and  assuryd frende T. Car^^® Ebor.   1532. T/ios, AudUy {Lord Keeper) to CromwelL Yo^' assured to his litell  Thomas Audeley Gustos Sigiili.   Edw. E, of Hertford {afterwards Lord Protector). Thus I comit you to  God hoo send yo^‘ lordshep as well to far as I would mi selfe . . . w^ the hand  of yo^ lordshepis assured E. Hertford.   Hen. VI 11 to Catherine Parr. No more to you at thys tyme swethart  both for lacke off tyme and gret occupation off bysynes, savyng we pray you  in our name our harte blessyngs to all our chyldren, and recommendations to  our cousin Marget and the rest off the laddis and gentyll women and to our  Consell alsoo. Wryttyn with the hand off your lovyng howsbande Henry R.  — Ellis, i. 2. 130.   Princess Mary to CromwelL Marye Princesse. Maister Cromwell I  commende me to you. — Ellis, i. 2. 24,   Prince Edward to Catherine Parr. Most honorable and entirely beloued  mother. . . . Your Grace, whom God have ever in his most blessed keping.  Your louing sonne, E. Prince. — Ellis, i. 2. 13 1.   1547. Henry Radclyf E. of Sussex, to his wife. Madame with most  lovyng and hertie commendations. — Ellis, i. 2. 137.   Princess Elizabeth to Ediv. VI. Your Maiesties humble sistar to com-  maundement Elizabeth. — Ellis, i. 2. 146 ; Your Maiesties most humble sistar  Elizabeth. — Ellis, i. 1. 148.   Princess Elizabeth to Lord Protector. Your assured frende to my litel  power Elizabeth. — Ellis, i. 2. 158.   Edward VI to Lord Protector Somerset. Derest Uncle. . . • Your good  neuew Edward. — Ellis, ii. i. 148.   Q.Mary to Lord Admiral Seymour. Your assured frende to my power  Marye. — Ellis, i. 2. 153.   Princess Elizabeth to Q. Mary (on being ordered to the Tower). Your  Highnes most faithful subjec that hath bine from the begining and wyl be to  my ende, Elizabeth. (Transcr. of 1732). — Ellis, ii. 2. 257.   1553, Princess Elizabeth to the Lords of the Council. Your verye lovinge  frende, Elizabeth- — Ellis, ii. 2. 213.   1554, Henry Darnley to Q. Mary of England. Your Maiesties moste  bounden and obedient subjecte and servant Henry Darnley.   Queen Dowager to Lord Admiral Seymour. By her ys and schalbe  your humble true and lovyng wyffe duryng her lyf Kateryn the Quenc. — Ellis,  i. 2. 152.   Q. Mary to Marquis of Winchester, Your Mystresse assured Marye the  Queue. -—Ellis, ii. 2. 252.   Sir John Grey of Pyrgo to Sir William Cecil. It is a great while me  thinkethe, Cowsine Cecill, since I sent unto you. ... By your lovyng cousin  and assured frynd John Grey. — Ellis, ii, 2. 73-4; Good cowsyne Cecil!. . , .  By yo^ lovyng Cousine and assured pouer frynd dowring lyfe John Grey. —  Ellis, ii. 2. 276.   Lady Catherine Grey, Cmmtess of Hertford, to Sir W, Cecil. Good cosyne  Cecill . . . Your assured frend and cosyne to my small power Katheryne  Hartford. — Ellis, ii. 2. 278 ; Your poore cousyne and assured frend to my  small power Katheryne Hartford. — Ellis, ii. 2. 287.   1564. Sir W. Cecil to Sir Thos. Smith. Your assured for ever W. Cecill.  — Ellis, ii. 2. 295 ; Yours assured W. Cecill— Ellis, ii, 2. 297 ; Your assured  to command W, Cecill — Ellis, ii. 2, 300.   1 566. Duchess of Somerset to Sir W. Cecil. Good M^ Secretary, yf I have  let you alone all thys whyle I pray you to thynke yt was to tary for my L, of  Leycesters assistans. ... I can nomore . . , and so do leave you to God Yo’^  assured lovyng frynd Anne Somerset,— Ellis, ii. 288. Christopher Jonson, Master of Winchester^ to Sir W, CeciL Right  honourable my duetie with all humblenesse consydered. . . . Your honoures  most due to commando, Christopher Jonson. — Ellis, ii. 2. 313.   1569. Lacfy Stanhope to Sir W, CeciL Right honorable, my humble  dewtie premised. . . . Your honors most humblie bound Anne Stanhope. —  Ellis, il 2. 324. _ ^ ^ ^ ,   1574. Sir Philip Sidney to the E. of Leicester, Righte Honorable and my  singular good Lorde and Uncle. . . . Your L. most obedi. . . , Philip Sidney.  —Works, p. 345.   1576. Sir Philip Sidney to Sir Francis Walsingham, Righte Honorable  ... I most humbly recommende my selfe unto yow, and leaue yow to the  Eternals most happy protection, . , . Yours humbly at commawndement  Philipp Sidney.   1578. Sir Philip Sidney to Edward Molineux^ Esq. (Secretary to Sir H.  Sidney), Molineux, Few words are best My letters to my father have  come to the eyes of some. Neither can I condemn any but you. . . . (The  writer assures M. that if he reads any letter of his to his father ^ without his  commandment or my consent, I will thrust my dagger into you. And trust  to it, for I speak it in earnest’. . . .) In the meantime farewell. From court  this last of May 1 578, By me Philip Sidney.— p. 328.   1580. Sir Philip Sidney to his brother Robert. My dear Brother . . .  God bless you sweet boy and accomplish the joyful hope I conceive of you.  , . . Lord I how I have babbled : once again farewell dearest brother. Your  most loving and careful brother Philip Sidney.   1582. Thomas Watson ^ To the frendly Reader^ (in Passionate Centurie of  Love). Courteous Reader , . . and so, for breuitie sake (I) aprubtlie make and  end ; committing the to God, and my worke to thy fauour. Thine as thou  art his, Thomas Watson.   Anne of Denmark to James L Sir ... So kissing your handes I remain  she that will ever love Yow best, Anna R. — Ellis, i. 3. 97.   c. 1585. Sir Philip to Walsingham. Sir , . . your louing cosin and frend.  In several letters to Walsingham Sidney signs *your humble Son’. ^   1586. Wm. Webbe to Ma. (= ^ Master ’) Edward Sulyard Esquire (Dedi-  catory Epistle to the Discourse of English Poetrie). May it please you Syr,  thys once more to beare with my rudenes, &c. ... I rest, Your worshippes  faithfull Seruant W. W.   1593. Edward Alleyn to his wife. My good sweete mouse . . . and so  swett mouse farwell. — Mem. of Edw. Alleyn, L 36; my good sweetharte and  loving mouse . . . thyn ever and no bodies else by god of heaven. — ibid.   1596, Thos., Lord Buckhurst, afterwards Earl of Dorset^ to Sir Robert  CeciL Sir . . . Your very lo: frend T. Buckhurst.   1 597, Sir W. Raleigh to Cecil. S*^ I humblie thanke yow for your letter . , .  S^ I pray love vs in your element and wee will love and honor yow in ours  and every wher. And remayne to be comanded by yow for evermore  W Ralegh.   1602. Same to same. Good Secretary. . . . Thus I rest, your very  loving and assured frend T, Buckhurst,— Works, xxxiv-xi.   1603. Same to same. My very good Lord. . ♦ . So I rest as you know,  Ever yours T. Buckurst   1605, Same to same. ... I pray God for your health and for mine own  and so rest Ever yours ...   1607. Same to the University of Oxford. Your very loving friend and  Chancellor T. Dorset— xlvi.   cr. 1608. Sir Menry Wotton to Henry Prince of Wales. Youre zealous  pooie servant H. W. — Ellis, i. 3* loo.   Q. Anne of Denmark to Sir George Villiers (afterwards Duke of Buc-  kingham). My kind Dog. # • . So wishing you all happiness Anna R.  Ellis, i. 3, ICO. Charles Duke of York to Prince Heniy. Most loving Brother  I long to see you, . . . Your H. most loving brother and obedient servant,  Charles. — Ellis, i. 3. 96.   1612. Prince Charles to James L Your most humble and most   obedient sone and servant Charles. — Ellis, i. 3. 102.   Same to Viljiers. Steenie, There is none that knowes me so well as your-  self. . , . Your treu and constant loving frend Charles P. — Ellis, i. 3. 104.   King Jaynes to Buckingham or to Prince Charles, My onlie sweete and  deare chylde I pray thee haiste thee home to thy deare dade by sunne setting  at the furthest. — Ellis, i. 3. 120.   Sa 7 ne to Buckingham, My Steenie. . . . Your clear dade, gosseppe and  stewarde. — Ellis, i. 3, 159.   Same to both. Sweet Boyes. . . . God blesse you both my sweete babes,  and sende you a safe and happie returne, James R. — Ellis, i. 3 121.   Prmce Charles a?id Buckingham to James, Y’our Majesties most humble  and obedient sone and servant Charles, and your humble slave and doge  Steenie.—Ellis, i. 3. 122.   1623. Buckingham to James. Dere Dad, Gossope and Steward. . . • Your  Majestyes most humble slave and doge Steenie. — Ellis, i, 3. 146-7.   1623. Lord Herbert to James, Your Sacred Majesties most obedient,  most loyal, and most affectionate subjecte and servant, E. Herbert   The letters of Sir John Suckling (Works, ii, Reeves & Turner) are  mostly undated, but one to Davenant has the date 1629, and another to  Sir Henry Vane that of 1632.   The general style is more modern in tone than those of any of the  letters so far referred to. (See on Suckling’s style, pp. 152-3.) The  beginnings and endings, too, closely resemble and are sometimes identical  with those of our own time.   To Davenant, Vane, and several other persons of both sexes, Suckling  signs simply — ^ Your humble servant J. S.’, or 'J. Suckling’. At least  two, to a lady, end * Your humblest servant The letter to Davenant  begins ‘WilL; that to Vane — ‘Right Honorable’. Several letters  begin ‘ Madam ‘ My Lord one begins ‘ My noble friend another  ‘ My Noble Lord several simply ‘ Sir The more fanciful letters,  to Aglaura, begin ‘ Dear Princess ’, ‘ Fair Princess ’, ‘ My clear Dear  ‘ When I consider, my dear Princess ’, &c. One to a cousin begins  ‘ Honest Charles   The habit of rounding off the concluding sentence of a letter so that  the valedictory formula and the writer’s name form an organic part of it,  a habit very common in the eighteenth century — in Miss Burney, for  instance — is found in Suckling’s letters. For example : ‘ I am still the   humble servant of my Lord that 1 was, and when I cease to be so,   I must cease to be John Suckling’; ‘yet could never think myself  unfortunate, while I can write myself Aglaura her humble servant ’ ; ‘ and  should you leave that lodging, more wretched than Montferrat needs  must be your humble servant J. S.’, and so on.   The longwindedness and prolixity wiiich generally distinguish the  openings and closings of letters of the fifteenth and the greater part of  the sixteenth century, begin to disappear before the end of the latter  period. Suckling is as neat and concise as the letter-writers of the  eighteenth century. ‘Madam, your most humble and faithful servant'  might serve for Dr. Johnson.  Most of our modern formulas were in use before the end of the first  half of the seventeenth century, though some of the older phrases still  survive. But we no longer find " I commend me unto your good master-  ship, beseeching the Blessed Trinity to have you in his governance and  such-like lengthy introductions. The Correspondence of Dr. Basire (see  pp. 163-4) is very instructive, as it covers the period from 1634 to 1675,  by which latter date letters have practically reached their modern form.  Dr. Basire writes in 1635-6 to Miss Frances Corbet, his fiancee, 'Deare  Fanny ^ Deare Love ^ ^ Love and ends ' Your most faithfuil frend J. B.',  'Thy faithful frend and loving servaunt J. B.", 'Your assured frend  and loving well-wisher J. B/, 'Your ever iouing frend J. B.' When  Miss Corbet has become his wife, he constantly writes to her in his  exile which lasted from 1640 to 1661, letters which apart from our present  purpose possess great human and historical interest. These letters generally  begin ' My Dearest', and ' My deare Heart', and he signs himself ' Your  very Iouing husband', 'Yours, more than ever', 'Your faithful husband',  ' My dearest. Your faithful friend ', ' Yours till death ' Meanewhile assure  your selfe of the constant love of— My dearest — ^Your loyall husband   The lady to whom these affectionate letters were addressed, bore with  wonderful patience and cheerfulness the anxieties and sufferings incident  upon a state bordering on absolute want caused by her husband's depriva-  tion of his living under the Commonwealth, his prolonged absence, together  with the cares of a family of young children, and very indifferent health.  She was a woman of great piety, and in her letters ‘ many a holy text  around she strews ' in reply to the religious soliloquies of her husband. Her  letters all begin ' My dearest ’, and they often begin and close with pious  exclamations and phrases — 'Yours as much as euer in the Lord, No, more  thene euer ' ; ' My dearest, I shall not faile to looke thos plases in the  criptur, and pray for you as becometh your obedient wife and serunt in  the Lord F. B. ’ ; another letter is headed ' Jesu 1 and ends — ' I pray God  send vs all a happy meting, I ham your faithful in the Lord, F. B.'  Many of the letters are headed with the Sacred Name. Others of  Mrs. Basire's letters end — 'Farwall my dearest, I ham yours faithful  for euer'; 'I euer remine Yours faithfuil in the Lord'; 'So with my  dayly prayers to God for you, I desire to remene your faithfuil loveing  and obedient wif '.   It may be worth while to give a few examples of beginnings and ends  of letters from other persons in the Basire Correspondence, to illustrate  the usage of the latter part of the seventeenth century.   These letters mostly bear, in the nature of an address, long superscrip-  tions such as 'To the Reverend and ever Honoured Doctour Basire,  Prebendary of the Cathedral Church in Durham. To be recommended  to the Postmaster of Darneton' (p. 213, dated 1662).   This letter, from Prebendary Wrench of Durham, begins ' Sir and  ends — ' Sir, Your faithfuil and unfeigned humble Servant R. W.'   In the same year the Bishop of St. David's begins a letter to Dr. Basire  — ' Sir and ends — ' Sir, youre uerie sincere friend and seruant, Wil.  St, David's p. 219,   The Doctor's son begins — ' Reverend Sir, and most loving Father '  and ends with the same formula, adding — ' Your very obedient Son, P. B ^   p. 221. To his Bishop (of Durham) Dr. Basire begins 'Right Rev.  Father in God, and my very good Lord ending ' I am still, My L<i,  Your Lp 3 . faithfull Servant Isaac Basire’. In 1666 the Bishop of Carlisle,  Dr. Rainbow, evidently an old friend of Dr. B/s, begins 'Good  Mr. Archdeacon and ends ' I commend you and yours to God’s grace  and remaine,'Your very faithfull frend Edw, Carlioi’, p. 254.   In 1668 the Bishop of Durham begins ' M^ Archdeacon ’ and ends ' In  the interim I shall not be wanting at this distance to doe all I can, who  am, Sir, Your very loving ffriend and servant TJo. Duresme', p. 273.  Dr. Barlow, Provost of Queen’s, begins 'My Reverend Friend’, and  ends ‘Your prayers are desired for, Sir, Your affectionate friend and  Seruant, Tho. Barlow’, p. 302 (1673). Dr. Basire begins a letter to  this gentleman — ‘ Rev. Sir and my Dear Friend ’ . . , ending ' I remain,  Reverend Sir, Your affectionate frend, and faithful servant To his  son Isaac, he writes in 1664 — 'Beloved Son’, ending — ‘So prays your  very lovinge and painfull Father, Isaac Basire ’.   Having now brought our examples of the various types of epistolary  formulas down to within measurable distance of our own practice, we  must leave this branch of our subject. Space forbids us to examine and illus-  trate here the letters of the eighteenth century, but this is the less necessary  as these are very generally accessible. The letters of that age, formal or  intimate, but always so courteous in their formulas, are known to most  readers. Some allusion has already been made (pp. 20-1) to the tinge of  ceremoniousness in address, even among friends, which survives far into  the eighteenth century, and may *be seen in the letters of Lady Mary  Montagu, of Gray, and Horace Walpole, while as late as the end of the  century we find in the letters of Cowper, unsurpassed perhaps among  this kind of literature for grace and charm, that combination of stateliness  with intimacy which has now long passed away.    Exclamations, Expletives, Oaths, &e.   Under these heads comes a wide range of expressions, from such as  are mere exclamations with little or no meaning for him who utters or  for him who hears them, or words and phrases added, by way of emphasis,  to an assertion, to others of a more formidable character which are  deliberately uttered as an expression of spleen, disappointment, or rage,  with a definitely blasphemous or injurious intention. In an age like  ours, where good breeding, as a rule, permits only exclamations of the  mildest and most meaningless kind, to express temporary annoyance,  disgust, surprise, or pleasure, the more full-blooded utterances of a former  age are apt to strike u$ as excessive. Exclamations which to those who  used them meant no more than ' By Jove ’ or ' my word ’ do to us, would  now, if they were revived appear almost like rather blasphemous irreve-  rence. It must be recognized, however, that swearing, from its mildest  to its most outrageous forms, has its own fashions. These vary from  age to age and from class to class. In every age there are expressions  which are permissible among well-bred people, and others which are not.  In certain circles an expression may be regarded with dislike, not so much because of any intrinsic wickedness attributed to it, as merely  because it is vulgar. Thus there are many sections of society at the  present time where such an expression as ‘ O Crikey * is not in use. No  one would now pretend that in its present form, whatever may underlie  it, this exclamation is peculiarly blasphemous, but many persons would  regard it with disfavour as being merely rather silly and distinctly  vulgar. It is not a gentleman’s expression. On the other hand, ^ Good  Heavens \ or ^ Good Gracious \ while equally innocuous in meaning and  intention, would pass muster perhaps, except among those who object, as  many do, to anything more forcible than ‘ dear me \   Human nature, even when most restrained, seems occasionally to  require some meaningless phrase to relieve its sudden emotions, and the  more devoid of all association with the cause of the emotion the better  will the exclamation serve its purpose. Thus some find solace in such  a formula as ‘ O liitle haiC which has the advantage of being neither  particularly funny nor of overstepping the limits of the nicest decorum,  unless indeed these be passed by the mere act of expressing any emotion  at all. It is really quite beside the mark to point out that utterances of  this kind are senseless. It is of the very essence of such outbursts — the  mere bubbles on the fountain of feeling — ^that they are quite unrelated  to any definite situation. There is a certain adjective, most offensive to  polite ears, which plays apparently the chief r 61 e in the vocabulary of  large sections of the community. It seems to argue a certain poverty  of linguistic resource when we find that this word is used by the same  speakers both to mean absolutely nothing — being placed before every  noun, and often adverbially before all adjectives — and also to mean a  great deal — everything indeed that is unpleasant in the highest degree.  It is rather a curious fact that the word in question while always impos-  sible, except perhaps when used as it were in inverted commas, in such  a way that the speaker dissociates himself from all responsibility for, or  proprietorship in it, would be felt to be father more than ordinarily  intolerable, if it were used by an otherwise polite speaker as an absolutely  meaningless adjective prefixed at random to most of the nouns in a sen-  tence, and worse than if it were used deliberately, with a settled and full  intent. There is something very terrible in an oath torn from its proper  home and suddenly implanted in the wrong social atmosphere. In these  circumstances the alien form is endowed by the hearers with mysterious  and uncanny meanings ; it chills the blood and raises gooseflesh.   We do not propose here to penetrate into the sombre history of  blasphemy proper, nor to exhibit the development through the last few  centuries of the ever-changing fashions of profanity. At every period  there has been, as Chaucer knew —   a companye   Of yonge folk, that haunteden folye,   As ryot, hasard, stewes and tavemes,   Wher-as with harpes, lutes and gitemes, ^   They daunce and pleye at dees both day and night,   And ete also and drinken over hit might,   Thurgh which they doon the devel sacrifyse  Within the develes tempel in cursed wyse,   By superfiuitee abhominable;   c c 2   Hir othes been so grete and so dampnable^   That it is grisly for to here hem swere ;   Our blissed lordes body they to-tere;   Hem though te Jewes rent him noght y-nough.   We are concerned, for the most part, with the milder sort of expres-  sions which serve to decorate discourse, without symbolizing any strong  feeling on the part of those who utter them. Some of the expletives  which in former ages were used upon the slightest occasion, would  certainly appear unnecessarily forcible for mere exclamations at the  present day, and the fact that such expressions were formerly used so  lightly, and with no blasphemous intention, shows how frequent must  have been their employment for familiarity to have robbed them of all  meaning.   So saintly a person as Sir Thomas More was accustomed, according  to the reports given of his conversation by his son-in-law, to make use  of such formulas as a Gods name^ p. xvi ; would to God, ibid. ; in good  faith, xxviii, but compared with some of the other personages mentioned  in his Life, he is very sparing of such phrases. The Duke of Norfolk,  ‘his singular deare friend*, coming to dine with Sir Thomas on one  occasion, ‘ fortuned to find him at Church singinge in the quiere with  a surplas on his backe ; to whome after service, as the(y) went home  togither arme in arme, the duke said, “ God body, God body, My lord  Chauncellor, a parish Clark, a parish Clarke ! ” '   On another occasion the same Duke said to him ^ By the Masse,  Moore, it is perillous strivinge with Princes ... for Gode's body,  Moore, Indignatio principis mors est *, p. xxxix. In the conversation  in prison, with his wife, quoted above, p. 364, we find that the good  gentlewoman ‘ after her accustomed fashion * gives vent to such exclama-  tions as ‘ What the goody ear e Moore ' : ‘ Tille mile, tille vallc ' ; ^ Bone   deus, hone Deus man \ ‘ I muse what a Gods name you meane here thus  fondly to tarry*. At the trial of Sir Thomas More, the Lord Chief  Justice swears by St, Julian — ‘ that was ever his oath p. li.   ‘ Tilly folly, Sir John, ne’er tell me and ‘ What the good year ! ' are  both also said by Mrs. Quickly in Henry IV, Pt. II, ii. 4. Marry, which  means no more than ‘ indeed *, was a universally used expletive in the  sixteenth century, Roper uses it in speaking to More, Wolsey uses it,  according to Cavendish ; it is frequent in Roister Doister, and is con-  stantly in the mouths of Sir John Falstaff and his merry companions.  By sweete Sanct Anne, by cocke, by gog, by cocks precious potsiick, kocks  nownes, by the armes of Caleys, and the more formidable by the passion of  God Sir do not so, all occur in Roister Doister, and further such exclama-  tions as O Lords, hoigh dagh !, I dare sweare, I shall so God me saue,  I make God a vow (also written avow), would Christ I had, &c. Meaning-  less imprecations like the Devil take me, a mischiefe take his token and him  and thee too are sprinkled about the dialogue of this play. The later plays  of the great period offer a mine of material of this kind, but only a few  can be mentioned here. What a Devil (instead of the Devil), what a pox,  hfr lady, bounds, d blood, Gods body, by the mass, a plague on thee, are  among the expressions in the First Part of Henry IV, In the Second  Part Mr. Justice Shallow swears by cock and pie. By the side of these  are mild formulas such as Tm a Jew else^ Tm a rogue if I drink today.   In Chapman’s comedies there is a rich sprinkling both of the slighter  forms of exclamatory phrases, as well as of the more serious kind. Of  the former we may note j/ faitk^ Ur lord^ Ur lady, by the Lord, How the  divell (instead of how a devil), all in A Humorous Day's Mirth ; He he  sworne, All Fooles; of the latter kind of expression Gods precious soles.,  H. D. M. ; sjoot, shodie, God^s my life, Mons. D'Olive ; Gods my passion,  H. D. M. ; swounds, zwoundes, Gentleman Usher.   Massinger's New Way to pay old Debts has 'slight, 'sdeath, and a fore-  shadowing of the form of asseveration so common in the later seventeenth  century in the phrase — ‘ If I know the mystery . . . may I perish ii. 2,   It is to the dramatists of the later seventeenth and early eighteenth  century that the curious inquirer will go for expletives and exclamatory  expressions of the greatest variety. Otway, Congreve, and Vanbrugh  appear to excel all their predecessors and contemporaries in the fertility  of their invention in this respect. It is indeed probable that while some  of the sayings of Mr. Caper, my Lady Squeamish, my Lady Plyant,  my Lord Foppington, and others of their kidney, are the creations of the  writers who call these ' strange pleasant creatures ' into existence, many  others were actually current coin among the fops and fine ladies of the  period. Even if many phrases used by these characters are artificial con-  coctions of the dramatists they nevertheless are in keeping with, and  express the spirit and manners of the age. If Mr. Galsworthy or  Mr. Bernard Shaw were to invent corresponding slang at the present  day, it would be very different from that of the so-called Restoration  Dramatists. The bulk of the following selection of expletives and oaths is  taken from the plays of Otway, Congreve, Wycherley, Mrs. Aphra Behn,  Vanbrugh, and Farquhar. A few occur in Shadwell, and many more  are common to all writers of comedies. These are undoubtedly genuine  current expressions some of which survive.   Among the more racy and amusing are : —   Ld me die : ‘ Let me die your Ladyship obliges me beyond expression*  (Mr. Saunter in Otway's Friendship in Fashion) ; ^ Let me die, you have  a great deal of wit' (Lady Froth, Congreve's Double Dealer); also  much used by Melantha, an affected lady in Dryden's Marriage \ la   Mode. . . 1   Ld me perish — ‘ I'm your humble servant let me perish ' (Brisk, Double   Dealer) ; also used by Wycherley, Love in a Wood.   ^le (Vanbrugh's Relapse),   Death and eternal iartures Sir, I vow the packet's (= pocket) too high  (Lord Foppington),   Burn me if I do (Farquhar, Way to win him).   Mai me, ^ rat my packet handkerchief (Lord Foppington).   Never Never stir if it did not' (Caper, Otway, Friendship in   Love) ; * Thou shalt enjoy me always, dear, dear friend, never stir '•   BU take my death you're handsomer ' (Mrs. Millamont, Congreve, Way   of the World). ,   Bm a Person (Lady Wishfort, Way of the World). Stap my vitals (Lord Foppington ; very frequent).   Split my wmdpipe — Lord Foppington gives his brother his blessing, on  finding that the latter has married by a trick the lady he had designed  for himself— 'You have married a woman beautiful in her person,  charming in her airs, prudent in her canduct, canstant in her inclina-  tions, and of a nice marality split my windpipe   As I hope to breathe (Lady Lurewell, Farquhar, Sir Harry Wildair),   Tm a Dog if do (Wittmore in Mrs. Behn’s Sir Patient Fancy).   By the Universe (Wycherley, Country Wife).   I swear and declare (Lady Plyant) ; / swear and vow (Sir Paul Plyant,  Double Dealer) ; I do protest and vow (Sir Credulous Easy, Aphra Behn’s  Sir Patient Fancy) ; I protest I swoon at ceremony (Lady Fancyfull,  Vanbrugh, Provok'd Wife) ; 1 profess ingenuously a very discreet young  man (Mrs, Aphra Behn, Sir Patient Fancy).   Gads my hfe (Lady Plyant).   O Crimine (Lady Plyant).   O Jeminy (Wycherley, Mrs. Pinchwife, Country Wife).   Gad take me, between you and I, I was deaf on both ears for three  weeks after (Sir Humphrey, Shadwell, Bury Fair).   ril lay my Life he deserves your assistance (Mrs. Sullen, Farquhar,  Beaux' Strategem).   By the Lord Harry (Sir Jos. Wittol, Congreve, Old Bachelor).  the universe (Wycherley, Mrs. Pinchwife, Country Wife).   Gadzooks (Heartfree, Vanbrugh, Provok'd Wife) ; Gadt s Bud (Sir Paul  Plyant, Double Dealer) ; Gud soons (Lady Arabella, Vanbrugh, Journey  to London) ; Marry-gep (Widow Blackacre, Wycherley, Plain Dealer) ;  ^sheart (Sir Wilful, Congreve, Way of the World) ; Eh Gud, eh Gud  (Mrs. Fantast, Shadwell, Bury Fair); Zoz I was a modest fool; ads^-  zoz (Sir Credulous Easy, Devonshire Knight, Aphra Behn, Sir  Petulant Fancy); 'D's diggers Sir (a groom in Sir Petulant Fancy);  ^sheart (Sir Wilf. Witwoud, Congreve, Way of the World); odsheart  (Sir Noble Clumsey, Otway, Friendship in Fashion); Adsheart (fkx Jos,  Wittol, Congreve, Old Bachelor) ; Gadswouns (Oldfox, Plain Dealer).  By the side of marry, frequent in the sixteenth and seventeenth centuries,  the curious expression Marry come up my dirty cousin occurs in Swift's  Polite Conversations (said by the young lady), and again in Fielding's  Tom Jones — said by the lady's maid Mrs. Honor. With this compare  marry gep above, which probably stands for ' go up   Such expressions as Lard are frequent in the seventeenth-century  comedies, and the very modern-sounding as sure as a gun is said by  Sir Paul Plyant in the Double Dealer.   The comedies of Dryden contain but few of the more or less mild, and  fashionable, semi-bantering exclamatory expressions which enliven the  pages of many of his contemporaries ; he sticks on the whole to the more  permanent oaths — 'sdeath, ^sblood, &c. It must be allowed that the  dialogue of Dry den's comedies is inferior to that of Otway or Congreve  in brilliancy and natural ease, and that it probably does not reflect the  familiar colloquial English of the period so faithfully as the conversation  in the works of these writers. Dryden himself says, in the Defense of  the Essay of Dramatic Poesy, ' I know I am not so fitted by Nature to write Comedy : 1 want that Gaiety of Flumour which is required to it.  My Conversation is slow and dull, my Humour Saturnine and reserv’d :  In sliortj I am none of those who endeavour to break all Jests in Com-  pmy, or make Repartees   It may be noted that the frequent use — almost in ever;^ sentence — of  such phrases as A/ me perish, hum me, and other meaningless interjec-  tions of this order, is attributed by the dramatists only to the most  frivolous fops and the most affected women of fashion. The more  serious characters, so far as such exist in the later seventeenth-century  comedies, aie addicted rather to the weightier and more sober sort of  swearing. It is perhaps unnecessary to pursue this subject beyond the*  first third of the eighteenth century. Farquhar has many of the manner-  isms of his slightly older contemporaries, and some stronger expressions,  e. g. ‘ There was a neighbour's daughter I had a woundy kindness for  Truman, in Twin Rivals ; but Fielding in his numerous comedies has  but few of the objurgatory catchwords of the earlier generation. Swearing,  both of the lighter kind as well as of the deliberately profane variety,  appears to have diminished in intensity, apart from the stage country  squire, suc h as Squire Badger in Don Quixote, who says ^ShodUkins and  ecod, and Squire Western, whose artless profanity is notorious. Ladies  in these plays, and in Swift's Polite Conversations, still say lard, O Ltid,  and la, and mercy, ^shuhs, God bless my eyesight, but the rich variety of  expression which we find in Lady Squeamish and her friends has  vanished. Some few of the old mouth-filling oaths, such as zounds,  ^sdeath, and so on, still linger in Goldsmith and Sheridan, but the number  of these available for a gentleman was very limited by the end of the  century. From the beginning of the nineteenth century it would seem  that nearly all the old oaths died out in good society, as having come to  be considered, from unfamiliarity, either too profane or else too devoid  of content to serve any purpose. It seems to be the case that the serious  oaths survive longest, or at any rate die hardest, while each age produces  its own ephemersil formulas of mere light expletive and asseveration.    Hyperbole ; Compliments ; Approval ; Disapproval ; Abuse,   Very characteristic of a particular age is the language of hyperbole  and exaggeration as found in phrases expressive on the one hand of  compliments, pleasure, approval, amusement, and so on, and of disgust,  dislike, anger, and kindred emotions, on the other. Incidentally, the  study of the different modes of expressing such feelings as these leads  us also to observe the varying fashion in intensives, corresponding to the  present-day awfully, frightfully, and the rest, and in exaggeration generally,  especially in paying compliments.   The following illustrations are chiefly drawn from the seventeenth  century, which offers a considerable wealth of material.   It is wonderful what a variety of expressions have been in use, more  or less transitorily, at different periods, as intensives, meaning no more  than i>iry, very much, &c. Rarely in Chapman^s Gentleman Usher —  ^How did you like me aunt? 0 rarely, rarely \ ^Oh lord, that, that is a pleasure intolerahU \ Lady Squeamish in Otway’s Friendship in Love ;  ‘Let me die if that was not extravaganily pleasant vtry amusing),  ibid. ; ^ I vow he himself sings a tune extreme prettily \ ibid. : ‘ I love  dancing immoderately \ ibid. ; ‘ O dear ’tis violent hot \ ibid. ; ‘ Deuce take  me if your Ladyship has not the art of surprising the most naturally in  the world — I hope you'll make me happy in communicating the Poem  Brisk in Congreve's Double Dealer ; ‘With the reserve of my Honour,  I aSvSure you Careless, I don't know anything in the World I would  refuse to a Person so meritorious — You’ll pardon my want of expression',  Lady Plyant in Double Dealer; to which Careless replies — ‘O your  “Xadyship is abounding in all Excellence^ particularly that of Phrase ; My  Lady Froth is very well in her Accomplishments — But it is when my  Lady Plyant is not thought of— if that can ever be ' ; Lady Plyant : —  ‘O you overcome me — That is so excessive' ; Brisk, asked to write notes  to Lady Froth's Poems, cries ‘ With all my Heart and Soul, and proud of  the vast Honour let me perish ‘ I swear Careless you are very  alluring^ and say so many fine Things, and nothing is so moving as a fine  Thing. . , . Well, sure if I escape your Importunities, I shall value myself  as long as I live, I swear ; Lady Plyant. The following bit of dialogue  between Lady Froth and Mr. Brisk illustrates the fashionable mode of  bandying exaggerated, but i*ather hollow compliments.   ‘ Ldy P. Ah Gallantry to the last degree — Brisk was ever anything so  well bred as My Lord ? Brisk — Never anything but your Ladyship let me  perish. Ldy F, O prettily turned again ; let me die but you have a great  deal of Wit. Mellefont don^t you think Brisk has a World of Wit ?  MeUefont — O yes Madam. Brisk — O dear Madam — Ldy F» An mfinite  deal! Brisk, O Heaven Madam. ■'Ldy F. More Wit — than Body.  Brisk — Pm everlastingly your humble Servant^ deuce take me Madam.   Lady Fancyful in Vanbrugh’s Provok'd Wife contrives to pay herself  a pretty compliment in lamenting the ravages of her beauty and the con-  sequent pretended annoyance to herself — ‘ To confess the truth to you,  Fm so everlastingly fatigued with the addresses of unfortunate gentlemen  that were it not for the extravagancy of the example, I should e'en tear  out these wicked eyes with my own fingers, to make both myself and  mankind easy   Swift's Polite Conversations consist of a wonderful string of slang  words, phrases, and clicMs^ all of which we may suppose to have been  current in the conversation of the more frivolous part of Society in the  early eighteenth century. The word pure is used for very — ‘ this almond  pudden is pure good ’ ; also as an Adj., in the sense of excellent^ as in ‘ by  Dad he's pure Company \ Sir Noble Clumsey's summing-up of the 'Arch-  Wag' Malagene. To divert in the characteristic sense of ‘amuse',  and instead of this — ‘ Well ladies and gentlemen, you are pleased to divert  yourselves'. Lady Wentworth in 1706 speaks of her ‘munckey' as  ‘ full of devertin tricks and twenty years earlier Cary Stewkley (Verney),  taxed by her brother with a propensity for gambling, writes ‘ whot dus  becom a gentilwoman as plays only for divariion I hope I know   The idiomatic use of obliging is shown in the Polite Conversations, by  Lady Smart, who remarks, in answer to rather excessive praise of her  house — ‘ My lord, your lordship is always very obliging ' ; in the same sense Lady Squeamish says 'I sweai*e Mr. Malagene you are a very  obliging person \   Extreme amusement, and approval of the persons who provoke it, are  frequently expressed with considerable exaggeration of phrase. Some  instances are quoted above, but a few more may be added^. ‘ A you mad  slave you, you are a ticUing Acior\ says Vincentio to Pogio in Chapman’s  Gentleman Usher.   Mr. Oldwit, in Shadwelbs Bury Fair, professes great delight at the  buffoonery of Sir Humphrey : — ‘ Forbear, pray forbear ; you'll be the  death of me ; 1 shall break a vein if I keep you company, you arch Wag  you, . . . Well Sir Humphrey Noddy, go thy ways, thou art the ar«hesT  Wit and Wag. I must forswear thy Company, thou'lt kill me elsei'  The arch wag asks ' What is the World worth without Wit and Waggery  and Mirth ? and describing some prank he had played before an admiring  friend, remarks — Mf you’d seen his Lordship laugh! I thought my  Lord would have killed himself. He desired me at last to forbear ; he  was not able to endure it! 'Why what a notable Wag^s this" is said  sarcastically in Mrs. Aphra Behn’s Sir Patient Fancy.   The passages quoted above, pp. 369-71, from Otway’s Friendship in  Love illustrate the modes of expressing an appreciation of ' Waggery   In the tract Reasons of Mr. Bays for changing his religion (1688),  Mr. Bays (Dryden) remarks a propos of something he intends to write —  ^you 'll half kill yourselves with laughing at the conceit and again  ' I protest Ml’ Crites you are enough to make anybody split with laugh-  ing', Similarly 'Miss’ in Polite Conversation declares — 'Well, I swear  you'll make one die with laughing   The language of abuse, disparagement, contempt, and disapproval,  whether real or in the nature of banter, is equally characteristic.   The following is uttered with genuine anger, by Malagene Goodvile  in Otway’s Friendship in Love, to the njusicians who are entertaining  the company — ' Hold, hold, what insufferable rascals are these ? Why  you scurvy thrashing scraping mongrels, ye make a worse noise than  crampt hedgehogs. ’Sdeath ye dogs, can’t you play more as a gentleman  sings ? ’   The seventeenth-century beaux and fine ladies were adepts in the art  of backbiting, and of conveying in a few words a most unpleasant picture  of an absent friend — 'O my Lady Toothless’ cries Mr. Brisk in the  Double Dealer, ' O she ’s a mortifying spectacle, she "s always chewing  the cud like an old Ewe ’ ; ' Fie M*^ Brisk, Eringos for her cough ’ pro-  tests Cynthia ; Lady Froth : — ' Then that t’other great strapping Lady—  I can't hit of her name ; the old fat fool that paints so exorbitantly ’ ;  Brisk : — ' I know whom you mean — But deuce take me I can't hit of her  Name neither— Paints d’ye say ? Why she lays it on with a trowel’   Mr. Brisk knows well how to 'just hint a fault ' Don't you apprehend  me My Lord? Careless is a very honest fellow, but harkee — ^you under-  stand me — somewhat heavy, a little shallow or so   Lady Froth has a picturesque vocabulary to express disapproval—  '0 Filthy M** Sneer? he's a nauseous figure, a most fulsamic Fop .  Nauseous and filthy are favourite words in this period, but are often used so  as to convey little or no specific meaning, or in a tone of rather affectionate banter. ^ He ’s one of those nauseous offerers at wit Wycherley’s Country  Wife ; ^ A man must endeavour to look wholesome ’ says Lord Foppington  in Vanbrugh's Relapse, ‘lest he make so nauseous a figure in the side  box, the ladies should be compelled to turn their eyes upon the Play ’ ;  again the same nobleman remarks ‘ While I was but a Knight I was  a very nauseous fellow ’ ; and, speaking to his tailor — I shall never be  reconciled to this nauseous packet A remarkable use of the verb, to  express a simple aversion, is found in Mrs. Millamont’s ^ I nauseate walking ;  'tis a country divertion ' (Congreve, Way of the World).   In the Old Bachelor, Belinda, speaking of Belmour with whom she is  Th In^e, cries out, at the suggestion of such a possibility — ‘ Filthy Fellow I  ... Oh I love your hideous fancy I Ha, ha, ha, love a Man 1 ' In the  same play Lucy the maid calls her lover, Setter, ‘ Beast, filthy toad ’  during an exchange of civilities. ‘ Foh, you filthy toad I nay, now IVe  done jesting ’ says Mrs. Squeamish in the Country Wife, when Horner  kisses her. ‘Out upon you for a filthy creature' cries ‘Miss^ in the  Polite Conversations, in reply to the graceful banter of Neverout.   Toad is a term of endearment among these ladies ; ‘ I love to torment  the confounded toad' says Lady Fidget, speaking of Mr. Horner for  whom she has a very pronounced weakness. ‘ Get you gone you good-  natur’d toad you ' is Lady Squeamish's reply to the rather outre compli-  ments of Sir Noble.   Plague (Vb.), plaguy^ plaguily are favourite expressions in Polite Con-  versations. Lord Sparkish complains to his host — ‘ My Lord, this venison  is plaguily peppered ' ; ' 'Sbubs, Madam, I have burnt my hand with your  plaguy kettle ' says Neverout, and the Colonel observes, with satisfaction,  that ‘ her Ladyship was plaguily bamb'd ‘ Don't be so teizing ; you  plague a body so ! can't you keep your filthy hands to yourself? ' is  a playful rap administered by ‘ Miss ' to Neverout.   Strange is another word used very indefinitely but suggesting mild  disapproval — ‘ I vow you'll make me hate you if you talk so strangely, but  let me die, I can't last longer ' says Lady Squeamish, implying a certain  degree of impropriety, which nevertheless makes her laugh ; again, she  says, ‘I'll vow and swear my cousin Sir Noble is a strange pleasant  creature   We have an example above of exorbitantly in the sense of ‘out-  rageously', and the adjective is also used in the same sense — ^‘Most  exorbitant and amazing' is Lady Fantast’s comment, in Bury Fair, upon  her husband's outburst against her airs and graces. We may close this  series of illustrations, which might be extended almost indefinitely, with  two from the Verney Memoirs, which contain idiomatic uses that have  long since disappeared. Susan Verney, wishing to say that her sister's  husband is a bad-tempered disagreeble fellow, writes ‘poore peg has  married a very humersome cros boy as ever I see' (Mem. ii. 361, 1:647).  Edmund Verney, Sir Ralph's heir, having had a quarrel with a neigh*  bouring squire concerning boundaries and rights of way, describes him  as ‘very malicious and stomachfull' (Mem. iv. 3:77, 1682). The phrase  ‘as ever I see' is common in the Verney letters, and also in the Went-  worth Papers. Preciosity, &c.   We close this chapter with some examples of seventeenth-century  preciosity and euphemism. The most characteristic specimens of this  kind of affected speech are put by the writers into the mopths of female  characters, and of these we select Shadwell's Lady Fantast and her  daughter (Bury Fair), Otway's Lady Squeamish, Congreve's Lady  Wishfort, and Vanbrugh's Lady Fancyful in the Provok'd Wife. Some  of the sayings of a few minor characters may be added ; the waiting-  maids of these characters are nearly as elegant, and only less absurd  than their mistresses.   Luce, Lady Fantast's woman, summons the latter's stepdaughter as  follows : — ^ Madam, my Lady Madam Fantast, having attir'd herself in  her morning habiliments, is ambitious of the honour of your Ladyship's  Company to survey the Fair ' ; and she thus announces to her mistress  the coming of Mrs. Gertrude the stepdaughter : — ‘ Madame, M^s Gatty  ' will kiss your Ladyship's hands here incontinently '. The ladies Fan-  tast, highly respectable as they are in conduct, are as arrant, pretentious,  and affected minxes as can be found, in manner and speech, given to  interlarding their conversation with sham French, and still more dubious  Latin. Says the daughter — ‘To all that which the World calls Wit and  Breeding, I have always had a natural Tendency, a penchen^ derived, as  the learned say, ex traduce, from your Ladyship : besides the great  Prevalence of your Ladyship's most shining Example has perpetually  stimulated me, to the sacrificing all my Endeavours towards the attaining  of those inestimable Jewels ; than which, nothing in the Universe can be  so much a mon gre, as the French say. And for Beauty, Madam, the  stock I am enrich'd with, comes by Emanation from your Ladyship, who  has been long held a Paragon of Perfection : most Charmanf, most Tuant!  ‘Ah my dear Child' replies the old lady, ‘II alas, alas 1 Time has been,  and yet I am not quite gone . When Gertrude her stepsister, an  attractive and sensible girl, comes in Mrs. Fantast greets her with  ‘ Sweet Madam Gatty, I have some minutes impatiently expected your  Arrival, that I might do myself the Great Honour to kiss your hands and  enjoy the Favour of your Company into the Fair ; which I see out of my  Window, begins to fill apace.'   To this piece of afifectation Gatty replies very sensibly, ‘ I got ready as  soon as e'er I could, and am now come to wait on you ', but old Lady  Fantast takes her to task, with ‘ Oh, fie, Daughter ! will you never attain  to mine, and my dear Daughter's Examples, to a more polite way of  Expression, and a nicer form of Breeding ? Fie, fie ; I come to wait on  you! You should have said; I assure you Madam the Honour is all  on my side ; and I cannot be ambitious of a greater, than the sweet  Society of so excellent a Person. This is Breeding/ ‘Breeding!'  exclaims Gatty, ‘ Why this had been a Flam, a meer Flam And with  this judgement, we may leave My Lady Fantast.   We pass next to Lady Squeamish, who is rather ironically described by  Goodvile as ‘the most exact Observer of Decorums and Decency alive  Her manner of greeting the ladies on entering, along with her cousin  Sir Noble Clumsey, if it has the polish, has also the insincerity of her age—' Dear Madam Goodvile, ten thousand Happinesses wait on you !  Fair Madam Victoria, sweet charming Camilla, which way shall I express  my Service to you ? — Cousin your honour, your honour to the Ladies. —  Sir Noble : — Ladies as low as Knee can bend, or Head can bow, I salute  you all : And Gallants, I am your most humble, most obliged, and most  devoted Servant/   The character of this charming lady, as well as her taste in language,  is well exhibited in the following dialogue between her and Victoria.   ^ Oh my dear Victoria ! the most unlock’d for Happiness ! the pleasantest  Wlc^ent ! the strangest Discovery ! the very thought of it were enough to  cure Melancholy. Valentine and Camilla, Camilla and Valentine, ha, ha, ha,   Viet, Dear Madam, what is ’t so transports you ?   Ldy Sqti, Nay ’tis too precious to be communicated : Hold me, hold me,  or I shall die with laughter — ha, ha, ha, Camilla and Valentine, Valentine and  Camilla, ha, ha, ha — 0 dear, my Heart’s broke.   Viet, Good Madam refrain your Mirth a little, and let me know the Story,  that I may have a share in it.   Ldy Squ, An Assignation, an Assignation tonight in the lower Garden ; —  by strong good Fortune I overheard it all just now — but to think of the  pleasant Consequences that will happen, drives me into an Excess of Joy  beyond all sufferance.   Viet, Madame in all probability the pleasantest Consequence is like to be  theirs, if any body’s ; and I cannot guess how it should touch your Ladyship  in the least.   Ldy Squ, O Lord, how can you be so dull ? Why, at the very Hour and  Place appointed will I greet Valentine in Camilla’s stead, before she can be  there herself ; then when she comes, expose her Infamy to the World, till  I have thorowly revenged my self for all the base Injuries her Lover has  done me.   Viet But Madam, can you endure to be so malicious ?   Ldy Squ, That, that ’s the dear Pleasure of the thing ; for I vow I’d  sooner die ten thousand Deaths, if I thought I should hazard the least  Temptation to the prejudice of my Honour.   Viet, But why should your Ladyship run into the mouth of Danger?  Who knows what scurvy lurking Devil may stand in readiness, and seize  your Virtue before you are aware of him ?   Ldy Squ, Temptation? No, I’d have you know I scorn Temptation:  I durst trust myself in a Convent amongst a Kennel of cramm’d Friers:  Besides, that ungrateful ill-bred fellow Valentine is iny mortal Aversion,  more odious to me than foul weather on a May-day, or ill smell in a Morning.  ... No, were I inclined to entertain Addresses, I assure you I need not  want for Servants ; for I swear I am so perplexed with Billet-Doux^ every  day, I know not which way to turn myself: Besides there’s no Fidelity, no  Honour in Mankind. O dear Victoria I whatever you do, never let Love  come near your Heart : Tho really 1 think true Love is the greatest Pleasure  in the World.’   And so we let Lady Squeamish go her ways for a brazen jilt, and an  affected, humoursome baggage. If any one wishes to know whither her  ways led her, let him read the play.   Only one more example of foppish refinement of speech from this  play — the remarks of the whimsical Mr. Caper to Sir Noble Clumsey,  who coming in drunk, takes him for a dandng-master — ^ I thought you  had known me’ says he, rather ruefully, but adds, brightening— 'I doubt you may be a little overtaken. Faith, dear Heart, Fm glad to see you so  merry I ’   The character of Lady Wishfort in the Way of the World is perhaps  one of the best that Congreve has drawn; her conversation in spite of  the deliberate affectation ir^ phrase is vivid and racy, and for all its  preciosity has a naturalness which puts it among the triumphs of Con-  greve’s art. He contrives to bring out to the full the absurdity of the  lady’s mannerisms, in feeling and expression, to combine these with vigour  and ease of diction, and to give to the whole that polish of which he is the  unquestioned master in his own age and for long after.   The position of Lady Wishfort is that of an elderly lady of great ouii  ward propriety of conduct, and a steadfast observer of decorum, in sjl^ch  no less than in manners. Her equanimity is considerably upset by the  news that an elderly knight has fallen in love with her portrait, and wishes  to press his suit with the original. The pretended knight is really a valet  in disguise, and the whole intrigue has been planned, for reasons into  which we need not enter here, by a rascally nephew of Lady Wishfort’s.  This, however, is not discovered until the lover has had an interview with  the sighing fair. The first extract reveals the lady discussing the coming  visit with Foible her maid (who is in the plot).   ‘ I shall never recompose my Features to receive Sir Rowland with any  Oeconomy of Face Fm absolutely decayed. Look, F oible.   Foible, Your Ladyship has frown’d a little too rashly, indeed Madam.  There are some Cracks discernible in the white Varnish.   Ldy W, Let me see the Glass— Cracks say’st thou ? Why I am arrantly  flead (e. g. flayed) — I look like an old peel’d Wall. Thou must repair me  Foible before Sir Rowland comes, or I shall never keep up to my picture.   F, I warrant you, Madam ; a little Art once made your picture like you ;  and now a little of the same Art must make you like your Picture. Your  Picture must sit for you, Madam.   Ldy W, But art thou sure Sir Rowland will not fail to come ? Or will he  not fail when he does come? Will he be importunate, Foible, and push?  For if he should not be importunate ... I shall never break Decorums —   I shall die with Confusion ; if I am forc’d to advance— O no, I can never  advance. ... I shall swoon if he should expect Advances. No, I hope  Sir Rowland is better bred than to j)ut a Lady to the Necessity of breaking  her Forms. I won’t be too coy neither.— I won’t give him Despair— But  a little Disdain is not amiss ; a little Scorn is 2X\mm%,--Foible.--h little  Scorn becomes your Ladyship . — Ldy IV. Yes, but Tendeimess becomes me  best— A Sort of a Dyingness— You see that Picture has a Sort of a — Ha  Foible !— A Swimmingness in the Eyes— Yes, I’ll look so— My Neice affects  it but she wants Features. Is Sir Rowland handsom ? Let my Toilet be  remov’d— I’ll dress above. I’ll receive Sir Rowland here. Is he handsom ?  Don’t answer me. I won’t know : I’ll be surpris’d ; He’ll be taken by Sm-  prise.— By Storm Madam. Sir Rowland’s a brisk Man.— TV.  —Is he ! O then he’ll importune, if he ’s a brisk Man. I shall save Decorums  if Sir Rowland importunes. I have a mortal Terror at the Apprehension of  offending against Decorums. O Pm glad he ’s a brisk Man. Let my things  be remov’d good Foible*’   The next passage reveals the lady ready dressed, and expectant of  Sir Rowlands arrival.   — ‘Well, and how do I look Foible! — Z; Most killing well, Madam.  Ldy IV, Well, and how shall I receive him ? In what Figure shall I give     39S colloquial IDIOM   his Heart the first Impression ? There is a great deal in the first Impression,  Shall I sit? — No, I won’t sit — I’ll walk— ay I’ll walk from the door upon his  Entrance; and then turn full upon him — No, that will be too sudden. I’ll  lie, ay Ell lie down — I’ll receive him in my little Dressing-Room. There *s  a Couch — Yes, yes, I’ll give the first Impression on a Couch — I won’t lie  neither, but loll, and lean upon one Elbow; with one Foot a little dangling  off, jogging in ^ thoughtful Way — Yes— Yes — and then as soon as he appears,  start, ay, start and be surpris’d, and rise to meet him in a pretty Disorder —  Yes — O, nothing is more alluring than a Levee from a Couch in some Con-  fusion— It shews the Foot to Advantage, and furnishes with Blushes and  recomposing Airs beyond Comparison. Hark ! there ’s a Coach.’   .^t it is when theure du Berger draws near, as she supposes, that  Lady Wishfort rises to the subiimest heights of expression : —   ‘Well, Sir Rowland, you have the Way, — you are no Novice in the Labyrinth  of Love— You have the Clue — But as I’m a Person, Sir Rowland, you must  not attribute my yielding to any sinister Appetite, or Indigestion of Widow-  hood ; nor impute my Complacency to any Lethar^ of Continence — I hope  you don’t think me prone to any iteration of Nuptials — If you do, I protest  I must recede — or think that I have made a Prostitution of Decorums, but  in the Vehemence of Compassion, or to save the Life of a Person of so much  Importance — Or else you wrong my Condescension — If you think the least  Scruple of Carnality was an Ingredient, or that —   Here Foible enters and announces that the Dancers are ready, and thus  puts an end to the scene at its supreme moment of beauty — and  absurdity. Even Congreve could not remain at that level any longer.   It is worth while to record that in this play, a maid, well called Mincings  announces — ‘ Mem, I am come to acquaint your Laship that Dinner is  impatient The hostess invites her guests to go into dinner with the  phrase — ‘ Gentlemen, will you walk ? '   This chapter and book cannot better conclude than with a typical piece  of seventeenth-century formality. May it symbolize at once the author's  leave-taking of the reader and the eagerness of the latter to pursue the  subject for himself.   The passage is from the Provok’d Wife : —   ‘ Lady FancyfuL Madam, your humble servant, I must take my leave.   Lady Brute. What, going already madam ?   Ldy F. I must beg you’ll excuse me this once ; for really 1 have eighteen  visits this afternoon. . . . {Goin^ Nay, you shan’t go one step out of  the room.   Ldy B. Indeed I’ll wait upon you down.   Ldy F. No, sweet Lady Brute, you know I swoon at ceremony.   Ldy B, Pray give me leave — Ldy F. You know I won’t — I^dy B. — You  know I must. — Ldy F. — Indeed you shan’t — Indeed I will — Indeed you shan’t  — Ldy B. — ^Indeed I will.   Ldy F. Indeed you shan’t. Indeed, indeed, indeed, you shan’t’   [Exit running. They follow.\ Alberto Caracciolo. Keywords: il colloquio, in cammino verso il linguaggio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caracciolo” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Caramella: l’implicatura conversazionale degl’eroi di Vico – filosofia italiana – Caritone e Melanippo -- Luigi Speranza (Genova). Filosofo italiano. Grice:”I like Caramella – like me, he is into the metaphysics of conversation! And he reminds me that I should re-read Vico!” --  Grice: “I like Caramella; he prefaced Fichte’s influential tract on ‘la filosofia della massoneria’ – but also wrote on more orthodox subjects like Kant, Cartesio, Bergson, and most of them!” – Grice: “Like me, he thought truth is found in conversation!” Ancora al liceo, comincia a collaborare con Gobetti, il quale gli affida la trattazione della filosofia su “Energie Nove”. Dopo un primo contatto con PGobetti e La Rivoluzione liberale, su segnalazione di questi, entra in collaborazione con Radice, da cui apprese le dottrine del neo-idealismo di Croce e Gentile. Dopo la laurea, insegna a Genova. Per le sue idee antifasciste fu arrestato e rinchiuso prima nelle carceri di Marassi a Genova, e poi fu trasferito a San Vittore a Milano; fu scarcerato, ma venne sospeso dall'insegnamento e dalla libera docenza. Ottenne, per intercessione di Croce, l'incarico di filosofia a Messina. Vinse la cattedra a Catania. Prese parte ai convegni organizzati dalla Scuola di mistica fascista  Insegna a Palermo, ereditando la cattedra che era stata di Gentile. Il suo allievo principale, che ne cura il lascito, è Armetta, docente alla Pontifica Facoltà Teologica di Sicilia.  La sua vasta cultura, gli permise di vedere la continuità della filosofia antica romana classica e e, nell'ambito della filosofia italiana, l'unità delle opposte dialettiche nella legge vivente dello spirito e nel dinamismo della natura e della storia. Apprezzato storico della filosofia. La sua filosofia si può definire un neo-idealismo crociano e gentiliano, ma reinterpretatto alla luce dello spiritualismo. La sua filosofia supera lo storicismo e la dottrina crociana degli opposti e dei distinti, e si esprime nell'interpretazione della pratica come eticità storica.. La religione e la teosofia rappresentano la possibilità dello spirito attento da un lato alla concretezza dell'uomo e dall'altro all'ineffabilità. Lo spirito, anziché risolversi nella filosofia, colloca il proprio progresso in intima unità con il progresso della filosofia stessa: da un lato è esclusa la riduzione dello spirito ad atteggiamento pratico; dall'altro, le è conferito una distinta funzione teoretica.  Altre opere: “Problemi e sistemi della filosofia, Messina); “Religione, teosofia e filosofia”; “Logica e Fisica” (Roma); “La filosofia di Plotino e il neoplatonismo” Catania); Ideologia”; “Metafisica, filosofia dell'esperienza”; “Metalogica, filosofia dell'esperienza” (Catania); “Autocritica, in: Filosofi italiani contemporanei, M.F. Sciacca, Milano); “L'Enciclopedia di Hegel, Padova); “La filosofia dello Stato nel Risorgimento, Napoli); “Introduzione a Kant, Palermo); “Conoscenza e metafisica, Palermo); “La mia prospettiva etica, Palermo); “Carteggio con Croce. Carteggio. La dialettica del vero e del certo nella "metafisica vichiana" di C., in Miscellanea di scritti filosofici in memoria di Caramella, Palermo. Ontologia storico-dialettica di C..Lo spirito nella filosofia di C..C.. La verità in dialogo. Carteggio con Radice.Dizionario biografico degli italiani. Il linguaggio come auto-analisi. 2 C., La cultura ligure nell’alto Medioevo, in II Comune di Genova,  La recente Vita d i Bruno, con documenti e inediti 1, in cui Vincenzo Spampanato lia potuto finalmente sintetizzare oltre vent’anni di ricerche bruniane, mi suggerisce l’opportunità di un breve eenno sul soggiorno del filosofo nella n o s tra regione, così sulla base di quanto lo Spampanato ha messo novamente in luce come su quella delle antiche notizie da lui rinfrescate. Cel resto l’unica seria esposizione dei fatti che stiamo per narrare era, prima delle dotte pagine dello Spampanato, nella biografia del Berti2: ma sommaria e imprecisa per molti rispetti. Arrivò il Bruno in Genova poco prima della domenica delle Palme, nell’anno in cui la festa cadeva il 15 aprile? Cont raria m en te al parere del Berti, il quale sostiene non essere capace di prova che il filosofo sia entrato nella nostra città, dobb iam o infatti tener presente una scena del Candelaio dove tino dei protagonisti giura, entrando in scena, sulla « benedetta coda dell’asino, che adorano i Genoesi’3 », e il passo correlativo dello Spaccio d e lla B e stia trio n fa n te, che dice proprio così: « Ho visto io i religiosi di Castello in Genova mostrar per breve tempo e far baciare la velata coda, dicendo: non toccate, baciate: questa è la santa reliquia di quella benedetta asina che fu fatta degna di portar il nostro Dio dal monte Oliveto a Jerosolina. Adoratela, baciatela, -porgete limosina: Centum accipietis, et vita aeternam possidebitis». I « religiosi di Castello» sono, è evidente, i Domenicani di Santa Maria di Castello, dove uffiziavano: e la preziosa reliquia doveva certo esser mostrata 1 Messina, Principato, Vedi, per l’argomento di questa com unicazione, Torino, Paravia, ed. Spampanato (Bari, Laterza), ed. Gentile (Dial. morali di G. B.), Quetifet Echard, S c rip t. ord. praed., t. il, p. in. Società Ligure di Storia Patria - al p opolo nella precisa circostanza della commemorazione del giorno in cui Gesù discese trionfante su ll’asina a Gerusalemme 1. Il Bruno veniva da Roma, um ile fu ggiasco. A v ev a avu to notizia che il processo istruttorio p endente presso l’inquisizione, per i sospetti di erodossia avanzati contro di lui, non annunziava buon esito: e così, deposto l’ abito, si diresse verso la valle Padana. Più tardi raccontò egli stesso, ai giudici di V enezia, di essere andato subito a N oli. Ma è prob abile c h e la peste, da cui quella plaga fu proprio in quel torno di rem po violentemente aiflitta, lo abbia genericam ente con sigliato a v o lgersi verto la Liguria, contrada m eno infetta, o non ancora raggiunta dal contagio, e a fermarsi alm eno qualche giorno a Genova. Le sarcastiche espressioni dello Spaccio ci fanno im m aginare agevolmente il Bruno là sulla piazzetta della vetusta ch iesa romanica, pieno l’animo non già di ammirazione estetica perla caratteristica facciata o per gli ornamenti molteplici dell’ interno, eh’ è tutto un m usaico di con q uiste orientali, - e tanto meno di interesse psicologico e religioso per la folla affluente ed effluente dal tempio, - ma di cruccio e disdegno: lui da poco a ccostatosi alle nuove idee dei riformatori oltremontani, lui per questo costretto a fuggire di patria e dall’ am ato convento napoletano di San Domenico Maggiore, dove gli allievi p endevano dalla sua parola, dottamente teologizzante. La peste arrivò presto, anzi subito, anche a Genova; a Milano l’ ambasciatore veneto Ottaviano di Mazi ne aveva già n o ­ tizia tre giorni dapo il 15 aprile, il m ercoledì santo 2. E allora il Bruno, com e ci attestano, questa volta, più veracem ente, le sue note dichiarazioni ai giudici veneti, se ne andò a N oli. Forse il ricordo dantesco, che per lui u m anista p oteva con tar qualche cosa, e la simiglianza del nom e con quello della sua Nola; forse la persistente libertà della piccola repubblica, e anche, chissà, qualche lettera di raccomandazione, qualche c o n ­ siglio di amico lo spinsero in quel tranquillo rifugio, l’ unico veramente tranquillo per lui nella storia delie sue lunghe peregrinazioni. « Andai a Noli, territorio genoese, d ove m i intrattenni quattro o cinque mesi a insegnar la gram m atica a’ putti ». « Io 1 Per la storia d ella re liqu ia v. Imbriani, Natanar II in Propu gnatore, Vili, M utin elli, Storia arcana ed aneddotica d’Italia, Società Ligure di Storia Patria - biblioteca digitale - stetti in Noli circa quattro o cinque mesi, insegnando la grammatica a’ figliuoli e leggendo la Sfera o certi gentiluomini...1 ». Lo Spampanato, per ragioni di coerenza con ulteriori dati biografici, pensa che il soggiorno sia durato un po’ più di quattro mesi. Comunque, le occupazioni del Nolano a Noli sono ben chiare: l’ esule cercava di trar qualche mezzo di vita con lezioncine private. Ma anche « leggeva la Sfera a certi gentiluomini »: la Sfera, cioè il famoso trattato di Giovanni da Sacroboseo, professore alla Sorbona e monaco domenicano quasi contemporaneo di Dante: che si soleva considerare come perfetta e sintetica esposizione di una teoria fisico-geometrica fondamentale per l’astronomia tolemaica, (la teoria delle sfere celesti), e che Γ insinuarsi dell’ ipotesi copernicana aveva, nella seconda metà del Cinquecento, rimesso in gran voga2. Persino a Noli era dunque penetrato il novello interesse del secolo per i problemi astronomici; perfino a Noli alcuni giovani signori sentivano il bisogn o di stipendiare un povero erudito piovuto di lontano perchè spiegasse loro il sistema del mondo. E il Bruno cominciava di quia occuparsi direttamente di quelle indagini che fur o n o oggetto delle polemiche da lui sostenute in Inghilterra e che formano l’argomento della Cena delle Ceneri. Non possiamo n atu ralm e n te sapere (a meno che venissero fuori i quaderni di queste sue legioni liguri) s’ egli già a Noli professasse la dottrina copernicana, servendosi della Sfera per criticare il sistema tolem aico: o invece, come il Galilei ne’ suoi corsi allo Studio di Padova, si limitasse all’illustrazione del classico libretto. Un sacerdote napoletano, anzi padre Iazzarista, Raffaele de Martinis, che p otè consultare gli atti del Santo Uffizio, asserisce nella sua biografia del Bruno che a questi fu intentato in Vercelli un processo (che sarebbe il quarto dopo i primi due di Napoli 1 Docc. veneti, vili, c. 8 r-v. (SPAMPANATO). Vedi A. Pellizzar i, Il quadrivio nel Rinascimento (Genova, Perrella). Bruno (Napoli). Ma cfr. Amabile, in Atti Acc. Scienze mor. e politiche di Napoli n.; espampanato (e anche Tocco in Arch. fiir Gesch. der P h ilo s., Bonghi, ne La Cultura, Gentile, Bruno e il pensiero del Rinascimento, [Firenze, Vallecchi Società Ligure di Storia Patria -  e il terzo di Roma) « dalla Inquisizione dello Repubblica g e n o ­ vese»: ma dell’asserzione importantissima (secondo la quale si potrebbe proprio pensare aver il Bruno palesato ancora una volta la sua eterodossia nell’insegnamento di Noli) il De Martinis non dà, e confessa di non aver potuto trovare, le prove. E la notizia non pare affatto fondata, posto che manca ogni riferimento a questo processo genovese nei posteriori documenti processuali di Venezia, e di Roma dove pur dovrebbe trovarsi, posto che a Vercelli non ci consta che il Bruno facesse soggiorno (nè quindi l’inquisizione genovese avrebbe avuto ragione alcuna di perseguirvelo). « Eppoi me partii de là [da Noli] ed andai prima a Savona, dove stetti circa quindeci giorni; e da Savona a Turino, dove non trovando trattenimento a mia satisfazione venni a Venezia per il Po1 ». Da Venezia, di lì a due mesi, a Padova; da Padova a Brescia, Bergamo, Milano. Qui rivestì l’ abito, e poi per Buffalora, Novara, Vercelli, Chivasso, Torino, Susa arrivò alla Novalesa, sotto il Cenisio. Un giorno ancora e fu in Francia, oltre monti, lanciato per la gran carraia della Sua fortuna. Troverà onori, trionfi accademici, soddisfazioni di filosofo e di scrittore; ma la queta pace di Noli, mai più. C. 1 Docc. veti., c. 8La Logica di Porto Reale. Con Prefazione del Prof. Santino... Storia del pensiero e del gusto letterario in Italia ad uso dei licei.  La scuola di mistica fascista e la discoperta del vero VICO L'azione combinata della storiografia al bianchetto e della credulità strisciante fra le righe del conformismo teologico, ha fatto sparire la notizia della sfida al neoidealismo, che fu lanciata dalle avanguardie cattoliche inquadrate nella scuola milanese di mistica fascista. In tal modo la memoria storica degli italiani è stata privata della nozione necessaria a contrastare seriamente l'ideologia totalitaria e ad avviare gli studi filosofici su un cammino di ricerca opposto a quello tracciato dall'intossicante influsso del gramscismo. Un percorso, quella anticipato dalla scuola di mistica fascista, che avrebbe messo capo ad un'evoluzione del Novecento - un'autentica rivoluzione italiana - di segno contrario al coatto e calamitoso trasferimento (narrato da Zangrandi) degli intellettuali fascisti nel partito di Togliatti. L'accertata esistenza di una forte opposizione cattolica alla filosofia di matrice hegeliana, comunque, fa crollare i due pilastri della mistificazione comunista: la leggenda della complicità cattolica con l'ideologia anticomunista prevalente in Germania - leggenda sintetizzata dal calunnioso slogan «Pio XII papa di Hitler» - e la rappresentazione degli intellettuali italiani nella figura di un coacervo nazifascista, redento in extremis dalla longanimità del partito staliniano. La vicenda degli oppositori italiani all'idealismo rivela, invece, l'autonomia, la straordinaria vitalità e l'attitudine del pensiero cattolico ad entusiasmare ed orientare i giovani studiosi, che avevano aderito al fascismo senza separarsi dalla radice religiosa della patria italiana. Curiosamente, l'autorità del pensiero cattolico si rafforzò nella prima fase della II guerra mondiale, quando la Germania nazionalsocialista sembrava avviata a vincere la guerra. Dopo che il governo italiano ebbe sottoscritto l'alleanza con la Germania, il dubbio si era, infatti, diffuso fra i giovani, causando la divisione dell'area fascista in due opposte scuole di pensiero: una corrente maggioritaria, intesa a metter fine al dominio della cultura tedesca e perciò risoluta a percorrere la via d'uscita indicata dalla tradizione cattolica, e una corrente minoritaria, rimasta fedele ai princìpi dell'idealismo e perciò decisa a seguire le avanguardie germaniche sulla via del fanatismo e dell'estremismo anticristiano. Espressione del fermento in atto durante quegli anni cruciali è un magnifico saggio di Tripodi, interprete delle novità introdotte nella scuola milanese di mistica fascista da Schuster e dal fondatore dell'Università cattolica del Sacro Cuore, il francescano Gemelli (confronta «Il pensiero politico di Vico e la dottrina del fascismo», Milani). Tripodi, grazie ad una profonda conoscenza della filosofia italiana tentò un audace confronto tra lo storicismo cristiano di VICO e la dottrina politica di MUSSOLINI. L'affinità del fascismo e della scienza nuova, nell'acuta analisi di Tripodi, non è causata dalle letture (Mussolini, infatti, non cita mai Vico) ma dalla comune tendenza a riconoscere che «maestra non è la mente di questo o quell'uomo che razionalmente pone un principio, ma la storia delle attività di tutti gli uomini che si svolgono come debbono svolgersi perché provvidenzialmente si compia la socialità che ad esse è intrinseca». La scelta di Tripodi cade su Vico poiché «fu perenne nel suo spirito la distinzione tra la sostanza divina e quella delle creature, tra l'essenza o ragion di essere di Dio e quella delle cose create, come fu perenne ed inequivocabile la inintelligibilità di Dio se ricercata nel mondo bruto della natura anziché in quello della storia, nella quale la Provvidenza si manifesta, chiamando gli uomini a collaboratori della divinità». Pubblicato e presto rimosso dalla censura di sinistra e dall'indifferenza di destra, il saggio di Tripodi raccoglie e approfondisce i risultati delle ricerche iniziate da quegli studiosi cattolici (nel testo sono citati Chiocchetti, Vecchio, Amerio, Gemelli, Olgiati, C., Orestano, Carlini e Giuliano) che avevano sostenuto l'irriducibilità della tradizione italiana alla filosofia tedesca, confutando le tesi di Croce e di Gentile su VICO precursore dell'idealismo. Tripodi afferma, ad esempio, che il pensiero fascista, per quanto concerne l'ontologia, «ha sempre creduto nella finitezza dell'umano, riconoscendo che esiste una parete invalicabile, sulla quale lo spirito umano non può scrivere che una sola parola, Dio» mentre gli idealisti, convinti di sfondare quella parete, «hanno spiegato la dottrina fascista attraverso il monismo soggettivista o le dimostrazioni immanentistiche, falsando così gli inequivocabili atteggiamenti dualistici di essa». Di qui il ribaltamento della linea neoidealista e la scelta dello storicismo cristiano di VICO quale orizzonte filosofico della tradizione vivente in Italia malgrado gli apparenti successi della modernità: «La stessa barriera che Vico oppone, in nome della genuinità del pensiero italiano al razionalismo, la oppone il fascismo all'idealismo. Né GENTILE, né CROCE, anche se il primo ha la camicia nera e cercò di darla al secondo pongono gli estremi della nostra dottrina». Tripodi indica in VICO l'antagonista dell'irrealismo e del soggettivismo dominanti nell'età moderna: «Vico non può essere idealista perché la sua filosofia impugna Cartesio e fa impugnare in Kant gli iniziatori delle dottrine, costruite unicamente su di una realtà interiore». La filosofia vichiana, inoltre, è apprezzata perché rivendica la responsabilità dell'azione umana nei fatti della storia «che altre indagini speculative avevano invece interpretato o come involuti in una meccanica autonoma e materiale o come creazione ideale definita dal pensiero che l'aveva posta. La coscienza delle proprie virtù creatrici della storia non deve però indurre l'uomo a dimenticare che la causa prima di esse sta al di fuori della sua singolarità terrena. E non al di fuori perché affidata al caso o al fato, ma perché contenuta nella volontà di Dio e rappresentata nella linea tracciata dalla sua divina provvidenza». L'invito a separare il destino dell'Italia fascista dalle chimere del razionalismo e dalle suggestioni dell'attivismo prometeico e dell'amor fati, non poteva essere formulato con maggiore chiarezza. Nelle penetranti tesi formulate da Tripodi è in qualche modo anticipato lo schema della strategia culturale elaborata, nel dopoguerra, dai pensatori dell'avanguardia cattolica (Vecchio, Petruzzellis, Sciacca, Noce, Tejada, Montano, Grisi, Torti) che nella filosofia di VICO vedranno lo strumento adatto a contrastare e battere i poteri dell'astrazione hegeliana trasferita, intanto, nella parodia inscenata dal gramscismo. La posta in gioco era la corretta impostazione della dottrina del diritto naturale, in ultima analisi la soluzione del problema riguardante il rapporto tra la giustizia ideale e le cangianti leggi che i popoli producono nel corso della loro storia. Dagli scritti giuridici di Vico, Tripodi trasse una indicazione che gli permise di risolvere il problema senza nulla concedere alle dottrine storicistiche contemplanti un pensiero dell'assoluto che evolve nel tempo: «esiste non una separazione ma una diversa gradazione d'intensità etica tra giustizia e diritto. La prima è un diritto naturale soprastorico, che è patrimonio universale e depositario del sommo vero. Il secondo è dato dall'insieme delle norme che il mondo delle nazioni partitamente elabora nel suo progressivo avvicinamento alla giustizia». Di qui l'indicazione di due altri motivi del consenso fascista alla scienza nuova: il fermo rifiuto delle astrazioni suggerite dal contrattualismo e la confutazione delle teorie utilitaristiche, che ritengono l'interesse materiale unica molla delle azioni umane. Nella definizione del comune fondamento della teoria dello Stato, Tripodi sostiene, pertanto, che nel pensiero di Vico come in quello di Mussolini la Provvidenza fa prevalere la solidarietà sull'istinto egoistico: «la provvidenza ha il suo più alto attributo nel senso della socialità che perennemente richiama agli uomini, facendo loro vincere il senso egoistico per cui vorrebbero tutto l'utile per se e niuna parte per lo compagno». Tripodi conclude il suo ragionamento affermando che «l'unitario ordine di idee nel quale relativamente alla concezione dello Stato si muovono la dottrina vichiana e quella fascista» è dimostrato dalla condivisione del fine soprannaturale: «l'uomo trova nello Stato l'organizzazione storica che gli consente di realizzare quei principi morali conferitigli dalla divinità e con ciò di assolvere alla sua stessa funzione trascendente di uomo». E' evidente che l'identificazione della dottrina fascista con la filosofia vichiana era, per Tripodi, un mezzo usato al fine rafforzare la convinzione sulla necessità, imposta dai dubbi destati dall'alleanza con il nazionalsocialismo, di rompere con la cultura prevalente in Germania e di condurre all'approdo cattolico le vere ragioni dell'ideologia fascista. E' però incontestabile che le tesi di Tripodi erano un ottimo strumento per estinguere l'ipoteca che la filosofia tedesca aveva acceso sulla cultura italiana. Non a caso, nel dopoguerra, Tripodi occupò un posto di prima fila nel gruppo degli intellettuali dell'INSPE (Vecchio, Costamagna, Ottaviano, Marzio, Teodorani, Volpe, Sottochiesa, Tricoli, Siena, Grammatico, Rasi) l'istituto che progettava la trasformazione del MSI di Arturo Michelini in avanguardia di una moderna e rigorosa destra cattolica. L'attenzione prestata da Pio XII all'evoluzione del MSI in conformità alle tesi di Tripodi, aprivano le porte del futuro alla destra. Il congresso del MSI, che doveva tenersi a Genova, doveva, infatti, approvare in via definitiva la lungimirante linea culturale e politica di Tripodi, mandando a vuoto i progetti dell'oligarchia favorevole all'apertura a sinistra. Purtroppo la tollerata (dai democristiani) violenza della piazza comunista impedì lo svolgimento di quel congresso, respingendo il MSI nel sottosuolo dionisiaco del pensiero moderno e nelle magiche grotte del tradizionalismo spurio. La lunga immersione nell'area dell'indigenza filosofica impoverì a tal punto la cultura di destra che, quando la discesa in campo di Berlusconi offrì un'altra occasione all'inserimento nella politica di governo, la classe dirigente del MSI, ottusa dalla retorica almirantiana ed espropriata dal pensiero neodestro, non seppe produrre altro che le esangui e rachitiche tesi di Fiuggi.  Nato a Genova da Eleucadio e da Delfò, segui gli studi classici nella città natale. Ancora liceale, cominciò a collaborare a Energie nuove di Gobetti, con il quale aveva preso contatto epistolare, dicendosi lettore entusiasta del periodico e seguace della dottrina filosofica crociana. Il Gobetti, ormai orientato verso interessi più specificamente politici, affidò al giovane C. la trattazione sulla rivista dei temi filosofici. Su segnalazione del Gobetti, Radice cominciò ad accogliere i suoi scritti su L'Educazione nazionale.  In linea con l'orientamento pedagogico idealistico del Lombardo Radice, fin dall'inizio degli anni Venti il C. prese le distanze dal positivismo pedagogico con un contributo (Studi sul positivismo pedagogico, Firenze), nato proprio da un suggerimento del pedagogista siciliano che glielo aveva proposto come tema di studio.  È qui osteggiato un pensiero ispirato agli schemi dell'evoluzionismo deterministico e del positivismo scientifico; in particolare e avversato il meccanicismo naturalistico biologicoevolutivo (Spencer e Ardigò), cui viene opposta la concezione umanistica dell'educazione di un Angiulli, di un Siciliani, di un Gabelli. Un'idea di fondo anima le critiche del C.: è inutile ogni speculazione teoretica che non sappia apportare nuove indicazioni pedagogiche per il miglioramento delle condizioni di vita umana, sociale e pratica.  Nello stesso orizzonte critico degli Studi si muovono Le scuole di Lenin (Firenze), La pedagogia di Gioberti e la Guida bibliografica della pedagogia, specialmente italiana e recente , che faceva seguito alla Bibliografia ragionata della pedagogia (Milano) scritta in collaborazione con Radice.  Nutrito di idee democratiche, che gli facevano ritenere inadeguato per l'obiettivo della costruzione di una "nuova Italia" il vecchio quadro politico postunitario, il C. si impegnò politicamente partecipando alla costituzione a Genova di un gruppo democratico di sinistra, che aveva tra i leader Codignola. Collaborò sia all'Arduo, sia al quotidiano socialriformista Il Lavoro.  In particolare, tipico dei gruppo di pedagogisti che, in certo qual modo, si ponevano nell'ambito del pensiero gentiliano (verso cui anche il C. veniva avvicinandosi sulla scia del Lombardo Radice, sia pure su posizioni autonome), è il tema dell'educazione come strumento di realizzazione di una coscienza democratico-nazionale. Da qui, anche per l'influsso delle idee gobettiane, l'attenta considerazione di quanto veniva fatto in quel campo in Unione Sovietica, all'indomani della rivoluzione bolscevica. In Le scuole di Lenin l'ammirazione con cui il C. guardava al piano scolastico educativo diretto da Lunačarskij era determinata in concreto dalla considerazione che si trattava di una rivoluzione culturale unica nella storia dell'umanitàl tesa all'elevazione delle classi inferiori per farle partecipare alla guida della società; la critica più forte, propria della formazione laico-democratica del C., stava nella denuncia del carattere dogmatico delle idee del Lunačarskij, quando questi sosteneva che la sua scuola del lavoro non era disgiungibile dal sistema sociale comunista e dal controllo politico del partito. Conseguita la laurea in filosofia, ottenne presso l'università di Genova la libera docenza in storia della filosofia e vinse il concorso per le grandi sedi per la cattedra di filosofia, pedagogia ed economia negli istituti magistrali, ottenendo come sede Genova. Frattanto la collaborazione con Gobetti, che più che un sodalizio intellettuale aveva costituito un formativo comune impegno politico-sociale all'insegna del programma di democrazia liberale, lo portò in breve tempo allo scontro con il fascismo ormai trionfante.  è la diffida dei prefetto di Torino contro la Rivoluzione liberale (alla quale il C. collabora) e i suoi redattori. La conferma di questo impegno politico e intellettuale, il C. la offrì ulteriormente curando la pubblicazione postuma di Risorgimento senza eroi (Torino) del Gobetti e continuando a far uscire IlBaretti, pur orientando la rivista sempre più verso temi letterari e filosofici onde evitare scontri ancora più aspri con il regime. Nel 1926, grazie al Croce, che ormai era divenuto per lui - come per tanti altri antifascisti - "maestro di libertà", assunse la direzione della collana "Scrittori d'Italia" edita da Laterza. Nel maggio di quell'anno fu costretto a rinunciare alla collaborazione all'Enciclopedia Italiana, a cui era stato invitato dal Gentile, per gli atttacchi mossigli dalla stampa di regime.  Il dissenso dalla politica del fascismo ne provoco l'arresto; rinchiuso prima nelle carceri. di Marassi a Genova e quindi trasferito a S. Vittore a Milano, fu scarcerato. Venne sospeso dall'insegnamento e dalla libera docenza. Le accuse - come si legge in una lettera al Croce (in Il Dialogo) - erano tra l'altro di aver collaborato "al giornale socialistoide-democratico Il Lavoro" di Genova e di aver avuto rapporti con l'associazione antifascista Giovane Italia, insomma di essere "in una condizione di incompatibilità con le direttive generali del governo". Scagionato anche grazie all'intervento del Croce, il C. fu riammesso all'insegnamento e la libera docenza gli fu restituita con d. m. Venne però destinato all'istituto magistrale di Messina, dove prese servizio.  Dall'ottobre di quell'anno ottenne l'incarico di filosofia e storia della filosofia e di pedagogia presso il magistero dell'università di Messina. Mantenne questi incarichi finché vincitore di più concorsi, fu chiamato a coprire la cattedra di pedagogia nell'università di Catania. Passò alla cattedra di filosofia teoretica, conseguendo l'ordinariato.  Furono questi anni di studio intenso. Pur nel crocianesimo di base, si intravvede in Religione, teosofia, filosofia (Messina) e in Senso comune. Teoria e pratica (Bari) lo sforzo di plasmare un proprio e originale impianto teoretico.  In dialogo con i principali pensatori dell'idealismo tedesco e italiano, il C. si misura particolarmente con la crociana logica dei distinti. L'indagine si muove sul terreno dell'attività teoretico-pratica dello Spirito. Particolarmente Religione, teosofia, filosofia rappresenta questo tentativo compiuto dal C. per una revisione del sistema idealistico: vi è fatta emergere l'esigenza di un pensiero spirituale più attento da una parte alla concretezza dell'uomo e dall'altra alla ineffabilità di Dio. Perseguendo tale assunto, nella ricerca di un ordine della verità oltre la logica e la nozione di storia del Croce, il C. ripercorre in Senso comune le tappe storiche del pensiero occidentale, ricostruendo la genesi della dualità dello Spirito nella filosofia greca e poi seguendola nel suo sviluppo e nel suo problematicizzarsi nel pensiero moderno. La concezione della filosofia come educazione e storia, la stretta connessione tra la filosofia e la sua storia pongono il C. medianamente tra Croce e Gentile, e tuttavia nel senso di una sicura indipendenza dal loro pensiero. La sua posizione teoretica può essere così schematizzata: la teoresi è fondamentalmente caratterizzata dalla dialettica dei distinti, mentre la prassi genera lo scontro tra gli opposti; la sintesi dei distinti non è un tertium quid da essi distinto, ma consiste nella loro stessa inscindibile relazione. La loro circolarità consente, come riaffermerà in Ideologia (Catania), di guardare alla pratica come alla realizzazione della teoria, così che si può parlare e di un finalismo teoretico della pratica e di un finalismo pratico della teoria.  All'approfondimento critico dei neoidealismo italiano, il C. affianca l'approfondimento del rapporto tra ricerca filosofica e fede religiosa. Egli mantiene costante il dialogo tra filosofia, scienza e fede nelle trattazioni della piena maturità: Ideologia (Catania), Metalogica: filosofia dell'esperienza, Metafisica vichiana (Palermo), in cui è auspicata la possibilità della sopravvivenza del problema metafisico nell'orizzonte di una metafisica rinnovata, Conoscenza e metafisica. In quest'ultima opera è affrontato il rapporto verità-conoscere, con l'intento di delimitare i confini del sapere scientifico e di affermare razionalmente la capacità di intelligere la realtà della rivelazione. Qui la religione, anziché risolversi nella filosofia, colloca il proprio progresso in intima unità con il progresso della filosofia stessa: da un lato è esclusa la riduzione della religione ad atteggiamento pratico; dall'altro, le è conferita una distinta funzione teoretica. La piena adesione del C. allo spiritualismo cristiano, dunque, fa si che sia elusa la riduzione della filosofia a metodologia, senza dover rinunciare alla fondamentale esigenza di criticità, e che l'interesse si concentri su quelle istanze spiritualistiche, invero in lui presenti dagli anni giovanili sia come atteggiamento di vita - lo si evince dalle Lettere dal carcere - sia come ricerca originale di pensiero. In tal senso, l'adesione allo spiritualismo cristiano va dunque letta più nella prospettiva della continuità, dinamica e perciò trasformantesi e trasformante, che in quella della svolta.  Durante la sua lunga e proficua attività accademica, il C. ricoprì numerose cariche, tra cui quella di preside della facoltà di lettere e filosofia dell'università di Catania; fu presidente di sezione del British Council di Catania e presidente di sezione della Società filosofica italiana a Catania e a Palermo; fu anche presidente di sezione dell'Associazione pedagogica italiana. A Palermo si era stabilito definitivamente allorché venne chiamato prima alla cattedra di pedagogia e poi a quella di filosofia teoretica presso la facoltà di lettere e filosofia.  Il C. morì a Palermo. Opere: Per un elenco completo si rinvia a Bibliografia degli scritti di C., a cura di T. Caramella, in Miscellanea di studi filosofici in memoria di C. (Atti dell'Accad. di scienze lettere e arti di Palermo), Palermo. Oltre alle opere citate ci limitiamo a ricordare qui: Bergson, Milano; Antologia vichiana, Messina, Breve storia della pedagogia, La filosofia di Plotino e il neoplatonismo, Catania; Autocritica, in Filosofi italiani contemporanei, a cura di Sciacca, Milano L'Enciclopedia di Hegel, Padova; La filosofia dello Stato nel Risorgimento, Napoli; Introduzione a Kant, Palermo La pedagogia tedesca in Italia, Roma; Pedagogia. Saggio di voci nuove, Fonti e Bibl.: Roma, Arch. centrale dello Stato, Casellario politico centrale, Per l'epistolario del C. contributi in: Lettere dal carcere di C., in Giornale di metafisica, Carteggio con Croce e Gobetti, in Il Dialogo, Carteggio Radice-C., a cura di T. Caramella, Genova. Vedi inoltre: M.F. Sciacca, Profilo di C., in Annali della facoltà di magistero della università di Palermo,  Di Vona, Religione e filosofia nel pensiero giovanile di C., Conigliaro, Verità e dialogo nel pensiero di C., in Il Dialogo, Guzzo, C., in Filosofia, Sciacca, Il pensiero di C., in Atti dell'Accad. di scienze lettere e arti di Palermo, Sofia, Il dialogo di S. C. con gli uomini d'oggi, in Labor, Cafaro, Commemoraz. di C., in Nuova Riv. pedagogica, Piovani, La dialettica del vero e del certo nella "metafisica vichiana" di C., in Miscellanea di scritti filosofici in memoria di C., Palermo Ganci, C., Raschini, Commemoraz. del prof. S. C., in Giornale di metafisica, Brancato, C.: senso fine e significato della storia, Trapani; V. Mathieu, Filosofia contemporanea, Firenze; P. Prini, La ontologia storico-dialettica di C., in Theorein, Pareyson, Inizi e caratteri del pensiero di C., in Giornale di metafisica, Corselli, La vita dello spirito nella filosofia di C., in Labor, Raschini, Storiografia e metafisica nella interpretazione vichiana di C., in Filosofia oggi; M. Corselli, La figura di C., in Labor, Sciacca, C. filosofo, pedagogista, educatore, in Pegaso. Annali della facoltà di magistero della università di Palermo. δικά , ώς φησιν Ηρακλείδης  ο Ποντικός εν τω περί Ερωτικών. ούτοι Φανέντες επιβουλεύοντες Φαλάριδί, Chariton& Melanippus και βασανιζόμενοι αναγκαζόμενοί τε λέγειν τους συν- confpirant  ειδότας,ουμόνονουκατείπον, αλλά καιτονΦάλα- adν.Ρhala ριν αυτόν είς έλεον ' των βασάνων ήγαγον , ως α π ο λύσαι αυτουςπολλά επαινέσαντα. διοκαιοΑπόλ. λων, ησθείς επί τούτοις, αναβολην του θανάτου το Φαλάριδίέχαρίσατο, τούτο έμφήνας τουςπυν θανομέ νουςτης Πυθία ςόπωςαυτόεπιθώνται έχρησέτεκαι cπερί των αμφί τον Χαρίτωνα, προτάξας του εξαμέ τρου το πεντάμετρον, καθάπερ ύστερον και Διονύσιος 'Αθηναίος εποίησεν, ο επικληθεις Χαλκους, εν τοις Έλεγείοις. έστιδεοχρησμόςόδε  ετε -- Ευδαίμων Χαρίτων και Μελάνιππος έφυ, θείαςαγητηρες έφαμερίοις φιλότατος. 1 Perperamέλαιονms. Εp. & moxα πολαύσαι1ns. A.proαπολύσαι. α> 737 Σ 2 Alibi άγητήρες. 2 amasius, ut ait Heraclides Ponticus in libro de Amatoriis. Hi igitur deprehensi insidias ftruxisse Phalaridi & tormentis subiecti quo coniuratos denunciare coge rentur, non modo non denunciarunt, fed etiam Phala rin ipsum ad misericordiam tormentorum commoverunt , ut plurimum collaudatos dimitteret. Quare etiam Apollo, delectatusfacto, moram mortisindullit Phalaridi, hoc ipsum declarans his qui ipsum de ratione, qua tyran num adgrederentur, consuluerunt: atque et iamde Charitone et Melanippo oraculum edidit, in quo pentame ter praepofitus hexametro erat; quemadmodum etiam poftea Dionysius Athenienfis, isqui Aeneuseft cognomi natus , in Elegiis fecit. Erat autem oraculum hocce Felix & Chariton & Melanippus erat, mortalium genti auctores coeleftis amoris. Santino Caramella. Keywords: il culto dell’eroe, gl’eroi, il culto degl’eroi, Niso ed Eurialo, Nicodemo, gl’eroi di Vico, “la verita in dialogo”, soggetto, intersoggetivita, lo spirito oggetivo, spiriti intersoggetivi, Apollo su Nicodemo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caramella” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Caramello: l’implictatura conversazionale dell’interpretare – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo Italiano. Grice: “I love Caramello – he exemplifies all that I say about latitudinal and longitudinal unities of philosophy – Aquinas is a ‘great,’ and Caramello has dedicated his life to him!”  Studia al prestigioso liceo classico Gioberti di Torino, entra in seminario e riceve l'ordinazione presbiteriale con una speciale dispensa papale dovuta alla giovane età a cui aveva completato gli studi. Si laurea a Torino. Insegna a Torino, e Chieri. Studia e cura Aquino. Praemittit autem huic operi philosophus prooemium, in quo sigillatim exponit ea, quae in hoc libro sunt tractanda. Et quia omnis scientia praemittit ea, quae de principiis sunt; partes autem compositorum sunt eorum principia; ideo oportet intendenti tractare de enunciatione praemittere de partibus eius. Unde dicit: primum oportet constituere, idest definire quid sit nomen et quid sit verbum. In Graeco habetur, primum oportet poni et idem significat. Quia enim demonstrationes definitiones praesupponunt, ex quibus concludunt, merito dicuntur positiones. Et ideo praemittuntur hic solae definitiones eorum, de quibus agendum est: quia ex definitionibus alia cognoscuntur.  Si quis autem quaerat, cum in libro praedicamentorum de simplicibus dictum sit, quae fuit necessitas ut hic rursum de nomine et verbo determinaretur; ad hoc dicendum quod simplicium dictionum triplex potest esse consideratio. Una quidem, secundum quod absolute significant simplices intellectus, et sic earum consideratio pertinet ad librum praedicamentorum. Alio modo, secundum rationem, prout sunt partes enunciationis; et sic determinatur de eis in hoc libro; et ideo traduntur sub ratione nominis et verbi: de quorum ratione est quod significent aliquid cum tempore vel sine tempore, et alia huiusmodi, quae pertinent ad rationem dictionum, secundum quod constituunt enunciationem. Tertio modo, considerantur secundum quod ex eis constituitur ordo syllogisticus, et sic determinatur de eis sub ratione terminorum in libro priorum.  Potest iterum dubitari quare, praetermissis aliis orationis partibus, de solo nomine et verbo determinet. Ad quod dicendum est quod, quia de simplici enunciatione determinare intendit, sufficit ut solas illas partes enunciationis pertractet, ex quibus ex necessitate simplex oratio constat. Potest autem ex solo nomine et verbo simplex enunciatio fieri, non autem ex aliis orationis partibus sine his; et ideo sufficiens ei fuit de his duabus determinare. Vel potest dici quod sola nomina et verba sunt principales orationis partes. Sub nominibus enim comprehenduntur pronomina, quae, etsi non nominant naturam, personam tamen determinant, et ideo loco nominum ponuntur: sub verbo vero participium, quod consignificat tempus: quamvis et cum nomine convenientiam habeat. Alia vero sunt magis colligationes partium orationis, significantes habitudinem unius ad aliam, quam orationis partes; sicut clavi et alia huiusmodi non sunt partes navis, sed partium navis coniunctiones.  His igitur praemissis quasi principiis, subiungit de his, quae pertinent ad principalem intentionem, dicens: postea quid negatio et quid affirmatio, quae sunt enunciationis partes: non quidem integrales, sicut nomen et verbum (alioquin oporteret omnem enunciationem ex affirmatione et negatione compositam esse), sed partes subiectivae, idest species. Quod quidem nunc supponatur, posterius autem manifestabitur.  Sed potest dubitari: cum enunciatio dividatur in categoricam et hypotheticam, quare de his non facit mentionem, sicut de affirmatione et negatione. Et potest dici quod hypothetica enunciatio ex pluribus categoricis componitur. Unde non differunt nisi secundum differentiam unius et multi. Vel potest dici, et melius, quod hypothetica enunciatio non continet absolutam veritatem, cuius cognitio requiritur in demonstratione, ad quam liber iste principaliter ordinatur; sed significat aliquid verum esse ex suppositione: quod non sufficit in scientiis demonstrativis, nisi confirmetur per absolutam veritatem simplicis enunciationis. Et ideo Aristoteles praetermisit tractatum de hypotheticis enu nciationibus et syllogismis. Subdit autem, et enunciatio, quae est genus negationis et affirmationis; et oratio, quae est genus enunciationis.  Si quis ulterius quaerat, quare non facit ulterius mentionem de voce, dicendum est quod vox est quoddam naturale; unde pertinet ad considerationem naturalis philosophiae, ut patet in secundo de anima, et in ultimo de generatione animalium. Unde etiam non est proprie orationis genus, sed assumitur ad constitutionem orationis, sicut res naturales ad constitutionem artificialium. Videtur autem ordo enunciationis esse praeposterus: nam affirmatio naturaliter est prior negatione, et iis prior est enunciatio, sicut genus; et per consequens oratio enunciatione. Sed dicendum quod, quia a partibus inceperat enumerare, procedit a partibus ad totum. Negationem autem, quae divisionem continet, eadem ratione praeponit affirmationi, quae consistit in compositione: quia divisio magis accedit ad partes, compositio vero magis accedit ad totum. Vel potest dici, secundum quosdam, quod praemittitur negatio, quia in iis quae possunt esse et non esse, prius est non esse, quod significat negatio, quam esse, quod significat affirmatio. Sed tamen, quia sunt species ex aequo dividentes genus, sunt simul natura; unde non refert quod eorum praeponatur. Praemisso prooemio, philosophus accedit ad propositum exequendum. Et quia ea, de quibus promiserat se dicturum, sunt voces significativae complexae vel incomplexae, ideo praemittit tractatum de significatione vocum: et deinde de vocibus significativis determinat de quibus in prooemio se dicturum promiserat. Et hoc ibi: nomen ergo est vox significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat qualis sit significatio vocum; secundo, ostendit differentiam significationum vocum complexarum et incomplexarum; ibi: est autem quemadmodum et cetera. Circa primum duo facit: primo quidem, praemittit ordinem significationis vocum; secundo, ostendit qualis sit vocum significatio, utrum sit ex natura vel ex impositione; ibi: et quemadmodum nec litterae et cetera.  Est ergo considerandum quod circa primum tria proponit, ex quorum uno intelligitur quartum. Proponit enim Scripturam, voces et animae passiones, ex quibus intelliguntur res. Nam passio est ex impressione alicuius agentis; et sic passiones animae originem habent ab ipsis rebus. Et si quidem homo esset naturaliter animal solitarium, sufficerent sibi animae passiones, quibus ipsis rebus conformaretur, ut earum notitiam in se haberet; sed quia homo est animal naturaliter politicum et sociale, necesse fuit quod conceptiones unius hominis innotescerent aliis, quod fit per vocem; et ideo necesse fuit esse voces significativas, ad hoc quod homines ad invicem conviverent. Unde illi, qui sunt diversarum linguarum, non possunt bene convivere ad invicem. Rursum si homo uteretur sola cognitione sensitiva, quae respicit solum ad hic et nunc, sufficeret sibi ad convivendum aliis vox significativa, sicut et caeteris animalibus, quae per quasdam voces, suas conceptiones invicem sibi manifestant: sed quia homo utitur etiam intellectuali cognitione, quae abstrahit ab hic et nunc; consequitur ipsum sollicitudo non solum de praesentibus secundum locum et tempus, sed etiam de his quae distant loco et futura sunt tempore. Unde ut homo conceptiones suas etiam his qui distant secundum locum et his qui venturi sunt in futuro tempore manifestet, necessarius fuit usus Scripturae.  Sed quia logica ordinatur ad cognitionem de rebus sumendam, significatio vocum, quae est immediata ipsis conceptionibus intellectus, pertinet ad principalem considerationem ipsius; significatio autem litterarum, tanquam magis remota, non pertinet ad eius considerationem, sed magis ad considerationem grammatici. Et ideo exponens ordinem significationum non incipit a litteris, sed a vocibus: quarum primo significationem exponens, dicit: sunt ergo ea, quae sunt in voce, notae, idest, signa earum passionum quae sunt in anima. Dicit autem ergo, quasi ex praemissis concludens: quia supra dixerat determinandum esse de nomine et verbo et aliis praedictis; haec autem sunt voces significativae; ergo oportet vocum significationem exponere.  Utitur autem hoc modo loquendi, ut dicat, ea quae sunt in voce, et non, voces, ut quasi continuatim loquatur cum praedictis. Dixerat enim dicendum esse de nomine et verbo et aliis huiusmodi. Haec autem tripliciter habent esse. Uno quidem modo, in conceptione intellectus; alio modo, in prolatione vocis; tertio modo, in conscriptione litterarum. Dicit ergo, ea quae sunt in voce etc.; ac si dicat, nomina et verba et alia consequentia, quae tantum sunt in voce, sunt notae. Vel, quia non omnes voces sunt significativae, et earum quaedam sunt significativae naturaliter, quae longe sunt a ratione nominis et verbi et aliorum consequentium; ut appropriet suum dictum ad ea de quibus intendit, ideo dicit, ea quae sunt in voce, idest quae continentur sub voce, sicut partes sub toto. Vel, quia vox est quoddam naturale, nomen autem et verbum significant ex institutione humana, quae advenit rei naturali sicut materiae, ut forma lecti ligno; ideo ad designandum nomina et verba et alia consequentia dicit, ea quae sunt in voce, ac si de lecto diceretur, ea quae sunt in ligno. Circa id autem quod dicit, earum quae sunt in anima passionum, considerandum est quod passiones animae communiter dici solent appetitus sensibilis affectiones, sicut ira, gaudium et alia huiusmodi, ut dicitur in II Ethicorum. Et verum est quod huiusmodi passiones significant naturaliter quaedam voces hominum, ut gemitus infirmorum, et aliorum animalium, ut dicitur in I politicae. Sed nunc sermo est de vocibus significativis ex institutione humana; et ideo oportet passiones animae hic intelligere intellectus conceptiones, quas nomina et verba et orationes significant immediate, secundum sententiam Aristotelis. Non enim potest esse quod significent immediate ipsas res, ut ex ipso modo significandi apparet: significat enim hoc nomen homo naturam humanam in abstractione a singularibus. Unde non potest esse quod significet immediate hominem singularem; unde Platonici posuerunt quod significaret ipsam ideam hominis separatam. Sed quia hoc secundum suam abstractionem non subsistit realiter secundum sententiam Aristotelis, sed est in solo intellectu; ideo necesse fuit Aristoteli dicere quod voces significant intellectus conceptiones immediate et eis mediantibus res.  Sed quia non est consuetum quod conceptiones intellectus Aristoteles nominet passiones; ideo Andronicus posuit hunc librum non esse Aristotelis. Sed manifeste invenitur in 1 de anima quod passiones animae vocat omnes animae operationes. Unde et ipsa conceptio intellectus passio dici potest. Vel quia intelligere nostrum non est sine phantasmate: quod non est sine corporali passione; unde et imaginativam philosophus in III de anima vocat passivum intellectum. Vel quia extenso nomine passionis ad omnem receptionem, etiam ipsum intelligere intellectus possibilis quoddam pati est, ut dicitur in III de anima. Utitur autem potius nomine passionum, quam intellectuum: tum quia ex aliqua animae passione provenit, puta ex amore vel odio, ut homo interiorem conceptum per vocem alteri significare velit: tum etiam quia significatio vocum refertur ad conceptionem intellectus, secundum quod oritur a rebus per modum cuiusdam impressionis vel passionis.  Secundo, cum dicit: et ea quae scribuntur etc., agit de significatione Scripturae: et secundum Alexandrum hoc inducit ad manifestandum praecedentem sententiam per modum similitudinis, ut sit sensus: ita ea quae sunt in voce sunt signa passionum animae, sicut et litterae sunt signa vocum. Quod etiam manifestat per sequentia, cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc.; inducens hoc quasi signum praecedentis. Quod enim litterae significent voces, significatur per hoc, quod, sicut sunt diversae voces apud diversos, ita et diversae litterae. Et secundum hanc expositionem, ideo non dixit, et litterae eorum quae sunt in voce, sed ea quae scribuntur: quia dicuntur litterae etiam in prolatione et Scriptura, quamvis magis proprie, secundum quod sunt in Scriptura, dicantur litterae; secundum autem quod sunt in prolatione, dicantur elementa vocis. Sed quia Aristoteles non dicit, sicut et ea quae scribuntur, sed continuam narrationem facit, melius est ut dicatur, sicut Porphyrius exposuit, quod Aristoteles procedit ulterius ad complendum ordinem significationis. Postquam enim dixerat quod nomina et verba, quae sunt in voce, sunt signa eorum quae sunt in anima, continuatim subdit quod nomina et verba quae scribuntur, signa sunt eorum nominum et verborum quae sunt in voce. Deinde cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc., ostendit differentiam praemissorum significantium et significatorum, quantum ad hoc, quod est esse secundum naturam, vel non esse. Et circa hoc tria facit. Primo enim, ponit quoddam signum, quo manifestatur quod nec voces nec litterae naturaliter significant. Ea enim, quae naturaliter significant sunt eadem apud omnes. Significatio autem litterarum et vocum, de quibus nunc agimus, non est eadem apud omnes. Sed hoc quidem apud nullos unquam dubitatum fuit quantum ad litteras: quarum non solum ratio significandi est ex impositione, sed etiam ipsarum formatio fit per artem. Voces autem naturaliter formantur; unde et apud quosdam dubitatum fuit, utrum naturaliter significent. Sed Aristoteles hic determinat ex similitudine litterarum, quae sicut non sunt eaedem apud omnes, ita nec voces. Unde manifeste relinquitur quod sicut nec litterae, ita nec voces naturaliter significant, sed ex institutione humana. Voces autem illae, quae naturaliter significant, sicut gemitus infirmorum et alia huiusmodi, sunt eadem apud omnes.  Secundo, ibi: quorum autem etc., ostendit passiones animae naturaliter esse, sicut et res, per hoc quod eaedem sunt apud omnes. Unde dicit: quorum autem; idest sicut passiones animae sunt eaedem omnibus (quorum primorum, idest quarum passionum primarum, hae, scilicet voces, sunt notae, idest signa; comparantur enim passiones animae ad voces, sicut primum ad secundum: voces enim non proferuntur, nisi ad exprimendum interiores animae passiones), et res etiam eaedem, scilicet sunt apud omnes, quorum, idest quarum rerum, hae, scilicet passiones animae sunt similitudines. Ubi attendendum est quod litteras dixit esse notas, idest signa vocum, et voces passionum animae similiter; passiones autem animae dicit esse similitudines rerum: et hoc ideo, quia res non cognoscitur ab anima nisi per aliquam sui similitudinem existentem vel in sensu vel in intellectu. Litterae autem ita sunt signa vocum, et voces passionum, quod non attenditur ibi aliqua ratio similitudinis, sed sola ratio institutionis, sicut et in multis aliis signis: ut tuba est signum belli. In passionibus autem animae oportet attendi rationem similitudinis ad exprimendas res, quia naturaliter eas designant, non ex institutione.  Obiiciunt autem quidam, ostendere volentes contra hoc quod dicit passiones animae, quas significant voces, esse omnibus easdem. Primo quidem, quia diversi diversas sententias habent de rebus, et ita non videntur esse eaedem apud omnes animae passiones. Ad quod respondet Boethius quod Aristoteles hic nominat passiones animae conceptiones intellectus, qui numquam decipitur; et ita oportet eius conceptiones esse apud omnes easdem: quia, si quis a vero discordat, hic non intelligit. Sed quia etiam in intellectu potest esse falsum, secundum quod componit et dividit, non autem secundum quod cognoscit quod quid est, idest essentiam rei, ut dicitur in III de anima; referendum est hoc ad simplices intellectus conceptiones (quas significant voces incomplexae), quae sunt eaedem apud omnes: quia, si quis vere intelligit quid est homo, quodcunque aliud aliquid, quam hominem apprehendat, non intelligit hominem. Huiusmodi autem simplices conceptiones intellectus sunt, quas primo voces significant. Unde dicitur in IV metaphysicae quod ratio, quam significat nomen, est definitio. Et ideo signanter dicit: quorum primorum hae notae sunt, ut scilicet referatur ad primas conceptiones a vocibus primo significatas.  Sed adhuc obiiciunt aliqui de nominibus aequivocis, in quibus eiusdem vocis non est eadem passio, quae significatur apud omnes. Et respondet ad hoc Porphyrius quod unus homo, qui vocem profert, ad unam intellectus conceptionem significandam eam refert; et si aliquis alius, cui loquitur, aliquid aliud intelligat, ille qui loquitur, se exponendo, faciet quod referet intellectum ad idem. Sed melius dicendum est quod intentio Aristotelis non est asserere identitatem conceptionis animae per comparationem ad vocem, ut scilicet unius vocis una sit conceptio: quia voces sunt diversae apud diversos; sed intendit asserere identitatem conceptionum animae per comparationem ad res, quas similiter dicit esse easdem.  Tertio, ibi: de his itaque etc., excusat se a diligentiori harum consideratione: quia quales sint animae passiones, et quomodo sint rerum similitudines, dictum est in libro de anima. Non enim hoc pertinet ad logicum negocium, sed ad naturale. Postquam philosophus tradidit ordinem significationis vocum, hic agit de diversa vocum significatione: quarum quaedam significant verum vel falsum, quaedam non. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit differentiam; secundo, manifestat eam; ibi: circa compositionem enim et cetera. Quia vero conceptiones intellectus praeambulae sunt ordine naturae vocibus, quae ad eas exprimendas proferuntur, ideo ex similitudine differentiae, quae est circa intellectum, assignat differentiam, quae est circa significationes vocum: ut scilicet haec manifestatio non solum sit ex simili, sed etiam ex causa quam imitantur effectus.  Est ergo considerandum quod, sicut in principio dictum est, duplex est operatio intellectus, ut traditur in III de anima; in quarum una non invenitur verum et falsum, in altera autem invenitur. Et hoc est quod dicit quod in anima aliquoties est intellectus sine vero et falso, aliquoties autem ex necessitate habet alterum horum. Et quia voces significativae formantur ad exprimendas conceptiones intellectus, ideo ad hoc quod signum conformetur signato, necesse est quod etiam vocum significativarum similiter quaedam significent sine vero et falso, quaedam autem cum vero et falso.  Deinde cum dicit: circa compositionem etc., manifestat quod dixerat. Et primo, quantum ad id quod dixerat de intellectu; secundo, quantum ad id quod dixerat de assimilatione vocum ad intellectum; ibi: nomina igitur ipsa et verba et cetera. Ad ostendendum igitur quod intellectus quandoque est sine vero et falso, quandoque autem cum altero horum, dicit primo quod veritas et falsitas est circa compositionem et divisionem. Ubi oportet intelligere quod una duarum operationum intellectus est indivisibilium intelligentia: in quantum scilicet intellectus intelligit absolute cuiusque rei quidditatem sive essentiam per seipsam, puta quid est homo vel quid album vel quid aliud huiusmodi. Alia vero operatio intellectus est, secundum quod huiusmodi simplicia concepta simul componit et dividit. Dicit ergo quod in hac secunda operatione intellectus, idest componentis et dividentis, invenitur veritas et falsitas: relinquens quod in prima operatione non invenitur, ut etiam traditur in III de anima.  Sed circa hoc primo videtur esse dubium: quia cum divisio fiat per resolutionem ad indivisibilia sive simplicia, videtur quod sicut in simplicibus non est veritas vel falsitas, ita nec in divisione. Sed dicendum est quod cum conceptiones intellectus sint similitudines rerum, ea quae circa intellectum sunt dupliciter considerari et nominari possunt. Uno modo, secundum se: alio modo, secundum rationes rerum quarum sunt similitudines. Sicut imago Herculis secundum se quidem dicitur et est cuprum; in quantum autem est similitudo Herculis nominatur homo. Sic etiam, si consideremus ea quae sunt circa intellectum secundum se, semper est compositio, ubi est veritas et falsitas; quae nunquam invenitur in intellectu, nisi per hoc quod intellectus comparat unum simplicem conceptum alteri. Sed si referatur ad rem, quandoque dicitur compositio, quandoque dicitur divisio. Compositio quidem, quando intellectus comparat unum conceptum alteri, quasi apprehendens coniunctionem aut identitatem rerum, quarum sunt conceptiones; divisio autem, quando sic comparat unum conceptum alteri, ut apprehendat res esse diversas. Et per hunc etiam modum in vocibus affirmatio dicitur compositio, in quantum coniunctionem ex parte rei significat; negatio vero dicitur divisio, in quantum significat rerum separationem.  Ulterius autem videtur quod non solum in compositione et divisione veritas consistat. Primo quidem, quia etiam res dicitur vera vel falsa, sicut dicitur aurum verum vel falsum. Dicitur etiam quod ens et verum convertuntur. Unde videtur quod etiam simplex conceptio intellectus, quae est similitudo rei, non careat veritate et falsitate. Praeterea, philosophus dicit in Lib. de anima quod sensus propriorum sensibilium semper est verus; sensus autem non componvel dividit; non ergo in sola compositione vel divisione est veritas. Item, in intellectu divino nulla est compositio, ut probatur in XII metaphysicae; et tamen ibi est prima et summa veritas; non ergo veritas est solum circa compositionem et divisionem.  Ad huiusmodi igitur evidentiam considerandum est quod veritas in aliquo invenitur dupliciter: uno modo, sicut in eo quod est verum: alio modo, sicut in dicente vel cognoscente verum. Invenitur autem veritas sicut in eo quod est verum tam in simplicibus, quam in compositis; sed sicut in dicente vel cognoscente verum, non invenitur nisi secundum compositionem et divisionem. Quod quidem sic patet.  Verum enim, ut philosophus dicit in VI Ethicorum, est bonum intellectus. Unde de quocumque dicatur verum, oportet quod hoc sit per respectum ad intellectum. Comparantur autem ad intellectum voces quidem sicut signa, res autem sicut ea quorum intellectus sunt similitudines. Considerandum autem quod aliqua res comparatur ad intellectum dupliciter. Uno quidem modo, sicut mensura ad mensuratum, et sic comparantur res naturales ad intellectum speculativum humanum. Et ideo intellectus dicitur verus secundum quod conformatur rei, falsus autem secundum quod discordat a re. Res autem naturalis non dicitur esse vera per comparationem ad intellectum nostrum, sicut posuerunt quidam antiqui naturales, existimantes rerum veritatem esse solum in hoc, quod est videri: secundum hoc enim sequeretur quod contradictoria essent simul vera, quia contradictoria cadunt sub diversorum opinionibus. Dicuntur tamen res aliquae verae vel falsae per comparationem ad intellectum nostrum, non essentialiter vel formaliter, sed effective, in quantum scilicet natae sunt facere de se veram vel falsam existimationem; et secundum hoc dicitur aurum verum vel falsum. Alio autem modo, res comparantur ad intellectum, sicut mensuratum ad mensuram, ut patet in intellectu practico, qui est causa rerum. Unde opus artificis dicitur esse verum, in quantum attingit ad rationem artis; falsum vero, in quantum deficit a ratione artis.  Et quia omnia etiam naturalia comparantur ad intellectum divinum, sicut artificiata ad artem, consequens est ut quaelibet res dicatur esse vera secundum quod habet propriam formam, secundum quam imitatur artem divinam. Nam falsum aurum est verum aurichalcum. Et hoc modo ens et verum convertuntur, quia quaelibet res naturalis per suam formam arti divinae conformatur. Unde philosophus in I physicae, formam nominat quoddam divinum.  Et sicut res dicitur vera per comparationem ad suam mensuram, ita etiam et sensus vel intellectus, cuius mensura est res extra animam. Unde sensus dicitur verus, quando per formam suam conformatur rei extra animam existenti. Et sic intelligitur quod sensus proprii sensibilis sit verus. Et hoc etiam modo intellectus apprehendens quod quid est absque compositione et divisione, semper est verus, ut dicitur in III de anima. Est autem considerandum quod quamvis sensus proprii obiecti sit verus, non tamen cognoscit hoc esse verum. Non enim potest cognoscere habitudinem conformitatis suae ad rem, sed solam rem apprehendit; intellectus autem potest huiusmodi habitudinem conformitatis cognoscere; et ideo solus intellectus potest cognoscere veritatem. Unde et philosophus dicit in VI metaphysicae quod veritas est solum in mente, sicut scilicet in cognoscente veritatem. Cognoscere autem praedictam conformitatis habitudinem nihil est aliud quam iudicare ita esse in re vel non esse: quod est componere et dividere; et ideo intellectus non cognoscit veritatem, nisi componendo vel dividendo per suum iudicium. Quod quidem iudicium, si consonet rebus, erit verum, puta cum intellectus iudicat rem esse quod est, vel non esse quod non est. Falsum autem quando dissonat a re, puta cum iudicat non esse quod est, vel esse quod non est. Unde patet quod veritas et falsitas sicut in cognoscente et dicente non est nisi circa compositionem et divisionem. Et hoc modo philosophus loquitur hic. Et quia voces sunt signa intellectuum, erit vox vera quae significat verum intellectum, falsa autem quae significat falsum intellectum: quamvis vox, in quantum est res quaedam, dicatur vera sicut et aliae res. Unde haec vox, homo est asinus, est vere vox et vere signum; sed quia est signum falsi, ideo dicitur falsa.  Sciendum est autem quod philosophus de veritate hic loquitur secundum quod pertinet ad intellectum humanum, qui iudicat de conformitate rerum et intellectus componendo et dividendo. Sed iudicium intellectus divini de hoc est absque compositione et divisione: quia sicut etiam intellectus noster intelligit materialia immaterialiter, ita etiam intellectus divinus cognoscit compositionem et divisionem simpliciter.  Deinde cum dicit: nomina igitur ipsa et verba etc., manifestat quod dixerat de similitudine vocum ad intellectum. Et primo, manifestat propositum; secundo, probat per signum; ibi: huius autem signum et cetera. Concludit ergo ex praemissis quod, cum solum circa compositionem et divisionem sit veritas et falsitas in intellectu, consequens est quod ipsa nomina et verba, divisim accepta, assimilentur intellectui qui est sine compositione et divisione; sicut cum homo vel album dicitur, si nihil aliud addatur: non enim verum adhuc vel falsum est; sed postea quando additur esse vel non esse, fit verum vel falsum.  Nec est instantia de eo, qui per unicum nomen veram responsionem dat ad interrogationem factam; ut cum quaerenti: quid natat in mari? Aliquis respondet, piscis. Nam intelligitur verbum quod fuit in interrogatione positum. Et sicut nomen per se positum non significat verum vel falsum, ita nec verbum per se dictum. Nec est instantia de verbo primae et secundae personae, et de verbo exceptae actionis: quia in his intelligitur certus et determinatus nominativus. Unde est implicita compositio, licet non explicita.  Deinde cum dicit: signum autem etc., inducit signum ex nomine composito, scilicet Hircocervus, quod componitur ex hirco et cervus et quod in Graeco dicitur Tragelaphos; nam tragos est hircus, et elaphos cervus. Huiusmodi enim nomina significant aliquid, scilicet quosdam conceptus simplices, licet rerum compositarum; et ideo non est verum vel falsum, nisi quando additur esse vel non esse, per quae exprimitur iudicium intellectus. Potest autem addi esse vel non esse, vel secundum praesens tempus, quod est esse vel non esse in actu, et ideo hoc dicitur esse simpliciter; vel secundum tempus praeteritum, aut futurum, quod non est esse simpliciter, sed secundum quid; ut cum dicitur aliquid fuisse vel futurum esse. Signanter autem utitur exemplo ex nomine significante quod non est in rerum natura, in quo statim falsitas apparet, et quod sine compositione et divisione non possit verum vel falsum esse.  Postquam philosophus determinavit de ordine significationis vocum, hic accedit ad determinandum de ipsis vocibus significativis. Et quia principaliter intendit de enunciatione, quae est subiectum huius libri; in qualibet autem scientia oportet praenoscere principia subiecti; ideo primo, determinat de principiis enunciationis; secundo, de ipsa enunciatione; ibi: enunciativa vero non omnis et cetera. Circa primum duo facit: primo enim, determinat principia quasi materialia enunciationis, scilicet partes integrales ipsius; secundo, determinat principium formale, scilicet orationem, quae est enunciationis genus; ibi: oratio autem est vox significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de nomine, quod significat rei substantiam; secundo, determinat de verbo, quod significat actionem vel passionem procedentem a re; ibi: verbum autem est quod consignificat tempus et cetera. Circa primum tria facit: primo, definit nomen; secundo, definitionem exponit; ibi: in nomine enim quod est equiferus etc.; tertio, excludit quaedam, quae perfecte rationem nominis non habent, ibi: non homo vero non est nomen.  Circa primum considerandum est quod definitio ideo dicitur terminus, quia includit totaliter rem; ita scilicet, quod nihil rei est extra definitionem, cui scilicet definitio non conveniat; nec aliquid aliud est infra definitionem, cui scilicet definitio conveniat.  Et ideo quinque ponit in definitione nominis. Primo, ponitur vox per modum generis, per quod distinguitur nomen ab omnibus sonis, qui non sunt voces. Nam vox est sonus ab ore animalis prolatus, cum imaginatione quadam, ut dicitur in II de anima. Additur autem prima differentia, scilicet significativa, ad differentiam quarumcumque vocum non significantium, sive sit vox litterata et articulata, sicut biltris, sive non litterata et non articulata, sicut sibilus pro nihilo factus. Et quia de significatione vocum in superioribus actum est, ideo ex praemissis concludit quod nomen est vox significativa.  Sed cum vox sit quaedam res naturalis, nomen autem non est aliquid naturale sed ab hominibus institutum, videtur quod non debuit genus nominis ponere vocem, quae est ex natura, sed magis signum, quod est ex institutione; ut diceretur: nomen est signum vocale; sicut etiam convenientius definiretur scutella, si quis diceret quod est vas ligneum, quam si quis diceret quod est lignum formatum in vas.  Sed dicendum quod artificialia sunt quidem in genere substantiae ex parte materiae, in genere autem accidentium ex parte formae: nam formae artificialium accidentia sunt. Nomen ergo significat formam accidentalem ut concretam subiecto. Cum autem in definitione omnium accidentium oporteat poni subiectum, necesse est quod, si qua nomina accidens in abstracto significant quod in eorum definitione ponatur accidens in recto, quasi genus, subiectum autem in obliquo, quasi differentia; ut cum dicitur, simitas est curvitas nasi. Si qua vero nomina accidens significant in concreto, in eorum definitione ponitur materia, vel subiectum, quasi genus, et accidens, quasi differentia; ut cum dicitur, simum est nasus curvus. Si igitur nomina rerum artificialium significant formas accidentales, ut concretas subiectis naturalibus, convenientius est, ut in eorum definitione ponatur res naturalis quasi genus, ut dicamus quod scutella est lignum figuratum, et similiter quod nomen est vox significativa. Secus autem esset, si nomina artificialium acciperentur, quasi significantia ipsas formas artificiales in abstracto.  Tertio, ponit secundam differentiam cum dicit: secundum placitum, idest secundum institutionem humanam a beneplacito hominis procedentem. Et per hoc differt nomen a vocibus significantibus naturaliter, sicut sunt gemitus infirmorum et voces brutorum animalium.  Quarto, ponit tertiam differentiam, scilicet sine tempore, per quod differt nomen a verbo. Sed videtur hoc esse falsum: quia hoc nomen dies vel annus significat tempus. Sed dicendum quod circa tempus tria possunt considerari. Primo quidem, ipsum tempus, secundum quod est res quaedam, et sic potest significari a nomine, sicut quaelibet alia res. Alio modo, potest considerari id, quod tempore mensuratur, in quantum huiusmodi: et quia id quod primo et principaliter tempore mensuratur est motus, in quo consistit actio et passio, ideo verbum quod significat actionem vel passionem, significat cum tempore. Substantia autem secundum se considerata, prout significatur per nomen et pronomen, non habet in quantum huiusmodi ut tempore mensuretur, sed solum secundum quod subiicitur motui, prout per participium significatur. Et ideo verbum et participium significant cum tempore, non autem nomen et pronomen. Tertio modo, potest considerari ipsa habitudo temporis mensurantis; quod significatur per adverbia temporis, ut cras, heri et huiusmodi.  Quinto, ponit quartam differentiam cum subdit: cuius nulla pars est significativa separata, scilicet a toto nomine; comparatur tamen ad significationem nominis secundum quod est in toto. Quod ideo est, quia significatio est quasi forma nominis; nulla autem pars separata habet formam totius, sicut manus separata ab homine non habet formam humanam. Et per hoc distinguitur nomen ab oratione, cuius pars significat separata; ut cum dicitur, homo iustus.  Deinde cum dicit: in nomine enim quod est etc., manifestat praemissam definitionem. Et primo, quantum ad ultimam particulam; secundo, quantum ad tertiam; ibi: secundum vero placitum et cetera. Nam primae duae particulae manifestae sunt ex praemissis; tertia autem particula, scilicet sine temporeit, manifestabitur in sequentibus in tractatu de verbo. Circa primum duo facit: primo, manifestat propositum per nomina composita; secundo, ostendit circa hoc differentiam inter nomina simplicia et composita; ibi: at vero non quemadmodum et cetera. Manifestat ergo primo quod pars nominis separata nihil significat, per nomina composita, in quibus hoc magis videtur. In hoc enim nomine quod est equiferus, haec pars ferus, per se nihil significat sicut significat in hac oratione, quae est equus ferus. Cuius ratio est quod unum nomen imponitur ad significandum unum simplicem intellectum; aliud autem est id a quo imponitur nomen ad significandum, ab eo quod nomen significat; sicut hoc nomen lapis imponitur a laesione pedis, quam non significat: quod tamen imponitur ad significandum conceptum cuiusdam rei. Et inde est quod pars nominis compositi, quod imponitur ad significandum conceptum simplicem, non significat partem conceptionis compositae, a qua imponitur nomen ad significandum. Sed oratio significat ipsam conceptionem compositam: unde pars orationis significat partem conceptionis compositae.  Deinde cum dicit: at vero non etc., ostendit quantum ad hoc differentiam inter nomina simplicia et composita, et dicit quod non ita se habet in nominibus simplicibus, sicut et in compositis: quia in simplicibus pars nullo modo est significativa, neque secundum veritatem, neque secundum apparentiam; sed in compositis vult quidem, idest apparentiam habet significandi; nihil tamen pars eius significat, ut dictum est de nomine equiferus. Haec autem ratio differentiae est, quia nomen simplex sicut imponitur ad significandum conceptum simplicem, ita etiam imponitur ad significandum ab aliquo simplici conceptu; nomen vero compositum imponitur a composita conceptione, ex qua habet apparentiam quod pars eius significet.  Deinde cum dicit: secundum placitum etc., manifestat tertiam partem praedictae definitionis; et dicit quod ideo dictum est quod nomen significat secundum placitum, quia nullum nomen est naturaliter. Ex hoc enim est nomen, quod significat: non autem significat naturaliter, sed ex institutione. Et hoc est quod subdit: sed quando fit nota, idest quando imponitur ad significandum. Id enim quod naturaliter significat non fit, sed naturaliter est signum. Et hoc significat cum dicit: illitterati enim soni, ut ferarum, quia scilicet litteris significari non possunt. Et dicit potius sonos quam voces, quia quaedam animalia non habent vocem, eo quod carent pulmone, sed tantum quibusdam sonis proprias passiones naturaliter significant: nihil autem horum sonorum est nomen. Ex quo manifeste datur intelligi quod nomen non significat naturaliter.  Sciendum tamen est quod circa hoc fuit diversa quorumdam opinio. Quidam enim dixerunt quod nomina nullo modo naturaliter significant: nec differt quae res quo nomine significentur. Alii vero dixerunt quod nomina omnino naturaliter significant, quasi nomina sint naturales similitudines rerum. Quidam vero dixerunt quod nomina non naturaliter significant quantum ad hoc, quod eorum significatio non est a natura, ut Aristoteles hic intendit; quantum vero ad hoc naturaliter significant quod eorum significatio congruit naturis rerum, ut Plato dixit. Nec obstat quod una res multis nominibus significatur: quia unius rei possunt esse multae similitudines; et similiter ex diversis proprietatibus possunt uni rei multa diversa nomina imponi. Non est autem intelligendum quod dicit: quorum nihil est nomen, quasi soni animalium non habeant nomina: nominantur enim quibusdam nominibus, sicut dicitur rugitus leonis et mugitus bovis; sed quia nullus talis sonus est nomen, ut dictum est.  Deinde cum dicit: non homo vero etc., excludit quaedam a nominis ratione. Et primo, nomen infinitum; secundo, casus nominum; ibi: Catonis autem vel Catoni et cetera. Dicit ergo primo quod non homo non est nomen. Omne enim nomen significat aliquam naturam determinatam, ut homo; aut personam determinatam, ut pronomen; aut utrumque determinatum, ut Socrates. Sed hoc quod dico non homo, neque determinatam naturam neque determinatam personam significat. Imponitur enim a negatione hominis, quae aequaliter dicitur de ente, et non ente. Unde non homo potest dici indifferenter, et de eo quod non est in rerum natura; ut si dicamus, Chimaera est non homo, et de eo quod est in rerum natura; sicut cum dicitur, equus est non homo. Si autem imponeretur a privatione, requireret subiectum ad minus existens: sed quia imponitur a negatione, potest dici de ente et de non ente, ut Boethius et Ammonius dicunt. Quia tamen significat per modum nominis, quod potest subiici et praedicari, requiritur ad minus suppositum in apprehensione. Non autem erat nomen positum tempore Aristotelis sub quo huiusmodi dictiones concluderentur. Non enim est oratio, quia pars eius non significat aliquid separata, sicut nec in nominibus compositis; similiter autem non est negatio, id est oratio negativa, quia huiusmodi oratio superaddit negationem affirmationi, quod non contingit hic. Et ideo novum nomen imponit huiusmodi dictioni, vocans eam nomen infinitum propter indeterminationem significationis, ut dictum est.  Deinde cum dicit: Catonis autem vel Catoni etc., excludit casus nominis; et dicit quod Catonis vel Catoni et alia huiusmodi non sunt nomina, sed solus nominativus dicitur principaliter nomen, per quem facta est impositio nominis ad aliquid significandum. Huiusmodi autem obliqui vocantur casus nominis: quia quasi cadunt per quamdam declinationis originem a nominativo, qui dicitur rectus eo quod non cadit. Stoici autem dixerunt etiam nominativos dici casus: quos grammatici sequuntur, eo quod cadunt, idest procedunt ab interiori conceptione mentis. Et dicitur rectus, eo quod nihil prohibet aliquid cadens sic cadere, ut rectum stet, sicut stilus qui cadens ligno infigitur.  Deinde cum dicit: ratio autem eius etc., ostendit consequenter quomodo se habeant obliqui casus ad nomen; et dicit quod ratio, quam significat nomen, est eadem et in aliis, scilicet casibus nominis; sed in hoc est differentia quod nomen adiunctum cum hoc verbo est vel erit vel fuit semper significat verum vel falsum: quod non contingit in obliquis. Signanter autem inducit exemplum de verbo substantivo: quia sunt quaedam alia verba, scilicet impersonalia, quae cum obliquis significant verum vel falsum; ut cum dicitur, poenitet Socratem, quia actus verbi intelligitur ferri super obliquum; ac si diceretur, poenitentia habet Socratem.  Sed contra: si nomen infinitum et casus non sunt nomina, inconvenienter data est praemissa nominis definitio, quae istis convenit. Sed dicendum, secundum Ammonium, quod supra communius definit nomen, postmodum vero significationem nominis arctat subtrahendo haec a nomine. Vel dicendum quod praemissa definitio non simpliciter convenit his: nomen enim infinitum nihil determinatum significat, neque casus nominis significat secundum primum placitum instituentis, ut dictum est. Postquam philosophus determinavit de nomine: hic determinat de verbo. Et circa hoc tria facit: primo, definit verbum; secundo, excludit quaedam a ratione verbi; ibi: non currit autem, et non laborat etc.; tertio, ostendit convenientiam verbi ad nomen; ibi: ipsa quidem secundum se dicta verba, et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit definitionem verbi; secundo exponit eam; ibi: dico autem quoniam consignificat et cetera.  Est autem considerandum quod Aristoteles, brevitati studens, non ponit in definitione verbi ea quae sunt nomini et verbo communia, relinquens ea intellectui legentis ex his quae dixerat in definitione nominis. Ponit autem tres particulas in definitione verbi: quarum prima distinguit verbum a nomine, in hoc scilicet quod dicit quod consignificat tempus. Dictum est enim in definitione nominis quod nomen significat sine tempore. Secunda vero particula est, per quam distinguitur verbum ab oratione, scilicet cum dicitur: cuius pars nihil extra significat.  Sed cum hoc etiam positum sit in definitione nominis, videtur hoc debuisse praetermitti, sicut et quod dictum est, vox significativa ad placitum. Ad quod respondet Ammonius quod in definitione nominis hoc positum est, ut distinguatur nomen ab orationibus, quae componuntur ex nominibus; ut cum dicitur, homo est animal. Quia vero sunt etiam quaedam orationes quae componuntur ex verbis; ut cum dicitur, ambulare est moveri, ut ab his distinguatur verbum, oportuit hoc etiam in definitione verbi iterari. Potest etiam aliter dici quod quia verbum importat compositionem, in qua perficitur oratio verum vel falsum significans, maiorem convenientiam videbatur verbum habere cum oratione, quasi quaedam pars formalis ipsius, quam nomen, quod est quaedam pars materialis et subiectiva orationis; et ideo oportuit iterari.  Tertia vero particula est, per quam distinguitur verbum non solum a nomine, sed etiam a participio quod significat cum tempore; unde dicit: et est semper eorum, quae de altero praedicantur nota, idest signum: quia scilicet nomina et participia possunt poni ex parte subiecti et praedicati, sed verbum semper est ex parte praedicati.  Sed hoc videtur habere instantiam in verbis infinitivi modi, quae interdum ponuntur ex parte subiecti; ut cum dicitur, ambulare est moveri. Sed dicendum est quod verba infinitivi modi, quando in subiecto ponuntur, habent vim nominis: unde et in Graeco et in vulgari Latina locutione suscipiunt additionem articulorum sicut et nomina. Cuius ratio est quia proprium nominis est, ut significet rem aliquam quasi per se existentem; proprium autem verbi est, ut significet actionem vel passionem. Potest autem actio significari tripliciter: uno modo, per se in abstracto, velut quaedam res, et sic significatur per nomen; ut cum dicitur actio, passio, ambulatio, cursus et similia; alio modo, per modum actionis, ut scilicet est egrediens a substantia et inhaerens ei ut subiecto, et sic significatur per verba aliorum modorum, quae attribuuntur praedicatis. Sed quia etiam ipse processus vel inhaerentia actionis potest apprehendi ab intellectu et significari ut res quaedam, inde est quod ipsa verba infinitivi modi, quae significant ipsam inhaerentiam actionis ad subiectum, possunt accipi ut verba, ratione concretionis, et ut nomina prout significant quasi res quasdam.  Potest etiam obiici de hoc quod etiam verba aliorum modorum videntur aliquando in subiecto poni; ut cum dicitur, curro est verbum. Sed dicendum est quod in tali locutione, hoc verbum curro, non sumitur formaliter, secundum quod eius significatio refertur ad rem, sed secundum quod materialiter significat ipsam vocem, quae accipitur ut res quaedam. Et ideo tam verba, quam omnes orationis partes, quando ponuntur materialiter, sumuntur in vi nominum.  Deinde cum dicit: dico vero quoniam consignificat etc., exponit definitionem positam. Et primo, quantum ad hoc quod dixerat quod consignificat tempus; secundo, quantum ad hoc quod dixerat quod est nota eorum quae de altero praedicantur, cum dicit: et semper est et cetera. Secundam autem particulam, scilicet: cuius nulla pars extra significat, non exponit, quia supra exposita est in tractatu nominis. Exponit ergo primum quod verbum consignificat tempus, per exemplum; quia videlicet cursus, quia significat actionem non per modum actionis, sed per modum rei per se existentis, non consignificat tempus, eo quod est nomen. Curro vero cum sit verbum significans actionem, consignificat tempus, quia proprium est motus tempore mensurari; actiones autem nobis notae sunt in tempore. Dictum est autem supra quod consignificare tempus est significare aliquid in tempore mensuratum. Unde aliud est significare tempus principaliter, ut rem quamdam, quod potest nomini convenire, aliud autem est significare cum tempore, quod non convenit nomini, sed verbo.  Deinde cum dicit: et est semper etc., exponit aliam particulam. Ubi notandum est quod quia subiectum enunciationis significatur ut cui inhaeret aliquid, cum verbum significet actionem per modum actionis, de cuius ratione est ut inhaereat, semper ponitur ex parte praedicati, nunquam autem ex parte subiecti, nisi sumatur in vi nominis, ut dictum est. Dicitur ergo verbum semper esse nota eorum quae dicuntur de altero: tum quia verbum semper significat id, quod praedicatur; tum quia in omni praedicatione oportet esse verbum, eo quod verbum importat compositionem, qua praedicatum componitur subiecto.  Sed dubium videtur quod subditur: ut eorum quae de subiecto vel in subiecto sunt. Videtur enim aliquid dici ut de subiecto, quod essentialiter praedicatur; ut, homo est animal; in subiecto autem, sicut accidens de subiecto praedicatur; ut, homo est albus. Si ergo verba significant actionem vel passionem, quae sunt accidentia, consequens est ut semper significent ea, quae dicuntur ut in subiecto. Frustra igitur dicitur in subiecto vel de subiecto. Et ad hoc dicit Boethius quod utrumque ad idem pertinet. Accidens enim et de subiecto praedicatur, et in subiecto est. Sed quia Aristoteles disiunctione utitur, videtur aliud per utrumque significare. Et ideo potest dici quod cum Aristoteles dicit quod, verbum semper est nota eorum, quae de altero praedicantur, non est sic intelligendum, quasi significata verborum sint quae praedicantur, quia cum praedicatio videatur magis proprie ad compositionem pertinere, ipsa verba sunt quae praedicantur, magis quam significent praedicata. Est ergo intelligendum quod verbum semper est signum quod aliqua praedicentur, quia omnis praedicatio fit per verbum ratione compositionis importatae, sive praedicetur aliquid essentialiter sive accidentaliter.  Deinde cum dicit: non currit vero et non laborat etc., excludit quaedam a ratione verbi. Et primo, verbum infinitum; secundo, verba praeteriti temporis vel futuri; ibi: similiter autem curret vel currebat. Dicit ergo primo quod non currit, et non laborat, non proprie dicitur verbum. Est enim proprium verbi significare aliquid per modum actionis vel passionis; quod praedictae dictiones non faciunt: removent enim actionem vel passionem, potius quam aliquam determinatam actionem vel passionem significent. Sed quamvis non proprie possint dici verbum, tamen conveniunt sibi ea quae supra posita sunt in definitione verbi. Quorum primum est quod significat tempus, quia significat agere et pati, quae sicut sunt in tempore, ita privatio eorum; unde et quies tempore mensuratur, ut habetur in VI physicorum. Secundum est quod semper ponitur ex parte praedicati, sicut et verbum: ethoc ideo, quia negatio reducitur ad genus affirmationis. Unde sicut verbum quod significat actionem vel passionem, significat aliquid ut in altero existens, ita praedictae dictiones significant remotionem actionis vel passionis.  Si quis autem obiiciat: si praedictis dictionibus convenit definitio verbi; ergo sunt verba; dicendum est quod definitio verbi supra posita datur de verbo communiter sumpto. Huiusmodi autem dictiones negantur esse verba, quia deficiunt a perfecta ratione verbi. Nec ante Aristotelem erat nomen positum huic generi dictionum a verbis differentium; sed quia huiusmodi dictiones in aliquo cum verbis conveniunt, deficiunt tamen a determinata ratione verbi, ideo vocat ea verba infinita. Et rationem nominis assignat, quia unumquodque eorum indifferenter potest dici de eo quod est, vel de eo quod non est. Sumitur enim negatio apposita non in vi privationis, sed in vi simplicis negationis. Privatio enim supponit determinatum subiectum. Differunt tamen huiusmodi verba a verbis negativis, quia verba infinita sumuntur in vi unius dictionis, verba vero negativa in vi duarum dictionum.  Deinde cum dicit: similiter autem curret etc., excludit a verbo verba praeteriti et futuri temporis; et dicit quod sicut verba infinita non sunt simpliciter verba, ita etiam curret, quod est futuri temporis, vel currebat, quod est praeteriti temporis, non sunt verba, sed sunt casus verbi. Et differunt in hoc a verbo, quia verbum consignificat praesens tempus, illa vero significant tempus hinc et inde circumstans. Dicit autem signanter praesens tempus, et non simpliciter praesens, ne intelligatur praesens indivisibile, quod est instans: quia in instanti non est motus, nec actio aut passio; sed oportet accipere praesens tempus quod mensurat actionem, quae incepit, et nondum est determinata per actum. Recte autem ea quae consignificant tempus praeteritum vel futurum, non sunt verba proprie dicta: cum enim verbum proprie sit quod significat agere vel pati, hoc est proprie verbum quod significat agere vel pati in actu, quod est agere vel pati simpliciter: sed agere vel pati in praeterito vel futuro est secundum quid.  Dicuntur etiam verba praeteriti vel futuri temporis rationabiliter casus verbi, quod consignificat praesens tempus; quia praeteritum vel futurum dicitur per respectum ad praesens. Est enim praeteritum quod fuit praesens, futurum autem quod erit praesens.  Cum autem declinatio verbi varietur per modos, tempora, numeros et personas, variatio quae fit per numerum et personam non constituit casus verbi: quia talis variatio non est ex parte actionis, sed ex parte subiecti; sed variatio quae est per modos et tempora respicit ipsam actionem, et ideo utraque constituit casus verbi. Nam verba imperativi vel optativi modi casus dicuntur, sicut et verba praeteriti vel futuri temporis. Sed verba indicativi modi praesentis temporis non dicuntur casus, cuiuscumque sint personae vel numeri. Deinde cum dicit: ipsa itaque etc., ostendit convenientiam verborum ad nomina. Et circa hoc duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: et significant aliquid et cetera. Dicit ergo primo, quod ipsa verba secundum se dicta sunt nomina: quod a quibusdam exponitur de verbis quae sumuntur in vi nominis, ut dictum est, sive sint infinitivi modi; ut cum dico, currere est moveri, sive sint alterius modi; ut cum dico, curro est verbum. Sed haec non videtur esse intentio Aristotelis, quia ad hanc intentionem non respondent sequentia. Et ideo aliter dicendum est quod nomen hic sumitur, prout communiter significat quamlibet dictionem impositam ad significandum aliquam rem. Et quia etiam ipsum agere vel pati est quaedam res, inde est quod et ipsa verba in quantum nominant, idest significant agere vel pati, sub nominibus comprehenduntur communiter acceptis. Nomen autem, prout a verbo distinguitur, significat rem sub determinato modo, prout scilicet potest intelligi ut per se existens. Unde nomina possunt subiici et praedicari.  Deinde cum dicit: et significant aliquid etc., probat propositum. Et primo, per hoc quod verba significant aliquid, sicut et nomina; secundo, per hoc quod non significant verum vel falsum, sicut nec nomina; ibi: sed si est, aut non est et cetera. Dicit ergo primo quod in tantum dictum est quod verba sunt nomina, in quantum significant aliquid. Et hoc probat, quia supra dictum est quod voces significativae significant intellectus. Unde proprium vocis significativae est quod generet aliquem intellectum in animo audientis. Et ideo ad ostendendum quod verbum sit vox significativa, assumit quod ille, qui dicit verbum, constituit intellectum in animo audientis. Et ad hoc manifestandum inducit quod ille, qui audit, quiescit.  Sed hoc videtur esse falsum: quia sola oratio perfecta facit quiescere intellectum, non autem nomen, neque verbum si per se dicatur. Si enim dicam, homo, suspensus est animus audientis, quid de eo dicere velim; si autem dico, currit, suspensus est eius animus de quo dicam. Sed dicendum est quod cum duplex sit intellectus operatio, ut supra habitum est, ille qui dicit nomen vel verbum secundum se, constituit intellectum quantum ad primam operationem, quae est simplex conceptio alicuius, et secundum hoc, quiescit audiens, qui in suspenso erat antequam nomen vel verbum proferretur et eius prolatio terminaretur; non autem constituit intellectum quantum ad secundam operationem, quae est intellectus componentis et dividentis, ipsum verbum vel nomen per se dictum: nec quantum ad hoc facit quiescere audientem.  Et ideo statim subdit: sed si est, aut non est, nondum significat, idest nondum significat aliquid per modum compositionis et divisionis, aut veri vel falsi. Et hoc est secundum, quod probare intendit. Probat autem consequenter per illa verba, quae maxime videntur significare veritatem vel falsitatem, scilicet ipsum verbum quod est esse, et verbum infinitum quod est non esse; quorum neutrum per se dictum est significativum veritatis vel falsitatis in re; unde multo minus alia. Vel potest intelligi hoc generaliter dici de omnibus verbis. Quia enim dixerat quod verbum non significat si est res vel non est, hoc consequenter manifestat, quia nullum verbum est significativum esse rei vel non esse, idest quod res sit vel non sit. Quamvis enim omne verbum finitum implicet esse, quia currere est currentem esse, et omne verbum infinitum implicet non esse, quia non currere est non currentem esse; tamen nullum verbum significat hoc totum, scilicet rem esse vel non esse.  Et hoc consequenter probat per id, de quo magis videtur cum subdit: nec si hoc ipsum est purum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ubi notandum est quod in Graeco habetur: neque si ens ipsum nudum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ad probandum enim quod verba non significant rem esse vel non esse, assumpsit id quod est fons et origo ipsius esse, scilicet ipsum ens, de quo dicit quod nihil est (ut Alexander exponit), quia ens aequivoce dicitur de decem praedicamentis; omne autem aequivocum per se positum nihil significat, nisi aliquid addatur quod determinet eius significationem; unde nec ipsum est per se dictum significat quod est vel non est. Sed haec expositio non videtur conveniens, tum quia ens non dicitur proprie aequivoce, sed secundum prius et posterius; unde simpliciter dictum intelligitur de eo, quod per prius dicitur: tum etiam, quia dictio aequivoca non nihil significat, sed multa significat; et quandoque hoc, quandoque illud per ipsam accipitur: tum etiam, quia talis expositio non multum facit ad intentionem praesentem. Unde Porphyrius aliter exposuit quod hoc ipsum ens non significat naturam alicuius rei, sicut hoc nomen homo vel sapiens, sed solum designat quamdam coniunctionem; unde subdit quod consignificat quamdam compositionem, quam sine compositis non est intelligere. Sed neque hoc convenienter videtur dici: quia si non significaret aliquam rem, sed solum coniunctionem, non esset neque nomen, neque verbum, sicut nec praepositiones aut coniunctiones. Et ideo aliter exponendum est, sicut Ammonius exponit, quod ipsum ens nihil est, idest non significat verum vel falsum. Et rationem huius assignat, cum subdit: consignificat autem quamdam compositionem. Nec accipitur hic, ut ipse dicit, consignificat, sicut cum dicebatur quod verbum consignificat tempus, sed consignificat, idest cum alio significat, scilicet alii adiunctum compositionem significat, quae non potest intelligi sine extremis compositionis. Sed quia hoc commune est omnibus nominibus et verbis, non videtur haec expositio esse secundum intentionem Aristotelis, qui assumpsit ipsum ens quasi quoddam speciale. Et ideo ut magis sequamur verba Aristotelis considerandum est quod ipse dixerat quod verbum non significat rem esse vel non esse, sed nec ipsum ens significat rem esse vel non esse. Et hoc est quod dicit, nihil est, idest non significat aliquid esse. Etenim hoc maxime videbatur de hoc quod dico ens: quia ens nihil est aliud quam quod est. Et sic videtur et rem significare, per hoc quod dico quod et esse, per hoc quod dico est. Et si quidem haec dictio ens significaret esse principaliter, sicut significat rem quae habet esse, procul dubio significaret aliquid esse. Sed ipsam compositionem, quae importatur in hoc quod dico est, non principaliter significat, sed consignificat eam in quantum significat rem habentem esse. Unde talis consignificatio compositionis non sufficit ad veritatem vel falsitatem: quia compositio, in qua consistit veritas et falsitas, non potest intelligi, nisi secundum quod innectit extrema compositionis.  Si vero dicatur, nec ipsum esse, ut libri nostri habent, planior est sensus. Quod enim nullum verbum significat rem esse vel non esse, probat per hoc verbum est, quod secundum se dictum, non significat aliquid esse, licet significet esse. Et quia hoc ipsum esse videtur compositio quaedam, et ita hoc verbum est, quod significat esse, potest videri significare compositionem, in qua sit verum vel falsum; ad hoc excludendum subdit quod illa compositio, quam significat hoc verbum est, non potest intelligi sine componentibus: quia dependet eius intellectus ab extremis, quae si non apponantur, non est perfectus intellectus compositionis, ut possit in ea esse verum, vel falsum.  Ideo autem dicit quod hoc verbum est consignificat compositionem, quia non eam principaliter significat, sed ex consequenti; significat enim primo illud quod cadit in intellectu per modum actualitatis absolute: nam est, simpliciter dictum, significat in actu esse; et ideo significat per modum verbi. Quia vero actualitas, quam principaliter significat hoc verbum est, est communiter actualitas omnis formae, vel actus substantialis vel accidentalis, inde est quod cum volumus significare quamcumque formam vel actum actualiter inesse alicui subiecto, significamus illud per hoc verbum est, vel simpliciter vel secundum quid: simpliciter quidem secundum praesens tempus; secundum quid autem secundum alia tempora. Et ideo ex consequenti hoc verbum est significat compositionem. Postquam philosophus determinavit de nomine et de verbo, quae sunt principia materialia enunciationis, utpote partes eius existentes; nunc determinat de oratione, quae est principium formale enunciationis, utpote genus eius existens. Et circa hoc tria facit: primo enim, proponit definitionem orationis; secundo, exponit eam; ibi: dico autem ut homo etc.; tertio, excludit errorem; ibi: est autem oratio omnis et cetera.  Circa primum considerandum est quod philosophus in definitione orationis primo ponit illud in quo oratio convenit cum nomine et verbo, cum dicit: oratio est vox significativa, quod etiam posuit in definitione nominis, et probavit de verbo quod aliquid significet. Non autem posuit in eius definitione, quia supponebat ex eo quod positum erat in definitione nominis, studens brevitati, ne idem frequenter iteraret. Iterat tamen hoc in definitione orationis, quia significatio orationis differt a significatione nominis et verbi, quia nomen vel verbum significat simplicem intellectum, oratio vero significat intellectum compositum.  Secundo autem ponit id, in quo oratio differt a nomine et verbo, cum dicit: cuius partium aliquid significativum est separatim. Supra enim dictum est quod pars nominis non significat aliquid per se separatum, sed solum quod est coniunctum ex duabus partibus. Signanter autem non dicit: cuius pars est significativa aliquid separata, sed cuius aliquid partium est significativum, propter negationes et alia syncategoremata, quae secundum se non significant aliquid absolutum, sed solum habitudinem unius ad alterum. Sed quia duplex est significatio vocis, una quae refertur ad intellectum compositum, alia quae refertur ad intellectum simplicem; prima significatio competit orationi, secunda non competit orationi, sed parti orationis. Unde subdit: ut dictio, non ut affirmatio. Quasi dicat: pars orationis est significativa, sicut dictio significat, puta ut nomen et verbum, non sicut affirmatio, quae componitur ex nomine et verbo. Facit autem mentionem solum de affirmatione et non de negatione, quia negatio secundum vocem superaddit affirmationi; unde si pars orationis propter sui simplicitatem non significat aliquid, ut affirmatio, multo minus ut negatio.  Sed contra hanc definitionem Aspasius obiicit quod videtur non omnibus partibus orationis convenire. Sunt enim quaedam orationes, quarum partes significant aliquid ut affirmatio; ut puta, si sol lucet super terram, dies est; et sic de multis. Et ad hoc respondet Porphyrius quod in quocumque genere invenitur prius et posterius, debet definiri id quod prius est. Sicut cum datur definitio alicuius speciei, puta hominis, intelligitur definitio de eo quod est in actu, non de eo quod est in potentia; et ideo quia in genere orationis prius est oratio simplex, inde est quod Aristoteles prius definivit orationem simplicem. Vel potest dici, secundum Alexandrum et Ammonium, quod hic definitur oratio in communi. Unde debet poni in hac definitione id quod est commune orationi simplici et compositae. Habere autem partes significantes aliquid ut affirmatio, competit soli orationi, compositae; sed habere partes significantes aliquid per modum dictionis, et non per modum affirmationis, est commune orationi simplici et compositae. Et ideo hoc debuit poni in definitione orationis. Et secundum hoc non debet intelligi esse de ratione orationis quod pars eius non sit affirmatio: sed quia de ratione orationis est quod pars eius sit aliquid quod significat per modum dictionis, et non per modum affirmationis. Et in idem redit solutio Porphyrii quantum ad sensum, licet quantum ad verba parumper differat. Quia enim Aristoteles frequenter ponit dicere pro affirmare, ne dictio pro affirmatione sumatur, subdit quod pars orationis significat ut dictio, et addit non ut affirmatio: quasi diceret, secundum sensum Porphyrii, non accipiatur nunc dictio secundum quod idem est quod affirmatio. Philosophus autem, qui dicitur Ioannes grammaticus, voluit quod haec definitio orationis daretur solum de oratione perfecta, eo quod partes non videntur esse nisi alicuius perfecti, sicut omnes partes domus referuntur ad domum: et ideo secundum ipsum sola oratio perfecta habet partes significativas. Sed tamen hic decipiebatur, quia quamvis omnes partes referantur principaliter ad totum perfectum, quaedam tamen partes referuntur ad ipsum immediate, sicut paries et tectum ad domum, et membra organica ad animal: quaedam vero mediantibus partibus principalibus quarum sunt partes; sicut lapides referuntur ad domum mediante pariete; nervi autem et ossa ad animal mediantibus membris organicis, scilicet manu et pede et huiusmodi. Sic ergo omnes partes orationis principaliter referuntur ad orationem perfectam, cuius pars est oratio imperfecta, quae etiam ipsa habet partes significantes. Unde ista definitio convenit tam orationi perfectae, quam imperfectae.  Deinde cum dicit: dico autem ut homo etc., exponit propositam definitionem. Et primo, manifestat verum esse quod dicitur; secundo, excludit falsum intellectum; ibi: sed non una hominis syllaba et cetera. Exponit ergo quod dixerat aliquid partium orationis esse significativum, sicut hoc nomen homo, quod est pars orationis, significat aliquid, sed non significat ut affirmatio aut negatio, quia non significat esse vel non esse. Et hoc dico non in actu, sed solum in potentia. Potest enim aliquid addi, per cuius additionem fit affirmatio vel negatio, scilicet si addatur ei verbum.  Deinde cum dicit: sed non una hominis etc., excludit falsum intellectum. Et posset hoc referri ad immediate dictum, ut sit sensus quod nomen erit affirmatio vel negatio, si quid ei addatur, sed non si addatur ei una nominis syllaba. Sed quia huic sensui non conveniunt verba sequentia, oportet quod referatur ad id, quod supra dictum est in definitione orationis, scilicet quod aliquid partium eius sit significativum separatim. Sed quia pars alicuius totius dicitur proprie illud, quod immediate venit ad constitutionem totius, non autem pars partis; ideo hoc intelligendum est de partibus ex quibus immediate constituitur oratio, scilicet de nomine et verbo, non autem de partibus nominis vel verbi, quae sunt syllabae vel litterae. Et ideo dicitur quod pars orationis est significativa separata, non tamen talis pars, quae est una nominis syllaba. Et hoc manifestat in syllabis, quae quandoque possunt esse dictiones per se significantes: sicut hoc quod dico rex, quandoque est una dictio per se significans; in quantum vero accipitur ut una quaedam syllaba huius nominis sorex, soricis, non significat aliquid per se, sed est vox sola. Dictio enim quaedam est composita ex pluribus vocibus, tamen in significando habet simplicitatem, in quantum scilicet significat simplicem intellectum. Et ideo in quantum est vox composita, potest habere partem quae sit vox, inquantum autem est simplex in significando, non potest habere partem significantem. Unde syllabae quidem sunt voces, sed non sunt voces per se significantes. Sciendum tamen quod in nominibus compositis, quae imponuntur ad significandum rem simplicem ex aliquo intellectu composito, partes secundum apparentiam aliquid significant, licet non secundum veritatem. Et ideo subdit quod in duplicibus, idest in nominibus compositis, syllabae quae possunt esse dictiones, in compositione nominis venientes, significant aliquid, scilicet in ipso composito et secundum quod sunt dictiones; non autem significant aliquid secundum se, prout sunt huiusmodi nominis partes, sed eo modo, sicut supra dictum est.  Deinde cum dicit: est autem oratio etc., excludit quemdam errorem. Fuerunt enim aliqui dicentes quod oratio et eius partes significant naturaliter, non ad placitum. Ad probandum autem hoc utebantur tali ratione. Virtutis naturalis oportet esse naturalia instrumenta: quia natura non deficit in necessariis; potentia autem interpretativa est naturalis homini; ergo instrumenta eius sunt naturalia. Instrumentum autem eius est oratio, quia per orationem virtus interpretativa interpretatur mentis conceptum: hoc enim dicimus instrumentum, quo agens operatur. Ergo oratio est aliquid naturale, non ex institutione humana significans, sed naturaliter.  Huic autem rationi, quae dicitur esse Platonis in Lib. qui intitulatur Cratylus, Aristoteles obviando dicit quod omnis oratio est significativa, non sicut instrumentum virtutis, scilicet naturalis: quia instrumenta naturalia virtutis interpretativae sunt guttur et pulmo, quibus formatur vox, et lingua et dentes et labia, quibus litterati ac articulati soni distinguuntur; oratio autem et partes eius sunt sicut effectus virtutis interpretativae per instrumenta praedicta. Sicut enim virtus motiva utitur naturalibus instrumentis, sicut brachiis et manibus ad faciendum opera artificialia, ita virtus interpretativa utitur gutture et aliis instrumentis naturalibus ad faciendum orationem. Unde oratio et partes eius non sunt res naturales, sed quidam artificiales effectus. Et ideo subdit quod oratio significat ad placitum, idest secundum institutionem humanae rationis et voluntatis, ut supra dictum est, sicut et omnia artificialia causantur ex humana voluntate et ratione. Sciendum tamen quod, si virtutem interpretativam non attribuamus virtuti motivae, sed rationi; sic non est virtus naturalis, sed supra omnem naturam corpoream: quia intellectus non est actus alicuius corporis, sicut probatur in III de anima. Ipsa autem ratio est, quae movet virtutem corporalem motivam ad opera artificialia, quibus etiam ut instrumentis utitur ratio: non sunt autem instrumenta alicuius virtutis corporalis. Et hoc modo ratio potest etiam uti oratione et eius partibus, quasi instrumentis: quamvis non naturaliter significent. Postquam philosophus determinavit de principiis enunciationis, hic incipit determinare de ipsa enunciatione. Et dividitur pars haec in duas: in prima, determinat de enunciatione absolute; in secunda, de diversitate enunciationum, quae provenit secundum ea quae simplici enunciationi adduntur; et hoc in secundo libro; ibi: quoniam autem est de aliquo affirmatio et cetera. Prima autem pars dividitur in partes tres. In prima, definit enunciationem; in secunda, dividit eam; ibi: est autem una prima oratio etc., in tertia, agit de oppositione partium eius ad invicem; ibi: quoniam autem est enunciare et cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit definitionem enunciationis; secundo, ostendit quod per hanc definitionem differt enunciatio ab aliis speciebus orationis; ibi: non autem in omnibus etc.; tertio, ostendit quod de sola enunciatione est tractandum, ibi: et caeterae quidem relinquantur.  Circa primum considerandum est quod oratio, quamvis non sit instrumentum alicuius virtutis naturaliter operantis, est tamen instrumentum rationis, ut supra dictum est. Omne autem instrumentum oportet definiri ex suo fine, qui est usus instrumenti: usus autem orationis, sicut et omnis vocis significativae est significare conceptionem intellectus, ut supra dictum est: duae autem sunt operationes intellectus, in quarum una non invenitur veritas et falsitas, in alia autem invenitur verum vel falsum. Et ideo orationem enunciativam definit ex significatione veri et falsi, dicens quod non omnis oratio est enunciativa, sed in qua verum vel falsum est. Ubi considerandum est quod Aristoteles mirabili brevitate usus, et divisionem orationis innuit in hoc quod dicit: non omnis oratio est enunciativa, et definitionem enunciationis in hoc quod dicit: sed in qua verum vel falsum est: ut intelligatur quod haec sit definitio enunciationis, enunciatio est oratio, in qua verum vel falsum est.  Dicitur autem in enunciatione esse verum vel falsum, sicut in signo intellectus veri vel falsi: sed sicut in subiecto est verum vel falsum in mente, ut dicitur in VI metaphysicae, in re autem sicut in causa: quia ut dicitur in libro praedicamentorum, ab eo quod res est vel non est, oratio vera vel falsa est.  Deinde cum dicit: non autem in omnibus etc., ostendit quod per hanc definitionem enunciatio differt ab aliis orationibus. Et quidem de orationibus imperfectis manifestum est quod non significant verum vel falsum, quia cum non faciant perfectum sensum in animo audientis, manifestum est quod perfecte non exprimunt iudicium rationis, in quo consistit verum vel falsum. His igitur praetermissis, sciendum est quod perfectae orationis, quae complet sententiam, quinque sunt species, videlicet enunciativa, deprecativa, imperativa, interrogativa et vocativa. (Non tamen intelligendum est quod solum nomen vocativi casus sit vocativa oratio: quia oportet aliquid partium orationis significare aliquid separatim, sicut supra dictum est; sed per vocativum provocatur, sive excitatur animus audientis ad attendendum; non autem est vocativa oratio nisi plura coniungantur; ut cum dico, o bone Petre). Harum autem orationum sola enunciativa est, in qua invenitur verum vel falsum, quia ipsa sola absolute significat conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum.  Sed quia intellectus vel ratio, non solum concipit in seipso veritatem rei tantum, sed etiam ad eius officium pertinet secundum suum conceptum alia dirigere et ordinare; ideo necesse fuit quod sicut per enunciativam orationem significatur ipse mentis conceptus, ita etiam essent aliquae aliae orationes significantes ordinem rationis, secundum quam alia diriguntur. Dirigitur autem ex ratione unius hominis alius homo ad tria: primo quidem, ad attendendum mente; et ad hoc pertinet vocativa oratio: secundo, ad respondendum voce; et ad hoc pertinet oratio interrogativa: tertio, ad exequendum in opere; et ad hoc pertinet quantum ad inferiores oratio imperativa; quantum autem ad superiores oratio deprecativa, ad quam reducitur oratio optativa: quia respectu superioris, homo non habet vim motivam, nisi per expressionem sui desiderii. Quia igitur istae quatuor orationis species non significant ipsum conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum, sed quemdam ordinem ad hoc consequentem; inde est quod in nulla earum invenitur verum vel falsum, sed solum in enunciativa, quae significat id quod mens de rebus concipit. Et inde est quod omnes modi orationum, in quibus invenitur verum vel falsum, sub enunciatione continentur: quam quidam dicunt indicativam vel suppositivam. Dubitativa autem ad interrogativam reducitur, sicut et optativa ad deprecativam.  Deinde cum dicit: caeterae igitur relinquantur etc., ostendit quod de sola enunciativa est agendum; et dicit quod aliae quatuor orationis species sunt relinquendae, quantum pertinet ad praesentem intentionem: quia earum consideratio convenientior est rhetoricae vel poeticae scientiae. Sed enunciativa oratio praesentis considerationis est. Cuius ratio est, quia consideratio huius libri directe ordinatur ad scientiam demonstrativam, in qua animus hominis per rationem inducitur ad consentiendum vero ex his quae sunt propria rei; et ideo demonstrator non utitur ad suum finem nisi enunciativis orationibus, significantibus res secundum quod earum veritas est in anima. Sed rhetor et poeta inducunt ad assentiendum ei quod intendunt, non solum per ea quae sunt propria rei, sed etiam per dispositiones audientis. Unde rhetores et poetae plerumque movere auditores nituntur provocando eos ad aliquas passiones, ut philosophus dicit in sua rhetorica. Et ideo consideratio dictarum specierum orationis, quae pertinet ad ordinationem audientis in aliquid, cadit proprie sub consideratione rhetoricae vel poeticae, ratione sui significati; ad considerationem autem grammatici, prout consideratur in eis congrua vocum constructio. Postquam philosophus definivit enunciationem, hic dividit eam. Et dividitur in duas partes: in prima, ponit divisionem enunciationis; in secunda, manifestat eam; ibi: necesse est autem et cetera.  Circa primum considerandum est quod Aristoteles sub breviloquio duas divisiones enunciationis ponit. Quarum una est quod enunciationum quaedam est una simplex, quaedam est coniunctione una. Sicut etiam in rebus, quae sunt extra animam, aliquid est unum simplex sicut indivisibile vel continuum, aliquid est unum colligatione aut compositione aut ordine. Quia enim ens et unum convertuntur, necesse est sicut omnem rem, ita et omnem enunciationem aliqualiter esse unam.  Alia vero subdivisio enunciationis est quod si enunciatio sit una, aut est affirmativa aut negativa. Enunciatio autem affirmativa prior est negativa, triplici ratione, secundum tria quae supra posita sunt: ubi dictum est quod vox est signum intellectus, et intellectus est signum rei. Ex parte igitur vocis, affirmativa enunciatio est prior negativa, quia est simplicior: negativa enim enunciatio addit supra affirmativam particulam negativam. Ex parte etiam intellectus affirmativa enunciatio, quae significat compositionem intellectus, est prior negativa, quae significat divisionem eiusdem: divisio enim naturaliter posterior est compositione, nam non est divisio nisi compositorum, sicut non est corruptio nisi generatorum. Ex parte etiam rei, affirmativa enunciatio, quae significat esse, prior est negativa, quae significat non esse: sicut habitus naturaliter prior est privatione.  Dicit ergo quod oratio enunciativa una et prima est affirmatio, idest affirmativa enunciatio. Et contra hoc quod dixerat prima, subdit: deinde negatio, idest negativa oratio, quia est posterior affirmativa, ut dictum est. Contra id autem quod dixerat una, scilicet simpliciter, subdit quod quaedam aliae sunt unae, non simpliciter, sed coniunctione unae.  Ex hoc autem quod hic dicitur argumentatur Alexander quod divisio enunciationis in affirmationem et negationem non est divisio generis in species, sed divisio nominis multiplicis in sua significata. Genus enim univoce praedicatur de suis speciebus, non secundum prius et posterius: unde Aristoteles noluit quod ens esset genus commune omnium, quia per prius praedicatur de substantia, quam de novem generibus accidentium.  Sed dicendum quod unum dividentium aliquod commune potest esse prius altero dupliciter: uno modo, secundum proprias rationes, aut naturas dividentium; alio modo, secundum participationem rationis illius communis quod in ea dividitur. Primum autem non tollit univocationem generis, ut manifestum est in numeris, in quibus binarius secundum propriam rationem naturaliter est prior ternario; sed tamen aequaliter participant rationem generis sui, scilicet numeri: ita enim est ternarius multitudo mensurata per unum, sicut et binarius. Sed secundum impedit univocationem generis. Et propter hoc ens non potest esse genus substantiae et accidentis: quia in ipsa ratione entis, substantia, quae est ens per se, prioritatem habet respectu accidentis, quod est ens per aliud et in alio. Sic ergo affirmatio secundum propriam rationem prior est negatione; tamen aequaliter participant rationem enunciationis, quam supra posuit, videlicet quod enunciatio est oratio in qua verum vel falsum est.  Deinde cum dicit: necesse est autem etc., manifestat propositas divisiones. Et primo, manifestat primam, scilicet quod enunciatio vel est una simpliciter vel coniunctione una; secundo, manifestat secundam, scilicet quod enunciatio simpliciter una vel est affirmativa vel negativa; ibi: est autem simplex enunciatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, praemittit quaedam, quae sunt necessaria ad propositum manifestandum; secundo, manifestat propositum; ibi: est autem una oratio et cetera.  Circa primum duo facit: primo, dicit quod omnem orationem enunciativam oportet constare ex verbo quod est praesentis temporis, vel ex casu verbi quod est praeteriti vel futuri. Tacet autem de verbo infinito, quia eumdem usum habet in enunciatione sicut et verbum negativum. Manifestat autem quod dixerat per hoc, quod non solum nomen unum sine verbo non facit orationem perfectam enunciativam, sed nec etiam oratio imperfecta. Definitio enim oratio quaedam est, et tamen si ad rationem hominis, idest definitionem non addatur aut est, quod est verbum, aut erat, aut fuit, quae sunt casus verbi, aut aliquid huiusmodi, idest aliquod aliud verbum seu casus verbi, nondum est oratio enunciativa.  Potest autem esse dubitatio: cum enunciatio constet ex nomine et verbo, quare non facit mentionem de nomine, sicut de verbo? Ad quod tripliciter responderi potest. Primo quidem, quia nulla oratio enunciativa invenitur sine verbo vel casu verbi; invenitur autem aliqua enunciatio sine nomine, puta cum nos utimur infinitivis verborum loco nominum; ut cum dicitur, currere est moveri. Secundo et melius, quia, sicut supra dictum est, verbum est nota eorum quae de altero praedicantur. Praedicatum autem est principalior pars enunciationis, eo quod est pars formalis et completiva ipsius. Unde vocatur apud Graecos propositio categorica, idest praedicativa. Denominatio autem fit a forma, quae dat speciem rei. Et ideo potius fecit mentionem de verbo tanquam de parte principaliori et formaliori. Cuius signum est, quia enunciatio categorica dicitur affirmativa vel negativa solum ratione verbi, quod affirmatur vel negatur; sicut etiam conditionalis dicitur affirmativa vel negativa, eo quod affirmatur vel negatur coniunctio a qua denominatur. Tertio, potest dici, et adhuc melius, quod non erat intentio Aristotelis ostendere quod nomen vel verbum non sufficiant ad enunciationem complendam: hoc enim supra manifestavit tam de nomine quam de verbo. Sed quia dixerat quod quaedam enunciatio est una simpliciter, quaedam autem coniunctione una; posset aliquis intelligere quod illa quae est una simpliciter careret omni compositione: sed ipse hoc excludit per hoc quod in omni enunciatione oportet esse verbum, quod importat compositionem, quam non est intelligere sine compositis, sicut supra dictum est. Nomen autem non importat compositionem, et ideo non exigit praesens intentio ut de nomine faceret mentionem, sed solum de verbo. Secundo; ibi: quare autem etc., ostendit aliud quod est necessarium ad manifestationem propositi, scilicet quod hoc quod dico, animal gressibile bipes, quae est definitio hominis, est unum et non multa. Et eadem ratio est de omnibus aliis definitionibus. Sed huiusmodi rationem assignare dicit esse alterius negocii. Pertinet enim ad metaphysicum; unde in VII et in VIII metaphysicae ratio huius assignatur: quia scilicet differentia advenit generi non per accidens sed per se, tanquam determinativa ipsius, per modum quo materia determinatur per formam. Nam a materia sumitur genus, a forma autem differentia. Unde sicut ex forma et materia fit vere unum et non multa, ita ex genere et differentia. Excludit autem quamdam rationem huius unitatis, quam quis posset suspicari, ut scilicet propter hoc definitio dicatur unum, quia partes eius sunt propinquae, idest sine aliqua interpositione coniunctionis vel morae. Et quidem non interruptio locutionis necessaria est ad unitatem definitionis, quia si interponeretur coniunctio partibus definitionis, iam secunda non determinaret primam, sed significarentur ut actu multae in locutione: et idem operatur interpositio morae, qua utuntur rhetores loco coniunctionis. Unde ad unitatem definitionis requiritur quod partes eius proferantur sine coniunctione et interpolatione: quia etiam in re naturali, cuius est definitio, nihil cadit medium inter materiam et formam: sed praedicta non interruptio non sufficit ad unitatem definitionis, quia contingit etiam hanc continuitatem prolationis servari in his, quae non sunt simpliciter unum, sed per accidens; ut si dicam, homo albus musicus. Sic igitur Aristoteles valde subtiliter manifestavit quod absoluta unitas enunciationis non impeditur, neque per compositionem quam importat verbum, neque per multitudinem nominum ex quibus constat definitio. Et est eadem ratio utrobique, nam praedicatum comparatur ad subiectum ut forma ad materiam, et similiter differentia ad genus: ex forma autem et materia fit unum simpliciter.  Deinde cum dicit: est autem una oratio etc., accedit ad manifestandam praedictam divisionem. Et primo, manifestat ipsum commune quod dividitur, quod est enunciatio una; secundo, manifestat partes divisionis secundum proprias rationes; ibi: harum autem haec simplex et cetera. Circa primum duo facit: primo, manifestat ipsam divisionem; secundo, concludit quod ab utroque membro divisionis nomen et verbum excluduntur; ibi: nomen ergo et verbum et cetera. Opponitur autem unitati pluralitas; et ideo enunciationis unitatem manifestat per modos pluralitatis.  Dicit ergo primo quod enunciatio dicitur vel una absolute, scilicet quae unum de uno significat, vel una secundum quid, scilicet quae est coniunctione una. Per oppositum autem est intelligendum quod enunciationes plures sunt, vel ex eo quod plura significant et non unum: quod opponitur primo modo unitatis; vel ex eo quod absque coniunctione proferuntur: et tales opponuntur secundo modo unitatis.  Circa quod considerandum est, secundum Boethium, quod unitas et pluralitas orationis refertur ad significatum; simplex autem et compositum attenditur secundum ipsas voces. Et ideo enunciatio quandoque est una et simplex puta cum solum ex nomine et verbo componitur in unum significatum; ut cum dico, homo est albus. Est etiam quandoque una oratio, sed composita, quae quidem unam rem significat, sed tamen composita est vel ex pluribus terminis; sicut si dicam, animal rationale mortale currit, vel ex pluribus enunciationibus, sicut in conditionalibus, quae quidem unum significant et non multa. Similiter autem quandoque in enunciatione est pluralitas cum simplicitate, puta cum in oratione ponitur aliquod nomen multa significans; ut si dicam, canis latrat, haec oratio plures est, quia plura significat, et tamen simplex est. Quandoque vero in enunciatione est pluralitas et compositio, puta cum ponuntur plura in subiecto vel in praedicato, ex quibus non fit unum, sive interveniat coniunctio sive non; puta si dicam, homo albus musicus disputat: et similiter est si coniungantur plures enunciationes, sive cum coniunctione sive sine coniunctione; ut si dicam, Socrates currit, Plato disputat. Et secundum hoc sensus litterae est quod enunciatio una est illa, quae unum de uno significat, non solum si sit simplex, sed etiam si sit coniunctione una. Et similiter enunciationes plures dicuntur quae plura et non unum significant: non solum quando interponitur aliqua coniunctio, vel inter nomina vel verba, vel etiam inter ipsas enunciationes; sed etiam si vel inconiunctione, idest absque aliqua interposita coniunctione plura significat, vel quia est unum nomen aequivocum, multa significans, vel quia ponuntur plura nomina absque coniunctione, ex quorum significatis non fit unum; ut si dicam, homo albus grammaticus logicus currit.  Sed haec expositio non videtur esse secundum intentionem Aristotelis. Primo quidem, quia per disiunctionem, quam interponit, videtur distinguere inter orationem unum significantem, et orationem quae est coniunctione una. Secundo, quia supra dixerat quod est unum quoddam et non multa, animal gressibile bipes. Quod autem est coniunctione unum, non est unum et non multa, sed est unum ex multis. Et ideo melius videtur dicendum quod Aristoteles, quia supra dixerat aliquam enunciationem esse unam et aliquam coniunctione unam, vult hic manifestare quae sit una. Et quia supra dixerat quod multa nomina simul coniuncta sunt unum, sicut animal gressibile bipes, dicit consequenter quod enunciatio est iudicanda una non ex unitate nominis, sed ex unitate significati, etiam si sint plura nomina quae unum significent. Vel si sit aliqua enunciatio una quae multa significet, non erit una simpliciter, sed coniunctione una. Et secundum hoc, haec enunciatio, animal gressibile bipes est risibile, non est una quasi coniunctione una, sicut in prima expositione dicebatur, sed quia unum significat. Et quia oppositum per oppositum manifestatur, consequenter ostendit quae sunt plures enunciationes, et ponit duos modos pluralitatis. Primus est, quod plures dicuntur enunciationes quae plura significant. Contingit autem aliqua plura significari in aliquo uno communi; sicut cum dico, animal est sensibile, sub hoc uno communi, quod est animal, multa continentur, et tamen haec enunciatio est una et non plures. Et ideo addit et non unum. Sed melius est ut dicatur hoc esse additum propter definitionem, quae multa significat quae sunt unum: et hic modus pluralitatis opponitur primo modo unitatis. Secundus modus pluralitatis est, quando non solum enunciationes plura significant, sed etiam illa plura nullatenus coniunguntur, et hic modus pluralitatis opponitur secundo modo unitatis. Et secundum hoc patet quod secundus modus unitatis non opponitur primo modo pluralitatis. Ea autem quae non sunt opposita, possunt simul esse. Unde manifestum est, enunciationem quae est una coniunctione, esse etiam plures: plures in quantum significat plura et non unum. Secundum hoc ergo possumus accipere tres modos enunciationis. Nam quaedam est simpliciter una, in quantum unum significat; quaedam est simpliciter plures, in quantum plura significat, sed est una secundum quid, in quantum est coniunctione una; quaedam sunt simpliciter plures, quae neque significant unum, neque coniunctione aliqua uniuntur. Ideo autem Aristoteles quatuor ponit et non solum tria, quia quandoque est enunciatio plures, quia plura significat, non tamen est coniunctione una, puta si ponatur ibi nomen multa significans.  Deinde cum dicit: nomen ergo et verbum etc., excludit ab unitate orationis nomen et verbum. Dixerat enim quod enunciatio una est, quae unum significat: posset autem aliquis intelligere, quod sic unum significaret sicut nomen et verbum unum significant. Et ideo ad hoc excludendum subdit: nomen ergo, et verbum dictio sit sola, idest ita sit dictio, quod non enunciatio. Et videtur, ex modo loquendi, quod ipse imposuerit hoc nomen ad significandum partes enunciationis. Quod autem nomen et verbum dictio sit sola manifestat per hoc, quod non potest dici quod ille enunciet, qui sic aliquid significat voce, sicut nomen, vel verbum significat. Et ad hoc manifestandum innuit duos modos utendi enunciatione. Quandoque enim utimur ipsa quasi ad interrogata respondentes; puta si quaeratur, quis sit in scholis? Respondemus, magister. Quandoque autem utimur ea propria sponte, nullo interrogante; sicut cum dicimus, Petrus currit. Dicit ergo, quod ille qui significat aliquid unum nomine vel verbo, non enunciat vel sicut ille qui respondet aliquo interrogante, vel sicut ille qui profert enunciationem non aliquo interrogante, sed ipso proferente sponte. Introduxit autem hoc, quia simplex nomen vel verbum, quando respondetur ad interrogationem, videtur verum vel falsum significare: quod est proprium enunciationis. Sed hoc non competit nomini vel verbo, nisi secundum quod intelligitur coniunctum cum alia parte proposita in interrogatione. Ut si quaerenti, quis legit in scholis? Respondeatur, magister, subintelligitur, ibi legit. Si ergo ille qui enunciat aliquid nomine vel verbo non enunciat, manifestum est quod enunciatio non sic unum significat, sicut nomen vel verbum. Hoc autem inducit sicut conclusionem eius quod supra praemisit: necesse est omnem orationem enunciativam ex verbo esse vel ex casu verbi.  Deinde cum dicit: harum autem haec simplex etc., manifestat praemissam divisionem secundum rationes partium. Dixerat enim quod una enunciatio est quae unum de uno significat, et alia est quae est coniunctione una. Ratio autem huius divisionis est ex eo quod unum natum est dividi per simplex et compositum. Et ideo dicit: harum autem, scilicet enunciationum, in quibus dividitur unum, haec dicitur una, vel quia significat unum simpliciter, vel quia una est coniunctione. Haec quidem simplex enunciatio est, quae scilicet unum significat. Sed ne intelligatur quod sic significet unum, sicut nomen vel verbum, ad excludendum hoc subdit: ut aliquid de aliquo, idest per modum compositionis, vel aliquid ab aliquo, idest per modum divisionis. Haec autem ex his coniuncta, quae scilicet dicitur coniunctione una, est velut oratio iam composita: quasi dicat hoc modo, enunciationis unitas dividitur in duo praemissa, sicut aliquod unum dividitur in simplex et compositum.  Deinde cum dicit: est autem simplex etc., manifestat secundam divisionem enunciationis, secundum videlicet quod enunciatio dividitur in affirmationem et negationem. Haec autem divisio primo quidem convenit enunciationi simplici; ex consequenti autem convenit compositae enunciationi; et ideo ad insinuandum rationem praedictae divisionis dicit quod simplex enunciatio est vox significativa de eo quod est aliquid: quod pertinet ad affirmationem; vel non est aliquid: quod pertinet ad negationem. Et ne hoc intelligatur solum secundum praesens tempus, subdit: quemadmodum tempora sunt divisa, idest similiter hoc habet locum in aliis temporibus sicut et in praesenti.  Alexander autem existimavit quod Aristoteles hic definiret enunciationem; et quia in definitione enunciationis videtur ponere affirmationem et negationem, volebat hic accipere quod enunciatio non esset genus affirmationis et negationis, quia species nunquam ponitur in definitione generis. Id autem quod non univoce praedicatur de multis (quia scilicet non significat aliquid unum, quod sit unum commune multis), non potest notificari nisi per illa multa quae significantur. Et inde est quod quia unum non dicitur aequivoce de simplici et composito, sed per prius et posterius, Aristoteles in praecedentibus semper ad notificandum unitatem enunciationis usus est utroque. Quia ergo videtur uti affirmatione et negatione ad notificandum enunciationem, volebat Alexander accipere quod enunciatio non dicitur de affirmatione et negatione univoce sicut genus de suis speciebus.  Sed contrarium apparet ex hoc, quod philosophus consequenter utitur nomine enunciationis ut genere, cum in definitione affirmationis et negationis subdit quod, affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, scilicet per modum compositionis, negatio vero est enunciatio alicuius ab aliquo, scilicet per modum divisionis. Nomine autem aequivoco non consuevimus uti ad notificandum significata eius. Et ideo Boethius dicit quod Aristoteles suo modo breviloquio utens, simul usus est et definitione et divisione eius: ita ut quod dicit de eo quod est aliquid vel non est, non referatur ad definitionem enunciationis, sed ad eius divisionem. Sed quia differentiae divisivae generis non cadunt in eius definitione, nec hoc solum quod dicitur vox significativa, sufficiens est definitio enunciationis; melius dici potest secundum Porphyrium, quod hoc totum quod dicitur vox significativa de eo quod est, vel de eo quod non est, est definitio enunciationis. Nec tamen ponitur affirmatio et negatio in definitione enunciationis sed virtus affirmationis et negationis, scilicet significatum eius, quod est esse vel non esse, quod est naturaliter prius enunciatione. Affirmationem autem et negationem postea definivit per terminos utriusque cum dixit: affirmationem esse enunciationem alicuius de aliquo, et negationem enunciationem alicuius ab aliquo. Sed sicut in definitione generis non debent poni species, ita nec ea quae sunt propria specierum. Cum igitur significare esse sit proprium affirmationis, et significare non esse sit proprium negationis, melius videtur dicendum, secundum Ammonium, quod hic non definitur enunciatio, sed solum dividitur. Supra enim posita est definitio, cum dictum est quod enunciatio est oratio in qua est verum vel falsum. In qua quidem definitione nulla mentio facta est nec de affirmatione, nec de negatione. Est autem considerandum quod artificiosissime procedit: dividit enim genus non in species, sed in differentias specificas. Non enim dicit quod enunciatio est affirmatio vel negatio, sed vox significativa de eo quod est, quae est differentia specifica affirmationis, vel de eo quod non est, in quo tangitur differentia specifica negationis. Et ideo ex differentiis adiunctis generi constituit definitionem speciei, cum subdit: quod affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, per quod significatur esse; et negatio est enunciatio alicuius ab aliquo quod significat non esse. Posita divisione enunciationis, hic agit de oppositione partium enunciationis, scilicet affirmationis et negationis. Et quia enunciationem esse dixerat orationem, in qua est verum vel falsum, primo, ostendit qualiter enunciationes ad invicem opponantur; secundo, movet quamdam dubitationem circa praedeterminata et solvit; ibi: in his ergo quae sunt et quae facta sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter una enunciatio opponatur alteri; secundo, ostendit quod tantum una opponitur uni; ibi: manifestum est et cetera. Prima autem pars dividitur in duas partes: in prima, determinat de oppositione affirmationis et negationis absolute; in secunda, ostendit quomodo huiusmodi oppositio diversificatur ex parte subiecti; ibi: quoniam autem sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod omni affirmationi est negatio opposita et e converso; secundo, manifestat oppositionem affirmationis et negationis absolute; ibi: et sit hoc contradictio et cetera.  Circa primum considerandum est quod ad ostendendum suum propositum philosophus assumit duplicem diversitatem enunciationis: quarum prima est ex ipsa forma vel modo enunciandi, secundum quod dictum est quod enunciatio vel est affirmativa, per quam scilicet enunciatur aliquid esse, vel est negativa per quam significatur aliquid non esse; secunda diversitas est per comparationem ad rem, ex qua dependet veritas et falsitas intellectus et enunciationis. Cum enim enunciatur aliquid esse vel non esse secundum congruentiam rei, est oratio vera; alioquin est oratio falsa.  Sic igitur quatuor modis potest variari enunciatio, secundum permixtionem harum duarum divisionum. Uno modo, quia id quod est in re enunciatur ita esse sicut in re est: quod pertinet ad affirmationem veram; puta cum Socrates currit, dicimus Socratem currere. Alio modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re non est: quod pertinet ad negationem veram; ut cum dicitur, Aethiops albus non est. Tertio modo, cum enunciatur aliquid esse quod in re non est: quod pertinet ad affirmationem falsam; ut cum dicitur, corvus est albus. Quarto modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re est: quod pertinet ad negationem falsam; ut cum dicitur, nix non est alba. Philosophus autem, ut a minoribus ad potiora procedat, falsas veris praeponit: inter quas negativam praemittit affirmativae, cum dicit quod contingit enunciare quod est, scilicet in rerum natura, non esse. Secundo autem, ponit affirmativam falsam cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, esse. Tertio autem, ponit affirmativam veram, quae opponitur negativae falsae, quam primo posuit, cum dicit: et quod est, scilicet in rerum natura, esse. Quarto autem, ponit negativam veram, quae opponitur affirmationi falsae, cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, non esse. Non est autem intelligendum quod hoc quod dixit: quod est et quod non est, sit referendum ad solam existentiam vel non existentiam subiecti, sed ad hoc quod res significata per praedicatum insit vel non insit rei significatae per subiectum. Nam cum dicitur, corvus est albus, significatur quod non est, esse, quamvis ipse corvus sit res existens. Et sicut istae quatuor differentiae enunciationum inveniuntur in propositionibus, in quibus ponitur verbum praesentis temporis, ita etiam inveniuntur in enunciationibus in quibus ponuntur verba praeteriti vel futuri temporis. Supra enim dixit quod necesse est enunciationem constare ex verbo vel ex casu verbi. Et hoc est quod subdit: quod similiter contingit, scilicet variari diversimode enunciationem circa ea, quae sunt extra praesens tempus, idest circa praeterita vel futura, quae sunt quodammodo extrinseca respectu praesentis, quia praesens est medium praeteriti et futuri. Et quia ita est, contingit omne quod quis affirmaverit negare, et omne quod quis negaverit affirmare: quod quidem manifestum est ex praemissis. Non enim potest affirmari nisi vel quod est in rerum natura secundum aliquod trium temporum, vel quod non est; et hoc totum contingit negare. Unde manifestum est quod omne quod affirmatur potest negari, et e converso. Et quia affirmatio et negatio opposita sunt secundum se, utpote ex opposito contradictoriae, consequens est quod quaelibet affirmatio habeat negationem sibi oppositam et e converso. Cuius contrarium illo solo modo posset contingere, si aliqua affirmatio affirmaret aliquid, quod negatio negare non posset. Deinde cum dicit: et sit hoc contradictio etc., manifestat quae sit absoluta oppositio affirmationis et negationis. Et primo, manifestat eam per nomen; secundo, per definitionem; ibi: dico autem et cetera. Dicit ergo primo quod cum cuilibet affirmationi opponatur negatio, et e converso, oppositioni huiusmodi imponatur nomen hoc, quod dicatur contradictio. Per hoc enim quod dicitur, et sit hoc contradictio, datur intelligi quod ipsum nomen contradictionis ipse imposuerit oppositioni affirmationis et negationis, ut Ammonius dicit. Deinde cum dicit: dico autem opponi etc., definit contradictionem. Quia vero, ut dictum est, contradictio est oppositio affirmationis et negationis, illa requiruntur ad contradictionem, quae requiruntur ad oppositionem affirmationis et negationis. Oportet autem opposita esse circa idem. Et quia enunciatio constituitur ex subiecto et praedicato, requiritur ad contradictionem primo quidem quod affirmatio et negatio sint eiusdem praedicati: si enim dicatur, Plato currit, Plato non disputat, non est contradictio; secundo, requiritur quod sint de eodem subiecto: si enim dicatur, Socrates currit, Plato non currit, non est contradictio. Tertio, requiritur quod identitas subiecti et praedicati non solum sit secundum nomen, sed sit simul secundum rem et nomen. Nam si non sit idem nomen, manifestum est quod non sit una et eadem enunciatio. Similiter autem ad hoc quod sit enunciatio una, requiritur identitas rei: dictum est enim supra quod enunciatio una est, quae unum de uno significat; et ideo subdit: non autem aequivoce, idest non sufficit identitas nominis cum diversitate rei, quae facit aequivocationem. Sunt autem et quaedam alia in contradictione observanda ad hoc quod tollatur omnis diversitas, praeter eam quae est affirmationis et negationis: non enim esset oppositio si non omnino idem negaret negatio quod affirmavit affirmatio. Haec autem diversitas potest secundum quatuor considerari. Uno quidem modo, secundum diversas partes subiecti: non enim est contradictio si dicatur, Aethiops est albus dente et non est albus pede. Secundo, si sit diversus modus ex parte praedicati: non enim est contradictio si dicatur, Socrates currit tarde et non movetur velociter; vel si dicatur, ovum est animal in potentia et non est animal in actu. Tertio, si sit diversitas ex parte mensurae, puta loci vel temporis; non enim est contradictio si dicatur, pluit in Gallia et non pluit in Italia; aut, pluit heri, hodie non pluit. Quarto, si sit diversitas ex habitudine ad aliquid extrinsecum; puta si dicatur, decem homines esse plures quoad domum, non autem quoad forum. Et haec omnia designat cum subdit: et quaecumque caetera talium determinavimus, idest determinare consuevimus in disputationibus contra sophisticas importunitates, idest contra importunas et litigiosas oppositiones sophistarum, de quibus plenius facit mentionem in I elenchorum. Quia philosophus dixerat oppositionem affirmationis et negationis esse contradictionem, quae est eiusdem de eodem, consequenter intendit distinguere diversas oppositiones affirmationis et negationis, ut cognoscatur quae sit vera contradictio. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit quamdam divisionem enunciationum necessariam ad praedictam differentiam oppositionum assignandam; secundo, manifestat propositum; ibi: si ergo universaliter et cetera. Praemittit autem divisionem enunciationum quae sumitur secundum differentiam subiecti. Unde circa primum duo facit: primo, dividit subiectum enunciationum; secundo, concludit divisionem enunciationum, ibi: necesse est enunciare et cetera. Subiectum autem enunciationis est nomen vel aliquid loco nominis sumptum. Nomen autem est vox significativa ad placitum simplicis intellectus, quod est similitudo rei; et ideo subiectum enunciationis distinguit per divisionem rerum, et dicit quod rerum quaedam sunt universalia, quaedam sunt singularia. Manifestat autem membra divisionis dupliciter: primo quidem per definitionem, quia universale est quod est aptum natum de pluribus praedicari, singulare vero quod non est aptum natum praedicari de pluribus, sed de uno solo; secundo, manifestat per exemplum cum subdit quod homo est universale, Plato autem singulare. Accidit autem dubitatio circa hanc divisionem, quia, sicut probat philosophus in VII metaphysicae, universale non est aliquid extra res existens. Item, in praedicamentis dicitur quod secundae substantiae non sunt nisi in primis, quae sunt singulares. Non ergo videtur esse conveniens divisio rerum per universalia et singularia: quia nullae res videntur esse universales, sed omnes sunt singulares. Dicendum est autem quod hic dividuntur res secundum quod significantur per nomina, quae subiiciuntur in enunciationibus: dictum est autem supra quod nomina non significant res nisi mediante intellectu; et ideo oportet quod divisio ista rerum accipiatur secundum quod res cadunt in intellectu. Ea vero quae sunt coniuncta in rebus intellectus potest distinguere, quando unum eorum non cadit in ratione alterius. In qualibet autem re singulari est considerare aliquid quod est proprium illi rei, in quantum est haec res, sicut Socrati vel Platoni in quantum est hic homo; et aliquid est considerare in ea, in quo convenit cum aliis quibusdam rebus, sicut quod Socrates est animal, aut homo, aut rationalis, aut risibilis, aut albus. Quando igitur res denominatur ab eo quod convenit illi soli rei in quantum est haec res, huiusmodi nomen dicitur significare aliquid singulare; quando autem denominatur res ab eo quod est commune sibi et multis aliis, nomen huiusmodi dicitur significare universale, quia scilicet nomen significat naturam sive dispositionem aliquam, quae est communis multis. Quia igitur hanc divisionem dedit de rebus non absolute secundum quod sunt extra animam, sed secundum quod referuntur ad intellectum, non definivit universale et singulare secundum aliquid quod pertinet ad rem, puta si diceret quod universale extra animam, quod pertinet ad opinionem Platonis, sed per actum animae intellectivae, quod est praedicari de multis vel de uno solo. Est autem considerandum quod intellectus apprehendit rem intellectam secundum propriam essentiam, seu definitionem: unde et in III de anima dicitur quod obiectum proprium intellectus est quod quid est. Contingit autem quandoque quod propria ratio alicuius formae intellectae non repugnat ei quod est esse in pluribus, sed hoc impeditur ab aliquo alio, sive sit aliquid accidentaliter adveniens, puta si omnibus hominibus morientibus unus solus remaneret, sive sit propter conditionem materiae, sicut est unus tantum sol, non quod repugnet rationi solari esse in pluribus secundum conditionem formae ipsius, sed quia non est alia materia susceptiva talis formae; et ideo non dixit quod universale est quod praedicatur de pluribus, sed quod aptum natum est praedicari de pluribus. Cum autem omnis forma, quae nata est recipi in materia quantum est de se, communicabilis sit multis materiis; dupliciter potest contingere quod id quod significatur per nomen, non sit aptum natum praedicari de pluribus. Uno modo, quia nomen significat formam secundum quod terminata est ad hanc materiam, sicut hoc nomen Socrates vel Plato, quod significat naturam humanam prout est in hac materia. Alio modo, secundum quod nomen significat formam, quae non est nata in materia recipi, unde oportet quod per se remaneat una et singularis; sicut albedo, si esset forma non existens in materia, esset una sola, unde esset singularis: et propter hoc philosophus dicit in VII Metaphys. quod si essent species rerum separatae, sicut posuit Plato, essent individua. Potest autem obiici quod hoc nomen Socrates vel Plato est natum de pluribus praedicari, quia nihil prohibet multos esse, qui vocentur hoc nomine. Sed ad hoc patet responsio, si attendantur verba Aristotelis. Ipse enim non divisit nomina in universale et particulare, sed res. Et ideo intelligendum est quod universale dicitur quando, non solum nomen potest de pluribus praedicari, sed id, quod significatur per nomen, est natum in pluribus inveniri; hoc autem non contingit in praedictis nominibus: nam hoc nomen Socrates vel Plato significat naturam humanam secundum quod est in hac materia. Si vero hoc nomen imponatur alteri homini significabit naturam humanam in alia materia; et sic eius erit alia significatio; unde non erit universale, sed aequivocum. Deinde cum dicit: necesse est autem enunciare etc., concludit divisionem enunciationis. Quia enim semper enunciatur aliquid de aliqua re; rerum autem quaedam sunt universalia, quaedam singularia; necesse est quod quandoque enuncietur aliquid inesse vel non inesse alicui universalium, quandoque vero alicui singularium. Et est suspensiva constructio usque huc, et est sensus: quoniam autem sunt haec quidem rerum etc., necesse est enunciare et cetera. Est autem considerandum quod de universali aliquid enunciatur quatuor modis. Nam universale potest uno modo considerari quasi separatum a singularibus, sive per se subsistens, ut Plato posuit, sive, secundum sententiam Aristotelis, secundum esse quod habet in intellectu. Et sic potest ei aliquid attribui dupliciter. Quandoque enim attribuitur ei sic considerato aliquid, quod pertinet ad solam operationem intellectus, ut si dicatur quod homo est praedicabile de multis, sive universale, sive species. Huiusmodi enim intentiones format intellectus attribuens eas naturae intellectae, secundum quod comparat ipsam ad res, quae sunt extra animam. Quandoque vero attribuitur aliquid universali sic considerato, quod scilicet apprehenditur ab intellectu ut unum, tamen id quod attribuitur ei non pertinet ad actum intellectus, sed ad esse, quod habet natura apprehensa in rebus, quae sunt extra animam, puta si dicatur quod homo est dignissima creaturarum. Hoc enim convenit naturae humanae etiam secundum quod est in singularibus. Nam quilibet homo singularis dignior est omnibus creaturis irrationalibus; sed tamen omnes homines singulares non sunt unus homo extra animam, sed solum in acceptione intellectus; et per hunc modum attribuitur ei praedicatum, scilicet ut uni rei. Alio autem modo attribuitur universali, prout est in singularibus, et hoc dupliciter. Quandoque quidem ratione ipsius naturae universalis, puta cum attribuitur ei aliquid quod ad essentiam eius pertinet, vel quod consequitur principia essentialia; ut cum dicitur, homo est animal, vel homo est risibilis. Quandoque autem attribuitur ei aliquid ratione singularis in quo invenitur, puta cum attribuitur ei aliquid quod pertinet ad actionem individui; ut cum dicitur, homo ambulat. Singulari autem attribuitur aliquid tripliciter: uno modo, secundum quod cadit in apprehensione; ut cum dicitur, Socrates est singulare, vel praedicabile de uno solo. Quandoque autem, ratione naturae communis; ut cum dicitur, Socrates est animal. Quandoque autem, ratione sui ipsius; ut cum dicitur, Socrates ambulat. Et totidem etiam modis negationes variantur: quia omne quod contingit affirmare, contingit negare, ut supra dictum est. Est autem haec tertia divisio enunciationis quam ponit philosophus. Prima namque fuit quod enunciationum quaedam est una simpliciter, quaedam vero coniunctione una. Quae quidem est divisio analogi in ea de quibus praedicatur secundum prius et posterius: sic enim unum dividitur secundum prius in simplex et per posterius in compositum. Alia vero fuit divisio enunciationis in affirmationem et negationem. Quae quidem est divisio generis in species, quia sumitur secundum differentiam praedicati ad quod fertur negatio; praedicatum autem est pars formalis enunciationis; et ideo huiusmodi divisio dicitur pertinere ad qualitatem enunciationis, qualitatem, inquam, essentialem, secundum quod differentia significat quale quid. Tertia autem est huiusmodi divisio, quae sumitur secundum differentiam subiecti, quod praedicatur de pluribus vel de uno solo, et ideo dicitur pertinere ad quantitatem enunciationis, nam et quantitas consequitur materiam.  Deinde cum dicit: si ergo universaliter etc., ostendit quomodo enunciationes diversimode opponantur secundum diversitatem subiecti. Et circa hoc duo facit: primo, distinguit diversos modos oppositionum in ipsis enunciationibus; secundo, ostendit quomodo diversae oppositiones diversimode se habent ad verum et falsum; ibi: quocirca, has quidem impossibile est et cetera.  Circa primum considerandum est quod cum universale possit considerari in abstractione a singularibus vel secundum quod est in ipsis singularibus, secundum hoc diversimode aliquid ei attribuitur, ut supra dictum est. Ad designandum autem diversos modos attributionis inventae sunt quaedam dictiones, quae possunt dici determinationes vel signa, quibus designatur quod aliquid de universali, hoc aut illo modo praedicetur. Sed quia non est ab omnibus communiter apprehensum quod universalia extra singularia subsistant, ideo communis usus loquendi non habet aliquam dictionem ad designandum illum modum praedicandi, prout aliquid dicitur in abstractione a singularibus. Sed Plato, qui posuit universalia extra singularia subsistere, adinvenit aliquas determinationes, quibus designaretur quomodo aliquid attribuitur universali, prout est extra singularia, et vocabat universale separatum subsistens extra singularia quantum ad speciem hominis, per se hominem vel ipsum hominem et similiter in aliis universalibus. Sed universale secundum quod est in singularibus cadit in communi apprehensione hominum; et ideo adinventae sunt quaedam dictiones ad significandum modum attribuendi aliquid universali sic accepto.  Sicut autem supra dictum est, quandoque aliquid attribuitur universali ratione ipsius naturae universalis; et ideo hoc dicitur praedicari de eo universaliter, quia scilicet ei convenit secundum totam multitudinem in qua invenitur; et ad hoc designandum in affirmativis praedicationibus adinventa est haec dictio, omnis, quae designat quod praedicatum attribuitur subiecto universali quantum ad totum id quod sub subiecto continetur. In negativis autem praedicationibus adinventa est haec dictio, nullus, per quam significatur quod praedicatum removetur a subiecto universali secundum totum id quod continetur sub eo. Unde nullus dicitur quasi non ullus, et in Graeco dicitur, udis quasi nec unus, quia nec unum solum est accipere sub subiecto universali a quo praedicatum non removeatur. Quandoque autem attribuitur universali aliquid vel removetur ab eo ratione particularis; et ad hoc designandum, in affirmativis quidem adinventa est haec dictio, aliquis vel quidam, per quam designatur quod praedicatum attribuitur subiecto universali ratione ipsius particularis; sed quia non determinate significat formam alicuius singularis, sub quadam indeterminatione singulare designat; unde et dicitur individuum vagum. In negativis autem non est aliqua dictio posita, sed possumus accipere, non omnis; ut sicut, nullus, universaliter removet, eo quod significat quasi diceretur, non ullus, idest, non aliquis, ita etiam, non omnis, particulariter removeat, in quantum excludit universalem affirmationem.  Sic igitur tria sunt genera affirmationum in quibus aliquid de universali praedicatur. Una quidem est, in qua de universali praedicatur aliquid universaliter; ut cum dicitur, omnis homo est animal. Alia, in qua aliquid praedicatur de universali particulariter; ut cum dicitur, quidam homo est albus. Tertia vero est, in qua aliquid de universali praedicatur absque determinatione universalitatis vel particularitatis; unde huiusmodi enunciatio solet vocari indefinita. Totidem autem sunt negationes oppositae.  De singulari autem quamvis aliquid diversa ratione praedicetur, ut supra dictum est, tamen totum refertur ad singularitatem ipsius, quia etiam natura universalis in ipso singulari individuatur; et ideo nihil refert quantum ad naturam singularitatis, utrum aliquid praedicetur de eo ratione universalis naturae; ut cum dicitur, Socrates est homo, vel conveniat ei ratione singularitatis.  Si igitur tribus praedictis enunciationibus addatur singularis, erunt quatuor modi enunciationis ad quantitatem ipsius pertinentes, scilicet universalis, singularis, indefinitus et particularis.  Sic igitur secundum has differentias Aristoteles assignat diversas oppositiones enunciationum adinvicem. Et primo, secundum differentiam universalium ad indefinitas; secundo, secundum differentiam universalium ad particulares; ibi: opponi autem affirmationem et cetera. Circa primum tria facit: primo, agit de oppositione propositionum universalium adinvicem; secundo, de oppositione indefinitarum; ibi: quando autem in universalibus etc.; tertio, excludit dubitationem; ibi: in eo vero quod et cetera.  Dicit ergo primo quod si aliquis enunciet de subiecto universali universaliter, idest secundum continentiam suae universalitatis, quoniam est, idest affirmative, aut non est, idest negative, erunt contrariae enunciationes; ut si dicatur, omnis homo est albus, nullus homo est albus. Huius autem ratio est, quia contraria dicuntur quae maxime a se distant: non enim dicitur aliquid nigrum ex hoc solum quod non est album, sed super hoc quod est non esse album, quod significat communiter remotionem albi, addit nigrum extremam distantiam ab albo. Sic igitur id quod affirmatur per hanc enunciationem, omnis homo est albus, removetur per hanc negationem, non omnis homo est albus. Oportet ergo quod negatio removeat modum quo praedicatum dicitur de subiecto, quem designat haec dictio, omnis. Sed super hanc remotionem addit haec enunciatio, nullus homo est albus, totalem remotionem, quae est extrema distantia a primo; quod pertinet ad rationem contrarietatis. Et ideo convenienter hanc oppositionem dicit contrarietatem.  Deinde cum dicit: quando autem etc., ostendit qualis sit oppositio affirmationis et negationis in indefinitis. Et primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum per exempla; ibi: dico autem non universaliter etc.; tertio, assignat rationem manifestationis; ibi: cum enim universale sit homo et cetera. Dicit ergo primo quod quando de universalibus subiectis affirmatur aliquid vel negatur non tamen universaliter, non sunt contrariae enunciationes, sed illa quae significantur contingit esse contraria. Deinde cum dicit: dico autem non universaliter etc., manifestat per exempla. Ubi considerandum est quod non dixerat quando in universalibus particulariter, sed non universaliter. Non enim intendit de particularibus enunciationibus, sed de solis indefinitis. Et hoc manifestat per exempla quae ponit, dicens fieri in universalibus subiectis non universalem enunciationem; cum dicitur, est albus homo, non est albus homo. Et rationem huius expositionis ostendit, quia homo, qui subiicitur, est universale, sed tamen praedicatum non universaliter de eo praedicatur, quia non apponitur haec dictio, omnis: quae non significat ipsum universale, sed modum universalitatis, prout scilicet praedicatum dicitur universaliter de subiecto; et ideo addita subiecto universali, semper significat quod aliquid de eo dicatur universaliter. Tota autem haec expositio refertur ad hoc quod dixerat: quando in universalibus non universaliter enunciatur, non sunt contrariae.  Sed hoc quod additur: quae autem significantur contingit esse contraria, non est expositum, quamvis obscuritatem contineat; et ideo a diversis diversimode exponitur. Quidam enim hoc referre voluerunt ad contrarietatem veritatis et falsitatis, quae competit huiusmodi enunciationibus. Contingit enim quandoque has simul esse veras, homo est albus, homo non est albus; et sic non sunt contrariae, quia contraria mutuo se tollunt. Contingit tamen quandoque unam earum esse veram et alteram esse falsam; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal; et sic ratione significati videntur habere quamdam contrarietatem. Sed hoc non videtur ad propositum pertinere, tum quia philosophus nondum hic loquitur de veritate et falsitate enunciationum; tum etiam quia hoc ipsum posset de particularibus enunciationibus dici.  Alii vero, sequentes Porphyrium, referunt hoc ad contrarietatem praedicati. Contingit enim quandoque quod praedicatum negatur de subiecto propter hoc quod inest ei contrarium; sicut si dicatur, homo non est albus, quia est niger; et sic id quod significatur per hoc quod dicitur, non est albus, potest esse contrarium. Non tamen semper: removetur enim aliquid a subiecto, etiam si contrarium non insit, sed aliquid medium inter contraria; ut cum dicitur, aliquis non est albus, quia est pallidus; vel quia inest ei privatio actus vel habitus seu potentiae; ut cum dicitur, aliquis non est videns, quia est carens potentia visiva, aut habet impedimentum ne videat, vel etiam quia non est aptus natus videre; puta si dicatur, lapis non videt. Sic igitur illa, quae significantur contingit esse contraria, sed ipsae enunciationes non sunt contrariae, quia ut in fine huius libri dicetur, non sunt contrariae opiniones quae sunt de contrariis, sicut opinio quod aliquid sit bonum, et illa quae est, quod aliquid non est bonum.  Sed nec hoc videtur ad propositum Aristotelis pertinere, quia non agit hic de contrarietate rerum vel opinionum, sed de contrarietate enunciationum: et ideo magis videtur hic sequenda expositio Alexandri. Secundum quam dicendum est quod in indefinitis enunciationibus non determinatur utrum praedicatum attribuatur subiecto universaliter (quod faceret contrarietatem enunciationum), aut particulariter (quod non faceret contrarietatem enunciationum); et ideo huiusmodi enunciationes indefinitae non sunt contrariae secundum modum quo proferuntur. Contingit tamen quandoque ratione significati eas habere contrarietatem, puta, cum attribuitur aliquid universali ratione naturae universalis, quamvis non apponatur signum universale; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal: quia hae enunciationes eamdem habent vim ratione significati; ac si diceretur, omnis homo est animal, nullus homo est animal.  Deinde cum dicit: in eo vero quod etc., removet quoddam quod posset esse dubium. Quia enim posuerat quamdam diversitatem in oppositione enunciationum ex hoc quod universale sumitur a parte subiecti universaliter vel non universaliter, posset aliquis credere quod similis diversitas nasceretur ex parte praedicati, ex hoc scilicet quod universale praedicari posset et universaliter et non universaliter; et ideo ad hoc excludendum dicit quod in eo quod praedicatur aliquod universale, non est verum quod praedicetur universale universaliter. Cuius quidem duplex esse potest ratio. Una quidem, quia talis modus praedicandi videtur repugnare praedicato secundum propriam rationem quam habet in enunciatione. Dictum est enim supra quod praedicatum est quasi pars formalis enunciationis, subiectum autem est pars materialis ipsius: cum autem aliquod universale profertur universaliter, ipsum universale sumitur secundum habitudinem quam habet ad singularia, quae sub se continet; sicut et quando universale profertur particulariter, sumitur secundum habitudinem quam habet ad aliquod contentorum sub se; et sic utrumque pertinet ad materialem determinationem universalis: et ideo neque signum universale neque particulare convenienter additur praedicato, sed magis subiecto: convenientius enim dicitur, nullus homo est asinus, quam, omnis homo est nullus asinus; et similiter convenientius dicitur, aliquis homo est albus, quam, homo est aliquid album. Invenitur autem quandoque a philosophis signum particulare appositum praedicato, ad insinuandum quod praedicatum est in plus quam subiectum, et hoc praecipue cum, habito genere, investigant differentias completivas speciei, sicut in II de anima dicitur quod anima est actus quidam. Alia vero ratio potest accipi ex parte veritatis enunciationis; et ista specialiter habet locum in affirmationibus quae falsae essent si praedicatum universaliter praedicaretur. Et ideo manifestans id quod posuerat, subiungit quod nulla affirmatio est in qua, scilicet vere, de universali praedicato universaliter praedicetur, idest in qua universali praedicato utitur ad universaliter praedicandum; ut si diceretur, omnis homo est omne animal. Oportet enim, secundum praedicta, quod hoc praedicatum animal, secundum singula quae sub ipso continentur, praedicaretur de singulis quae continentur sub homine; et hoc non potest esse verum, neque si praedicatum sit in plus quam subiectum, neque si praedicatum sit convertibile cum eo. Oporteret enim quod quilibet unus homo esset animalia omnia, aut omnia risibilia: quae repugnant rationi singularis, quod accipitur sub universali.  Nec est instantia si dicatur quod haec est vera, omnis homo est omnis disciplinae susceptivus: disciplina enim non praedicatur de homine, sed susceptivum disciplinae; repugnaret autem veritati si diceretur, omnis homo est omne susceptivum disciplinae.  Signum autem universale negativum, vel particulare affirmativum, etsi convenientius ponantur ex parte subiecti, non tamen repugnat veritati etiam si ponantur ex parte praedicati. Contingit enim huiusmodi enunciationes in aliqua materia esse veras: haec enim est vera, omnis homo nullus lapis est; et similiter haec est vera, omnis homo aliquod animal est. Sed haec, omnis homo omne animal est, in quacumque materia proferatur, falsa est. Sunt autem quaedam aliae tales enunciationes semper falsae; sicut ista, aliquis homo omne animal est (quae habet eamdem causam falsitatis cum hac, omnis homo omne animal est); et si quae aliae similes, sunt semper falsae: in omnibus enim eadem ratio est. Et ideo per hoc quod philosophus reprobavit istam, omnis homo omne animal est, dedit intelligere omnes consimiles esse improbandas. Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum, comparando universales enunciationes ad indefinitas, hic determinat de oppositione enunciationum comparando universales ad particulares. Circa quod considerandum est quod potest duplex oppositio in his notari: una quidem universalis ad particularem, et hanc primo tangit; alia vero universalis ad universalem, et hanc tangit secundo; ibi: contrariae vero et cetera.  Particularis vero affirmativa et particularis negativa, non habent proprie loquendo oppositionem, quia oppositio attenditur circa idem subiectum; subiectum autem particularis enunciationis est universale particulariter sumptum, non pro aliquo determinato singulari, sed indeterminate pro quocumque; et ideo, cum de universali particulariter sumpto aliquid affirmatur vel negatur, ipse modus enunciandi non habet quod affirmatio et negatio sint de eodem: quod requiritur ad oppositionem affirmationis et negationis, secundum praemissa.  Dicit ergo primo quod enunciatio, quae universale significat, scilicet universaliter, opponitur contradictorie ei, quae non significat universaliter sed particulariter, si una earum sit affirmativa, altera vero sit negativa (sive universalis sit affirmativa et particularis negativa, sive e converso); ut cum dicitur, omnis homo est albus, non omnis homo est albus: hoc enim quod dico, non omnis, ponitur loco signi particularis negativi; unde aequipollet ei quae est, quidam homo non est albus; sicut et nullus, quod idem significat ac si diceretur, non ullus vel non quidam, est signum universale negativum. Unde hae duae, quidam homo est albus (quae est particularis affirmativa), nullus homo est albus (quae est universalis negativa), sunt contradictoriae.  Cuius ratio est quia contradictio consistit in sola remotione affirmationis per negationem; universalis autem affirmativa removetur per solam negationem particularis, nec aliquid aliud ex necessitate ad hoc exigitur; particularis autem affirmativa removeri non potest nisi per universalem negativam, quia iam dictum est quod particularis affirmativa non proprie opponitur particulari negativae. Unde relinquitur quod universali affirmativae contradictorie opponitur particularis negativa, et particulari affirmativae universalis negativa.  Deinde cum dicit: contrariae vero etc., tangit oppositionem universalium enunciationum; et dicit quod universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae; sicut, omnis homo est iustus, nullus homo est iustus, quia scilicet universalis negativa non solum removet universalem affirmativam, sed etiam designat extremam distantiam, in quantum negat totum quod affirmatio ponit; et hoc pertinet ad rationem contrarietatis; et ideo particularis affirmativa et negativa se habent sicut medium inter contraria.  Deinde cum dicit: quocirca has quidem etc., ostendit quomodo se habeant affirmatio et negatio oppositae ad verum et falsum. Et primo, quantum ad contrarias; secundo, quantum ad contradictorias; ibi: quaecumque igitur contradictiones etc.; tertio, quantum ad ea quae videntur contradictoria, et non sunt; ibi: quaecumque autem in universalibus et cetera. Dicit ergo primo quod quia universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae, impossibile est quod sint simul verae. Contraria enim mutuo se expellunt. Sed particulares, quae contradictorie opponuntur universalibus contrariis, possunt simul verificari in eodem; sicut, non omnis homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, omnis homo est albus, et, quidam homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, nullus homo est albus. Et huiusmodi etiam simile invenitur in contrarietate rerum: nam album et nigrum numquam simul esse possunt in eodem, sed remotiones albi et nigri simul possunt esse: potest enim aliquid esse neque album neque nigrum, sicut patet in eo quod est pallidum. Et similiter contrariae enunciationes non possunt simul esse verae, sed earum contradictoriae, a quibus removentur, simul possunt esse verae. Deinde cum dicit: quaecumque igitur contradictiones etc., ostendit qualiter veritas et falsitas se habeant in contradictoriis. Circa quod considerandum est quod, sicut dictum est supra, in contradictoriis negatio non plus facit, nisi quod removet affirmationem. Quod contingit dupliciter. Uno modo, quando est altera earum universalis, altera particularis, ut supra dictum est. Alio modo, quando utraque est singularis: quia tunc negatio ex necessitate refertur ad idem (quod non contingit in particularibus et indefinitis), nec potest se in plus extendere nisi ut removeat affirmationem. Et ideo singularis affirmativa semper contradicit singulari negativae, supposita identitate praedicati et subiecti. Et ideo dicit quod, sive accipiamus contradictionem universalium universaliter, scilicet quantum ad unam earum, sive singularium enunciationum, semper necesse est quod una sit vera et altera falsa. Neque enim contingit esse simul veras aut simul falsas, quia verum nihil aliud est, nisi quando dicitur esse quod est, aut non esse quod non est; falsum autem, quando dicitur esse quod non est, aut non esse quod est, ut patet ex IV metaphysicorum.  Deinde cum dicit: quaecumque autem universalium etc., ostendit qualiter se habeant veritas et falsitas in his, quae videntur esse contradictoria, sed non sunt. Et circa hoc tria facit: primo proponit quod intendit; secundo, probat propositum; ibi: si enim turpis non probus etc.; tertio, excludit id quod facere posset dubitationem; ibi: videbitur autem subito inconveniens et cetera. Circa primum considerandum est quod affirmatio et negatio in indefinitis propositionibus videntur contradictorie opponi propter hoc, quod est unum subiectum non determinatum per signum particulare, et ideo videtur affirmatio et negatio esse de eodem. Sed ad hoc removendum philosophus dicit quod quaecumque affirmative et negative dicuntur de universalibus non universaliter sumptis, non semper oportet quod unum sit verum, et aliud sit falsum, sed possunt simul esse vera. Simul enim est verum dicere quod homo est albus, et, homo non est albus, et quod homo est probus, et, homo non est probus.  In quo quidem, ut Ammonius refert, aliqui Aristoteli contradixerunt ponentes quod indefinita negativa semper sit accipienda pro universali negativa. Et hoc astruebant primo quidem tali ratione: quia indefinita, cum sit indeterminata, se habet in ratione materiae; materia autem secundum se considerata, magis trahitur ad id quod indignius est; dignior autem est universalis affirmativa, quam particularis affirmativa; et ideo indefinitam affirmativam dicunt esse sumendam pro particulari affirmativa: sed negativam universalem, quae totum destruit, dicunt esse indigniorem particulari negativa, quae destruit partem, sicut universalis corruptio peior est quam particularis; et ideo dicunt quod indefinita negativa sumenda est pro universali negativa. Ad quod etiam inducunt quod philosophi, et etiam ipse Aristoteles utitur indefinitis negativis pro universalibus; sicut dicitur in libro Physic. quod non est motus praeter res; et in libro de anima, quod non est sensus praeter quinque. Sed istae rationes non concludunt. Quod enim primo dicitur quod materia secundum se sumpta sumitur pro peiori, verum est secundum sententiam Platonis, qui non distinguebat privationem a materia, non autem est verum secundum Aristotelem, qui dicit in Lib. I Physic. quod malum et turpe et alia huiusmodi ad defectum pertinentia non dicuntur de materia nisi per accidens. Et ideo non oportet quod indefinita semper stet pro peiori. Dato etiam quod indefinita necesse sit sumi pro peiori, non oportet quod sumatur pro universali negativa; quia sicut in genere affirmationis, universalis affirmativa est potior particulari, utpote particularem affirmativam continens; ita etiam in genere negationum universalis negativa potior est. Oportet autem in unoquoque genere considerare id quod est potius in genere illo, non autem id quod est potius simpliciter. Ulterius etiam, dato quod particularis negativa esset potior omnibus modis, non tamen adhuc ratio sequeretur: non enim ideo indefinita affirmativa sumitur pro particulari affirmativa, quia sit indignior, sed quia de universali potest aliquid affirmari ratione suiipsius, vel ratione partis contentae sub eo; unde sufficit ad veritatem eius quod praedicatum uni parti conveniat (quod designatur per signum particulare); et ideo veritas particularis affirmativae sufficit ad veritatem indefinitae affirmativae. Et simili ratione veritas particularis negativae sufficit ad veritatem indefinitae negativae, quia similiter potest aliquid negari de universali vel ratione suiipsius, vel ratione suae partis. Utuntur autem quandoque philosophi indefinitis negativis pro universalibus in his, quae per se removentur ab universalibus; sicut et utuntur indefinitis affirmativis pro universalibus in his, quae per se de universalibus praedicantur.  Deinde cum dicit: si enim turpis est etc., probat propositum per id, quod est ab omnibus concessum. Omnes enim concedunt quod indefinita affirmativa verificatur, si particularis affirmativa sit vera. Contingit autem accipi duas affirmativas indefinitas, quarum una includit negationem alterius, puta cum sunt opposita praedicata: quae quidem oppositio potest contingere dupliciter. Uno modo, secundum perfectam contrarietatem, sicut turpis, idest inhonestus, opponitur probo, idest honesto, et foedus, idest deformis secundum corpus, opponitur pulchro. Sed per quam rationem ista affirmativa est vera, homo est probus, quodam homine existente probo, per eamdem rationem ista est vera, homo est turpis, quodam homine existente turpi. Sunt ergo istae duae verae simul, homo est probus, homo est turpis; sed ad hanc, homo est turpis, sequitur ista, homo non est probus; ergo istae duae sunt simul verae, homo est probus, homo non est probus: et eadem ratione istae duae, homo est pulcher, homo non est pulcher. Alia autem oppositio attenditur secundum perfectum et imperfectum, sicut moveri opponitur ad motum esse, et fieri ad factum esse: unde ad fieri sequitur non esse eius quod fit in permanentibus, quorum esse est perfectum; secus autem est in successivis, quorum esse est imperfectum. Sic ergo haec est vera, homo est albus, quodam homine existente albo; et pari ratione, quia quidam homo fit albus, haec est vera, homo fit albus; ad quam sequitur, homo non est albus. Ergo istae duae sunt simul verae, homo est albus, homo non est albus.  Deinde cum dicit: videbitur autem etc., excludit id quod faceret dubitationem circa praedicta; et dicit quod subito, id est primo aspectu videtur hoc esse inconveniens, quod dictum est; quia hoc quod dico, homo non est albus, videtur idem significare cum hoc quod est, nullus homo est albus. Sed ipse hoc removet dicens quod neque idem significant neque ex necessitate sunt simul vera, sicut ex praedictis manifestum est. Postquam philosophus distinxit diversos modos oppositionum in enunciationibus, nunc intendit ostendere quod uni affirmationi una negatio opponitur, et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod uni affirmationi una negatio opponitur; secundo, ostendit quae sit una affirmatio vel negatio, ibi: una autem affirmatio et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: hoc enim idem etc.; tertio, epilogat quae dicta sunt; ibi: manifestum est ergo et cetera.  Dicit ergo primo, manifestum esse quod unius affirmationis est una negatio sola. Et hoc quidem fuit necessarium hic dicere: quia cum posuerit plura oppositionum genera, videbatur quod uni affirmationi duae negationes opponerentur; sicut huic affirmativae, omnis homo est albus, videtur, secundum praedicta, haec negativa opponi, nullus homo est albus, et haec, quidam homo non est albus. Sed si quis recte consideret huius affirmativae, omnis homo est albus, negativa est sola ista, quidam homo non est albus, quae solummodo removet ipsam, ut patet ex sua aequipollenti, quae est, non omnis homo est albus. Universalis vero negativa includit quidem in suo intellectu negationem universalis affirmativae, in quantum includit particularem negativam, sed supra hoc aliquid addit, in quantum scilicet importat non solum remotionem universalitatis, sed removet quamlibet partem eius. Et sic patet quod sola una est negatio universalis affirmationis: et idem apparet in aliis.  Deinde cum dicit: hoc enim etc., manifestat propositum: et primo, per rationem; secundo, per exempla; ibi: dico autem, ut est Socrates albus. Ratio autem sumitur ex hoc, quod supra dictum est quod negatio opponitur affirmationi, quae est eiusdem de eodem: ex quo hic accipitur quod oportet negationem negare illud idem praedicatum, quod affirmatio affirmavit et de eodem subiecto, sive illud subiectum sit aliquid singulare, sive aliquid universale, vel universaliter, vel non universaliter sumptum; sed hoc non contingit fieri nisi uno modo, ita scilicet ut negatio neget id quod affirmatio posuit, et nihil aliud; ergo uni affirmationi opponitur una sola negatio.  [80425] Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 4 Deinde cum dicit: dico autem, ut est etc., manifestat propositum per exempla. Et primo, in singularibus: huic enim affirmationi, Socrates est albus, haec sola opponitur, Socrates non est albus, tanquam eius propria negatio. Si vero esset aliud praedicatum vel aliud subiectum, non esset negatio opposita, sed omnino diversa; sicut ista, Socrates non est musicus, non opponitur ei quae est, Socrates est albus; neque etiam illa quae est, Plato est albus, huic quae est, Socrates non est albus. Secundo, manifestat idem quando subiectum affirmationis est universale universaliter sumptum; sicut huic affirmationi, omnis homo est albus, opponitur sicut propria eius negatio, non omnis homo est albus, quae aequipollet particulari negativae. Tertio, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale particulariter sumptum: et dicit quod huic affirmationi, aliquis homo est albus, opponitur tanquam eius propria negatio, nullus homo est albus. Nam nullus dicitur, quasi non ullus, idest, non aliquis. Quarto, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale indefinite sumptum et dicit quod isti affirmationi, homo est albus, opponitur tanquam propria eius negatio illa quae est, non est homo albus.  [80426] Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 5 Sed videtur hoc esse contra id, quod supra dictum est quod negativa indefinita verificatur simul cum indefinita affirmativa; negatio autem non potest verificari simul cum sua opposita affirmatione, quia non contingit de eodem affirmare et negare. Sed ad hoc dicendum quod oportet quod hic dicitur intelligi quando negatio ad idem refertur quod affirmatio continebat; et hoc potest esse dupliciter: uno modo, quando affirmatur aliquid inesse homini ratione sui ipsius (quod est per se de eodem praedicari), et hoc ipsum negatio negat; alio modo, quando aliquid affirmatur de universali ratione sui singularis, et pro eodem de eo negatur. Deinde cum dicit: quod igitur una affirmatio etc., epilogat quae dicta sunt, et concludit manifestum esse ex praedictis quod uni affirmationi opponitur una negatio; et quod oppositarum affirmationum et negationum aliae sunt contrariae, aliae contradictoriae; et dictum est quae sint utraeque. Tacet autem de subcontrariis, quia non sunt recte oppositae, ut supra dictum est. Dictum est etiam quod non omnis contradictio est vera vel falsa; et sumitur hic large contradictio pro qualicumque oppositione affirmationis et negationis: nam in his quae sunt vere contradictoriae semper una est vera, et altera falsa. Quare autem in quibusdam oppositis hoc non verificetur, dictum est supra; quia scilicet quaedam non sunt contradictoriae, sed contrariae, quae possunt simul esse falsae. Contingit etiam affirmationem et negationem non proprie opponi; et ideo contingit eas esse veras simul. Dictum est autem quando altera semper est vera, altera autem falsa, quia scilicet in his quae vere sunt contradictoria.  Deinde cum dicit: una autem affirmatio etc., ostendit quae sit affirmatio vel negatio una. Quod quidem iam supra dixerat, ubi habitum est quod una est enunciatio, quae unum significat; sed quia enunciatio, in qua aliquid praedicatur de aliquo universali universaliter vel non universaliter, multa sub se continet, intendit ostendere quod per hoc non impeditur unitas enunciationis. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod unitas enunciationis non impeditur per multitudinem, quae continetur sub universali, cuius ratio una est; secundo, ostendit quod impeditur unitas enunciationis per multitudinem, quae continetur sub sola nominis unitate; ibi: si vero duobus et cetera. Dicit ergo primo quod una est affirmatio vel negatio cum unum significatur de uno, sive illud unum quod subiicitur sit universale universaliter sumptum sive non sit aliquid tale, sed sit universale particulariter sumptum vel indefinite, aut etiam si subiectum sit singulare. Et exemplificat de diversis sicut universalis ista affirmativa est una, omnis homo est albus; et similiter particularis negativa quae est eius negatio, scilicet non est omnis homo albus. Et subdit alia exempla, quae sunt manifesta. In fine autem apponit quamdam conditionem, quae requiritur ad hoc quod quaelibet harum sit una, si scilicet album, quod est praedicatum, significat unum: nam sola multitudo praedicati impediret unitatem enunciationis. Ideo autem universalis propositio una est, quamvis sub se multitudinem singularium comprehendat, quia praedicatum non attribuitur multis singularibus, secundum quod sunt in se divisa, sed secundum quod uniuntur in uno communi.  Deinde cum dicit: si vero duobus etc., ostendit quod sola unitas nominis non sufficit ad unitatem enunciationis. Et circa hoc quatuor facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exemplificat; ibi: ut si quis ponat etc.; tertio, probat; ibi: nihil enim differt etc.; quarto, infert corollarium ex dictis; ibi: quare nec in his et cetera. Dicit ergo primo quod si unum nomen imponatur duabus rebus, ex quibus non fit unum, non est affirmatio una. Quod autem dicit, ex quibus non fit unum, potest intelligi dupliciter. Uno modo, ad excludendum hoc quod multa continentur sub uno universali, sicut homo et equus sub animali: hoc enim nomen animal significat utrumque, non secundum quod sunt multa et differentia ad invicem, sed secundum quod uniuntur in natura generis. Alio modo, et melius, ad excludendum hoc quod ex multis partibus fit unum, sive sint partes rationis, sicut sunt genus et differentia, quae sunt partes definitionis: sive sint partes integrales alicuius compositi, sicut ex lapidibus et lignis fit domus. Si ergo sit tale praedicatum quod attribuatur rei, requiritur ad unitatem enunciationis quod illa multa quae significantur, concurrant in unum secundum aliquem dictorum modorum; unde non sufficeret sola unitas vocis. Si vero sit tale praedicatum quod referatur ad vocem, sufficiet unitas vocis; ut si dicam, canis est nomen.  Deinde cum dicit: ut si quis etc., exemplificat quod dictum est, ut si aliquis hoc nomen tunica imponat ad significandum hominem et equum: et sic, si dicam, tunica est alba, non est affirmatio una, neque negatio una. Deinde cum dicit: nihil enim differt etc., probat quod dixerat tali ratione. Si tunica significat hominem et equum, nihil differt si dicatur, tunica est alba, aut si dicatur, homo est albus, et, equus est albus; sed istae, homo est albus, et equus est albus, significant multa et sunt plures enunciationes; ergo etiam ista, tunica est alba, multa significat. Et hoc si significet hominem et equum ut res diversas: si vero significet hominem et equum ut componentia unam rem, nihil significat, quia non est aliqua res quae componatur ex homine et equo. Quod autem dicit quod non differt dicere, tunica est alba, et, homo est albus, et, equus est albus, non est intelligendum quantum ad veritatem et falsitatem. Nam haec copulativa, homo est albus et equus est albus, non potest esse vera nisi utraque pars sit vera: sed haec, tunica est alba, praedicta positione facta, potest esse vera etiam altera existente falsa; alioquin non oporteret distinguere multiplices propositiones ad solvendum rationes sophisticas. Sed hoc est intelligendum quantum ad unitatem et multiplicitatem. Nam sicut cum dicitur, homo est albus et equus est albus, non invenitur aliqua una res cui attribuatur praedicatum; ita etiam nec cum dicitur, tunica est alba.  Deinde cum dicit: quare nec in his etc., concludit ex praemissis quod nec in his affirmationibus et negationibus, quae utuntur subiecto aequivoco, semper oportet unam esse veram et aliam falsam, quia scilicet negatio potest aliud negare quam affirmatio affirmet. Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum et ostendit quomodo dividunt verum et falsum oppositae enunciationes; hic inquirit de quodam quod poterat esse dubium, utrum scilicet id quod dictum es t similiter inveniatur in omnibus enunciationibus vel non. Et circa hoc duo facit: primo, proponit dissimilitudinem; secundo, probat eam; ibi: nam si omnis affirmatio et cetera.  Circa primum considerandum est quod philosophus in praemissis triplicem divisionem enunciationum assignavit, quarum prima fuit secundum unitatem enunciationis, prout scilicet enunciatio est una simpliciter vel coniunctione una; secunda fuit secundum qualitatem, prout scilicet enunciatio est affirmativa vel negativa; tertia fuit secundum quantitatem, utpote quod enunciatio quaedam est universalis, quaedam particularis, quaedam indefinita et quaedam singularis. Tangitur autem hic quarta divisio enunciationum secundum tempus. Nam quaedam est de praesenti, quaedam de praeterito, quaedam de futuro; et haec etiam divisio potest accipi ex his quae supra dicta sunt: dictum est enim supra quod necesse est omnem enunciationem esse ex verbo vel ex casu verbi; verbum autem est quod consignificat praesens tempus; casus autem verbi sunt, qui consignificant tempus praeteritum vel futurum. Potest autem accipi quinta divisio enunciationum secundum materiam, quae quidem divisio attenditur secundum habitudinem praedicati ad subiectum: nam si praedicatum per se insit subiecto, dicetur esse enunciatio in materia necessaria vel naturali; ut cum dicitur, homo est animal, vel, homo est risibile. Si vero praedicatum per se repugnet subiecto quasi excludens rationem ipsius, dicetur enunciatio esse in materia impossibili sive remota; ut cum dicitur, homo est asinus. Si vero medio modo se habeat praedicatum ad subiectum, ut scilicet nec per se repugnet subiecto, nec per se insit, dicetur enunciatio esse in materia possibili sive contingenti. His igitur enunciationum differentiis consideratis, non similiter se habet iudicium de veritate et falsitate in omnibus. Unde philosophus dicit, ex praemissis concludens, quod in his quae sunt, idest in propositionibus de praesenti, et in his quae facta sunt, idest in enunciationibus de praeterito, necesse est quod affirmatio vel negatio determinate sit vera vel falsa. Diversificatur tamen hoc, secundum diversam quantitatem enunciationis; nam in enunciationibus, in quibus de universalibus subiectis aliquid universaliter praedicatur, necesse est quod semper una sit vera, scilicet affirmativa vel negativa, et altera falsa, quae scilicet ei opponitur. Dictum est enim supra quod negatio enunciationis universalis in qua aliquid universaliter praedicatur, est negativa non universalis, sed particularis, et e converso universalis negativa non est directe negatio universalis affirmativae, sed particularis; et sic oportet, secundum praedicta, quod semper una earum sit vera et altera falsa in quacumque materia. Et eadem ratio est in enunciationibus singularibus, quae etiam contradictorie opponuntur, ut supra habitum est. Sed in enunciationibus, in quibus aliquid praedicatur de universali non universaliter, non est necesse quod semper una sit vera et altera sit falsa, qui possunt ambae esse simul verae, ut supra ostensum est.  Et hoc quidem ita se habet quantum ad propositiones, quae sunt de praeterito vel de praesenti: sed si accipiamus enunciationes, quae sunt de futuro, etiam similiter se habent quantum ad oppositiones, quae sunt de universalibus vel universaliter vel non universaliter sumptis. Nam in materia necessaria omnes affirmativae determinate sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus; negativae vero falsae. In materia autem impossibili, e contrario. In contingenti vero universales sunt falsae et particulares sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus. In indefinitis autem, utraque simul est vera in futuris sicut in praesentibus vel praeteritis.  Sed in singularibus et futuris est quaedam dissimilitudo. Nam in praeteritis et praesentibus necesse est quod altera oppositarum determinate sit vera et altera falsa in quacumque materia; sed in singularibus quae sunt de futuro hoc non est necesse, quod una determinate sit vera et altera falsa. Et hoc quidem dicitur quantum ad materiam contingentem: nam quantum ad materiam necessariam et impossibilem similis ratio est in futuris singularibus, sicut in praesentibus et praeteritis. Nec tamen Aristoteles mentionem fecit de materia contingenti, quia illa proprie ad singularia pertinent quae contingenter eveniunt, quae autem per se insunt vel repugnant, attribuuntur singularibus secundum universalium rationes. Circa hoc igitur versatur tota praesens intentio: utrum in enunciationibus singularibus de futuro in materia contingenti necesse sit quod determinate una oppositarum sit vera et altera falsa.  Deinde cum dicit: nam si omnis affirmatio etc., probat praemissam differentiam. Et circa hoc duo facit: primo, probat propositum ducendo ad inconveniens; secundo, ostendit illa esse impossibilia quae sequuntur; ibi: quare ergo contingunt inconvenientia et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod in singularibus et futuris non semper potest determinate attribui veritas alteri oppositorum; secundo, ostendit quod non potest esse quod utraque veritate careat; ibi: at vero neque quoniam et cetera. Circa primum ponit duas rationes, in quarum prima ponit quamdam consequentiam, scilicet quod si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera vel falsa ita in singularibus et futuris sicut in aliis, consequens est quod omnia necesse sit vel determinate esse vel non esse. Deinde cum dicit: quare si hic quidem etc. vel, si itaque hic quidem, ut habetur in Graeco, probat consequentiam praedictam. Ponamus enim quod sint duo homines, quorum unus dicat aliquid esse futurum, puta quod Socrates curret, alius vero dicat hoc idem ipsum non esse futurum; supposita praemissa positione, scilicet quod in singularibus et futuris contingit alteram esse veram, scilicet vel affirmativam vel negativam, sequetur quod necesse sit quod alter eorum verum dicat, non autem uterque: quia non potest esse quod in singularibus propositionibus futuris utraque sit simul vera, scilicet affirmativa et negativa: sed hoc habet locum solum in indefinitis. Ex hoc autem quod necesse est alterum eorum verum dicere, sequitur quod necesse sit determinate vel esse vel non esse. Et hoc probat consequenter: quia ista duo se convertibiliter consequuntur, scilicet quod verum sit id quod dicitur, et quod ita sit in re. Et hoc est quod manifestat consequenter dicens quod si verum est dicere quod album sit, de necessitate sequitur quod ita sit in re; et si verum est negare, ex necessitate sequitur quod ita non sit. Et e converso: quia si ita est in re vel non est, ex necessitate sequitur quod sit verum affirmare vel negare. Et eadem etiam convertibilitas apparet in falso: quia, si aliquis mentitur falsum dicens, ex necessitate sequitur quod non ita sit in re, sicut ipse affirmat vel negat; et e converso, si non est ita in re sicut ipse affirmat vel negat, sequitur quod affirmans vel negans mentiatur.  Est ergo processus huius rationis talis. Si necesse est quod omnis affirmatio vel negatio in singularibus et futuris sit vera vel falsa, necesse est quod omnis affirmans vel negans determinate dicat verum vel falsum. Ex hoc autem sequitur quod omne necesse sit esse vel non esse. Ergo, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, necesse est omnia determinate esse vel non esse. Ex hoc concludit ulterius quod omnia sint ex necessitate. Per quod triplex genus contingentium excluditur.  Quaedam enim contingunt ut in paucioribus, quae accidunt a casu vel fortuna. Quaedam vero se habent ad utrumlibet, quia scilicet non magis se habent ad unam partem, quam ad aliam, et ista procedunt ex electione. Quaedam vero eveniunt ut in pluribus; sicut hominem canescere in senectute, quod causatur ex natura. Si autem omnia ex necessitate evenirent, nihil horum contingentium esset. Et ideo dicit nihil est quantum ad ipsam permanentiam eorum quae permanent contingenter; neque fit quantum ad productionem eorum quae contingenter causantur; nec casu quantum ad ea quae sunt in minori parte, sive in paucioribus; nec utrumlibet quantum ad ea quae se habent aequaliter ad utrumque, scilicet esse vel non esse, et ad neutrum horum sunt determinata: quod significat cum subdit, nec erit, nec non erit. De eo enim quod est magis determinatum ad unam partem possumus determinate verum dicere quod hoc erit vel non erit, sicut medicus de convalescente vere dicit, iste sanabitur, licet forte ex aliquo accidente eius sanitas impediatur. Unde et philosophus dicit in II de generatione quod futurus quis incedere, non incedet. De eo enim qui habet propositum determinatum ad incedendum, vere potest dici quod ipse incedet, licet per aliquod accidens impediatur eius incessus. Sed eius quod est ad utrumlibet proprium est quod, quia non determinatur magis ad unum quam ad alterum, non possit de eo determinate dici, neque quod erit, neque quod non erit. Quomodo autem sequatur quod nihil sit ad utrumlibet ex praemissa hypothesi, manifestat subdens quod, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, oportet quod vel ille qui affirmat vel ille qui negat dicat verum; et sic tollitur id quod est ad utrumlibet: quia, si esse aliquid ad utrumlibet, similiter se haberet ad hoc quod fieret vel non fieret, et non magis ad unum quam ad alterum. Est autem considerandum quod philosophus non excludit hic expresse contingens quod est ut in pluribus, duplici ratione. Primo quidem, quia tale contingens non excludit quin altera oppositarum enunciationum determinate sit vera et altera falsa, ut dictum est. Secundo, quia remoto contingenti quod est in paucioribus, quod a casu accidit, removetur per consequens contingens quod est ut in pluribus: nihil enim differt id quod est in pluribus ab eo quod est in paucioribus, nisi quod deficit in minori parte.  Deinde cum dicit: amplius si est album etc., ponit secundam rationem ad ostendendum praedictam dissimilitudinem, ducendo ad impossibile. Si enim similiter se habet veritas et falsitas in praesentibus et futuris, sequitur ut quidquid verum est de praesenti, etiam fuerit verum de futuro, eo modo quo est verum de praesenti. Sed determinate nunc est verum dicere de aliquo singulari quod est album; ergo primo, idest antequam illud fieret album, erat verum dicere quoniam hoc erit album. Sed eadem ratio videtur esse in propinquo et in remoto; ergo si ante unum diem verum fuit dicere quod hoc erit album, sequitur quod semper fuit verum dicere de quolibet eorum, quae facta sunt, quod erit. Si autem semper est verum dicere de praesenti quoniam est, vel de futuro quoniam erit, non potest hoc non esse vel non futurum esse. Cuius consequentiae ratio patet, quia ista duo sunt incompossibilia, quod aliquid vere dicatur esse, et quod non sit. Nam hoc includitur in significatione veri, ut sit id quod dicitur. Si ergo ponitur verum esse id quod dicitur de praesenti vel de futuro, non potest esse quin illud sit praesens vel futurum. Sed quod non potest non fieri idem significat cum eo quod est impossibile non fieri. Et quod impossibile est non fieri idem significat cum eo quod est necesse fieri, ut in secundo plenius dicetur. Sequitur ergo ex praemissis quod omnia, quae futura sunt, necesse est fieri. Ex quo sequitur ulterius, quod nihil sit neque ad utrumlibet neque a casu, quia illud quod accidit a casu non est ex necessitate, sed ut in paucioribus; hoc autem relinquit pro inconvenienti; ergo et primum est falsum, scilicet quod omne quod est verum esse, verum fuerit determinate dicere esse futurum.  Ad cuius evidentiam considerandum est quod cum verum hoc significet ut dicatur aliquid esse quod est, hoc modo est aliquid verum, quo habet esse. Cum autem aliquid est in praesenti habet esse in seipso, et ideo vere potest dici de eo quod est: sed quamdiu aliquid est futurum, nondum est in seipso, est tamen aliqualiter in sua causa: quod quidem contingit tripliciter. Uno modo, ut sic sit in sua causa ut ex necessitate ex ea proveniat; et tunc determinate habet esse in sua causa; unde determinate potest dici de eo quod erit. Alio modo, aliquid est in sua causa, ut quae habet inclinationem ad suum effectum, quae tamen impediri potest; unde et hoc determinatum est in sua causa, sed mutabiliter; et sic de hoc vere dici potest, hoc erit, sed non per omnimodam certitudinem. Tertio, aliquid est in sua causa pure in potentia, quae etiam non magis est determinata ad unum quam ad aliud; unde relinquitur quod nullo modo potest de aliquo eorum determinate dici quod sit futurum, sed quod sit vel non sit.  Deinde cum dicit: at vero neque quoniam etc., ostendit quod veritas non omnino deest in singularibus futuris utrique oppositorum; et primo, proponit quod intendit dicens quod sicut non est verum dicere quod in talibus alterum oppositorum sit verum determinate, sic non est verum dicere quod non utrumque sit verum; ut si quod dicamus, neque erit, neque non erit. Secundo, ibi: primum enim cum sit etc., probat propositum duabus rationibus. Quarum prima talis est: affirmatio et negatio dividunt verum et falsum, quod patet ex definitione veri et falsi: nam nihil aliud est verum quam esse quod est, vel non esse quod non est; et nihil aliud est falsum quam esse quod non est, vel non esse quod est; et sic oportet quod si affirmatio sit falsa, quod negatio sit vera; et e converso. Sed secundum praedictam positionem affirmatio est falsa, qua dicitur, hoc erit; nec tamen negatio est vera: et similiter negatio erit falsa, affirmatione non existente vera; ergo praedicta positio est impossibilis, scilicet quod veritas desit utrique oppositorum. Secundam rationem ponit; ibi: ad haec si verum est et cetera. Quae talis est: si verum est dicere aliquid, sequitur quod illud sit; puta si verum est dicere quod aliquid sit magnum et album, sequitur utraque esse. Et ita de futuro sicut de praesenti: sequitur enim esse cras, si verum est dicere quod erit cras. Si ergo vera est praedicta positio dicens quod neque cras erit, neque non erit, oportebit neque fieri, neque non fieri: quod est contra rationem eius quod est ad utrumlibet, quia quod est ad utrumlibet se habet ad alterutrum; ut navale bellum cras erit, vel non erit. Et ita ex hoc sequitur idem inconveniens quod in praemissis. Ostenderat superius philosophus ducendo ad inconveniens quod non est similiter verum vel falsum determinate in altero oppositorum in singularibus et futuris, sicut supra de aliis enunciationibus dixerat; nunc autem ostendit inconvenientia ad quae adduxerat esse impossibilia. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit impossibilia ea quae sequebantur; secundo, concludit quomodo circa haec se veritas habeat; ibi: igitur esse quod est et cetera.  Circa primum tria facit: primo, ponit inconvenientia quae sequuntur; secundo, ostendit haec inconvenientia ex praedicta positione sequi; ibi: nihil enim prohibet etc.; tertio, ostendit esse impossibilia inconvenientia memorata; ibi: quod si haec possibilia non sunt et cetera. Dicit ergo primo, ex praedictis rationibus concludens, quod haec inconvenientia sequuntur, si ponatur quod necesse sit oppositarum enunciationum alteram determinate esse veram et alteram esse falsam similiter in singularibus sicut in universalibus, quod scilicet nihil in his quae fiunt sit ad utrumlibet, sed omnia sint et fiant ex necessitate. Et ex hoc ulterius inducit alia duo inconvenientia. Quorum primum est quod non oportebit de aliquo consiliari: probatum est enim in III Ethicorum quod consilium non est de his, quae sunt ex necessitate, sed solum de contingentibus, quae possunt esse et non esse. Secundum inconveniens est quod omnes actiones humanae, quae sunt propter aliquem finem (puta negotiatio, quae est propter divitias acquirendas), erunt superfluae: quia si omnia ex necessitate eveniunt, sive operemur sive non operemur erit quod intendimus. Sed hoc est contra intentionem hominum, quia ea intentione videntur consiliari et negotiari ut, si haec faciant, erit talis finis, si autem faciunt aliquid aliud, erit alius finis.  Deinde cum dicit: nihil enim prohibet etc., probat quod dicta inconvenientia consequantur ex dicta positione. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit praedicta inconvenientia sequi, quodam possibili posito; secundo, ostendit quod eadem inconvenientia sequantur etiam si illud non ponatur; ibi: at nec hoc differt et cetera. Dicit ergo primo, non esse impossibile quod ante mille annos, quando nihil apud homines erat praecogitatum, vel praeordinatum de his quae nunc aguntur, unus dixerit quod hoc erit, puta quod civitas talis subverteretur, alius autem dixerit quod hoc non erit. Sed si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera, necesse est quod alter eorum determinate verum dixerit; ergo necesse fuit alterum eorum ex necessitate evenire; et eadem ratio est in omnibus aliis; ergo omnia ex necessitate eveniunt.  Deinde cum dicit: at vero neque hoc differt etc., ostendit quod idem sequitur si illud possibile non ponatur. Nihil enim differt, quantum ad rerum existentiam vel eventum, si uno affirmante hoc esse futurum, alius negaverit vel non negaverit; ita enim se habebit res si hoc factum fuerit, sicut si hoc non factum fuerit. Non enim propter nostrum affirmare vel negare mutatur cursus rerum, ut sit aliquid vel non sit: quia veritas nostrae enunciationis non est causa existentiae rerum, sed potius e converso. Similiter etiam non differt quantum ad eventum eius quod nunc agitur, utrum fuerit affirmatum vel negatum ante millesimum annum vel ante quodcumque tempus. Sic ergo, si in quocumque tempore praeterito, ita se habebat veritas enunciationum, ut necesse esset quod alterum oppositorum vere diceretur; et ad hoc quod necesse est aliquid vere dici sequitur quod necesse sit illud esse vel fieri; consequens est quod unumquodque eorum quae fiunt, sic se habeat ut ex necessitate fiat. Et huiusmodi consequentiae rationem assignat per hoc, quod si ponatur aliquem vere dicere quod hoc erit, non potest non futurum esse. Sicut supposito quod sit homo, non potest non esse animal rationale mortale. Hoc enim significatur, cum dicitur aliquid vere dici, scilicet quod ita sit ut dicitur. Eadem autem habitudo est eorum, quae nunc dicuntur, ad ea quae futura sunt, quae erat eorum, quae prius dicebantur, ad ea quae sunt praesentia vel praeterita; et ita omnia ex necessitate acciderunt, et accidunt, et accident, quia quod nunc factum est, utpote in praesenti vel in praeterito existens, semper verum erat dicere, quoniam erit futurum.  Deinde cum dicit: quod si haec possibilia non sunt etc., ostendit praedicta esse impossibilia: et primo, per rationem; secundo, per exempla sensibilia; ibi: et multa nobis manifesta et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit propositum in rebus humanis; secundo, etiam in aliis rebus; ibi: et quoniam est omnino et cetera. Quantum autem ad res humanas ostendit esse impossibilia quae dicta sunt, per hoc quod homo manifeste videtur esse principium eorum futurorum, quae agit quasi dominus existens suorum actuum, et in sua potestate habens agere vel non agere; quod quidem principium si removeatur, tollitur totus ordo conversationis humanae, et omnia principia philosophiae moralis. Hoc enim sublato non erit aliqua utilitas persuasionis, nec comminationis, nec punitionis aut remunerationis, quibus homines alliciuntur ad bona et retrahuntur a malis, et sic evacuatur tota civilis scientia. Hoc ergo philosophus accipit pro principio manifesto quod homo sit principium futurorum; non est autem futurorum principium nisi per hoc quod consiliatur et facit aliquid: ea enim quae agunt absque consilio non habent dominium sui actus, quasi libere iudicantes de his quae sunt agenda, sed quodam naturali instinctu moventur ad agendum, ut patet in animalibus brutis. Unde impossibile est quod supra conclusum est quod non oporteat nos negotiari vel consiliari. Et sic etiam impossibile est illud ex quo sequebatur, scilicet quod omnia ex necessitate eveniant.  Deinde cum dicit: et quoniam est omnino etc., ostendit idem etiam in aliis rebus. Manifestum est enim etiam in rebus naturalibus esse quaedam, quae non semper actu sunt; ergo in eis contingit esse et non esse: alioquin vel semper essent, vel semper non essent. Id autem quod non est, incipit esse aliquid per hoc quod fit illud; sicut id quod non est album, incipit esse album per hoc quod fit album. Si autem non fiat album permanet non ens album. Ergo in quibus contingit esse et non esse, contingit etiam fieri et non fieri. Non ergo talia ex necessitate sunt vel fiunt, sed est in eis natura possibilitatis, per quam se habent ad fieri et non fieri, esse et non esse.  Deinde cum dicit: ac multa nobis manifesta etc., ostendit propositum per sensibilia exempla. Sit enim, puta, vestis nova; manifestum est quod eam possibile est incidi, quia nihil obviat incisioni, nec ex parte agentis nec ex parte patientis. Probat autem quod simul cum hoc quod possibile est eam incidi, possibile est etiam eam non incidi, eodem modo quo supra probavit duas indefinitas oppositas esse simul veras, scilicet per assumptionem contrarii. Sicut enim possibile est istam vestem incidi, ita possibile est eam exteri, idest vetustate corrumpi; sed si exteritur non inciditur; ergo utrumque possibile est, scilicet eam incidi et non incidi. Et ex hoc universaliter concludit quod in aliis futuris, quae non sunt in actu semper, sed sunt in potentia, hoc manifestum est quod non omnia ex necessitate sunt vel fiunt, sed eorum quaedam sunt ad utrumlibet, quae non se habent magis ad affirmationem quam ad negationem; alia vero sunt in quibus alterum eorum contingit ut in pluribus, sed tamen contingit etiam ut in paucioribus quod altera pars sit vera, et non alia, quae scilicet contingit ut in pluribus.  Est autem considerandum quod, sicut Boethius dicit hic in commento, circa possibile et necessarium diversimode aliqui sunt opinati. Quidam enim distinxerunt ea secundum eventum, sicut Diodorus, qui dixit illud esse impossibile quod nunquam erit; necessarium vero quod semper erit; possibile vero quod quandoque erit, quandoque non erit. Stoici vero distinxerunt haec secundum exteriora prohibentia. Dixerunt enim necessarium esse illud quod non potest prohiberi quin sit verum; impossibile vero quod semper prohibetur a veritate; possibile vero quod potest prohiberi vel non prohiberi. Utraque autem distinctio videtur esse incompetens. Nam prima distinctio est a posteriori: non enim ideo aliquid est necessarium, quia semper erit; sed potius ideo semper erit, quia est necessarium: et idem patet in aliis. Secunda autem assignatio est ab exteriori et quasi per accidens: non enim ideo aliquid est necessarium, quia non habet impedimentum, sed quia est necessarium, ideo impedimentum habere non potest. Et ideo alii melius ista distinxerunt secundum naturam rerum, ut scilicet dicatur illud necessarium, quod in sua natura determinatum est solum ad esse; impossibile autem quod est determinatum solum ad non esse; possibile autem quod ad neutrum est omnino determinatum, sive se habeat magis ad unum quam ad alterum, sive se habeat aequaliter ad utrumque, quod dicitur contingens ad utrumlibet. Et hoc est quod Boethius attribuit Philoni. Sed manifeste haec est sententia Aristotelis in hoc loco. Assignat enim rationem possibilitatis et contingentiae, in his quidem quae sunt a nobis ex eo quod sumus consiliativi, in aliis autem ex eo quod materia est in potentia ad utrumque oppositorum.  Sed videtur haec ratio non esse sufficiens. Sicut enim in corporibus corruptibilibus materia invenitur in potentia se habens ad esse et non esse, ita etiam in corporibus caelestibus invenitur potentia ad diversa ubi, et tamen nihil in eis evenit contingenter, sed solum ex necessitate. Unde dicendum est quod possibilitas materiae ad utrumque, si communiter loquamur, non est sufficiens ratio contingentiae, nisi etiam addatur ex parte potentiae activae quod non sit omnino determinata ad unum; alioquin si ita sit determinata ad unum quod impediri non potest, consequens est quod ex necessitate reducat in actum potentiam passivam eodem modo.  Hoc igitur quidam attendentes posuerunt quod potentia, quae est in ipsis rebus naturalibus, sortitur necessitatem ex aliqua causa determinata ad unum quam dixerunt fatum. Quorum Stoici posuerunt fatum in quadam serie, seu connexione causarum, supponentes quod omne quod in hoc mundo accidit habet causam; causa autem posita, necesse est effectum poni. Et si una causa per se non sufficit, multae causae ad hoc concurrentes accipiunt rationem unius causae sufficientis; et ita concludebant quod omnia ex necessitate eveniunt.  Sed hanc rationem solvit Aristoteles in VI metaphysicae interimens utramque propositionum assumptarum. Dicit enim quod non omne quod fit habet causam, sed solum illud quod est per se. Sed illud quod est per accidens non habet causam; quia proprie non est ens, sed magis ordinatur cum non ente, ut etiam Plato dixit. Unde esse musicum habet causam, et similiter esse album; sed hoc quod est, album esse musicum, non habet causam: et idem est in omnibus aliis huiusmodi. Similiter etiam haec est falsa, quod posita causa etiam sufficienti, necesse est effectum poni: non enim omnis causa est talis (etiamsi sufficiens sit) quod eius effectus impediri non possit; sicut ignis est sufficiens causa combustionis lignorum, sed tamen per effusionem aquae impeditur combustio.  Si autem utraque propositionum praedictarum esset vera, infallibiliter sequeretur omnia ex necessitate contingere. Quia si quilibet effectus habet causam, esset effectum (qui est futurus post quinque dies, aut post quantumcumque tempus) reducere in aliquam causam priorem: et sic quousque esset devenire ad causam, quae nunc est in praesenti, vel iam fuit in praeterito; si autem causa posita, necesse est effectum poni, per ordinem causarum deveniret necessitas usque ad ultimum effectum. Puta, si comedit salsa, sitiet: si sitiet, exibit domum ad bibendum: si exibit domum, occidetur a latronibus. Quia ergo iam comedit salsa, necesse est eum occidi. Et ideo Aristoteles ad hoc excludendum ostendit utramque praedictarum propositionum esse falsam, ut dictum est.  Obiiciunt autem quidam contra hoc, dicentes quod omne per accidens reducitur ad aliquid per se, et ita oportet effectum qui est per accidens reduci in causam per se. Sed non attendunt quod id quod est per accidens reducitur ad per se, in quantum accidit ei quod est per se, sicut musicum accidit Socrati, et omne accidens alicui subiecto per se existenti. Et similiter omne quod in aliquo effectu est per accidens consideratur circa aliquem effectum per se: qui quantum ad id quod per se est habet causam per se, quantum autem ad id quod inest ei per accidens non habet causam per se, sed causam per accidens. Oportet enim effectum proportionaliter referre ad causam suam, ut in II physicorum et in V methaphysicae dicitur.  Quidam vero non attendentes differentiam effectuum per accidens et per se, tentaverunt reducere omnes effectus hic inferius provenientes in aliquam causam per se, quam ponebant esse virtutem caelestium corporum in qua ponebant fatum, dicentes nihil aliud esse fatum quam vim positionis syderum. Sed ex hac causa non potest provenire necessitas in omnibus quae hic aguntur. Multa enim hic fiunt ex intellectu et voluntate, quae per se et directe non subduntur virtuti caelestium corporum: cum enim intellectus sive ratio et voluntas quae est in ratione, non sint actus organi corporalis, ut probatur in libro de anima, impossibile est quod directe subdantur intellectus seu ratio et voluntas virtuti caelestium corporum: nulla enim vis corporalis potest agere per se, nisi in rem corpoream. Vires autem sensitivae in quantum sunt actus organorum corporalium per accidens subduntur actioni caelestium corporum. Unde philosophus in libro de anima opinionem ponentium voluntatem hominis subiici motui caeli adscribit his, qui non ponebant intellectum differre a sensu. Indirecte tamen vis caelestium corporum redundat ad intellectum et voluntatem, in quantum scilicet intellectus et voluntas utuntur viribus sensitivis. Manifestum autem est quod passiones virium sensitivarum non inferunt necessitatem rationi et voluntati. Nam continens habet pravas concupiscentias, sed non deducitur, ut patet per philosophum in VII Ethicorum. Sic igitur ex virtute caelestium corporum non provenit necessitas in his quae per rationem et voluntatem fiunt. Similiter nec in aliis corporalibus effectibus rerum corruptibilium, in quibus multa per accidens eveniunt. Id autem quod est per accidens non potest reduci ut in causam per se in aliquam virtutem naturalem, quia virtus naturae se habet ad unum; quod autem est per accidens non est unum; unde et supra dictum est quod haec enunciatio non est una, Socrates est albus musicus, quia non significat unum. Et ideo philosophus dicit in libro de somno et vigilia quod multa, quorum signa praeexistunt in corporibus caelestibus, puta in imbribus et tempestatibus, non eveniunt, quia scilicet impediuntur per accidens. Et quamvis illud etiam impedimentum secundum se consideratum reducatur in aliquam causam caelestem; tamen concursus horum, cum sit per accidens, non potest reduci in aliquam causam naturaliter agentem.  Sed considerandum est quod id quod est per accidens potest ab intellectu accipi ut unum, sicut album esse musicum, quod quamvis secundum se non sit unum, tamen intellectus ut unum accipit, in quantum scilicet componendo format enunciationem unam. Et secundum hoc contingit id, quod secundum se per accidens evenit et casualiter, reduci in aliquem intellectum praeordinantem; sicut concursus duorum servorum ad certum locum est per accidens et casualis quantum ad eos, cum unus eorum ignoret de alio; potest tamen esse per se intentus a domino, qui utrumque mittit ad hoc quod in certo loco sibi occurrant.  Et secundum hoc aliqui posuerunt omnia quaecumque in hoc mundo aguntur, etiam quae videntur fortuita vel casualia, reduci in ordinem providentiae divinae, ex qua dicebant dependere fatum. Et hoc quidem aliqui stulti negaverunt, iudicantes de intellectu divino ad modum intellectus nostri, qui singularia non cognoscit. Hoc autem est falsum: nam intelligere divinum et velle eius est ipsum esse ipsius. Unde sicut esse eius sua virtute comprehendit omne illud quod quocumque modo est, in quantum scilicet est per participationem ipsius; ita etiam suum intelligere et suum intelligibile comprehendit omnem cognitionem et omne cognoscibile; et suum velle et suum volitum comprehendit omnem appetitum et omne appetibile quod est bonum; ut, scilicet ex hoc ipso quod aliquid est cognoscibile cadat sub eius cognitione, et ex hoc ipso quod est bonum cadat sub eius voluntate: sicut ex hoc ipso quod est ens, aliquid cadit sub eius virtute activa, quam ipse perfecte comprehendit, cum sit per intellectum agens.   Sed si providentia divina sit per se causa omnium quae in hoc mundo accidunt, saltem bonorum, videtur quod omnia ex necessitate accidant. Primo quidem ex parte scientiae eius: non enim potest eius scientia falli; et ita ea quae ipse scit, videtur quod necesse sit evenire. Secundo ex parte voluntatis: voluntas enim Dei inefficax esse non potest; videtur ergo quod omnia quae vult, ex necessitate eveniant.  Procedunt autem hae obiectiones ex eo quod cognitio divini intellectus et operatio divinae voluntatis pensantur ad modum eorum, quae in nobis sunt, cum tamen multo dissimiliter se habeant.  Nam primo quidem ex parte cognitionis vel scientiae considerandum est quod ad cognoscendum ea quae secundum ordinem temporis eveniunt, aliter se habet vis cognoscitiva, quae sub ordine temporis aliqualiter continetur, aliter illa quae totaliter est extra ordinem temporis. Cuius exemplum conveniens accipi potest ex ordine loci: nam secundum philosophum in IV physicorum, secundum prius et posterius in magnitudine est prius et posterius in motu et per consequens in tempore. Si ergo sint multi homines per viam aliquam transeuntes, quilibet eorum qui sub ordine transeuntium continetur habet cognitionem de praecedentibus et subsequentibus, in quantum sunt praecedentes et subsequentes; quod pertinet ad ordinem loci. Et ideo quilibet eorum videt eos, qui iuxta se sunt et aliquos eorum qui eos praecedunt; eos autem qui post se sunt videre non potest. Si autem esset aliquis extra totum ordinem transeuntium, utpote in aliqua excelsa turri constitutus, unde posset totam viam videre, videret quidem simul omnes in via existentes, non sub ratione praecedentis et subsequentis (in comparatione scilicet ad eius intuitum), sed simul omnes videret, et quomodo unus eorum alium praecedit. Quia igitur cognitio nostra cadit sub ordine temporis, vel per se vel per accidens (unde et anima in componendo et dividendo necesse habet adiungere tempus, ut dicitur in III de anima), consequens est quod sub eius cognitione cadant res sub ratione praesentis, praeteriti et futuri. Et ideo praesentia cognoscit tanquam actu existentia et sensu aliqualiter perceptibilia; praeterita autem cognoscit ut memorata; futura autem non cognoscit in seipsis, quia nondum sunt, sed cognoscere ea potest in causis suis: per certitudinem quidem, si totaliter in causis suis sint determinata, ut ex quibus de necessitate evenient; per coniecturam autem, si non sint sic determinata quin impediri possint, sicut quae sunt ut in pluribus; nullo autem modo, si in suis causis sunt omnino in potentia non magis determinata ad unum quam ad aliud, sicut quae sunt ad utrumlibet. Non enim est aliquid cognoscibile secundum quod est in potentia, sed solum secundum quod est in actu, ut patet per philosophum in IX metaphysicae.  Sed Deus est omnino extra ordinem temporis, quasi in arce aeternitatis constitutus, quae est tota simul, cui subiacet totus temporis decursus secundum unum et simplicem eius intuitum; et ideo uno intuitu videt omnia quae aguntur secundum temporis decursum, et unumquodque secundum quod est in seipso existens, non quasi sibi futurum quantum ad eius intuitum prout est in solo ordine suarum causarum (quamvis et ipsum ordinem causarum videat), sed omnino aeternaliter sic videt unumquodque eorum quae sunt in quocumque tempore, sicut oculus humanus videt Socratem sedere in seipso, non in causa sua. Ex hoc autem quod homo videt Socratem sedere, non tollitur eius contingentia quae respicit ordinem causae ad effectum; tamen certissime et infallibiliter videt oculus hominis Socratem sedere dum sedet, quia unumquodque prout est in seipso iam determinatum est. Sic igitur relinquitur, quod Deus certissime et infallibiliter cognoscat omnia quae fiunt in tempore; et tamen ea quae in tempore eveniunt non sunt vel fiunt ex necessitate, sed contingenter.  Similiter ex parte voluntatis divinae differentia est attendenda. Nam voluntas divina est intelligenda ut extra ordinem entium existens, velut causa quaedam profundens totum ens et omnes eius differentias. Sunt autem differentiae entis possibile et necessarium; et ideo ex ipsa voluntate divina originantur necessitas et contingentia in rebus et distinctio utriusque secundum rationem proximarum causarum: ad effectus enim, quos voluit necessarios esse, disposuit causas necessarias; ad effectus autem, quos voluit esse contingentes, ordinavit causas contingenter agentes, idest potentes deficere. Et secundum harum conditionem causarum, effectus dicuntur vel necessarii vel contingentes, quamvis omnes dependeant a voluntate divina, sicut a prima causa, quae transcendit ordinem necessitatis et contingentiae. Hoc autem non potest dici de voluntate humana, nec de aliqua alia causa: quia omnis alia causa cadit iam sub ordine necessitatis vel contingentiae; et ideo oportet quod vel ipsa causa possit deficere, vel effectus eius non sit contingens, sed necessarius. Voluntas autem divina indeficiens est; tamen non omnes effectus eius sunt necessarii, sed quidam contingentes. Similiter autem aliam radicem contingentiae, quam hic philosophus ponit ex hoc quod sumus consiliativi, aliqui subvertere nituntur, volentes ostendere quod voluntas in eligendo ex necessitate movetur ab appetibili. Cum enim bonum sit obiectum voluntatis, non potest (ut videtur) ab hoc divertere quin appetat illud quod sibi videtur bonum; sicut nec ratio ab hoc potest divertere quin assentiat ei quod sibi videtur verum. Et ita videtur quod electio consilium consequens semper ex necessitate proveniat; et sic omnia, quorum nos principium sumus per consilium et electionem, ex necessitate provenient. Sed dicendum est quod similis differentia attendenda est circa bonum, sicut circa verum. Est autem quoddam verum, quod est per se notum, sicut prima principia indemonstrabilia, quibus ex necessitate intellectus assentit; sunt autem quaedam vera non per se nota, sed per alia. Horum autem duplex est conditio: quaedam enim ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod non possunt esse falsa, principiis existentibus veris, sicut sunt omnes conclusiones demonstrationum. Et huiusmodi veris ex necessitate assentit intellectus, postquam perceperit ordinem eorum ad principia, non autem prius. Quaedam autem sunt, quae non ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod possent esse falsa principiis existentibus veris; sicut sunt opinabilia, quibus non ex necessitate assentit intellectus, quamvis ex aliquo motivo magis inclinetur in unam partem quam in aliam. Ita etiam est quoddam bonum quod est propter se appetibile, sicut felicitas, quae habet rationem ultimi finis; et huiusmodi bono ex necessitate inhaeret voluntas: naturali enim quadam necessitate omnes appetunt esse felices. Quaedam vero sunt bona, quae sunt appetibilia propter finem, quae comparantur ad finem sicut conclusiones ad principium, ut patet per philosophum in II physicorum. Si igitur essent aliqua bona, quibus non existentibus, non posset aliquis esse felix, haec etiam essent ex necessitate appetibilia et maxime apud eum, qui talem ordinem perciperet; et forte talia sunt esse, vivere et intelligere et si qua alia sunt similia. Sed particularia bona, in quibus humani actus consistunt, non sunt talia, nec sub ea ratione apprehenduntur ut sine quibus felicitas esse non possit, puta, comedere hunc cibum vel illum, aut abstinere ab eo: habent tamen in se unde moveant appetitum, secundum aliquod bonum consideratum in eis. Et ideo voluntas non ex necessitate inducitur ad haec eligenda. Et propter hoc philosophus signanter radicem contingentiae in his quae fiunt a nobis assignavit ex parte consilii, quod est eorum quae sunt ad finem et tamen non sunt determinata. In his enim in quibus media sunt determinata, non est opus consilio, ut dicitur in III Ethicorum. Et haec quidem dicta sunt ad salvandum radices contingentiae, quas hic Aristoteles ponit, quamvis videantur logici negotii modum excedere. Postquam philosophus ostendit esse impossibilia ea, quae ex praedictis rationibus sequebantur; hic, remotis impossibilibus, concludit veritatem. Et circa hoc duo facit: quia enim argumentando ad impossibile, processerat ab enunciationibus ad res, et iam removerat inconvenientia quae circa res sequebantur; nunc, ordine converso, primo ostendit qualiter se habeat veritas circa res; secundo, qualiter se habeat veritas circa enunciationes; ibi: quare quoniam orationes verae sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter se habeant veritas et necessitas circa res absolute consideratas; secundo, qualiter se habeant circa eas per comparationem ad sua opposita; ibi: et in contradictione eadem ratio est et cetera.  Dicit ergo primo, quasi ex praemissis concludens, quod si praedicta sunt inconvenientia, ut scilicet omnia ex necessitate eveniant, oportet dicere ita se habere circa res, scilicet quod omne quod est necesse est esse quando est, et omne quod non est necesse est non esse quando non est. Et haec necessitas fundatur super hoc principium: impossibile est simul esse et non esse: si enim aliquid est, impossibile est illud simul non esse; ergo necesse est tunc illud esse. Nam impossibile non esse idem significat ei quod est necesse esse, ut in secundo dicetur. Et similiter, si aliquid non est, impossibile est illud simul esse; ergo necesse est non esse, quia etiam idem significant. Et ideo manifeste verum est quod omne quod est necesse est esse quando est; et omne quod non est necesse est non esse pro illo tempore quando non est: et haec est necessitas non absoluta, sed ex suppositione. Unde non potest simpliciter et absolute dici quod omne quod est, necesse est esse, et omne quod non est, necesse est non esse: quia non idem significant quod omne ens, quando est, sit ex necessitate, et quod omne ens simpliciter sit ex necessitate; nam primum significat necessitatem ex suppositione, secundum autem necessitatem absolutam. Et quod dictum est de esse, intelligendum est similiter de non esse; quia aliud est simpliciter ex necessitate non esse et aliud est ex necessitate non esse quando non est. Et per hoc videtur Aristoteles excludere id quod supra dictum est, quod si in his, quae sunt, alterum determinate est verum, quod etiam antequam fieret alterum determinate esset futurum.  Deinde cum dicit: et in contradictione etc., ostendit quomodo se habeant veritas et necessitas circa res per comparationem ad sua opposita: et dicit quod eadem ratio est in contradictione, quae est in suppositione. Sicut enim illud quod non est absolute necessarium, fit necessarium ex suppositione eiusdem, quia necesse est esse quando est; ita etiam quod non est in se necessarium absolute fit necessarium per disiunctionem oppositi, quia necesse est de unoquoque quod sit vel non sit, et quod futurum sit aut non sit, et hoc sub disiunctione: et haec necessitas fundatur super hoc principium quod, impossibile est contradictoria simul esse vera vel falsa. Unde impossibile est neque esse neque non esse; ergo necesse est vel esse vel non esse. Non tamen si divisim alterum accipiatur, necesse est illud esse absolute. Et hoc manifestat per exemplum: quia necessarium est navale bellum esse futurum cras vel non esse; sed non est necesse navale bellum futurum esse cras; similiter etiam non est necessarium non esse futurum, quia hoc pertinet ad necessitatem absolutam; sed necesse est quod vel sit futurum cras vel non sit futurum: hoc enim pertinet ad necessitatem quae est sub disiunctione.  Deinde cum dicit: quare quoniam etc. ex eo quod se habet circa res, ostendit qualiter se habeat circa orationes. Et primo, ostendit quomodo uniformiter se habet in veritate orationum, sicut circa esse rerum et non esse; secundo, finaliter concludit veritatem totius dubitationis; ibi: quare manifestum et cetera. Dicit ergo primo quod, quia hoc modo se habent orationes enunciativae ad veritatem sicut et res ad esse vel non esse (quia ex eo quod res est vel non est, oratio est vera vel falsa), consequens est quod in omnibus rebus quae ita se habent ut sint ad utrumlibet, et quaecumque ita se habent quod contradictoria eorum qualitercumque contingere possunt, sive aequaliter sive alterum ut in pluribus, ex necessitate sequitur quod etiam similiter se habeat contradictio enunciationum. Et exponit consequenter quae sint illae res, quarum contradictoria contingere queant; et dicit huiusmodi esse quae neque semper sunt, sicut necessaria, neque semper non sunt, sicut impossibilia, sed quandoque sunt et quandoque non sunt. Et ulterius manifestat quomodo similiter se habeat in contradictoriis enunciationibus; et dicit quod harum enunciationum, quae sunt de contingentibus, necesse est quod sub disiunctione altera pars contradictionis sit vera vel falsa; non tamen haec vel illa determinate, sed se habet ad utrumlibet. Et si contingat quod altera pars contradictionis magis sit vera, sicut accidit in contingentibus quae sunt ut in pluribus, non tamen ex hoc necesse est quod ex necessitate altera earum determinate sit vera vel falsa.  Deinde cum dicit: quare manifestum est etc., concludit principale intentum et dicit manifestum esse ex praedictis quod non est necesse in omni genere affirmationum et negationum oppositarum, alteram determinate esse veram et alteram esse falsam: quia non eodem modo se habet veritas et falsitas in his quae sunt iam de praesenti et in his quae non sunt, sed possunt esse vel non esse. Sed hoc modo se habet in utriusque, sicut dictum est, quia scilicet in his quae sunt necesse est determinate alterum esse verum et alterum falsum: quod non contingit in futuris quae possunt esse et non esse. Et sic terminatur primus liber. Postquam philosophus in primo libro determinavit de enunciatione simpliciter considerata; hic determinat de enunciatione, secundum quod diversificatur per aliquid sibi additum. Possunt autem tria in enunciatione considerari: primo, ipsae dictiones, quae praedicantur vel subiiciuntur in enunciatione, quas supra distinxit per nomina et verba; secundo, ipsa compositio, secundum quam est verum vel falsum in enunciatione affirmativa vel negativa; tertio, ipsa oppositio unius enunciationis ad aliam. Dividitur ergo haec pars in tres partes: in prima, ostendit quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad dictiones in subiecto vel praedicato positas; secundo, quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad determinandum veritatem vel falsitatem compositionis; ibi: his vero determinatis etc.; tertio, solvit quamdam dubitationem circa oppositiones enunciationum provenientem ex eo, quod additur aliquid simplici enunciationi; ibi: utrum autem contraria est affirmatio et cetera. Est autem considerandum quod additio facta ad praedicatum vel subiectum quandoque tollit unitatem enunciationis, quandoque vero non tollit, sicut additio negationis infinitantis dictionem. Circa primum ergo duo facit: primo, ostendit quid accidat enunciationibus ex additione negationis infinitantis dictionem; secundo, ostendit quid accidat circa enunciationem ex additione tollente unitatem; ibi: at vero unum de pluribus et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de enunciationibus simplicissimis, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur tantum ex parte subiecti; secundo, determinat de enunciationibus, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur non solum ex parte subiecti, sed etiam ex parte praedicati; ibi: quando autem est tertium adiacens et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit rationes quasdam distinguendi tales enunciationes; secundo, ponit earum distinctionem et ordinem; ibi: quare prima est affirmatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit rationes distinguendi enunciationes ex parte nominum; secundo, ostendit quod non potest esse eadem ratio distinguendi ex parte verborum; ibi: praeter verbum autem et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit rationes distinguendi enunciationes; secundo, exponit quod dixerat; ibi: nomen autem dictum est etc.; tertio, concludit intentum; ibi: erit omnis affirmatio et cetera.  Resumit ergo illud, quod supra dictum est de definitione affirmationis, quod scilicet affirmatio est enunciatio significans aliquid de aliquo; et, quia verbum est proprie nota eorum quae de altero praedicantur, consequens est ut illud, de quo aliquid dicitur, pertineat ad nomen; nomen autem est vel finitum vel infinitum; et ideo, quasi concludens subdit quod quia affirmatio significat aliquid de aliquo, consequens est ut hoc, de quo significatur, scilicet subiectum affirmationis, sit vel nomen, scilicet finitum (quod proprie dicitur nomen, ut in primo dictum est), vel innominatum, idest infinitum nomen: quod dicitur innominatum, quia ipsum non nominat aliquid cum aliqua forma determinata, sed solum removet determinationem formae. Et ne aliquis diceret quod id quod in affirmatione subiicitur est simul nomen et innominatum, ad hoc excludendum subdit quod id quod est, scilicet praedicatum, in affirmatione, scilicet una, de qua nunc loquimur, oportet esse unum et de uno subiecto; et sic oportet quod subiectum talis affirmationis sit vel nomen, vel nomen infinitum.  Deinde cum dicit: nomen autem etc., exponit quod dixerat, et dicit quod supra dictum est quid sit nomen, et quid sit innominatum, idest infinitum nomen: quia, non homo, non est nomen, sed est infinitum nomen, sicut, non currit, non est verbum, sed infinitum verbum. Interponit autem quoddam, quod valet ad dubitationis remotionem, videlicet quod nomen infinitum quodam modo significat unum. Non enim significat simpliciter unum, sicut nomen finitum, quod significat unam formam generis vel speciei aut etiam individui, sed in quantum significat negationem formae alicuius, in qua negatione multa conveniunt, sicut in quodam uno secundum rationem. Unum enim eodem modo dicitur aliquid, sicut et ens; unde sicut ipsum non ens dicitur ens, non quidem simpliciter, sed secundum quid, idest secundum rationem, ut patet in IV metaphysicae, ita etiam negatio est unum secundum quid, scilicet secundum rationem. Introducit autem hoc, ne aliquis dicat quod affirmatio, in qua subiicitur nomen infinitum, non significet unum de uno, quasi nomen infinitum non significet unum.  Deinde cum dicit: erit omnis affirmatio etc., concludit propositum scilicet quod duplex est modus affirmationis. Quaedam enim est affirmatio, quae constat ex nomine et verbo; quaedam autem est quae constat ex infinito nomine et verbo. Et hoc sequitur ex hoc quod supra dictum est quod hoc, de quo affirmatio aliquid significat, vel est nomen vel innominatum. Et eadem differentia potest accipi ex parte negationis, quia de quocunque contingit affirmare, contingit et negare, ut in primo habitum est.  Deinde cum dicit: praeter verbum etc., ostendit quod differentia enunciationum non potest sumi ex parte verbi. Dictum est enim supra quod, praeter verbum nulla est affirmatio vel negatio. Potest enim praeter nomen esse aliqua affirmatio vel negatio, videlicet si ponatur loco nominis infinitum nomen: loco autem verbi in enunciatione non potest poni infinitum verbum, duplici ratione. Primo quidem, quia infinitum verbum constituitur per additionem infinitae particulae, quae quidem addita verbo per se dicto, idest extra enunciationem posito, removet ipsum absolute, sicut addita nomini, removet formam nominis absolute: et ideo extra enunciationem potest accipi verbum infinitum per modum unius dictionis, sicut et nomen infinitum. Sed quando negatio additur verbo in enunciatione posito, negatio illa removet verbum ab aliquo, et sic facit enunciationem negativam: quod non accidit ex parte nominis. Non enim enunciatio efficitur negativa nisi per hoc quod negatur compositio, quae importatur in verbo: et ideo verbum infinitum in enunciatione positum fit verbum negativum. Secundo, quia in nullo variatur veritas enunciationis, sive utamur negativa particula ut infinitante verbum vel ut faciente negativam enunciationem; et ideo accipitur semper in simpliciori intellectu, prout est magis in promptu. Et inde est quod non diversificavit affirmationem per hoc, quod sit ex verbo vel infinito verbo, sicut diversificavit per hoc, quod est ex nomine vel infinito nomine. Est autem considerandum quod in nominibus et in verbis praeter differentiam finiti et infiniti est differentia recti et obliqui. Casus enim nominum, etiam verbo addito, non constituunt enunciationem significantem verum vel falsum, ut in primo habitum est: quia in obliquo nomine non concluditur ipse rectus, sed in casibus verbi includitur ipsum verbum praesentis temporis. Praeteritum enim et futurum, quae significant casus verbi, dicuntur per respectum ad praesens. Unde si dicatur, hoc erit, idem est ac si diceretur, hoc est futurum; hoc fuit, hoc est praeteritum. Et propter hoc, ex casu verbi et nomine fit enunciatio. Et ideo subiungit quod sive dicatur est, sive erit, sive fuit, vel quaecumque alia huiusmodi verba, sunt de numero praedictorum verborum, sine quibus non potest fieri enunciatio: quia omnia consignificant tempus, et alia tempora dicuntur per respectum ad praesens.  Deinde cum dicit: quare prima erit affirmatio etc., concludit ex praemissis distinctionem enunciationum in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, in quibus triplex differentia intelligi potest: una quidem, secundum affirmationem et negationem; alia, secundum subiectum finitum et infinitum; tertia, secundum subiectum universaliter, vel non universaliter positum. Nomen autem finitum est ratione prius infinito sicut affirmatio prior est negatione; unde primam affirmationem ponit, homo est, et primam negationem, homo non est. Deinde ponit secundam affirmationem, non homo est, secundam autem negationem, non homo non est. Ulterius autem ponit illas enunciationes in quibus subiectum universaliter ponitur, quae sunt quatuor, sicut et illae in quibus est subiectum non universaliter positum. Praetermisit autem ponere exemplum de enunciationibus, in quibus subiicitur singulare, ut, Socrates est, Socrates non est, quia singularibus nominibus non additur aliquod signum. Unde in huiusmodi enunciationibus non potest omnis differentia inveniri. Similiter etiam praetermittit exemplificare de enunciationibus, quarum subiecta particulariter ponuntur, quia tale subiectum quodammodo eamdem vim habet cum subiecto universali, non universaliter sumpto. Non ponit autem aliquam differentiam ex parte verbi, quae posset sumi secundum casus verbi, quia sicut ipse dicit, in extrinsecis temporibus, idest in praeterito et in futuro, quae circumstant praesens, est eadem ratio sicut et in praesenti, ut iam dictum est. Postquam philosophus distinxit enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, hic accedit ad distinguendum illas enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur ex parte subiecti et ex parte praedicati. Et circa hoc duo facit; primo, distinguit huiusmodi enunciationes; secundo, manifestat quaedam quae circa eas dubia esse possent; ibi: quoniam vero contraria est et cetera. Circa primum duo facit: primo, agit de enunciationibus in quibus nomen praedicatur cum hoc verbo, est; secundo de enunciationibus in quibus alia verba ponuntur; ibi: in his vero in quibus et cetera. Distinguit autem huiusmodi enunciationes sicut et primas, secundum triplicem differentiam ex parte subiecti consideratam: primo namque, agit de enunciationibus in quibus subiicitur nomen finitum non universaliter sumptum; secundo de illis in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum; ibi: similiter autem se habent etc.; tertio, de illis in quibus subiicitur nomen infinitum; ibi: aliae autem habent ad id quod est non homo et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit diversitatem oppositionis talium enunciationum; secundo, concludit earum numerum et ponit earum habitudinem; ibi: quare quatuor etc.; tertio, exemplificat; ibi: intelligimus vero et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exponit quoddam quod dixerat; ibi: dico autem et cetera. Circa primum duo oportet intelligere: primo quidem, quid est hoc quod dicit, est tertium adiacens praedicatur. Ad cuius evidentiam considerandum est quod hoc verbum est quandoque in enunciatione praedicatur secundum se; ut cum dicitur, Socrates est: per quod nihil aliud intendimus significare, quam quod Socrates sit in rerum natura. Quandoque vero non praedicatur per se, quasi principale praedicatum, sed quasi coniunctum principali praedicato ad connectendum ipsum subiecto; sicut cum dicitur, Socrates est albus, non est intentio loquentis ut asserat Socratem esse in rerum natura, sed ut attribuat ei albedinem mediante hoc verbo, est; et ideo in talibus, est, praedicatur ut adiacens principali praedicato. Et dicitur esse tertium, non quia sit tertium praedicatum, sed quia est tertia dictio posita in enunciatione, quae simul cum nomine praedicato facit unum praedicatum, ut sic enunciatio dividatur in duas partes et non in tres.  Secundo, considerandum est quid est hoc, quod dicit quod quando est, eo modo quo dictum est, tertium adiacens praedicatur, dupliciter dicuntur oppositiones. Circa quod considerandum est quod in praemissis enunciationibus, in quibus nomen ponebatur solum ex parte subiecti, secundum quodlibet subiectum erat una oppositio; puta si subiectum erat nomen finitum non universaliter sumptum, erat sola una oppositio, scilicet est homo, non est homo. Sed quando est tertium adiacens praedicatur, oportet esse duas oppositiones eodem subiecto existente secundum differentiam nominis praedicati, quod potest esse finitum vel infinitum; sicut haec est una oppositio, homo est iustus, homo non est iustus: alia vero oppositio est, homo est non iustus, homo non est non iustus. Non enim negatio fit nisi per appositionem negativae particulae ad hoc verbum est, quod est nota praedicationis.  Deinde cum dicit: dico autem, ut est iustus etc., exponit quod dixerat, est tertium adiacens, et dicit quod cum dicitur, homo est iustus, hoc verbum est, adiacet, scilicet praedicato, tamquam tertium nomen vel verbum in affirmatione. Potest enim ipsum est, dici nomen, prout quaelibet dictio nomen dicitur, et sic est tertium nomen, idest tertia dictio. Sed quia secundum communem usum loquendi, dictio significans tempus magis dicitur verbum quam nomen, propter hoc addit, vel verbum, quasi dicat, ad hoc quod sit tertium, non refert utrum dicatur nomen vel verbum.  Deinde cum dicit: quare quatuor erunt etc., concludit numerum enunciationum. Et primo, ponit conclusionem numeri; secundo, ponit earum habitudinem; ibi: quarum duae quidem etc.; tertio, rationem numeri explicat; ibi: dico autem quoniam est et cetera. Dicit ergo primo quod quia duae sunt oppositiones, quando est tertium adiacens praedicatur, cum omnis oppositio sit inter duas enunciationes, consequens est quod sint quatuor enunciationes illae in quibus est, tertium adiacens, praedicatur, subiecto finito non universaliter sumpto. Deinde cum dicit: quarum duae quidem etc., ostendit habitudinem praedictarum enunciationum ad invicem; et dicit quod duae dictarum enunciationum se habent ad affirmationem et negationem secundum consequentiam, sive secundum correlationem, aut analogiam, ut in Graeco habetur, sicut privationes; aliae vero duae minime. Quod quia breviter et obscure dictum est, diversimode a diversis expositum est.  Ad cuius evidentiam considerandum est quod tripliciter nomen potest praedicari in huiusmodi enunciationibus. Quandoque enim praedicatur nomen finitum, secundum quod assumuntur duae enunciationes, una affirmativa et altera negativa, scilicet homo est iustus, et homo non est iustus; quae dicuntur simplices. Quandoque vero praedicatur nomen infinitum, secundum quod etiam assumuntur duae aliae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus; quae dicuntur infinitae. Quandoque vero praedicatur nomen privativum, secundum quod etiam sumuntur duae aliae, scilicet homo est iniustus, homo non est iniustus; quae dicuntur privativae. Quidam ergo sic exposuerunt, quod duae enunciationes earum, quas praemiserat scilicet illae, quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et negationem, quae sunt de praedicato finito secundum consequentiam vel analogiam, sicut privationes, idest sicut illae, quae sunt de praedicato privativo. Illae enim duae, quae sunt de praedicato infinito, se habent secundum consequentiam ad illas, quae sunt de finito praedicato secundum transpositionem quandam, scilicet affirmatio ad negationem et negatio ad affirmationem. Nam homo est non iustus, quae est affirmatio de infinito praedicato, respondet secundum consequentiam negativae de praedicato finito, huic scilicet homo non est iustus. Negativa vero de infinito praedicato, scilicet homo non est non iustus, affirmativae de finito praedicato, huic scilicet homo est iustus. Propter quod Theophrastus vocabat eas, quae sunt de infinito praedicato, transpositas. Et similiter etiam affirmativa de privativo praedicato respondet secundum consequentiam negativae de finito praedicato, scilicet haec, homo est iniustus, ei quae est, homo non est iustus. Negativa vero affirmativae, scilicet haec, homo non est iniustus, ei quae est, homo est iustus. Disponatur ergo in figura. Et in prima quidem linea ponantur illae, quae sunt de finito praedicato, scilicet homo est iustus, homo non est iustus. In secunda autem linea, negativa de infinito praedicato sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa. In tertia vero, negativa de privativo praedicato similiter sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa: ut patet in subscripta figura.Sic ergo duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et negationem de finito praedicato, sicut privationes, idest sicut illae quae sunt de privativo praedicato. Sed duae aliae quae sunt de infinito subiecto, scilicet non homo est iustus, non homo non est iustus, manifestum est quod non habent similem consequentiam. Et hoc modo exposuit herminus hoc quod dicitur, duae vero, minime, referens hoc ad illas quae sunt de infinito subiecto. Sed hoc manifeste est contra litteram. Nam cum praemisisset quatuor enunciationes, duas scilicet de finito praedicato et duas de infinito, subiungit quasi illas subdividens, quarum duae quidem et cetera. Duae vero, minime; ubi datur intelligi quod utraeque duae intelligantur in praemissis. Illae autem quae sunt de infinito subiecto non includuntur in praemissis, sed de his postea dicetur. Unde manifestum est quod de eis nunc non loquitur.  Et ideo, ut Ammonius dicit, alii aliter exposuerunt, dicentes quod praedictarum quatuor propositionum duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, sic se habent ad affirmationem et negationem, idest ad ipsam speciem affirmationis et negationis, ut privationes, idest ut privativae affirmationes seu negationes. Haec enim affirmatio, homo est non iustus, non est simpliciter affirmatio, sed secundum quid, quasi secundum privationem affirmatio; sicut homo mortuus non est homo simpliciter, sed secundum privationem; et idem dicendum est de negativa, quae est de infinito praedicato. Duae vero, quae sunt de finito praedicato, non se habent ad speciem affirmationis et negationis secundum privationem, sed simpliciter. Haec enim, homo est iustus, est simpliciter affirmativa, et haec, homo non est iustus, est simpliciter negativa. Sed nec hic sensus convenit verbis Aristotelis. Dicit enim infra: haec igitur quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt disposita; ubi nihil invenitur ad hunc sensum pertinens. Et ideo Ammonius ex his, quae in fine I priorum dicuntur de propositionibus, quae sunt de finito vel infinito vel privativo praedicato, alium sensum accipit.  [Ad cuius evidentiam considerandum est quod, sicut ipse dicit, enunciatio aliqua virtute se habet ad illud, de quo totum id quod in enunciatione significatur vere praedicari potest: sicut haec enunciatio, homo est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere potest dici quod est homo iustus; et similiter haec enunciatio, homo non est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere dici potest quod non est homo iustus. Secundum ergo hunc modum loquendi, manifestum est quod simplex negativa in plus est quam affirmativa infinita, quae ei correspondet. Nam, quod sit homo non iustus, vere potest dici de quolibet homine, qui non habet habitum iustitiae; sed quod non sit homo iustus, potest dici non solum de homine non habente habitum iustitiae, sed etiam de eo qui penitus non est homo: haec enim est vera, lignum non est homo iustus; tamen haec est falsa, lignum est homo non iustus. Et ita negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita; sicut etiam animal est in plus quam homo, quia de pluribus verificatur. Simili etiam ratione, negativa simplex est in plus quam affirmativa privativa: quia de eo quod non est homo non potest dici quod sit homo iniustus. Sed affirmativa infinita est in plus quam affirmativa privativa: potest enim dici de puero et de quocumque homine nondum habente habitum virtutis aut vitii quod sit homo non iustus, non tamen de aliquo eorum vere dici potest quod sit homo iniustus. Affirmativa vero simplex in minus est quam negativa infinita: quia quod non sit homo non iustus potest dici non solum de homine iusto, sed etiam de eo quod penitus non est homo. Similiter etiam negativa privativa in plus est quam negativa infinita. Nam, quod non sit homo iniustus, potest dici non solum de homine habente habitum iustitiae, sed de eo quod penitus non est homo, de quorum quolibet potest dici quod non sit homo non iustus: sed ulterius potest dici de omnibus hominibus, qui nec habent habitum iustitiae neque habent habitum iniustitiae.  His igitur visis, facile est exponere praesentem litteram hoc modo. Quarum, scilicet quatuor enunciationum praedictarum, duae quidem, scilicet infinitae, se habebunt ad affirmationem et negationem, idest ad duas simplices, quarum una est affirmativa et altera negativa, secundum consequentiam, idest in modo consequendi ad eas, ut privationes, idest sicut duae privativae: quia scilicet, sicut ad simplicem affirmativam sequitur negativa infinita, et non convertitur (eo quod negativa infinita est in plus), ita etiam ad simplicem affirmativam sequitur negativa privativa, quae est in plus, et non convertitur. Sed sicut simplex negativa sequitur ad infinitam affirmativam; quae est in minus, et non convertitur; ita etiam negativa simplex sequitur ad privativam affirmativam, quae est in minus, et non convertitur. Ex quo patet quod eadem est habitudo in consequendo infinitarum ad simplices quae est etiam privativarum.  Sequitur, duae autem, scilicet simplices, quae relinquuntur, remotis duabus, scilicet infinitis, a quatuor praemissis, minime, idest non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad eas; quia videlicet, ex una parte simplex affirmativa est in minus quam negativa infinita, sed negativa privativa est in plus quam negativa infinita: ex alia vero parte, negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita, sed affirmativa privativa est in minus quam infinita affirmativa. Sic ergo patet quod simplices non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad infinitas.  Quamvis autem secundum hoc littera philosophi subtiliter exponatur, tamen videtur esse aliquantulum expositio extorta. Nam littera philosophi videtur sonare diversas habitudines non esse attendendas respectu diversorum; sicut in praedicta expositione primo accipitur similitudo habitudinis ad simplices, et postea dissimilitudo habitudinis respectu infinitarum. Et ideo simplicior et magis conveniens litterae Aristotelis est expositio Porphyrii quam Boethius ponit; secundum quam expositionem attenditur similitudo et dissimilitudo secundum consequentiam affirmativarum ad negativas. Unde dicit: quarum, scilicet quatuor praemissarum, duae quidem, scilicet affirmativae, quarum una est simplex et alia infinita, se habebunt secundum consequentiam ad affirmationem et negationem; ut scilicet ad unam affirmativam sequatur alterius negativa. Nam ad affirmativam simplicem sequitur negativa infinita; et ad affirmativam infinitam sequitur negativa simplex. Duae vero, scilicet negativae, minime, idest non ita se habent ad affirmativas, ut scilicet ex negativis sequantur affirmativae, sicut ex affirmativis sequebantur negativae. Et quantum ad utrumque similiter se habent privativae sicut infinitae.  Deinde cum dicit: dico autem quoniam etc., manifestat quoddam quod supra dixerat, scilicet quod sint quatuor praedictae enunciationes: loquimur enim nunc de enunciationibus, in quibus hoc verbum est solum praedicatur secundum quod est adiacens alicui nomini finito vel infinito: puta secundum quod adiacet iusto; ut cum dicitur, homo est iustus, vel secundum quod adiacet non iusto; ut cum dicitur, homo est non iustus. Et quia in neutra harum negatio apponitur ad verbum, consequens est quod utraque sit affirmativa. Omni autem affirmationi opponitur negatio, ut supra in primo ostensum est. Relinquitur ergo quod praedictis duabus enunciationibus affirmativis respondet duae aliae negativae. Et sic consequens est quod sint quatuor simplices enunciationes. Deinde cum dicit: intelligimus vero etc., manifestat quod supra dictum est per quandam figuralem descriptionem. Dicit enim quod id, quod in supradictis dictum est, intelligi potest ex sequenti subscriptione. Sit enim quaedam quadrata figura, in cuius uno angulo describatur haec enunciatio, homo est iustus, et ex opposito describatur eius negatio quae est, homo non est iustus; sub quibus scribantur duae aliae infinitae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus. In qua descriptione apparet quod hoc verbum est, affirmativum vel negativum, adiacet iusto et non iusto. Et secundum hoc diversificantur quatuor enunciationes.  Ultimo autem concludit quod praedictae enunciationes disponuntur secundum ordinem consequentiae, prout dictum est in resolutoriis, idest in I priorum. Alia littera habet: dico autem, quoniam est aut homini aut non homini adiacebit, et in figura, est, hoc loco homini et non homini adiacebit. Quod quidem non est intelligendum, ut homo, et non homo accipiatur ex parte subiecti, non enim nunc agitur de enunciationibus quae sunt de infinito subiecto. Unde oportet quod homo et non homo accipiantur ex parte praedicati. Sed quia philosophus exemplificat de enunciationibus in quibus ex parte praedicati ponitur iustum et non iustum, visum est Alexandro, quod praedicta littera sit corrupta. Quibusdam aliis videtur quod possit sustineri et quod signanter Aristoteles nomina in exemplis variaverit, ut ostenderet quod non differt in quibuscunque nominibus ponantur exempla. BOEZIO. COMMENTARII in LIBRUM ARISTOTELIS IIEPI EPMHNEIAS RECENSUIT CAROLUS MEISER. PARS POSTERIOR SECUNDAM EDITIONEM ET INDICES CONTINENS. CHE T HILLr L,v-LIPSIAE IN AEDIBUS B. G. TEUBNERI. LIPSIAE: B. G. TETJBNERI. In secundae editionis textu recensendo lii libri manu scripti mihi praesto fuerunt: S codex (Salisb. 10) bibliothecae Palatinae Vindobonensis (Endlicheri) qui continet f. 1— 8V versionem continue scriptam libri Aristotelici itEQi EQiirjvecag, quam littera 2J signavi, deinde f. 9— 176v sex libros Boetii commentariorum. F codex (Frisingensis 166) Monacensis 6366  s. XI  et  X:  vetustior  manus  s.  X  incipit  a  f. 33  (p.  352  editionis  Basileensis  = p. 171 nostrae editionis). T codex (Tegernseensis 479) Monacensis 18479 s. XI, qui f. 1 56v priorem editionem expositionis BOEZIO, f. 57v—65v versionem continuam, quam 1. % signavi, f. 66v191 secundam editionem complectitur. E  codex  (Ratisb.  S.  Emm.  582)  Monacensis  14582  s. XI. Praeter hos quattuor codices, quorum plenam  scripturae discrepantiam studio legentium proposui, hi quattuor alii libri a  mehic aut illic inspecti et difficilioribus locis excussi sunt: X codex Einsidlensis  301 s. X, in quo non pauca desiderantur: nam desunt  p. 371, 17  huius  editionis  conposita  378, 6 sit, 395, 21 possibile 410, 17 non necessarium, postremo  desinit  in  verba  p.  417,  19  de  contingenti  et  de  possi  (sic),  ut  finis  quinti  et  sextus  liber  totus  perierit. J  codex  Einsidlensis  295  s.  XI. IV PRAEFATIO. G  codex  Sangallensis  830  s.  XI.   B  codex  Bernensis  332  s. XII,  in  quo desunt p. 383, 1  ut  in  eo  —  434,  3  et  dicit. Hos omnes  codices  ex  uno  eodemque  fonte  fluxisse  inde  apparet,  quod  eaedem  in  omnibus  lacunae,  eaedem  interpolationes,  eadem  vitiorum  genera  deprehenduntur,  et  de  lacunis  quidem  conferas: p. 70, 15. 161, 18. 208, 22. 288, 7. 382, 8. 432, 9, praeterea p. 126, 8. 267, 12. 290, 18. 312, 14. 341, 3. 447, 9. 482, 14. 489, 7, de interpolationibus autem — 13. iisdem vero cunctos vitiis foedatos esse ut demonstrem, satis erit  unum  aut  alterum  ex  plurimis  passim  obviis  proferre  exemplum,  nam  et  p.  361,  ubi  Peripatetica  interrogationis  divisio  proditur,  cum  in  codicibus  nostris  v.  8  sqq.  legatur:  'non dialecticae autem interrogationis duae sunt species, sicut audivimus docet 5, manifestum est pro vocabulo corrupto audivimus 5 Eu de mus restituendum fuisse et p. 324,  23 quin recte scripserim: ad tenacioris memoriae subsidium 5, cum codices inperversa scriptione  t  elatior is consentiant, quis est qui dubitet? confer praeterea p.237, 25 28  locum illum in omnibus aequaliter libris turbatum. Pro fundamento autem textus constituendi codicem S habui,  omnium longe praestantissimum, qui non raro ceteris fidelius verae scripturae vestigia servaverit, confer e. c. p.  500, 9, ubi huius codicis lectio a bonum 5 propius ad verum ad unum 5 accedit quam reliquorum ad bonum 5, hoc unum dolendum est, quod a correctore quodam, quamquam multa emendata sunt, tamen ipsis locis difficillimis ita rasuris depravatus est, ut quid primitus in eo scriptum fuerit saepe dinosci non possit, nec tamen multum  interest, cum propter similitudinem ceterorum codicum fere semper quid S habuerit ex aliis suspicari liceat. V Codici S plerumque consentit F, nisi quod in hoc librarius interdum pravo varietatis studio et verba transposuisse et pro solitis rariora vocabula inculcasse videtur, nam cum hic codex  p. 395, 20 pro voce  Socratem mire elimannum posueri, quod aperte falsum est, iure in dubium vocari potest, num recte aliis locis hunc codicem solum contra ceterorum consensum secutus sim. quare hos locos notare velim et quid F habeat, quid ceteri adscribam:  F ceterip.  195,  21 autumant putant 208,  25 itidem similiter 212, 17  infit  dicit   223, 1 potiores meliores   246,  20  itidem similiter. Ad S et  F libros optimos proxime accedit  E, et ipse optimae notae idemque  pulcherrime  et  diligentissime  scriptus,  a  secunda  manu  et  in  S  (=  S2)  et  in  E  (=  E2),  rarius  in  F  (=  F2)  multa egregie sunt emendata. N J G et ipsi in optimis numerandi sunt et intima cognation cum  S  F  E  coniuncti,  sed vix quidquam novi ex iis elicitur, quod non in ceteris reperiatur.  Minus fidei codici  T tribuendum  est, quippe qui fere semper cum secunda manu codicis G  (=  G2)  consentiat,  ut quae  in  G  supra  lineam  vel  in  margine  leguntur  in  T  in  textum  irrepserint,  quare  nec  interpolationibus  vacat  et  variae  lectiones  promiscue  iuxta  positae  inveniuntur,  sunt  tamen  quae  in  hoc  codice  melius  quam  in  ceteris  servata  videantur. Minimae  auctoritatis  et  omnium  deterrimus  est  codex  B  (plerumque  =  E2),  qui  pauca  emendavit,  plurima  demendo  addendo  mutando  turbavit  ac  miscuit.   Ut  in  prima,  sic  in  secunda  editione  lemmata  non  plenum  Aristotelis  textum  exhibent,  sed  pauciora  in  secunda  editione  desiderantur,  quorum  quaedam  in  E   Boetii  comment.  II.  a**VI PRAEFATIO. a  secunda  manu  in  margine  et  in  B  sunt  addita,  ceteram  B  saepius  prima  tantum  et  postrema  Aristotelis  verba  expositioni  BOEZIO praemittit,  quae  vocula  'usque5  (vel  'reliqua  usque5)  iunguntur  (cf.  p.  227,  13  —  26). De versione BOZIO ana libri Aristoteliei  Ttegi  eQ[ir}-  vaiccg eiusque a nostro Aristotelis textu discrepantia in Fleckeiseni annal. vol. CXVII . 247 — 253 (a.  1878)  disputavi.   Monachii  mense  Martio  a.  MDCCCLXXX.    Car.  Meiser. Boezio. IH LIBRVM ARISTOTELIS nEPI EPMHNEIAS  COMMENTARII. SECVNDA EDITIO. Boetii comment.  II.   .    S = codex (Salisb. n. 10) Vindobonensis n. 80.  ( E — praemissa  translatio).  F  =  codex  (Frisingensis  n.  166)  Monacensis  n.  6366.   T  =  codex  (Tegernseensis  n.  479)  Monacensis  n. 18479. (X  =  praemissa  translatio).   E  =  codex  (Ratisb.  S.  Emm.  n.  582)  Monacensis  n.  14582.  N  = codex  Einsidlensis  n. 301.  J  =  codex  Einsidlensis  n.  295.   G  =  codex  Sangallensis  n.  830.  B  =  codex  Bernensis  n.  332.  b  =  editio  Basileensis  a.  1570. BOEZIO COMMENTARIORVM  IN  LIBRVM  ARISTOTELIS  IIEPI  EPMHNEIA2   SECVNDAE  EDITIONIS   LIBER  PRIMYS.  Alexander in commentariis suis hac se inpulsum causa pronuntiat sumpsisse longissimum expositionis laborem, quod in multis ille a priorum scriptorum sententiis dissideret: mihi maior persequendi operis  causa est, quod non facile quisquam vel transferendi vel etiam commentandi continuam sumpserit seriem, nisi  quod Vetius Praetextatus priores  BOEZIO VIRI ILLVSTRIS EX CONSVLV ORDINE  (CONS  ORD F) IN PERIERMENIAS ARISTOTOLIS (ARESTOTELIS F) EDITIONIS SECVNDAE  LIBER I INCIPIT. SF  A-M-S-B-  SECVNDA AEDITIO  IN LIBRVM PERI HERMENIAS INCIPIT. GT  BOEZIO VIRI  ILL AEDITIONIS  SCDAE  IN PERIERMENIAS  ARIST-  LIB  I INCIPIT.  J  BOEZIO VIRI CLARISSIMI ET ILLVSTRIS EX CONSVLARI ORDINE  PATRICII SCDAE EDITIONIS  EXPO SITIONV IN ARISTOTELIS PERIHERMENIAS INCIPIT  LIBER I  E titulum om. NB  1 Alexander  —  longissimum  om. N 2 longissimg  T 4  dissidet  F 6  etiam  om.  F  1*  ed.Bas 5\ 4  SECVNDA  EDITIO postremosque  analyticos non vertendo Aristotelem LATINO SERMONE tradidit, sed transferendo Themistium, quod qui utrosque legit facile intellegit. ALBINO quoque de isdem rebus  scripsisse perhibetur, cuius ego geometricos quidem libros editos scio, de  DIALECTICA uero diu multumque  quaesitos reperire non valui, sive igitur ille omnino tacuit, nos praetermissa dicemus, sive aliquid scripsit, nos  quoque docti viri imitati studium in eadem laude versabimur. sed quamquam multa sint Aristotelis, quae SUBTILISSIMA PHILOSOPHIAE arte celata sint, hic tamen ante omnia liber nimis et acumine sententiarum et verborum brevitate constrictus est.  quocirca plus hic quam in X praedicamentis expositione sudabitur. Prius igitur quid  VOX sit definiendum est. hoc enim perspicuo et manifesto omnis libri patefiet intentio. VOX est aeris per linguam percussio, quae per quasdam gutturis partes, quae arteriae vocantur, ab animali profertur,  sunt enim quidam alii  SONI,  qui eodem perficiuntur flatu, quos lingua non percutit, ut est tussis, haec enim flatu fit quodam per arterias egrediente, sed nulla linguae inpressione formatur atque ideo nec ullis subiacet elementis, scribi enim nullo modo potest, quocirca vox haec non dicitur, sed tantum sonus, illa quoque potest esse definitio vocis, ut eam dicamus SONUM esse cum quadam imaginatione SIGNIFICAND, vox namque cum emittitur, SIGNIFICATIONIS alicuius causa profertur,  tussis  vero cum sonus sit, nullius SIGNIFICATIONIS causa  subrepit  3 Qu§ qui  T 4  eisdem E 5  ergo  T  6  repp.   sic  semper  codices  7  omnino  ille  T  12  nimis  tacumine  T  16  omnis  om.  F  17  intentio  de  voce  SG-J  et  in  marg.  T  definitio  vocis  E  diff  vocis  F2  19  guturis  F  29  alicuius  —  SIGNIFICATIONIS  G2  in  marg.  tusis  F  30  subripit  S  surripit  GT    I. 5 potius quam profertur, quare quoniam noster flatus ita sese habet, ut si ita percutitur atque formatur, ut eum lingua percutiat, vox sit: si ita percutiat, ut terminato quodam et circumscripto sono vox exeat, LOCUTIO fit quae Graece dicitur  Xs%ig. locutio enim est ARTICULATA VOX  (neque enim hunc sermonem id est  Xe%iv  dictionem  dicemus, idcirco quod  cpccGiv  dictionem  interpretamur,  Xi%iv  vero locutionem),  cuius  locutionis  partes  sunt litterae,  quae cum iunctae fuerint, unam efficiunt vocem coniunctam conpositamque, quae locutio praedicatur. sive autem aliquid quaecumque vox SIGNIFICET,  ut  est  hic  sermo  “homo”,  sive omnino nihil, sive positum alicui nomen SIGNIFICARE possit,  ut  est  “HLITYRI” (haec enim vox per se cum  nihil SIGNIFICET, posita tamen ut alicui nomen  sit  SIGNIFICABIT),  sive per se quidem nihil SIGNIFICET, cum aliis vero iuncta designet, ut sunt coniunctiones:  haec omnia locutiones vocantur, ut sit propria locutionis forma vox conposita quae litteris describatur, ut igitur sit  locutio, voce opus est id est eo sono quem percutit lingua, ut et vox ipsa sit per linguam determinata in eum sonum qui inscribi litteris possit, sed ut haec locutio SIGNIFICATIVA  sit,  illud quoque addi oportet, ut sit aliqua  significandi imaginatio, per quam id quod in voce vel in locutione est proferatur: ut certe ita dicendum sit: si  in  hoc flatu, quem per arterias emittimus, sit linguae sola percussio, vox est; sin vero talis percussio sit, ut in litteras  redigat sonum, locutio; quod si vis quoque quaedam imaginationis  adda-   1 quoniam  dei. S2  om.  F  2  percutitur  atque  formatur  g2p2g2g.  percuti  atq.  formari  SFEN,  percuti  atq.  formari  possit  T  (possit  supra  lin.  GJ)  ut  cu  eu  B  3  sit]  est  STGNJ  ( corr.  S2)  5  fit]  sit  S2FE2  lexis  codices,  item  6   et  8  lexin,  7  phasin  9  literae  in  marg.  S  quae  coniunctae  S,  corr.  S2  13  alicuius  SF  14  blythyri  SG  blithyri  NT  blytbiri  EF?  {in  fine  suprascr.  s  F)  21  et  ut  b  22  scribi?  28  fit  T    5   10   15   20    6   tur,  illa  SIGNIFICATIVA vox redditur. concurrentibus igitur  his  tribus: linguae percussione, articulato vocis sonitu, imaginatione aliqua  proferendi fit interpretatio,  interpretatio namque est vox articulata per se ipsam 5  SIGNIFICANS, quocirca non omnis vox interpretatio est. sunt  enim ceterorum animalium voces, quae interpretationis vocabulo non tenentur, nec omnis locutio interpretatio est,  idcirco quod  (ut dictum est) sunt locutiones quaedam,  quae significatione careant et cum per se quaedam non  significent, iunctae tamen cum aliis significant, ut coniunctiones. interpretatio autem in solis per  se significativis et articulatis vocibus permanet. quare convertitur, ut quidquid sit interpretatio, illud  significet,  quidquid significat, interpretationis vocabulo nuncupetur, unde etiam ipse quoque Aristoteles in libris quos  de poetica scripsit locutionis partes esse syllabas vel etiam coniunctiones tradidit, quarum syllabae in eo quod sunt syllabae nihil omnino significant, coniunctiones vero consignificare quidem possunt, PER SE VERO NIHIL DESIGNANT,  interpretationis vero partes hoc libro constituit nomen et verbum, quae scilicet per se ipsa SIGNIFICANT,  nihilo ¬ minus quoque orationem, quae et ipsa cum vox sit ex significativis partibus iuncta significatione non caret quare quoniam non de oratione sola, sed etiam de verbo et nomine, nec vero de sola locutione, sed etiam de SIGNIFICATIVA  locutione, quae est interpretatio, hoc libro ab Aristotele tractatur,  id circo quoniam in  16 Ar. Poet. c.  20.    1 significatiua  b:  significatio  SG-TE,  significatione  FS1 2E2?  redditur  uox  T  4  interpretatio  om.  SNF,  in  marg.  addunt  GE  quae  namq;  S2F  10  iunctae  F:  iuncta  ceteri  14  illud  quoq;  E  16  arte  poetica  S2FE  23  post  orationem  addit  partem  esse  tradidit  S2F  cum  om.  T  28  in  hoc  S2F   ab  om.  T    I.    7    verbis atque nominibus et  in significativis locutionibus nomen interpretationis aptatur, a communi nomine eorum, de quibus hoc  libro  tractabitur,  id  est  ab  interpretatione,  ipse  quoque  de  interpretatione  liber  inscriptus  est.  cuius  expositionem  nos  scilicet  quam  5  maxime  a  Porphyrio  quamquam  etiam  a  ceteris  transferentes  Latina  oratione  digessimus,  hic  enim  nobis  expositor  et  intellectus  acumine  et  sententiarum  dispositione  videtur  excellere,  erunt  ergo  interpretationis  duae  primae  partes  nomen  et  verbum,  his  enim  10  quidquid  est  in  animi  intellectibus  designatur;  his  namque  totus  ordo  orationis  efficitur,  et  in  quantum  vox  ipsa  quidem  intellectus  significat,  in  duas  (ut  dictum  est)  secatur  partes,  nomen  et  verbum,  in  quantum  vero  vox  per  intellectuum  medietatem  subiectas  intellectui  res  demonstrat,  significantium  vocum  Aristoteles  numerum  in  X  praedicamenta  partitus  est.  atque  hoc  distat  libri  huius  intentio  a  praedicamentorum  in denariam  multitudinem  numerositate  p.  291  collecta, ut hic quidem tantum de numero SIGNIFICANTIUM vocum quaeratur,  quantum  ad  ipsas  attinet  voces,  quibus  significativis  vocibus  intellectus  animi  designentur,  quae  sunt  scilicet  simplicia  quidem  nomina  et  verba,  ex  his  vero  conpositae  orationes:  praedicamentorum  vero  haec  intentio  est:  de  significativis  rerum  vocibus  in  tantum,  quantum  eas  medius  animi  SIGNIFICET  intellectus,  vocis  enim  quaedam  qualitas  est  nomen  et  verbum,  quae  nimirum  ipsa  illa  decem  praedicamenta  significant,  decem  namque  praedicamenta  numquam  sine  aliqua  verbi  qualitate  vel  30  nominis  proferentur,  quare  erit  libri  huius  intentio  de  significativis  vocibus  in  tantum,  quantum  con-   1  in  om.  E  3  in  hoc  S2F  9 dispositio  S  corr.  S2  10 partes  primae  T  11  intellectus  F  corr.  F1  12  totius  F  18  in  hoc  T  20  in  tantum?  26  uocibus  tractare  F,  uoc.  dicere  TE, tractare inmarg. S  31proferuntur  S2F  32  signatiuis S  corr. S2 8 SECVNDA  EDITIO ceptiones  animi  intellectus  que  significent,  de  decem  praedicamentis  autem  libri  intentio  in  eius  commentario  dicta  est,  quoniam  sit  de  significativis  rerum  vocibus,  quot  partibus  distribui  possit  earum  signifi-  5  catio  in  tantum,  quantum  per  sensuum  atque  intellectuum  medietatem  res  subiectas  intellectibus  voces  ipsae  valeant  designare,  in  opere  vero  de  poetica  non  eodem  modo  dividit  locutionem,  sed  omnes  omnino  locutionis  partes  adposuit  confirmans  esse  locu-  10  tionis  partes  elementa,  syllabas,  coniunctiones,  articulos,  nomina,  casus,  verba,  orationes,  locutio  namque  non  in  solis  significativis  vocibus  constat,  sed  supergrediens  significationes  vocum  ad  articulatos  sonos  usque  consistit,  quaelibet  enim  syllaba  vel quodlibet  nomen  vel  quaelibet  alia  vox,  quae  scribi  litteris  potest,  locutionis  nomine  continetur,  quae  Graece  dicitur  sed  non  eodem  modo  interpretatio.  huic  namque  non  est  satis,  ut  sit  huiusmodi  vox  quae  litteris  valeat  adnotari,  sed  ad  hoc  ut  aliquid  quoque  significet,  praedicamentorum  vero  in  hoc  ratio  constituta  est,  in  quo  hae  duae  partes  interpretationis  res  intellectibus  subiectas  designent,  nam  quoniam  decem  res  omnino  in  omni  natura  reperiuntur,  decem  quoque  intellectus  erunt,  quos  intellectus quoniam  verba  nominaque  significant,  decem  omnino  erunt  praedicamenta,  quae  verbis  atque  nominibus  DESIGNENTUR,  duo vero quaedam id est nomen et verbum,  quae  ipsos  significent  intellectus,  sunt  igitur  elementa  interpretationis  verba  et  nomina,  propriae  vero  partes  30  quibus  ipsa  constat  interpretatio  sunt  orationes,  orationum  vero  aliae  sunt  perfectae,  aliae  inperfectae.   7  Ar.  Poet.  c.  20.    3  pro  quoniam:  cum  F  4  quod  F  7  arte  poetica  FE2,  arte  in  marg.  S  17  lexis  FTE  31  aliae  uero  inp.  TE,  aliae  inperf.  om.  S  in  marg.  addit  S2    I.    9    perfectae  sunt  ex  quibus  plene  id  quod  dicitur  valet  intellegi,  inperfectae  in  quibus  aliquid  adhuc  plenius  animus  exspectat  audire,  ut  est  Socrates  cum  Platone.  nullo  enim  addito  orationis  intellectus  pendet  ac  titubat  et  auditor  aliquid  ultra  exspectat  audire,  perfectarum  vero  orationum  partes  quinque  sunt:  deprecativa  ut  Iuppiter  omnipotens,  precibus  si  flecteris  ullis,  Da  deinde  auxilium,  pater,  atque  haec  omina  firma,  imperativa  ut  Yade  age,  nate,  voca  Zephyros  et  labere  pennis,  interrogativa  ut  Dic  mihi,  Damoeta,  cuium  pecus?  an  Meliboei?  vocativa  <(ufi>  0  pater,  o  hominum  rerumque  aeterna  potestas,  enuntiativa,  in  qua  veritas  vel  falsitas  invenitur,  ut  Principio  arboribus  varia  est  natura  serendis,  huius  autem  duae  partes  sunt,  est  namque  et  simplex  oratio  enuntiativa  et  conposita.  simplex  ut  dies  est,  lucet,  conposita  ut  si  dies  est,  lux  est.  in  hoc  igitur  libro  Aristoteles  de  enuntiativa  simplici  oratione  disputat  et  de  eius  elementis,  nomine  scilicet  atque  verbo,  quae  quoniam  et  significativa  sunt  et  significativa  vox  articulata  interpretationis  nomine  continetur,  de  communi  (ut  dictum  est)  vocabulo  librum  de  interpretatione  appellavit,  et  Theophrastus  quidem  in  eo  libro,  quem  de  adfirmatione  et  negatione  conposuit,  de  enuntiativa  oratione  tractavit,  et  Stoici  quoque  in  his  libris,  quos  ttsqI  a^tco^uzcov  appellant,  de  isdem   7  Yerg.  Aen.  II  689.  691  9  Yerg.  Aen.  IY  223   11  Yerg.  Ecl.  III  1  12  Yerg.  Aen.  X  18  14  Yerg.   Georg.  II  9    9  omnia  TE  10  pinnis  S^1  11  damgta  T  12   melibei  T  ut  b  :'om.  codices,  alterum  o  om.  SFE1  15   creandis  Vergilii  codices  16  et  om.  E  17  est  et  conp.  S2FE2  lux  est  F2E2  21  uox  et  art.  S2FE2  27  peri  axiomaton  codices  5 10 15 20 25  nihilominus  disputant,  sed  illi  quidem  et  de  simplici  et  de  non  simplici  oratione  enuntiativa  speculantur,  Aristoteles  vero  hoc  libro  nihil  nisi  de  sola  simplici  enuntiativa  oratione  considerat.  Aspasius  quoque  et  5  Alexander  sicut  in  aliis  Aristotelis  libris  in  hoc  quoque  commentarios  ediderunt,  sed  uterque  Aristotelem  de  oratione  tractasse  pronuntiat,  nam  si  oratione  aliquid  proferre  ut  aiunt  ipsi  interpretari  est,  de  interpretatione  liber  nimirum  veluti  de  oratione  per  scriptus  est,  quasi  vero  sola  oratio  ac  non  verba  quoque  et  nomina  interpretationis  vocabulo  concludantur.  aeque  namque  et  oratio  et  verba  ac  nomina,  quae  sunt  interpretationis  elementa,  nomine  interpretationis  vocantur,  sed  Alexander  addidit  inperfecte  sese  habere  libri  titulum:  neque  enim  designare,  de  qua  oratione  perscripserit,  multae  namque  ut  dictum  est  sunt  orationes;  sed  adiciendum  vel  subintellegendum  putat  de  oratione  illum  scribere  philosophica  vel  dialectica  id  est,  qua  verum  falsumque  valeat  expediri sed  qui  semel  solam  orationem  interpretationis  no¬  mine  vocari  recipit,  in  intellectu quoque ipsius  inscriptionis  erravit,  cur  enim  putaret  inperfectum  esse  titulum,  quoniam  nihil  de  qua  oratione  disputaret  adiecerit?  ut  si  quis  interrogans  quid  est  homo?  alio respondente  animal  culpet  ac  dicat  inperfecte  illum  dixisse,  quid  sit,  quoniam  non  sit  omnes  differentias  persecutus,  quod  si  huic,  id  est  homini,  sunt  quaedam  alia  communia  ad  nomen  animalis,  nihil  tamen  inpedit  perfecte  demonstrasse,  quid  homo  esset,  eum  qui  animal  dixit:  sive  enim  differentias  addat  quis  sive  non,  hominem  animal  esse  necesse  est.  eodem  quoque  modo  et  de  oratione,  si  quis  hoc  concedat  primum,  nihil  aliud  interpretationem  dici  nisi  orationem,   5  alios  —  libros  in  hunc?  21  recepit?  21.22  scriptionis  S^1  23.  24  adiecit  T  26  non  o.  diff.  sit  E  30  addit   T  33  interpretatione  F I. 11 cur  qui  de  interpretatione  inscripserit  et  de  qua  interpretatione  dicat  non  addiderit  culpetur,  non  est.  satis  est  enim  libri  titulum  etiam  de  aliqua  continenti  communione  fecisse,  ut  nos  eum  et  de  nominibus  et  verbis  et  de  orationibus,  cum  baec  omnia  uno  interpretationis  nomine  continerentur,  supra  fecisse  docuimus,  cum  bic  liber  ab  eo  de  interpretatione  notatus  est.  sed  quod  addidit  illam  interpretationem  solam  dici,  qua  in  oratione  possit  veritas  et  falsitas  inveniri,  ut  est  enuntiativa  oratio,  fingentis  est  ut  ait  Porphyrius  significationem  nominis  potius  quam  docentis,  atque  ille  quidem  et  in  intentione  libri  et  in  titulo  falsus  est,  sed  non  eodem  modo  de  iudicio  quoque  libri  buius  erravit.  Andronicus  enim  librum  bunc  Aristotelis  esse  non  puta,quem  Alexander  vere  fortiterque  redarguit,  quem  cum  exactum  diligentemque  Aristotelis  librorum  et  iudicem  et  repertorem  iudicarit  antiquitas,  cur  in  huius  libri  iudicio  sit  falsus,  prorsus  est  magna  admiratione  dignissimum,  non  esse  namque  proprium  Aristotelis  bine  conatur  ostendere,  quoniam  quaedam  Aristoteles  in  principio  libri  huius  de  intellectibus  animi  tractat,  quos  intellectus  animae  passiones  vocavit,  et  de  bis  se  plenius  in  libris  de  anima  disputasse  commemorat,  et  quoniam  passiones  animae  vocabant  vel  tristitiam  vel  gaudium  vel  cupiditatem  vel  alias  huiusmodi  adfectiones,  dicit  Andronicus  ex  boc  probari  hunc  librum  Aristotelis  non  esse,  quod  de  huiusmodi  adfectionibus  nihil  in  libris  de  anima  tractavisset,  non  intellegens  in  hoc  libro  Aristotelem  passiones  animae  non  pro  adfectibus,  sed  pro  intellectibus  posuisse,  his  Alexander  multa  alia  addit  argumenta,  cur  hoc  opus  Aristotelis  maxime  esse  videatur,  ea  namque  dicuntur  hic,  quae  sententiis  Aristotelis  quae  sunt  de  enuntia-   [5.  6  continentur F 6 cum om. F1 haec S, corr. S2 10. 11 potius sign. nom. S2F 22 et animae T 23 in supra lin. T 24 vocabat b 30 prius pro om. S1 Hic E1 5 10 15 20 25 30 12 SECVNDA  EDITIO] tione  consentiant;  illud  quoque,  quod  stilus  ipse  pro¬  pter  brevitatem  pressior  ab  Aristotelis  obscuritate  non  discrepat;  et  quod  Theophrastus,  ut  in  aliis  solet,  cum  de  similibus  rebus  tractat,  quae  scilicet  ab  Aristotele  ante  tractata  sunt,  in  libro  quoque  de  adfirmatione  et  negatione,  isdem  aliquibus  verbis  utitur,  quibus  hoc  libro  Aristoteles  usus  est.  idem  quoque  Theophrastus  dat  signum  hunc  esse  Aristotelis  librum:  in  omnibus  enim,  de  quibus  ipse  disputat  post magistrum,  leviter  ea  tangit  quae  ab  Aristotele  dicta  ante  cognovit,  alias  vero  diligentius  res  non  ab  Aristotele  tractatas  exsequitur,  hic  quoque  idem  fecit,  nam  quae  Aristoteles  hoc  libro  de  enuntiatione  tractavit,  leviter  ab  illo  transcursa  sunt,  quae  vero  magister  eius  tacuit,  ipse  subtiliore  modo  considerationis  adiecit.  addit  quoque  hanc  causam,  quoniam  Aristoteles  quidem  de  syllogismis  scribere  animatus  num-  quam  id  recte  facere  potuisset,  nisi  quaedam  de  propositionibus  adnotaret.  mihi  quoque  videtur  hoc subtiliter  perpendentibus  liquere  hunc  librum  ad  analyticos  esse  praeparatum,  nam  sicut  hic  de  simplici  propositione  disputat,  ita  quoque  in  analyticis  de  simplicibus  tantum  considerat  syllogismis,  ut  ipsa  syllogismorum  propositionumque  simplicitas  non  ad  aliud  nisi  ad  continens  opus  Aristotelis  pertinere  videatur,  quare  non  est  audiendus  Andronicus,  qui  propter  passionum  nomen  hunc  librum  ab  Aristotelis  operibus  separat.  Aristoteles  autem  idcirco  passiones  animae intellectus  vocabat,  quod  intellectus,  quos  sermone  dicere  et  oratione  proferre  consuevimus,  ex  aliqua  causa  atque  utilitate  profecti  sunt:  ut  enim  dispersi  homines  colligerentur  et  legibus  vellent  esse  subiecti  civitatesque  condere,  utilitas  quaedam  fuit  et  causa,  quocirca   3  et  b:  uel  codices  15  subtilior  S1  16  addidit  E  17  pro  scribere:  est  T  19  hoc  uidetur  F  22  in  om.  F1  29  uocauit  E    I  c,  1. 13    quae  ex  aliqua  utilitate  veniunt,  ex  passione  quoque  provenire  necesse  est.  nam  ut  divina  sine  ulla  sunt  passione,  ita  nulla  illis  extrinsecus  utilitas  valet  adiungi:  quae  vero  sunt  passibilia  semper  aliquam  causam  atque  utilitatem  quibus  sustententur  inveniunt quocirca  huiusmodi  intellectus,  qui  ad  alterum  oratione  proferendi  sunt,  quoniam  ex  aliqua  causa  atque  utilitate  videntur  esse  collecti,  recte  passiones  animi  nominati  sunt,  et  de  intentione  quidem  et  de  libri  inscriptione  et  de  eo,  quod  hic  maxime  Aristotelis   liber  esse  putandus  est,  haec  dicta  sufficiunt,  quid  vero  utilitatis  habeat,  non  ignorabit  qui  sciet  qua  in  oratione  veritas  constet  et  falsitas.  in  sola  enim  haec  enuntiativa  oratione  consistunt,  iam  vero  quae  dividant  verum  falsumque  quaeve  definite  vel  quae  varie  et  mutabiliter  veritatem  falsitatemque  partiantur,  quae  iuncta  dici  possint,  cum  separata  valeant  praedicari,  quae  separata  dicantur,  cum  iuncta  sint  praedicata,  quae  sint  negationes  cum  modo  propositionum,  quae  earum  consequentiae  aliaque  plura  in  ipso  opere  considerator  poterit  diligenter  agnoscere,  quorum  magnam  experietur  utilitatem  qui  animum  curae  alicuius  investigationis  adverterit,  sed  nunc  ad  ipsius  Aristotelis  verba  veniamus. Primum  oportet  constituere,  quid  nomen  et  quid  verbum,  postea  quid  est  negatio  et  adfirmatio  et  enuntiatio  et  oratio.   Librum  incohans  de  quibus  in  omni  serie  tractaturus  sit  ante  proposuit,  ait  enim  prius  oportere  de    2  sunt  om.  F1  5  inuenient  E  8  animae?  11  suf¬  ficiant  b  16  patiantur  T  16.  17  quae  iuncta  om.  F,  in  marg.  quae  iunctim  F2?  17.18  iuncta  —  cum  om.  S1  20.21   consideratior  SF*T  21  quorum  ego:  quarum  codices  22  curae  ego:  cura  codices  23  ipsius  om.  F  25  quid  Ar.  xL:  quid  sit  codices  26  sit  uerbum  codices  praeter  2/E2  est  om.  2%  {eras,  in  S)    quibus  disputaturus  est  definire,  hic  enim  constituere  definire  intellegendum  est.  determinandum  namque  est  quid  haec  omnia  sint  id  est  quid  nomen  sit,  quid  verbum  et  cetera,  quae  elementa  interpretationis  esse praediximus,  sed  adfirmatio  atque  negatio  sub  interpretatione  sunt,  quare  nomen  et  verbum  adfirmatio-  nis  et  negationis  elementa  esse  manifestum  est.  his  enim  conpositis  adfirmatio  et  negatio  coniunguntur.  exsistit  hic  quaedam  quaestio,  cur  duo  tantum  nomen et  verbum  se  determinare  promittat,  cum  plures  partes  orationis  esse  videantur,  quibus  hoc  dicendum  est  tantum  Aristotelem  hoc  libro  definisse,  quantum  illi  ad  id  quod  instituerat  tractare  suffecit,  tractat  namque  de  simplici  enuntiativa  oratione,  quae  scilicet huiusmodi  est,  ut  iunctis  tantum  verbis  et  nominibus  conponatur.  si  quis  enim  nomen  iungat  et  verbum,  ut  dicat  Socrates  ambulat,  simplicem  fecit  enun¬  tiativam  orationem,  enuntiativa  namque  oratio  est  ut  supra  memoravi  quae  habet  in  se  falsi  verique designationem,  sed  in  hoc  quod  dicimus  Socrates  ambulat  aut  veritas  necesse  est  contineatur  aut  fal-  sitas.  hoc  enim  si  ambulante  Socrate  dicitur,  verum  est,  si  non  ambulante,  falsum,  perficitur  ergo  enuntiativa  oratio  simplex  ex  solis  verbis  atque  nominibus quare  superfluum  est  quaerere,  cur  alias  quoque  quae  videntur  orationis  partes  non  proposuerit,  qui  non  totius  simpliciter  orationis,  sed  tantum  simplicis  enuntiationis  instituit  elementa  partiri,  quamquam  duae  propriae  partes  orationis  esse  dicendae  sint,  nomen  30  scilicet  atque  verbum,  haec  enim  per  sese  utraque  significant,  coniunctiones  autem  vel  praepositiones  nihil  omnino  nisi  cum  aliis  iunctae  designant;  participia  verbo  cognata  sunt,  vel  quod  a  gerundivo  modo   2  definire  om.  S1  17  et  T  22.  23  est  verum  F  25  quae  om.  S1  26  proposuit  T  33  uerbis  E2?  vero  verbo  editio  princeps  conata  T  gerundi  FXE  (gerunti?  F)    I  c.  1.    15    veniant  vel  quod  tempus  propria  significatione  contineant;  interiectiones  vero  atque  pronomina  nec  non  adverbia  in  nominis  loco  ponenda  sunt,  idcirco  quod  aliquid  significant  definitum,  ubi  nulla  est  vel  passio¬  nis  significatio  vel  actionis,  quod  si  casibus  horum quaedam  flecti  non  «possunt,  nihil  inpedit.  sunt  enim  quaedam  nomina  quae  monoptota  nominantur,  quod  si  quis  ista  longius  et  non  proxime  petita  esse  arbitretur,  illud  tamen  concedit,  quod  supra  iam  diximus,  non  esse  aequum  calumniari  ei,  qui  non  de  omni  oratione,  sed  de  tantum  simplici  enuntiatione  proponat,  quod  tantum  sibi  ad  definitionem  sumpserit,  quantum  arbitratus  sit  operi  instituto  sufficere,  quare  dicendum  est Aristotelem  non  omnis  orationis  partes  hoc opere  velle  definire,  sed  tantum  solius  simplicis  enuntiativae  orationis,  quae  sunt  scilicet  nomen  et  verbum,  argumentum  autem  huius  rei  hoc  est.  postquam  enim  proposuit  dicens:  primum  oportet  constituere,  quid  sit  nomen  et  quid  verbum,  non  statim  inquit,  quid  sit  oratio,  sed  mox  addidit  et  quid  sit negatio,  quid  adfirmatio,  quid  enuntiatio,  postremo  vero  quid  oratio,  quod  si  de  omni  oratione  loqueretur,  post  nomen  et  verbum  non  de  adfirmatione  et  negatione  et  post  hanc  de  enuntiatione,  sed  mox  de  oratione  dixisset,  nunc  vero  quoniam  post  nominis et  verbi  propositionem  adfirmationem,  negationem  et  enuntiationem  et  post  orationem  proposuit,  confitendum  est,  id  quod  ante  diximus,  non  orationis  universalis,  sed  simplicis  enuntiativae  orationis,  quae  dividitur  in  adfirmationem  atque  negationem,  divisionem  partium  facere  voluisse,  quae  sunt  nomina  et  verba,  haec  enim  per  se  ipsa  intellectum  simplicem  servant,   1.  2  continent  F  7  monopta  S  9  concedat  b  10  calumpniari  E  eum?  11  tantum  de  E2  enuntiatione  om.  S1  12  sumpserat  F  14  omnes  SFT  20  et  om.  F  26  et  negationem  et  F  31  uerba  et  nomina  F  „    quae  eadem  dictiones  vocantur,  sed  non  sola  dicuntur,  sunt  namque  dictiones  et  aliae  quoque:  orationes  vel  inperfectae  vel  perfectae,  cuius  plures  esse  partes  supra  iam  docui,  inter  quas  perfectae  orationis  species  est  enuntiatio,  et  haec  quoque  alia  simplex,  alia  con-  posita  est.  de  simplicis  vero  enuntiationis  speciebus  inter  philosophos  commentatoresque  certatur,  aiunt  enim  quidam  adfirmationem  atque  negationem  enuntiationi  ut  species  supponi  oportere,  in  quibus  et Porphyrius  est:  quidam  vero  nulla  ratione  consentiunt,  sed  contendunt  adfirmationem  et  negationem  aequivoca  esse  et  uno  quidem  enuntiationis  vocabulo  nuncupari,  praedicari  autem  enuntiationem  ad  utrasque  ut  nomen  aequivocum,  non  ut  genus  univocum;  quorum  princeps  Alexander  est.  quorum  contentiones  adponere  non  videtur  inutile,  ac  prius  quibus  modis  adfirmationem  atque  negationem  non  esse  species  enuntiationis  Alexander  putet  dicendum  est,  post  vero  addam  qua  Porphyrius  haec  argumentatione dissolverit.  Alexander  namque  idcirco  dicit  non  esse  species  enuntiationis  adfirmationem  et  negationem,  quoniam  adfirmatio  prior  sit.  priorem  vero  adfirmationem  idcirco  conatur  ostendere,  quod  omnis  negatio  adfirmationem  tollat  ac  destruat,  quod  si  ita  25  est,  prior  est  adfirmatio  quae  subruatur  quam  negatio  quae  subruat,  in  quibus  autem  prius  aliquid  et  posterius  est,  illa  sub  eodem  genere  poni  non  possunt,  ut  in  eo  titulo  praedicamentorum  dictum  est  qui  de  his  quae  sunt  simul  inscribitur.  amplius:  negatio omnis,  inquit,  divisio  est,  adfirmatio  conpositio  atque  coniunctio.  cum  enim  dico  Socrates  vivit,  vitam  cum  Socrate  coniunxi;  cum  dico  Socrates  non  vivit,  vitam  a  Socrate  disiunxi.  divisio  igitur  quaedam  negatio  est,  coniunctio  adfirmatio.  conpositi  autem  est  con-   1  eaedem  SF  sola  ego:  solae  codices  2  quoq;  ut  b   4.  5  est  species  F  5  alias  —  alias  E2  12  unum  S1T  22  fit  T    I  c.  1.    17    iunctique  divisio,  prior  est  igitur  coniunctio,  quod  est  adfirmatio;  posterior  vero  divisio,  quod  est  negatio,  illud  quoque  adicit,  quod  omnis  per  adfirmationem  facta  enuntiatio  simplicior  sit  per  negationem  facta  enuntiatione,  ex  negatione  enim  particula  negativa  5  si  sublata  sit,  adfirmatio  sola  relinquitur,  de  eo  enim  quod  est  Socrates  non  vivit  si  non  particula  quae  est  adverbium  auferatur,  remanet  Socrates  vivit.  simplicior  igitur  adfirmatio  est  quam  negatio,  prius  vero  sit  necesse  est  quod  simplicius  est.  in  quantitate  etiam  quod  ad  quantitatem  minus  est  prius  est  eo  quod  ad  quantitatem  plus  est.  omnis  vero  oratio  quantitas  est.  sed  cum  dico  Socrates  ambulat,  minor  oratio  est  quam  cum  dico  Socrates  non  ambulat,  quare  si  secundum  quantitatem  adfirmatio minor  est,  eam  priorem  quoque  esse  necesse  est.  illud  quoque  adiunxit  adfirmationem  quendam  esse  habitum,  negationem  vero  privationem,  sed  prior  habitus  privatione:  adfirmatio  igitur  negatione  prior  est.  et  ne  singula  persequi  laborem,  cum  aliis  quoque  modis demonstraret  adfirmationem  negatione  esse  priorem,  a  communi  eas  genere  separavit,  nullas  enim  species  arbitratur  sub  eodem  genere  esse  posse,  in  quibus  prius  vel  posterius  consideretur,  sed  Porphyrius  ait  sese  docuisse  species  enuntiationis  esse  adfirmationem  et  negationem  in  his  commentariis  quos  in  Theophrastum  edidit;  hic  vero  Alexandri  argumentationem  tali  ratione  dissolvit,  ait  enim  non  oportere  arbitrari,  quaecumque  quolibet  modo  priora  essent  aliis,  ea  sub  eodem  genere poni  non  posse,  sed  quae-  cumque  secundum  esse  suum  atque  substantiam  priora vel  posteriora  sunt,  ea  sola  sub  eodem  genere  non  ponuntur,  et  recte  dicitur,  si  enim  omne  quidquid  si  om.  S^E1  16  quoq.  priorem  F  esse  om.  SF  22  separaret  SF,  separabat  S2F2,  separat  T  nullus  SF1  24  aliquid  prius  GrTE  consideratur  F  26  iis  F2  Boetii  comxnent.  prius  est  cum  eo  quod  posterius  est  sub  uno  genere  esse  non  potest,  nec  primis  substantiis  et  secundis  commune  genus  poterit  esse  substantia;  quod  qui  dicit  a  recto  ordine  rationis  exorbitat,  sed  quemadmodum  quamquam  sint  primae  et  secundae  substantiae,  tamen  utraque  aequaliter  in  subiecto  non  sunt  et  idcirco  esse  ipsorum  ex  eo  pendet,  quod  in  subiecto  non  sunt,  atque  ideo  sub  uno  substantiae  genere  conlocantur:  ita  quoque  quamquam  adfirmationes  negationibus  in  orationis  prolatione  priores  sint,  tamen  ad  esse  atque  ad  naturam  propriam  aequaliter  enuntiatione  participant,  enuntiatio  vero est  in  qua  veritas  et  falsitas  inveniri  potest,  qua  in  re  et  adfirmatio  et  negatio  aequales  sunt,  aequaliter  enim  et  adfirmatio  et  negatio  veritate  et  falsitate  participant,  quocirca  quoniam  ad id  quod  sunt  adfirmatio  et  negatio  aequaliter  ab  enuntiatione  participant,  a  communi  eas  enuntiationis  genere  dividi  non  oportet,  mihi  quoque  videtur  quod  Porphyrii  sit  sequenda  sententia,  ut  adfirmatio  et  negatio  communi  enuntiationis  generi  supponantur,  longa  namque  illa  et  multiplicia  Alexandri  argumenta  soluta  sunt,  cum  demonstravit  non  modis  omnibus  ea  quae  priora  sunt  sub  communi  genere  poni  non  posse,  sed  quae  ad  esse  proprium  atque  substantiam  priora  sunt  illa  sola  sub  communi  genere  constitui  atque  poni  non  posse.  Syrianus  vero,  cui  Philoxenus  cognomen  est,  hoc  loco  quaerit,  cur  proponens  prius  de  negatione,  post  de  adfirmatione  pronuntiaverit  dicens:  primum  oportet constituere,  quid  nomen  et  quid  verbum,  postea  quid  est  negatio  et  adfirmatio.  et  primum  quidem  nihil  proprium  dixit,  quoniam  in  quibus  et  ad-   1  posterius]  prius  S^E1  6  utraeque  b  8  sint  E  13  et  post  re  om.  F  16  ad  ego  addidi:  om.  codices  17  pro  a:  et  SF  21  supponatur  SF  multiplica  F  ^  30  quid   sit  n.  codices  31  est  om.  F  primum  S:  primo  S2  et  ceteri    I  c.  1.    19    firmatio  potest  et  negatio  provenire,  prius  esse  negatio,  postea  vero  adfirmatio  potest,  ut  de  Socrate  sanus  est.  potest  ei  aptari  talis  adfirmatio,  ut  de  eo  dicatur  Socrates  sanus  est;  etiam  huiusmodi  potest  aptari  negatio,  ut  de  eo  dicatur  Socrates  sanus  non  est.  quoniam  ergo  in  eum  adfirmatio  et  negatio  poterit  evenire,  prius  evenit  ut  sit  negatio  quam  ut  adfirmatio.  ante  enim  quam  natus  esset:  qui  enim  natus  non  erat,  nec  esse  poterat  sanus,  liuic  illud  adiecit:  servare  Aristotelem  conversam  propositionis  et  exsecutionis  distributionem.  hic  enim  prius  post  nomen  et  verbum  de  negatione  proposuit,  post  de  adfirmatione,  dehinc  de  enuntiatione,  postremo  vero  de  oratione,  sed  proposita  definiens  prius  orationem,  post  enuntiationem,  tertio  adfirmationem,  ultimo  vero  loco  negationem  determinavit,  quam  hic  post  propositionem  verbi  et  nominis  primam  locaverat,  ut  igitur  ordo  servaretur  conversus,  idcirco  negationem  prius  ait  esse  propositam,  qua  in  expositione  Alexandri  quoque  sententia  non  discedit,  illud  quoque  est  additum,  quod  non  esset  inutile,  enuntiationem  genus  adfirmationis  et  negationis  accipi  oportere,  quod  quamquam  (ut  dictum  est)  ad  prolationem  prior  esset  adfirmatio,  tamen  ad  ipsam  enuntiationem  id  est  veri  falsique  vim  utrasque  aequaliter  sub  enuntiatione  ab  Aristotele  constitui,  id  etiam  Aristotelem  probare,  praemisit  enim  primam  nega¬  tionem,  secundam  posuit  adfirmationem,  quae  res  nihil  habet  vitii,  si  ad  ipsam  enuntiationem  adfirmatio  et  negatio  ponantur  aequales,  quae  enim  natura  aequa¬  les  sunt,  nihil  retinent  contrarii  indifferenter  acceptae,  est  igitur  ordo  quo  proposuit:  primum  totius  orationis   1  est.  potest  T  2  non  est  F;  non  supra  lin.  SE;  sanus  est  delet  S2  3  de  eo  om.  T1  6  eo?  8  post  esset  addit  potuit  dici  sanus  non  est  T,  in  marg.  G2  enim  om.  F,  eras,  in  E  12  et  hinc  E  17  primum  F  ergo  T  23  est  F  (in  rasura)  26  probare  dicit  FTE2S2(m»Mf^.)  probare  dr  Misit  G  (suprascr.  dicit  Premisit  G2)  enim  om.  E1  31  quod  F,  quoq.  T   2  *    5   10   elementum,  nomen  scilicet  et  verbum,  post  haec  ne¬  gationem  et  adfirmationem,  quae  species  enuntiationis  sunt,  quorum  genus  id  est  enuntiationem  tertiam  nominavit,  quartam  vero  orationem  posuit,  quae  ipsius  enuntiationis  genus  est.  et  horum  se  omnium  definitiones  daturum  esse  promisit,  quas  interim  relinquens  atque  praeteriens  et  in  posteriorem  tractatum  differens  illud  nunc  addit  quae  sint  verba  et  nomina  aut  quid  ipsa  significent,  quare  antequam  ad  verba  Aristotelis  ipsa  veniamus,  pauca  communiter  de  nominibus  atque  verbis  et  de  his  quae  significantur  a  verbis  ac  nominibus  disputemus,  sive  enim  quaelibet  interrogatio  sit  atque  responsio,  sive  perpetua  cuiuslibet orationis  continuatio  atque  alterius  auditus  et  intellegentia,  sive  hic  quidem  doceat  ille  vero  discat,  tribus  his  totus  orandi  ordo  perficitur:  rebus,  intellectibus,  vocibus,  res  enim  ab  intellectu  concipitur,  vox  vero  conceptiones  animi  intellectusque  significat,  ipsi  vero  intellectus  et  concipiunt  subiectas  res  et  significantur  a  vocibus,  cum  igitur  tria  sint  haec  per  quae  omnis  oratio  conlocutioque  perficitur,  res  quae  sub-  iectae  sunt,  intellectus  qui  res  concipiant  et  rursus  a  vocibus  significentur,  voces  vero  quae  intellectus  designent,  quartum  quoque  quiddam  est,  quo  voces  ipsae valeant  designari,  id  autem  sunt  litterae,  scriptae  namque  litterae  ipsas  significant  voces,  quare  quattuor  ista  sunt,  ut  litterae  quidem  significent  voces,  voces  vero  intellectus,  intellectus  autem  concipiant  res,  quae  scilicet  habent  quandam  non  confusam  neque fortuitam  consequentiam,  sed  terminata  naturae  suae  ordinatione  constant,  res  enim  semper  comitantur  eum  qui  ab  ipsis  concipitur intellectum,  ipsum  vero  intellectum  vox  sequitur,  sed  voces  elementa  id  est   3  quarum?  17  —  20  res  —  vocibus  om.  F,  in  marg.  add.  F1?  26  significent  SF  30  suae  naturae  E  31  constat  SE  comitatur  F2  32  eum  dei.  F2  intellectus  F    I  c.  1.    21    litterae,  rebus  enim  ante  propositis  et  in  propria  substantia  constitutis  intellectus  oriuntur,  rerum  enim  semper  intellectus  sunt,  quibus  iterum  constitutis  mox  significatio  vocis  exoritur,  praeter  intellectum  nam¬  que  vox  penitus  nihil  designat,  sed  quoniam  voces  sunt,  idcirco  litterae,  quas  vocamus  elementa,  repertae  sunt,  quibus  vocum  qualitas  designetur,  ad  cognitionem  vero  conversim  sese  res  habet,  namque  apud  quos  eaedem  sunt  litterae  et  qui  eisdem  elementis  utuntur,  eisdem  quoque  nominibus  eos  ac  verbis  id  est  vocibus  uti  necesse  est  et  qui  vocibus  eisdem  utuntur,  idem  quoque  apud  eos  intellectus  in  animi  conceptione  versantur,  sed  apud  quos  idem  intellectus  sunt,  easdem  res  eorum  intellectibus  subiectas  esse  manifestum  est.  sed  hoc  nulla  ratione  convertitur,  namque  apud  quos  eaedem  res  sunt  idemque  intellectus,  non  statim  eaedem  voces  eaedemque  sunt  litterae.  nam  cum ROMANUS,  Graecus  ac  barbarus  simul  videant  equum,  habent  quoque  de  eo  eundem  intellectum  quod  equus  sit  et  apud  eos  eadem  res  subiecta  est,  idem  a  re  ipsa  concipitur  intellectus,  sed  Graecus  aliter  equum  vocat,  alia  quoque  vox  in  equi  significatione  ROMANA  est  et  barbarus  ab  utroque  in  equi  designatione  dissentit,  quocirca  diversis  quoque  voces  proprias  elementis  inscribunt,  recte  igitur  dictum  est  apud  quos  eaedem  res  idemque  intellectus  sunt,  non  statim  apud  eos  vel  easdem  voces  vel  eadem  elementa  consistere,  praecedit  autem  res  intellectum,  intellectus  vero  vocem,  vox  litteras,  sed  hoc  converti  non  potest,  neque  enim  si  litterae  sint,  mox  aliqua  ex  his  significatio  vocis  exsistit,  hominibus  namque  qui  litteras  ignorant  nullum  nomen  quaelibet  elementa  significant,  quippe  quae  nesciunt,  nec  si  voces   1  positis  F  8  habent  T  20  sit  om.  F1  24  designi-  ficatione  S1  28  intellectum  res  F  31  consistit  E    sint,  mox  intellectus  esse  necesse  est.  plures  enim  voces  invenies  quae  nihil  omnino  significent,  nec  intellectui  quoque  subiecta  res  semper  est.  sunt  enim  intellectus  sine  re  ulla  subiecta,  ut  quos  centauros vel  chimaeras  poetae  finxerunt,  horum  enim  sunt  intellectus  quibus  subiecta  nulla  substantia  est.  sed  si  quis  ad  naturam  redeat  eamque  consideret  diligenter,  agnoscet  cum  res  est,  eius  quoque  esse  intellectum:  quod  si  non  apud  homines,  certe  apud  eum,  qui  propriae  divinitate  substantiae  in  propria  natura  ipsius  rei  nihil  ignorat,  et  si  est  intellectus,  et  vox  est;  quod  si  vox  fuerit,  eius  quoque  sunt  litterae,  quae  si  Ignorantur,  nihil  ad  ipsam  vocis  naturam,  neque  enim,  quasi  causa  quaedam  vocum  est  intellectus  aut  vox  causa  litterarum,  ut  cum  eaedem  sint  apud  aliquos  litterae,  necesse  sit  eadem  quoque  esse  nomina:  ita  quoque  cum  eaedem  sint  vel  res  vel  intellectus  apud  aliquos,  mox  necesse  est  intellectuum  ipsorum  vel  rerum  eadem  esse  vocabula,  nam  cum  eadem  sit et  res  et  intellectus  hominis,  apud  diversos  tamen  homines  huiusmodi  substantia  aliter  et  diverso  nomine  nuncupatur,  quare  voces  quoque  cum  eaedem  sint,  possunt  litterae  esse  diversae,  ut  in  hoc  nomine  quod  est  homo:  cum  unum  sit  nomen,  diversis  litteris  scribi  potest,  namque  Latinis  litteris  scribi  potest,   potest  etiam  Graecis,  potest  aliis  nunc  primum  inventis  litterarum  figuris,  quare  quoniam  apud  quos  eaedem  res  sunt,  eosdem  intellectus  esse  necesse  est,  apud  quos  idem  intellectus  sunt,  voces  eaedem  non   30  sunt  et  apud  quos  eaedem  voces  sunt,  non  necesse   2  significant  F  3  est  semper  E  9  omnes  T2  Denm  b  10  snbst.  div.  E  13  nataram  pertinet  F2  14  quaedam  causa  F  15  ut  enim  cum  S2F  16  pro  litterae:  uoces  E2  easdem  E2  pro  nomina:  literas  E2  18  mox  non  S2FE2  25  namque  —  potest  in  marg.  F  28  res  om.  F1  29  non  eaedem  (non  supra  lin .)  F  30  prius  sunt  om.  F    I  c.  1.    23    est  eadem  elementa  constitui;  dicendum  est  res  et  intellectus,  quoniam apud omnes idem sunt, esse NATURALITER constitutos, voces vero atque litteras, quoniam diversis  hominum positionibus permutantur, NON ESSE NATURALITER, SED POSITIONE, concludendum  est igitur, quoniam apud quos eadem sunt elementa, apud eos eaedem quoque voces sunt et apud quos eaedem voces sunt, idem sunt intellectus; apud quos autem idem sunt intellectus, apud eosdem res quoque eaedem subiectae sunt:  rursus  apud  quos  eaedem  res sunt,  idem  quoque  sunt  intellectus;  apud  quos  idem  intellectus,  non  eaedem  voces;  nec  apud  quos  eaedem  voces  sunt,  eisdem  semper  litteris  verba  ipsa  vel  nomina  designantur,  sed  nos  in  supra  dictis  sententiis  elemento  atque  littera  promiscue  usi  sumus,  quae  15  autem  sit  horum  distantia  paucis  absolvam,  littera  est  inscriptio  atque  figura  partis  minimae  vocis  articulatae,  elementum  vero  sonus  ipsius  inscriptionis:  ut  cum  scribo  litteram  quae  est  a,  formula  ipsa  quae  atramento  vel  graphio  scribitur  littera  nominatur,  ipse  vero  sonus  quo  ipsam  litteram  voce  proferimus  dicitur  elementum,  quocirca  hoc  cognito  illud  dicendum  est,  quod  is  qui  docet  vel  qui  continua  oratione  loquitur  vel  qui  interrogat,  contrarie  se  habet  his  qui  vel  discunt  vel  audiunt  vel  respondent  in  his  tribus, voce  scilicet,  intellectu  et  re  (praetermittantur  enim  litterae  propter  eos  qui  earum  sunt  expertes),  nam  qui  docet  et  qui  dicit  et  qui  interrogat  a  rebus  ad  intellectum  profecti  per  nomina  et  verba  vim  propriae  actionis  exercent  atque  officium  (rebus  enim  subiectis ab  his  capiunt  intellectus  et  per  nomina  verbaque   0   14  designentur  T  doctis  S1  17.  18  min.  p.  art.  voc.   E  19  littera  T  pro  a:  id T 20 grafio STE 24. 25 vel qui F1 29 profecti  ego :  profecto  SFE,  profectu  T,  profectus  S2F2E2  30  exercent  ego:  exercet  codices  atque  in  marg.  S    pronuntiant),  qui  vero  discit  vel  qui  audit  vel  etiam  qui  respondet  a  nominibus  ad  intellectus  progressi  ad  res  usque  perveniunt,  accipiens  enim  is  qui  discit  vel  qui  audit  vel  qui  respondet  docentis  vel  dicentis  vel  interrogantis  sermonem,  quid  unusquisque  illorum  dicat  intellegit  et  intellegens  rerum  quoque  scientiam  capit  et  in  ea  consistit,  recte  igitur  dictum  est  in  voce,  intellectu  atque  re  contrarie  sese  habere  eos  qui  docent,  dicunt,  interrogant  atque  eos  qui  discunt,  audiunt  et  respondent,  cum  igitur  haec  sint  quattuor,  litterae,  voces,  intellectus,  res,  proxime  quidem  et  principaliter  litterae  verba  nominaque  significant,  haec  vero  principaliter  quidem  intellectus,  secundo  vero  loco  res  quoque  designant,  intellectus  vero  ipsi  nihil  aliud  nisi  rerum  significativi  sunt,  antiquiores  vero  quorum  est  Plato,  Aristoteles,  Speusippus,  Xenocrates  hi  inter  res  et  significationes  intellectuum  medios  sensus  ponunt  in  sensibilibus  rebus  vel  imaginationes  quasdam,  in  quibus  intellectus  ipsius  origo  consistat,  et  nunc  quidem  quid  de  hac  re  Stoici  dicant  praetermittendum  est.  hoc  autem  ex  his  omnibus  solum  cognosci  oportet,  quod  ea  quae  sunt  in  litteris  eam  significent  orationem  quae  in  voce  consistit  et  ea  quae  est  vocis  oratio  quod  animi  atque  intellectus  orationem  designet,  quae  tacita  cogitatione  conficitur,  et  quod  haec  intellectus  oratio  subiectas  principaliter  res  sibi  concipiat  ac  designet,  ex  quibus  quattuor  duas  quidem  Aristoteles  esse  NATURALITER dicit,  res  et  animi  conceptiones,  id  est  eam  quae  fit  in  intellectibus  orationem,  idcirco  30  quod  apud  omnes  eaedem  atque  inmutabiles  sint;   6  et  om.  S1  12  uerba  et  nomina  S2F,  nomina  et  uerba  (in  ras .)  E  12  — 13  haec  —  designant  in  marg.  E  14  significationes  F  16  //usippus  S,  siue  usippus  S2FT  19   nunc  om.  SFT  20  dicunt  SF  23  et  quod  S2FE2  est  om.  S1  uocis  est  F  24  quod  dei.  S2,  om.  FE  29  intellectus  S1    I  c.  1.    25    duas  vero  NON NATURALITER, SED POSITIONE constitui, quae sunt scilicet verba nomina et litterae, quas idcirco NATURALITER fixas esse non dicit, quod  ut supra demonstratum est non  eisdem  vocibus  omnes  aut  isdem  utantur  elementis,  atque  hoc  est  quod  ait: Sunt  ergo  ea  quae sunt in voce earum quae sunt in anima passionum notae et ea  quae  scribuntur  eorum  quae  sunt  in  voce,  et  quemadmodum  nec  litterae  omnibus  eaedem,  sic  nec  voces  eaedem,  quorum  autem  haec  primorum  notae,  eaedem  omnibus  passiones  animae  et  quorum  hae  similitudines,  res  etiam  eaedem,  de  his  quidem  dictum  est  in  his  quae  sunt  dicta  de  anima,  alterius  est  enim  negotii. Cum igitur prius posuisset  nomen  et  verbum  et  quaecumque  secutus  est  postea  se  definire  promisisset,  haec  interim  praetermittens  de  passionibus  animae  deque  earum  notis,  quae  sunt  scilicet  voces,  pauca  praemittit,  sed  cur  hoc  ita  interposuerit,  plurimi  commentatores  causas  reddere  neglexerunt,  sed  a  tribus  quantum  adhuc  sciam  ratio  huius  interpositionis  explicita  est.  quorum  Hermini  quidem  a  rerum  veritate  longe  disiuncta  est.  ait  enim  idcirco  Aristotelen  de  notis  animae  passionum  interposuisse  sermonem,  ut  utilitatem  propositi  operis  inculcaret,  disputaturus enim  de  vocibus,  quae  sunt  notae  animae  passionum,  recte  de  his  quaedam  ante  praemisit,  nam  cum  suae  nullus  animae  passiones  ignoret,  notas  quoque  cum  animae  passionibus  non  nescire  utilissimum  est.  neque  enim  illae  cognosci  possunt  nisi  per  voces  quae  sunt  30   1  non  om.  S1  4.5  eisdem  FE  10  noces  eaedem  F  Ar.:  eaedem  uoces  ceteri  hae  codices  cf. p. 43, 6 12  animae   sunt  codices :  sunt  om.  Ar.  cf.  ed.  I  hae  27,  he§  X:  eaedem  ceteri  14  dicta  post  anima  X  enim  om.  X1  (enim  est  X2)   16  definire  se  F  20  neglexerunt  h:  neglexerant  codices  21.  22  explicata  E  ( corr .  E2)  23  Aristotelem  F    26  SECVNDA  EDITIO    earum  scilicet  notae.  Alexander  vero  aliam  huius-  modi  interpositionis  reddidit  causam,  quoniam,  iquit,  verba  et  nomina  interpretatione  simplici  conti¬  nentur,  oratio  vero  ex  verbis  nominibusque  coniuncta est  et  in  ea  iam  veritas  aut  falsitas  invenitur;  sive  autem  quilibet  sermo  sit  simplex,  sive  iam  oratio  coniuncta  atque  conposita,  ex  his  quae  significant  mo¬  mentum  sumunt  (in  illis  enim  prius  est  eorum  ordo  et  continentia,  post  redundat  in  voces):  quocirca  quo-  10  niam  significantium  momentum  ex  his  quae  signifcantur  oritur,  idcirco  prius  nos  de  his  quae  voces  ipsae  significant  docere  proponit,  sed  Herminus  hoc  loco  repudiandus  est.  nihil  enim  tale  quod  ad  causam  propositae  sententiae  pertineret  explicuit.  Ale-  15  x  and  er  vero  strictim  proxima  intellegentia  praeter¬  vectus  tetigit  quidem  causam,  non  tamen  principalem  rationem  Aristotelicae  propositionis  exsolvit.  sedPor-  phyrius  ipsam  plenius  causam  originemque  sermonis  huius  ante  oculos  conlocavit,  qui  omnem  apud  priscos  philosophos  de  significationis  vi  contentionem  litemque  retexuit,  ait  namque  dubie  apud  antiquorum  philosophorum  sententias  constitisse  quid  esset  proprie  quod  vocibus  significaretur,  putabant  namque  alii  res  vocibus  designari  earumque  vocabula  esse  ea  quae sonarent  in  vocibus  arbitrabantur,  alii  vero  incorporeas  quasdam  naturas  meditabantur,  quarum  essent  significationes  quaecumque  vocibus  designarentur:  Platonis  aliquo  modo  species  incorporeas  aemulati  dicentis  hoc  ipsum  homo  et  hoc  ipsum  equus  non  hanc  cuiuslibet  subiectam  substantiam,  sed  illum  ipsum  hominem  specialem  et  illum  ipsum  equum,  universaliter  et  incorporaliter  co-   2  interpraetationis  T  6  pro  iam:  autem  S,  om.  F  7  significantur  b  13  ad  in  marg.  E  20  de  om.  F1  21   apud  om.  E1  22  sententiae  S1  24  eorum/////q;  SE,  eorumq;  T  uocubula  T  25  sonarent  ego:  sonauerunt  S,  sonauerint  S2FE,  sonuerint  T  31  equum  significare  T    I  c.  1.    27    gitantes  incorporales  quasdam  naturas  constituebant,  quas  ad  significandum  primas  venire  putabant  et  cum  aliis  item  rebus  in  significationibus  posse  coniungi,  ut  ex  his  aliqua  enuntiatio  vel  oratio  conficeretur,  alii  vero  sensus,  alii  imaginationes  significari  vocibus  arbitrabantur.  cum  igitur  ista  esset  contentio  apud  superiores  et  haec  usque  ad  Aristotelis  pervenisset  aetatem,  necesse  fuit  qui  nomen  et  verbum  significativa  esset  definiturus  praediceret  quorum  ista  designativa  sint.  Aristoteles  enim  nominibus  et  verbis  res  subiectas  significari  non  putat,  nec  vero  sensus  vel  etiam  imaginationes,  sensuum  quidem  non  esse  significativas  voces  nomina  et  verba  in  opere  de  iustitia  sic  declarat  dicens  cpvdeL  yaQ  ev&vg  diriQ^rai  tcc  rs  votf-  { Lata  nal  ta  aiGfrri [luta,  quod  interpretari  Latine  potest  hoc  modo:  NATURA  enim<(statim)>divisa  sunt  intellectus  et  sensus,  differre  igitur  aliquid  arbitratur  sensum  atque  intellectum,  sed  qui  passiones  animae  a  vocibus  significari  dicit,  is  non  de  sensibus  loquitur,  sensus  enim  corporis  passiones  sunt,  si  igitur  ita  dixisset  passionescorporis  a  vocibus  significari,  tunc  merito  sensus  intellegeremus,  sed  quoniam  passiones  animae  nomina  'et  verba  significare  proposuit,  non  sensus  sed  intellectus  eum  dicere  putandum  est.  sed  quoniam  imaginatio  quoque  res  animae  est,  dubitaverit  aliquis  ne  forte  passiones  animae  imagi-   14  Ar.  fragm.  coli.  VRose  76    2  per  quas  se  F2  9  designativa  b:  designificatiua  codices  14  dirjQ7]Tcu  ego  (cf.  Ar.  1162,22  eth.  Nic.  VIII,  14:  sv&vs  yocQ  di7iQi]Tcu  tu  %Qya  v.ul  S6TLV  sxsQu  uvSqos  Y.ui  yv-  vaixog):  anhphtai  SGNJTE;  verba  Graeca  om.  F  (<4>rsEl  FAP  EY&  et  alia  in  marg.  F2),  dicens  hic  deest  grecum  quod  interpretari  B  15  AIZTHMATA  EN  Latine  om.  F  16  potes  VRose  statim  ego  add.:  om.  codices  diuersa  E2  est  N  19  a  om.  S*F  23  designificare  F  26  animae  om.  F    5   10   15   20   25    nationes,  qnas  Graeci  (pavraCiag  nominant,  dicat,  sed  haec  in  libris  de  anima  verissime  diligentissimeque  separavit  dicens  etircv  de  cpavraoCa  eteqov  epaOeog  nal  unoepaGeag'  Gvintloxr}  yaQ  vorj[icctav  etirlv  ro  ccArjfreg  5  xcd  ro  tyevdog.  rd  de  tcqcotcc  vocata  t C  dioCcei  rov  [. irj  cpavrcc<D[iuTa  eivcu;  rj  ovde  ravra  <pavrcc6[iarcc,  «AA’  ovk  ccvev  cpuvratitiarav.  quod  sic  interpretamur:  est  autem  imaginatio  diversa  adfirmatione  et  negatione;  conplexio  namque  intellectuum  est  10  veritas  et  falsitas.  primi  vero  intellectus  quid  discrepabunt,  ut  non  sint  imaginationes?  an  certe  neque  haec  sunt  imaginationes,  sed  sine  imaginationibus  non  sunt,  quae  sententia  demonstrat  aliud  quidem  esse  imaginationes,  aliud  intelleetus;  ex  intellectuum  quidem  conplexione  adfirmationes  fieri  et  negationes: quocirca  illud  quoque  dubitavit,  utrum  primi  intellectus  imaginationes  quaedam  essent,  primos  autem  intellectus  dicimus,  qui  simplicem  rem  concipiunt,  ut  si  qui  dicat  Socrates  solum  20  dubitatque  utrum  huiusmodi  intellectus,  qui  in  se  nihil  neque  veri  continet  neque  falsi,  intellectus  sit  an  ipsius  Socratis  imaginatio,  sed  de  hoc  quoque  aperte  quid  videretur  ostendit,  ait  enim  an  certe  neque  haec  sunt  imaginatione,  sed  non  sine  imaginationibus  sunt,  id  est  quod  hic  sermo  significat  qui  est  Socrates  vel  alius  simplex  non  est  quidem  imaginatio,  sed  intellectus,  qui  intellectus  praeter  ima¬  ginationem  fieri  non  potest,  sensus  enim  atque  ima-   3  Ar.  de  an.  III,  8:  432,  10 — 14.   1  fantasias  F,  phantasias  ceteri  2  haec  b:  hoc  codices  diligentissimeque  neq;  N  ( corr .  aeque  N1?)  3 — 7  dicens.   EZTIN  je  ( cet.  om.)  F,  dicens  hic  item  deest  grecum  B  6  cpcivtuGiiuxci  —  imaginationes:  <E>ANTAZMsl  codices  pro  rj:  N  codices  7  interpretatur  EN  10  aliquid  S2F  13.  14  demonstret  T,  corr.  T2  19  quis  F  25  idem  ( pro  id  est)  T2  26  pro  qui:  quid  S,  quod  S2F    I  c.  1.    29    ginatio  quaedam  primae  figurae  sunt,  supra  quas  velut  fundamento  quodam  superveniens  intellegentia  nitatur,  nam  sicut  pictores  solent  designare  lineatim  corpus  atque  substernere  ubi  coloribus  cuiuslibet  exprimant  vultum,  sic  sensus  atque  imaginatio  naturaliter  in  animae  perceptione  substernitur,  nam  cum  res  aliqua  sub  sensum  vel  sub  cogitationem  cadit,  prius  eius  quaedam  necesse  est  imaginatio  nascatur,  post  vero  plenior  superveniat  intellectus  cunctas  eius  explicans  partes  quae  confuse  fuerant  imaginatione  praesumptae. quocirca  inperfectum  quiddam  est  imaginatio,  nomina  vero  et  verba  non  curta  quaedam,  sed  perfecta  significant.  quare  recta  Aristotelis  sententia  est:  quaecumque  in  verbis  nominibusque  versantur,  ea  neque  sensus  neque  imaginationes,  sed  solam  significare  intellectuum  qualitatem,  unde  illud  quoque  ab  Aristotele  fluentes  Peripatetici  rectissime  posuerunt  tres  esse  orationes,  unam  quae  scribi  possit  elementis,  alteram  quae  voce  proferri,  tertiam  quae  cogitatione  conecti  unamque  intellectibus,  alteram  voce,  tertiam  litteris  contineri,  quocirca  quoniam  id  quod  significaretur  a  vocibus  intellectus  esse  Aristoteles  putabat,  nomina  vero  et  verba  significativa  esse  in  eorum  erat  definitionibus  positurus,  recte  quorum  essent  significativa  praedixit  erroremque  lectoris  ex  multiplici  veterum  lite  venientem  sententiae  suae  manifestatione  conpescuit.  atque  hoc  modo  nihil  in  eo  deprehenditur  esse  superfluum,  nihil  ab  ordinis  continuatione  se-  iunctum.  quaerit  vero  Porphyrius,  cur  ita  dixerit:  sunt  ergo  ea  quae  sunt  in  voce,  et  non  sic:  sunt  30   3  si  quod  S^1  7  ait.  sub  om.  F  enim  (pro  eius)  E   10  confuse  b:  confusae  SF,  confusa  TE  in  im.  S2,  in  yma-  ginationem  F  praesumpta  T  15  imaginationis  SFE1?   18  sit  ( pro  possit)  S1  19  cogitationem  SFE  20  conecti  ego :  conectit  codices,  connectitur  b  21  teneri  F,  corr.  F2  22  esse  om.  T1  28  ad  T    igitur  voces;  et  rursus  cur  ita  et  ea  quae  scribun¬  tur  et  non  dixerit:  et  litterae,  quod  resolvit  hoc  modo,  dictum  est  tres  esse  apud  Peripateticos  orationes,  unam  quae  litteris  scriberetur,  aliam  quae  proferretur  in  voce,  tertiam  quae  coniungeretur  in  animo,  quod  si  tres  orationes  sunt,  partes  quoque  orationis  esse  triplices  nulla  dubitatio  est.  quare  quoniam  verbum  et  nomen  principaliter  orationis  partes  sunt,  erunt  alia  verba  et  nomina  quae  scribantur,  alia  quae  10  dicantur,  alia  quae  tacita  mente  tractentur,  ergo  quoniam  proposuit  dicens:  primum  oportet  constituere,  quid  nomen  et  quid  verbum,  triplex  autem  nominum  natura  est  atque  verborum,  de  quibus  potissimum  proposuerit  et  quae  definire  velit  ostendit,  et  quoniam  de  his  nominibus  loquitur  ac  verbis,  quae  voce  proferuntur,  idem  ipsum  planius  explicans  ait:  sunt  ergo  ea  quae  sunt  in  voce  earum  quae  sunt  in  anima  passionum  notae  et  ea  quae  scribuntur  eorum  quae  sunt  in  voce,  velut  si  diceret:  ea  verba  et  nomina  quae  in  vocali  oratione  proferuntur  animae  passiones  denuntiant,  illa  autem  rursus  verba  et  nomina  quae  scribuntur  eorum  verborum  nominum¬  que  significantiae  praesunt  quae  voce  proferuntur,  nam  sicut  vocalis  orationis  verba  et  nomina  conceptiones  animi  intellectusque  significant,  ita  quoque  verba  et  nomina  illa  quae  in  solis  litterarum  formulis  iacent  ijjorum  verborum  et  nominum  significativa  sunt  quae  loquimur,  id  est  quae  per  vocem  sonamus,  nam  quod  ait:  sunt  ergo  ea  quae  sunt  in  voce,  30  subaudiendum  est  verba  et  nomina,  et  rursus  cum  dicit:  et  ea  quae  scribuntur,  idem  subnectendum  rursus  est  verba  scilicet  vel  nomina,  et  quod  rursus   1  cur  om.  F1  4.  5  proferetur  F2T  8  post  nomen  ras.  sex  vel  octo  litt.  in  S  12  quid  sit  n.  codices  17  ergo  om.  SF  21  uerba  rursus  F  24  uerba  orationis  F  30.  31  cum  dicit  rursus  F  32  vel]  et  b    I  c.  1.    31    adiecit:  eorum  quae  sunt  in  voce,  addendum  eorum  nomimum  atque  verborum  quae  profert  atque  explicat  vocalis  oratio,  quod  si  nihil  deesset  omnino,  ita  foret  totius  plenitudo  sententiae:  sunt  ergo  ea  verba  et  nomina  quae  sunt  in  voce  earum  quae  sunt  in  anima  passionum  notae  et  ea  verba  et  nomina  quae  scribuntur  eorum  verborum  et  nominum  quae  sunt  in  voce,  quod  communiter  intellegendum  est,  licet  ea  quae  subiunximus  deesse  videantur,  quare  non   est  disiuncta  sententia,  sed  primae  propositioni  continua.  nam  cum  quid  sit  verbum,  quid  nomen  definire  constituit,  cum nominis et verbi NATURA  sit  multiplex,  de quo verbo et nomine tractare vellet clara significatione distinxit, incipiens igitur ab his nominibus ac verbis quae in voce sunt, quorum essent significativa disseruit, ait enim haec passiones animae designare. illud quoque adiecit quibus ipsa verba et nomina quae in voce sunt designentur, his scilicet quae litterarum formulis exprimuntur, 

SED QUONIAM NON OMNIS VOX SIGNIFICATIVA EST, VERBA VERO VEL NOMINA NUMQUAM SIGNIFICATIONIBUS VACANT QUONIAMQUE NON OMNIS VOX QUAE SIGNIFICAT QUAEDAM *POSITIONE* DESIGNAT, SED *QUAEDAM NATURALITER*, UT LACRIMAE, GEMITUS ATQUE MAEROR – ANIMALIUM QUOQUE CETERORUM QUAEDAM VOCES *NATURALITER ALIQUID OSTENTANT* UT EX CANUM LATRATIBUS IRACUNDIA EORUMQUE ALIA QUADAM VOCEM BLANDIMENDA *MONSTRANTUR --verba autem et nomina positione significant neque solum sunt verba et nomina voces, sed voces significativae nec solum significativae, sed etiam QUAE POSITIONE DESIGNENT ALIQUID, NON NATURA: non  dixit: sunt igitur voces earum quae sunt in anima passionum notae, namque neque omnis vox significativa   5.  6  quae  sunt  in  v.—  nomina  in  marg.  F  15  sunt]  sunt  designantes  TGr  17  et  uerba  et  T  20  vel]  et  b 21  vacant  ego:  uacarent  codices ,  carent  b  que  om.  S1  22  quadam  S2E  24  moerorem  S,  merore  FE  32  nam  FT  est et

SUNT QUAEDAM *SIGNIFICATIVAE* QUAE *NATURALITER* NON POSITIONE SIGNIFICENT, quod si ita dixisset, nihil ad proprietatem verborum et nominum pertineret, quocirca noluit communiter dicere  voces, sed dixit tantum ea quae sunt in voce, vox enim universale quiddam est, nomina vero et verba partes, pars  autem omnis in toto est. verba ergo et nomina quoniam sunt intra vocem, recte dictum est ea quae sunt in voce,  velut si diceret: quae intra vocem continentur intellectuum designativa sunt, sed hoc simile est ac si ita dixisset:  vox certo modo sese habens significat intellectus. non enim ut dictum est nomen et verbum voces tantum sunt,  sicut nummus quoque  non  solum  aes  inpressum  quadam  figura  est,  ut  nummus  vocetur,  15  sed  etiam  ut  alicuius  rei  sit  pretium:  eodem  quoque  modo  verba  et  nomina  non  solum  voces  sunt,  sed  POSITAE AD QUANDAM INTELLECTUUM SIGNIFICATIONEM,  vox  enim  quae  nihil  designat,  ut  est  GARALUS,  licet  eam  grammatici  figuram  vocis  intuentes  nomen  esse  contendant,  tamen  eam  nomen  philosophia  non  putabit,  nisi  sit  posita  ut  designare  animi  aliquam  conceptionem  eoque  modo  rerum  aliquid  possit,  etenim  nomen  alicuius  nomen  esse  necesse  erit;  sed  si  vox  aliqua  nihil  designat,  nullius  nomen  est;  quare  si  nullius  est, ne  nomen  quidem  esse  dicetur,  atque  ideo  huiusmodi  vox  id  est  significativa  non  vox  tantum,  sed  verbum  vocatur  aut  nomen,  quemadmodum  nummus  non  aes,  sed  proprio  nomine  nummus,  quo  ab  alio  aere  discre¬  pet,  nuncupatur,  ergo  haec  Aristotelis  sententia  30  qua  ait  ea  quae  sunt  in  voce  nihil  aliud  designat  nisi  eam  vocem,  quae  non  solum  vox  sit,  sed  quae  cum  vox  sit  habeat  tamen  aliquam  proprietatem  et   4  dicere  ( pro  dixit)  T  9.  10  des.  s.  intell.  T,  corr.  T2   13  nummos  S1  18  garulus  F  20  putabit  ego:  putavit   codices  22  aliq.  rer.  F  25  dicitur  T  ideo  om.  F1  27  —  28  non  —  nummus  in  marg.  S  30  qua  ait  om.  F1    I  c.  1.    33    aliquam  quodammodo  figuram  positae  significationis  inpressam.  horum  vero  id  est  verborum  et  nominum  quae  sunt  in  voce  aliquo  modo  se  habente  ea  sunt  scilicet  significativa  quae  scribuntur,  ut  hoc  quod  dictum  est  quae  scribuntur  de  verbis  ac  nominibus dictum  quae  sunt  in  litteris  intellegatur,  potest  vero  haec  quoque  esse  ratio  cur  dixerit  et  quae  scribuntur:  quoniam  litteras  et  inscriptas  figuras  et  voces,  quae  isdem  significantur  formulis,  nuncupamus  (ut  a  et  ipse  sonus  litterae  nomen  capit  et  illa  quae  10  in  subiecto  cerae  vocem  significans  forma  describitur),  designare  volens,  quibus  verbis  atque  nominibus  ea  quae  in  voce  sunt  adparerent,  non  dixit  litteras,  quod  ad  sonos  etiam  referri  potuit  litterarum,  sed  ait  quae  scribuntur,  ut  ostenderet  de  his  litteris  dicere  quae  15  in  scriptione  consisterent  id  est  quarum  figura  vel  in  cera  stilo  vel  in  membrana  calamo  posset  effingi,  alioquin  illa  iam  quae  in  sonis  sunt  ad  ea  nomina  referuntur  quae  in  voce  sunt,  quoniam  sonis  illis  no¬  mina  et  verba  iunguntur.  sed  Porphyrius  de  utraque  expositione  iudicavit  dicens:  id  quod  ait  et  quae  scribuntur  non  potius  ad  litteras,  sed  ad  verba  et  nomina  quae  posita  sunt  in  litterarum  inscriptione  referendum,  restat  igitur  ut  illud  quoque  addamus,  cur  non  ita  dixerit:  sunt  ergo  ea  quae  sunt  in  voce  25  intellectuum  notae,  sed  ita  earum  quae  sunt  in  anima  passionum  notae,  nam  cum  ea  quae  sunt  p.30l  in  voce  res  intellectusque  significent,  principaliter  quidem  intellectus,  res  vero  quas  ipsa  intellegentia  con-  prehendit  secundaria  significatione  per  intellectuum medietatem,  intellectus  ipsi  non  sine  quibusdam  passionibus  sunt,  quae  in  animam  ex  subiectis  veniunt  rebus,  passus  enim  quilibet  eius  rei  proprietatem,   3  sese  E  5  et  F  8  scriptas  b  15  se  de?  15.  16   quae  inscriptione  T  17  menbrana  F  23  proposita  F   24  illas  Tl  26  si  T  31.  32  medietatibus  {pro  pass.)  T  Boetii  comment.  II.  3    34    quam  intellectu  conplectitur,  ad  eius  enuntiationem  designationemque  contendit,  cum  enim  quis  aliquam  rem  intellegit,  prius  imaginatione  formam  necesse  est  intellectae  rei  proprietatemque  suscipiat  et  fiat  vel  5  passio  vel  cum  passione  quadam  intellectus  perceptio,  hac  vero  posita  atque  in  mentis  sedibus  conlocata  fit  indicandae  ad  alterum  passionis  voluntas,  cui  actus  quidam  continuandae  intellegentiae  protinus  ex  intimae  rationis  potestate  supervenit,  quem  scilicet  explicat  et  10  effundit  oratio  nitens  ea  quae  primitus  in  mente  fundata  est  passione,  sive,  quod  est  verius,  significatione  progressa  oratione  progrediente  simul  et  significantis  seorationis  motibus  adaequante,  fit  vero  baec  passio  velut  figurae  alicuius  inpressio,  sed  ita  ut  in  animo  15  fieri  consuevit,  aliter  namque  naturaliter  inest  in  re  qualibet  propria  figura,  aliter  vero  eius  ad  animum  forma  transfertur,  velut  non  eodem  modo  cerae  vel  marmori  vel  chartis  litterae  id  est  vocum  signa  mandantur.  et  imaginationem  Stoici  a  rebus  in  animam  20  translatam  loquuntur,  sed  cum  adiectione  semper  dicentes  ut  in  anima,  quocirca  cum  omnis  animae  passio  rei  quaedam  videatur  esse  proprietas,  porro  autem  designativae  voces  intellectuum  principaliter,  rerum  dehinc  a  quibus  intellectus  profecti  sunt  significatione nitantur, quidquid  est  in  vocibus  significativum,  id  animae  passiones  designat,  sed  hae passiones animarum ex rerum similitudine procreantur, videns  4 intellegi T  ( corr.  T1)  5  intellectio  T  6  Haec  T   8  quidem  F  9  quem  actum  F,  actum  supra  lin.  J,  s.  actum  supra  lin.  S2  12  oratione  ego:  oratio  codices;  oratio  suprascr.  s.  explicat  S2,  oratio explicat  F  significatione  dei  et  post  simul  transponit  F2  (E  in  marg.:  aliter  siue  quod  est  verius  significatione  progrediente  oratio  progressa  simul  et  se  signif.  or.  mot.  adaeq.)  13  metibus  S1,  mentibus  F1  17  transferetur  T,  corr.  T2  17  vel  om.  F  19  a  om.  S1  25  nitatur  S^1  27  animorum  SFE  et  T^1    I  c.  1.    35    namque  aliquis  sphaeram  vel  quadratum  vel  quamlibet  aliam  rerum  figuram  eam  in  animi  intellegentia  quadam  vi  ac  similitudine  capit,  nam  qui  sphaeram  viderit,  eius  similitudinem  in  animo  perpendit  et  cogitat  atque  eius  in  animo  quandam  passus  imaginem  id  cuius  imaginem  patitur  agnoscit,  omnis  vero  imago  rei  cuius  imago  est  similitudinem  tenet:  mens  igitur  cum  intellegit,  rerum  similitudinem  conprehendit.  unde  fit  ut,  cum  duorum  corporum  maius  unum,  minus  alterum  contuemur,  a  sensu  postea  remotis  corporibus  illa  ipsa  corpora  cogitantes  illud  quoque  memoria  servante  noverimus  sciamusque  quod  minus,  quod  vero  maius  corpus  fuisse  conspeximus,  quod  nullatenus  eveniret,  nisi  quas  semel  mens  passa  est  rerum  similitudines  optineret.  quare  quoniam  passiones  animae  quas  intellectus  vocavit  rerum  quaedam  similitudines  sunt,  idcirco  Aristoteles,  cum  paulo  post  de  passionibus  animae  loqueretur,  continenti  ordine  ad  simili¬  tudines  transitum  fecit,  quoniam  nihil  differt  utrum  passiones  diceret  an  similitudines,  eadem  namque  res  in  anima  quidem  passio  est,  rei  vero  similitudo,  et  Alexander  hunc  locum:  sunt  ergo  ea  quae  sunt  in  voce  earum  quae  sunt  in  anima  passionum  notae  et  ea  quae  scribuntur  eorum  quae  sunt  in  voce,  et  quemadmodum  nec  litterae  omni¬  bus  eaedem,  sic  nec  voces  eaedem  hoc  modo  conatur  exponere:  proposuit,  inquit,  ea  quae  sunt  in  voce  intellectus  animi  designare  et  hoc  alio  probat  exemplo,  eodem  modo  enim  ea  quae  sunt  in  voce  passiones  animae  significant,  quemadmodum  ea  quae  scribuntur  voces  designant,  ut  id  quod  ait  et  ea  quae   1  aliquis  om.  T,  aliqui  E  feram  S,  speram  S2FT  3  ui§  (pro  vi  ac)  SF  speram  FT  9  duum  S2F2  12  sciamusque  ego:  sciemusq.  codices  14  mens  om.  T  20  pass.  animae  editio  princeps  24  inscribuntur  SFE  26  eaedem  uoces  codices  (item  p.  36,  6.  7)  29  enim  modo  F    scribuntur  ita  intellegamus,  tamquam  si  diceret:  quemadmodum  etiam  ea  quae  scribuntur  eorum  quae  sunt  in  voce,  ea  vero  quae  scribuntur,  inquit  Alexander,  notas  esse  vocum  id  est  nominum  ac  verbo-  5  rum  ex  hoc  monstravit  quod  diceret  et  quemadmo¬  dum  nec  litterae  omnibus  eaedem,  sic  nec  voces  eaedem,  signum  namque  est  vocum  ipsarum  significationem  litteris  contineri,  quod  ubi  variae  sunt  litterae  et  non  eadem  quae  scribuntur  varias  quoque voces  esse  necesse  est.  haec  Alexander.  Porphy-  rius  vero  quoniam  tres  proposuit  orationes,  unam  quae  litteris  contineretur,  secundam  quae  verbis  ac  nominibus  personaret,  tertiam  quam  mentis  evolveret  intellectus,  id  Aristotelem  significare  pronuntiat,  15  cum  dicit:  sunt  ergo  ea  quae  sunt  in  voce  earum  quae  sunt  in  anima  passionum  notae,  quod  ostenderet  si  ita  dixisset:  sunt  ergo  ea  quae  sunt  in  p.  302  voce  et  verba  et  nomina  animae  passionum  |  notae,  et  quoniam  monstravit  quorum  essent  voces  significa-  20  tivae,  illud  quoque  docuisse  quibus  signis  verba  vel  nomina  panderentur  ideoque  addidisse  et  ea  quae  scribuntur  eorum  quae  sunt  in  voce,  tamquam  si  diceret:  ea  quae  scribuntur  verba  et  nomina  eorum  quae  sunt  in  voce  verborum  et  nominum  notae  sunt.  25  nec  disiunctam  esse  sententiam  nec  (ut  Alexander  putat)  id  quod  ait:  et  ea  quae  scribuntur  ita  in¬  tellegendum,  tamquam  si  diceret:  sicut  ea  quae  scribuntur  id  est  litterae  illa  quae  sunt  in  voce  significant,  ita  ea  quae  sunt  in  voce  notas  esse  animae  30  passionum,  primo  quod  ad  simplicem  sensum  nihil  addi  oportet,  deinde  tam  brevis  ordo  tamque  necessaria  orationis  non  est  intercidenda  partitio,  tertium  vero  quoniam,  si  similis  significatio  est  litterarum  vo-   5  quo  TE1  9  eaedem  F,  eedem  T  13  quae  F  14  ari-  stotelen  T  18  prius  et  om.  TE  20  et  b  29  sunt  om.  SF  30  primum?  quidem  quod  b  31  deinde  quod  b  tamque]  tamquam  T  33  esset  E2    I  c.  1.    37    cumque,  quae  est  vocum  et  animae  passionum,  opor¬ tet  sicut  voces  diversis  litteris  permutantur,  ita  quoque  passiones  animae  diversis  vocibus  permutari,  quod  non  fit.  idem  namque  intellectus  variatis  potest  voci¬  bus  significari,  sed  Alexander  id  quod  eum  superius  sensisse  memoravi  boc  probare  nititur  argumento,  ait  enim  etiam  in  hoc  quoque  similem  esse  significa¬  tionem  litterarum  ac  vocum,  quoniam  sicut  litterae  non  naturaliter  voces,  sed  positione  significant,  ita  quoque  voces  non  naturaliter  intellectus  animi,  sed  aliqua  positione  designant,  sed  qui  prius  recepit,  ut  id  quod  Aristoteles  ait:  et  ea  quae  scribuntur  ita  dictum  esset,  tamquam  si  diceret:  sicut  ea  quae  scribuntur,  quidquid  ad  hanc  sententiam  videtur  ad-  iungere,  aequaliter  non  dubitatur  errare,  quocirca  nostro  iudicio  qui  rectius  tenere  volent  Porphyrii  se  sententiis  adplicabunt.  Aspasius  quoque  secundae  sententiae  Alexandri,  quam  supra  posuimus,  valde  consentit,  qui  a  nobis  in  eodem  quo  Alexander  errore  culpabitur.  Aristoteles  vero  duobus  modis  esse  has  notas  putat  litterarum,  vocum  passionumque  ani¬  mae  constitutas:  uno  quidem  positione,  alio  vero  na¬  turaliter.  atque  hoc  est  quod  ait:  et  quemadmodum  nec  litterae  omnibus  eaedem,  sic  nec  voces  eaedem,  nam  si  litterae  voces,  ipsae  vero  voces  intellectus  animi  naturaliter  designarent,  omnes  homines  isdem  litteris,  isdem  etiam  vocibus  uterentur,  quod  quoniam  apud  omnes  neque  eaedem  litterae  neque  eaedem  voces  sunt,  constat  eas  non  esse  naturales,  sed  hic  duplex  lectio  est.  Alexander  enim  hoc  modo  legi  putat  oportere:  quorum  autem  haec  primo-   1.  2  oporteret E 11 recipit S, corr. S2 18—19  quam  —  Alexander  in  marg.  S  21  vocum  om.  S1  24.  25  eaedem  v.  codices  {item  p.  38,  10  et  29)  27  hisdem  S2F2TE   hisdem  SF2TE  31  hae  codices  {item  p.  38,  18)    5   10   15   20   25   30    38    rum  notae,  eaedem  omnibus  passiones  animae  et  quorum  eaedem  similitudines,  res  etiam  eaedem,  volens  enim  Aristoteles  ea  quae  positione  significant  ab  bis  quae  aliquid  designant  naturaliter  5  segregare  hoc  interposuit:  ea  quae  positione  significant  varia  esse,  ea  vero  quae  naturaliter  apud  omnes  eadem,  et  incobans  quidem  a  vocibus  ad  litteras  venit  easque  primo  non  esse  naturaliter  significativas  demonstrat  dicens:  et  quemadmodum  nec  litterae  omnibus  eaedem,  sic  nec  voces  eaedem,  nam  si  idcirco  probantur  litterae  non  esse  naturaliter  significantes,  quod  apud  alios  aliae  sint  ac  diversae,  eodem  quoque  modo  probabile  erit  voces  quoque  NON NATURALITER SIGNIFICARE,  quoniam  singulae  hominum  gentes  15  non  eisdem  inter  se  vocibus  conio quantur.  volens  vero  similitudinem  intellectuum  rerumque  subiectarum  docere  naturaliter  constitutam  ait:  quorum  autem  haec  primorum  notae,  eaedem  omnibus  passio¬  nes  animae,  quorum,  inquit,  voces  quae  apud  diver-  20  sas  gentes  ipsae  quoque  diversae  sunt  significationem  retinent,  quae  scilicet  sunt  animae  passiones,  illae  apud  omnes  eaedem  sunt,  neque  enim  fieri  potest,  ut  quod  apud  Romanos  homo  intellegitur  lapis  apud  barbaros  intellegatur,  eodem  quoque  modo  de  ceteris  25  rebus,  ergo  huiusmodi  sententia  est,  qua  dicit  ea  quae  voces  significent  apud  omnes  hominum  gentes  non  mutari,  ut  ipsae  quidem  voces,  sicut  supra  monstravit  cum  dixit  quemadmodum  nec  litterae  omnibus  eaedem,  sic  nec  voces  eaedem,  apud  30  plures  diversae  sint,  illud  vero  quod  voces  ipsae  si¬  gnificant  apud  omnes  homines  idem  sit  nec  ulla  ra-   1  animae  sunt  codices  ( item  19)  7  inchoatis  T  8  significas  S1,  signifitiuas  T  15  colloquuntur  b  17  //////ait  S,  quod  ait  TE  (quod  dei.  E1?)  22  apud  om.  F,  add.  F1   23  qui  T  24  modo  quoq.  F  29  apud  ego:  cum  apud  codices  31  fit  F    I  c.  1.    39    tione  valeat  permutari,  qui  sunt  scilicet  intellectus  rerum,  qui  quoniam  naturaliter  sunt  permutari  non  possunt,  atque  hoc  est  quod  ait:  quorum  autem  haec  primorum  notae,  id  est  voces,  eaedem  om¬  nibus  passiones  animae,  ut  demonstraret  voces quidem  esse  diversas,  quorum  autem  ipsae  voces  significativae  essent,  quae  sunt  scilicet  animae  passiones,  easdem  apud  omnes  esse  nec  |  ullratione,  quoniam   sunt  constitutae  naturaliter,  permutari,  nec  vero  in  hoc  constitit,  ut  de  solis  vocibus  atque  intellectibus  loqueretur,  sed  quoniam  voces  atque  litteras  non  esse  naturaliter  constitutas  per  id  significavit,  quod  eas  non  apud  omnes  easdem  esse  proposuit,  RURSUS INTELLECTUS QUOS ANIMAE PASSIONES VOCAT PER HOC ESSE NATURALES OSTENDIT, QUOD *APUD OMNES IDEM SINT,  a  quibus id  est  intellectibus  ad  res  transitum  fecit,  ait  enim  quorum  hae  similitudines,  res  etiam  eaedem  hoc  scilicet  sentiens,  quod  res  quoque  naturaliter  apud  omnes  homines  essent  eaedem:  sicut  ipsae  animae  passiones  quae  ex  rebus  sumuntur  apud  omnes  homines  eaedem  sunt,  ita  quoque  etiam  ipsae  res  quarum  similitudines  sunt  animae  passiones  eaedem  apud  omnes  sunt,  quocirca  quoque  naturales  sunt,  sicut  sunt  etiam  rerum  similitudines,  quae  sunt  animae  passiones.  H  er  minus  vero  huic  est  expositioni  contrarius.  dicit  enim  non  esse  verum  eosdem  apud  omnes  homines  esse  intellectus,  quorum  voces  significativae  sint,  quid  enim,  inquit,  in  aequivocatione  dicetur,  ubi  unus  idemque  vocis  modus  plura  significat?  sed  magis  hanc  lectionem  veram  putat,  ut  ita  30  sit:  quorum  autem  haec  primorum  notae,  hae  omnibus  passiones  animae et quorumhae similitudines, res etiam hae: ut demonstratio vi-  4 hae codices (item 31) animae sunt codices (item 32)  21 quarum b: quorum codices  23 homines  F,  corr.  F2  res  quoq.  b  28  sunt  F  31  autem  ovi.deatur quorum voces significativae sint vel quorum passiones animae similitudines, et lioc simpliciter accipiendum  est  secundum  Her minum,  ut  ita  dicamus:  quorum  voces  significativae  sunt,  illae  sunt  animae passiones,  tamquam  diceret:  animae  passiones  sunt,  quas  significant  voces,  et  rursus  quorum  sunt  similitudines  ea  quae  intellectibus  continentur,  illae  sunt  res,  tamquam  si  dixisset:  res  sunt  quas  significant  intellectus.  sed  Porphyrius  de  utrisque  acute  subtiliterque  iudicat  et  Alexandri  magis  sententiam  probat,  hoc  quod  dicat  non  debere  dissimulari  de  multiplici  aequivocationis  significatione,  nam  et  qui  dicit  ad  unam  quamlibet  rem  commodat  animum,  scilicet  quam  intellegens  voce  declarat,  et  unum  rursus  intellectum  quemlibet  is  qui  audit  exspectat,  quod  si,  cum  uterque  ex  uno  nomine  res  diversas  intellegunt,  ille  qui  nomen  aequivocum  dixit  designet  clarius,  quid  illo  nomine  significare  voluerit,  accipit  mox  qui  audit  et  ad  unum  intellectum  utrique  conveniunt,  qui  rursus  fit  unus  apud  eosdem  illos  apud  quos  primo  diversae  fuerant  animae  passiones  propter  aequivocationem  nominis.  neque  enim  fieri  potest,  ut  qui  voces  positione  significantes  a  natura  eo  distinxerit  quod  easdem  apud  omnes  esse  non  diceret,  eas  res  quas  esse  naturaliter  25  proponebat  non  eo  tales  esse  monstraret,  quod  apud  omnes  easdem  esse  contenderet,  quocirca  Alexander  vel  propria  sententia  vel  Porphyrii  auctoritate  probandus  est.  sed  quoniam  ita  dixit  Aristoteles:  quorum  autem  haec  primorum  notae,  eaedem omnibus  passiones  animae  sunt,  quaerit  Ale-   9.  10  suptiliterq.  SE  11  hoc  dei.  S2,  om.  F  quod  F:   quo  STEGN,  quoque  E2  dicit  E2  14  voce  eras,  in  F   16  utrique? 17 designat T quod T 18 nomen S1 23 distinxerint T quos (suprascr.  d)  S,  qui  (in  marg.  quod)  T  24  eas]  is?  25  demonstraret  T  27  pro  porphirii  E  29  hae  codices  I  c.  1. 41    x  and  er:  si  rerum  nomina  sunt,  quid  causae  est  ut  primorum  intellectuum  notas  esse  voces  diceret  Aristoteles?  rei  enim  ponitur  nome,  ut  cum  dicimus  “homo” SIGNIFICAMUS (ROMANI) quidem intellectum, rei tamen nomen est id est animalis rationalis mortalis, cur ergo non primarum magis rerum notae sint voces quibus ponuntur potius quam intellectuum? sed fortasse quidem ob  hoc dictum est, inquit, quod licet voces rerum nomina sint, tamen non idcirco utimur vocibus, ut res significemus, sed ut eas quae ex rebus nobis io innatae sunt animae passiones, quocirca propter quorum significantiam voces ipsae proferuntur, recte eorum primorum esse dixit notas, in hoc vero Aspasius permolestus est. ait enim: qui  fieri  potest,  ut  eaedem  apud  omnes  passiones  animae  sint,  cum  tam  diversa  sententia  de  iusto  ac  bono  sit?  arbitratur  Aristotelem  passiones  animae  non  de  rebus  incorporalibus,  sed  de  his  tantum  quae  sensibus  capi  possunt  passiones  animae  dixisse,  quod  perfalsum  est.  neque  enim  umquam  intellexisse  dicetur,  qui  fallitur,  et  fortasse  quidem  passionem  animi  habuisse  dicetur,  quicumque  id  quod  est  bonum  non  eodem  modo  quo  est,  sed  aliter  arbitratur,  intellexisse  vero  non  dicitur.  Aristoteles  autem  cum  de  similitudine  loquitur,  de  intellectu  pronuntiat,  neque  enim  fieri  potest,  ut  qui  25  quod  bonum  est  malum  esse  arbitratur  boni  similitudinem  mente  conceperit,  neque  enim  intellexit  rem  subiectam.  sed  quae  sunt  iusta  ac  bona  ad  positionem  omnia  naturamve  referuntur,  et  si  de  iusto  ac  bono  p.  304  ita  loquitur,  ut  de  eo  quod  civile  ius  aut  civilis  in-  30   1  quod  T  causa  S  F  2  dixerit  b  4  pro  tamen:  quidem  T  6  sunt  E,  corr.  E2  8  quidem  post  dictum  F  10  nris  STE  (corr.  S2E2)  11  sint  S  praeter  T 13esse prim.  F 22  ///////id  S, cum  id  TE  (cum  dei.  E2)  quidem  (pro  quod  est)  T  quo  S2F2:  quod  SFTE  23  dicetur?   29  si  om.  S1  30  ita  om.  F1 iuria  dicitur,  recte  non  eaedem  sunt  passiones  animae,  quoniam  civile  ius  et  civile  bonum  positione  est,  non  natura,  naturale  vero  bonum  atque  iustum  apud  omnes  gentes  idem  est.  et  de  deo  quoque  idem:  cuius  5  quamvis  diversa  cultura  sit,  idem  tamen  cuiusdam  eminentissimae  naturae  est  intellectus,  quare  repetendum  breviter  a  principio  est.  <(a^>partibus  enim  ad  orationem  usque  pervenit:  nam  quod  se  prius  quid  esset  verbum,  quid  nomen  constituere  dixit,  hae  mi-  10  nimae  orationis  partes  sunt;  quod  vero  adfirmationem  et  negationem,  iam  de  conposita  ex verbis  et  nominibus  oratione  loquitur,  quae  eaedem  rursus  partes  sunt  enuntiationis,  et  post  enuntiationis  propositionem  de  oratione  loqui  proposuit,  cuius  ipsa  quoque  enuntiatio,  pars  est.  et  quoniam  (ut  dictum  est)  triplex  est  oratio,  quae  in  litteris,  quae  in  voce,  quae  in  intellectibus  est,  qui  verbum  et  nomen  definiturus  esset  eaque  significativa  positurus,  dicit  prius  quorum  significativa  sint  ipsa  verba  et  nomina  et  incohat  quidem  ab  his  nominibus  et  verbis  quae  sunt  in  voce  dicens:  sunt  ergo  ea  quae  sunt  in  voce  et  demonstrat  quorum  sint  significativa  adiciens  earum  quae  sunt  in  anima  passionum  notae.  rursus  nominum  ipsorum  verborumque  quae  in  voce  sunt  ea  verba  et  nomina  quae  essent  in  litteris  constituta  significativa  esse  declarat  dicens  et  ea  quae  scribuntur  eorum  quae  sunt  in  voce,  et  quoniam  quattuor  ista  quaedam  sunt:  litterae,  voces,  intellectus,  res,  quorum  litterae  et  voces  positione  sunt,  natura  vero  res  atque intellectus,  demonstravit  voces  non  esse  naturaliter,  sed  positione  per  hoc  quod  ait  non  easdem  esse  apud  omnes,  sed  varias,  ut  est  et  quemadmodum  nec   1  non  recte  F  7  a  ego  add.:  om.  codices  8  quod  om.  T 15.  16  or.  est  F  16  postrem.  in  om.  FE  18  ea  quae  FE  positurus  b:  positurus  est  codices  22  sign.  sint  F  eorum  SFE  30  litteras  et  voces?  31  per  om.  SFT  quod  b:  quo///F,  quo  STE I  c.  1. 43 litterae  omnibus  eaedem,  sic  nec  voces  eaedem.  ut  vero  demonstraret  intellectus  et  res  esse  naturaliter,  ait  apud  omnes  eosdem  esse  intellectus,  quorum  essent  voces  significativae,  et  rursus  apud  omnes  easdem  esse  res,  quarum  similitudines  essent  animae  passiones,  ut  est  quorum  autem  haec  primorum  notae,  scilicet  quae  sunt  in  voce,  eaedem  omnibus  passiones  animae  et  quorum  hae  similitudines,  res  etiam  eaedem,  passiones  autem  animae  dixit,  quoniam  alias  diligenter  ostensum  est  omnem  vocem  animalis  aut  ex  passione  animae  aut  propter  passionem  proferri,  similitudinem  vero  passionem  animae  vocavit,  quod  secundum  Aristotelem  nihil  aliud  intellegere  nisi  cuiuslibet  subiectae  rei  proprietatem  atque  imaginationem  in animae ipsius  reputatione suscipere, de quibus animae passionibus in libris se de anima commemorat diligentius disputasse, sed quoniam  demonstratum  est,  quoniam  et verba et nomina et oratio intellectuum  principaliter  significativa  sunt,  quidquid  est  in  voce  significationis  ab  intellectibus  venit,  quare  prius  paululum  de  intellectibus  perspiciendum  ei  qui  recte  aliquid  de  vocibus  disputabit,  ergo  quod  supra  passiones  animae  et  similitudines  vocavit,  idem  nunc  apertius  intellectum  vocat  dicens:   Est  autem,  quemadmodum  in  anima  aliquotiens  quidem  intellectus  sine  vero  vel  falso,  aliquotiens  autem  cui  iam  necesse  est  horum  alterum  inesse,  sic  etiam  in  voce;  circa  conpositionem  enim  et  divisionem  est  falsitas  veri-   1.  2  eaedem  v.  codices  2  et]  ut  intellectus esse quarum b: quorum codices 6 haec E Ar. : hae Eet  ceteri  8  animae  sunt  codices  aliud  S:  aliud  est  est  aliud  TE ait. quon.]  quomodo  E  22  perspiciendum  S:  persp.  est S2FTE  de  om.  SF  23  disputauit  S^F1TE  28  cui  Ar.  <p  cf.  ed.  I:  cum  codices  30  autem falsitas  ueritasq;   ueritas  fals. ceteri SECVNDA EDITIO tasque. nomina igitur ipsa et verba consimilia  sunt  sine  conpositione  vel  divisione  intellectui, ut homo vel album, quando  non  additur  aliquid;  neque  enim  adhuc  verum  aut  falsum  est.  huius  autem  signum  hoc  est:  hircocervus  enim  significat  aliquid, sed nondum verum vel falsum, si non vel esse vel non esse addatur, vel  simpliciter  vel  secundum  tempus. Pietro Caramello. Keywords: interpretare, peryermeneias, Aquino, blityri – blythyri SG blithyri NT blythiri EF? (in fine suprascr. S F)”. “signatiuis” “significativis” garalus  garulus F. --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caramello” – The Swimming-Pool Library.

 

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