Friday, April 26, 2024

GRICE ITALICO A/Z C 5

 

Grice e Contestabile: l’implicatura conversazionale di BRVNO al rogo -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Teano). Filosofo italiano. Grice: “I love Contestabile; I love a philosopher with a sense of humour! At Oxford, it has become increasingly difficult to laugh at people’s surnames! But ‘grice’ means ‘pig,’ in Norwegian! – Anyway, Contestabile contests a revisionist account of Bruno’s life – “surely he wasn’t a coward – I know because of his links with the Campanella whom my family supported in his fight against the furriners!” Cacciato con una telefonata» Intervista di Dino Martirano, Corriere della sera. Con il Psi non ho ricoperto grandi incarichi ma ho avuto l'onore di essere stato amico di Craxi. Mi mancherà la politica ma non è una tragedia. Torno ai miei studi, alla filosofia medioevale. Mi mancheranno certi momenti. Io, che ero stato nel Psi fin quando la procura della Repubblica lo ha sciolto, ricordo bene i mesi trascorsi al ministero della Giustizia: col ministro Biondi fummo i protagonisti del tentativo fallito, però generoso, di riportare la giustizia sui binari della normalità. Sciolto il partito [Psi], chi si è fatto maomettano, chi ebreo, chi cattolico. Però sempre socialisti siamo rimasti. Avvocato e politico italiano Sottosegretario di Stato del Ministero della Giustizia Presidente Berlusconi Predecessore Sorice Successore Mirone Vicepresidente del Senato della Repubblica Presidente Mancino Senatore della Repubblica Italiana Legislature Gruppo parlamentare Forza Italia Circoscrizione Lombardia Collegio Cinisello Balsamo, Vigevano Incarichi parlamentari Sottosegretario di Stato per la grazia e giustizia Sito istituzionale Dati generali Partito politico FI Titolo di studio Laurea in giurisprudenza Professione avvocato. Avvocato e politico italiano.  Laureato in giurisprudenza, esercita la professione di avvocato. Entra in politica iscrivendosi al Partito Socialista Italiano (partito a cui è appartenuto fino agli eventi che hanno travolto tale formazione politica)[1]. In seguito aderisce a Forza Italia, affermando che in tale movimento politico l'area socialista era ben accolta e rappresentata. Viene eletto senatore ed è rieletto anche nelle due successive legislature. Vicepresidente del Senato. Incarichi parlamentariModifica Ha fatto parte delle seguenti commissioni parlamentari: Affari costituzionali e giustizia; Difesa. Membro, inoltre, della giunta per le elezioni e immunità parlamentari.  Sottosegretario di StatoModifica È stato sottosegretario di Stato per la Grazia e giustizia nel primo governo di Silvio Berlusconi. Tutti i figli e i figliastri del garofano. su qn.quotidiano.net. Adnkronos - Psi: C. a De Michelis, noi stiamo bene in FI ^ Senato - XIII legislatura Voci correlate Modifica Governo Berlusconi I Partito Socialista Italiano  C., su Senato.it - XII legislatura, Parlamento italiano. C., su Senato.it - XIII legislatura, Parlamento italiano. Domenico Contestabile, su Senato.it - XIV legislatura, Parlamento italiano. Biografie Portale Biografie Politica Portale Politica Socialismo Portale Socialismo. PAGINE CORRELATE Fabrizio Cicchitto politico italiano  Maceratini politico e avvocato italiano  Scamarcio politico italiano   Altre saggi: Bruno: una revisione contestata” – La storia della filosofia è continua revisione, e non mi scandalizzo per il revisionismo bruniano. Mi sembra però che questi non colga nel segno. La vita diBruno, dalla fuga da S. Domenico Maggiore a Napoli fino al rogo di Campo dei Fiori a Roma, è di singolare coerenza. È una vita “contro”. L’accusa implicita di opportunismo mi sembra perciò singolare. E’ vero che, durante il processo, ritratta molte sue tesi, e avrebbe avuto salva la vita se continua in questo atteggiamento. Alla fine però si stanca, e scolge lucidamente di morire. È opportunista chi cerca solo di salvare la pelle, e poi decide di morire perché ritiene che il suoi giudice ha esagerato? In quanto alla tesi sul Bruno spia elisabettiana, essa non è provata, anzi è smentita dalla comparazione tra la grafia di Bruno e quella dei biglietti di spionaggio. Infine, la tesi a proposito della relazione tra Campanella e Bruno non mi ha mai convinto. Campanella (la sua rivolta e finanziata dalla nobile famiglia C., come ricorda Firpo nel suo ottimo saggio sul processo a Campanella) vuole poi un regime “comunista”? A leggere “La città del sole” non si direbbe.  (CA  ui  i) e iui Mia ba, VA  dai ‘agi LS  it Il    EGR Ln  i \ LA va Di =  | Pome Rm Te  ti n. i Li  I e Aa Kt Hlirpogt] lb pi  n 9 ha So Rif [a E Ji >    a  ILLE di pe  LIS   ia      Giordano Bruno       DRAMMA MILANO  Tipografia Commercial  n als  dtt    ,    TORIO EMANUELE , Carnevale 1881 -82.    {Resta sapore * T'ERSONAGGI   BRUNO —. . . Sig. G. SALASSA  LORENZO (figlio naturale di  GIORDANO BRUNO, «dot-    tato:da).. ... ». > A.D'ANDRADE  ROMANO DEI LOMBARDI «+. > F. MIGLIARA    LEANDRO giovine patrizio. S.ra ANGIOLETTI    LAURA figlia di ROMANO. >» A. Busi    IL GRANDE INQUISITORE . Sig. SALVARANI —    ROCCO LILLE DAMIANI    ANDREA  . Ni agN°  UNGUARDIANO) che nonparlano —N. N.  UN OsTE .. Ni Ni    Giovani e Nobili Veneziani, Servi di Romano,  Gondolieri, Seguaci di Bruno, Soldati, In-  quisitori, Si Servi del S. Uffizio,  Frati e Popolo.    L'azione del 1.° e 2.° Atto è in Veni  quella del:3.° e 4.° Atto in Re  Anno 1600          ber a  pieni  Sofee  bi;   pece  SUIT ZIA    Fitto Primo       PIAZZA IN'VENEZIA    Un’Osteria e alcune seggiole. — In fondo un canale  praticabile, che traversa la scena. — Sul canale un  ponte, che mette in un viottolo, sull'angolo del  quale sorge a destra, un magnifico Palazzo illumi—  minato a festa, prospiciente sul Canale. —.Un in-  gresso laterale, illuminato da faci fisse ai muri, con-  ducedal viottolo nel Palazzo. La porta principale verso .  il Canale è aperta; durante la scena seguente, visi ve-  dono approdare gondole, dalle quali scendono persone  ragguardevoli, che, ricevute dai servi, entrano nel  Palazzo. — Sera. i    SCENA TI,    GIOVANI e NOBILI VENEZIANI, parte ‘in abiti fanta-  stici con mezza maschera al volto, e parte in abiti  comuni, vengono da sinistra, traversano il ponte,  e dalla strada entrano nel Palazzo. LEANDRO,  ROCCO ed altri Giovani vanno e vengono ferman-  dosi sulla Piazza, cantando e ridendo, Poi LQ-  RENZO e LAURA.    Leandro  (accompagnandosi colla ghitarra)    A te, Venezia bella, adorata,  A te, mia sposa, la serenata. HEVVPETIAIAMITEREZI LIA VITE RENTAL rara rr ovinantosinezineneisevazize vecio sinioneee  IVTIPRErTA:Itr rara rirevenaatos aes szereris cva:i0e vice vi’ veve’ ’avurecovio sr 0uIvI vare ri [tti STA    Hocco  (Volgendosi all’osteria)    Leandro, scuotiti!  Le mura adori?...  Vieni ove brillano  Divini amori,  Ove donzelle  Cotanto belle  Potrai mirar.    Coro dei nobili  Al convito n’andiam! alla festa!    Leandro    Prima di venir alla gran festa  Distruggere io vo’ un'idea funesta!  Oste, su via porgetemi  Vino di Cipro; a questo petto ardente  - -  Occorre del più vecchio e più potente.  Vivan le belle  Danzanti; volano....  Gli occhi fiammeggiano  Più che le stelle;  Ne’ Joro vortici  Mi ruban Vanima....  sui Crudo gioir!  «__°—’—Più non mi muovo  — Suolo dolcissimo, ir       belt       —r__F—rrrrrr n  -___  a-rt-rvreorosoeeriovoe nueva zeranen sonia mise eeerarmierereriiovnieteacivoteote0ie    Nido mio nuovo!   Muoio in tue braccia...  Santo delir! |   A te, Venezia bella, adorata,   A te, mia sposa, la serenata,    Coro  AI Convito! n’andiam alla festa.  (S'appressano in una gondola LAURA e LORENZO)    Eaurna    Sul mare immenso — più non impera   Nè sulla terra — che la circonda...  Venezia, è fango — la tua bandiera!  Lutto e non feste! — Pianga e s’ asconda.    Core (con alto di cu iosità)    E un amante e la sua Della  Che passeggiano alla luna;  Laura sembra la sua stella,  Ma egli fa poca fortuna.  Seguiam tutti i vaghi amanti,  E vediam, se pur n’ è dato,  In fra i suoni, i balli e i canti  Di trovar l’innamorato.   È Lorenzo di Giordano,   Che fuggì dal sacro tempio ;   lì Lorenzo... il vil, l’insano  Che ne porge un triste esempio.          Lorenzo (con ira) .    È rivolta a me l’offesa?  L’alma freme, batte il core!   - Già suonaron l’ultim’ ore; -  E voi tutti io sfiderò.    Laura    E rivolta a te I’effesa; rato  L’alma freme, batte il core!...  Già suonaron l'ultim’ ore  Io con te li sfiderò.  (LORENZO furente si scaglia contro ROCCO, e gli    toglie la spada. Gli altri NOBILI sguainano. le  proprie e si schierano în fondo)    SCENA II.    Detti, ROMANO dei LOMBARDI entra frettoloso dalla  casa di destra, seguito da servi con torce accese,    Bomano    Chi grida? Chi chiama? Qual chiasso villano?  Non son cîttadini, ma plebe briaca !   Lorenzo, tu?... Il ferro in mano hai snudato?....  Parla! Che avvenne! Sei pazzo ?... Ti placa!...    Laura (atterrita alla vista del padre)    Che mai dirà  Al Genitor?... pa Voce non ha,  Non ha più cor.    Lorenzo (con timore)    Che mai dirò  AI Genitor?...  Voce non ho,  Non ho più cor.    Leandro (con circospezione)    Il segno di croce facciamoci... e andiam via!  Quel vecchio è uno sgherro dell’ Inquisizione.  Partiamo, fuggiamo... La belva più ria,  E un angelo a petto di questo demòne.    Romane (ai Nobili)    Non chiedo ragioni di vostra contesa,  Fra tenebre nacque... in tenebre resti;  E calmi la notte col sonno gli. ardori  Di giovani folli, di stolti furori....  Partite! Or è cauto lontani restar.    Coro di Nobili (infimoriti da Romano).    Fuggiam dal feroce  Vegliardo Romano :  Col fiato ne ammorba  Il truce, l’insano;    nea    Qui tutto è sospetto....  Amici, fuggìam.    1 NOBILI, it CORO, LEANDRO e LAURA sì riti-  rano pel ponte ed entrano nel Palazzo. L’OSTE  ha chiuso ed è scomparso durante la rissa, ROMANO  fa un cenno ai Servi di allontanarsi.    SCENA III.    ROMANO e LORENZO  Romano    Vengo, tu il sai, da Roma; e il Santo  Re e Pontefice armava il braccio mio.  ‘Or sotto il ferreo terribil manto  Della suprema Città di Dio  L’ Inquisizione veneta sta;  E a Roma solo ubbidirà.  Dell’ eresia le vampe infeste  Soffocherò —. tutte le teste  D’ un colpo all’ idra io troncherò.    Lorenzo  Fu il Campanella scoperto e preso?  Romano    Libero ei 8° agita... Ma il gran sovrano  De’ rei, che Italia e il mondo ha acceso       Contro la Chiesa santa, è Giordano.  Presso i suoi complici quì ascoso stà!    Lorenzo  Odio quel uomo tanto... tel giuro.    Romano    Non basta odiarlo: questo io non curo;  Tu quì arrestarlo ora dovrai:    (Musica da ballo neil’interno del Palazzo)    In fra le maschere lo scoprirai,  Ed il porrat — nelle mie man.    Lorenzo  Si chiede un atto di traditor?...  Romano  Queste ai novizi prove si dan.  Lorenzo  Tradir ricuso; son uom d’onor.  Romano (con sdegno)    A me tu, folle, devi?...    RANA RARA pinete    Lorenzo  Obbedienza !  Homano  Ed alia Chiesa! Trema...  . Lorenzo (soffocando il furore)  Obbedienza!  Romano  Dunque ?...  Lorenzo (con sottomissione)  Giordano io scoprirò!  Eomano (ricomponendosi)  Tuci giovanili e schictti  Modi ti gioveran, se manca il senno  Di età maggior, Tuo sguardo onestà; ispira,  K assai tua voce ad ascoltarti attira.  Per la grand’ opra non sarai solo,  D’altri miei fidi 1’ aiuto avrai;    Pronto a miei cenni sempre sarai,  Uno per ‘tutti sia il mio voler.          Lorenzo (con dolore)    L’iniqua trama ahi mi colpisce!   La terra, il cielo pur n’ hanno orror!...  Vile è colui, ch’ altri tradisce,   Nè v' ha pietade pel traditor.    ERomano (imperioso) Come voglio, sia fatto. Or d’ altro; è m'’ odi.  Dal dì che ardenti e improvidi  Sguardi su Laura hai posti,  Travolto dalla subita  Cicca passion tu fosti;   N | Una rea febbre 1° agita   Tutte le membra o siolto,   E vedo nel tuo volto   Il fuoco del delir.  Bada! io ti scruto, o giovine,  E leggo il tuo desire;  Guai se tal fiamma ignobile  Io non vedrò svanire.  Tu sogni; ma chi vigila  l'e per tuo ben consiglia;  Dimentica mia figlia,  O trema del tuo ardir.    (parte da sinistra mentre  sì volge ancora con fiero sguardo su LORENZO).    Lorenzo (con dolore):    SO Solo alfin... solo quì sono...  Piangere, impallidir, tremar t’è dato sa Povero cor! Ma dannate in eterno  ei Son mie lacrime in lor foco d'inferno. Ci   i . . 0 cielo, perchè l’aere Fa A  ._ ©. Spargi de’ tuoi profumi? CRT   a O terra perchè il giubilo.   SA Delle tue stelle assumi? ©   nare: A me negata è l'estasi. da D’ ogni dolcezza umana,   No: ae d'ogni gioia lè vana (ale  EZIO Larva, che fugge ognor;  TERIOS L’ amor che è riso d’ angioli,   0; Di Nel povero mio cor.  i Strazio divien di dèmone,  WA Delirio agitator. pr  | Amar non posso... 0° AARON]  eta P, ‘L'odio mi restag» SS  CE ao ag Son stretto a questa to;  LR 1 sur aRatalità. EI  _: Vò di te vincere. |  Con santo zelo,  .. Servir vo’ il Cielo...  E questa l’ ultima .  «Mia volontà.  (parte con fretta per il ponte). ‘ Cala la Vela.    arnie,    Affo Secondo    onere ge oi    SALA NEL PALAZZO LOREDANO    Una splendida sala da Ballo nel Palazzo di Lore-  dano a Venezia, con colonnato per modo che si possa  figurare l’accesso in altre sale. Illuminazione splen-  didissima.    SCENA L  Coro degl’Invitati    ($   acc incanto dell’ebbre sale!  Che ballo immenso! Sarà immortale.  Quest’ è la reggia della letizia;  Il, paradiso. d’ ogni. delizia.  Deh! non fuggire, tempo; t’ arresta;  Bearsi al lungo delir giocondo  Della fatata splendida festa  Tutto in. Venezia vorrebbe il mondo.  {Gl’invitati s'allontanano in varie parti)    SCENA ILL    GIORDANO entra con cautela e colla maschera in  mano, poi gli amici.       drrezadzanzecezanconca n ionici oc. c0100 dna enricicondiizeotentoro neo dan'ontooarcrroniòolo /Tasos signor cecanzara anee    Giordano    Quì ognun danza e delira   Spensierato e demente. E niun ragiona,   E senno e cuore ha niuno.   x tutto quì è in periglio, ove il Leone   Alato di San Marco   Prostrato dalla Santa Inquisizione   Ai piè, scordò il ruggito   Di cui tremò per secoli ogni lito  (volgendosi in fondo)    Ecco gli amici: ma assai lenti e scarsi.  Alcuni dei Primi  Luce!  Giordano  Giustizia a tutti!  E Primi  E verità!    Alcuni dei Secondi    [venendo oltre)  Luce !  Giordano  Giustizia a tutti             E Secondi  E libertà!  Giordano    Grazie diletti !  Sian pochi i detti;  Molta l’opra. A ingannar V'astuta Corio  Dei biechi Inquisitori  Ho scelto queste sale  Di Loredano. È pronto ognuno ?    Coro  Ognuno!  Giordano    L’ ardir pari del vero alla grandezza?  Ed uniti?    Coro  Siam tuoi, Giordano Bruno!    Giordano e Coro    Nel popol vero s’ incominci 1’ opra:   S° illumini! Bugiarda è la parola   Di Roma e il suo Re, che Dio si noma,  Sull’ alma i Papi vogliono l’ impero   Per posseder la terra;   E coi libri e col braccio    tt       Viva facciasi ovunque eterna guerra  Allo spirito, al verbo, a ogni menzogna,  Con che farci suoi schiavi Roma agogna    SCENA III.    DETTI e LAURA che entra anelante dalla sinistra  colla maschera in mano. Enura  Signor, fuggite!  Giordano  Io? no! non fuggo.  Coro (insospettito)  Fuggiamo.... È pazzo!  (fuggono da va»ie aio  Giordano (con ira)  Vili! Tu hai fede? (a Laura)    ERaunna (sempre ancelante)    Gran Dio! In queste sale  Circondavi un estremo  ‘ Periglio. Per voi tremo...  Fuggite per pietà.  IIIEEZZZERETET TEZIEXIZZELUPPEE PE CETO CE TI CE CES CECI ICI IA CIT ALIZICI AZIO LETO EI  Va besasnza rea dI gra rirvarai tion    Giordano (simulando)  Fuggir?... Da chi fuggire?    Laura    Da tutti! I delatori,   Cui fia virtù tradire,   Vi cercano là fuori...  Son mille a me ben noti,  Fierissimi e devoti   Al sacro Tribunal.    Giordano (sorpreso)  Mi conoscete?  Eguana    A Padova  Vi scorsi il«dì che ardito  Nel fiume vi gettaste,  E un fanciullin tornaste  Vivo al materno sen.  L’ Inquisizion seguiavi  Co’ mille sgherri suoi  Per arrestarvi; e voi  Tra il popolo festante  Poteste in un istante  Securo allor fuggir.    Giordano (simulando la calma)    Bruno era quegli, che allor miraste!  Io non lo sono!... Mal giudicaste, .       — 20— i       Laura (sorpresa)    Credetti... ho divinato! © ;  Voi siete il gran filosofo.    Giordano    Oh certo s’ è ingannato  Il vostro giovin cor.    Laura  Perdonate se un lembo alzo del velo,  Che a me vasconde... (solleva: dl velo)  Io v' ho scoperto!... siete...  Celarvi non potete...  Giordano  E chi son io?    Laura    Giordano Bruno, cittadin di Nola!    SCENA IV.    (Durante quest’ultimo colloquio, LORENZO entra da  destra, LEANDRO da sinistra; si fermano in -  fondo, e, non veduti funno alto di attenzione).    “erimmiberarisisaorizeoeee    — Mi —    nisi bro    aravrariszazazezea ripa paio    : Lorenza ngi    Ho. in mani, alfin 1, dai i  ‘Ch’ ha Italia avvelenato;  ‘Salvo da Ini mille: anime! a  Il mondo mi sia. EH 9    Leandro (4. LormNZO | con simulata ironia)    % TAL il salverài, mia “tnamo, | 79)    È quegli'il gran? ; Filosofo) di  Il celebre Giordanb. VESTA  Dal Tribunal del Dèmoni    Ù  401  1 PR. E O ARNO E ‘J RARE.    | Baura (| ‘801 ‘presa vi ala  PISAE) | dia 39 DS    IDE Lorenzo! dui GicoL..    (a o pi di te-che mai sarà?    F  a iI    Gietiala (con dolore)    Fui tradito !..-Oh cerudoltà    So IV I Santo phrto)  Tana ‘in Cactpnse deg   Di palpiti, di ladina   , Tempo,non è, mio cuore; .: .   ‘ Salvarlo, fat Miracoli. DERE eo   -0t devo ame l'amore. OL DI    Giordano    © La luce tua mi sfolgora,       Fanciulla, nel pensiero;  Se il mio profeta! Libero  Trionferà il mio vero.    (poi fissando LORENZO)    Quel volto! V° è 1’ immagine  Impressa di Teresa...   Misto è quel volto... e annunziami  La gioia ed il dolor!    (Prendendo per mano LORENZO)    Giovane, dimmi: sei tu di Roma?  La tua favella mel dice... Parla!   Dimmi: tua madre come sì noma?  Teresa forse?    Lorenzo  Teresa?... Sì!    SCENA V.    (In fondo appare ROMANO con SERVI e SOLDATI  poi vengono gl’Invitati).    Giordano    L’ inquisizione! Oh quale orror!  (a Lorenzo) E tu con essa? Ah traditor!  o Io a te la vita diedi... e la morte -  Tu, iniquo, appresti al Genitor!...  A te l’ inferno schiuda le porte...  Sii maledetto, vil delator.       fekresrey=neoan0enencastec pregsoneeaossog @zor—rorerovrse ereeeericrone cer csvpirtetronertpariosonnen contiene nanenene    Lorenzo    Tu... padre mio?  Che mai feci io!...  Padre, perdonami  _Se pur ancora   ‘ Merto pietà.    SCENA VI.    GU INVITATI che riappariscono da destra e sinistra  e detti.    GI Envitati e Leandro    La festa è orrenda!  Fuggiamo tutti;  Qual tradimenti! > >  Keco distrutti ---  Degl’ innocenti   Gli almi piacer. HEomano    Grazie, o Ciel! Nelle mie mani  Or Giordane io vedo tratto!  Roma esulti...! Il suo desìo  Finalmente è soddisfatto.    Lerenzo    Orrenda infamia! Tu il. padre mio?...  Ah me infelice! Che mai fec? io!  Padre, perdonami... O Ciel, pietà!    2       ERA EeIOrtitiezast:nuvo cene cen vinariesazyaza cc uPONPPA PESSANO MT RI    Laura (a GIORDANO)    Delle amarezze il calice   Berrò con te, Giordano;   Già in seno il duolo squarciami  Il core a brano a brano;   Peno per te, pel figlio   Mio primo e solo amor.    Leandro    Oh come ovunque penetra  La santa Inquisizione !  Come sarà terribile   La sua imputazione !   In lui perdiamo un figlio,  Che della patria è onor.    Giordano (4 LAURA)    Ah no! Laura, non piangere...  Giordano ha l’alma forte !   Pel Vero è pronto a vincere  Il duolo pur di morte!   Dio deh! ritorna il figlio   A Laura e al Genitor,    Lorenzo    Sento nel seno piovermi  D'un aspro duol le stille!...  Il padre... oh! il padre scorgere    ab 0);    Temon le mie pupille!  Com'è infelice un figlio  Ribelle al genitor !    Romano    Entro mi serpe un fremito,  Che mi sconvolge il core,  Veggendo quest’ eretico   Di scismi banditore,   Che, della Chiesa*figlio,  Divenne traditor!    Leandro Tu piangi?... Incauto, a Lui {affida   Pel suo perdono; ma l’alma infida   Nel suo rimorso gran pena avrà.   Coro (a LORENZO)   Che piangi?... Ognuno vile ti grida;  Se’ un traditor; se’ un parricida!  Nè Dio, nè il mondo n’avran pietà.    (I SOLDATI circondano GIORDANO e cala la tela/.       IITTTTAAEIAIII    RA CORTI    Affo Cerzo             IN ROMA    Sala nel palazzo dell’Inquisizione. — In fondo, nel mezzo  della parete una cortina nera che chiudela scena, —  A sinistra una finestra aperta con ferriata. In fondo  un tavolo coperto con un tappeto nero, a cui siedono  il grande INQUISITORE e DUE SCRIVANI; ai lati  siedono gl’INQUISITORI, e, di fronte, GIORDANO, R0-  MANO e LORENZO, — Porte a destra e a sinistra.    SCENA I.    Romano    {> iordano! Voi siete’    D’innanzi ai vostri giudici, al supremo  Tribunal della terra! E qui dovete,  Smésso l’antico stile,   Risponder vero, obbediente, umile.    “cà ra    G. Inquisitore  Vostro nome è Giordan Bruno?    Giordano  Di Nola.       mrantsiorizea nano (199 AMDI ATTI ANI ANAZANAZA NZ RATTI TIT IATA TERI ri prenpaniananan ananarenaenzana    G. Inquisitore    Vi conosciamo! Voi correste in terre  D’eretici; lè in Praga, in Francoforte. ‘  E predicaste spesso agl’ infedeli   La santissima Chiesa dileggiando   Di Roma, tutti i novator germani  Esaltando. D’ Iddio 1’ essenza in false  Forme sponeste; come v’ inspirava   Mal talento. D’ Iddio la legge in pubblici  E in segreti convegni commentaste;   Le coscienze fùr guaste.    Giordano    Mentite!  Solo io dissi agli uomini  Il mondo ha una visiera  Di antiche, immense tenebre ;  Cerchi la luce vera.  Dio vuol che l’uomo spinga  L’acuta sua pupilla  Fin dove in cielo brilla  L’eterno suo splendor.    Coro d’Inquisitori    D’ anime felle  Empia utopia!  Il tuo, ribelle,  Un Dio non è.  Non ha che larve -    Tua fantasia; .0 &  gi ver disparve ;  “Se in eresia ft fo i  AI fuoco, ‘al fuoco: ©  Sia condannato! 1  “REP carcer. poco, s  ra ! tal OmpIO, egli de    (Si apre la cortina’ dalla’ quale ‘escono pina DTA  io GRANDE INQUISITORE, quindi ROMANO, poi  gli SCRIVANI, ‘gi ISQUISITORI, ed sea pIoR-SSf  DANÒ accompagnato, dalle GUARDIE. : Gala la  cortina e solo LORENZO rimane în ‘scend),    SCENA DÒ  dt e Laura 01,3    (LAURA entra dalla' sinisird e presi itasi) di LORENZO |  in atto supplichevole). SÉ Roe    dia eor ATI    v Rat    Laura! moi  (HI dÉ tia Koi i  È &    Loréiizo i «105 si vo    MREPSRI RATA    GIL    Lorenzo  Di ea DO Ur  PA Ale 2 i sd Met: la "I    Che vuoi tut    ot Raid) fai  I nSetdi o SERRA  2 Senti la ToRe.e. un uomo Rico tu soi. “ rE:       Lorenzo    Tinura! Da me che brami?  Sento straziarmi il cuore...    Laura    Ah! tu il padre salvar déi,  Se una belva ancor non sei.    Lorenzo    Tact Laura! Il ver dicesti   È mio padre! Io lo sentìa  Quando'.il labbro suo: terribile.  Me colpevole maledia.   È mio padre! Ancor lo sento  AI perenne! e fier tormento.‘ ©’  Che m’ opprime e strazia il cor.    Laura |    Pietà del misero.  Tuo genitor.    Lorenzo  L’accento tuo terribile  E un dardo al traditor.    ebic Laura    Lorenzo. it i #1) Ma    shananorazi scenza sanacenencacaee cena sane oeanconeesccnionaacea—ea—e@ce0cui0reò’npsQa”ncceinci’’’ ne Agp ipmpasrssssso—    Lorenzo  Nol posso!    Laura    Va da me lungi, o perfido,   Se nieghi al genitor   Salvar la vita.   E sorga il dì terribile   Che ognuno, o traditor,   Ti nieghi aita.   Lorenzo   Taci!.... e che far poss’ io?   Laura    Aiutarmi a salvarlo; tu lo puoi!  ‘Ei fugga da quell’ orrida  Fossa in serena terra,   Ove su lui degli uomini  Taccia sì cruda guerra.  Ove un demén carnefice  Non trovi nell’ amico,  Nel figlio, un traditor;  Ove il sovran suo spirito  Onnipotente e pio   Possa inalzarsi libero   Di tutti al Padre, a Dio;  E riabbracciar qui un figlio, Che traviò pentito,  Stringendolo al suo cor. .    pra,    im masasena nanasasesc’poossoncostor09posporooscoesaesose®          Lorenzo    Quell’ardire, che in volto a te brilla,  La speranza, la fede m' ispira:   E una sacra, divina favilla   Della fiamma, che tarde nel cor.    Raura e Lorenzo (assieme)    Con te nutro la credula speme,  Che a giustizia il trionfo sorrida;  Siamo uniti per vincere insieme  Od insieme da forti morir. (partono).  Muta la scena. — Carcere di GIORDANO con porte in  fondo: dentro vedesi un giaciglio di pietra, una seg-  giola ed un tavolo su cuì arde una lampada. — A    sinistra una scala da cui si accede agli Uftizii del-  l’ Inquisizione.    SCENA III.  Giordane (seduto sul giaciglio)    «Ecco, o Roma, l’eretico   In questo tetro carcere rinchiuso !....   Del sangue suo dissetinsi   I tuoi Inquisitori   Ebbri di gioia in lor ciechi furori! (Gleaso   Sul rabido rogo dall’empio innalzato   La fiamma divampa sanguigna e stridente,   Ma in mezzo all'incendio securà possente   Del martire invitto la voce s’ udrà.  Il rogo non strugge — la libera idea;  Ma, eterna fenice — risorge o sfavilla;       Del vasto creato — nel verbo s'inslilla   Te dense tenebre — del mondo a fugar.  In mano ai carnefici — chi, miser, mi trasse,  Tu fosti, mio figlio; — tu sli maledetto ' 9  Ma no maledirti, + ma no, nol poss’io:  La morte è un trionfo — per me, figlio mio!    SCENA IV.    LORENZO apre con furia la porta del fondo che mette  nel carcere; indi entra anche LAURA. Entrambi  «$0NO Raealii in domino nero come i servi del-    V’ Inquisizione.   Lorenzo (di piedi di GIORDANO)  Padre mio! Tuo figlio...  Giordano   Non sogno!  Lorenzo  Si, son io, ch’ hai maledetto ;  Ma figlio tuo! Ripeti un altra volta  La tua maledizione i  Coll’ accento d’ un padre, ed al mio cuore  Più cara suonerà di quel che fora    Del sacerdote la benedizione ;  Ah! lasciami morir a pieid tuoi.    TIrCItIVISIÀ poorrcensersantisaazuztt=veSnII=TIERERA TATE conuaca riv ertaziori (apusa ra rara zar sara ra bist enaneronesane  ‘Giordano Felice è un tal momento!  A me t’ adusse Iddio;  Ora tu sei redento!   M’ abbraccia, o figlio mio.    Lorenzo Padro' i] mio cuore un balsamo  Nella tua voce trova!   Col tuo perdon risorgere   Mi sembra a vita nuova. Laura    Redento il figlio, accoglierlo  Ben può il paterno core;  Quale inattesa grazia !..,  Disparve ogni terrore.    Mutti (inginocchiandosi)    Gran Dio, che fra le angoscie  Apri a quest’ alma il riso,   E mesci ai loro spasimi   In terra un paradiso.   A te, che i santi vincoli  Riannodi di natura,   Salga da queste mura   L’ inno de’ nostri cor. Giordano    (STO ER Dal fondo del cor mio 2/0  SARA Grazie a te sien, gran Dio! a    Pi    E | SCENA V.    re k » à,  s ER  wr: DETTI, e ROMANO, che presentasi in cima della    >°    dente. Fissa collo sguardo LORENZO, indi scende  rapidamente. Lo seguono il GUARDIANO Retles    va x carceri e i SERVI del S. UHEIZIO: - da  si ‘Romano <  È Come tu qui?... La figlia ancor Di vedo, ea  Oh mio furore ' eco 3 F : x  Laura e Lorenzo 00 o  O qual terror! > ua |  » Romano È  ‘ Giiordano..- Questa ou fatale a me una figlia  nn dio Spa ma a te la vita.  (LEANDRO, il GUARDIANO delle carceri ei SERVI.    del S. UFFIZIO mascherati ed armati si ap- d  pressano). Lg i VEL  7    Pi AE Li    unisoseorevrespropeosovo ”    Romano (a GIORDANO)  Trencar ti voglio, qual vile stelo;  Delle tue carni la terra e il Cielo  Io colle fiamme consolerò.   Lorenzo  Ed io fidato m’ ero a tal jena ?  Tutto l’inferno qui si scatena,  E cielo e terra han di te orror.   Laura e Leandro   Sublime martire! La tua gran vita  Tronca in un lampo tra l’infinita  Gioia... Qual strazio sento nel cor!  Giordano  Del mio carnefice sul volto scritto  Sta col livore il suo delitto;   Solo dal Cielo giustizia avrò.  Romano (a° Soldati)  Innanzi al Tribunal condotto sia.  Coro (Servi e Soldati)    S'innalza un turbine Di guai novelli.  Su de’ fratelli —  Tratti in error.  E l’empio eretico <   «N° è lavcagionez 9:13 <L  Maledizione  Sul corruttor!  Al rogo ignifico  ‘ Condotto Sia. ©  Chi l’eresia  Tra noi portò. Legge inviolabile  Il turbolento  A tal tormento  Già condannò.       RIC    FROCIO RA ATONTAITA  Atto Quarto Gran sala nel Palazzo dell’Inquisizione in Roma... —. Nel  fondo una Galleria apertà sostenuta da colonne, fra  ile quali: si, aprono grandi fin:stre che lasciano tra-  vedere le cupole e i colli di Roma. — Porta: a de-  stra e a sinistra. — Nelmazzo un tavolo con quattro  candelabri. — Siedono al tavolo il grande INQUI-  SITORE, ROMANO e ) UE SCRIVANI. — DUE SERVI  «ai. lati, quindi gl’ INQUISITORI, i    SCENA I.  Coro d'Inquisitori || |)   eo nembo dall’aere piove Lupa  ' Di Giordano su:l’empia cervice!  "Non v'ha niun che l’appelli infelice,   Non v'ha cor che si muova a pietà.  Pronto è il rogo, la fiamma divampa...   E pur essa la vittima è pronta !    AI gran Nome Cristiano quest’onta.  Or. dal fuoco purgata sarà. }    SCENA II,    Giordano (appressandosi).  O sommo Inquisitor! Giunta è l'estrema       Ora, che me a gran prova... al rogo.... appella!  G. Inquisitore (alle guardie)  Fuor della porta vigilate !    (le guardie e i servi partono)    O Bruno  Di Nola! Quest’ è 1’ ora che vi chiama  Alla prova del fuoco.... a morte.... 0 a vita  Lieta d'ogni uom nel mondo! E a voi concesso  Ciò e’ ha nessuno fu giammai; la scelta  Fra la vita e la morte! Scegliete. E in, vostre man la vostra sorte!    Giordano  (Mi tentan!) Che si vuol da ms? Parlate.  G. Inquisitore    Qui in faccia a tutti, dichiararvi figlio  Della Romana Chiesa ora e in eterno  E vi doniam la vita; rimarrete  Prigion; ma al figlio libertà darete! Giordano. Dèmone tentator! Nol vò.... nol posso!  G. Inquisitore (qa RomaANO)]    Perduto! Udiste ?... La sentenza è data!    (Parte coi servi, Le guardie circondano GIORDANO  e partono). i    SCENA II.  Romano (in preda a soffocato sdegno).    Cieco sirumento io sono all’empie voglie  Di costoro! Ubbidir sempre... e frattanto  Spezzare di mia figlia il vergin core,  Serbando la mia vita al lutto e al pianto!  O Laura, tu l’adori  D’averno il rio Filosofo,  Che con l'accento magico  Tuo cuor conquise già.  Or ei morrà sul rogo!...  Ma temo per mia figlia. Dal duol trafitta, all’empio  Vicina ella cadrà!...  Senza la figlia, il padre  Più viver non potrà.  To l’adoro! In lei Tiposi  Ogni speme ed ogni alta;  La mia luce, la mia vita  Con la sua si spegnerà.  Volgi, o Dio su me, su lei  Un tuo sguardo protettor,  E la figlia, che perdei  Deh! ridona al genitor. (ROMANO parte da sinistra e nell'uscire si. moontra  con LAURA).    CA       SCENA IV.  Laura (apprdssandosi ‘a ROMANO)    Ah! padre caro, mi benedici!  Quel divin spirto, che t’empie il core,  Io pur lo sento! Odio i nemici  Di quel gran ùomo;-che' giùsto muore. Ma tu, che. il puoi, deh! tu lo salva;;  Se Do, «con Lui io morirò. :    (Romano    La rea fiamma, che in cor ti VE  Per chi scuote de’ Papi l’impero,  Sulla fronte il delitto’ ti Stampa  Che tu svolgi nel cupo pensiero...   “Salvo tu vuoi Giordano ?  Iniqua ! Nol sperar... tu Il chiedi > invano.    i (parte)  Laura (con disperazione)    Più di salvarlo non v' ha speranza!   L’ ala nel tempo batte spietata! Ah! la fatale ora 8° avanza. i   Con te Giordano io morirò. ( prende il veleno)  A morte infame traggono. ;  L’ apostolo del vero;  Ma dal suo rogo. pallida; |  La fiamma sorgerà.  Che sovra. il cieco popolo...  La luce porterà; COLERE Nè più potrassi spegnere  Quel fuoco che foriero  Sarà di libertà.    | Coro  frecta judicate filù hominum  Laura    Quai voci ascolto! Lugubre  E questo il canto estremo,  Ch’ ora al supplizio adduce-  L’apostolo del Ver.    Coro  Recta judicate fili hominum  Laura    Con te Giordano! Morir voglio!  Al gaudio tuo volar desio. SCENA Ve  {LORENZO e LEANDRO col corteo funebre s’inol-  trano nella scena. GIORDANO Tifo, le guardie si  fa avanti nel mezzo).  Giordano. Gran Dio! la vittima.  Tu vedi pronta  Il rogo a scendere   \a 1 1 Per la tua, fe; CERRI TERA ee    L'ira de’ perfidi,  Ovunque. conta,  Oggi terribile  Piombò su di me.    Coro    Etenim in corde iniquilates operamini;  Injustitias manus vestrae concinnant. Lorenzo. Si squarcino le tenebre  Or dell’uman pensiero,  E torni vivo a splendere  Il sol di verità,  Che strugga alla tirannide  L’ atroce maestà,  E’ incenerisca i fulmini  Del mistico nocchiero  Nella futura età..  Giordano e Leandro  Da’ rei carnefici  Il rogo ardente  Pel nuovo martire  E posto là;  Ma la giustizia  Di Dio clemente  Le braccia schiudere  A Lui vorrà. GIORDANO circondato ddlle guardie parte col corteo. Leandro, Cero (partendo)    In terra injustitias manus. vestrae concinnant. (LORENZO s’appressa a LAURA, che si troverd, vicina.  a ROMANO), i    Lorenzo (con disperazione)    O Padre, addio. Per me l’estrema  Ora fatale suonata è già?   Guarda tuo figlio, che più non trema  Nel vendicare la verità.   A me di Laura l’amor fu tolto :  Perchè un mistero buio sognai...  Ah! padre, credilo, tutto: ignorai;  Solo or la luce scorgo del Ver.    ER omamno  Lorenzo!   Lorenzo  [trattosi dall’ abito uu pugnale, si ferisce. Laura!  Laura (riavendosi avvicinasi a LORENZO)  Al gaudio Ei vola.   Romane (sorreggendo LORENZO)    Serbate a quanti spasimi  E il povero mio cor?    o    aaravai  -ercerecote e ————merie—i ve oraconcorsoee «n - peacee -LilsSTFri= pone rete na dor e. Lorenzo    È tardi, o padre, il piangere... .  Anche Lorenzo... muor! (gli cadde ai piedi). Romano. /Odesi “una campana a lenti rintocchi; avvicinandosi  a LAURA e sorreggendola/    Orribil pena mi strazia il core...  Un disumano fui genitore...!  Non v’ha infelice al par di me!    Laura (presso LORENZO)    Lieta è quest’ ora... della mia vita...  Bel paradiso la via... m’ addita  Giordano.... Io volo... In ciel... con tel    (Da una finestra vedonsi le fiamme del rogo, ed un    urlo di popolo annunzia la fine dello spettacolo.  Cala la tela],    op  de nia - oe  vr 2A  SN  DI LESANIA AL  TR I RRIA  Ji ) _ DE sa NI  Ao AME Ta0  “Si 1 iL VPI, |  ati  Lion "Ul ci    Li TR  PSR =  Hi (i dI    - Un pi Hi  3 i si  f  VI  % Y, ILA }  4 ”  ; A  Yy 4 Pi  f f lo L É  } 1}  Ì ;  A A Domenico Contestabile. Keywords: BRVNO, nobilita italiana, la famiglia Contestabile financia la rivolta di Campanella -- filosofia medioevale, Bruno, il melodramma. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Contestabile” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Conti: l’implicatura conversazionale VIRGILIANA – La nudità eroica d’Enea -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “Conti is a good one – he reminds me of Bosanquet and Pater – the decadents in Italy came AFTER them at Oxford! Conti philosophised on many aesthetic subjects, such as man, masculinity, and maleness --!” Di una famiglia originaria di Arpino, dove frequenta il locale liceo. Si ccupa di filosofia estetica. D'Annunzio lo cita nel “Giovanni episcopo” e si ispira a lui per ‘Daniele Glauro’ in “Il fuoco”. Insegna a Firenze presso la Galleria degli Uffizi ed a Venezia presso l'Accademia di Belle Arti. Saggio: “Zorzi; o Giorgione – l’estetica di Zorzi” -- Tornato a Firenze, “La beata riva”, raccolta di saggi che delineavano la sua concezione critica ed estetica, ispirata dichiaratamente a Platone, Kant e Schopenhauer. La prefazione fu curata d’Annunzio, il quale scrive di stimare molto Conti e di ammirare il suo “ascetismo” estetico.  Direttore delle Antichità di Roma. Direttore della Reggia di Capodimonte a Napoli. Si ispirò alla poetica del filosofo oxoniese Pater e Ruskin.  Altre saggi: “Giorgione, Firenze, F.lli Alinari, “Catalogo raggionato delle regie gallerie di Venezia, Venezia, Tip. L. Merlo); La beata riva, Milano, F.lli Treves); Sul fiume del tempo, Napoli, R. Ricciardi); “Dopo il canto delle Sirene, Napoli, R. Ricciardi); Domenico Morelli, Napoli, Edizioni d'arte Renzo Ruggiero); “San Francesco, con un saggio di Giovanni Papini, Firenze, Vallecchi); “Virgilio dolcissimo padre, Napoli, R. Ricciardi). Praz nota che Parodi era solito leggere La beata riva di Conti prima di addormentarsi; quando morì, la lettura non era stata ancora terminata.  Dizionario Biografico degli Italiani, Forme del tragico nel teatro italiano. Modelli della tradizione e riscritture originali,Romantici, vittoriani, decadenti – filosofo decadente – decadentismo -- e museo dannunziano, in Bellezza e bizzarria – il bello e il bizzarro., Croce, La letteratura della nuova Italia, Marcello Carlino.C., Due conviti di Mattia Preti, Bollettino d'Arte.  Io vengo dal mare di Napoli e sono tornato qui a rivedere la primavera. Non c'è nessuna altra città in cui, come in questa, il rifiorire degli alberi e delle siepi si accordi con la giovinezza delle opere del genio umano, nessuna ove, come qui, la Primavera sembri rimanere per un istante velata, per poi riapparire pili fulgida e piìi lieta, al ritorno dei venti che spirano dalle colline e recano i nuovi fiori. Sono anche giunto fra voi, per parlarvi della pittura di Leonardo. Ma il mio compito, dopo la lettura deirillustre scrittore francese che m' ha preceduto, sarebbe oggi, non dico diffìcile, ma quasi vano, se le mie idee fossero affini alle sue ed egli fosse vicino al mio pensiero come io sono vicino al suo aff'etto per questa nobile terra toscana, ove l'arte ha continuato la grazia gentile e la pura bellezza della natura. Diversità di pensare e anche d'immaginare mi rendono oggi possibile esprimere qualche cosa a voi forse non detta, e combattere qualche affermazione troppo lontana dalla mia sicura fede. Leonardo è il discepolo del Vermocchio. Ora, che cosa poteva egli apprendere dal suo grande maestro? Non certamente l'arte, la quale non si apprende e non si insegna. Quale uomo, che sappia che cosa è l'arte, potrà mai pensare alla possibilità di creare con l'insegnamento un pittore, un musicista, un poeta? La natura sola genera gli artisti, e l'uomo al pili può aiutarli a trovare i mezzi d'esprimere la parola ch'essi son destinati a pronunziare nel mondo. Il maestro, al discepolo suo, nato artista, può dire: " Il tuo cuore è impaziente d'indugi, tu sei nato per il canto o per la espressione plastica o per la espressione mediante il colore della tua gioia o della tua amarezza; guarda, ecco il dizionario che contiene le parole di ogni umano discorso, ecco la tavolozza sulla quale io appresi a mescolare i colori che imitano la bellezza del cielo, della terra e del mare; ecco in qual modo si modella la creta, affinchè dall'informe materia apparisca viva dinanzi a noi l' immagine dell'uomo. Questi sono i mezzi, che io ti posso indicare; ma il discorso, il canto, il soffio debbono essere tuoi, né io te li posso insegnare „. Ogni opera d'arte è, rispetto alle opere precedenti, una cosa diversa e nuova, nella quale, se pure sono entrati, alcuni elementi precedenti e preesistenti, hanno mutato natura, si sono trasformati in parti di quel tutto inatteso e prodigioso che si chiama la creazione artistica. Chi non sa che in Leonardo appare un' immagine del sorriso che si mostra appena accennato sulle labbra del giovinetto Davide del Verrocchio? Si, appare, ma è un riHesso che illumina un altro mondo; poiché questo riso, ricomparendo dalle labbra dell'eroe adolescente sul viso e negli occhi della Gioconda, diviene il mistero della seduzione femminile, una grazia insidiosa e un periglio, un'armonia che nasce dall'espressione d'iin volto, si diffonde verso il paese lontano e attira il contemplatore. Il sorriso verrocchiesco è in Leonardo come nn brano di Plutarco in Shakespeare. Or chi oserebbe dire che l'immortale tragico inglese derivi da Plutarco? Leonardo e il Yerrocchio sono due artisti assolutamente distinti, che parlano un linguaggio interamente diverso e che, se somigliano esteriormente in qualche cosa, hanno due anime quasi opposte, chiusa l'una nella sua idea di bellezza e di stile, l'altra aperta a tutte le manifestazioni della natura e della vita, in una continua ansietà di fissarne l'immagine mutevole con la semplicità del segno rivelatore. Noi viviamo pur troppo in un triste momento della vita, poiché la maggior parte degli uomini ai quali parliamo non sanno che cosa sia l'arte, e lo Stato crede a chi meno vede. Non è forse ancora possibile vincere una così detta scuola di critica scientifica, fondata sull' errore già accennato e chiusa nella rete del pregiudizio cronologico. A coloro che ancora credono alle influenze sugli spiriti geniali e alla necessità in arte di una classificazione come in botanica, noi possiamo trionfalmente rispondere con Leonardo che l'artista genera le sue opere qual fanno le cose. Egli deve creare come fa la natura, e le sue opere superare e cancelUxre i segni del tempo che passa. Un quadro, una statua, un edifizio debbono nascere come le selve e apparire come le albe. Or chi penserà all'epoca d'una primavera o d'un ciclo stellato? Non c'è opera d'arte geniale che venga per noi dal passato lontano, come non e' è indizio di vetustà nelle montagne e nella aerea architettura delle nubi. Dinanzi all'umanità che passa, il genio si ferma e rende eterna la sua traccia come è nel cielo il cammino delle stelle. Avete udito il canto dcirusignolo? Lo riudirete in tutte le primavere. Il genio vi farà sempre udire la sua voce fresca e giovanile come nella stagion nuova della terra il canto dell'usignolo. Aprite Virgilio: ecco, è l'alba e cantano le allodole, è una notte serena, e l'uomo si perde nella luce lunare. Aprite Dante, e siete nell'eternità della vita. Ivi nulla dilegua, nessuna cosa invecchia o perisce, e noi stessi, -accanto a quelle grandi anime, siamo per un istante fuori del tempo. Questo momento di liberazione provai per la prima volta alcuni anni or sono a Milano, trovandomi dinanzi alla Cena, nel convento di Santa Maria delle Grazie. Vidi il capolavoro nella medesima ora indicata dalla luce clie lo illumina dal fondo, tanto che mi fu d'un tratto facile superare i mille e piìi anni passati e trovarmi presente alla scena Gesù era seduto nel centro del convito e da poco avea prò nunziato le parole: qualcuno di voi mi tradira. I convitati a destra e a manca s'erano ritratti e aggruppati in tumulto lasciando nel mezzo Gesù solo, con la sua tristezza infinita La sala era piena di gesti concitati e di ansiose interrogazioni. Il Maestro solo era calmo e la sua figura, sul paese che gli s'apriva lontano alle spalle, era immobile. Ma qual dramma in quella immobilità ! Mentre la sua mano destra, lievemente contratta, esprimeva un istante di ribellione e come un istintivo moto d'ira, la sinistra nel momento successivo s'abbandonava col dorso poggiato sulla tavola e le dita allungate, esprimendo la rassegnaziona e il perdono. Gli occhi abbassati non guardavano e non vedevano nulla di ciò che era presente, ma contemplavano internamente il grande spettacolo del dolore e della miseria umana, mentre la sua anima sembrava essersi già rifugiata in quel fondo di paese luminoso e lontano, dove abitavano una grande speranza e una eterna pace. Nessun uomo avevo veduto mai così solo come Gesù in mezzo a quel tumulto. Era un'isola in mezzo a un mare procelloso. Le onde fragorose del tempo, che travolgono^ uomini e cose, mi avevano forse spinto ad approdare ad una riva ove splendono i fiori eterni della vita? Mai infatti, come quel giorno, ebbi, per virtìi dell'arte, la visione della vita, in un oblio piti completo. Quando il custode del Cenacolo venne ad annunziarmi Fora della chiusura, io riudii nuovamente, dalla strada vicina, il rumore delle carrozze e il rombo dell'esistenza; e ritornai fra gli uomini. Pochi anni or sono Annunzio scrisse una bella pagina di poesia per rimpiangere la rovina del Cenacolo. Voi infatti sapete, che, come della antica e celebrata pittura dei greci, fra pochi anni della Cena vinciana non resterà se non il ricordo ^ Il doloroso avvenimento non ^ Questo studio su Leonardo lìiitore era già stato scritto, quando fu compiuta in Milano dal pittore prof. Luigi Cavenaghi l'opera di ristauro del Cenacolo, salutata da tutti i cultori ed amatori d'arte con gioia e gratitudine. Il Cenacolo, compiuto da Leonardo nel 1497, cominciò ben presto a guastarsi; ì primi provvedimenti per salvare il capolavoro risalgono al cardinale Borromeo, poi nei secoli si susseguirono alternative di lunghi abbandoni, di fallaci rimedi empirici, di studii incompleti e riparazioni deturpatrici, fin che il prof. Cavenaghi fuincaricato delle ricerche scientifiche e tecniclie che, precisando le cause e l'entità dei guasti, portassero ai rimedii più efficaci. Egli trovò — sono sue parole riprodotte naìVIllustrazione Italiana, n. 41, dell'I 1 ottobre 1908 — che il dipinto, coperto da polvere di secoli, si screpolava e la crosta di colore si sollepoteva non commuovere e non far riapparire la visione tragica del fato clic incombe sui capolavori. Ma è forse una illusione. In realtà la natura non distrugge ne i fiori o le selve della terra ne le opere del genio: la Minerva criselefantina di Fidia è passata dall'avorio e dall'oro nelle pagine immortali dei poeti e nella eterna memoria degli uomini. Quando un capolavoro scompare, noi non dobbiamo pensare che il tempo lo abbia distrutto, ma semplicemente che si sia oscurato lo specchio che ci proiettava la sua imagine nel tempo e nello spazio. Nella profonda unità dell'anima umana, clie rende i poeti e i filosofi simili ai figli d'una madre sola, l'ispirazione da cui esso nacque riman pura e vivente come una forza della terra non ancor vestita della sua forma. Se avessi la virtù del canto, vorrei lodare e far comTava dall'intonaco, a squame di varia misura, di modo clie parecchie di quelle i grandi, accartocciandosi, formavano altrettante sacche che si riempivano con al- tre piccole squamette che vi cadevano dall'alto. Vuotare ad una ad una le sac- che senza scuoterle, senza quasi toccarle, mediante una pagliuzza resa attaccaticcia da una sostanza adatta, poi fare aderire le sacche e le croste all'intorno, togliendone, con un certo liquido dal Cavenaghi ideato, la polvere alla superficie, questo sostanzialmente fu il lavoro paziente, mirabile, nel quale, per più di due mesi durò il Cavenaghi, rendendo più tonica la fibra in isfacelo, facendole riac- quistare un po' di colorito, così che il dipinto non debba peggiorare e possa vi- vere ancora a lungo, con infiniti riguardi ed amorose cure. Ma — disse il Cavenaghi — sarà sempre un organismo precario, e per le condizioni sue, pieno come è di cicatrici, e per l'ambiente. Ad ogni modo questo del Cavenaghi è •stato pel Cenacolo Vinciano il ristauro essenziale, decisivo, nei secoli; e grandi manifestazioni di gratitudine ed ammirazione sono state tributate all'assoluto disinterewse, pari all'amore grande per l'arte, spiegati dal benemerito ristauratore, al quale Caravaggio, sua terra natia, ha consacrato una targa artistica a memoria del fatto; ed i cultori ed amatori d'arte, auspice Luca Beltrami, gli hanno conferita, davanti al capolavoro vinciano, una bellissima medaglia d'oro. Il prof. Cavenaghi inoltre è stato chiamato dal Papa, in sostituzione 4el defunto prof. Seitz, all'onorifico ufficio di direttore delle pinacoteche vaticane. prendere la vita maravigliosa che il Cenacolo leonardesco chiude nella sua rovina. Come la rovina d'ogni cosa grande, essa equivale ad una purificazione e ad una apoteosi. Finche resterà un sol frammento della parete prodigiosa, finche un sol disegno, una sola stampa, una sola fotografia, custodiranno un riflesso lontano della sua bellezza, quella creazione del genio sarà per noi piìi potente che se il tempo e gli uomini l'avessero rispettata in tutte le sue parti caduche. E un errore credere che il tempo non rispetti i capolavori; e noi molto spesso parliamo, spinti dall'abitudine, contro l'eterna verità delle cose. Il tempo, artista maraviglioso, è il solo degno collaboratore del genio umano. Dove sembrava che l'opera geniale sì fermasse, egli la continua, mutilandola: dove appariva ciò che è chiuso e preciso, egli apre una via infinita all' imaginazione; dov' era un aspetto freddo e muto della realtà, egli fa nascere i segni del mistero. Ciò che sembra una distruzione e invece una rivelazione e una consacrazione. E la natura che riprende l'umana opera interrotta, che fa apparire la sua forza dove la mano dell'uomo cadde stanca, e che, dove l'ispirazione di questo si oscurò e si confuse, fa cantare le sue eterne aspirazioni. Ma non bisogna lodare il tempo soltanto per le sue rovine; è necessario esaltarlo anche per tutte le opere d'arte che, in compagnia del fato e della umana malvagità, ha impedito di compiere al genio umano. Alludo principalmente alle cosi dette sculture non finite di Michelangelo e ad un quadro, che è ancora considerato un abbozzo, di Leonardo. Come i capolavori in rovina appariscono vicini a rientrare Leonardo da Vinci.Conti, Leonardo pittore nella iiuiversalitìi della vita, i capolavori incompiuti seml)rano usciti da poco dal seno stesso della natura. L'artista ne segnò l'imaginc non fra i tormenti del lavoro consapevole, ma come in sogno, obbedendo ad una volonth oscura che per qualche istante abolì la sua volontà individuale. Poche tracce di pentimenti in quei primi segni, ma l'espressione d'una beata obbedienza, come di chi si affidi al mare, e una ricchezza e una esuberanza di vita uguale a quella di cento uomini felici. * Mi limito a parlarvi del quadro di Leonardo, oggi nella Galleria degli Uffizi, e che rappresenta l'Adorazione dei Magi. La prima cosa che ci colpisce è il movimento. Noi sentiamo subito che il pittore ha voluto rappresentare un avvenimento straordinario, un grande fatto della natura e della vita. Quasi tutte le figure vanno, strisciano, accorrono verso la parte centrale della rappresentazione, ove si fermano prostrate e come atterrate dallo stupore e dalla maraviglia. Fra i gruppi in movimento, alcune figure stanno diritte e immobili a guardare la scena. Nel centro una calma assoluta. La Madonna vi appare seduta in una attitudine piena di grazia materna, e sulle sue ginocchia il bambino si china e protende una mano per toccare il 'dono che un vecchio genuflesso gli porge. Intorno si raccoglie e si concentra tutto ciò che nel quadro raggiunge la maggiore intensità d'espressione e la maggior forza di vita. Questi vecchi che vengono da lontano, guidati dal mistero, sono una Conti, LeonarJo j)ittore 91 fra le più potenti creazioni del genio umano. Tutta la scena, piena della loro commozione e del loro sbigottimento, sembra irradiare come un vento di tempesta che, dall'anima dei vecchi, giunga sino ai punti piti lontani del quadro. Ed ecco che noi vediamo gli effetti dell'onda invisibile. Dietro il gruppo centrale è un accorrere disordinato di gente: uno ha le mani levate e grida come per un ignoto pericolo, un cavaliere non riesce a contenere lo spavento del suo cavallo, altri gruppi di cavalli nel fondo appariscono spinti dalla furia d'una battaglia; qua e là, sotto archi crollati, uomini che corrono e s'interrogano ansiosi, altri che salgono discendono a frotte e smarriti per una gradinata. Si sente che un grande avvenimento si compie, e per tutta l'ampia scena notturna è diffusa l'atmosfera del miracolo, come in un giorno sereno la luce del sole sulle campagne. E questa è appunto l'idea che Leonardo ha espressa nel suo quadro con una potenza e una eloquenza suprema. Mai infatti, sino a questi anni, la pittura aveva rappresentato il miracolo, mai lo stupore e il terrore di ciò che sembra turbare le leggi della natura e far presentire agli uomini un rinnovellamento del mondo, erano stati resi visibili nell'opera d'arte. Leonardo, con questa composizione sintetica, con questo semplice suo disegno a chiaroscuro, nel quale non un sol particolare h compiuto, è riuscito a rappresentare il miracolo come non sarebbe stato possibile con l'opera piìi meditata e più coscienziosamente finita. E la ragione mi sembra questa. Vi sono idee e sentimenti che le arti plastiche non possono rappresentare se non con mezzi somraarii, se non giovandosi di ciò che comiincmcnte si chiama V incomplitto. L' incompiuto è spesso un mezzo meraviglioso dì espressione per il genio umano; è, a rovescio, il mezzo stesso che la natura adopera per purificare e per consacrare nei secoli i capolavori degli uomini. In questi la natura procede per eliminazione, nell'opera rimasta incompiuta il genio lavora in uno stato di concentrazione suprema. Li^ Adorazione dei Magi non solo rappresenta un miracolo; ma è essa stessa un'opera miracolosa. La notte che vi si addensa è piena di luce per l'anima umana. Fra tutti i quadri della Galleria degli Uffizi è il più vivo, il piìi drammatico e il più profondo per significazione. Continuando per voi la enumerazione delle opere pittoriche vinciane e per mostrarvi che, come allora mi fu possibile liberarmi dal tempo, posso anche oggi, e mi piace, spezzare le catene della cronologia, passerò a parlare della Gioconda. La vidi alcuni anni or sono, e feci, quasi per lei sola, il mio pellegrinaggio da Firenze a Parigi. Quando entrai nella pinacoteca del Louvre, la giornata era grigia e le sale quasi in una penombra. Nella sala dei capolavori gli occhi delle figure dipinte da Tiziano, da Raffaello, da Yelasquez mi guardavano fiso. Cercai la Gioconda, corsi verso di lei. Entro la fioca luce indovinai il sorriso e sentii il fascino dello sguardo; vidi anche il candore del seno. Ogni altra cosa era indistinta. In una pinacoteca non è possibile abbandonarsi all'oblio, Angelo Coxti, Leonardo piUore 93 come in una chiesa o in nn cenacolo. Coloro che entrano a visitare le collezioni dei dipinti vanno per lo più a fare confronti, ad osservare particolari, a cercare note caratteristiche, e portano con sé libri e fotografie. Io, qnando mi dispongo ad andare o a tornare al cospetto d'nn capolavoro, m'affatico a togliermi di dosso ogni peso, affinchè mi sia dato procedere con passo leggero e mi trovi dinanzi all'opera geniale, con l'anima semplice e serena. Sono abituato a contemplare un quadro, come se fosse una costellazione. Nella notte ir cielo è pieno di silenzio e le stelle splendono armonizzando ciascuna il suo ritmo alla musica del cielo. Guardando gli occhi di Monna Lisa del Giocondo, li vidi palpitare in ritmo, in armonia con la musica del suo sorriso. Il quadro m'era ancora ignoto, e pensavo a Leonardo. Mi pareva vederlo, mentre nel suo studio fiorentino aspettava l'arrivo della sfinge ridente. Poco dopo ella entrava e si sedeva accanto alla finestra. In fondo apparivano le colline di Fiesole, Monte Morello, l'Appennino lontano, e l'Arno serpeggiava scintillando nel mattino, mentre le torri della città uscivano dalla nebbia al primo sole. Anch'egli si sedeva, e, presa la lira d'argento che s'era fabbricata con le sue mani, cominciava a cantare. La bella donna, udendo la laude melodiosa, sorrideva, mentre l'Arno da lungi diveniva più ricco di scintille. Poi cominciava a dipingere, e, dopo i primi tocchi una orchestra invisibile di liuti riprendeva la canzone interrotta. La donna sorrideva in una calma regale: i suoi istinti di conquista, di ferocia, tutta l'eredità delia specie, la volontà della seduzione e dell'agguato, la grazia dell'inganno, la bontà che cela un prò- 9i An'gelo Conti, Leomrdo pittore posito crudele, tutto ciò appariva alternativamente e scompariva dietro il velo ridente e si fondeva nel poema del suo sorriso. Per un momento usci un raggio di sole; ed io die m'ero allontanato dal prodigio, corsi e lo vidi intero. La donna era viva dinanzi a me, in tutta la sua vita reale e ideale. Buona e malvagia, crudele e compassionevole, graziosa e felina, ella rideva, e il suo riso si prolungava nel paese lontano e nell'anima mia; sino a darle l'oblio die viene dalla presenza delle cose immortali. Pochi istanti dopo, il sole scomparve e la penombra regnò nuovamente nella sala. Lì presso un sol quadro ardeva come una lampada e in esso cantava, non affievolita, la musica del colore. Era la Festa campestre: fra due donne nude, un suonatore di liuto svegliava alcuni accordi e pareva che la Gioconda ne sorridesse come quando Leonardo cantava, per rendere piìi intensa la sua vita e per tradurre col disegno la sua misteriosa bellezza. Questo ritratto non esprime soltanto ciò che l'occhio vede, ma è il riflesso d'una creatura amata da uno spirito che per oltre quattro anni si affaticò a penetrarne a rivelarne la vita. Come dinanzi alla Gioconda, Leonardo si pone dinanzi ad ogni cosa vivente col medesimo ardore di conoscenza, con la stessa ansiosa curiosità e lo stesso desiderio invincibile di fissarla con segni semplici e definitivi. Tutto questo poema della sua anima, questo dramma intimo che si chiude in una alternativa di tentativi d' espressione e di istanti di tregua contemplativa, di rapimenti e di lotte con la sorda materia, d' ansietà e scoramenti e di calma trionfale, è raccontato nei suoi disegni, che sono 1' immagine più completa della sua potenza non solo intuitiva ma creativa. Per lo scultore il disegno è appena un segno, uno scliema, un presentimento dell'opera futura. Lo chiamiamo disegno, perchè ijon abbiamo altre parole per significare le notazioni figurative degli scultori; ma esso non è se non un appunta ideale, un mezzo per ricordare un sentimento. Ricordate i disegni di Michelangelo per le sue statue, ricordate gli odierni disegni di Rodin per i suoi gruppi e per i suoi monumenti. Qm^tì disegni, benché esprimano una visione di movimento, non sono pittura e non sono scultura perchè non illuminano una idea che potrà essere espressa, come chiaroscuro e come colore sopra una superficie e che sia per apparire come forma nello spazio. La scultura comincia soltanto col bozzetto in cera, in creta o in gesso, cioè a dire quando V idea, destinata a manifestarsi come forma nasce a somiglianza d'una cosa viva fra le altre cose viventi e sorge nello spazio, nell' aria e nella luce, sottoposta alle leggi del peso e chiusa nelle sue dimensioni. Per parlare con esattezza, la scultura non ha disegno. Nella pittura il disegno è tutto, è il primo segno che nota la visione ancora vaga sopra una superficie, ed è il chiaroscuro e il colore che pili tardi la renderanno eloquente, che le daranno una voce che parla e che canta, come in una musica e come in un poema. Per Leonardo, genio universale, il disegno non è soltanto linguaggio pittorico, ma è il mezzo adeguato d'espressione di tutto ciò che appare e che passa nel suo pensiero, nella sua memoria, nella sua imaginazione e nella sua fantasia. Tutti gli aspetti e tutti i momenti della multiforme ed inesaiiribilc attività del suo spirito trovano la loro espressione negli innumerevoli disegni che egli traccia in margine e fra le linee dei suoi manoscritti, la precedono e spesso la superano con la loro potenza di linea intuitiva e divinatoria. Mai come in Leonardo il disegno ha avuto la virtìi d'esprimere tante cose, dalle più athni alla pittura alle pili lontane, dalle pili concrete alle più astratte; mai come in Leonardo e giunto ad una cosi vasta e così intensa forza di analisi e di concentrazione. I disegni di Leonardo non sono solamente una testimonianza del suo amore per la natura, non sono soltanto un dialogo fra la sua anima e V anima delle cose, ma principalmente sono un mezzo di cui egli si è servito per conoscere l'universo. Invece di consultare i trattati scientifici ed i sistemi di filosofìa, Leonardo disegna. I disegni sono i suoi pensieri, le sue meditazioni, le sue osservazioni, le sue intuizioni, le sue scoperte. Ogni suo disegno contiene un segreto svelato, è una verità conquistata, è il segno d' un nuovo trionfo della indagine umana, è un lembo del mistero dell'universo sollevato dal genio umano. Dinanzi a ciò che noi chiamiamo il vero e può essere ugualmente chiamato il mistero, Leonardo ha lo sguardo limpido, sereno, nuovo, lo sguardo meravigliato del fanciullo, ha quella innocenza del genio, senza la quale, come afferma Bacone, non si può entrare ne nel regno della verità ne nel regno dei cieli. La differenza fra l'uomo di genio e l'uomo comune sta p principalmente in questo: dinanzi ai fatti e agli aspetti della natura e della vita V uomo comune si abitua e finisce con l'abolire in se il senso della maraviglia; le sue impressioni, invece d'avere sempre un carattere loro proprio, invece d'es- Leonardo da Yisci Pai'ig;], Museo del Lonvie. J-'ot. X. LA GIOCONDA. sere sempre eccitatrici di sentimenti nuovi, gradatamente si attenuano, si affievoliscono; finche si adattano e si sottopongono al modo di sentire individuale, finche si scolorano e muoiono davanti alla monotonia dei bisogni quotidiani. L'uomo guidato dalle abitudini è un addormentatore di se stesso, è uno schiavo di ciò che nel suo spirito è meno degno di comandare. Il genio invece è sempre libero, è sempre desto, e il sonno dell'abitudine non può far discendere un velo sui suoi grandi occhi puri. Leonardo è appunto della famiglia di coloro che non conoscono lo stato di sonno e d'indifferenza, ma che vivendo sempre in una ansiosa curiosità vedono il continuo apparire delle cose e l'infinito rinnovellarsi dei fenomeni, e che sembrano veramente nascere ogni mattina. In questo stato di attesa dell'ignoto e del nuovo, ogni osservazione è per Leonardo una visione, ogni analisi è una scoperta. Guarda un ramo con le sue foglie, ne cerca la vita col suo disegno, e gli appare la legge di filotassi; canta accompagnandosi con la sua lira d' argento, e scopre la legge di risonanza delle corde negli accordi. In ogni fenomeno egli sente e vede una confessione fatta dalla natura al suo genio divinatore. I suoi disegni sono la traduzione grafica di queste confessioni fatte alla sua anima dall' anima delle cose. Ciascuno d'essi pili che studio dal vero è opera d' immaginazione, è figurazione intuitiva, destniata ad illuminare la realtà e a fare apparire, dietro ciò che passa, l'aspetto immutabile delle idee eterne e delle eterne verità. Ogni loro contorno e una ricerca, ogni linea una interrogazione, ogni luce un riflesso del vivente chiarore del mondo, ogni ombra Leoxakdo da Vixci. lii 98 un'eco d'un vivente mistero; e tutta quella sua opera della penna, del carbone, della matita non è se non un mezzo potente da lui adoperato per stringere d' assedio la natura e per costringerla a rivelare il suo segreto. Sempre mediante le imagini, i paragoni e le analogie egli trova il cammino che deve condurlo verso la verità. Ricordate in un suo manoscritto e in un suo disegno il movimento dell'acqua veduto simile al movimento d' una capigliatura, ricordate in qual maniera i movimenti del nuoto lo aiutino a comprendere quelli del volo, in quel maraviglioso trattato che ha la virtìi di metterci in segreta comunicazione con 1' anima e con la forza delle creature volanti. In questo modo, sempre per mezzo di imagini e di indagini grafiche, di analogie, di forma e di movimento, osservando e studiando l'aria e l'acqua, il suono e la luce, e paragonando le loro proprietà essenziali, egli giunge ad intuire l'unità delle forze fisiche precorrendo Cartesio. E la sua conoscenza, alla quale appariscono come intuizioni le principali conquiste della scienza moderna, è figlia della sua imaginazione. Più ancora che nei suoi manoscritti è espresso nei suoi disegni il cammino fatto dalla sua conoscenza, guidata dall'amore e resa più profonda dalla sua infantile maraviglia. Chi non ricorda, fra gli altri innumerevoli, i suoi disegni di foglie e di fiori? Sono questi fra tutti gli altri, esclusi quelli solo che ritraggono la figura umana, i più precisi. Pure in questa precisione è l'infinito della vita. A prima giunta potete pensare o credere che quei segni corrispondano a qualche cosa di limitato e di esteriore; poi sentiamo che ciascuno di essi ha la potenza di continuarsi in noi. La sua precisione non è il segno rigido e freddo fatto da una mano abile, ma è la linea sicura del genio che ha trovato la vita. Però egli non trascura mai un solo particolare, non lascia mai nulla incompiuto e sembra dir tutto sino all'ultima parola. Infatti egli dice tutto; ma il suo linguaggio è come il mare e come l'infinito, e, nelF udirlo, la nostra piccola anima sembra farsi vasta come 1' anima del mondo. In qua! modo ha potuto egli raggiungere questa potenza d'espressione? In un modo semplice e grande: imitando la natura. L'imitazione della natura è il principio che Leonardo proclama in tutti i suoi scritti e mette in pratica in tutte le sue opere. Ma che cosa significa imitar la natura? Ciò non vuol dire copiare le sue apparenze esteriori, come fanno oggi la maggior parte dei nostri artisti, ma imitarla nelle sue leggi di vita. Imitar la natura, per Leonardo come per tutti i geni dell'umanità, significa divenire come la natura, acquistando la potenza di creare 1' opera d' arte nel modo stesso nel quale la natura crea le sue vite innumerevoli: qual fanno le cose. Voi sapete benissimo che i disegni vinciani fanno parte dei manoscritti di Milano, di Parigi, di Londra, che sono aiizi un complemento, uno sviluppo e un'irradiazione del testo. Poiché dunque l' uno e 1' altro sono connessi intimamente, non m' è possibile, dopo parlato dei disegni, non dirvi due parole dei manoscritti e significarvi in tal modo tutto il mio pensiero. Voi sapete che nei manoscritti sono pagine di ogni scienza. Perchè? Volle forse Leonardo coltivare r una dopo 1' altra le varie discipline scientifiche e contribuire al loro sviluppo? A questa domanda risponde Leonardo medesimo. L'uomo non dev'essere " solo un sacco dove si riceva il cibo e donde esso esca „, non deve essere soltanto un " transito di cibo „ e avere della specie umana la sola voce e la figura, e tutto il resto " essere assai manco che bestia „. Il vero scopo della vita umana è per Leonardo il pensiero. Il pensiero, per conoscere il passato e la nostra dimora terrena; ecco il mezzo per vivere nobilmente liberandoci dalla illusione del piacere. Il tempo che fece piangere Elena allorché ^ guardandosi nello specchio, vide i primi segni della vecchiezza, il tempo non può colpire il pensiero. Il conoscere la sapienza degli antichi e la vivente realtà delle cose presenti, ecco il decoro e l' alimento degli spiriti umani. Ma perchè un tal desiderio di conoscere? Questo e per me il punto capitale, il vero nodo della questione. Il sapere perchè Leonardo ha voluto studiare tante forme ed ha cercato il segreto di tanti fatti della vita universale, ci farà conoscere la qualità essenziale del suo genio. Nella sua indagine instancabile d'ogni fenomeno del cielo e della terra, nel suo ininterrotto colloquio con la natura, Leonardo non è animato da curiosità puramente scientifica, non da vanità di dottrina, né dalla naturale tendenza d'un intelletto analitico cui l'esercizio delia osservazione doni la gioia più intensa. Spirito sostanzialmente intuitivo e sintetico, egli si sottopone in tutta la sua vita al rigore e spesso al martirio dell' analisi, per acquistare una conoscenza pili ricca, più vasta e piti profonda. Le sue innumerevoli osservazioni, i suoi continui esperimenti sono i gradini che debbono condurlo colà dove, entro una luce inestinguibile, appare l'eternità della vita. Soffrire la disciplina del ragionamento e dell'esperimento per aver in fine, come premio, la visione della vita, non h forse una divina aspirazione? Più la sua conoscenza, nel quotidiano osservare e meditare, gli svelava nuove leggi e nuovi segreti, più cresceva in lui l'amore per tutta la natura; ne vi fu mai al mondo, dopo l' umile frate d'Assisi, chi l'abbia amata d'amore più puro e più ardente. Chi più conosce 'pia ama^ sono le sue parole. In questo amore generato dalla conoscenza è tutto il segreto dell'opera di Leonardo, dai manoscritti e disegni alle pitture. Il suo realismo è un mezzo per giungere all'idea, è il modo ch'egli adopera per ricomporre ciò che prima ha scomposto, in maniera che la natura stessa sembri formarsi dinanzi a noi e farci assistere alla sua stessa creazione. Chi conosca i manoscritti di AYindsor, nei quali i disegni hanno un'importanza assai maggiore del testo, può convincersi agevolmente di questa verità e può anche comprendere (cosa che in questo momento deve particolarmente interessarci) che quando Leonardo parla di anatomia o di fisiologia, come nei così detti trattati che si vanno ora pubblicando, egli non è mai un anatomico vero e proprio, ne un vero fisiologo, ma è sempre prima d' ogni altra cosa e sopra ogni altra cosa pittore. Tutta la sua opera di scienza, tutti i suoi disegni d'anatomia, d'embriologia, di botanica, non ser- vono se non a rendere più vasta, più profonda e più ricca la sua visione pittorica dell'uomo e della natura. La scienza non è se non un mezzo d'espressione della sua visione del mondo, ed egli se ne giova per dare un carattere di precisa realtà agli ardimenti del suo sogno. Scopo del suo immenso lavoro e di giungere a creare ima- 102 Angelo Conti, Leonardo pittore g'ini clic sembrino nate con le stesse leggi con le quali la natura produce le sue forme: qual fanno le cose. E doloroso che nella sua vasta opera essenzialmente pittorica, nella quale " non fu impedito „, come egli dice, " da avarizia o da negligenza, ma solo dal tempo „, manchi irreparabilmente una fra le pagine piti vive e più grandi: La Battaglia d'Anghiarl. Scrivo queste parole vicino a Santa Maria Novella, a pochi passi dal luogo nel quale egli disegnò r opera maravigliosa. Le campane che suonano nel campanile roseo al primo sole del mattino, sembrano diffondere sul mio ricordo una voce dì pianto. Li pochi mesi il lavoro fu compiuto, e immediatamente cominciata la pittura a fresco per la sala del Consiglio in Palazzo Vecchio. Leonardo vi dipinse dal 1504 al 1506. Poi l'opera fu da lui abbandonata. Nel 1559 il cartone di Leonardo era ancora nella sala del Papa, mentre il cartone della Guerra di Pisa disegnato da Michelangelo era nel Palazzo dei Medici, l'uno e l'altro esposti all'ammirazione del mondo. Da queir anno manca ogni notizia. Della pittura incominciata in Palazzo Vecchio si sa soltanto che nel 1513 esisteva ancora, ma cadente a causa della cattiva preparazione dell'intonaco e dei colori. Cito, contro il mio solito, dati di fatto e date, perchè l' opera pur troppo manca. Se l'opera esistesse, il suo linguaggio renderebbe insostenibile la voce della cronologia; ma poiché è perduta, ci è necessario contentarci delle parole di chiunque ce ne parli. I due tre ricordi pittorici rapidi e sommari dell' episodio centrale della battaglia, non bastano a dare un'idea di ciò che fece Leonardo. Chi sa in qual modo maraviglioso e straordinario egli avrà rappresentato la mischia, la furia guerresca intorno allo stendardo, che sappiamo fosse nel centro, qnal prodigio di scorci, quale evidenza di movimenti, nobiltà ed impeto di gesti e quale perfezione di cavalli, dei quali egli conosceva la vita come nessuno dei suoi tempi ! Di tutto ciò nulla e rimasto. Io imagino che nell'anno in cui ogni traccia dell'opera scomparve, la natura, per compensare il mondo, dovè creare una primavera favolosa, non veduta mai. Poiché nel mondo nulla si perde, e quando una bellezza è distrutta, sia essa una selva che arda, un' isola che si sommerga, un capolavoro che cada in rovina, la natura provvida fa nascere nuovi germogli, suscita nuove bellezze e nuove energie, e la sua forza di creazione rimane intatta in virtii della sua maggiore attività: il mutamento. Doctor Mysticus. Iride, mandata da Giunone, scende sulla terra per consigliare TURNO a idare l’assalto al campo troiano, finchè  è assente ENEA. Turno, avendo provocato invano i Troiani rinchiusi, pensa di dar fuoco alle navi, le quali si salvano per l’intervento di Cibele che le trasforma in ninfe del mare. TURNO, interpretato.  favorevolmente quel portento, idispone l’accampamento. Durante la notte, NISO confida ad EURIALO il’proponimento di andare in cerca d’ENEA. Ma Eurialo lo vuole seguire. Ascanio e i capi li lodano, e prometton loro grandi doni. Entrati nel campo dei Rùtuli, ne fanno strage. Ma quando, uski-  tine, si avviano per i boschi, sono scoperti da Volscente -  che veniva con trecento cavalieri di Laurento. Fuggono. NISO SI SALVA, MA EURÌALO È RAGGIUNTO ED UCCISO, NONOSTANTE L’INTERVENTO DI NISO, TORNATO INDIETRO A SALVARE IL COMPAGNO. Le teste recise dei due giovani, infilzate in una picca, son portate sotto il campo troiano, fra i disperati lamenti della madre di Eurialo.  Turno assale i Troiani con grande strage. E  poichè Numano insolentiva i nemici vantando le virtù  della stirpe italica, Ascanio compie il suo primo eroismo idi guerra, e lo trafigge con una freccia.Pandaro e Bizia, fratelli, tentano la riscossa lanciandosi sui Rùtuli; ma Bizia è ucciso da Turno, che riesce a en-  trare nel campo nemico, dove fa strage; finchè, eopraf-  fatto dalla folla dei Troiani, si salva lanciandosi armato  a nuoto nel Tevere. Atque ea diversa penitus dum parte geruntur,  Irim de caelo misit Saturnia Iuno  audacem ad Turnum. Luco tum forte parentis  Pilumni Turnus sacrata valle sedebat.  Ad quem sic roseo Thaumantias ore locuta est:   « Turne, quod optanti Divum promittere nemo  auderet, volvenda dies en attulit ultro.  Aeneas urbe et sociis et classe relicta  sceptra Palatini sedemque petit Evandri.  Nec satis: extremas Corythi penetravit ad urbes 10  Lydorumque manum collectos armat agrestes.  Quid dubitas? nunc tempus equos, nunc poscere currus.  Rumpe moras omnes et turbata arripe castra. Dixit, et in caelum paribus se sustulit alis  ingentemque fuga secuit sub nubibus arcum. A&novit iuvenis duplicesque ad sidera palmas  sustulit ac tali fugientem est voce secutus:  « Iri, decus caeli, quis te mihi nubibus actam  detulit in terras? unde haec tam clara repente  tempestas? medium video discedere caelum palantesque polo stellas: sequor omina tanta,  quisquis in arma vocas. » Et sic effatus ad undam  processit summoque hausit de gurgite lymphas,  multa Deos orans, oneravitque aethera votis.   lamque omnis campis exercitus ibat apertis 25  dives equum, dives pictai vestis et auri.  Messapus primas acies, postrema céoercent  Tyrrhidae iuvenes, medio dux agmine Turnus  E mentre tutto questo in ben diversa parte succede,  Iride giù da cielo mandò la Saturnia Giunone a Turno  audace. Allora a caso sedeva Turno nel bosco dell’avo  Pilumno * entro alla sacra valle; e a lui con la rosea boc-  ca la figlia di Taumante * parlò: « Turno, quel che nes  suno dei numi oserebbe promettere al tuo desiderio, ec-  co che il giorno che volge te l’offre spontaneamente. Énea lasciò la città e i compagni e la flotta, ed è salito  alla reggia del Palatino ed alla sede di Evandro. Nè ba-  sta: è penetrato nell’ultime ville di Còrito *, e raccoglie  ed arma agresti schiere di Etruschi. Che indugi? Il tem-  po è questo, è questo, di chiedere i cocchi e i cavalli.  Rompi ogni indugio, turba ed assali il suo campo ». Dis-  se, e nell’alto del cielo si alzò con le ali levate, e nel  fuggire segnò sotto le nubi un grande arco. La riconobbe  il giovane, e alzò ambe le palme alle stelle, e, mentr’ella  volava, la seguiva con queste parole. Ìri, ornamento  del cielo, chi dalle nubi a me ti fece discendere sopra la  terra? E come mai, improvvisa, tanta chiarezza di cie-  lo? A mezzo vedo dischiudersi i cieli e in alto vagare  le stelle. Chiunque tu sia, che mi chiami alle armi, ob-  bedisco ad un tanto presagio ». E, così detto, al fiume  si accostò, ed attinse a fiore del gorgo le acque, molto  pregando gli Dei, colmando il cielo di voti.   E già l’esercito intiero andava per le aperte pianure,  ricco di cavalli, ricco di vesti intessute nell’oro (all’a-  vanguardia è Messapo, ultimi vengono, i figli di Tirro ‘,  ed a capo del grosso sta Turno: s’avanza brandendo ie    LI   [vertitur arma tenens et toto vertice supra est];   ceu septem surgens sedatis amnibus altus 30  per tacitum Ganges, aut pingui flumine Nilus   cum refluit campis et iam se condidit alveo.   Hic subitam nigro glomerari pulvere nubem   prospiciunt Teucri ac tenebras insurgere campis.  Primus ab adversa conclamat mole Caicus: Quis globus, o cives, caligine volvitur atra?   Ferte citi ferrum, date tela, ascendite muros,   hostis adest, heia. » Ingenti clamore per omnes   condunt se Teucri portas et moenia complent.   Namque ita discedens praeceperat optimus armis 40  Aeneas, si qua interea fortuna fuisset,   neu struere auderent aciem, neu credere campo;  castra modo et tutos servarent aggere muros.   Ergo etsi conferre manum pudor iraque monstrat,  6biciunt portas tamen et praecepta facessunt armatique cavis exspectant turribus hostem.   Turnus, ut ante volans tardum praecesserat agmen  viginti lectis equitum comitatus, et urbi   improvisus adest: maculis quem Thracius albis   portat equus cristaque tegit galea aurea rubra. Ecquis erit, mecum, iuvenes, qui primus in hostem?  En » ait et iaculum intorquens emittit in auras,  principium pugnae, et campo sese arduus infert.  Clamorem excipiunt socii, fremituque sequuntur  horrisono; Teucrum mirantur inertia corda: 55  non aequo dare se campo, non obvia ferre   arma viros, sed castra fovere. Huc turbidus atque huc  lustrat equo muros aditumque per avia quaerit.   Ac veluti pleno lupus insidiatus ovili   cum fremit ad caulas, ventos perpessus et imbres, 60  nocte super media: tuti sub matribus agni   armi, e supera gli altri del capo); come tacito scorre  il Gange profondo, ingrossato da sette fiumi tranquil.  li, o il Nilo dalla pingue corrente, quando rifluisce dai  campi e già se ne torna al suo letto. Qui addensarsi una  nube di negra polvere i Teucri scorgono all’improvviso,  e i campi oscurarsi; Caico, primo dalla torre di fronte,  si mette a gridare: « Che turbine, o cittadini, si aggira  di negra caligine? Presto, alle armi, recate le armi, sali-  te alle mura! Ecco il nemico, olà! ». E i Teucri con  grande schiamazzo si afiollan per tutte le porte, e col.  man le mura. Giacchè così, nel partire, Enea, esperto di  guerra, aveva ordinato: se intanto si offriva una qual-  che sorpresa, non osassero uscire in ischiera nè accet-  tare battaglia; solo, tenessero il campo e 1 muri al ri-  paro del vallo *. Or, benchè ira e vergogna li spingano  a dare battaglia, pure rinserran le porte, ed obbedisco-  no agli ordini, ed aspettano armati dentro le torri il ne-  mico. Turno, siccome volando davanti avea preceduto  il tardo suo stuolo, con venti cavalieri più scelti, ecco  appare improvviso davanti alle mura: lo porta un ca-  vallo di Tracia pezzato di bianco, e il capo gli copre  un elmo d’oro con rosso il cimiero. « E chi sarà con me,  o giovani, chi primo incontro il nemico? Ecco! » esclama,  e un dardo vibrando, lo lancia per l’aure, segnale della  battaglia, ed alto si avanza nel campo. L'acclamano a  gran voce i compagni, e con un grido lo seguono che  orribile suona: e stupiscono dei cuori inerti dei Teucri,  e come non escano in campo aperto e non cozzin le ar-  mi con loro, ma stiano accovacciati là dentro. Turno,  ora qua ora là, esplora a cavallo le mura, e cerca —  ma impenetrabile è il luogo — un accesso. E come quan-  do un lupo che insidia l’ovile ricolmo, freme là presso  al recinto, esposto al vento e alla pioggia, nel cuor della    2balatum exercent, ille asper et improbus ira  saevit in absentes, collecta ‘fatigat edendi  ex longo rabies et siccae sanguine fauces;  haud aliter Rutulo muros et castra tuenti  ignescunt irae, duris dolor ossibus ardet,  qua tentet ratione aditus et qua vi clausos  excutiat Teucros vallo atque effundat in aequor..  Classem, quae lateri castrorum adiuncta latebat,  aggeribus septam circum et fluvialibus undis,  invadit sociosque incendia poscit ovantes  atque manum pinu flagranti fervidus implet.  Tum vero incumbunt (urget praesentia Turni),  atque omnis facibus pubes accingitur atris.  Diripuere focos; piceum fert fumida lumen  taeda et commixtam Vulcanus ad astra favillam.  Quis Deus, o Musae, tam saeva incendia Teucris  avertit? tantos ratibus quis depulit ignes?  Dicite. Prisca fides facto, sed fama perennis.  Tempore quo primum Phrygia formabat in Ida  Aeneas classem et pelagi petere alta parabat,  ipsa Deum fertur genetrix Berecyntia magnum  vocibus his adfata Iovem: « Da, gnate, petenti,  quod tua cara parens domito te poscit Olympo.  Pinea silva mihi, multos dilecta per annos;  lucus in arce fuit summa, quo sacra ferebant,  nigranti picea trabibusque obscurus acernis.  Has ego Dardanio iuveni, cum classis egeret,  laeta dedi: nunc sollicitam timor anxius angit.Solve metus, atque hoc precibus sine posse parentem: 90    ne cursu quassatae ullo neu turbine venti  vincantur: prosit nostris in montibus ortas. »  Filius huic contra, torquet qui sidera mundi:   « O genetrix, quo fata vocas? aut quid petis istis?    notte: sotto le madri, al sicuro, vanno belando gli agnel-  li, ed esso, inasprito e feroce per l’ira, infuria contro i  lontani; e lo tormenta la lunga rabbia adunata del cibo  con le fauci che han sete di sangue; — non altrimenti  nel Rùtulo, a guardare i muri ed il campo, ardono lire,  il dolore nell’ossa dure lo brucia: come tentare l’accesso,  e come scacciar con la forza i Teucri dal vallo e spar-  gerli nella pianura. Allora investe la flotta, che stava al  riparo di fianco al campo, recinta all’intorno dagli ar-  gini e dall'onde del fiume, e invita all'incendio i com-  pagni esultanti, e furibondo impugna una fiaccola ar-  dente; ed essi si accaniscono all’opera: li sprona la pre-  senza di Turno, e tutta di negre faci la gioventù si for-  nisce. Saccheggiano i focolari; le torce fumose una luce  spandon color della pece, e Vulcano lancia fumo e fa-  ville alle stelle. |   Qual Dio, o Muse, un così fiero incendio allontanò dai  Troiani? chi discacciò dalle navi sì grandi fiamme? Voi  ditelo. Antica è la fede nel fatto, ma la sua fama è pe-  renne. Nel tempo che dapprima fabbricava nell’Ida di  Frigia Enea la sua flotta e si accingeva a prendere il  mare infinito, dicono che essa stessa, la Berecinzia * ma-  dre dei numi, al gran Giove volgesse queste parole:  « Ascolta, o figlio, il mio prego, il primo che io, la tua  cara madre, ti chiedo, da quando domasti l'Olimpo. Ho  una selva di pini, da lunghissimi anni a me cara; ed era  il sacro mio bosco sulla cima del monte, ia dove si eser-  citava il mio culto, di nereggianti abeti ombroso e di  alti tronchi di aceri. Ed io ben lieta li ho dati al dàr-  dano eroe, allorchè aveva bisogno di navi; ma ora il ti-  more mi rende ansiosa e sollecita: toglimi da questo af-.  fanno, e fa che questo ottenga la preghiera di una ma-  dre: fa che non siano mai schiantate da viaggio nes-    2Mortaline manu factae immortale carinae  fas habeant? certusque incerta pericula lustret  Aeneas? cui tanta Deo permissa potestas?  Immo ubi defunctae finem portusque tenebunt  Ausonios olim, quaecumque evaserit undis  Dardaniumque ducem Laurentia vexerit arva,  mortalem eripiam formam magnique iubebo  aequoris esse Deas, qualis Nereia Doto  et Galatea secant spumantem pectore pontum. »  Dixerat, idque ratum Stygii per flumina fratris,  per pice torrentes atraque voragine ripas  adnuit, et totum nutu tremefecit Olympum.  Ergo aderat promissa dies et tempora Parcae  debita complerant, cum Turni iniuria Matrem  admonuit ratibus sacris depellere taedas.  Hic primum nova lux oculis effulsit, et ingens  visus ab Aurora caelum transcurrere nimbus  Idaeique chori: tum vox horrenda per auras  excidit et Troum Rutulorumque agmina complet.  « Ne trepidate meas, Teucri, defendere naves,  neve armate manus: maria ante exurere Turno,  quam sacras dabitur pinus. Vos ite solutae,  ite Deae pelagi; genetrix iubet. » Et sua quaeque  continuo puppes abrumpunt vincula ripis  delphinumque modo demersis aequora rostris  ima petunt: hinc virgineae (mirabile monstrum)  [quot prius aeratae steterant ad litora prorae]  reddunt se totidem facies pontoque feruntur.  Obstupuere animis Rutuli, conterritus ipse  turbatis Messapus equis, cunctatur et amnis  rauca sonans revocatque pedem Tiberinus ab alto.  At non audaci Turno fiducia cessit;  ultro animos tollit dictis atque increpat ultro: suno o da turbinose tempeste; e a lor giovi sui nostri  monti esser nate ». E a lei di rincontro il figliuolo, che  volge le stelle del cielo: « Madre, perchè vuoi tu cam-  biare il destino? e che cosa domandi per loro? Forse  che navi foggiate da mano mortale potranno avere una  sorte immortale? Ed Enea al sicuro affronterà i malsi-  curi perigli? E quale dei numi ha così grande potere?  Bensì, quando compiuto il lor corso si fermeranno un  giorno nei porti d’Ausonia, qualunque ne sia scampata  dall’onde ed abbia portato il duce dardànio nei campi  laurenti, io le toglierò la sua forma mortale, e vorrò  ch’elle sieno dee dell’ampie marine, come Doto e Gala-  tea nereidi, che fendono il mare spumante col petto ».  Disse; e giuratolo per il fiume dello stigio fratello * e  per le sponde bollenti di pece dall’atra voragine, cen-  nò, ed al cenno, tutto fece tremare l’Olimpo.   Era dunque arrivato il giorno promesso, e avevan  le Parche compiuto il debito tempo, quando l'offesa di  Turno indusse la Madre a cacciar dalle sacre navi le  fiaccole. Allora da prima una luce novella agli occhi ri-  fulse, e immenso fu visto trascorrere dall'Oriente un nim-  bo pel cielo, e con esso i cori dell’Ida: così tremenda  una voce cadde per l’aria, e le schiere riempì dei Troiani  e dei Ruùtuli: « Non vi affannate a difendere i miei na-  vigli, o Troiani, e non afferrate le armi: prima potrà ar-  dere il mare, Turno, che bruciare i pini a me sacri. È  voi andatene sciolte, andatene, Dee del mare; la vostra  madre lo vuole ». E tosto ad una ad una ie poppe tron-  can le corde dal lido, e a guisa di delfini, tuffati i ro-  stri, scendon nel fondo del înare: e di qui (meraviglioso  prodigio), quante prore di bronzo eran state prima alla  riva”, ricompaiono volti alirettanti di fanciulle, e si av-  vian sul mare.    2« Troianos haec monstra petunt, his Iuppiter ipse  auxilium solitum eripuit; non tela nec ignes  exspectant Rutulos. Ergo maria invia Teucris, 130  nec spes ulla fugae; rerum pars altera adempta est;  terra autem in nostris manibus: tot milia gentes   arma ferunt Italae. Nil me fatalia terrent,   si qua Phryges prae se iactant, responsa Deorum.   Sat fatis Venerique datum, tetigere quod arva 135  fertilis Ausoniae Troes. Sunt et mea contra   fata mihi, ferro sceleratam exscindere gentem,   coniuge praerepta; nec solos tangit Atridas   iste dolor solisque licet capere arma Mycenis.   Sed periisse semel satis est; peccare fuisset 140  ante satis penitus modo non, genus omne perosos  femineum? quibus haec medii fiducia valli  fossarumque morae, leti discrimina parva,   dant animos. An non viderunt moenia Troiae   Neptuni fabricata manu considere in ignes? 145  Sed vos, o lecti, ferro quis scindere vallum   adparat et mecum invadit trepidantia castra?   Non armis mihi Vulcani, non mille carinis   est opus in Teucros. Addant se protinus omnes   Etrusci socios. Tenebras et inertia furta ; 150  [Palladii caesis summae custodibus arcis]   ne timeant; nec equi caeca condemur in alvo:   luce palam certum est igni circumdare muros.   Haud sibi cum Danais faxo et pube Pelasga   esse putent, decimum quos distulit Hector in annum. 159  Nunc adeo, melior quoniam pars acta diei,   quod superest, laeti bene gestis corpora rebus  procurate, viri, et pugnam sperate parari. »   Interea vigilum excubiis obsidere portas   cura datur Messapo et moenia cingere flammis.  Stupiron nel cuore i Rùtuli, atterrito è lo stesso Mes-  sapo e i suoi cavalli s'impennano; il Tiberino fiume an-  cor esso s’indugia, rauco ‘sonando, e ritrae il piede dal  ‘ mare. Ma non a Turno audace vien meno l’ardire, chè  anzi rianima 1 cuori coi detti e li garrisce così: « Con-  tro i Toiani, comparvero questi portenti; a loro, il so-  lito scampo lo stesso Giove ha strappato: non v'è più  bisogno delle armi e dei fuochi dei Rùtuli. Così i Teu-  cri non hanno più vie sul mare nè alcuna speranza di  fuga: son tolte loro le acque, e la terra è in nostro po-  tere: tante migliaia di armati mandano l'itale genti!  Non mi atterriscono, no, i fatali responsi dei numi, di  cui i Frigi si vantano. Basti a Venere e ai fati, che della  fertile Ausonia toccarono i campi i Troiani. Ho i miei  destini io pure: esterminar con la spada la scellerata  gente, poichè mi ha rapita la sposa; e un tale dolore  non tocca soltanto gli Atridi‘°, nè soltanto a Micene  e lecito l’armi brandire. Ma esser periti una volta, po-  teva bastare; e non sarebbe bastato aver peccato una  volta, per odiar tutto il sesso femmineo? Certo, a lo-  ro dan forza il vallo interposto e dei fossati l’ostacolo,  breve ritardo alla morte. Ma non vider le mura di Troia  — e le aveva costrutte Nettuno! — ruinare in mezzo  alle fiamme? Ora di voi, o eletti, chi si prepara a rom-  pere il vallo e ad assaltare con me gli accampamenti  tremanti? Non ho bisogno dell’armi, io, di Vulcano, e  di mille carene, per combattere contro i Troiani. E a  loro si aggiungano pure alleati tutti quanti gli Etru-  schi. Le tenebre e gli assalti infingardi [del Palladio,  e dei custodi della rocca la strage]! non tornano essi,  chè noi non ci chiuderemo nel ventre oscuro del cavallo:  alla luce, all’aperto, circonderemo ie mura di fiamme.  Io farò sì che non si credano in guerra coi Dànai e con     Bis septem Rutuli, muros qui milite servent,  delecti: ast illos centeni quemque sequuntur  purpurei cristis iuvenes auroque corusci.  Discurrunt variantque vices fusique per herbam  indulgent vino et vertunt crateras aénos. Collucent ignes: noctem custodia ducit  insomnem ludo.  Haec super e vallo prospectant Troes et armis  alta tenent, nec non trepidi formidine portas  explorant, pontesque et propugnacula iungunt, 170  tela gerunt. Instant Mnestheus acerque Serestus,  quos pater Aeneas, si quando adversa vocarent,  rectores iuvenum et rerum dedit esse magistros.  Omnis per muros legio, sortita periclum,  excubat, exercetque vices, quod cuique tuendum est. 175  Nisus erat portae custos, acerrimus armis,  Hyrtacides, comitem Aeneae quam miserat Ida  venatrix iaculo celerem levibusque sagittis;  et iuxta comes Eurialus, quo pulchrior alter  non fuit Aeneadum Troiana neque induit arma, 180 ‘  ora puer prima signans intonsa iuventa. ©  His amor unus erat, pariterque in bella ruebant;  tum quoque communi portam statione tenebant.  Nisus ait: « Dine hunc ardorem mentibus addunt,  Euryale, an sua cuique Deus fit dira cupido? 189  Aut pugnam aut aliquid iamdudum invadere magnum  mens agitat mihi nec placida contenta quiete est.  Cernis, quae Rutulos habeat fiducia rerum.  Lumina rara micant: somno vinoque soluti  procubuere; silent late loca. Percipe porro, _ 190  quid dubitem et quae nunc animo sententia surgat.  Aeneam acciri omnes, populusque patresque,  exposcunt, mittique viros, qui certa reportent.  la gente Pelasga, che Ettore per ben dieci anni tardò.  Ora dunque, poichè è scorsa la parte migliore del gior-  no, quel tanto che avanza, lieti dei primi successi, con-  cedetelo, o prodi, a ristorarvi le membra, e aspettate che  venga la pugna ». Frattanto si affida a Messapo di guar-  dar con le scolte le porte !* e di cinger le mura di fuo-  chi. Due volte sette Rùtuli son scelti a custodia dei mu-  ri coi loro guerrieri; ed ognuno da cento armati è se-  guito, con cimieri purpurei ed armi che brillano d’oro.  Corron di qua e di là, si danno il cambio, e sdraiati su  l'erba tracannano il vino e lo versan dai crateri di bron-  zo. Splendono i fuochi; e le guardie passano la notte  insonne giocando. -   Di sopra al vallo i Troiani stanno a osservare, e con  l’armi guardan le mura, e così, in fretta, per il timore,  vanno studiando le porte, congiungon coi ponti le torri,  ammucchiano l’armi. Stanno su loro Mnèsteo ed il fiero  Seresto, che il padre Enea, se mai lo chiedesse il peri-  colo, avea destinati a guidare l’esercito e a governare  lo stato. Tutti, lungo le mura, al rischio che la sorte ha  voluto, i guerrieri vegliano, n scambiano i turni, secon-  do che tocca ad ognuno. Niso era a custodia di una por-  ta, d’Irtaco il figlio, che, a compagno d’Enea, Ida aveva  sini la cacciatrice, ed era destro a gettare veloci  saette; e accanto gli era compagno Eurìalo, il più bello  fra tutti gli Enèadi e quanti vestivano l’armi troiane;  fanciullo ancora, gli fioriva sulle gote intonse la prima  lanugine. Stretto un amore li univa, e insieme si preci-  pitavano in guerra; ed anche allora, compagni di scol-  ta, guardavan la porta. Niso disse: « M'ispirano forse  gli Dèi questo mio ardor nella mente, o Eurialo? o il  suo fiero desìo diviene a ciascuno il suo Dio? Già da  gran tempo il mio cuore mi spinge alla pugna o a ten-    Si tibi quae posco promittunt (nam mihi facti  fama sat est) tumulo videor reperire sub illo 195  posse viam ad muros et moenia Pallantea. »  Obstupuit magno laudum percussus amore  Euryalus: simul his ardentem adfatur amicum:  « Mene igitur socium summis adiungere rebus,  Nise, fugis? solum te in tanta pericula mittam? 200  non ita me genitor, bellis adsuetus Opheltes,  Argolicum terrorem inter Troiaeque labores  sublatum erudiit, nec tecum talia gessi >  magnanimum Aenean et fata extrema secutus.  Est hic, est animus lucis contemptor et istum 205  qui vita bene credat emi, quo tendis; honorem. »  Nisus ad haec: « Equidem de te nil tale verebar,  nec fas, non: ita me referat tibi magnus ovantem  luppiter, aut quicumque oculis haec adspicit aequis.  Sed si quis (quae multa vides discrimine tali), 210  si quis adversum rapiat casusve Deusve,  te superesse velim: tua vita dignior aetas.  Sit, qui me raptum pugna pretiove redemptum  mandet humo; solita aut si qua id fortuna vetabit,  absenti ferat inferias, decoretque sepulchro; 215  neu matri miserae tanti sim causa doloris,  quae te sola, puer, multis e matribus ausa  persequitur, magni nec moenia curat Acestae. »  Ille autem: « Causas nequidquam nectis inanes,  nec mea iam mutata loco sententia cedit. 220  Adceleremus » ait. Vigiles simul excitat. Illi  succedunt servantque vices: statione relicta,  ipse comes Niso graditur, regemque requirunt.   Cetera per terras omnes animalia somno  laxabant curas et corda oblita laborum; 225  ductores Teucrum primi, delecta iuventus,    a è    o so pn    tare qualche gran fatto, e non sa placarsi a un tranquillo  riposo. Tu vedi quale fiducia s'è impadronita dei Rù-  tuli. Rari lampeggiano i lumi; immersi nel sonno e nel  vino giacquero; tutto all’intorno è silenzio. Odimi dun-  que quello ch’io penso, ed il disegno che ora mi sorge  nel cuore. Tutti, il popolo e i padri, chiedon che Enea  si richiami e gli si mandino messi che gli raccontino il  vero. Se mi promettono quello ch’io chiedo per te (per  mia parte, mi basta la gloria del fatto), credo, la, sotto  a quel colle, di ritrovare la via che mena del Pallantèo  alle mura ». Stupì, colpito da grande amore di gloria,  Eurìalo; e con queste parole si volge all’ardito compa-  gno: « Niso, dunque rifuggi dal prendermi teco all’im-  presa sì grande? Ti lascerò andar solo in mezzo a co-  tanti perigli? Ah, non così mio padre, Ofelte assuefatto  alle guerre, fra lo spavento argolico ed i travagli di  Troia mi allevò, m’istruì; e non così mi mostrai accanto  a te, nel seguire il magnanimo Enea fino all’estreme  fortune. C’è qui, c'è qui un animo che sa disprezzare  la vita, e crede che ben con la vita si acquisti questa  gloria che agogni tu pure ». E Niso di rincontro: « Non  io certo dubitavo di te, nè lo potrei, oh no: così a te  mi riconduca in trionfo il grande Giove o chiunque  dall’alto ci guarda con occhio propizio. Ma se, come  spesso accade in rischi sì grandi, se un qualche caso, o  un Dio, mi tragga a morire, vorrei che tu rimanessi; ti  dà più diritto alla vita la tua giovinezza: e vi sia chi  mi sottragga alla mischia o mi ricompri al nemico per  sotterrarmi, e se, come accade, lo vieterà la fortuna, mi  renda i funebri offici, anche lontano, e di un sepolcro  mi onori. Ah, ch’io non sia cagione di un sì grande  dolore alla tua povera madre, che sola, o fanciullo, fra  tante madri osava seguirti, e non ristette del grande    3 - Vircuro - Eneide - Vol. III    consilium summis regni de rebus habebant,   quid facerent quisve Aeneae iam nuntius esset.   Stant longis adnixi hastis et scuta tenentes   castrorum et campi medio. Tum Nisus et una ‘230  Euryalus confestim alacres admittier orant:   rem magnam, pretiumque morae fore. Primus Iulus  accepit trepidos ac Nisum dicere iussit.   Tunc sic Hyrtacides: « Audite o mentibus aequis,  Aeneadae, neve haec nostris spectentur ab annis, 235  quae ferimus. Rutuli somno vinoque soluti   conticuere: locum insidiis conspeximus ipsi,   qui patet in bivio portae, quae proxima ponto;  interrupti ignes, aterque ad sidera fumus   erigitur; si fortuna permittitis uti 240  quaesitum Aenean et moenia Pallantea,   mox hic cum spoliis ingenti caede peracta   adfore cernetis. Nec nos via fallet euntes:   vidimus obscuris primam sub vallibus urbem    venatu adsiduo et totum cognovimus amnem. » 245    Hic annis gravis atque animi maturus Aletes:   « Di patrii, quorum semper sub numine Troia est,   non tamen omnino Teucros delere paratis,   cum tales animos iuvenum et tam certa tulistis  pectora. » Sic memorans umeros dextrasque tenebat 250  amborum et vultum lacrimis atque ora rigabat:   « Quae vobis, quae digna, viri, pro laudibus istis,  praemia posse rear solvi? pulcherrima primum   Di moresque dabunt vestri; tum cetera reddet   actutum pius Aeneas atque integer aevi 259  Ascanius, meriti tanti non immemor umquam. »  «Immo ego vos, cui sola salus genitore reducto,   excipit Ascanius, per magnos, Nise, Penates  Assaracique Larem et canae penetralia Vestae  Aceste alle mura ». Ma quegli: « Tu indarno intessi i  tuoi vani pretesti, e il mio voler non si muta e non ce-  de. Presto!» soggiunge. E risveglia le scolte; queste  subentrano al cambio; lasciata la guardia, ei s’accom-  pagna con Niso, e vanno in cerca del re.   Gli altri animali per tutte le terre placavan nel son-  no i loro affanni nei cuori dimentichi d’ogni travaglio;  ma i duci primi dei Teucri, fior dei guerrieri, tenevan  consiglio sul grave momento del regno: che fare? e chi  mandar messaggero ad Enea? Stanno poggiati alle lun-  ghe aste, e reggon gli scudi, nel mezzo alla piazza del  campo. Quand’ecco Niso, e con lui Eurìalo, pronti, chie-  dono d’essere uditi, subito: grande è la cosa, e d’inter-  rompere vale la pena. Iulo per primo li accolse ansiosi,  e a Niso ordinò di parlare. Così allora l’Irtàcide: « Udite  con menti benigne, o Enèadi; e quel che portiamo non  lo giudicate dagli anni. I Rùtuli, immersi nel sonno e  nel vino, tacciono tutti; noi, un luogo abbiam scorto,  propizio alle insidie, che si scopre là al bivio della porta  ch’è prossima al mare. Son mezzo spenti i fuochi, e cu-  po il fumo si erge alle stelle; se ci lasciate tentare la  sorte a ricercare Enea e le mura del Pallanteo, presto  qui con le spoglie nemiche ed onusti di strage ci rive-  drete tornare. E non smarriremo la via: sotto le oscu-  re valli, nelle continue cacce, vedemmo lassù la città e  tutto il fiume esplorammo ». Allora, grave d’anni, e  maturo di senno rispose Alete: «O Dei della patria,  sotto il cui nume è ancor Troia, certo voi non pensate  di distruggere i Teucri del tutto, poi che c'inviaste tali  anime e petti sì fermi di giovani! ». Questo dicendo,  stringeva d’entrambi le spalle e le mani, rigando le  guance di pianto: « Oh, quale premio, o prodi, che de-  gno premio per questa impresa vi potremo noi dare?  obtestor: quaecumque mihi fortuna fidesque est,  in vestris pono gremiis; revocate parentem,  reddite conspectum; nihil illo triste recepto.  Bina dabo argento perfecta atque aspera signis  pocula, devicta genitor quae cepit Arisba,   et tripodas geminos, auri duo magna talenta,  cratera antiquum, quem dat Sidonia Dido.   Si vero capere Italiam sceptrisque potiri  contigerit victori et praedae ducere sortem,  vidisti quo Turnus equo, quibus ibat in armis  aureus: ipsum illum, clipeum cristasque rubentes  excipiam sorti, iam nunc tua praemia, Nise.  Praeterea bis sex genitor lectissima matrum  corpora captivosque dabit, suaque omnibus arma:  insuper his, campi quod rex habet ipse Latinus,  Te vero, mea quem spatiis propioribus aetas  insequitur, venerande puer, iam pectore toto  accipio, et comitem casus complector in omnes.  Nulla meis sine te quaeretur gloria rebus:   seu pacem seu bella geram, tibi maxima rerum  verborumque fides. » Contra quem talia fatur  Euryalus: « Me nulla dies tam fortibus ausis  dissimilem arguerit; tantum fortuna secunda  haud adversa cadat. Sed te super omnia dona  unum oro: genetrix Priami de gente vetusta   est mihi, quam miseram tenuit non Ilia tellus  mecum excedentem, non moenia regis Acestae: hanc ego nunc ignaram huius, quodcumque pericli est,    inque salutatam linquo; nox et tua testis   dextera, quod nequeam lacrimas perferre parentis;  at tu, oro, solare inopem et succurre relictae.  Hanc sine me spem ferre tui: audentior ibo   in casus omnes. » Percussa mente dedere    290    Il primo ve lo daranno, e il più bello, gli Dèi e le vo-  stre virtù; gli altri ben presto li avrete dal pio Enea  e da Ascanio, il giovinetto in fiore, che di un così gran-  de servigio non sarà immemore mai ». « Anzi io, sog-  giunse Ascanio, che altra salvezza non ho se non il ri-  torno del padre, questo vi giuro, o Niso, per i grandi  Penati, per il lare di Assàraco e per l’altare della anti-  chissima Vesta: ogni mia sorte ed ogni mia speranza,  in vostre mani io pongo; riconducetemi il padre, fate  che io lo riveda: se lo ricupero, nulla sarà più triste  per me. Due coppe vi darò, cesellate in argento e scol-  pite a bassorilievi, che il padre ebbe alla presa di Ari-  sba; e due tripodi, e due grandi talenti di oro, ed un  cratere antico, dono della sidònia Didone. Se poi vin-  citore potrò prender l’Italia e tenere lo scettro e sorteg-  giare le prede, certo tu hai veduto quel destriero su cui  Turno veniva, e le ammi che lo vestivano d’oro: ebbene,  quel suo cavallo, e lo scudo e il cimiero vermiglio, li  sottrarrò dal sorteggio; fin d’ora è un tuo premio, o  Niso. Inoltre, mio padre darà due volte sei corpi di  donne, fra le più belle, ed altrettanti prigioni, con le  sue armi ciascuno: e oltre a ciò, proprio i campi che  or sono del rege Latino. Te poi, che sei vicino a me per  età, o venerando fanciullo, con tutto il cuore ti accolgo,  fin d’ora, e ti abbraccio, compagno per ogni fortuna.  Non cercherò per me gloria nessuna senza di te; ed in  pace ed in guerra, nei fatti e nelle parole, in te fiderò  sopra ognuno ». A lui di rincontro Eurìalo rispose così:  « Non verrà mai un giorno che mi palesi diverso da que-  sto mio forte sentire: mi basta che la fortuna di secon-  da non muti in avversa. Ma sopra ogni altro dono, solo  una cosa t’imploro: ho una madre, della stirpe di  Priamo vetusta, che, misera, quando partii, non si fer-    Dardanidae lacrimas, ante omnes pulcher Iulus,   atque animum patriae strinxit pictetie imago.   Tum sic effatur: 295  « Sponde digna tuis ingentibus omnia coeptis; |  namque erit ista mihi genetrix nomenque Creusae  solum defuerit, nec partum gratia talem   parva manet. Casus factum quicumque sequentur,   per caput hoc iuro, per quod pater ante solebat: 300  quae tibi polliceor reduci rebusque secundis,   haec eadem matrique tuae generique manebunt. »   Sic ait illacrimans: umero simul exuit ensem   auratum, mira quem fecerat arte Lycaon |  Gnosius atque habilem vagina aptarat eburna. 305  Dat Niso Mnestheus pellem horrentisque leonis  exuvias: galeam fidus permutat Aletes.   Protinus armati incedunt; quos omnis euntes  primorum manus ad portas iuvenumque senumque  prosequitur votis. Necnon et pulcher Iulus 310  ante annos animumque gerens curamque virilem,  multa patri mandata dabat portanda. Sed aurae   omnia discerpunt et nubibus irrita domant.   Egressi superant fossas, noctisque per umbram  castra inimica petunt, multis tamen ante futuri 315  exitio. Passim somno vinoque per herbam  corpora fusa vident, arrectos litore currus,  inter lora rotasque viros, simul arma iacere,  vina simul. Prior Hyrtacides sic ore locutus:   « Euryale, audendum dextra: nunc ipsa vocat res. 320  Hac iter est. Tu, ne qua manus se attollere nobis   a tergo possit, custodi et consule longe.   Haec ego vasta dabo et lato te limite ducam. »   Sic memorat vocemque premit; simul ense superbum  Rhamnetem adgreditur, qui forte tapetibus altis mò nella terra di Ilio nè fra le mura di Aceste. Or io  qui l’abbandono ignara di questo mio rischio, qual che  si sia, e insalutata: la notte e la tua destra mi sian te-  stimoni che io non potrei sostenere le lacrime della mia  madre. Ma tu, te ne prego, consola la misera, soccorrila,  se resta sola. Lascia ch'io porti meco questa speranza di  te; poi, anderò più audace incontro ad ogni ventura ».  Commossi nel cuore i Dardànidi lagrimarono, il bel  Iulo anzi tutti, chè il cuore gli strinse il ricordo dell’a-  more paterno. È così disse: « Attenditi pur tutto quan-  to si deve alla tua grande impresa; chè essa sarà la mia  madre, e soltanto il nome le mancherà di Creusa: pic-  colo dono, a colei che generò un tal figlio. Qualunque  si sia l’evento, per questo mio capo ti giuro sul quale  soleva giurare mio padre: quello che io ti promisi se  tornerai vittorioso, alla tua madre sarà serbato ed alla  tua stirpe ». Così diceva piangendo, e dalla spalla si  tolse la spada d’oro che aveva foggiata con arte stu-  penda Licàone di Cnosso, scorrevole entro la guaina di  avorio. Mnèsteo a Niso donava di un irsuto leone la  pelle e la apoglia, e il fido Alete scambia il suo elmo  con lui. Tosto s’avviano armati; e tutta ia schiera dei  grandi, giovani e vecchi, alle porte li accompagnan coi  voti. E intanto il bello Iulo, che ha cuore e senno virile,  oltre l’età, affidava molti messaggi al suo padre. Ma  l’aura tutti li sperde inutili in mezzo alle nuvole.  Usciti, varcano i fossi, e per le ombre notturne ven-  gbno al campo fatale; ma prima, a molti daranno la  morte. (Qua e là sparsi tra il sonno ed il vino scorgono  i corpi sull’erba, e i cocchi alzati sul lido, e, tra le bri-  glie e le ruote, giacere i guerrieri, e con loro le armi,  ed i vini con loro. Primo il figlio di Irtaco così disse:  « Eurìalo, qui bisogna osar con la destra: l’oecasione lo exstructus toto proflabat pectore somnum,   rex idem et regi Turno gratissimus augur;   sed non augurio potuit depellere pestem.   Tres iuxta famulos temere inter tela iacentes  armigerumque Remi premit aurigamque sub ipsis nactus equis, ferroque secat pendentia colla.   Tum caput ipsi aufert domino, truncumque relinquit  sanguine singultantem; atro tepefacta cruore   terra torique madent. Necnon Lamyrumque Lamumque,  et iuvenem Sarranum, illa qui pluritha nocte 335  luserat, insignis facie, multoque iacebat   membra Deo victus: felix, si protinus illum   aequasset nocti ludum in lucemque tulisset.   Impastus ceu plena leo per ovilia turbans, suadet enim vesana fames, manditque trahitque 340  molle pecus mutumque metu, fremit ore cruento.   Nec minor Euryali caedes; incensus et ipse   perfurit, ac multam in medio sine nomine plebem,  Fadumque Herbesumque subit Rhoetumque Abarimque  ignaros, Rhoetum vigilantem et cuncta videntem, sed magnum metuens se post cratera tegebat;   pectore in adverso totum cui comminus ensem  condidit adsurgenti et multa morte recepit.   Purpuream vomit ille animam et cum sanguine mixta  vina refert moriens: hic furto fervidus instat. 350  lamque ad Messapi socios tendebat: ibi ignem   deficere extremum et religatos rite videbat   carpere gramen equos: breviter cum talia Nisus  (sensit enim nimia caede atque cupidine ferri. Absistamus, ait, nam lux inimica propinquat. Poenarum exhaustum satis est, via facta per hostes. »  Multa virum solido argento perfecta relinquunt  armaque craterasque simul pulchrosque tapetas. vuole. Di qua è la via. Ora tu, perchè un qualche drap-  pello non ci si levi alle spalle, fa guardia e sta attento  all’intorno. Io qui farò largo, e ti guiderò per un ampio  cammino >». Così dice, poi smorza la voce; ed il superbo  Ramnete con la sua spada colpisce; ed egli, sui tappeti  ammucchiati giacendo, dormiva lì a pieno petto, rus-  sando. Re egli pure, ed al re Turno il più grato degli  àuguri; ma non potè con la scienza profetica allontana-  re la morte. Lì presso, uccide tre servi che a caso gia-  cevan fra l’armi, e lo scudiero di Remo, ed il suo auri-  ga sorpreso sott’essi i cavalli, e col ferro taglia le gole  rovescie. Poscia anche al signore tronca il capo, ed il  busto lascia singhiozzante nel sangue; intiepiditi la  terra ed i letti di negro sangue s’imbevono. E poi Là-  miro, e Lamo, e il giovin Sarrano, che fino a tardi la  notte aveva giocato, bello di volto, e giaceva vinte le  membra dal vino: felice, se avesse giocato tutta la notte  ed infino all’aurora! Così un leone digiuno imperver-  sando tra gli ovili ricolmi — la fame rabbiosa lo istiga  — sbrana e trascina la greggia molle e per il terrore  ammutita, e rugge con bocca sanguigna. Nè minore è la  strage d’EURÌALO; ardendo anch'egli infuria, e alla rinfusa sorprende molta ignobile plebe, e Fado, ed Erbeso,  e Reto, ed Abari, inconsapevoli; Reto, era desto e tutto  vedeva, ma per paura si stava nascosto dietro un grande  cratere: ma mentre si alzava, gli immerse fino all’elsa  nel petto la spada, e la ritrasse grondante di sangue. Ed egli in un fiotto di porpora esala la vita, ed il vino,  morendo, rigetta col sangue. L’altro, più ardente, con-  tinua la strage furtiva. E già si volgeva ai compagni di  Messapo; ivi vedeva languire gli ultimi fuochi, e i ca-  valli al guinzaglio, com’è uso, pascere l’erba, allorchè NISO, che trascinato lo vide da brama soverchia di stra-   EURYALVS phaleras Rhamnetis et aurea bullis   cingula (Tiburti Remulo ditissimus olim quae mittit dona hospitio, cum iungeret absens,   Caedicus; ille suo moriens dat habere nepoti,   post mortem bello Rutuli pugnaque potiti),   haec rapit, atque umeris nequidquam fortibus aptat. Tum galeam Messapi habilem cristisque decorum induit. Excedunt castris, et tuta capessunt.  Interea praemissi equites ex urbe Latina, cetera dum legio campis instructa moratur,   ibant et Turno regi responsa ferebant, tercentum, scutati omnes, Volscente magistro. 370   lamque propinquabant castris murosque subibant,   cum procul hos laevo flectentes limite cernunt,   et galea Euryalum sublustri noctis in umbra   prodidit immemorem, radiisque adversa refulsit.   Haud temere est visum. Conclamat ab agmine Vol. [scens: 375   « State, viri: quae causa viae? quive estis in armis?   quove tenetis iter? » Nihil illi tendere contra;   sed celerare fugam in silvas et fidere nocti.   Obiciunt equites sese ad divortia nota   hinc atque hinc,omnemque aditum custode coronant. Silva fuit, late dumis atque ilice nigra   horrida, quam densi complerant undique sentes,   rara per occultos lucebat semita calles.   Euryalum tenebrae ramorum onerosaque praeda   impediunt, fallitque timor regione viarum. NISVS abit: iamque imprudens evaserat hostes   atque locos, qui post Albae de nomine dicti   Albani (tum rex stabula alta Latinus habebat).   Ut stetit et frustra absentem respexit amicum:   « Euryale infelix, qua te regione reliqui? ge, così brevemente. parlò: « Fermiamoci, chè oramai la  luce nemica si appressa. Li abbiamo puniti abbastanza,  e aperta in mezzo ai nemici è la via ». Lasciano lì molte  armi di guerrieri lavorate di argento massiccio, ed i  crateri insieme ed i belli tappeti. Eurìalo si toglie i fregi  di Ramnete ed il balteo dall’auree borchie, e, invano!,  sugli omeri forti lo adatta. A Rèmolo, il tiburtino, li  aveva mandati una volta il ricchissimo Cèdico, in segno  di ospitalità ch’egli stringeva da lungi; e quegli moren-  do li diede al nipote, e, questo morto, i Rùtuli se ne im-  padronirono in guerra. Poi l’elmo di Messapo si cinge,  agevole, e adorno di creste. Escon dal campo e s’avvia-  no in salvo.   Frattanto i cavalieri mandati innanzi dalla città di  Latino, mentre i pedoni attendono armati nella campa-  gna, venivano per riportare al re Turno un responso:  trecento, tutti scudati, ed era lor duce Volscente. E già  erano. presso al campo e varcavan le mura, quando da  lungi li scorgono che piegavano verso sinistra; e l’elmo,  nella penombra notturna tradì EURÌALO immemore, a un  raggio di luna splendendo. È non fu vana la vista. Grida  dalla sua schiera Volscente: « Fermi, voi! perchè siete  in via? chi siete così armati? e dove andate? ». Ma quelli  non rispondono, anzi si affrettano in fuga pei boschi e  fidano nell’oscurità. 1 cavalieri si gettano di qua, di là ai  bivi ben noti, e tutte circondan di gnardie le uscite. Era  una selva spaziosa e orrida di nere querce e di pruni,  densa da ogni parte di sterpi; e tra le peste occulte,  raro si apriva un sentiero. L'ombre dei rami e il carico  del bottino ritardavano Euriìalo, e il timore gli fa smar-  rire la via. Niso è fuggito; e di già, senza pensare all’a-  mico, altrepassati aveva i nemici ed i luoghi che poi  dal nome di Alba furon chiamati Albani (allora, v’era-    Quaque sequar, rursus perplexum iter omne revolvens  fallacis silvae? » Simul et vestigia retro   observata legit dumisque silentibus errat. Audit equos, audit strepitus et signa sequentum.   Nec longum i in medio tempus, cum clamor ad aures pervenit ac videt EURYALVM, quem iam manus omnis  fraude loci et noctis, subito turbante tumultu, Oppressum rapit et conantem plurima frustra. Quid faciat? qua vi iuvenem, quibus audeat armis  eripere? an sese medios moriturus in hostes inferat, et pulchram properet per vulnera mortem?  Ocius adducto torquens hastile lacerto,   suspiciens altam Lunam, et sic voce precatur: Tu, Dea, tu praesens nostro succurre labori,  astrorum decus et nemorum Latonia custos: si qua tuis umquam pro me pater Hyrtacus aris   dona tulit, si qua ipse meis venatibus auxi,   supendive tholo aut sacra ad fastigia fixi:   hunc sine me turbare globum et rege tela per auras. Dixerat, et toto conixus corpore ferrum conicit. Hasta volans noctis diverberat umbras,   et venit adversi in tergum Sulmonis, ibique   frangitur, ac fisso transit praecordia ligno.   Volvitur ille vomens calidum de pectore flumen  frigidus et longis singultibus ilia pulsat. 415  Diversi circumspiciunt. Hoc acrior idem   ecce aliud summa telum librabat ab aure. Dum trepidant, it hasta Tago per tempus utrumque  stridens, traiectoque haesit tepefacta cerebro.   Saevit atrox Volscens nec teli conspicit usquam 420  auctorem nec quo se ardens immittere possit. Tu tamen interea calido mihi sanguine poenas  persolves amborum » inquit: simul ense recluso       i  no i pascoli incolti del re Latino). Come ristette, ed in-  vano si volse a cercare l’amico: « O infelice EURIALO, e  dove mai t'ho lasciato? dove ti cercherò, ancor rifacendo  il cammino tortuoso per la selva fallace? ». E tosto nota  e ricalca all’indietro le tracce, ed erra silenzioso tra i  pruni. Ode i cavalli, ode lo strepito e i segnali degl’inse-  guitori. E ben presto agli orecchi un grido gli giunge;  ed Eurìalo vede, cui già tutta quanta la schiera, ingan-  nato dal luogo e dal buio, turbato dall’improvviso tu-  multo, circonda ed incalza; ed invano ei tenta in mille  modi la fuga. Che fare? con quali forze, con quali armi  tentar di salvare il fanciullo? O non è meglio lanciarsi  in mezzo ai nemici a morire, e bella cercare con le fe-  rite la morte? E subito, vibrando col braccio all’indie-  tro un lanciotto, guarda la Luna nell’alto e così le ri-  volge una prece: « Tu, dea, tu, propizia, nel nostro peri-  glio soccorrici, o Latònia, onore degli astri e delle selve  custode, se mai ai tuoi altari doni per me ti recò Irtaco,  il padre, se mai con le mie cacce anch’io ne aggiunsi, e li  sospesi alla volta o li infissi ai sacri pinnacoli '*, lascia  che io disordini questa schiera, e guidami i dardi per  l’aria ». Disse, e con tutto il suo corpo puntando, lan-  ciò il ferro. E l’asta volando sferza le ombre notturne,  e trapassa nel petto fino alle spalle Sulmone, ed ivi si  spezza, e attraversa, infittavi dentro, i precordi. Cade di  sella colui, vomitando un caldo fiume dal petto, gia  freddo, ed i fianchi gli scuotono lunghi singhiozzi. Guar-  dano gli altri qua e la; e Niso ne prende coraggio, e  dall’altezza del capo, ecco, un altro dardo librava. E,  nella trepida attesa, l’asta attraversa stridendo a Tago  le tempia, e s’infigge tiepida in mezzo al cervello. Atro-  cemente infuria Volscente, chè non vede l'autore del  eolpo per potersi lanciare ardente contro di lui. « Eb-    de    ibat in EURYALVM. Tum vero exterritus, amens  conclamat Nisus, nec se celare tenebris . amplius, aut tantum potuit perferre dolorem:  « Me me, adsum qui feci, in me convertite ferrum, o Rutuli! mea fraus omnis: nihil iste nec ausus,  nec potuit: caelum hoc et conscia sidera testor.  Tantum infelicem nimium dilexit amicum. Talia dicta dabat: sed viribus ensis adactus  transabiit costas et candida pectora rumpit.  Volvitur Euryalus leto, pulchrosque per artus  it cruor, inque umeros cervix collapsa recumbit:  purpureus veluti cum flos succisus aratro 435  languescit moriens, lassove papavera collo  demisere caput, pluvia cum forte gravantur.  At NISVS ruit in medios solumque per omnes  Volscentem petit, in solo Volscente moratur.  Quem circum glomerati hostes hinc comminus spe  {hbinc 440   proturbant. Instat non secius ac rotat ensem  fulmineum, donec Rutuli clamantis in ore  condidit adverso et moriens animam abstulit hosti.  Tum super exanimum sese proiecit amicum  confossus placidaque ibi demum morte quievit. 445  Fortunati ambo! si quid mea carmina possunt,  nulla dies umquam memori vos eximet aevo,  dum domus Aeneae Capitolii immobile saxum  accolet imperiumque pater Romanus habebit.   Victores praeda Rutuli spoliisque potiti | 450  Volscentem exanimum flentes in castra ferebant. Nec minor in castris luctus, Rhamnete reperto  exsangui, et primis una tot caede peremptis  Sarranoque Numaque. Ingens concursus ad ipsa  corpora seminecesque viros tepidaque recentem bene, tu pagherai intanto col caldo tuo sangue per am-  bedue » gridò; e, sguainata la spada, senz’altro si av-  venta ad Eurìalo. Ma allora, atterrito, fuor di sè, con  un grido, non potè più celarsi nelle tenebre Niso, e  sopportare un sì grande dolore: « Me, me! Son qui, so-  no io il colpevole; in me rivolgete le armi, o Rùtuli! È  mia ogni frode; costui non osò, non poteva; pel cielo,  lo giuro, e per le consapevoli stelle. Sola sua colpa, che  troppo amò l’infelice suo amico ». Così diceva; ma il  ferro, vibrato con forza, attraversò le coste e ruppe il  candido petto. S'abbattè Eurìalo morendo, e per le mem-  bra leggiadre il sangue si spande, ed il collo si piega ab-  bandonato sopra le spalle: come quando un fiore pur-  pureo che l’aratro ha reciso, languisce morendo: o co-  me quando i papaveri sul collo stanco la testa piegano,  se per caso li grava la pioggia.   Ma Niso si slancia nel mezzo, e solo, fra tutti, Volscente cerca, e sol di Volscente si cura. Gli si affollano  intorno i nemici, e d’ogni parte, da presso, lo ricaccia-  no; e nondimeno egli incalza ruotando la spada fulmi-  nea, finchè la piantò nella bocca del Rùtulo, che schia-  mazzava, e, già morente, rapì al nemico la vita. Poi. si  gettò, crivellato di colpi sopra l’esanime amico, ed ivi,  infine, trovò in placida morte riposo. Fortunati ambe-  due! Se qualche valore ha il mio canto, giorno nessuno  mai vi torrà alla memoria dei tempi, finchè la stirpe di  Enea terrà del Campidoglio l’incrollabile rupe, e il padre della patria romana avrà qui l'impero !. Vincitori i Rùtuli, con la preda e con le spoglie, pian-  gendo portavano esanime nell’accampamento Volscen-  te. E non minore fu il lutto nel campo, allorchè si sco-  perse esangue Ramnete, ed insieme con lui tanti duci  uccisi alla strage, e Sarrano, e Numa; la folla si accalca caede locum et plenos spumanti sanguine rivos.  Agnoscunt spolia inter se galeamque nitentem  Messapi, et multo phaleras sudore receptas.   Et iam prima novo spargebat lumine terras  Tithoni croceum linquens ‘Aurora cubile;  iam sole infuso, iam rebus luce retectis,   Turnus in arma viros, armis circumdatus ipse,  suscitat, aeratasque acies in proelia cogit  quisque suas, variisque acuunt rumoribus iras.  Quin ipsa arrectis (visu miserabile) in hastis  praefigunt capita et multo clamore sequuntur  Euryali et Nisi.   Aeneadae duri murorum in parte sinistra  apposuere aciem, nam dextera cingitur amni,  ingentesque tenent fossas et turribus altis  stant maesti; simul ora virum praefixa movebant,  nota nimis miseris atroque fluentia tabo.   Interea pavidam volitans pinnata per urbem  nuntia Fama ruit, matrisque adlabitur aures EURYALI. At subitus miserae calor ossa reliquit:  excussi manibus radii revolutaque pensa.   Evolat infelix, et femineo ululatu,  scissa comam, muros amens atque agmina cursu  prima petit, non illa virum, non illa pericli telorumque memor; caelum dehinc questibus implet: 480  « Hunc ego te, EURYALE, adspicio? tunc illa senectae    sera meae requies, potuisti linquere solam,  crudelis? nec te, sub tanta pericula missum,  adfari extremum miserae data copia matri?  Heu, terra ignota canibus data praeda Latinis  alitibusque iaces, nec te, tua funera mater  produxi pressive oculos aut vulnere lavi,  veste tegens, tibi quam noctes festina diesque ai loro corpi, e ai guerrieri moribondi, ed al luogo ancor  caldo di strage recente, ed al sangue schiumante che  scorre in ruscelli. Riconoscon fra loro le epoglie, e di  Messapo il lucido elmo, e i fregi con grande sudore  riavuti. !   E già di nuova luce spargeva la terra la prima Aurora  lasciando il giaciglio croceo di Titone; già sorto il sole,  già scoperte le cose alla luce, Turno, già chiuso nell’armi, chiama alle armi i guerrieri; ed ordina ognuno in  battaglia le sue schiere coperte dî bronzo, e raccontan-  do il fatto ne acuisce gli sdegni. Anzi, o miserabile vieta!, piantan sull’aste i capi, e li seguono forte gridando, di EURIALO e di NISO. Gli Enèadi saldi sulla parte  einistra dei muri ordinan la resistenza — chè la destra  è recinta dal fiume —, e difendono gli ampi fossati e  stan mesti in cima alle torri; e li sgomentano i volti con-  fitti dei due guerrieri, ahi troppo noti a loro infelici, e  gocciolanti di marcia e di sangue.   Intanto messaggera la Fama volando alata per la  città spaventata va scorrendo, e agli orecchi giunge del-  la madre di Eurìalo. Subitamente il calore lasciò del-  l’infelice le ossa: le cade di mano la spola e rotolan giù  i gomitoli. Esce correndo la misera, e, come donna, ur-  lando, stracciate le chiome, folle, raggiunge di corsa le  mura e le prime avanguardie; e non si cura, essa, dei  guerrieri e del rischio dell’armi, e il cielo riempie con  i suoi lamenti: « Così ti rivedo, o Eurialo? Ultimo ri- .  poso alla mia vecchiezza, o crudele, lasciarmi sola hai  potuto? E non fu dato a tua madre infelice parlarti  l’ultima volta, quando movesti ad un rischio sì grande?  Ahi, in terra ignorata, preda ai cani latini ed agli uc-  celli tu giaci; ed io, tua madre, non ho seguito i tuoi  resti mortali, e non ti ho chiusi gli occhi e lavate le tue    4 - VircILI9 - Eneide - Vol. III    urgebam et tela curas solabar aniles.   Quo sequar? aut quae nunc artus avulsaque membra et funus lacerum tellus habet? hoc mihi de te,   nate, refers? hoc sum terraque marique secuta?   Figite me, si qua est pietas, in me omnia tela  conicite, o Rutuli: me primam absumite ferro:   aut tu, magne pater Divum, miserere, tuoque 495  invisum hoc detrude caput sub Tartara telo,   quando aliter nequeo crudelem abrumpere vita. »   Hoc fletu concussi ariimi, maestusque per omnes   it gemitus; torpent infractae ad proelia vires.   Illam incendentem luctus Idaeus et Actor 500  Jlionei monitu et multum lacrimantis Iuli   corripiunt interque manus sub tecta reponunt.   At tuba terribilem sonitum procul aere canoro  increpuit; sequitur clamor, caelumque remugit.  Accelerant acta pariter testudine Volsci et fossas implere parant ac vellere vallum.   Quaerunt pars aditum et scalis ascendere muros,   qua rara est acies interlucetque corona   non tam spissa viris. Telorum effundere contra   omne genus Teucri ac duris detrudere contis, 510  adsueti longo muros defendere bello.   Saxa quoque infesto volvebant pondere, si qua   possent tectam aciem perrumpere: cum tamen omnes  ferre iuvat subter densa testudine casus. Nec iam sufficiunt; nam, qua globus imminet ingens, 515  immanem Teucri molem volvuntque ruuntque,   quae stravit Rutulos late armorumque resolvit  tegmina. Nec curant caeco contendere Marte   amplius audaces Rutuli, sed pellere vallo   missilibus certant. 520  Parte alia horrendus visu quassabat Etruscam ferite, avvolgendoti poi nella veste che, giorno e notte,  per te, sollecita io tesseva, consolando al telaio i miei  affanni senili. Dove cercarti? Qual terra ha ora le tue  membra troncate e la tua lacera salma? Questo, o mio  figlio, mi riporti di te? Questo, questo, per terra e per  mare, ho seguito? Me trafiggete, se in voi è alcuna  pietà; su me tutte l’armi scagliate, o Rùtuli; me prima  uccidete col ferro! E se no, abbimi misericordia tu, o  gran padre dei numi, e col tuo dardo scagliami questo  mio capo odioso giù nel profondo del Tàrtaro, se in al-  tro modo non posso troncar questa vita crudele ». Si  consumarono i cuori a quel pianto, e mesto fra tutti un  singhiozzare si spande; si fiaccano infrante le forze dei  guerrieri; ma Attore e Idèo, per ordine di Ilionèo e di  lulo molto piangente, la presero, chè suscitava troppo  dolore, ed a braccia la riportarono in casa.   Ma da lontano la tromba per il suo bronzo canoro  squillò con terribile suono; e la segue il grido di guerra  e ne rimbombano L cieli. Vengono i Volsci all'assalto,  sotto la testuggin ‘!* serrati, e s'accingono a colmare le  fosse e a svellere il vallo '”. Altri cercano un varco per  la scalata alle mura, là dove rada è la schiera, e vi tra-  luce meno spessa di eroi la corona. Dall’altra' parte i  Teucri rovesciano ogni sorta di dardi, e li ricacciano  giù con le lor dure picche; chè erano avvezzi a difen-  dere in lunga guerra le mura. E rotolavano in basso ad  offesa pesanti macigni, per tentar di spezzare la schie-  ra coperta: ma questa, sotto la densa testuggine, sop-  porta ogni colpo. Ma ormai non possono più; chè lad-  dove più folta e perigliosa è la schiera, un masso im-  menso i Troiani rotolano e piombano giù, che per un  ampio tratto schiacciò i Rùtuli e ruppe il riparo di  scudi. Allora non pensano più, i Rùtuli audaci, a farpinum et fumiferos infert Mezentius ignes.  At Messapus equum domitor Neptunia proles,  rescindit vallum et scalas in moenia poscit.   Vos, o Calliope, precor, adspirate canenti, 525  quas ibi tunc ferro strages, quae funera Turnus  ediderit, quem quisque virum demiserit Orco,  et mecum ingentes oras evolvite belli;  let meministis enim, Divae, et memorare potestis).   Turris erat vasto suspectu et pontibus altis, 530  opportuna loco, summis quam viribus omnes  expugnare Itali summaque evertere opum vi  certabant, Troes contra defendere saxis  perque cavas densi tela intorquere fenestras.   Princeps ardentem coniecit lampada Turnus 535  et flammam adfixit lateri, quae plurima vento   | corripuit tabulas et postibus haesit adesis.   Turbati trepidare intus frustraque malorum   velle fugam. Dum se glomerant, retroque residunt   in partem, quae peste caret, tum pondere turris procubuit subito, et caelum tonat omne fragore.   Semineces ad terram, immani mole eecuta,   confixique suis telis et pectora duro   transfossi ligno veniunt. Vix unus Helenor   et Lycus elapsi, quorum primaevus Helenor, Maeonio regi quem serva Licymnia furtim   sustulerat vetitisque ad Troiam miserat armis,   ense levis nudo parmaque inglorius alba.   Isque, ubi se Turni media inter milia vidit,   hinc acies atque hinc acies adstare Latinas; ut fera, quae, densa venantum saepta corona,   contra tela furit seseque haud nescia morti   inicit et saltu supra venabula fertur:   haud aliter iuvenis medios moriturus in hoetes  guerra così al coperto, ma lanciano dardi al nemico per  discacciarlo dal vallo. In altra parte, orrendo a vedersi,  squassava la fiaccola etrusca '* Mesenzio, e fuochi fu-  manti lanciava. E intanto Messapo, il domator di cavalli,  prole nettunia, rompeva il vallo e chiedeva le scale a  salir sulle mura.   Voi '’, o Calliope, ti prego, ispirate il mio canto: quali  stragi ivi col ferro, e che lutti Turno spargesse, e chi  ogni guerriero laggiù nell’Orco respinse; e meco il gran  quadro della guerra svolgete. Chè tutto voi ricordate,  o Dee, e agli altri ricordarlo potete. °°   V’era una torre, altissima a guardarla dal basso, con  erti ponti, opportunamente disposta; e tutti con ogni  forza lottavano gli Itali per espugnarla, e con estrema  | violenza tentavan di abbatterla: ma di rincontro i Tro-  iani fitti la difendevan coi sassi e scagliavano dardi pei  vani delle finestre. Primo Turno lanciò una fiaccola ar-  dente, e nel fianco vi confisse una fiamma, che, nutrita  dal vento, invase le tavole, e alle imposte corrose si  apprese. Spaventati, quelli di dentro, si scompigliano,  e invano cercan fuggendo lo scampo. E mentre si affol-  lano, e s’arretrano in una parte ancora illesa dal fuo-  co, allora a quel peso la torre improvvisamente si schian-  ta, e tutto a quel fragore il cielo rintuona. A terra semi-  vivi, sotto l'enorme mole, cadono, dalle lor armi trafitti  o trapassato il petto dal duro legno. Due soli appena,  Elènore e Lico, scamparono; dei quali il giù giovine,  Elènore, Licinnia, una schiava, avea generato ad un re  Meonio con amore furtivo: e, con armi vietate ?!, a Troia  l’aveva mandato, alla leggera, con sola la spada, oscuro,  e con un semplice scudo. Ma egli, come si vide in mezzo  ai mille di Turno, e d’ogni parte incalzarlo schiere e  schiere latine: come una belva che cinta da un denso irruit et, qua tela videt densissima tendit. 559  At pedibus longe melior Lycus inter et hostes   inter et arma fuga muros tenet altaque certat   prendere tecta manu sociumque attingere dextras.  Quem Turnus, pariter cursu teloqye secutus,   increpat his victor: « Nostrasne evadere, demens, 560  sperasti te posse manus? » simul arripit ipsum  pendentem, et magna muri cum parte revellit:   qualis ubi aut leporem ‘aut candenti corpore cycnum  sustulit alta petens pedibus Iovis armiger uncis,  quaesitum aut matri multis balatibus agnum 965  Martius a stabulis rapuit lupus. Undique clamor  tollitur; invadunt et fossas aggere complent;   ardentes taedas alii ad fastigia iactant.   Ilioneus saxo atque ingenti fragmine montis  Lucetium portae subeuntem ignesque ferentem, : 570  Emathiona Liger, Corynaeum sternit Asylas,   hic iaculo bonus, hic longe fallente sagitta;   Ortygium Caeneus, victorem Caenea Turnus,   Turnus Ityn Cloniumque, Dioxippum Promolumque   et Sagarim et summis stantem pro turribus Idam: Privernum Capys. Hunc primo levis hasta Themillae  strinxerat; ille manum proiecto tegmine demens   ad vulnus tulit; ergo alis adlapsa sagitta   et laevo infixa est lateri manus abditaque intus  spiramenta animae letali vulnere rupit. Stabat in egregiis Arcentis filius armis,   pictus acu chlamydem et ferrugine clarus Ibera,  insignis facie, genitor quem miserat Arcens  eductum Matris luco Symaethia circum   flumina, pinguis ubi et placabilis ara Palici. Stridentem fundam, positis Mezentius hastis   ipse ter adducta circum caput agit habena, cerchio di cacciatori, infuria contro le armi, e conscia  si slancia a morire, e con un balzo sopra gli spiedi si  lancia, non altrimenti il giovane morituro si getta nel  mezzo ai nemici, e, dove vede più folte le armi, là ten-  de. Ma, più veloce alla corsa, Lico, fra i nemici e fra  l’armi fuggendo è già presso alle mura, e cerca di af-  ferrarsi là al sommo, e di aggrapparsi alle mani dei com-  pagni;. ma Turno, a corsa, e con l’armi, lo segue e lo  giunge, e, vincitore, l’oltraggia: « Folle, sperasti tu dun-  que dalle mie mani scampare? » e sì dicendo lo affer-  ra penzoloni e lo svelle con una gran parte del muro:  come quando una lepre o un cigno dal candido corpo  si porta nell’alto l’armigero di Giove °° con piedi arti-  gliati, o come quando il marzio lupo rapisce dalla stal-  la un agnello, e lo cerca con lunghi belati la madre. Si  alzan da ogni parte le grida; vanno all’assalto, e col.  man di terra i fossati; altri fiaccole ardenti lanciano  verso le cime. Ilioneo con un sasso, un enorme pezzo di  monte, abbatte Lucezio, che già era sotto alla porta per  appicarvi il fuoco; Lìgero atterra Emazione: Asila,  Corineo; l’uno valente nell’asta, l’altro nel dardo che  coglie da lungi. Cèneo uccide Ortigio; e Turno, il vin-  citore Cèneo; Turno, Iti e Clònio e Diossippo e Pròmolo  e Sàgari e Ida, che guardava le altissime torri. Capi  uccise Priverno. L’aveva sfiorato da prima lievemente  la lancia di Temilla; ed egli, gettato lo scudo, folle por-  tò la mano alla ferita: e allora, volando, una freccia gli  piantò nel fianco sinistro la mano, ed entrando gli rup-  pe con mortale ferita i polmoni. Stava nell’armi egre-  gie il figlio di Arcente, con ricamata la clàmide, spleu-  dente di porpora ibèra #, bello di aspetto, che il padre  Arcente aveva mandato; ed allevato lo aveva di Cibele  nel bosco, presso alle correnti del Simeto, là dove è et media adversi liquefacto tempora plumbo  diffidit ac multa porrectum extendit harena.  Tum primum bello celerem intendisse sagittam  dicitur, ante feras solitus terrere fugaces,  Ascanius, fortemque manu’ fudisse Numanum  cui Remulo cognomen erat, Turnique minorem  germanam nuper thalamo sociatus habebat.  Is primam ante aciem digna atque indigna relatu  vociferans, tumidusque novo praecordia regno  ibat et ingentem sese clamore ferebat:  « Non pudet obsidione iterum valloque teneri,  bis capti Phryges, et morti praetendere muros?  En qui nostra sibi bello conubia poscunt!  Quis Dens Italiam, quae vos dementia adegit?  Non hic Atridae nec fandi fictor Ulixes:  durum ab stirpe genus natos ad flumina primum  deferimus saevoque gelu duramus et undis:  venatu invigilant pueri silvasque fatigant,  flectere ludus equos et spicula tendere cornu.  At patiens operum parvoque adsueta iuventus  aut rastris terram domat aut quatit oppida bello.  Omne aevum ferro teritur, versaque iuvencum  terga fatigamus hasta; nec tarda senectus  debilitat vires animi mutatque vigorem;  canitiem galea premimus, semperque recentes  comportare iuvat praedas et vivere rapto.  Vobis picta croco et fulgenti murice vestes,  desidiae cordi; iuvat indulgere choreis,  . et tunicae manicas et habent redimicula mitrae.  O vere Phrygiae, neque enim Phryges, ite per alta  Dindyma, ubi adsuetis biforem dat tibia cantum.  Tympana vos buxusque vocant Berecyntia matris  Idaeae: sinite arma viris et cedite ferro. »  pingue di doni e mite l’altar di Palìco **. Posate le aste,  tre volte rotando la fune al suo capo, Mesenzio stesso  lanciava la fionda stridente; e con il piombo disciolto *.  gli ruppe nel mezzo le tempie, e lo rovesciò lungo di-  steso sul suolo.   Dicon che allora, la prima volta scagliasse in guerra  il suo agile dardo Ascanio, già assuefatto a spaventare  in fuga le fiere, e di sua mano abbattesse il forte Numano, Rèmolo detto, che aveva da poco sposata la sorella minore di Turno. Quegli, davanti a tutti, vociferando a diritto e a rovescio, gonfio nel cuore della fresca real parentela, andava avanzando borioso gridan-  do: « E non vi vergognate, o Frigi acchiappati due vol.  te, di stare un’altra volta dentro ad un vallo assediati, e  di opporre alla morte le mura? Eccoli, quelli che chie-  dono le nostre spose con l’armi! Qual Dio vi ha spinti  in Italia o quale vostra follia? Non sono qui gli Atridi,  nè Ulisse spacciatore di frottole. Dura razza fin dalla ra-  dice, i nostri figli tuffiamo appena nati nei fiumi, e li  induriamo al crudo gelo dell’onde. Fanciulli, si danno  alle cacce e stamcan le selve, ed è lor gioco domare ca-  valli e tender dall'arco le frecce. Poi, pazienti al lavoro  e paghi di poco, i giovani doman la terra coi rastri, o  scrollano in guerra le mura. Ogni età si consuma tra il  ferro, e con l’asta a rovescio pungiamo le terga dei buoi;  nè la vecchiaia, ancor tarda, indebolisce le forze del-  l’animo o ne muta il vigore; premiamo con l’elmo i ca-  pelli canuti, e sempre ci giova portar via prede novelle  e vivere della rapina. Ma voi amate le vesti dipinte di  croco e di porpora splendida; vi piace badare alle dan-  ze, con tuniche adorne di maniche e mitre guarnite di  nastri. O veramente Frige, e non Frigi, andate per l’alto  del Dìndimo ?‘, dove solete ascoltare il canto del flauto Talia iactantem dictis ac dira canentem  non tulit Ascanius, nervoque obversus equino  intendit telum, diversaque bracchia ducens  constitit, ante lovem supplex per vota precatus:  « Iuppiter omnipotens, audacibus adnue coeptis, = 625.  ipse tibi ad tua templa feram sollemnia dona  et statuam ante aras aurata fronte iuvencum,  candentem, pariterque caput cum matre ferentem,  iam cornu petat et pedibus qui spargat harenam. »  Audiit et caeli genitor de parte serena intonuit laevum, sonat una fatifer arcus.  Effugit horrendum stridens adducta sagitta  perque caput Remuli venit et cava tempora ferro  traicit. « I, verbis virtutem illude superbis!  bis capti Phryges haec Rutulis responsa remittunt. Hoc tantum Ascanius. Teucri clamore sequuntur,  laetitiaque fremunt animosque ad sidera tollunt.  Aetheria tum forte plaga crinitus Apollo  desuper Ausonias acies urbemque videbat,  nube sedens, atque his victorem affatur Iulum: 640  « Macte nova virtute, puer: sic itur ad astra,  Dis genite et geniture Deos. Iure omnia bella  gente sub Assaraci fato ventura resident:  nec te Troia capit. » Simul haec effatus ab alto  aethere se mittit, spirantes dimovet auras, 645  Ascaniumque petit. Forma tum vertitur oris  antiquum in Buten. Hic Dardanio Anchisae  armiger ante fuit fidusque ad limina custos.  Tum comitem Ascanio pater addidit. Ibat Apollo  omnia longaevo similis, vocemque coloremque 650  et crines albos et saeva sonoribus arma;  atque his ardentem dictis adfatur Iulum:  « Sit satis, Aenide, telis impune Numanum a due canne. Vi chiamano i timpani del Berecinto e il  flauto di bosso della gran Madre idèa; lasciate agli uo-  mini l’armi e rinunciate alla guerra ».   Le vanterie e gli insulti non tollerò Ascanio, e men-  tr’egli sbraitava, di fronte a lui incoccò sul nerbo equi-  no °° una freccia, e con le braccia aperte stiè fermo, pri-  ma levando a Giove, supplichevole, il voto: « O Giove  onnipotente, consenti all'audace mia impresa. Ed io  solenni doni ti recherò ai tuoi templi, ed agli altari un  giovenco t'immolerò, dalle corna dorate, candido, che  porti il capo alto al par della madre, e già cozzi e coi  piedi sparga all’intorno l’arena ». L’udì il Padre, e dalla  plaga serena del cielo tuonò da sinistra: ed insieme ri-  suonò il suo arco fatale. OCrribilmente stridendo fuggì la  scagliata saetta, e dentro il capo di Rèmolo s’infisse e  trapassò col ferro le concave tempia. « Va, schernisci il  valore con le parole superbe! I Frigi, due volte acchiap-  pati, questa risposta ai Rùtuli inviano ». Nè altro disse  Ascanio; ma i Teucri lo applaudon gridando, e fremon  di letizia, ed alzano il cuore alle stelle. Proprio allora,  dall’alto del cielo Apollo crinito stava mirando le schie-  re ausonie ed il campo, seduto sopra una nube; e a  Iulo vittorioso volgeva queste parole: « Bene, o valoroso  fanciullo! Così si ascende alle stelle, o progenie di nu-  mi che dovrai generare altri numi. Ben tutte le guerre  future, per volere dei fati, sotto la stirpe di Assàraco  dovranno aver fine °°: troppo poco è Troia per te ». Ciò  detto, dall’alto dell’etere si getta, e fende le aure vitali,  e viene ad Ascanio, mutando l’aspetto del volto in quello  di Bute, l’anziano. Questi già era stato di Anchise dar-  danio scudiero e fido custode alle soglie. Poscia il padre  lo diede compagno ad Ascanio; ed Apollo veniva simile  in tutto a quel vecchio, la voce, il colore, i capelli canoppetisse tuis: primam hanc tibi magnus Apollo   concedit laudem et paribus non invidit armis:cetera parce, puer, bello. » Sic orsus Apollo   mortales medio adspectus sermone reliquit,   et procul in tenuem ex oculis evanuit auram.   Agnovere Deum proceres divinaque tela   Dardanidae, pharetramque fuga sensere sonantem.Ergo avidum pugnae dictis ac numine Phoebi   Ascanium prohibent: ipsi in certamina rursus   succedunt animasque in aperta pericula mittunt.   It clamor totis per propugnacula muris:   intendunt acres arcus amentaque torquent. 665   Sternitur omne solum telis; tum scuta cavaeque   dant sonitum flictu galeae; pugna aspera surgit;   quantus ab occasu veniens pluvialibus Haedis .   verberat imber humum: quam multa grandine nimbi   in vada praecipitant, cum Iuppiter horridus Austris torquet aquosam hiemem et caelo cava nubila rumpit.  Pandarus et Bitias, Idaeo Alcanore creti,   quos Iovis eduxit luco silvestris Iaera   abietibus iuvenes patriis et montibus aequos,   portam, quae ducis imperio commissa, recludunt, freti armis, ultroque invitant moenibus hostem.   Ipsi intus dextra ac laeva pro turribus adstant,   armati ferro et cristis capita alta corusci:   quales aériae liquentia flumina circum,   sive Padi ripis Athesim seu propter amoenum, 680   consurgunt geminae quercus intonsaque caelo |   attollunt capita et sublimi vertice nutant.   Irrumpunt, aditus Rutuli ut videre patentes.   Continuo Quercens et pulcher Aquicolus armis   et praeceps animi Tmarus et Mavortius Haemon agminibus totis aut versi terga dedere,  didi e l’armi ferocemente sonanti: ed all’ardente Iulo  si volge con queste parole: « Ti basti, o figliuolo d’E-  nea, che sia caduto Numano per il tuo colpo e senza tuo  male; questa prima lode a te il grande Apollo concede,  e non t’invidia se tu lo eguagli nell’ arco; ma d’ora in  poi, o fanciullo, astieniti dal guerreggiare ». Così di-  cendo Apollo, a mezzo il discorso lasciò l'aspetto mor-  tale e lontano svanì dagli occhi nell’aria leggera. Rico-  nobbero il Dio gli anziani dei Dàrdani, e l’armi divine,  e sentiron sonare, mentr'egli fuggìa, la faretra. Onde  ai detti e al volere di Febo allontanavano. Ascanio, avi-  do ancora di pugna; ritornano essi a combattere, ed  espongono nell’aperto periglio la vita. S'alza da tutte  le mura per tutte le torri un clamore: tendono gli ar-  chi gagliardi e lanciano i giavellotti. Il suolo tutto si  copre di strali; ai colpi risuonan gli scudi e i concavi  elmi; insorge dura la pugna. Così al venir da ponente,  sotto i Capretti piovosi °°, sferza la pioggia la terra; così  con la grandine precipitano i nembi sul mare, quando  orrido Giove con gli Austri turbina l’acque a diluvio, e  nel cielo le concave nubi dirompe.   Pàndaro e Bizia, da Alcànore Idèo generati, che nel  bosco di Giove allevòo la silvestre Ièra *, giovani pari  agli abeti dei monti paterni, apron la porta, che il duce  aveva a loro affidata, fiduciosi nell’armi, e il nemico provocano a entrar nelle mura. Ed essi là dentro, a destra  e a sinistra, si rizzano a guisa di torri, di ferro armati,  e corruschi gli erti capi di creste; come aeree lunghesso  1 fiumi correnti, sulle sponde del Po o presso l'Adige  ameno, sorgon due querce gemelle, e innalzano le chio-  me intonse nel cielo, con le cime sublimi ondeggiando.  Irrompono i Ruùtuli, poi che videro aperte le porte; ma  tosto Quercente e Aquìcolo bello nell’armi e Tmaro aut ipso portae posuere in limine vitam.  Tum magis increscunt animis discordibus irae:  et iam collecti Troés glomerantur eodem  et conferre manum et procurrere longius audent. 690   Ductori Turno diversa in parte furenti  turbantique viros perfertur nuntius, hostem  fervere caede nova et portas praebere patentes.  Deserit inceptum atque immani concitus ira  Dardaniam ruit ad portam fratresque superbos. 695  Ét primum Antiphaten (is enim se primus agebat), *  Thebana de matre nothum Sarpedonis alti,  coniecto sternit iaculo: volat Itala cornus  aéra per tenerum, stomachoque infixa sub altum  pectus abit: reddit specus atri vulneris undam 700  spumantem, et fixo ferrum in pulmone tepescit.  Tum Meropem atque Erymanta manu, tum sternit   [Aphidnum:   ‘tum Bitiam ardentem oculis animisque frementem,  non iaculo (neque enim iaculo vitam ille dedisset).  Sed magnum stridens contorta phalarica venit,, 705  fulminis acta modo, quam nec duo taurea terga  nec duplici squama lorica fidelis et auro  sustinuit. Collapsa ruunt immania membra.  Dat tellus gemitum, et clipeum super intonat ingens.  Talis in Euboico Baiarum litore quondam 710  saxea pila cadit, magnis quam molibus ante  constructam ponto iaciunt; sic illa ruinam  prona trahit penitusque vadis illisa recumbit;  miscent se maria et nigrae attolluntur harenae;  tum sonitu Prochyta alta tremit, durumque cubile 715  Inarime Iovis imperiis imposta Typhoeo.   Hic Mars armipotens animum viresque Latinis  addidit et stimulos acres sub pectore vertit l’impetuoso ed il marziale Emone, con tutte le schiere,  o volser fuggendo le spalle, o sulla soglia stessa della  porta lasciaron la vita. Allora crescon vie più nei cuori  discordi le ire; e già ammassati i Troiani si stringon  colà, ed osan venire alle mani e avanzarsi fuori più  lungi.   Al duce Turno, che in altra parte infuriava e sgomi-  nava i guerrieri, giunge la nuova: il nemico arde di  strage novella, e aperte si offron le porte. Lascia l’im-  presa e spinto dall’ira tremenda, contro la porta darda-  nia si scaglia e i fratelli superbi. E per il primo Antifate (poichè avanzava pel primo) di madre tebana ba-  stardo di Sarpèdone alto, colpisce ed abbatte col dardo:  vola il corniolo italico *' per l’aria leggera, e piantatosi  in gola scende nel fondo del petto; sgorga dalla caver-  na della negra ferita un'onda spumante, e nel polmone  trafitto intiepidisce il ferro. Poi Mèrope ed FErimante  abbatte, poi Afidno, poi Bizia che Iampeggiava con gli  occhi e con il cuore fremeva; ma non con un dardo,  chè quegli con un dardo non dava la vita! Ma fortemen-  te stridendo una falàrica **° venne, lanciata a guisa di un  fulmine, cui le due pelli taurine non ressero, nè la fe-  dele corazza di doppia squama dorata. Le membra immani stramazzano; la terra ne geme, e di sopra lo ecu-  do immenso rintuona. Tale nel lido euboico di Baia  . cade talora un blocco di macigni che costruiscon prima  con grandi massi e poi gettan nel mare; così esso rovina  all’ingiù, e scagliato nel più profondo si arresta: ma  ribollon le onde e negre si sollevan le arene, e a quel  fragore l’alta Pròcida trema, ed Ischia, che per co-  mando di Giove, fu posta, duro letto, sopra Tifèo.   Qui Marte signore dell’armi coraggio e forza ai La-  tini crebbe ed acuti gli sproni rivolse loro nel cuore, e immisitque Fugam Teucris atrumque Timorem.  Undique conveniunt, quoniam data copia pugnae,  bellatorque animo Deus incidit.   Pandarus ut fuso germanum corpore cernit,   et quo sit fortuna loco, qui casus agat res,  portam vi magna converso cardine torquet,  obnixus latis umeris; multosque suorum  moenibus exclusos duro in certamine linquit;  ast alios secum includit, recipitque ruentes,  demens, qui Rutulum in medio non agmine regem  viderit irrumpentem, ultroque incluserit urbi,  immanem veluti pecora inter inertia tigrim.  Continuo nova lux oculis effulsit, et arma  horrendum sonuere: tremunt in vertice cristae  sanguineae, clipeoque micantia fulmina mittit.  Agnoscunt faciem invisam atque immania membra  turbati subito Aeneadae. Tum Pandarus ingens  emicat, et mortis fraternae fervidus ira   effatur: « Non haec dotalis regia Amatae,   nec muris cohibet patriis media Ardea Turnum:  castra inimica vides; nulla hinc exire potestas. »  Olli subridens sedato pectore Turnus:   « Incipe, si qua animo virtus, et consere dextram:  hic etiam inventum Priamo narrabis Achillem. »  Dixerat. Ille rudem nodis et cortice crudo  intorquet summis adnixus viribus hastam.  Excepere aurae: vulnus Saturnia luno   detorsit veniens, portaeque infigitur hasta. At non hoc telum, mea quod vi dextera versat,  effugies: neque enim is teli nec vulneris auctor. »  Sic ait, et sublatum alte consurgit in ensem,   et mediam ferro gemina inter tempora frontem  dividit impubesque immani vulnere malas.  contro i Teucri lanciò la Fuga ed il cupo Terrore. Ac-  corrono da ogni parte quelli, poichè si combatte da  presso, ed il guerriero Iddio entrato è a loro nel cuore.  Pandaro, come vede a terra disteso il fratello, e che la  fortuna è per gli altri ed è contrario l'evento, a gran  forza, puntando l’ampie spalle, la porta spinge sui car-  dini e serra; e molti dei suoi lascia fuor delle mura in  aspra battaglia; ma altri riesce a chiuder con sè e li  accoglie che precipitavano dentro. Folle, che il rùtulo  ‘re non vide, che in mezzo alla schiera dentro irrompeva,  ed anzi lo serrava nel campo, come, tra un gregge im-  belle, feroce una tigre; di sùbito, gli sfavillo dagli oc-  chi una luce novella, e le armi orribilmente suonarono:  si squassan sull’'elmo le creste sanguigne, ed agitando lo  scudo vibra bagliori di lampi. Riconoscon la faccia odio-  sa e le membra giganti, di subito _sgomenti gli Enèadi.  Allora gli sbalza davanti Pàndaro immenso, e fremendo  d’ira pel morto fratello, grida: « Non è questa la reggia  dotale di Amata, nè qui è Ardea, che Turno rinchiuda  fra le mura paterne. Campo nemico è questo che vedi;  ed uscir non potrai ». A lui sorridendo Turno con cuore  pacato: « Orsù, se hai coraggio, combatti con me: rac-  conterai a Priamo che anche qui s’è trovato un Achil-  le ». Sì disse; e quegli, con ogni sua forza poggiando,  aspro di nodi e di ruvida scorza un giavellotto lanciò.  Ma colpì l’aria, chè la saturnia Giunone deviò il colpo  mortale, e l’asta contro la porta s’infisse. « Ma non tu  questa spada, che ruota la mia destra a gran forza, sfug-  girai: chè di un altro è l’arma ed è la ferita ». Così dis-  se, e si alzò con tutta la spada levata; e con il ferro la  fronte gli spaccò in mezzo alle tempie, e, con orrenda  ferita, ancora imberbi le guance. Fu un fragore, e la  terra fu scossa al cader del gran peso; stende egli a    5 - VirciLio - Eneide - Vol. III    Fit sonus, ingenti concussa est pondere tellus:   collapsos artus atque arma cruenta cerebro   sternit humi moriens, atque illi partibus aequis.   huc caput atque illuc umero ex utroque pependit. 755   Diffugiunt versi trepida formidine Troés;   et si continuo victorem ea cura subisset,   rumpere claustra manu sociosque immittere portis,   ultimus ille dies bello gentique fuisset.   Sed furor ardentem caedisque insana cupido 7160   egit in adversos.   Principio Phalerim et succiso poplite Gygen   excipit: hinc raptas fugientibus ingerit hastas   in tergum. Iuno vires animumque ministrat;   addit Halym comitem et confixa Phegea parma, 765   ignaros deinde in muris Martemque cientes   Alcandrumque Haliumque Noémonaque Prytanimque.   Lyncea tendentem contra sociosque vocantem ©   vibranti gladio conixus ab aggere dexter   occupat: huic uno deiectum comminus ictu 170   cum galea longe iacuit caput. Inde ferarum |   vastatorem Amycum, quo non felicior alter   ungere tela manu ferrumque armare veneno,   et Clytium Aeoliden, et amicum Crethea Musis,   Crethea Musarum comitem, cui carmina semper 775   et citharae cordi numerosque intendere nervis:   semper equos atque arma virum pugnasque canebat.  Tandem ductores, audita caede suorum,   conveniunt Teucri, Mnestheus acerque Serestus,   palantesque vident socios hostemque receptum. 780   Et Mnestheus: « Quo deinde fugam, quo tenditis? inquit.   Quos alios muros, quae iam ultra moenia habetis?   Unus homo et vestris, o cives, undique saeptus   aggeribus, tantas strages impune per urbem terra morendo le membra prostrate e le armi sozze di  sangue e di cèrebro; e da ambedue le spalle gli pen-  zola un capo e di qua e di là. Fuggon respinti da pau-  roso terrore i Troiani; e se il vincitore pensava, in quel  momento, a spezzare i cancelli e a far entrar per la  porta i compagni, l’ultimo giorno era quello della guer-  ra e del popol troiano. Ma il suo furore e un folle desi-  derio di strage lo scagliò impetuoso in mezzo ai nemici.  Prima egli affronta Fàlari, e a Gige recide il garretto;  poi toglie loro le aste e le lancia alle spalle ai fuggenti.  Forze e coraggio gli somministra Giunone. Hali dà lor  per compagno, e, trafittogli lo scudo, Fegeo; poi, mentre  ignari sulle mura incitavano a guerra, Alcandro, ed Alio,  e Noèmone, e Prìtani. Lìnceo, che gli veniva incontro  e chiamava i compagni, egli previene, rotando la epada,  dallo steccato a destra: e d’un sol colpo da presso, il  capo troncato si giacque insieme con l’elmo lontano. Poi,  Amico, il distruttore di fiere, di cui altri non era più  esperto ad unger gli strali e avvelenare le armi; poi,  Clizio l’eòlide, e amico alle Muse Creteo, Creteo alle  Muse compagno, che sempre i carmi e le cetre ebbe a  cuore, e l’armonia delle corde: sempre i corsieri e le ar-  mi e le pugne eroiche cantava.   Alfine i Teucri duci, udita la strage dei loro, accor-  rono, Mnèsteo ed il padre Seresto, e vedono rotti i com-  pagni, e, fra le mura, il nemico. E Mnèsteo: «E poi,  dove fuggite? dove andare volete? — diceva. — E che  altre mura, che altra città vi rimane? Un uomo solo, e  d’ogni parte rinchiuso dai vostri steccati, potrà, o cit-  tadini, di stragi riempir la città, impunemente? Tanti  fra i primi guerrieri manderà giù nell’Orco? Non della  misera patria e degli antichi Iddii, e del magnanimo  Enea, codardi, vi tocca misericordia o vergogna? » Ac-   ediderit? iuvenum primos tot miserit Orco? 785  Non infelicis patriae veterumque Deorum et magni Aeneae, segnes, miseretque pudetque? »  Talibus accensi firmantur et agmine denso   consistunt. Turnus paulatim excedere pugna   “et fluvium petere ac partem, quae cingitur unda: 790  acrius hoc Teucri clamore incumbere magno   et glomerare manum, ceu saevum turba leonem cum telis premit infensis, at territus ille   asper, acerba tuens, retro redit, et neque terga   ora dare aut virtus patitur, nec tendere contra, 795  ille quidem, hoc cupiens, potis est per tela virosque:  haud aliter retro dubius vestigia Turnus   improperata refert, et mens exaestuat ira.   Quin etiam bis tum medios invaserat hostes,   bis confusa fuga per muros agmina vertit; 800  sed manus e castris propere coit omnis in unum:   nec contra vires audet Saturnia luno   sufficere, aériam caelo nam luppiter Irim   demisit, germanae haud mollia iussa ferentem, ni Turnus cedat Teucrorum moenibus altis. Ergo nec clipeo iuvenis subsistere tantum,   nec dextra valet; iniectis sic undique telis   obruitur. Strepit adsiduo cava tempora circum   tinnitu galea, et saxis solida aera fatiscunt,  discussaeque iubae capiti, nec sufficit umbo ictibus; ingeminant hastis et Troès et ipse   fulmineus Mnestheus. Tum toto corpore sudor   liquitur et piceum (nec respirare potestas)   flumen agit: fessos quatit acer ànhelitus artus.   Tum demum praeceps saltu sese omnibus armis — 815  in fluvium dedit. Ille suo cum gurgite flavo   accepit venientem ac mollibus extulit undis et laetum sociis abluta caede remisit. cesi da tali parole, riprendono cuore, e in ischiera ser-  rata lo affrontano: e Turno a passo a passo si ritrae dal-  la battaglia, volgendo verso il fiume e la parte che n’era  ricinta; e però più accaniti i Troiani lo incalzan con  grande clamore, addensando le schiere. E come quando  un feroce leone stringon da presso con l’armi ostili i cac-  ciatori, e quello, fiero, e torvo lo sguardo, retrocede, ma  nè l’ira o il valore non gli lascian voltare le spalle; ma  neppure potrebbe, benchè desioso, lanciarsi in mezzo  alle armi e alla turba: non altrimenti Turno, dubbioso,  lentamente si arretra, e il cuore per l’ira gli bolle. Anzi,  due volte si era gettato in mezzo ai nemici, due volte  volse in fuga per le mura le schiere sconvolte; ma tutto  rapidamente si accoglie dal campo l’esercito contro lui  solo, nè altre forze formirgli osa la Saturnia Giunone,  giacchè aerea dal cielo Giove Iride inviava, con suoi  bruschi comandi alla sorella **, se Turno non lasciasse  le mura alte dei Teucri. Dunque non può il giovane  con lo scudo o con la mano resistere ancora: son troppi  i dardi che d’ogni parte gli piovono giù. Senza riposo  tinnisce intorno alle concave tempie l’elmo, ed il solido  bronzo s’incrina alle pietre, e le creste si rovescian dal  capo, e ai colpi non basta lo scudo; raddoppian l’assalto i Troiani con l’aste, e primo, fulmineo, Mnèsteo. Da  tutto il corpo il sudore allora gli gronda, e gli cola —  omai il respiro gli manca — in un fiume color della  pece. E finalmente allora, a precipizio, di un salto, con  tutte le armi, nel fiume si lanciò; e quello, con la sua  bionda corrente l’accolse, e lo tenne sopra le onde tran-  quille, e, della strage asterso, lieto ai compagni lo rese.Angelo Conti. Keywords: VIRGILIANA, decadente, decadenza, divina decadenza, filosofia decadente, filosofo decadente, decadentismo, divinely decadent – d’annunzio, museo d’annunziano, il bello e il bizzarro, il bello bizzarro, estetica, sensatio, senso, sensum, sentior, sentitum, perceived, perceptum – sense and sensibilia, estetico/noetico (nihil est in intellectu qui prior non fuerit in sensu), propieta estetica, proprieta di secondo grado, secondary quality, Grice, Sibley, Scruton, Platone, Kant, Schopenhauer, Ruskin, Pater, Antichita, antico e moderno, il fascino dell’antico, from the antique, from life, Uffizi, Accademia Venezia, RegieAccademiadiVenezia, Capodemonti, Napoli, Antichita Roma, il fiume d’Eraclito, Ulisse e il canto delle sirene, Morelli, Francesco, Virgilio, dolcissimo padre, ascetismo, ascecis, zorzi, riva beata, Pater, Essay on Style by Pater, Da Vinci, Morelli, la nudita eroica d’Enea – Luigi Ratini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Conti: l’implicatura converseazionale del dialogo filosofico – filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova). Filosofo italiano. Grice: “Conti is a good one; for one he is a ‘patrizio veneziano,’ for another he like Alexander Pope and detests Newton! (Italian temper there!) – My favourite are his “Dialoghi filosofici,’ full of implicata as they are!” Patrizio veneto, classicista, famoso per essere stato arbitro nella controversia tra Leibniz e Newton, circa l'invenzione del calcolo infinitesimale (keyword: infinito). Si lege in amicizia con  Fay, noto per gli esperimenti fisici che conduce all'Accademia delle Scienze. Di lui esiste una statua in Prato della Valle, fatta da Chiereghin. Scrive saggi riguardanti la struttura della tragedia, e nel “Trattato del fantasma poetico” discute la funzione del coro: monologo, dialogo, coro (terza persona?). Tra le sue tragedie, la più significativa fu il “Giulio Cesare”. Ne scrive altre tre, tutte di soggetto romano: “Marco Bruto”, “Giunio Bruto”, e “Druso”. Altre opere: “Opere” (Venezia, presso Giambatista Pasquali); “Versioni poetiche” (Bari, Laterza). Dizionario biografico degli italiani. Della nascita del C. sono r’ſuoi veri pu dj. Principio de’ suoi studi scritto da lui stero. Disputa col Nigrisoli e altre particolarità de’ suoi studi sono al primo viaggio di Francia. Primo viaggio in Francia. Primo viaggio in Inghilterra e prime conversazioni col Newtono. Mediazione tra il Newtono e il Leibnizio Studi e altre occupazioni di Conti a Londra. Suoi sudj di belle lettere. Viaggio d'Ollanda e d'Allemagna. Nuova dimora in Inghilterra. Ritorno in Francia e ſuoi pudi. Amicizie. e converſazioni in queſti anni in Francia. Querela col Newtono. Suo ritorno in Italia. Edizione del Cesare. Studi e commerzi. Edizione delle ſue Prose e Poesie. Sue Tragedie. Illustrazione del Parmenide di Velia di Platone; fima e onori di C.. Traduzioni. Altri suoi fudi. Progetti di nuove opere. Ultimi ſtudi. Edizione del Druso; ſua morte. Rifleli Jul carattere di C., e notizie particolari della sua vita private. Relazione de’ Manoscritti lasciati da C. Dell' Imitazione. Del Fantasma Poetico. La Poesia Greca. Allegoria dell'Eneide di Virgilio. Illuſtrazione dello Scudo di Enea. Illustrazione del Poema di Catullo intitolato le Nozze di Teride e di Peleo. Dissertazione sopra la Tebaide di Stazio. Discorso ſopra la Italiana Poesia. Illustrazione del Dialogo di Fracastoro intitolato il Na. wagero, o fia della Poesia. Disertazione sopra la Ragion Poetica del Gravina. Della Potenza conoscitiva dell'Anima. Della Fantasia. Poesie Tradotte dall' Inglese. Al Sig. Marcheſe Manfredo Repeta sopra il Poema del Riccio Rapito. Il Riccio Rapito. Prose Franceſe Italiane a Monſieur Perel. Dialogue ſur la Nature de l' Amour. Lettre à Madame la Preſidente Ferrant. Lettera al Sig. Cavalier Vallisnieri. Al sig. Marcheſe Maffei. Al N. U. Sig. Benedetto Marcello. Al P. D. Bernardo Piſenti C. R. Somaſco.A Monſignor Cerarti. L’allegoria dell’Eneide di Virgilio propone una cosa per farne intender un'altra, che ſeco è in proporzione, se l’ “Eneide” per consenso di tutti i più abili commentatori é un panegirico *allegorico* d'Augusto, convien necessariamente che la cosa proposta sieno l’azione d’Enea (l’explicatura), e la cosa che deve intendersi ed è loro proporzionata, l’azione d'Augusto (implicatura) più memorabile e più degna di lode. Per çiò con una ſuccinca narrazione pone prima sotto gli occhi l’azione d'Enea, che e il primo termine (l’explicatura) su cui l’allegoria o metafora o implicatura (& fonda, o come l'originale del ritratto; indi fa il confronto dell’azione di Augusto. Nell'istoria d'Enea, basta quloſſervare l’oggetto dell’epica, e il carattere stoico dell'eroe. L'oggetto tutto tende alla nuova colonia di Roma o al Principato ch'Enea (via Ascanio e Romolo e Remo) ha da fondare nel Lazio e Italia. Questo gli predisse Creusa, Febo, i Penati; questo le Arpie, Eleno e la Sibilla; e perchè fi compisca l’oracolo della predeterminazione e del fatalismo stoico, Enea li salva dagl in incendi e dalla strage di Troja. Ettore lo dichiara Pontefice. I compagni lo eleggono Re. Avvisato o protetto schiva i tradimenti, gli scogli, i ciclopi; non è sommerso nelle tempeste, non trattenuto dall’africana Didone più pericolosa delle stesse tempeste. Finalmente arrivato in nel Lazio trova il re latino dispoſto a riceverlo per genero, Evandro e i toscani pronti a dargli soccorso; sebben abbia a fronte Torno, un nimico feroce e collegato coi vicini, lo vince e l'uccide. Gli oracoli fatalisti predeterminati stoichi dunque, i viaggi, e le guerre d’Enea non riguardano se non lo stabilimento d'un regno o principato. Il carattere poi d’Enea o dell'eroe si vede in tutta l'Eneide composto della *virtù* stoica convenevoli al capo e fondatore d'un regno. La virtu e pietà verso l’uomo e verso Diuspater, senno nel provvedere a’pericoli e prevederli, valore da soldato e da capitano. La pietà (o compasione) verso l’uomo e la carità – l’imperativo della carita conversazionale, verso Diuspater religione. Della carita o benevelonza o compasione, o compieta verso l’uomo Enea dà esempi illustri per tutto. Salva il padre Anchise dalle fiamme portandolo sulle spalle dirige sempre il viaggio secondo i di lui consigli, celebra il suo anniversario co'giochi conſiderati da’ pagani come una parte della eeligione, e per ubbidirlo discende fino all’inferno! Quanto è tenero per il figliuolo Ascanio, e sollecito e della salute e de gli avanzamenti di lui! E quando Creusa sua moglie si smarrisce, non va egli a ricercarla tra gl'incendi e le stragi? Che dirò della sua pietà, carita, compassione, compieta, benevolenza, verso il suo compagno (o d’EURIALO verso NISO), verso l’amico, e verso Torno, il nemico stesso? Nella tempesta più s’affligge della loro perdita che della propria, gli consola e gl’incoraggisce negli affanni, li provvede di cibo, li divertisce e premia co’giochi, fa l’esequie a Polidoro suo parente, a Miseno suo trombettiere, a Gaeta sua nutrice; piange la morte di Palinuro e più quella di Pallante (Patroclo), e ne manda il cadavere ad Evandro con magnificenza e con lutto degno di un re. Avendo ferito a morte Lauro che l’assalì, gli itende la destra, lo solleva, e lascia che a Mesenzio se ne porsi il corpo. Vuol perdonare a Turno, e non l’uccide *che* per vendicar suo amante Pallante; ciò ch'era un atto di carita. Verso Diuspater sempre fervida e pronta è la sua pietà. Come stoico perfetto e negatore del libre arbitrio, nulla intraprende senza consultare l’oracolo, e non comincia alcun’azione senza offrir un voto, una preghiera e sacri fizj, ch’egli offre egualmente al Diuspater propizio, che alle Diuspater nonpropizio o Giunone e Pallade. Per ubbidir Diuspater supera la passione che la strega Didone invoca, cede rispettoso alla sua collera nell'incendio di Troia; conosce Apollo per principal protettore; ascolta attento i cantici d'Ercole, e invoca Berecintia che l'allista nella nuova guerra. Alla sua pietà corrisponde il suo senno. Tosto ch'entra in un paese vuol conoscere i liti, i luoghi, e la gente che l'azbita; così fa in Affrica, e nel regno d'Evandro, e scoperto l'assaſlinio di Polinestore fugge il pericolo di cadervi: fa metter in aguato i soldati per lorprender l'Arpie; egli steſſo dirige la nave che manca di piloto; manda ambasciatori al re del Lazio; cerca soccorso nella guerra; ricevuto lo distribuisce in due corpi per più imbarazzare il nemico ciò ch'è una parte della virtu o prudenza militare, non meno che assediar la città mentre il nemico è sospeso. Questo o quello segno (manifestazione secondo Vitters) del valore poi non dà nell'attaccare i nimici, nel farne stragi di sua mano? uccide i più forti e tra gli altri Lauso, Mesenzio, lo stesso Turno. Più comparisce il valore d'Enea, se col P. Boſsù fi confronti con quello di Turno, antagonista, avversario, dell’epica, ardente, milantatore, prepotente e buono sol per la guerra che vuole giusta od ingiusta, ed in questa è incauto e senza direzione. Enea all'opposto grave – la gravita romana --, misurato e non peccatore o essecivo, parla poco, laconico, opera molto, sempre consigliato e forte colla gloria del consiglio e dell'esecuzione. Di questo o quello segno della virtu -- pietà, senno, e valore, c’e un intreccio mirabile, sicche comparisce Enea saggio e paziente capitano come Agamennone, valoroo vincitor del nimico come Achille, destro a maneggiar lo spirito ed a condur una negoziazione o consenso cooperative conversazionale come Nestore e Ulise: giugne a questa virtù una pietà sincera, una probità esatta che mai non ſi ſmente, una compassion tenera per il suo amico e il suo suddito. Enea è buon figlio, buon padre, buon amico, buon amante, e tutto ciò per motivi superiori di dovere e di ragione morale kantiana alla luce del stoicismo fatalism del predeterminismo. Sopra tutto pero domina la specie della virtù più convenevole d’ogni altra specie al fondatore della dinastia di Romolo, perchè per essa si merita la protezione di Deuspater, si rende l’amico o il popolo che deve ubbidire, l’alleato, ed il vicino con cui si deve patteggiare e con-federarsi in cooperazione conversazionale verso un fine comune. Vi sarebbero il carattere degli altri personaggi e dei dell'epica, ma essendo scritti di mano dell’autore sono come non scritti. Anche la seconda parte che riguarda le azione del primo imperatore romano, Ottavio detto l’augusto è molto imperfetta; eccone qualche confronto. Nella rovina di Troja li ravvisano la rovina della Roma repubblicana di Cesare ed Catone. Da questa rovina, Ottavio, come Enea era stato preservato dalla provvità, 1 videnza del fato, come dice Orazio nel Carmie Secolare. Enea porta in ispalla suo padre Anchiee; Ottavio prende la vendetta del suo padre addotivo Cesare. Enea e in Troja maricato a Creusa da cui ha Julo; Ottavio e maricato a Scribonia da cui ha Giulia. Ma Creusa per ordine de’ Fati è colia ad Enea, come Scribonia ad Ottavio; e nel dir che ad Enea si apparecchia moglie, da cui doveano discendere tanci Re, adula cacitamente Livia. Didone che s’oppone al disegno (de-segno – plannificazione) d’Enea magnifica e vana dell'impero ha del carattere superbo, impecuo lo, ed astuto di questa altra Africana, Cleopatra, che impiegò cutre l'arti femmini li per impegnar Ottavio. Ma v'è un tratto finissimo di lode nella comparazione che poteano i romani fare d’Enea e ďOttavio, perchè laddove Enea cesse alle lusinghe di Didone, e dopo averla posseduta l’abbandona scorteſemente in preda alla disperazione, biasmo da cui poco lo scusanu gli ordini degli Dei; quanto più dovea stimarli Ottavio che mai non si lasciò vincere dalle tante arti di Cleopatra? In Evandro, che accoglie Enea, si puo ravvisar Cicerone, che col suo credito e colla sua eloquenza reſe tanti servigj a Ottavio. L’epica, però per non rimproverargli la disgrazia di Cicerone, fa che non Evandro ma il figliuolo di lui resti ucciso da Turno, nel quale *senza dubbio* vien “simboleggiato” Marc’Antonio, valoroso bensì, ma imprudente, e che le in molte cose mostra fortezza d’animo chiaro ed eccellente, in molte altre, come Turno, li governa malissimo, e da quello o questo segno non meno di magnanimità che di pulsanimità. Nulla dimostra più la finezza cortigianesca di Orazio e di Virgilio come il loro non nominar mai Cicerone. S'astennero dal risvegliar in Ottavio un'idea che gli dava de’ rimorsi. All'incontro nominarono Giunio Bruto e Catone, per mostrare che Ottavio non ha usurpata la libertà, ma che anzi ne era il protettore, l’imperatore, come negli ultimi tempi lo volea Cromuvelo (Lord Protector) in Inghilterra. Antonio stesso molto si risparmia, esi può osservare in Orazio che mai non si parla d’Antonio senza congiungerlo a l’africana Cleopatra per far cadere in lei l’odio e la colpa; e cosi fa Virgilio fagacemente nella battaglia d’Azio, quando parla d’Antonio palesemente, e quando ne parla per allegoria, supprime quell vizio che avrebbero dispiaciuto ai suoi partigiani ch’erano molti, ed a’figliuoli elevati da Ottavio a sommi onori. Queſta è pur la ragione prammatica, per la qual Virgilio non dipinta le guerre che fece Ottavio con Bruto, Callio e cogli altri, che per modo di peregrinazioni, onde non offender quei ch’erano ancora del partito di questi ultimi difensori della pubblica libertà. Il re del Lazio, Latino, che ammonito dall’oracolo vuol dar la figliuola più ad Enea, che a Turno, è il vero ritratto del senato romano, che vecchio (senior, senatore) ed impotente non potendo più regolar la repubblica, benchè per ispirazione divina egl’inchini più a lasciarsi governare d’Ottavio che da Marc’Antonio, atterrito nondimeno dagli apparecchi di guerra, lascia disputar la vittoria a’ due rivali, come appunto il re Latino fuggendo lascia terminar la guerra a Turno ed Enea. In Mesenzio ed in Lauso si veggono Cassio e Giunio Bruto, e l'empietà data a Mezenzio e la virtù data a Lauso lo persuadono. Muore Laulo ed Enea lo compiagne, come Ottavio compianse Bruto, al dir di Plutarco. Quando Lauro combatceva, era Mesenzio con la persona appresso di un tronco per posarvi appoggiato, e gli stava intorno un cerchio de’ più eletti e de’ più fidi; e quando vide Lauso ucciso, comincia a disperarsi, e a lagnarsi, e andar incontro alla morte. Queſta deſcrizione concorda molto con quella che fa Plutarco di Cassio, allora che ritirato sul colle stava rimirando l’esercito di Bruto, e credendo ch’egli fosse rotto, disperato si confiſſe nel le reni la spade. Non occorre cercare rassomiglianza perfetta tra questo o quello accidente vero e questo o quello accidente finto. Baſta che uno si ravvif nell'altro. I ritratti della Poesia, e particolarmente epica, sono “simili” a quelli che i gran pittori introducono ne’ quadri istoriati; negli Dei, negli eroi, ne’ capitani ritengono le fattezze del volto de viventi che vogliono onorare ma variano le attitudini, o le velti per variare le imagini, e produr nello spettatore maggior maraviglia ed affetti più vivi. Con questa regola si pollono ritrovare molti altri confronti nelle cose dell'Eneide colla vita d’Ottavio. Nè par probabile che tanta corriſpondenza sia effetto del caso, attesa spezialmente la sagacità del poeta, e l'idea generale dell'opera. Parte di questa corriſpondenza fa vedere nello scudo d' Enea la seguente illuſtrazione, che si dà intera. Come nell'Iliade d'Omero Teti porge ad Achille uno scudo fabbricato da Vulcano così nell'Eneide di Virgilio Venere porge ad Enea uno scudo fabbricato dallo stesso Dio. Quì non s'intraprende d'illuſtrare ſe non ciò che appartie. ne allo Scudo d'Enea, oſſervando prima generalmente, qual ne foſſe la materia, la faldezza, la figura, l'intreccio e i colori, ed indi particolarmente l' ordine e' i fiti delle coſe ſcolpite, le loro ſtorie, cd allegorie. I'Ciclopi impiegarono nell'armatura d'Enea il rame, l'ac ciajo, l'oro, e l'argento, ma fecero che ivi abbondante più dell'uno o dell'altro metallo ove era biſogno di maggior die feſa, o di più raro ornamento. L'Elmo che dovea abbagliando minacciare i nimici, riſplen dea per la terſezza dell'acciajo, non altrimenti che ſe fiam. me ſpargeſſe. La Lorica era ſcabra per i rilievi del rame e del bronzo, che quanto più maſſicci'ſi fingono, ed incurva ii, tanto più le faette e le ſpade ſpuntavano. Ben è vero che per la miſtura degli altri metalli, i colori della Lorica ſi mi ſchiavano con quei del bronzo e dell'oro, ond'ella riſplende va come un Iride in faccia al Sole. Nell'aſta e nelle ſchinie re abbondava particolarmente l'elettro che è un compofto d ' oro e ' una quinta parte d'argento, ma purgato più volte da'Ciclopi; l'oro nel foco avea ſvaporato l'argento, onde la compoſizione riuſciva più prezioſa, più denſa, ed impene. trabile. Nello Scudov'erano tutti e quattro i metalli tra loro op portunamente fuſi e temperati. I Ciclopi ne aveano appiana ta la maſſa in ſette piaſtre rotonde, che a guiſa dei ſette cuoi attorti dello Scudo d' Ajace implicarono l'une nell'altre, perchè lo Scudo refifteffe a tutte l'armi de' Latini. Miſterioſo era il numero di ſetre appreſſo gli Antichi per la relazione ch'egli avea al numero de Pianeti. Forſe credea no, che gli aſpetti di cucci e ſette influendo nella fabbrica d' uno Scudo gli deffero una tempra immortale. La figura dello Scudo d'Enea era ovale, nè a cid forſe an cora mancava il ſuo miſtero. Gli Scudi ancili chc fi fingea. no 177 no caduti dal Cielo a tempi di Numa, aveano la ſteſſa figura, Or lo Scudo d' Enea non era men celeſte di loro; ed Enea, che doveva portarlo, non ſi fuppone men pio di Numa. I Ciclopi nel fabbricar lo Scudo avendo poſta in opera per comando di Vulcano tutta la loro arte maeſtra, collocarono, intrecciarono, limetrizzarono, e colorirono le figure ſcolpite in maniera, che lo Scudo emulava la reflicura di un arazzo. Nè queſta a mio credere è un'Iperbole poetica, ma un'imi tazione di quell'idee che Virgilio, avea vedute ne'baſi rilievi di Roma, ove ſoggiornava, ed in quelli delle Città della Gre cia, ove per profittarlı dello ſtudio delle bell'arti avea viag giato. A Roma nelle Biblioteche e ne' Tempj ſtavano appeli certi Scudi tutti ſtoriati, e tra gli altri Plinio racconta, che nel Tempio di Bellona Appio Claudio confacrò uno Scudo, ove in picciole figure era rappreſentata tutta la Genealogia dell'antica famiglia de' Claud). Nel conveſſo dello Scudo di Minerva avea Fidia ſcolpita la battaglia delle Amazoni, e nel concavo la guerra degli Dei e de'Giganti. Offerva Plinio, che Fidia, volendo moſtrar l'arte nelle minimeparti, avea elpela ſo ne' Sandali della Dea la battaglia de' Lapiti e de'Centauri, e nella baſe della ſtatua la naſcita di Pandora con quella di trenia Dei. Ne'baſſi rilievi delle lamine che cingevano la ſe dia della fatura di Giove Olimpico, lo ſteſſo Fidia in oro ſcol pito avea, da una parte il sole che conduceva il cocchio, e dall'altra Giove e Giunone; a lato di Giove v'era una delle Grazie, indi Mercurio e Veſta., Venere pareva, uſcir dal ma re, l'Amore l'accoglieva, e la Dea Pito la coronava. Nello ſteſſo baſſo rilievo li vedeva Apollo e Diana, Minerva ed Er; cole, e nel piedeſtallo da un canto Anfitrite e Nettuno, e dall'altro la Luna, che galoppaya ſopra un cavallo. Qual mol ticudine, qual varietà ed intreccio di figure in poco ſpazio? Or è molto verifimile, che come lo Scudo d'Achille diede a Virgilio la prima idea dello Scudo d'Enea, così į baſli rilie vi da lui yeduti a Roma in Atene e in Olimpia gl'inſegnal ſero a perfezionarlo. Nella deſcrizione delle figure ben fi ſcor ge che l'artifizio dell'imitazione, non deriva dagli alerui fan tasmi, ma da un'acurata oſſervazione del ſenſo, che regold la fantaſia del Poeta fino · lo ſpingo oltre la conghiettura, e pretendo che alle figu. se veduce da Virgilio ſcolpite o nell’avorio, o nell'oro, od in altro metallo negli vi applicalle la forza e la leggiadrią Tomo II. 2 de' 3 178 ra 1 1 de colori da lui veduti nelle pitcure encauſtiche: Plioio ne annovera di tre fpezie, e non ſaprei fuggerirne una miglior idea che raſſomigliandole alle picture che vediamo, non dirò fulle porcellane di troppo fragil materia a confronto del me tallo, ma su fmali di più dura tempra, e su vaſi e ſulle cop pe antiche, ove la varietà del colore riſultò dal vario grado del foco, che lor fu dato nel fondere e nel tingere il metal lo. Difficile è proporzionare il grado del foco ad ogni colo re, ma difficiliſſimo ove i colori lieno per conſiſtenza e viva cità differenti, e ſi debba nello ſteſſo tempo abbrugiandoli laſciarli ſecondo il biſogno o floridi, od auſteri, ed a tutti imprimere quello fplendore che ſecondo Plinio non è lo ſtef To che il lume, ma di'mezzo tra il lume e l'ombra, ed è propriamente l'intenſione d'ogni colore nella ſua ſpezie. Il Sig. Abate Fraguier, la cui memoria mi ſarà ſempre ca. offerva, che nello Scudo d'Achille la terra fenduta in folco dall'aratro cangia in nero il color d'oro, che i grappo li d'uva ſono neri e la vigna d'oro, che le giovenche ſono rappreſentate al vivo col bianco e col giallo, cioè collo lta gno e con l'oro, e che veriſſimo è il langue trangugiato da due Leoni che lacerarono il bue. Da ciò inferiſce che l'arte encauſtica fioriva a'tempi d'Omero; ma quando anche i Cro nologi che non convengono dell'età d'Omero glielo conce deffero, molto più debbono elli concedere, che nel tempo d' Omero quell'arte era molto imperfetta a paragone dell'eccel lenza a cui la portarono i Greci nel secolo d'Aleſſandro, e ne’ſuſſeguenti. Le picture de' più celebri artefici encauſtici e rano ſtate portate dalla Grecia a Roma da' Capitani Romani, é poſcia conſecrate ne! Tempi. Virgilio che avea ſotto gli oc chj de'modelli così perfecti, gli ha verifimilmente adombra ti ne ' colori del ſuo Scudo yine queſta ſpezie d'imitazione pud negarſi ad ua Poeta sì doito, e d'on guſto così eſquiſito in ogni genere d'arte • Per reftarne convinti bafta riflettere alla varietà ed armonia de? colori delle figure deſcritte j ai sfuma menti, 0, come parla Plinio, alle commiſſure de culoriftel fi, ai fecreti più mirabili della perſpectiva introdotti negli ac» tidenti delle imagini, e finalmente all'efpreffione degli affec ti de coſtumidegli Uomini rappreſentation La varietà e larmonia de'colori appariſce nell'Oca d'ar gento che vola ne' portici d'oro, ne' flutti biancheggianti per lai fpuma ini un mare cerulco Larrei ſono i colli de'Galli, mentre le loro chiome fon d'oro, e vergate d'oro le veſti; il langue di Mezio è vermiglio e gocciola dalle ſpine che lo no verdi. Per gli sfumiamenti de colori, ed inſieme per l'eſpreſſione degli affetti e de' coſtumi, diverſi nell' arni e nelle veſti fo no i colori de' Barbari condotti in trionfo; il limitar del Tem. pio d'Apollo è bianco come la neve, ma più bianco è lo ſteſſo Dio; Cleopatra è pallida per la morte futura; il Nilo al ſembiante ed al geſto moſtra la doglia che lo crucia e l' impazienza di ſalvare i fuggitivi ſuoi figli. Che dirò della forza della perſpectiva? Parrafio dipinle, al dir di Plinio, il Demone degli Atenieſi vario, iracondo, in giuſto, incoſtante.. Virgilio rappreſenta Porſenna che nello Iteſſo tempo comanda, li ſdegna, e minaccia. Nel Portico a. vanti la Curia di Pompeo era dipinto, ſecondo lo ſteſſo Plinio, un Soldato che non ſi fapea ſe con lo Scudo aſcendeſſe o di Icenderſe. Virgilio fa che i bambini attaccati alle poppe del. la Lupa fieno da queſta alternaniente accarezzati; ciò che il Tallo imirò nelle figure delle porte d'Armida ove Marcanto nio nel ſeguir Cleopatra che fugge, Mirava alternamente or la crudele Pugna ch'è in dubbio, or le fuggenti vele. Ma paſſando a coſe più particolari, io per far meglio in tender l'ordine, l'intreccio, ed i fici delle figure, divido in quattro parii lo Scudo. La prima contiene la diſcendenza d ' Enca fino alla Lupa incluſivamente. La copula o, cioè an cora dimoſtra che tutto era nello ſtello baſſo rilievo. La ſeconda parte contiene molte coſe memorabili fotto i Re e ſotto la Repubblica. La terza la battaglia d' Azio. La quarta i tre Trionfi d'Auguſto. Queſte parti, ſi fanno ſenſibili dividendo l'ovale in quattro altre ovali concentriche che io ſegnerò co'numeri 1. 2. 3. 4. Nello spazio segnato i. ch' è come l'orlo dello Scudo io pongo le figure che rappreſentano i diſcendenti d'Enea anno verati da Virgilio nel primo libro e nel ſeſto: queſti ſono A Scanio, Silvio padre di molci Re, Proca, Capi, Silvio, Enea, i due giovani coronati di quercia, Numitore, e la Lupa che allatra i due bambini. De quindici Re d'Alba, di cui parla 2 2 Dio 186 Dionigi d’Alicarnaſſo e Tito Livio, Virgilio non nomina che queſti, perchè, come egli accenna, furono fondatori di colo. nie, avendo edificato Nomento, Gabia, Fidene, Collazia full? állo d'una montagna, ed il caſtello d'Inuo o di Pane. Fon darono ancora Bola e Cora, e queſte ed altre nominate Cit rà eſſendo nel Paeſe de' Sabini e de' Volſci, avranno dato oc caſione alle guerre e battaglie nello Scudo eſpreſſe. Nel baf ſo rilievo d'Alcanio dev'egli rappreſentarſi a guiſa d’un Ca. pirano o d'un Re che comanda di fabbricare una Città qual era Alba lunga. Altri prendono gli ordini, ed altri gli eſegui ſcono, ed i Soldati ſtanno riguardando l'opra. La pittura d ' Aſcanio è ſulla cima dello Scudo; nella parte oppofta, o nel ballo v'è la Lupa che allatta i bambini, e biſogna rappre ſentaría qual è in molte medaglie. Ne' lati dell'orlo dello Scudo toſto ſi vede un bambino in mano d'un paſtore ch' eſce da una ſelva; lo ſiegue in Re circondato da molti bam bini coronati, indi un Ře che guida un eſercito, un altro che eſpugna una Città, un altro che è in mezzo a Sacerdo ti e a Veltali, molti giovani Re cinti il capo di quercia che combattono e fondano colonie, o su monti, o nelle pianu. se. Nè Tito Livio, nè Dionigi d'Alicarnaſſo parlano in par ticolare di queſte battaglie, onde ſi poſſono ſcolpire a fanta ſia, ma devono eſſer ſcolpice in medaglie appeſe a rami od alle foglie d'un albero genealogico che ſerpeggi nell'orlo. Nello ſpazio ſegnato 2. io pongo da una parte due baſſi ri lievi di forma ellittica, ma incaſtrati di varj fogliami che riempiono i vuoti. Elli rappreſentano il ratto delle Sabine, e la pace cra Romolo e Tazio. Pongo dall'altra parte altri rilievi della ſteſſa forma che rappreſentano Mezio ſquarciato da ' cavalli, e Porſenna che afledia Roma. Nel ſommo dell'ovale ſi vede nelle figure più rilevate il Campidoglio affalito da’Galli, e difeſo daManlio; e nelle più lontane i Salj e le Matrone che eſulcano; nella parte oppo. fta che è la più baſſa dello Scudo v'è il Tartaro con Catili na affiffo allo ſcoglio, e ſopra il ſotterraneo (chiamato da Vir gilio la bocca profonda di Dite ) verdeggiano gli Elisj, ove Catone dà la legge all'anime pie. Le figure di queſto ſpazio ſono maggiori di quelle dell' orlo perchè le parti più vici ne al centro dello Scudo ove fi fogliono diriger i colpi, devo no eſſer più maſſiccie per più reliftere. Lo ſpazio è percid maggiore Nel i 81 5 Nello ſpazio ſegnato 3. v'è la battaglia d' Azio. Apollo ſaettante è ſul Promontorio, ove Auguſto gl’inalzò un Tem pio. Le navi d'Auguſto ſono alla deſtra ſchierate in arco; nel deftro corno v'è Augufto colla ftella in fronte e co' Pe. nati in mano, nel finiftro Agrippa cinto le tempia della co rona roftrata. Dirimpetto vi fono le Navi torreggianti d'An tonio. Secondo Plutarco, Antonio con Publicola reggeva il corno deſtro, e Clelio il ſiniſtro. Cleopatra è nel mezzo in atto di percuotere il fiftro, ſtromento dedicato ad Ilide che Cleopatra voleva emulare in curto. Tra i due ſemicerchi del. le navi ve ne ſono alcune diſtaccate che tra loro combatto no. Soggiunge Plutarco, che Ceſare non ſolamente non or dina ferir le prode dure e ferrate d'Antonio, ma nè anco inveſtirle per fianco, perciò che gli ſproni facilmente ſi ve nivano a romper urtando nelle cravi quadre incaſtrate infie me col ferro: Era dunque queſta battaglia (ſegue egli) mol to ſimile a una giornata per terra, anzi piuttoſto all'aſfalco d'una Cicà. Perciocchè tre o quattro navi di Ceſare com battevano intorno a una nave d'Antonio con partigiane, piche, e con fuoco. D'altra parte gli Antoniani ftando ſulle gabbie di legno traevano dardi e pietre contro i nimici. Così ap punto Virgilio rappreſenta le navi che combattono. Sulle navi di Cleopatra vi ſono i Dei moſtruoſi d'Egitto, in atto di ſaettar Neituno, Venere, Minerva, che ſtanno ſulle navi d'Auguſto, e contro alle quali egli diſſe al Senato che Antonio avea moſſo la guerra, non meno che contro al. la Patria. Marre è in  mezzo della batcaglia, la Diſcordia, e Bellona, ed in aria ſtanno le Furie. Tutto ciò è ſotto la fi. gura del Campidoglio o nella parte ſuperior dell'ovale, men tre a'lari ſono le navi ſchierate. Nella parte inferiore vi fo no le navi di Cleopatra che fuggono ſpinte dal vento Japiga, che ſoffia dal capo di Salentino; non lungi è la figura del Nilo, che allargà la veſte, e chiama i vinci a ricovrarli ne? ſuoi naſcondigli: egli è d' una figura giganteſca appoggiato ſull'urna che verſa i ſette fiumi nel mediterraneo, nel reſto dello ſpazio ſi diffonde il mare coi delfini che ſcherzano. Le figure di quello ſpazio ſono maggiori per la ragione ſopraccen nata, ed è maggiore lo ſpazio ſteſſo. Nello ſpazio ſegnato 4. vi ſono eſpreſli i tre trionfi d'Au guſto. Egli trionfo, dice Svetonio, in tre giorni l'uno dietro all'alcro; la prima volta per la vistoria Dalmacica, la ſecon da 4 182 1 da per l'Aziaca, e la terza per l'Aleſſandrina. Dione Caffio particolareggia i trionfi. Trionfo Ceſare, dic'egli, il primo giorno de' popoli Pannoni, Dalmatini, Japidi, ed altri loro circonvicini, e d'alcuni popoli della Gallia e della Germania ancora, perciocchè Cajo Carina avea già vinti e ſoggiogati i Morini e gli alıri popoli appreſſo, che nella ribellione da lo. Fo fatta gli erano ſtati compagni, ed oltre ciò avea dato una rolta a'Svevi, ed a quelli che aveano già paſſato il Reno; laonde ed egli e Ceſare feco rappreſentò il Trionfo percioc chè la vittoria folevaſi attribuire ſempre all'Imperatore, e l' Imperatore era Ceſare, è teneva in mano il governo di tut, 10. Il ſecondo giorno Ceſare rappreſentò il Trionfo della bat taglia fatta al promontorio d' Azio nel mare. Il terzo poi dell'Egitto ſoggiogato. Le ſpoglie in queſte guerre acquiftare furono baſtanti ad ornar tutto l'apparato di que' Trionfi; quel. Je però d'Egitto avvanzavano di gran lunga curti gli aliri ap parati d'ornamenti di ricchezza e di rarità; tra l'altre coſe vi fi vedea Cleopatra fteſa ſopra una colore in alto di morire, onde in un cerio modo queſta Reina era condotta in trionfo cogli altri prigioni, tra'quali v'era Aleſſandro ſuo figliuolo, e Cleopatra fua figliuola chiamati da lei col nome del Sole e della Luna. Gl’interpreti fi vanno inutilmente affaricando a cercar le ragioni della qualità de'prigioni, e particolarmente perchè ne' cocchi ſi vedeſſe l'imagine dell' Eufrate e dell’A. raſſe fiumi dell'Armenia e della Meſopotamia non conquiſtati da Auguſto. Il P. Arduino nelle ſue rifleſioni fopra Virgilio non ritrovando queſte vittorie d'Auguſto ne trae degli argo menti diſavantaggioſi all'Eneide. Io non perderò inutilmente il tempo a riſpondergli in particolare. Ciò che poſſo dire a coloro che ammettono l'autorità di Dion Callio, è far loro oſſervare, che Antonio dopo aver chiamara Cleopatra Reina dei Re, Ceſarione Re dei Re, ed aggiunto alla loro giuriſdi. zione l’Egico, donò la Siria a Tolomeo, e lutte le Provin cie di quà dall'Eufrate fino all'Elleſponto; donò l'Africa fino alla Cirenaica a Cleopatra, ed al fratello di coſtoro chiama to Aleflandro dond l'Armenia con tutto il rimanente del pae fe al di là dell'Eufrate Gno all'Indie. Or non è verifimile che Auguſto da cutti queſti Paeſi fcieglieſſe de' prigioni, che egli doveva aver fatti o nella battaglia d'Azio, o nella ſcon fiila data ad Antonio in Aleſſandria? Quanto al Reno, Agrip pa l'avea paſſato nel 717. nė fi curò del Trionfo, ma egli è pro. 183 probabile che Auguſto voleſſe che Agrippa trionfare ſeco co me Cajo Carina. Non v'era. ſegno d'amicizia e d'onore che non gli deſſe, perciocchè oltre la corona roſtrata, con cui lo fregið dopo aver vinto Seſto Pompeo in Sicilia, volea ch'egli avelle una cenda e l'altre inſegne militari ſimili a quelle dell' Imperatore, e, come dall'Imperatore, da lui ſi prendeſſe il ſegno della milizia, ed egli era in forſe di dargli per moglie Giulia: canto grande, gli diſſe Mecenate, tu faceſti Agrippa, che o biſogna ucciderlo, o ch'egli ſia tuo Genero. Dopo il Trionfo Auguſto inalzò molti Tempj; uno ad A. pollo ſecondo Svetonio ſul monte Palarino, al quale aggiun ſe una Loggia con una Biblioteca Greci e Latina; un altro ne edificò a Marte vendicatore per il voto fatto nella guerra contro Bruto e Caſſio per vendicare il Padre, ed un altro a Giove Tonante nel Campidoglio. Secondo Dione egli ancora conſecrò il Tempio di Minerva, ornò il Tempio di Giulio ſuo Padre ſoſpendendovi molti e molti doni della preda por tata d'Egitco, e molti ne conſecrò ed offerſe a Giove Capi. tolino, a Giunone, a Minerva. Non è da traſcurare che po fe l'imagine della vittoria ſecondo Dione nel Tempio di Mi nerva, e ſecondo Plinio nel Tempio del Padre Celare, il qua le era nel Foro; aggiunge Plinio, che vi poſe ancora i Ca ſtori che forſe ſimboleggiavano Auguſto ed Agrippa, nel pri mo libro aſſomigliati da Virgilio a Romolo ed a Remo, come interpreta Servio. Poſe ancora Augufto nel foro due quadri, uno della guerra, e l'altro del Trionfo; e s’io non m'ingan doveano queſti rappreſentare coſe alluſive alla battaglia d' Azio, ed ai trionfi dello ſteſſo Ceſare. Comunque la coſa ſia, ove è il centro dello Scudo che è la parte più alta, io pongo la Cupola del Tempio d'Apollo, alle cui porte Augufto affig ge le corone d'oro che erano i doni offertigli da’ Popoli dalle Provincie confederate. Tutto all'intorno vi ſono le are e gl’incenſi colle vittime, e quindi la pompa e la lecizia del trionfo. In quel giorno che Auguſto entrò in Roma, dice Dio ne, gli fu conceduto un Arco nella Piazza di Roma, e in o nor di lui li celebrarono i giuochi quinquennali, e gli anda rono incontro le Vergini Veítali, il Senaco ed il Popolo, colle mogli, e il figliuoli: mi par ſoverchio (ſoggiunge Dio. ne ) di raccontar i voti e le imagini ed altre coſe fatte per lui · La pompa del Trionfo conſiſte ne' prigioni Nomadi, o Numidi, Affricani, Lelegi, Cari popoli dell'Alia minore Ge no, e 184 Geloni ſpezie di Sciti, Morini popoli della Gallia Belgicà fi tuati verſo l' Oceano Britannico. Tra queſti vi ſono molti cocchi colle imagini dell'Eufrate, del Reno, e dell'Araffe col ponte che Auguſto vi fabbricò. Tali ſono i baſli rilievi e le figure di tutto lo Scudo; elle s'ingrandiſcono a proporzione ch'egli ſi va rilevando, e le miniature devono render ſenſi bili i colori di cui ſono in Virgilio dipinte. I colori domi nanti ſono il giallo e il bianco che rappreſentano l' acciajo ed il rame. Marte però deve eſſer dipinto con un colore fer rigno, o fia di ferro, non raffinato in acciajo; diverſi ſono i gradi de colori o floridi od auſteri che biſogna lumeggiare ed onibreggiare; ma ſopra tutto convien dar alle figure lo ſplen dore, o ſia quel grado vigoroſo di colore di cui s'è parlato. Spiegato in queſta maniera ciò che concerne la parte ma teriale e ſtorica dello Scudo, egli è tempo di ragionare delle relazioni che le figure hanno ad Auguſto, al quale tutto il Poema è diretto, come a lungo eſpoſi nell'altra diſſertazione. Biſogna quì ricordarſi che l'adulazione, ingegnoſiſlima nelle fue compiacenze, or impiega le lodi dirette e manifeſte, or l'indirette ed occulte, ſecondo che l'une e l'altre per le cir coſtanze fono più grate a colui che fi loda. Lodar Augufto per la ſua ſtirpe, lodarlo per la vittoria che gli diede l'Imperio, e per i tre trionfi, ne' quali fece tanto riſplender la ſua pietà, erano lodi che Auguſto fonima mente defiderava che ſi pubblicaſſero, onde eſſo poteſſe ritrar: ne più venerazione ed ubbidienza. Conviene a parte a parte moſtrarlo. Giulio Ceſare nel far l'Orazione funebre in lode di Giulia ſua Zia: La firpe materna, diſſe, di Giulia mia Zia ha origi ne dai Re, é la paterna è congiunta cogli Dei immortali, im perciocchè da Anco Marzio derivano i Re Marxj del cui nom fu mia Madre, da Venere i Giulj della cui gente è la noſtra Fa miglia. Trovaſ dunque nel ceppo antico della caſa noſtra la fantità dei Re la quale appreſſo gli Uomini è di grandiflima autorità e la Religione degli Dii nella podeſtà de' quali ſono el Re. Sin quì Svetonio. Non potea dunque che molto pia. cere ad Augufto che Virgilio noftraſſe e nel primo enel ſe fto e nell'ottavo che nella ſua genealogia verano i Re, gli Dei, e gli Eroi. Virgilio dice nel primo libro: il giovine A ſcanio che porta oggidiil cognome di Giulio e che ſi chiamava Ilo, mentre Ilio era in piedi, governerà Lavinio per trent'anni 1 in. 185 intieri etraſporterà la sede del Regno in Alba lunga di cui faa rà una forte Città. Nel feſto egli dice: uſcirà dal ſangue Tro jano miſto all' Italico Silvio ſuo figlio poſtumo che perpetuerd in Alba il ſuo nome, e ſarà egli fello Re e padre di molti Re,. per lui la noſtra ftirpe dominerà in Alba. Virgilio ſcaltro nul la parla delle guerre che ſecondo Dionigi d'Alicarnaſſo vi fu rono tra Giulio figliuolo d'Aſcanio e Silvio, e molto meno che per i ſuffragj del popolo ſi deſſe a Silvio il Regno che apparteneva a ſua madre, ea Giulio per contentarlo la fo vranità ſulle coſe della Religione, per cui, ſoggiunge Dionigi, la Famiglia Giulia ha goduto fin al mio tempo del ſovrano Pontificato, e s'è chiamata Giulia a cagion d' Julo da cui u ſciva. Io non so accordar queſto paſſo di Dionigi d'Alicarnaſ ſo con quell'altro di Plutarco e di Svetonio, ove ſi vede che Giulio Ceſare non per dricco di ſangue, ma per i ſuffragidel popolo in competenza di Catulo ottenne il ſommo Pontifica to. Laſciando cid, baſta quì oſſervare, che Virgilio confonde Aſcanio con Silvio figliuolo di Lavinia e gli altri diſcendenci da lui, poichè dice, che v'era ſcolpita tutta la ftirpe d'Enea cominciando da Aſcanio. Io così interpreto quel Ab Aſcanio. Di tutti queſti Re e di queſti Eroi Virgilio nefa come del le imagini trionfali, che pone nell'orlo del ſuo Scudo, come negli atrj delle caſe de' Romani ſi poncano le imagini degli Avi loro, ſulle quali Giuvenale e Plinio fanno sì gravi riflet fioni intorno al biasmo ed alla lode de' diſcendenti. Ciò ba fi intorno la lode manifeſta della ftirpe d'Auguſto. Palliamo alle lodi indirette. Nelle medaglie, ove fi legge Reft. o reſtitui, ſi vede l'ima. gine o d'un Bruto, o d'un Coclite, o della libertà, o d'al tre coſe alluſive alle azioni celebri de' Romani antichi, che gl' Imperatori Romani aveano imitate o reftituite. Il P. Ar duino vuole che queſte allegorie nelle medaglie cominciaſſero ſotto Tito, di cui ſi contano fino 22. medaglie di queſta ſpe. zie e terminaſſero ſotto Trajano, di cui ſe ne contano 24. ma non, perchè queſte medaglie non ci reſtino, ſi può dedur che ſotto gli altri Imperatori e particolarmente ſottoAuguſto, che vantavafi d'effere il difenſore della libertà del Senato e dei popolo, l'adulazione non aveſſe inventate l'allegoric; certo è almeno, che con queſt'ipoteſi ſi rileva il ſenſo del ratto del. le Sabine, e della pace ira Tazio e Romolo. Prima che Planco determinaffe il Senato a dar ad Occavio Tomo II. il 186 9 il nome d'Auguſto, molti volcano che ſi chiamafle Romolo. In fatti Auguſto l'imicava non ſolo nella fondazione d'un nuovo Impero, ma ancora in molte circoſtanze della ftella fon dazione. Come Romolo col ratto delle Sabine avea provvedu to al mantenimento della Città, così Auguito con la legge di maricar gli ordini che Orazio chiama legge Marita; due ne fece Auguſto., la prima nell' anno 736. e ſi chiamava legge Giulia, e l'altra dell'anno 762. e li chiamava legge Popea perchè fatta ſotto i Conſoli Sulpizio e Popeo. Con queſte leg. gi fi rinovarono l'antiche rammemorate da Cicerone e da Aulo Gellio, e Dion Caſſio merte in bocca d'Auguſto una lunga arringa su queſta materia al Senato, nella quale dopo d'aver cogli eſempj delle nozze degli Dei eſaltato il vantaggio e la giocondità de'figli, l'utile della Repubblica, e il biasmo di viver ſenza moglie, gli fa dire: Romolo autor noftro, e da cui diſcendiamo, non li ſdegnerà con tagione conſiderando il fuo naſcimento e i coftumi introdotti? Orazio nel Carme ſecolare lodando per queſta legge il Se nato obliquamente loda Auguſto; ma Virgilio nella lode obli. qua involge l'argomento del minore al maggiore come s'egli diceffe: fe tanta obbligazione hanno i Romani a Romolo che con una violenza provvide al mantenimento della Città, mol to maggior obbligazione i Romani hanno ad Auguſto che ſen. za danno de' vicini vi provvide con una legge si ſaggia. Romolo dopo le guerre con Tazio ai rapacificò ſolennemen. te con lui, e diviſe feco il Regno; ed Auguſto dopo molte guerre con Marcantonio conciliatoſi ſeco per l'opera de' co muni amici diviſe l'Impero, del quale il termine ſecondo Plu tarco era il Mar Jonio. Tutta la parte, dic'egli, verfo Levan te fu conceſſa ad Antonio, e l'alira verſo Occidente a Ceſare. Pegno della pace fu Ottavia maritata ad Antonio, e certamente ella è rappreſeatata nella vittima che ſi ſcanna nella ceremo nia del giuramento tra Romolo e Tazio: ne deve far difficol tà il noine della vittima, poichè tutto ciò che li confacrava agli Dei era fanto, e la Scrofa è ſtata ad Enea d'indizio del paeſe che ricercava. La pittura di Mezio non è meno allegorica; egli tradi Tul lo Oſtilio come Antonio tradì la Repubblica, e tradi Ottavio con la guerra che all'uno ed all'altra intimo per far piacere a Cleopatra. Mezio ne fu ſquarciato a viſta di Tullo; ed An. tonio fu coſtretto a darſi la morte quafi agli occhi d'Augufto. An 187 Antonio mentre s'incamminava al ſepolcro ove s'era rinchiuſa Cleopatra, andava verſando il ſangue per le Atrade come ap punto il corpo di Mezio per la ſelva. Non ſi potevano eſpri mer da Virgilio coſe sì delicate che in un quadro allegorico, Due volie, dice Svetonio, entrò Auguſto in Roma vitto rioſo e ſenza trionfare, una, poichè egli ebbe vinto Bruto e Caffio ne'campi Filippici, l'altra avendo vioto Seſto Pompeo in Sicilia; il che moftra, qual foſſe la modeſtia politica d ' Auguſto; queſta ſteſſa egli usò con Marcantonio del quale e gli non crionfo, ma di Cleopatra, come ſi può raccoglier dal Trionfo deſcrito da Dion Callio. Egli ſollevò i figliuoli d' Antonio alle prime dignità, nè col moſtrar odio e vendetta con Antonio dopo ch'egli era morto voleva offender Octavia a cui era ſempre grata la memoria del marito. Orazio e Vir gilio ben ſapendolo non mai parlarono di Marcantonio ſc non mettendolo in compagnia di Cleopatra su cui fecero ca der l'odio e la colpa; ma nel tempo ſteſſo, conoſcendo forſe che Auguſto ſi compiaceva, che negli animi de' Romani non ſi ſmarriſſero l'idee di quanto avea fatto contra Marcantonio per la finta difeſa della libertà, eſli procurarono di maſcherar ne l'azioni con l'allegoria, della quale Auguſto poteva abba ſtanza intenderne il ſenſo, e non offenderſi i partigiani d'An tonio per le varie interpretazioni che poteano darle. Nelle mie note su l’Odi d'Orazio io ſpiego con ciò molte coſe in intelligibili ſenza queſta ſuppoſizione, nè ſarà diſcaro che ne moſtri l'uſo nelle ſtorie di Porſenna e di Manlio ſcolpite da Virgilio nella ſeconda ovale dello Scudo. Porſenna voleva riſtabilire in Roma la tirannia traſportan dovi i Tarquinj, e nonmeno Antonio voleva riſtabilirla tra ſportandovi Cleopatra. Se Antonio, dice Dione, foſſe ſtato ſuperiore e ſignore del tutto, era per dare a Cleopatra la Cit tà di Roma; è poco dopo ſoggiunge, che Cleopatra era venu ta in ſperanza d'acquiſtar l'Impero Romano, e che quando al cuno le dimandava giuſtizia, ella riſpondeva che gliela fareb be in Campidoglio:al che pur allude Orazio nell'Ode 37. l. 1. dicendo ch'ella era ebbra di folli ſperanze non meno che di vino mareorico. Io non so ſe troppo raffini nel ritrovar in Clelia che ſi falva a nuoto, Ottavia che al dir di Plutarco eſce precipitoſamente dalla caſa d'Antonio; ma certamente Coclite che rompe il ponte è un ſimbolo d'Agrippa che con la vittoria navale interrompe l'avvanzamento d'Antonio. AQ 2 Tito 188 Tito Manlio è difenſore della libertà del Campidoglio con tra i Galli, come Antonio fu difenſore della preteſa libertà contra Caſſio e Bruto e gli altri nimici di Giulio Ceſare. Non mancarono, dice Plinio, i fregi delle coſe militari in Manlio Capitolino, ſe non gli aveſſe perduti nell'eſito della vita; e Tito Livio ſoggiunge, che lo ſteſſo luogo nell'Uomo ſteſſo fu un monumento e d'inſigne gloria e di ultima pena. Anto nio difeſe il popolo Romano ne' Campi Filippici, e il popo lo Romano in Azio ed in Aleſſandria l' inſeguì e fu cagione della ſua morte. I Salj ed i Luperci eſultano, e le matrone ne loro cocchi agiati conducono le coſe ſacre per la Città per dimoſtrare che non ſono ammeſſe in Roma le ſuperſtizio ni Egiziache, abborrite eſtremamente da' Romani ne'cempi d ' Auguſto e di Tiberio. Catilina tormentato nell' Inferno non moſtra egli le pene dovute a Marcantonio? e per la ragion de contrarj quante lo di meritava Auguſto per la ſalvata libertà? In grazia di que fta ſoffriva Augufto che fi lodaſſe Catone Uticenſe. Orazio nell’Ode 12. c. 1. lo mette tra gli Eroi di Roma. Loderò di Caton la nobil morte? Il P. Catrou pretende, che il Catone che negli Elisj dello Scudo dà legge agli ſpiriti, non fia altrimenti Catune Uricen ſe, ch'era troppo odioſo a'Ceſari, ma Catone il Cenſore, di cui dice Seneca, che tanto giovo co'ſuoi coſtumi al popolo Romano, quanto Scipione colle ſue guerre. Il P. della Rue é per il Carone Uticenſe, ma non ne aſſegna la ragione, la quale è manifefta, ſe ſi riflette al paſſo di Taciro da me nell' alıra diſſertazione addotto e che qui ancora ſoggiongo, perchè cgli moſtra quanto Ottavio fi vantafle, come Cromuello fece a' noſtri tempi, di paſſar per difenſore della pubblica libertà. Tito Livio (così fa dir Tacito a Cremuzio Cordo in Senato ) chiariffimo tra tutti gli Scrittori e per eloquenza e per fedel tà, celebrò con tante lodiGnco Pompeo che Auguſto lo chia mava Pompejano, nè perciò gli fu meno amico. Nelle Opere di Aſinio Pollione (cui Virgilio dedicò l'Egloga terza ) li fa onoratiflima memoria di Callio e Bruto: Meffala Corvino pre dicava Caffio per ſuo Imperatore, e l'uno e l'altro viſſero lun. gamente pieni di ricchezze e d'onori, ed Auguſto, non ſi sa le con maggior lode di manſuetudine o di prudenza, laſciò 1 cor 189 correr le lettere d'Antonio, e l'orazioni di Bruto, che molto lo diſonoravano; nel che forſe volle imitar Ceſare Dittatore che tollerò i verſi di Bibaculo e di Catullo, ed al libro di Marco Cicerone nel quale s' inalza Catone al Cielo, riſpoſe perorando come ſe foſse avanti i Giudici. Con queſto paſſo di Tacito ſi può dar la ragione per la quale Virgilio ed Ora zio non temerono, dedicando l'Opere loro ad Auguſto, di no. minar Giunio Bruto, Marco Bruto, e Callio, Catone, e Pom peo. Maquale ſcaltrezza cortigianeſca v'è in Virgilio nell' introdur Catone a dar legge agli ſpiriti? Par, ch'egli accen ni, che Carone meritava ſolamente grado in quella Repubbli ca ideale di Platone, la quale ſecondo Cicerone egli cercava nella feccia di Romolo. Ed ecco ciò che dovea dirſi intorno alle lodi indirette ed allegoriche. Le figure del quarto e del quinto ſpazio contengono lodi di rette, perchè cuite ripiene delle coſe di cui si compiaceva Auguſto che i Romani continuamente acclamaffero. Egli ſteſ ſo, come ſi diffe, avea nel Foro di Ceſare conſecrata l'ima gine della battaglia, e del Trionfo, nè io dubito punto che Virgilio ne aveſſe eſpreſli i tratti della pittura nello Scudo in quella guila, che nel primo libro nel rappreſentar il Furore alliſo ſopra i trofei e con le mani annodate al tergo imita la pittura ch'era nel Tempio di Giano. Tutto poi nella deſcrizione e della battaglia, e del Trion fo, è diretto alla lode d'Auguſto. Nella battaglia, Auguſto è coi Padri, col Popolo, coi Penati, e co'magni Dei, ed ha in fronte la ſtella paterna; ciò ſignifica, che la guerra era in trapreſa per la libertà del Popolo, del Senato e coll'alliſtenza di Giulio Ceſare già Deificato. All'incontro Antonio non ha ſeco che de' Barbari, ed un'effeminata Reina; Auguſto è di feſo da Venere genitrice, da Minerva, e da Apollo, Dei del la prudenza e del conſiglio, e da Nettuno, che gli era ſtato favorevole nelle guerre in Sicilia contro Seſto. All'incontro Antonio non ha ſeco che Dei moſtruoſi ed odiati da' Romani. Quanto cgli deſcrive più feroce la pugna, tanto maggior mente eſalta il valore d'Auguſto e d' Agrippa, ch'egli ſempre accompagna per le ragioni di ſopra accennate. Le Furie e la Diſcordia con Bellona liriferiſcono a Cleo patra; ma qual mai v'è ſagacità poetica nell'accennare la fu ga e la morte di queſta Reina? Mentre ella ſuona il filtro non vede i due ſerpi che la minacciano alle ſpalle; ella con fida iyo fida in vano nelle forze dell'Egitto, e in vano tenta di rifu. giarſi nelle più occulte ſpiagge delNilo. Tutto allude al.con higlio ed alle azioni di Cleopatra. Perchè poi Virgilio non nc introducefle nel Trionfo l'effigie, e tra i prigioni non poneſ ſe i figliuoli di lei, la cagione n'è forſe ſtata il timore d'ec citar nell'animo altrui con queſte imagini qualche grado di ammirazione e di compaffione, e perciò ſcemar in parte la lode d'Auguſto, e tra l'altre quella della pietà. Ne'gran Poe. ti biſogna egualmente riflettere e a quel che dicono e a quel che tacciono, onde molto male s'argomenta dalla Poeſia alla Storia, e dalla Storia alla Poeſia, quando non s'attende al fi ne a cui tutto vuol accomodare il Poeta. Il fine delle figure ſcolpite nei vari ſpazi dello Scudo ha relazione al fine gene rale dell'Eneide. Le figuredel ſecondo ſpazio riguardano il ſenno d'Auguſto, le figure del terzo il valore, le figure del quarto riguardano la ſua pierà. Queſte ſono le tre virtù do. minanti dell'Eneide. Dionigi d'Alicarnaſlo, che ſcriveva nel tempo d'Augufto, le ſtabiliſce come neceſſarie ai fondatori d ' un Impero, e Virgilio vi fabbrica ſovra l'Eneide. Molte altre coſe io potrei addurre intorno l'artifizio poeti. €0, la chiarezza, e la brevità, colla quale Virgilio in sì po chi verſi eſprime tante coſe, nè mai per oftentazione o d’in. gegno o di dottrina o d'erudizione, maſempre relativamente al diſſegno del tutto e delle parti, ciò che deve ſervire a' Poe. ti moderni di precetto e d'eſempio.  atentat nesatentratata L A ſecca della Filoſofia Italica fondata da Pitcagora ebbe nome e ſede nella Magna Grecia, tra le cui Provincie fu per l'eccellenza de'Filoſofi, che vi fiorirono, celebre la Lucania, ed in queſta la Città di Velia, o d'Elea così denomi nata dal fiume che l'irrigava. Quivi Senofane di Colofone, Cit tà della Jonia nell'Alia minore, ſtabilì e perfezionò la fecta, che dalla Città d'Elea fi diffe Eleacica, e meritò d'avere tra gli al tri diſcepoli Parmenide nato di Pireto, e quel Filoſofo grave e venerabile, che con Zenone paſsò in Atene, ove tenne la con ferenza con Socrate eſpreſſa in queſto Dialogo. Ora avendomi propoſto io d'illuſtrarlo nella ſua parte ſtori ca e Filoſofica, credo diſoddisfar quanto baſta al mio impegno ſe prima tento d'accordar l'erà controverſa dei tre Filoſofi nomi nati, indi ſe della dottrina Eleatica ſpiego l'origine e l'effetto, o la Filoſofia Pittagorica, e la Platonica; finalmente ſe mi fer punto che Platone in queſto Dialogo n'eſpoſe, e dichiaro l'artifizio filoſofico, e poetico dello ſteſſo Dialogo. lo difli, che Senofane ftabili, e perfezionò la ſecca Eleacica perchè Platone dice nel Sofiſta, la gente d ' Elea incomincia appref ſo di noi da Senofane, anzi da più antichi, i quali non poteano eller che Talete, o Pittagora, oi difcepoli loro; non regnando, allora alıra Filoſofia nella Grecia, ſe non l'introdotta dai due fondatori, o profeſſata da i loro allievi. Alcuni però fecero Se nofane poſteriore a Talete, ma più antico di Pittagora, nè fo dove prendeſſero le loro congetture cronologiche, alle quali oltre l'autorità di Platone, s'oppongono le ſcoperte dei due Fi loſofi, e i viaggi loro. Taletecalcolo il primo l' eccliſli lunari, ma come poteva egli calcolarle ſenza conoſcere la propolizione, che Euclide poi fe ce la 47 del primo libro degli Elementi, e di cui s'aſcrive or dinariamente l'invenzione a Pitcagora? I calcoli aſtronomici ſo mo ſul. no (4 ) no dedotti da trigonometrici, principio de' quali è il triangolo rettangolo miſura diſe ſteſſo, e de gli altri triangoli. Pittagora dunque, che l'invento, o fu contemporaneo di Talete, o fiori prima di lui., Io credei, che queſta foſſe una dimoſtrazione in cronologia, finchè in Plutarco (a ) ritrovai che gli Egizj ſimboleggiavano co? tre lati del triangolo rettangolo miſurati da 3, 4, e s le loro principali divinità Ilide, Oliride, ed Oro; aſſegnando ad Oſiri de la perpendicolare, la baſe ad Ilide, e ad Oro l'ipotenuſa; L'antichità del ſimbolo manifeſta quella della cognizione, tan to più che gli Egizi coltivarono l' aſtronomia da poi che eb bero inventato la geometria per miſurare i terreni, e non par veriſimile, che ſenza conoſcere il triangolo rettangolo, il pri mo e il più facile ad immaginarſi de gli altri, poteſſero riu ſcire nella pratica di queſte due ſcienze. V'aggiungo, che fe condo Platone (6.) noci erano, agli Egizi gl' incomenlurabili, la prima idea de' quali naſce dall' impoſſibilità di eſtrar la radice dal quadrato dell'ipotenuſa del triangolo; I lati del retcangolo Pitta gorico ſono i numeri accennati, e queſta è la prova che dagli E giz lo toglieſſe Pittagora, e nello ſteſſo tempo o poco prima l' aveſſe colto Talete, benchè poi Talete ſi contentaffe di moſtrare all'Aſia minore l'ulo aſtronomico della propoſizione, e Pictagora ne deſſe alla Magna Grecia la dimoſtrazione Geometrica, ed è forſe quella regiſtrata da Euclide nel primo libro diverſa dalla 8 del libro 6 dedotta dalle proporzioni delle linee, e che nel progreſſo del tempo Eudoffo, che fiori nel tempo di Placone, portò dall' Egitto col s elemento. Or fe i gradi delle cognizioni dello fpirito umano ſono fema pre gli ftefli, dall'analogie dell' Epoche moderne ſi poſſono de durre le antiche, e particolarmente quelle che hanno relazione agl'inventori de' principjmatematici. Nel paſſato ſecolo ſi trova prima dal Toricelli la Cicloide, e l' Ugenio l'applicò a regola re il moto dell'orologio a pendulo; il Newtono fi limitò all'altrace ta Teoria della luna, e l' Hallejo l'applico a correggere le Tavo le aſtronomiche. La ſeconda congettura della contemporaneità di Pitragora, e di Talete, ſi prende da coſe più facili. Vuol Jamblico, che Ta lete ſcriveſſe una lettera a Ferecide maeſtro di Pittagora, e gli legaſſe certi fcritti morendo, e par che Plinio convenga che i due Filoſofi foſſero ſtati in Egitto al tempo che regnava il Re Amaſi. La queſtione non cade più dunque ne ſu tutto il ſecolo, ne (a) Trattato d'Ilide, ed Oſiride. (6 ) Nella Rep. e nelle leggi. (5 ) 1 4 ne ful mezzo ſecolo, ma su l'età dell'uno e dell'altro di pochi anni diſtante; Talete par più vecchio ſe ſcriſſeuna lettera al maeſtro di Pittagora, machi sa poi ſe Pitragora non era allora in Egitto? queſta lieve differenza non toglie però, che ſe Talete' fu più d'un ſecoloprima di Senofane, non lo foſſe ancora Pittagora: Io ritrovo bensì, che Senofane era contemporanco d'Epicar mo, e diEmpedocle. Secondo Timeo lo Storico, Senofane paſsò in Sicilia al tempo di Gerone, ſotto il cui Regno Epicarmo era illuſtre per le ſue commedie, e Plutarco (a) ci conſervò la memo ' ia d'una riſpoſta, che diede Senofane ad Empedocle. Non è facile il determinare, nè qui lo cerco, quanto Epicar mo, ed Empedocle foſſero diſtanti da Pittagora, e quindidà Ar chita Tarentino il vecchio, da Peritione, da Timeo di Locri, da Ocello Lucano, e da altri, che ſi dimandavano Piccagorei (6 ) perchè udirono Pittagora, a differenza deglialtri, che ſi chiamava no Pittagoriſti. Quando cominciò Senofane a ſtudiar la Filoſofia, quella di Ta lete era già diffuſa nella Jonia, e quella di Pittagora nella Magna Grecia,e nella Sicilia; su queſto fondamento altri fecero Seno fane diſcepolo di Anaſimandro, ed altri di Archelao diſcepolo di Anafagora, il quale avea il primo traſportata la Filoſofia dalla Jonia in Atene, ove paffato Senofane ftudiò ſotto (c ) un certo Bottone Ateniere. Dalla povertà cacciato Senofane dalla Grecia, paſsò nella Sici lia e quà s'abbandono alle doctrine Pittagoriche, più delle Joniche conformi all'ingegno di lui acre, e profondo. Dalla Filoſofia Jo nica, e dall' Italica traſſe un nuovo liftema, è meritò ď' effer ca po della ſecta Eleatica primo fonte dell'Accademica, e della Pla tonica, delle quali poi furono rami lo ſcetticismo, e lo ſtoicismo, Nulla ancora s'è fatto, ſe non ſi dimoſtra accordarſi l'ecà di Senofane con quella di Parmenide, e queſta con quella di Socra te. Tralaſciare dunque molte epoche inverifimili, io m'arreſto a quella che aſſegna Timeo a Senofane, ed è che egli fiorille nell'olimpiade 76. Parmenide, ſecondo Laerzio ſeguito dallo Stan lejo, e da altri, fiorì nell' olimpiade 69 diſtante dalla 76 di 7 olimpiadi, che importano 28 anni, calcolando ogni olimpiade per 4 anni compiuti. La voce fiorire è molto vaga o ſteľa nel la Cronologia, perchè non ſempre moſtra, che un Filoſofo fof ſe nel punto più alto della ſua fama, ma che ſolo aveſſe un no meilluſtreacquiſtato. Il Newtono, che cosi rapidamente ſi per fezionò nelle matematiche, fioria del pari in Inghilterra nel 1662 quando ſcriſſe al Leibnizio la lettera in cui gli dichiarava lo ſvi luppo, (a ) Plut. de vit.pud. (6) Patr. diſcuſs. prop. 1. 6. (c) Laerzio vit.di Sen. (6 ) 3 8 luppo, e l'uſo del Binomio eſaltato ad una potenza indetermi nata, e nell'anno 1716 in cui molte coſe aggiunſe al ſuo libro de' colori, e n'illuſtrò molte altre nei principj naturali della Fi loſofia matematica, Senofane, che lo Scaligero fa vivere 104 an ni, ed altri almeno fino a 100, potea fiorire in olimpiadi mol to diftanti, perchè per la forza della ſua mente facilmente riu fcendo nelle fue applicazioni, in breve acquiſtava fama di lomme Filoſofo, e la ſua fama tanto più ſpargeali per le bocche degli Uomini, quanto egli abbelliva le ſue meditazioni filoſofiche con la Poelia per farle ricercare, e leggere con più d'avidità. Parmenide fece i ſuoi ftudi in Elea (a ) ſotto Amenia, e Dio cheta Pictagorici, i quali lo riduſſero a laſciar le ricchezze, ecol tivar la vita privata, e darſi tutto alla Filoſofia. Biſogna dun que che in eſſa molto riuſciſſe, o la Filoſofia foſſe la paſſione, che più lo dominava, ſe nato de' più ricchi, e de’più nobili di Elea ebbe tale coraggio; ma ciò molto applauſo dovea avergli acquiſtato appreſſo de'ſuoi Cittadini, ſe fin d'allora cominciarono a celebrarlo in guiſa, che al dir di Ermipo Empedocle l'emuld. Nulla vieta il ſupporre, che Empedocle avelTe molto ſoggiornato in Elea, e poi foſſe ritornato in Agrigento ſua Patria. In Elea era ſtato emulator di Parmenide doctiſſimo nelPittagoriſmo, e lo fu in Sicilia di Senofane, che lo profeſſava con qualche cangiamento', dopo gli anni 28 che è l'intervallo frappoſto tra l'olimpiade 69 e 76. Paſso Senofane in Elea, ed ivi Parmenide conſecrato agli ſtudi corſe ad udir Senofane, come i giovani nobili, e ben educati ſo leano far nella Grecia, quando nelle loro Circà udiano entrar un Filoſofo illuſtre, e che potea inſtruirli in qualche nuovo liſte ma, del che chiari gli eſempi ne vediamo nel Protagora, nelGor gia, ed in altri Dialoghi di Platone. Quando Parmenide udi Se nofane, queſti poteva eſfer molto vecchio; ma qualunque età dia ſi a Senofane, mi baſta, che nel pricipio dell' olimpiade 76Parme nide imparaſſe da lui il fiſtema dell'uno immobile, e non aveſſe allora che 36, e ancor 40 anni, la ſteſſa età che avea Zenone quando diſputò con Socrate in Acene. Socrate nacque al fine dell'olimpiade 77, ed avea 4 anni com piuti o 5 anni cominciati, quando nella noſtra ipoteſi Parmeni de ne avea 40. Se zo anni dopo ſi fuppone, che Parmenide con Ze none paſlaffe da Elea in Atene, come vuol Platone, non avea che 60 anni, e Socrate che 25, onde era egli molto giovane relativa mente a Parmenide. Semplici, e al fommo veriſimili ſono queſte ipoteſi degli ſtudi, 1 e dei (a ) Laerzio vita di Parmenide. 1 (7 ) e dei viaggi dei due Filoſofi, e ſe s'accordano facilmente con le olimpiadi, perchè oftinarſi a rigettarle, e rinunziare all'au corità di Platone, che potea molto meglio al fuo tempo cono fcere l'epoche dell'era filoſofica, che non ſi conobbero 6oo an ni dopo, e ben più? Le circoſtanze, con cui Platone accompagna l'abboccamento di Socrate con Parmenide, accoppiano in guiſa alla verità del fatto la veriſimiglianza ſtorica del Dialogo, che pare non do ver laſciarſi alcun ſoſpetto. Io le eſtrarro dal Dialogo. Parmenide, e Zenone fuo diſcepolo favorito o fuo figlio a dottivo abitavano fuor delle mura di Atene in caſa di un cer to Pitidoro. Nelle ſolennità de grandi Panatenei, itofene So crate a ritrovar Parmenide, ritrovò folo in caſa Zenone, e comia cid a diſputar feco fu l'idee. Entrato poco dopo Parmenide in caſa con Pitidoro, ſi proſeguì la diſputa incominciata alla pre fenza di molti, tra' quali Ariſtotele non lo Stagirita, ma uno dei 30 Governatori, o Tiranni di Atene. Tali ſono le circo ftanze del luogo, del tempo, e dei teſtimoni della diſputa. Socrate non avea allora che 25 anni; or eſſendo egli mor to nell'età di 72 anni, dall'abboccamento alla morte non vi fo no che 47 anni di diſtanza, e tanti appunto o pochi più dall' abboccamento al Dialogo, ſe Platone lo ſcriffe dopo la morte di Socrate: ma poniamo che l' aveſſe compoſto anche 20 anni dopo; la memoria di un Uomo così illuſtre qual era Parmeni de non potea più ignorarli in Atene, di quel s'ignori ora a Parigi la dimora che vi fece il Leibnizio, e l'Ugenio, e le di fpute che ebbero nell' Accademia reale. Alle verilimiglianze ſtoriche s'aggiungono le poetiche necef ſarie all' ornamento del Dialogo, che è una ſpecie di Poeſia Dramatica: così lo teſse Platone.: Cefalo per bocca di Antifone ſuo fratello uterino, e figliuo lo di Pirilampo, racconta ad A dimanto, e Glaucone, tutto ciò che avea udito da Pitidoro fu la diſputa che ebbero Zenone pri ma, e poi Parmenide con Socrate. ' Antifone avea converſaco familiarmente con Pitidoro compagno di Zenone, ma poi laſcia ta la Filoſofia coltivava l'arte equeſtre, e quando Cefalo ad in ſtigazione de' compagni andd a ritrovarlo, egli dava certo fre no ad accomodare ad un fabro; circoſtanza che io credo finta per dar rilievo al racconto, é fiffar la fantaſia del lettore con qualche coſa di ſtrano. Par toſto che Antifone occupato in un volgare eſercizio, non debba favellare ſe non di coſe volgari, nè mai s' aſpetta, che egli ſia per ſalire nell' ultime aſtrazio ni della metafiſica; quindi il lettore reſta ſorpreſo dalla mera viglia (8 ) 1 > e di viglia, allora che egli racconta il principio della diſputa tra So crate e Zenone, e che poi s'interrompe alla venuta di Parme nide, che fattoſi pregar un poco la continua fino al fine. Quan te menzogne, ſe Socrate non parld mai con Parmenide ! All incontro qual arte fina di veriſimiglianza poetica, per dar or namento alla verità del fatto di cuiCefalo, Adimanto, e Glau cone vivendo poteano renderne teſtimonianza? Come immagi narſi, che un Filoſofo il qual volea render accetta la lettura de ſuoi Dialoghi, cominciaſſe a diſguſtar il lettore con bugie le più sfacciate? Ariſtotele, che calunnia il ſuo Maeſtro in tante parti dell'opere ſue fue, e che parld ſovente di Parmenide Socrate non attaccò mai Platone ſul loro abboccamento, e pur ne poteva trar degli argomenti, per renderne la dottrina ſoſpetta. Non ne parlano altri autori Greci più vicini a Platone, non gli autori Latini, che più ſtudiarono i Greci, e tra gli altri Cicerone e Plinio, che tante coſe ci conſervarono fu l' iſtoria ed Era Filoſofica. Non v'è che il ſolo Ateneo il qual viſſe a' tempi di Marco Aurelio, che vuol dir quaſi più di 600 anni dopo Platone. (a ) Egli dice: Appena permette l' età che Socrate aveſe veduto, ed udito Parmenide, non dover però noi meravigliar ſene, perchè Platone ſuppoſe che Fedro vivere al tempo di Socrate; che Paralo, e Zantippo figliuoli di Pericle, e morti nella peſtilenza, ragionaſſero nel Protagora, e che Gorgia diceſſe nel Dialogo del ſuo nome quel che mai s'era fognato di dire. Molte altre accuſe contro Platone vibra Ateneo, e s'affatica a dipingerlo tanto mordace, e maledico quanto bugiardo. Non so perchè i Cronologi attenti a peſare ogni minuzia de'te fti non oſfervino, che Ateneo nel dire vix ætas permittit dichiara, che poco intervallo di tempo v'era ſtato tra la morte di Parme nide, e l'età di Socrate, maqueſto vix qual ha poi forza cronologica poſto in bocca di Guriſconſulti, di Oratori, diPoeti, di Filologi, non di Cronologi, che avrebbono diminuito l'allegrezza del convito coi loro calcoli, e colle lor aſciutte illazioni? Il Calaubono il qual nel ſuo comentario d'Ateneo in un'altro libro in foglio sfoga tanta eru dizione ſu l’erbe, ſu ipeſci, ſui coſtumidel convito, elu mille altre coſe inutiliffime a ſaperli nulla degna di dire ſu le accuſe colle qua li uno dei Dinnoſofiſti morde Platone. Io per me credo, che A teneo vedendoſi incapace d' emulare l'immenſità della dottrina Platonica, e l'arrificioſa maniera con cui l'eſpone Platone ne'ſuoi Dialoghi, teſſe lunga ſerie d'accuſe, e lo condanna di menzogne ro, e maledico per accreditar ſe non altro la veracità, e la mo deſtia colla quale caratterizza i ſuoi Dinnoſofiſti. Il buon Grama cico (a ) Ateneo lib. 14. Sympt, 9 ) tico ne goda egli pure, e ſen ' applauda; non per queſto io crede rò, che Parmenide non poteſſe ragionare con Socrate, e ſtard immobile nelle mie ipoteſi cronologiche, che a ben peſarle non vagliono meno di tante altre, che in queſto ſecolo fi ſpacciano, e fi difendono come i Teoremi diGeometria: Candidamente perd confeſſo, che io farò per ſacrificarle a colui, che all'autorità di Ateneo ne aggiungere qualchealtra più dimoſtrativa, e meno ſo fpecta; finalmente malgrado le congetture eſpoſte io ſon perſua ſo, che ſe Platone tutto finſe, il Dialogo è più ammirabile per la menzogna poetica tutta opera della ſua fantaſia, che non è per la verità del fatto, di cui poteano farſi onore i men dotti. Platone fcriffe in Filoſofia più ditutti gli antichi che lo precede rono, e come da Eraclito le coſe fiſiche, da Socrate le morali, così tolle da' Pittagorici lemetafiſiche, le quali non ſi correffero che nel fecondo ſecolo della Religione, per le varie diſpuce che, nacquero tra iPlatonici, e tra i Criſtiani. Eſaminerò dunque prima d'ogni altra coſa la natura della difpu ta, dopo di cui proporrò generalmente l'antica Filoſofia, ed in di la particolareggierò in Pittagora, e ne'Pittagorici, tra'quali Se nofane e Parmenide, e la terminerò con Platone. A queſte due coſe io riduco l'origine, e l'effetto dell'Eleatiça Filoſofia.. Gli antichi Filoſofi, ſenza eccettuarne nè pur uno, convennero nel principio, che di nulla fi fa nulla, e ciò gl' impedì di poter conoſcere che Dio era un ente ſingolariſlimo, uno, onnipoten re, buono, e libero; in ſomma di tutte quelle perfezioni dotato le quali o per negazione, o per caſualità, o per eminenza gli at tribuirono i SS. Padri, e cuti'i Teologi. Era Dio ſtato ſempre con la materia? Dunque altro non gli competea, che eſſer un modo di efla od un ente, che ſolo per preciſion di ragione dalla materia ſi diſtingueva; era egli per metà uno, per metà onnipotente, fe dipendea da un principio, ſenza il quale operar non potea, non più che il Pitcore dalla tela e dai colori, e lo Scultore dal marmo. La diminuzione della potenza toglieva a Dio la bontà, perchè non poteva egli vincer in guiſa la contumacia della materia, che non regnaſſe a ſuo malgrado il male miſto col bene. Come dunque Mosè per opporſi al politeiſmo del ſuo tempo dalla creazione cominciò la ſtoria del mondo; così per opporſi a tutti gli errori che derivarono dall'eternità della mate ria fi cominciò nel ſimbolo Apoftolico da Dio creatore, inſiſten do al dogma di S. Paolo, il quale nella Epiſtola agli Ebrei: In tendiamo; (a ) dice egli, per la fede eſſere ſtati connelli i ſecoli Tom. II. b dalla (a ) Epiſt. agli Ebrei cap. 11. Fide intelligimus aptata eſſe ſecula ver bo Dei. (10 ) dalla parola di Dio. I Padri nelle loro diſpute co'Gentili lo dichia rarono. Noi, dice Atenagora,Jepariam Diodalla materia, lamateria crediamo un ente diverſo ---- (m ) Dio è uno, ed ingenito, ed eterno; la materia è corruttibile; e poi celebriamo tutti un Dio ſolo crea tore di tutte le coſe. - -.- la fua forza immenſa non poterono abbrac ciar coloro con l'animo, che la notizia di Dio non cercarono nello ſtef fo Dio, ma dentro fe fteſi. Taciano (6 ) pur dice: Dio non s'inſi nua nella materia e negli spiriti materiali e nelle forme, ma egli è artefice inviſibile ed intangibile di tutte le coſe. Teofilo d'Antiochia (c) parlando ad Autolico, dice, ſe Dio è ingenito e la materia è pur tale, non è più Dio fabricatore e creatore di tutte le coſe. Queſti Pa dri viſfero tutti e tre nel ſecondo ſecolo non molto diftanti l' uno dall'altro. Gli errori de' Marcioniti, de' Valentiniani, de' Baſiliani, chefuronopur cutti e tre che in queſto ſecolo diedero occa fione a' Padri d'illuſtrare il lor zelo, dichiarando con la crea zione della materia il principio fondamentale della Religione Criſtiana. Anzi Taciano dimoſtro, che i Greci ne avevano ri cevute l'idee da'Barbari, ed i Barbari dagli Ebrei, benchè poi le aveſſero oſcurate e corrotse. Affaccendati gli altri Padri a purgarle, oſſervarono che Dio, autore del pari della Fede, che della ragione, non le avea ſeparate in un modo caliginoſo ed impenetrabile, ma le avea in maniera accordate, che dall'aurora dell'una fi potea paſſare al pieno giorno dell'altra, cogliendo però dalla ragione quanto e Platonici e Pittagorici e Stoici, ed Epicurei v aveano im preſſo col lor proprio carattere. Si compiacquero dunque della ſetta Eclerica, ed il primo che l'abbracciale fu Atenagora il primo de' Catechiſti d'Aleſſandria, poi S. Clemente ed Origene dal Veſcovo Uezio chiamato Pocamonico (d ) anzichè Platoni ço, San Clemente ſpinſe tant'oltre la condiſcendenza, che pro poſe come poflibile un ſiſtema filoſofico, il quale raccoglieſſe tut te le verità ſcoperte dalla ragione umana fin dal principio del mondo, ed agevolaſſe il metodo di far ricever i dogmi della fede, e quello della creazione. Amonio Sacca conciliator di Ariſtotele e di Platone, ritrovando che in Ariſtotele l' eternità del mondo ſi conciliava con l'eter nità di Dio, ſe ben egli nulla ſcriveſſe, laſcid tuttavia a' ſuoi diſcepoli, onde ſtabilire tal dogma. Diſtinſe egli l' eternica in due gradi o in due ſegni, nell' uno dei quali poneva Dio, nell'altro le coſe bensì create, ma da lui dipendenti, come il raggio dalSole, o l'ombra dal corpo. S'accorſero i Padri, che iFi (a ) Apologia pro Chriftianis. (6) Tat. allir, cont. Græc. (c ) Teof. Aut, lib. 2. (d ) Iftor. del Moeffenio nel finedelCuduortio. (11 ) e tras i Filoſofi mettendo con la creazione eterna una dipendenza tra la materia é tra Dio, coglievano a Dio la libertà, perché cacitamente fupponevano, che da Dio neceffariamente foſſe emanato il mondo come il raggio dal Sole e l'ombra dal corpo. Far di Dio un Agente neceſſario, è lo ſteſſo che farlo per metà Signore, per che ſe fi confeſſa da una parte, che da Dio dipenda la coſa che egli fa, fi nega dall' altra che da lui dipende il farla ed il non farla. La libertà è la maggiore delle perfezioni. Perchè dun que corla a un ente infinitamenteperfetto? Lafcio S. Ireneo, S.Cirillo, ed altri, cheſoddisfarono ampia mente a tutte l' obbiezioni; ma quello, che più degli altri le ſcDIonvolſe ed atterrò, è ſtato Lattanzio Firmiano, che con au reo ftile nel quarto ſecolo ſcriſe. In queſto ſecolo ancora ſcriffe ro Eufebio nella Preparazione evangelica, e poi S. Agoſtino nel la Città di Dio, l'uno ſegut l' ormeaccennace da Taziano, 1 alţro con erudizione più vigorofa, e più filoſofica ſcriffe contro l'eternità, l'animazione, la divinica del mondo, e l'immutabi lità del Fato. Apparve Proclo (as nel príncípio del V1. fecolo fondendo nella ſua Teologia molto di quella de' nomiDivini at tribuita a S. Dionigi Areopagita, rinovd il fiſtema di Amonio Sacca riſtoro il Platoniſmo caduto. Nel fecolo dopo, Zac caria di Mitilene, ed Enea di Gaza, ſcriſſero' pure contro l'eter nità del Mondo. E da' loro fcritii ſi raccoglie, che l'idea di Dio, combinata col policeiſmo era un'idea nugatoria, non men di quel la del bilineo rettilineo, che rappreſenta alla mente una figura, é non è che una contraddizione. Il P. Balto, nel ſuo dotuiffimo libro contro il Platoniſmo ſvelato, lo dimoftra; e dopo il Balto fe de fece dal Moeſfenio quella circoſtanziata iſtoria ſul Platonis la quale è nel fine dell' opere del Cuduortio, da lui tradotre dall' Ingleſe in Latino. lo nell’eſpor la doctrina de Filoſofi antichi non mi feryi rò dell'autorita de' Platonici recenti, non più, che fe non aveſ ſero mai ſcritto, ſalvo allora, che s'accordano cogli antichi, e ci confervano qualche circoſtanza ſtorica indifferente. Cercherò prima ne' teſti de' Filoſofi ftefli il ſenſo, che naturalmente preſen iano, e dove ſia queſto oſcuro, ed equivoco, ricorrerà all'in terpretazione o di Cicerone, o di Plutarco, o di Sefto Empirico, o di Laerzio Viſle Cicerone molti anni prima del Crifianeſimo, e Plutar co viffe a Roma ſotto Adriano, o Trajano, dopo d'aver ſtudiato in Egitto forro Amonio, diſcepolo di Potamone, e del quale egli b 2 par (a ) Pachimero in Suida, Vedi Fabrizio Bibliot. art, Proclo. e mo,. (12 ) parla nella vita di Temiſtocle ed altrove. Laerzio e Seſto Empi rico, fiorirono in circa ſotto Severo, che vuol dire molto prima di Amonio Sacca, di Plotino, di Porfirio, e di molti alori nimici del nomeCriſtiano; non rifiuterd dall'altro lato i ſoccorſi, che i Padri m'offrono allora particolarmente, che non hanno certa indulgenza alle opinioni filoſofiche, ſcrivendo agl’Imperatori, o non argomentano ad hominem contro coloro, che gl'inſultava no. La mecafiſica di Platone non è diverſa da quella de' Pittago rici, e ſe una volta io dimoſtro, che queſti e particolarmente Pitta gora, Senofane, e Parmenide conobbero bensì un principio intel ligente, ma non ſeparato dalla materia, anzi con effa non facen do che un tutto, avrò dimoſtrato, io mi perſuado, che queſto pur era il ſiſtema Platonico. Cominciero da Cicerone che in poche ma ſoſtanzioſe parole compendio tutto il ſiſtema de' primi Accademici o di Platone, e lo craſſe da' Pittagorici, come da Placone purtraſsero il loro gli Stoici, e i ſecondi e verzi Acca demici, poichè quanto a' Peripatetici (a ) eli convenendo nelle cafe non differivano, che ne' nomi. Gl’antichi, dice egli, divideano (b )lanatura in due coſe, l'una delle quali era efficiente, e l'altraad eſsa quafi preſtandoſi quella di cui ſi fa ceano le coſe.. Incid che facea riponevano la forza, in ciò di cui ſi fa cea, una certa materia, ma l'una e l'altra era nell' una e nell' altra perchè nè la materia può aver coerenza, ſe non ſia da qualche forza ritenuta, ne v'è la forza ſenza qualche materia, poichè nullo v'è che non fic in qualche luogo.. Se la forza e la materia erano indiviſibilmente unite, la fola mente le ſeparava, e perciò conſiderar l'una ſenza l'altra era un?: aſtrazione, una preciſion della menee. Cid che riſulta (c ) dall'uno e dall'altro, o ſia dall'accoppiamento, lo chiamavano corpo, e quafi certa qualità...--. Di queſte qualità al tre fono principali, ed altre derivate da queſte. Delle principali ſono ognuna [CICERONE, QUÆST. ACAD. -- Peripateticos', & Academicos nominibus differentes, & re congruentes lib. 2. (b ) De natura autem ita dicebant, ut eam dividerent in res duas, ut altera eſſet efficiens, altera autem quaſi huic fe præbens ea qua effi ceretur aliquid: in eo, quod efficeret vim eff: cenſebant; in eo au tem quod efficeretur materiam quamdam: in utroque tamen utrum, que: neque enim materiam ipfam cohærere potuiſſe, ſi nulla vi contineretur; neque vim line aliqua materia: nihil eft enim quod non alicubi eſſe cogatur. (c ) Sed quod ex utroque id jam corpus, & quaſi q uandam qualitatem nominabanc Earum igitur qualitatum ſunt aliæ Principes, aliæ ex his ortæ. Principes ſunt uniuſmodi, & ſimplices, ex iis au tem ortæ variæ funt, & quafi multiformes: itaque aer quoque (uti niur (13 ) ognuna della ſteſſa ſpecie, e ſemplici. Da queſte qualità, altre ne for no nate, e quaſi moltiformi. L'aere, il fuoco, l'acqua, ela terra for no primi, e da queſti nacquero le forme degli animali, e le altre coſe, che ſi generano dalla terra. Dunque que' principi, per tradurlo dal Greco, ſi dicono elementi, de' quali l' aria, il fuoco, banno la for za di muovere, e di fare, le altre parti di ricevere, e quaſi di pati re, l'acqua, dico, e la terra. La parola ſemplice quì non ſignifica indiviſibile, e Seſto (a ) Em pirico pur la prende in queſto ſenſo. Vè un quinto genere, b )di cui ſono gli aſtri, e le menti ſingolari, ed Ariftotele lo pone diſimile dagli altri quattro. Se le menti ſono tratte dallo ſteſſo elemento, che gli altri, non ſon eſſe ſemplici nel ſenſo d'indiviſibile, ciò che CICERONE dice altrove. Teniamo noi che l'animo abbia tre parti, come piacque a Platone, o ſia ſemplice ed uno; ſe ſemplice ſia egli come il foco, il fangue, l'anima, cioè il ſoffio. Queſte coſe conſtando di parti non ſono ſemplici. Continua CICERONE. (c ) Ma penſano, che di tutte ſia ſoggetto una certa materia priva di ogni specie, e d ogni qualità, e da eui Butte le coſe ſono eſpreſſe e fatte, e che può ricever in sè tutte le coſe. Se la materia era prima d'ogni fpecie, d'ogni qualità, non cra corpo, e perciò conſiderata dalla mente, indipendentemen te dalla forza, ella era incorporea; Selto Empirico chiama per. incorporei i punti, le linee, e le ſuperficie... Platone nel Timeo, la chiama difficile ed oſcura fpecie, e il recercacolo d'ogni generazione, e quali nutrice; aggiunge, che ella non fi diparte mai dalla propria potenza, perciocchè tut te le coſe riceve, nè prende maiper alcun modo, alcuna forma a queſte fimile, e prova eller convenevole, che di tutte le ſpecie ſia privo quel. che ha in sè da ricever tisti'i generi, comequelli che hanno da fa re unguenti odorofi, l'umida materia, che vogliono di certo odore, cori dire di tal guiſa preparano ', che ella non abbia alcun proprio odore e colore eziandio, vogliono in materie molli imprimere alcune pgure, los niuna mur' n. pro latino ) ignis, & aqua, & terra prima ſunt. Ex iis au tem' orræ animantium formæ earumque rerum quæ gignantur è ter ras, ergo illa initia, ut è Greco vertam, elementa dicuntur; è qui bus aer, & ignis movendi vim habent & efficiendi; reliquæ par tes accipiendi & quafi patiendi, aquam dico & terram. a ) Contra Mathematicos. (b ) Quintuin genus e quo eſſent aſtra mentesque ſingulares earum quatuor quæ ſupra dixi diſſimiles, Ariſtoteles quoddameſſe rebatur. (6 ) Sed Salicetam putant oinnibus fine ulla fpecie, atque carentem omni illa qualitate o... materiam quandam ex qua omnia eſptela, atque effecta lipt qux'- tota omnia accipere pofito (14 ) 1 njuna figura affatto laſciano primieramente apparire in quelle, ma cer cano pria di renderle quantopoſſibil fra polite. Molte altre coſe aggiunge Placone, che Ariſtotele in una de finizione riduce, dicendo che la materia non è alcuna di quelle co fe, di cui l'ente fi determina, e tra l'altre coſe annovera la qua lica, e la quantità, che par Cicerone ridurre alla ſola qualità; ma che l'idea del corpo, e della materia foffero diverſe ſecon do gli antichi, lo dimoſtrano le diverſe parole, con cui l'eſpri mevano, chiamando la materia ùns, ed il corpo owllde. Chi po ne un nome, dice Platone nel Sofiſta, dalla cofa diverſo, introdu ce veramente due coſe. La materia dunque, non eſſendo il corpo, ella era incorporea, ed incorporea la chiama in molti luoghi Sesto Empirico, e Plotino, la cui autorità qui è tanto più for te, quanto che egli ſteſo col nome d'incorporeo, non ſignifi cava la ſteſſa coſa che noi chiamšamo fpirituale. Stobeo (a ) lo conferma col dire: Si nega effer corpo lamateria non tanto, perchè manchi degl'intervalli del corpo, o delle tre dimenſioni, quanto perchè ſia priva d'altre coſe appartenenti al corpo, figura, co lore, gravità, leggerezza, ed ogni altra qualità, e quantità. La materia pud (b ) in tutti i modi mutarfi, ed in ogni parte non mai ridurſi al niente, ma ſolo in parti che poſsono all' infinito partir li, e dividerſi, nulla eſſendo di minimo in natura, che divider non fi pola. Le coſe poi che ſi movono tutte', moverſi con intervalli, che all'infinito ſi poſſono dividere, e cosi' movendoſi quella forza, cheab bian detta qualità (cioè il corpo ) e di qud, e di là verſando per fano, che tutta affatto la materia fi muti, efi faccian le coſe, che chix miam quali, dalle cui nature coerenti, e continue in tutte le ſue parti è fatto il mondo, fuori di cui non v'è alcuna parte di materia, nè abas cun corpo. Quante coſe raduna CICERONE in poche parole ! Con la divi fibilità all'infinito della materia, eſclude gli atomi forſe ammeſ da Empedocle ne' minutiſſimi corpicelli, che componevano gli elementi, e da Eraclito nelle mondature piccioliflime, ed indivi fibi (a ) Stobeo. I. 1. Egl. fil. cap. 14. 16 ) Omnibusque modismutare atque ex omni parte eoque etiam interi se non in nihilum ', ſed in ſuas partes quæ infinite lecari, atque di vidi pollint, cum ſit nihil omnino in rerum naturam minimum quod dividi nequeat: quæ autem moveantur omnia intervallis moveri; quzintervalla item infinite dividi poſfint, & cum ita moveatur il la vis, quam qualitatem effe diximus, & cum fic ultro citroque verfetur: & materiam ipfam totam penitus commutari putant, & ita effici quæ appellant qualia, e quibus in omninatura cohærente, & confirmata cum omnibus fuis partibus effectum elle mundunt, extra quem nulla pars materiæ fit nullumque corpus. (15 ) Ibili. Con la coerenza delle parti della materia, CICERONE eſclu de il vuoto negato da tutti, da Talece fino a Platone, onde dif ſe Empedocle: Nulla di vuoto vė, nulla che abbondi. Accenna pur CICERONE le leggi coſtanti che conſervano icore pi movendoſi, e nel dir che fi movono con certi intervalli, i quali all' infinito ſi poffon dividere, non applica egli le leggi del moto a' corpi minimi come a'fenfibili? Le parti (a) del mondo effer tutte le coſe che fono in eso, e tutte occupate da una natura che ſente, e nella quale v'è una ragione per fetta, e la ſteſsa fempiterna, nulla effendovi di più forteche poſsa diſtruggerla, e la steſſadirfi mente, ſapienza perfetta, e chiamarfi Dio, ed eſer.quafi certaprudenza di tutte le coſe, cheprovede alle coſe celefti, ed a quelle che in terra appartengono agli uomini. Se queſto Dio degli antichi Filoſofi rifultava dalle nature coerenti e continue di tutte le parti del mondo, ſe egli era il ſenſo, la ragione perfetta, la ſapienza, la providenza che reg gea queſte parti, era egli altro che una modificazione della forza e della materia, giacchè non v'era forza ſenza materia, nè materia fenza forza, e non era egli ſeparatamente dalle co ſe conſiderato che un ente di ragione? Qual relazione ha que fto Dio al noſtro, che è un ente ſingolariſtimo in sè, e fepa rato non per preciſion di ragione, ma realmente dalla forza e dalla materia, della quale egli è il Creatore? Alle volte lochiamiamo (b ) neceſſità, perchè null' altro pud farſi, ſe non ciò che da lei è coſtituito nella quafi fatale, e immutabile con tinuazione d'un ordine fempiterno; alle volte poi lo chiamiamo fortu na, la qual fa molte coſe improvvife, nè da noi penſate per l'oſcuri. tà, ed ignoranza delle cagioni; ed ecco Dio rappreſentato come agente neceſſario, o ſenza libertà; ecco diſegnato l' ordine fa tale e ſempiterno delle coſe; ecco come per la noſtra igno ranza non poſſiamo conoſcere la conneſſione, e le conſeguenze delle (a ) Partes autem mundi effe omnia quæ infint in eo quæ natura ſentiente teneantur, in qua ratio perfecta inſit quæ fit eadem ſem piterna: nihil enim valentius eſſe a quo intereat, quam vim ani mam effe dicunt mundi eandemque effe mentem fapientiamque per fectam quem Deum appellant, omniumque rerum quæ ſunt ei fub jedtæ quafi prudentiam quandam procurantem cæleftia maxime dein de in terris, eaque pertinent ad homines. 16 ) Quam interdum neceſitatem appellant quia nihil aliter poſfit, at que ab ea conftitutum fit inter qual fatalem, &immutabilem conti nuationem ordinis fempiterni; nonnunquam quidem eandem fortu nam, quod efficiat multa improviſa hæc nec optata nobis propter obſcuritatem ignorationemque cauſarum, (16 ) delle cagioni, e degli effetti loro. In ſomma l'antica Filoſofia aveva adotata l' eternità, l' animazione, la divinità del mondo, e l'immutabilità del Fato, le quattro coſe che Santo Agoſtino ha egregiamente combattute nella Città di Dio. Comparando il trattato d' Ilide, e d' Ogride di Plutarco col paſſo di CICERONE, non è difficile di raccogliere, che la Filoſo fia Egizia ne' principi eſſenziali non era diverſa dalla Greca, ſe non nella maniera di ſpiegarſi o ne' ſimboli. La materia, di cui parla CICERONE, era Ilide, la quale in ogni coſa potea tramu. tarſi, e di tutte le coſe eſer capace, della luce, delle tenebre, del giorno, della notte, della vita, della morte, del principio, e del fi ne. La forza è Oſiride, la cui veſte ſi facea ſenza ombra, e ſenza varietà, d'un color ſemplice, e rilucente; perchè ella è il principio dalla noſtramente ſolo, intefo, puro, e ſincero, tutt' iſimbolicontrarj a quelli delle proprietà dipendenti dalle qualità de' corpi diſegnati per Oro. Riſultava queſti dall'accoppiamento d'Ilde, e d'Oſiride, e chiamavaſi parto o creatura, rappreſentandoſi per l'ipotenuſa del triangolo miſurata dal 5; per cui ſi chiamava con la voce Pente, da cui deriva Panta, o l'Univerſo, che gli Egizi penſavano eſſer la ſteſſa coſa con Dio, nel che, come egli dice, s'accordava Ma netone Sebenita con Ecateo Abderita. Diodoro di Sicilia nel principio della ſua Storia, ſcrive coſa pen {aſſero gli Egizj su la generazione del mondo, ſul principio del le coſe, ſul naſcimento dell'Uomo. Par che Euſebio afcriva a Tot, che è il Mercurio degli Egizj, quanto ſcriſſe Sanconiatone ſul caos, e ſulla formazione della Luna, delle Stelle, degli Elementi. La Teologia miſtica dei Fenici, che dagli Ebrei, ſecondo Euſebio ed altri Padri, ſi preſe, reftd in guila alterata e confuſa, che nel caos poſero prima i principj delle coſe, ed introduſſero poi l'arte fice o l'amore, per opra del quale ordinarono il caos, é fabbrica rono il mondo. Orfeo il primo la portò nella Grecia e L'Inno criſto canto del caos vetufto, E come agli elementi, e come al Cielo Origin deffe, ed alla vaſta terra, E alla profondità del mar Amore Antichiſſimo, e ſaggio. Il caos era la materia, l'amore, o la forma, ed i prodotti, i compoſti, ed i corpi, ed in queſte tre coſe conſiſtea la fiſica generale degli antichi. La ſcienza che n'eftraſſero o la metafi fica rappreſentandola in una maniera molto indeterminata, la ſciava infeparata la materia da Dio, e dai compoſti, ed era molto perciò differente dalla noſtra metafiſica, la quale nell' en te include eſſenzialmente le creature, nè s'eſtende che per un ' 9 1 5 analogia molto lontana al Creatore. Io lo dimoſtrerò partita mente ne' liſtemi di Pittagora, di Senofane, e di Parmenide, e ſarà facile ad applicarne l'uſo a Platone. Pittagora e Platone (a ) giudicano, che il mondo ſia ſtato fatto da Dio: dunque le Platone fece da Dio generar il mon do ordinando la materia fluctuante, egli imparò ciò da Pitta gora, che l'avea imparato dagli Egizi, da Orfeo, anzi dal pro prio maeſtro (6 ) Ferecide Sciro. Avea egli ſoſtenuto, che in tut ta l'eternità Giove, il tempo, e la terra erano ſtati. Facciali pur di Giove, la cagione di tutte le coſe, e gli ſi dia ſomma pruden za, e fomma ſapienza, egli non ſarà mai che la forza, e l'amore che eguaglieraffi al tempo, e alla terra; vi ſi aggiunga, che poi chè Giove diede il premio alla terra ſi chiamò queſta Tellure, (c ) non altro mai ſi concluderà, ſe non che prima la forza, e l'amo re temperaffe, digeriſſe, ed ornaſſe quella mole indigeſta, che chiamavali terra. Pittagora generò il mondo dal foco, e a guiſa di foco ſotti liſſimo (d ) Iparſo, e rinchiuſo nel mondo, volea Placone, che foffe Dio. L'ornamento, (e ) l'unione, l'ordine di tutte le coſe furono chiamate da Pittagora Coſmos, o il mondo, e diffe egli, che il mondo viſibile era Dio. Stimò il primo, dice Cicerone (f) l'animo per tutta la natura delle coſe eſer diffuſo, e per la mente da cui gli animi noftri ſono tratti, ne vide per la detrazione di que fti diſtaccarſi, e ſquarciarſi Dio, e farſi miſera una parte di lui, mentre queſti ſoffrivano. Dio dunque era il mondo, e l'anime era no parti di Dio, effetto della Metempficoſi, ſe pur non era queſta una coſa affatto poetica, come Timeo di Locri lo dice. VIRGILIO espresse il sentimento di CICERONE nelle Georgiche. Della mente di Dio parci efſer l' api, E forfi eterei differo, che Dio Va per tutte le terre, e tutti i mari, E pel profondo Ciel; quindi gli armenti, E le pecore, e gli Uomini, e ogni ftirpe Di fere, e ogni altra, che da se rimove La tenue vita allorchè naſce. Tomo II. E nell (a ) Plut. de Ifid.& Ofir.car. 374. Franc. Edit. Vechel. (6 ) Laert. (C ) S. Clem. Aleſs. (d ) San Giuſtino apolog. Ermia nel fine dell'opere di S. Giuſtino. (e) Plut,plac.lib.2. (1) De Natura Deor. I. 1. Elle apibus partem divinæ mentis, & hauſtus Æthereos dixere: Deum namque iré per omnes Terrasque tractusque maris Columque profundum. Hinc pecudes, armenta, viros, genus omne ferarum Quemque fibi tenues naſcentem arceſſere vitas. 1.4. Georg.. C (18 ) E nell' Eneide, Nel principio le terre, il Cielo, e i campi Liquidi, e della Luna lo fplendente Globo, e gli aſtri Titanj, interno fpirco Alimenta, ed infuſa in ogni membro Tutta la mole n'agica la mente E fi framiſchia nel gran corpo; quindi E di pecore, e d'Uomini la ftirpe, De volanti la vita, e'l mar che i moftri Sorco la liſcia ſuperficie porta. no, Pittagora fu l'autor dell'idee; (a ) oſervd il primo tra'Greci che la mente non potendo rappreſentarſi ſingolari, perchè ſono in numerabili nel compararli, ne traſfe igeneri, e le ſpecie, ne'qua li ſi ravviſano le coſe ſparſe. Così ravviſava tutti gli individui umani nell'animal ragionevole. Nel far queſti aſtratti conſide rò, che la materia era mutabile, alterabile, Auflibile in ogni gui fa, ma che non vi ſono ſpecie, che s'accreſcano, o che perifca e perciò gli Uomini oſſervandole coſtantemente in tutti i tempi, e in tutti i Paeſi le credono eterne ed immutabili. La que ſtione era di rappreſentar queſt'idee. I numeri convengono all'Uomo, al cavallo, alla giuſtizia, al la caſa, e a che so io; dunque i numeri ſono univerſali, perchè atti alla rappreſentazione de' molti. L'oſſervazione è d'Ariſtotele, (c ) e molto più la ſtende Poſſidonio, riferito da Seſto Empirico, (d ) il qual dimoſtra per i numeri aſſimigliarſi cutte le coſe, e ſen za queſti non poterſi intendere nè gli elementi, nè l'armonia, nè alcuna delle tre dimenſioni del corpo, nè ciò che riſulta da corpi uniti, coerenti, diftánti, nè tutti i calcoli delle quantità fùccef five, nè ciò che appartiene alla vita, ed all' arti fondate su propor zioni ſolo intelligibili per i numeri. Pitragora dunque ſi ſervì del numero, per dar un ſimbolo dei due principj delle coſe, la forza, e la materia, di cui chiamò l'una l'uno, e l'altra il due. L'unità, diceva egli, è Dio, (e ) ed anche il bene che è di natura * Principio Coelum, ac terras camposque liquentes Lucentemque globum Lunæ Titaniaque altra Spiritus intus alit: totamque infuſa per artus Mens agitat molem, & magno ſe corpore miſcet. Inde hominum pecudumque genus vitæque volantum, Et quæ marmoreo fert monſtra ſub æquore pontus. (a ) Plut. plac. Phil. l. 1. (6 ) Plut. ib. l. 1. c.9. (c ) Metaf. lib. 10. (d ) Contra Logicos. (e ) Plut. plac. Phil. lib. 2. (19 ) un ſolo, e lo ſteſso intelletto, il due infinito, e genio triſto, d'inser torno il qual due ſi fa la quantità della materia. Chiamava uno la forza perchè noi la concepiamo a guiſa d'un non ſo che d'indi viſibile; chiamava due la materia, perchè ella è fempre divil bile in due, Di queſti due principj, uno è quello del bene, e l'altro del male, già l'ha inſinuato Plutarco. Archelao Veſcovo (a ) di Cara dice; Širiano introduce la dualità contraria a ſe ſteffa, la quale egli preſe da Pittagora, ſiccome tutti gli altri ſettatori di tak dogma,; quali difendono la dualità declinando dalla via retta della ſcrittura. Tutte in ſommal'ereſie, che vi ſono nel compendio della filosofia di CICERONE, che vuol dir l'eternità, l'animazione, la divis nità del mondo, Piccagora le raccolfe in un ſiſtema, ed in vano fi dice, che egli nulla fcriveſſe. Liſide diſcepolo (b ) di Pittagora in una lettera fcnca ad Ip parco, dopo la morte del maeſtro ſignifica non voler comuni care ad alcuno i precetti, e dimoſtra che delle coſe, le quali di ceano i ſeguaci di Pitcagora, non ve n'era nè pur ombra. Por firio nella vita di Pittagora dice, che agli Uomini oppreſli da tale calamitat, (cioè dalla morte di Piccagora ): manca lo ſciens di lui, la quale arcana e recondita cuſtodida in petto, nè vi reftas fono che certe coſe difficili da intenderſi imparate a memoria dagli udi tori dell'eſterna Filoſofia, poichènon v'era alçun ſcritto di Pittagora; ed aggiunge,che dopo la morte di lui „ Lilide, Archippo,ed altri furono folleciti, chei penſieridiPiccagora non ſi pubblicaffero, onde eutti gli arcani della ſua Filoſofia con lui perirono'. To dubito aſſai del la vericà della lettera di Liſide, la quale con quel che dice Porfirio pud eſſere ſtata finta,perchè i Criſtiani nontraeſfero argomenti da quanto ci reſta diPitagora, in CICERONE in Plutarco, in Laer zio: ma ſe non v'era coſa alcuna della Filoſofia di Pittagora,.co me poi Jamblico poeea gloriarſi di riftabilirla; e non è manifeſto che egli la riſtabili a fuo modo per combattere i Criſtiani de'quali fu accerbo' nimico; lo ſteſſo Porfirio, che dice nulla aver fcric to Pittagora, come poi ebbe fronte d'afferire, che egli avea ſcrit to fu l'ente, il che Euſebio (c ) riferiſce? Diſcepoli di Pitcagora furono Archita Tarentino il vecchio, Pe ritione, Timeo di Locri, ed Epicarmo. Archita il vecchio (d ), che Simplicio confonde col giovine, fcriſſe delle dieci voci corriſpondenti ai dieci concetti dell'animo, i quali s'eſtendono a cutte le cole, potendoſi d' ognuna cercar la (a ) Zaccagna collect. monumentorum veterum Eccleſiæ Græcæ, atque Latinæ. Archelai Epiſcopi acta. (6 ) Galeo. (c ) Propof. Evang, lalg. (d ) Patrizia diſcuſ, Peripa,1 (20 ) la ſoſtanza, la quantità, la qualità, l'azione, e gli altri acciden ti regiſtrati a lungo da Ariſtotele nella ſua Logica, in cui copiò il trattato di Archita. Lo Stanlejo, che pretende di numerare tutte le donne Pitcago riche, omette Peritione, e pur eſser ella dovea la più celebre,le da lei trafse Ariftotele (a ) tutta l'idea della ſua metafiſica. Lo prova con molta erudizione il Patrizio, allegando la definizio ne della fapienza di Peritione, e comparandola con quella di Ariſtotele. La ſapienza, diceva ella, verſa in tutt'i generi degli en ti, perchè verſa intorno tutti gli enti, come la viſione intorno tutti i viſibili. Ariſtotele definì la metafiſica, per la ſcienza che contem pla l'ente, in quanto ente, e le coſe che per sè gli convengono. Peritione egregiamente ſpiegò gli accidenti dicendo: delle coſe che accadono agli enti, alcune univerſalmente accadono a tutti, alcu ne altre a molti di loro, e certe ad un ſolo, ma riguardar univerſal mente, e contemplar tutti gli accidenti appartiene alla ſcienza. Que. fte ed altre cole che ilPatrizio aggiunge, danno idea della preci fione, e nettezza di Peritione, e nel tempo ſtefso quanto tra' Pittagorici erano familiari l'idee Pittagoriche, ſe le donne ſtef ſe ne ſcriveano con tanta eleganza filoſofica · Non dobbiamo tuttavia meravigliarſene, di poi cheabbiam veduto ne’noftri gior ni Madama la Marcheſa di Chatelet, ſcrivere ſulla natura del. le monadi Leibniziane, queſtione molto più oſcura di quella dell'ente. Timeo di Locri nel ſuo ragionamento ſull'anima del mondo, in queſta univerlità di natura, dice egli, v'è un certo che, il qual rimane, ed è l intelligibile eſemplare delle coſe, che ſono in un fuſo perpetuo di mutazioni, e queſto nelle vicende delle coſe ſingolari, co ftante, e perpetuo eſemplare ſi chiama idea, ed è dalla mente compre fo. Nell'univerſità dunque delle coſe, che vuol dir dentro le coſe o in cutti i compoſti v'è quel non ſo che, che mai non cangia, e può dalla mente eſtrarli qual idolo. Le coſe ſenſibili eſser in un perpetuo fluſso lo diſsegnarono, al dir di Platone, nell'Omero, ed Eſiodo ſotto l'imagine dell'Oceano, e di Te ti, e di queſte non aſsegnarono fcienza i Pictagorici, ma ſolo di quelle, che nè col ſenſo, né coll' immaginazione ſi ravviſa no, e queſta fu la prima differenza tra la Filoſofia Jonica, e l'Italica. Epicarmo ſommo Poeta, come Omero al dir di Platone, so all' una grandezza d'un cubito (diceva egli ) altra tu voglia aggiun gervi o ſottrarsi, non avrai mai certo la Nera miſura; gli Uomini pa rimen (a ) Patriz. l. 2. cap. 1. diſcuſ. Perip. (6) Ragion, ſu l'anima del Mondo. (21 ) rimente conſidera or accrefcere, ed or decreſcere, tutti ſoggiaciono ai cambiamenti del tempo. (a ) Jeri tu fofti un altro, io pur vi fui, E un altro ſiamo in queſto tempo, e fieno Di nuovo gli altri, che non mai gli ſteſſi Noi ſiamo, come la ragion lo predica. Per l'Intelligibile così parlo: A. L'arte tibicinal è qualche coſa? B. Perchè no. A. Forſe è l' Uom queſta tal arte? B. Non mai A. Vediam, che coſa queſto ſia Tibicine B. Egli è un Uom; non dico il vero? A. Il ver ma ftimi che non debba diri Ciò pur del bene? Io voglio dir che il bene Una coſa pur ſia, ma s'altri impari Ad effer buon ei già dirafli buono; Il Tibicine è quegli che la tibia A ſuonar imparò. Quel che a ſaltare Salvatore, e ceſtor quegli che a teſſere Impararo, e così d'ogni altro l'arte Certamente non è, ma ben l'artefice. Nel dir Epicarmo, che il bene è una coſa come l'arte, e che nè il buono, nè l'arte ſono gli uomini che la partecipano, egli c ' inſegna a far le aſtrazioni della mente, la qual avendo comparato tra loro molti Uomini che fien buoni, molti tibicini, molti falcatori e teſtori, ne ha compoſto quell'idea, che poi convie ne a tutti. Queſt'idea reſtando ſempre la ſteſſa in tutti i tem pi, ed in tutti i caſi, per quanto variano i temperamenti, e le figure degli Uomini, li confidera ſempre nello Iteſſo modo, ed è principio del diſcorſo, o di ciò che nel Teeteto ſi chiamano analogie ſcoperte, le quali nel raccogliere le coſe col mezzo de' ſenli, le fanno comprendere la ragione. Epicarmo era contemporaneo di Senofane, come ſi diffe, ed eccoci a ' Filolofi più vicini a Socrate, ed indi a Platone, i qua li a poco preffo ſi trasfuſero le ſtelle idee non diverſificate, che dalla maniera d'eſporle, e di colorirle. Senofane, dice Euſebio, e quelli (6 ) che lo ſeguirono, moſfero così con (a ) Laerzio Vita di Platone. (6 ) Lib. 11. cap. 1. Prep. Evang. (22 ) 1. 1 contenzioſe ragioni, che piuttoſto arrecareno a' Filoſofanti confuſio ne, che ajuto. Pittagora volea che il mondo foffe eterno, benst come gli altri Filoſofi, quanto alla materia, ma non quanto alla forma, poichè credea che foſſe ſtato generato dal foco; Se nofane pofe il mondo non generato, ma eterno, 'aderendo ad Ocello Lucano, che fcriffe fu l'eternità del mondo prima d'A. riſtotele; ecco la prima differenza tra Senofane, e Pittagora Un'altra più forte ve n' era; Pittagora avea pofti per principj l'uno, e il due, Senofane riduſſe tutto all'uno, Senofane", dice CICERONE, è più antico di Anafagora; vuel che uno fieno tutte le coſe, nè queſto uno è mutabile, ed è Dio non mai nato, e ſempiter no, e di conglobata figura. Seſto Empirico (b ) parlando per bocca di Timone foggiunge, che fecondo Senofane l' Univerſo era una fola coſa, che Dio eſiſteva in tutte le coſe, e che era di figura sfe rica, e di ragione dotato. Ad Empirico ſi conforma Laerzio (c ) dicendo, che ſecondo Senofane, Dio nella materia tutto udiva tutto vedeva, ſebben non reſpirale, e che tutte le coſe inſieme erano la prudenza, la mente, l'eternità. Io dimando, ſe nel far Dio fparfo per tutte le coſe, e fen ſitivo, e prudente, e intelligente, differiva egli dall' opinione che CICERONE eſpoſe nel compendio della Filoſofia? Non v'è che la figura sferica che gli aſſegna Senofane, e per cui non infinito, ma finito lo rende; ma chi fa, fe nel concepir gli antichi la figu ra sferica, comela più ſemplice, intendeſſero ſimbolicamente d'ac tribuir a Dio tutte le perfezioni? converrebbe faper fe Senofane fcriſſe ciò in profa, od in verſo, e ben eſaminare tutto il conte fto della fua dottrina. Non reſtandoci che conghietture, io m'at tengo a quella del ſimbolo per accordar CICERONE con se stesso, il quale nella natura degli Dei combatte Senofane, che aggiunſe la mente all'infinito. Queſt'infinità era una conſeguenza del fuo ſiſtema, perchè ſup poſta l'eternità della materia cost argomentava: (d ) Eterno è cid che è, se è eterno è infinito, fe infinito uno, ſe uno fimile a sèl. Di nuovo ſe l' uno è eterno e ſimile, egli è ancora immobile, fe immobile non ſi trasfigura per poſizioni, non ſi altera per forme, non ſi miſchia con altri. Ariſtocele elamina i ſoffiſmi contenuti in queſto ragio namento; il principale è; da ciò che il mondo è ecerno, infini to, uno, non ne fiegue che egli lia effettivamente immobile, per che le coſe eſiſtono nella maniera che poſfono eſiſtere, e la materia ſe ſteſſa il principio del moto non v'è contradizione a cont (a ) Queſt. Acad. lib. 1. (6 ) Lib. 1. dell'ipotipoſi. (c ) Laert. lib. 9. idí Arift. contra Xenof, Zenon. & Gorgiam. eſſendo per i 2 (23 ) a concepire, che il moto ſia eterno come la materia. Coloro che ammettevano il caos eterno, davano eterno il moto, ſebben ſen za regola o forma. Non ſi cerca qui però, ſe concludeſſe l'argomento di Seno fane, ma ſolo qual foſſe la ſua ſentenza, e coſa egli ne dedu ceſse. Come poi accordarla colla ſua fifica? Ammetteva egli per principj (a ) delle coſe naturali la terra, il foco, l'aria, e l' acqua, e dalle alterazioni di queſti elementi, rendea tutti i miſti a generazione, e corruzione ſoggetti. Grand uſo fece di quefte due coſe, perchè, ſecondo lui, conſiſteva il So le negl'ignicoli raccolti dall umida (6 ) eſalazione in una nuvola ignita, e la Luna in una nuvola coſtipata. Manon era poſſi bile decerminare il grado di verilimiglianza filoſofica ch'egli da va all'Ipoteli, poichè nelle ſentenze filiche di Senofane y' è mani. feſta contradizione. Poneva egli de' Soli innumerabili, e la Lu na abitata. I ſoli innumerabili erano quelli de' Pitcagorici, e di Orfeo (C ); ma come abitar una nuvola? La terra (d ) la quale per immenſa profondicà fi ftendea di ſotto, era coſa ri pugnante alla sfera armillare che Anaſimandro forſe di lui, maeſtro avea inventata o propagata per cutta la Grecia. Cor revano allora tali dottrine, e Senofane, in Colofone, in Atene, in Sicilia, e in Elea le avea ſtudiate; avea Talęce calcolate l'eccliffi del Sole, e della Luna, avea Pittagora applicare al liſtema celeſte le conſonanze Muſicali, e nella lira a lette corde determinato il pu mero, e le diſtanze de' Pianeti; non è poſſibile, che Senofane in un tempo così illuminato voleſſe diſcredicare il ſuo ingegno con ipoteſi aſſurde e ad ogni ragione contrarie; non erano dunque, che idoli fantaſtici, iperboli poetiche, o ſimiglianze groſſolane, in cui ſi deve più badare al color, che alla coſa. La grande difficoltà di Senofane era nel combinare il fiſico col metafiſico, o lo ſtato ideale con l'obiettivo. Avea già ſtabilito Pictagora, l'intelletto altro non eſſer che (e ) mente, ſcienza, opi nione, ſenſo, da cui tutte l' arti, e le ſcienze nacquero. Egli diſse gnava la mente per l'uno, ciò che adeſſo noi chiamiamo lemplice intelligenza; diſegnava la ſcienza pel due, poichè s'acquiſta la ſcienza deducendo una coſa da un'altra; diſsegnava l'opinione per il tre, poichè nel trar la conſeguenza da un principio proba bile ſe ne riguarda nello ſteſſo tempo due, in uno de'quali v'èla ragion ſufficiente d'affermare, nell'altro di negar la coſa. I Pit 3 ta (a ) Laert. vit. di Xen. Plut. plac. (6) Plutar. lib.... Origenes Philoſ. (c ) Veggali Moefenio ſu l'eſiſtenza d'Orfee. Plutar. plac. de Fil. lib.i. (d) Gregorii Aſtronomici Pref. (c ) Plutar. lib. 1. de plac. (24 ) tagorici furono tutti dogmatici, o per dar credito alle ſentenze del ſuo maeſtro, o perchè pareſſe loro, che la fapienza non do veſſe mai eſſer miſtad'ignoranza, come accade nell' opinione milta dell' una, e dell' altra. Senofane fu il primo ad introdur il dubbio nella Filoſofia, e quindi l'opinione. (a ) Chiaro l'Uomo non ſa, nè ſaprà mai Degli Dei coſa alcuna ed altre coſe Che da me dette fur, ſiaſi perfetto Pur quanto ei dice, tuttavia non fallo, E v'è opinion in tutte queſte coſe. Da queſti verſi Seſto Empirico inferiſce, che Senofane non to glica la comprenſione, ma ſolamente quella che dalla ſcienza de riva; nel dire in tutte queſte coſe d'è opinione accenna il proba bile, e l'opinabile, onde conclude che Senofane deve porſi tra coloro, che negano darſi criterio della verità, e non tra gli ac cattalecici, che negavano alcuna coſa poterſi da noi compren dere. L'autorità di Selto Empirico è d'un gran peſo, ove ſi tratta di determinare i gradi della cognizione, ma non è da ſprezzar fi ciò che dice CICERONE: Senofane e Parmenide quan tunque con non buoni verſi però con certi verſi accufano quaſi irati d'ignoranza coloro, che ofano dir di ſaper qualche coſa allo ra che nulla fanno. Chi dice nulla eſclude ogni ſcienza, ed ogni opinione. Senofane ſi diſtinſe per la Logica, (c ) e ſecondo la Cro nologia di Euſebio, (d ) egli fu udito da Protagora, e da Nef ſa; Metrodoro udi Nefra; Diogene Metrodoro; Anaſarco Diogene, e coſtui Pirro d' Elea, dal qual ebbero nome i Filo ſofi Scercici fino a Gorgia, il qual diceva: Non v'è nulla;,fe anche vi foſe qualche coſa, non ſi potrebbe comprendere, e ſe compren dere, non mai ſpiegare con le parole. Come inoltrarſi dopo tale raf finamento di dubbj? Tra i diſcepoli però di Senofane il più illuſtre fu Parmeni de deſcritto da Platone nel Teeteto qual vecchio grave, e vene rabile e di una profondità al tutto generoſa, il che vuol dire, ſe mal non m'appoogo, che egli nella diſputa non era oſtinato, ſu perbo, rozzo ed agreſte, come Ariſtotele (e ) dipinge Senofane è Meliſſo. Socrate in quel Dialogo, ed in altri s'aſtiene quanto pud (a) Xenoph. ap. Seſt. Emp, adv. Matem. (6 ) QUEST. ACAD.; Eufeb.1.6. C. 19. (d ) Id. l. 12, c. 7. (c ) Metaf. lib.... (25 ) può di ragionare contro le ſentenze di Parmenide per la rive renza che ad eſſo portava. Euſebio (a ) caratterizza la dottrina di Parmenide, qual via contraria a quella di Senofane. Ermia però, dice Parmenide in bei verſi, c'inſegna che queſto Univerſo è eterno, immobile, e ſempre ſimile a ſe ſtero. Lo ſteſſo Euſebio credeva, che ſecondo Parmeni de l'univerſo foſſe ſempiterno, ed immobile. Stobeo riferiſce, che Senofane, Parmenide, e Meliſſo colſero affatto la generazio ne, e la corruzione. In che dunque diſconvenia Parmenide da Se nofane, (6 ) Ariſtotele chiaramente lo ſpiega nell' accennar la dif ferenza che v'era tra Parmenide e Meliſſo, dicendo: volea Par menide, che tutto foſe uno ſecondo la ragione, e Meliſo ſecondo la materia, e da queſti due differiva Senofane, che chiaramente non dif ſe nè l'uno, nè l'altro. Eſer uno ſecondo la materia, è il medeſimo che ritrovar nell eſſenza della materia la ragion ſufficiente dell'unità della ſteſſa. Ed in fatti una è la materia, fe in tutte le parti e nel tutco e nella medeſima fpecie è omogenea, qual CICERONE la deſcrit ſe nel compendio della filoſofia, e l'ammiſero Platone, ed Ariſto tele. CICERONE rammemora ancora la forza, utrumque in utroque, ma conſiderando forſe Meliſſo, che gli effetti della forza, o ſieno le forme, ed i modi aggiunti ſucceſſivamente alla materia, non mai erano continuamente cangiando, gli eſcluſe dall'eſſenza, e in con ſeguenza dall'unità della materia; ma ſe una era eſſenzialmente la materia, uno era il mondo o l'univerſo, che da eſſa riſultava e ſe uno in ſe ſteſſo indiviſibile, eterno, ed immutabile. Malgrado dunque le continue aggregazioni delle parti ne' loro tutti, e le continue diſſoluzioni de'tutti nelle lor parti, malgrado le altera zioni, le generazioni, e le corruzioni, contemplando Meliſo l' univerſo nella parte effenziale lo credeva uno, e immutabile in quella guiſa che è ilmare, non oſtante le continue agitazioni che foffre da innumerabili flutti. Se tal era la ſentenza di Meliſo, ella non è men empia ri ſpetto a noi, che ridicola preſo i Pagani, perchè la materia, fe condo lo ſteſſo CICERONE, non può aver coerenza, e in conſeguen Tomo II. d za (a ) Cap. 5. l. t. Præp. Evang. (6 ) Parmenides unum fecundum rationem attigiffe videtur, Meliſſus vero fecundum materiam, quare id & ille quidem finitum, hic ve ro infinitum ait effe, Xenophanes autem quando prior iſtis unum poſuerat (nam Parmenides hujus auditor fuiffe dicitur ) nihil tamen clarum dixit, & neutrius eorum naturam attigiſſe videtur, ſed ad folum coelum refpiciens ille unum ait effe Deum. Metaf, Arift. l. 1. cap. 5. ediz, Parigi (20 ) 1 1 1 4 > za unità, ſe non è ritenuta da qualche forza, e la continua ſuccef fione delle forme conſiderata affolutamente in ſe ſteſſa, non è me no eſſenziale al mondo, che alla materia. Ragionava dunque più ſottilmente Parmenide; dalla materia, e dalla forza, dalla ſoſtanza, e dall'accidente, avea coll'aſtra zione della mente dedotta l'idea dell'ente e dell'uno, e preten dea che l'uno nel ſuo concetto aſtrattiflimo preſcindeffe da tutte le forme, e le differenze dell'ente ſteſſo. Il P. Maſtrio quali tre mille anni dopo ebbe una fimile idea, poichè egli vuole che l'en te in quanto tale preſcinda dal finito, e dall'infinito, da Dio, e dalle creature e la ſentenza è ſeguita da tutti gli Scotiſti. Qualunque ella fiali, certo è che come quella di Parmenide curta opera della ragione più raffinata, e che ben diſſe Arifto tele, che l'uno di Parmenide di VELIA era tutto ſecondo la ragione, non che la ſentenza di Meliſſo ancor non lo foffe, ma egli nel fondarla tutta ſulla materia croppo s'accomodava ai pregiudizi del ſenſo. Da Parmenide, e da Meliſſo ſi diſtaccava Senofane, il quale ef ſendo il primo a ragionare dell'immobilità dell'ente e dell'uno, s'at tenne alla concluſione ſenza ſpiegar il metodo con cui la deduſſe. Ariſtotele (a ) che avea diviſe le loro fentenze nella metafiſi ca, par che nella fiſica le confonda dove diffe', che altri di lo ro tolfero la generazione', e la generazione, e la corruzione, i quali come ben dicano in altre coſe non ſi deve perd penſare che parlino da Fifici, poichè l'efervi alcuni enti immobili è più inſpezione di una ſcienza ſuperiore, che della Fiſica. Non condanna dunque PARMENIDE DI VELIA, e MELISSO DI VELIA, perchè aveſſero tratcato dell'unità, ed immo bilità dell'ente, ma perchè ne aveano fatto un punto di Fiſica, dalla quale egli eſclule il trattato delle coſe eterne, e immuta bili, onde credendo che il mondo, e il Cielo lo foffero, parte ne trattò nella ſteſſa metafiſica, e parte ne' libri del Cielo; na chi può credere che Parmenide non diſtingueffe queſte due ſcien ze, avendo aſſegnati due principi delle generazioni, il foco, e la terra? e determinato che un foco ſottiliſſimo, o lia l'etere cingeſſe gli altri, e che movendoſi in vortice raffrenaffe colla ſua rotazione ſe ſteſſo, e le coſe contenute, ciò che è il principio de' più moderni FILOSOFI (6 ) Egli componeva il mondo di molte ghirlande tra loro teſſüste, una rara, e l'altra' denfa; fra le ghirlan de ne poneva dell'altre meſcolate di tenebre, e di luce, e volea che la coſa la qual a guiſa di muro le circondava forje foda, e maliccia. Queſte ghirlande, e corone erano i vortici di Empedocle, dei qua li egli dice parlando de caſtighi de'genj. Quelli (a ) Ariſt. Fiſic. lib. 1, (b ) Plut, lib. 2. cap. 7. (17 ) (* ) Quelli nel mar ſollicitante forza Dell' etere rifpinge, e fola ſpucali Ne’ſotterranei abimi, e nella lampada Dell'almo Sole dalla terra cacciali, E il Sole infaticabile tramandali Ne' wortici dell'etere. Accoppiando il paffo di Parmenide con quel di Empedocle, par che tutti due deſſero vortici alle Stelle, raffigurando Parinenide nella luce le fiffe, e nelle tenebre i Pianeti; chi sa, che queſta coſa maf ſiccia non foſſe il moto del vortice tutto luminoſo, perchè tutto etereo, il quale impediffe con la ſua forza di rotazione lo sfaſcia mento del mondo viſibile? il moto della Luna, dice Plutarco, (a ) ol'impero con cui gira, l'impediſce di cadere in quella guiſa, che la fionda torta in giro dalbraccio impediſce la caduta del faffo. Vuol Favorino, che Parmenide primo ſcopriſſe, che la ſteſſa Stella pre cede il Sole la mattina, e lo fiegue la fera, o che il Veſpero è lo ſteſſo che il Fosforo. PLINIO ne attribuiſce la ſcoperta a Piccago ra, il quale veriſimilmente la portò d'Egitto, col ſiſtema cele fte; ma forſe Parmenide, nella Teoria di queſta ftella, più che gli altri Pittagorici ſi diſtinſe, come Filolao nel moto della ter ra. Filolao la facea gira r in cerchio intorno alSole, ed Ecfan to volea, che movendoſinon partiſſe dal proprio luogo, ma fer mata a guiſa di ruota, ſopra l'aſſe proprio intorno quello giraffe da Occidente in Oriente; non (6 ) aderiva Parmenide, nè a Filo lao, nè ad Ecfanto, ma conſiderando la terra d'ogni intorno egualmente lontana dalCielo, la ponea in equilibrio, e voleva che ſenza eſſer fpinta da alcuna forza a queſto, o quell'altro verſo, ella fi ſquaſfaſe bensì, ma non ſi moveſſe. Parmenide feparò il primo le parti abitate della terra fuor de' cerchj fol ftiziali, indizio manifeſto, che egli avea proficcato delle teorie di Anaſimandro, di cui ſi ſuol far ignorante Senofane. Tal era: il ſiſtema aſtronomico di Parmenide: nel fiſico egli divinizzò la guerra, la difcordia, l'amore, e diffe: Di tutti gli altri Dei cauſa è l'amore. * Αιθέριον μεν γαρ σφεμένος πόντον δε διώκει, Πόντος δέσχθονος έδας απέπτυσε, γαία δ' εσαύθις Η'ελία ακαμαντος, ο δ αιθέρος εμβαλε δίνεις. Α'λος δ' εξ άλα δέχεται και συγένεσι δε πάντες. Plut. de Ifide, & Ofiride. (a ) De facie Lunæ. 16 ) Plut,deplac. Phil. lib. 3. d 2 Cosi (28 ) 1 Così gli attribuiſce Simplizio, ed Ariſtofane colle da Par menide l'amore che ordina, e fabbrica le coſe nella commedia degli uccelli, gli altri Dei non erano, che gli elementi già di vinizzati da Parmenide. (a ) Empedocle l' emulò, benchè egli quattro elementi poneſse, e due Parmenide, il foco, e la ter ra, principali architetti delle corruzioni, e delle generazioni, e che rarefatti, o condenſati, ſi cangiano in aria, ed in acqua. I principj, ſecondo Ariſtotele, devono eſser tra loro contrari, e nulla v'è di più contrario, che il caldo, e il freddo, a quali corriſpondono il raro, ee ilil denſo denſo,, ilil moto moto,, e la quiete. Tutto queſto ſiſtema fiſico di Parmenide eſpreſse Platone nel Sofiſta. Le mu je Jadi, ele Siciliane, dice, a queſte poſterioriſtimaronocoſa più ſicura d'annodare le coſe inſieme, in modo che l'ente ſia molte coſe ed uno, e ſi tenga colla diſcordia, e colla concordia, perchè diſcordando (6 ) fem pre s'accoſta egli come dicono le più forti muſe, ma le più molli non hanno voluto, che ciò ſe ne ſia ſempre così, ma privatamente alcuna volta dicono che l'Univerſo ſia uno, ed amica per Venere, altra volta molte, e con sè per ſeco diſcordanſi con certa conteſa. S'io non m'in ganno, qui s'allude all'amicizia, e alla diſcordia, o all’amore, e alla lite, che Parmenide poſe come principj efficienti delle genera zioni, e corruzioni; molti Poeti ſtaccando ciò dalle Poeſie di Par menide, e di Empedocle, non ifpiegarono con la lite, e con l'ami cizia, ſe non alcunifenomeni particolari, come chi dalſiſtemadel Newtono, il quale poſe per principio univerſale l’ attrazione; al tri ſolo la prendeſse per iſpiegare i fenomeni del magnetiſmo, e poi per iſpiegare l'eletricità, la gravità ec. fi valeſse d'altro prin cipio. Non può dirſi dunque, che Parmenide non foſse eccellente Fi fico, ſe egli allora penſava a ciò che il Newtono pensò tanti ſeco li dopo; ſcriſſe in verſi il trattato della Natura, come Lucre zio, ma il Poema s'è perduto, e non ce ne reſta che il principio conſervatoci da Seſto Empirico. (c ) Mi portano i deſtrier, e quant'io voglio Traſcorrono; che già m'aveano tratto Nella celebre via del Genio; via Di cui m'aveano ammaeſtrato appieno Gľ (a ) CICERONE. 6 ) Nel Gítema Newtoniano in tanto una parte di erta fugge da un' altra parte, in quanto ella è attratta con più forza da un altro corpo; quindi dall'attrazione ſi deduce l'a repulfione. () I verli ſono in Seſto Empirico contra Logicos. (29 ) 1 Gl'infigni coridori, e dalla fama. Correndo il cocchio ſquaſsano, cui Duce Le fanciulle precedono, ma l'aſſe Splende ſtridendo nell'eſtrema parce De' raggi tra due fiſso orbi torniti. Allorchè s'affrettaro le fanciulle Eliadi, e della notte abbandonando Le café tenebroſe oltrepaſsarle, Nella via della luce al fine entraro; Da i ſpiragli rimoſsero le vele Con man robuſta dove ſon le porte Delle vie della notte, e della luce; L'une e l'altre circonda un arco immenſo, E il pavimento tutto n'è di marmo; Agiliffime corronvi, e s'appreſsano Colà dove tenea Dice le chiavi, L'ultrice Dea, che premj, e pene imparte. Con parole molcendola ottennero Le fanciulle, che all'uſcio ella fmoveſse L'interna leva. L'adattata chiave Spalancando le porte per immenſo Foro i chioſtri ſcoperfe, mentre l'affe Si rivolgeva, e l'orbita del cocchio, Facilmente reggean l'alme fanciulle, A cui ben pronti il cocchio, ed i cavalli Ubbidiro. La Dea liera m’accolfe, E per la deſtra preſomi usd meco Tali parole. Dio ti ſalvi, o figlio Dilecto figlio, che alla noſtra Řeggia Guidarono que' nobili deſtrieri Che hanno in forte di reggere il divino Cocchio, nè rea fortuna ti conduſse In tal via. Non è trita a paſſi umani Ma audacemente di pregare è d'uopo I Numi, onde ti laſcino le leggi Inveſtigar della natura, in grembo Di veritade, che a ubbidire è proſta, E de' mortali tu fuggir potrai Le opinion, di cui non vera fede, Ma tu rimovi il tuo penſier da queſta Via di ricerca, nè ti sforzi lunga Eſperienza delle coſe gli occhi Figgere accenti o pur aperte orecchie Ai (30 ) Ai dogmi che ragion non prova. Quello Che ti preſcrive eſperienza lunga La ſola mente dall'error corregge. Seſto Empirico, comentando queſti verſi oſſerva, che Parmeni de chiama gli appetiti dell'animo i cavalli, la ragione il genio, o demone, e gli occhi le fanciulle Eliadi; tutto il reſto è fancaf ma poetico, e, comeSenofane, egli penſava intorno alla ricer ca del vero; concludendo il giudizio appartener alla ragione, e non ai ſenſi, ſenza eccettuare i due delladifciplina, o l'udi to, e la viſta; dogma che fu poi quello dell'accademia, come a lungo Cicerone lo prova. I verſi fe hanno per oggetto cofe fublimi, e leggiadramente accoppino l' allegoria all' imitazione, e all' armonia, foddisfanno in un tempo ſtesſo, al fenſo, alla fantaſia, e all'incellecco, ono de queſte potenze coſpirando inſieme a ben rappreſentarci le co fe cantase, a preſtano ſcambievolmente le loro cognizioni, affin chè troppo sfumando nelle aſtrazioni, non ſvaniſca l'idea, e le ſenſazioni, e i fantasmi non l'offuſchino, ma ſervino alla mente di ſpecchio per ben contemplarla. La grande arte è, che lo ſpec chio non abbia troppo d'aſprezze, le quali non diſpergano ſover chiamente, ed affortiglino il raggio, che turbaco non ci laſci diſcernere, dove è l'oggetto. Alla proſa dunque, ma proſa poe tica ricorre Platone volendo appagare tutte le potenze della anima. Ed eccoci finalmente a Platone, dopo d' aver eſaminato come Pittagora dall'eternità, divinità, animazione del mondo racco glieſe l'idee; le divideſfero in certe claſſi generali i Pittagorici le diſtaccaſſero dal tutto, e ne faceſſero degli enti a parte; come Senofane, il primo ricavaſſe la concluſione dell'ente uno ed im-. mobile, come Parmenide contemplaſse ſecondo la ragione queſt' idea, e nelle coſe fiſiche s'uniformaffe a Senofane, diſtinguendo ľ opinabile dal vero. Tutta queſta fabbrica era fondata ſu la maniera di penſar di Pictagora, maniera falla, e pienamente diſtrutta da Padri, che molto al di là del IV. fecolo non combatterono collo fteffo Pit tagora, ma con Platone, di cui ſi debbe adeſſo rintracciare qua li influenze aveſſero nel Dialogo la dottrina dell'idee, dell'uno immobile, e dello ſcetticismo, perchè egli vi parla, e dell'idee, e dell'uno, e tutto proponendo per iporeli nulla conclude. Prima però di ſviluppar queſte cofe l'ordine della doctrina ricerca, che favelliamo dello ſtile Platonico in generale. Profonda e delicata cognizione della lingua Greca ſi ricerca per (31 ) e per ben intendere la bellezza, la forza, e l'armonia dello ſti le poetico di Płacone; lFraguier, che in tutto il cor ſo della ſua vita, l'avea con un ſpirito molto colto nella POESIA LATINA, ed in ogni altro genere di belle lettere ſtu diato, ben eſaminando il ſuo ſtile, ritrovava che Platone avea trasfuſo ne' Dialoghi l' Epico, il Lirico, ed il Dramatico. Com parava egli la profopopea, colla quale Dio nel Timeo ra giona agli Dei inferiori 'all' ode più ſublime di Pindaro travedeva nelle narrazioni dello ſteíſo Timeo, e in alcune del la Repubblica, la magnificenza Epica dell'Iliade. Nel paſſo cita so di ' Ateneo ', Gorgia mal ſoddisfatto di quel Dialogo intito lato col ſuo nome, ci dice, che un giovane, e Lepido Archilo co regnava in Atene; allude egli a Platone, che irritato con tro i Sofifti, non riſparmid le accucezze, ed i ſali contro di lo ro, ma i ſali di Platone non erano aſpri, ed ulcerofi, come quelli di Archiloco, e di Ariſtofane, ma eſtratti dallo ſteſſo mare, in cui nacque Venere. Così Plutarco dice di Menandro, e con non men di ragione io poſſo dirlo di Platone, che tut to comicamente condiſce con le grazie, e con le luſinghe della Poeſia di Omero, ed ingentiliſce in guiſa le accuſe de Sofiſti, che non mai gli affronta con quell' ingiurie, colle quali il Re de'Re alla preſenza dell'eſercito rinfaccia Achille. L' ironia di Socrate a ' è la chiave, ed ella è così ben maneggiata, che da alcuni ſi crede nel Menedemo (a) lodarſi le orazioni funebri, e pure vi ſi condannano. L'allegoria è perpetua in tutti i Dialoghi; allegorici ſono i nu meri armonici, di cui teſſuta è l'anima del mondo; allegoriche le Sirene degli orbi celeſti; allegorico il carro dell'anima, l'ali e il coc chiere; allegorici gli Androgini, la naſcita dell' amore, la gradazionedegli animali di Prometeo, e di Epimeteo, la guerra de gli Atenieſi contro i popoli del mar Atlantico, e quanto diſſe dell'Iſola Atlantica, e ſulle leggi, esu i coſtumidegli abitanti; tutto vi è finto per preparar l'idea della Repubblica, il cui modello cerca Platone nella fabbrica ſteſſa del mondo, ed ordiſce così la men zogna poetica, che molti s'affaticarono di ſpiegare ſtoricamente l'Iſola Atlantide, come il Ciro di Senofonte. Più s'occulta Pla tone in certe allegorie incluſe nelle frafi poetiche, per le qua li ſimboleggia molte coſe, e politiche, e morali, e metafiſiche, diſegnando l'ulcime con coſe colte, o dalla muſica, o dall'altro nomia, o dalla geometria; tre ſcienze (6 ) nelle quali era fo mamente dorto al ſuo tempo. Certo è, che ſe giuſtamente non retro s'ap (a ) CERONE,  Acad. (6 ) Ab, Fleurì nella lode di Platone. s'apprezzano le fraſi poetiche riducendole al ſenſo filoſofico, li corre riſchio di non intender mai, nè le parti, nè il tucco di un certo Dialogo, e ne vedremo nel Parmenide ſteſso gli eſempj. Ebbe dunque Platone comune la poeſia con Parmenide, ma molto egli l'accrebbe col Dialogo, modo più naturale per iftrui re, più comodo per illuminare, adoprato da Socrate, da Seno fonte, da Stilfone, daEuclide, da Glaucone, e al dire d'Ariſto tele da un certo Aleffamene inventato. S'imitano col Dialogo i ragionamenti degli Uomini, come ne? drami s'imitano le azioni. Platone che voleva emular in tutto la poeſia di Omero, ſi sforzo d'imitar le diſpute de Filoſofi, in quella guiſa che Omero avea imitate le azionidegli Eroi. Ciò che al Drama è la favola e l'epiſodio, è la queſtione al Dialogo, e la digreffione, e' nell'una, e nell'altra riuſcì egregiamente Plato ne. Non v'è Tragedia antica, che meglio eſprima il principio, la percurbazione, il ſcioglimento dell'azione, di quel che Platone proponga, diſcuta, termini la queſtione, in cui ſebben nulla concluda, però gli bafta d'aver conſumate le ragioni dall' una, e dall'altra parte. Nelle digreffioni comincia per lenti gradi ad allontanarſi dalla queſtione, poi ſpazia o nella Geometria nella muſica, od in altra ſcienza a fuo talento, e ſenza che il lettore fe ne accorga, il riconduce alla prima propoſizione non per ſalti, ma per gradi. Anche in cid imitd Omero, che al dir del Gravina (a ) traſcorre tallora alſoverchio, tallora moſtra ď abbandonare, ma poi per altra ſtrada ſoccorre. Platone non imita meno Omero nel carattere degl'interlocu tori, e delle ſentenze; io ravviſo in Alcibiade un non so che del carattere di Paride, l'uno e l'altro è milapcatore, fuperbo, e laſcivo; il carattere di Neftore è trasfuſo in quella parte del carattere di Socrate, ove queſto conſiglia, ma Neſtore auto rizza i ſuoi diſcorſi con l'eſperienze acquiſtare nell'uſo della vita, e Socrate con l'impreſſioni del genio che il dominava. I caratteri de' Sofiſti ſono preli da quei dei Trojani, che ſenza ordine, e ſen za diſcipliita s'avanzano come le Gru ſchiamazzando, e poi reſta no ſconfitti da' Greci, il cui coraggio e valore era ſoſtenuto dalla ſapienza, e dal consiglio, e fino da Minerva. Molti. pretendono che Platone ſpieghi la ſua ſentenza nel far ragionare Socrate, Timeo, Parmenide, l'Oſpite Arepieſe, e l' Eleatico, due perſone anonime, e che gli faccia dire a Gorgia, a Traſimaco a Claride., a. Protagora, & Eucidemo, ciò che non approva e vuol rifiutare, ma coſtoro non avvertono, che nel (2 ) Ragion Poetica. (33 ) nel far Platone ſiſtematico lo fanno peſlimo Dialogiſta, e talor peffi moFiloſofo, perchè egli concraddice a ſe ſteſſo in diverſiDialoghi, o almeno le coſe vi ſono così ſconneſſe, che non ſi può raccoglierle, non più che le membra di Penteo (a ) diſunite e sbranate. Tratto di cutte le parti della Filoſofia, or Logica, or Fiſica, or Metafiſica, accennomolte ſcoperte de' ſuoi tempiintorno alla mufica, all'aſtro nomia, all'ottica, ma imitando poi la ſetta Eleatica ne'dubbj, e nell'opinioni, tutto propoſe ſenza nulla concludere. CICERONE lo conſidera come il primo degli Accademici, o quel che diede ad Arceſilao, ed indi a Carneade il metodo di dubitare. Seſto Empirico ſenza altro lo pone tra' Pirronici nelle materie an cora più gravi, come in quelle dell'anima,del mondo, di Dio; nè a ciò CICERONE è contrario. Conveniamo dunque che Platone, co me nello ſtile poetico convenne colla ſcola Eleacica, così vi conven ne nel metodo di opinare,che egli col Dialogo reſe più problematico. Confideriamolo adeſſo nelle fentenze, e principalmente in quelle che riguardano l'idee ſulla Divinità, e ſulla materia. S'è già dimoſtrato, che i Pitcagorici riducevano tutto all'idee, ed ai numeri. Platone ſcielſe, e perfezionò ilmetodo dell'idee, econ duffe lo ſpirito alla cognizione del bene per l'idea del bene, della bellezza per l'idea della bellezza, e cosìfece del valore, della tem peranza, della ſcienza, e dell'altre virtù morali ed intellettuali, com ponendo tra loro l'idee n'eſtraffe l'idea della Repubblica, o l'idea del giuſto conſiderato nell'amminiſtrazione d'una Repubblicazimmagine di quella amminiſtrazione, che delle potenze dell'anima fa la ragione. Credevå egli, che ſpiegar le coſe particolari per le univerſali, fof ſe il metodo chela natura leguiva, allorchè procede dalle cagioniagli effecti. Parve ad Ariftotele, che foſſe più facile, e più ſendibile nelle inſegnar le ſcienze, ſeguir l'ordine dello ſpirito, chealla cagionevi per l'effetto. Non ſono più oppofti queſtimetoditra loro, che la ſin teſi, e l'analių, di cui l'una comincia dalle coſe generali, per difcen dere alle particolari, e l'altra dalle particolari, peraſcendere alle ge nerali; l'uno e l'altro Filoſofo nell'inveſtigar l'idee delle coſe, adoprò il metodo ſteſſo di comparare i ſingolari,e di farnele aſtrazioni oppor. rune, e lo dimoſtrerd a lungo pel ragionamento dell'idee Placoniche. CICERONE riduce l'idea alla terza parte della Filoſofia, che ver ſa nel difputare. Così l'idea trattavasi dagli antichi, che ſebbene ac cordavano ella naſcer de ſenſi, però volevano che il giudizio nonfoſe ne fenſi, ma che la mente fore giudice delle coſe, ſtimandola ſola atta a di ſcopriril vero, perchèfola diſcopriva cid cheera ſemplice, della ſteſanas tura, o tal qual era, e queſto lo chiamavano idea già così nominata da Platone, e noi poſiamo (conclude egli ) rettamente chiamarla la lpecie. Non erano perciò l'idee Platoniche, a ben comprenderle, che le fpe cie, eigeneri che noi facciamo, comparando ed altraendo, eche, Tom. II. (a ) Eufeb.Prop.Evang. (6 ) De Natura Deorum. (c ) Lib.1.Accad. 2 e come (34 ) 1 come ſi diffe, cappreſentavano i Pittagorici per l'unità, poichè la mente tutto va unificando per ſua natura. Una ſpiegazione sì facile, e breve dell'idee Platoniche, perfectamente s'accorda co' principi d'Ariſtotele. Egli tratta nella Merafilica l'idee Platoniche da metafc re poetiche, e queſto nome gli avrebbe pur dato Platone, se avelle dogmaticamente ſcritto come Ariſtotele', ma nel Dialogo ſpecie di Poelia Dramatica egli eguagliò la compoſizioneallo ſtile. Morco Platone, ed offeſo Ariſtocele di vederſi poſpoſto a Pfeufipo „ a lui tanto inferiore in ingegno, e in dotcrina vi oppoſe un'altra ſcuola di cui ſi fece capo, e per accreditarla cominciò a combattere le fentenze del ſuo antagoniſta, attaccandoſi alla parte più difficile, e più equivoca o alla quiſtionedell'idee, alle quali Preuſipo imitando.forſe il metodo di Platone dovea dar troppo di realità. Ariſtotele ſcriſe dunque contro l'idee ſeparate, ma Platone avendo già nel Par menide conſumato quanto potea dirli contro di loro, Ariftotele ne copiò gli argomenti dipeſo, ed al ſuo ſolito con brevica ed oſcurità di ſtile, fingendo di combatter Placone critico Preuſipo, ed i ſuoi di i fcepoli. Dital congettura è mallevadore il Patrizio nelle ſue diſcuſ fioni peripatetiche. S'elle ſon vere, non che verifimili, verifimile è pure che fin d'allora ſi ſpargeſſero i ſemi che prima Ammonio Sacca, ed indiPlotino, Porfirio coltivarono, e Jamblico, e Procloridul fero in regolato fiftema. S.Giuſtino, che avea più ſtudiatii Platoni ici, che Platone era perfuafo, che l'idee foſſero ſoſtanzeſeparate, collocate con Dio nella sfera più alta. S. Cirillo rifiuţa Giuliano A poſtaca, che credeva il Sole, la Luna, egli altrieller l'idee viſibili e comporre gli Dei. 11 P. Balto riferiſce a lungo ipaſſi di S. Ireneo, di S. Bafilio e d'altri, i quali impugnarono l'idee ſeparate, che introdu cendo il politeismo rovinavano ne'ſuoiprincipj la Religione Criſtia pa. Soſpetta il P. Balto, che Eufebio difendere l'idee Platoniche persè ſuffiftenţia pro dell'Arianismo da lui profeſfaco. Negli ultimi tempi il Clerico ne rinovd la ſentenza, e molto più l'anonimo Soci niano nel tuo Platonismo ſvelato, ove ſi confondono con l'idee di Platone, gli Eoni rami de'Seffirotii cabaliſtici adottati da' Valencia niani e da' Baſiliani, e de'quali nella concinuazione dell'iſtoria degli Ebrei parla a lungo il Basnage, I comentatori di Platone abbagliatidatante autorità, nè avendo forza di critica fufficiente per reliltervi, s'abbandonarono ai fantasmi di Proclo, e di Jamblico, anziche abbadarea'ceſti di Platone, ne s ' avviſarono di ben pelare le dottrine del Parmenide contro l'idee ſeparate aggiunte da Ariſtotele alla metafiſica. S. A goſtino è il primo de' Padri Latini, che non fepara l'idee Pla toniche da Dio; dando a Dio la creazione del mondo non poteva egli non concepire nell' intelletto divino la ragione dell'ordine del le coſe create, e queſte appunto ſono l' idee su le quali poi San Tommaſo ſeguito da' Teologi, ne fece molti articoli, of. feryando che l'idee divine ſono univerſali, onon rappreſentano a Dio (35 ) 2 € Dio ſolo le ſpecie, ma ancora gl'individui, col rappreſentargli le coſe non quali noi per la limitazione della noſtra mente le veggiamo, ma quali ſono in fé ſteſſe. Il Padre Balco riprende a dritto su queſto punto il Dacier, che per difender malamen te Platone, cade non volendo in un errore. Ma fe Platone preſe da’ Pitragorici l' idee nel ſenſo, che le propoſero Pitcagora, ed Archira, pare che egli ancora come queſti ſentiſſe intorno la Divinità. S'è già dimoſtraco che dopo Pitcagora, Senofane e Parmenide conſideravano Dio non altrimenti, che l'anima del mondo. Lunga cofa, dice Ci cerone, (a ) ſarebbe a dire dell'incoſtanza di Platone intorno a Dio; nel Timeo nega, che porta nominarſi il Padre del mondo; nel libro delle leggi, ſtima non doverfa ricercar affatto coſa ſia Dio. Lo stesſo nel Timeo, e nelle leggi, dice eſſer Dio, il mondo, e gli altri e la terra, e gli animi, e gli altri Dei, che abbiamo ricevuti dagl' iftitu ti de' Maggiori. Il Padre Arduino raccolſe tutti i paffi, ove Pla tone parla degli Dei nel ſenſo ſtero. Dio nel Timeo ſi chiama bensì il Padre, e l'artefice del mondo, ma non mai il Signore, il Sovrano; ſi chiamava il mondo un Dio generato, il quale ba una perfetta ſomiglianza con Dio; figliuolo, e figliuolo unico di Dio; un Dio completo, un Dio generato da un altro Dio, un Dio felice, im magine del Diointelligibile, perfetta copia d un originale perfetto Dio ottimo malimo, qual appunto i Romani doceano diGiove, per cui folo intendevano il deſtino inviſibile delle coſe. Molci alcri paſſi ſpiega l' Arduino, e da cutii ſi raccoglie, che Placone non co noſceva Dio, che come principio intelligente, qual lo conobbe Pittagora, Senofane, PARMENIDE DI VELIA, e cant alori, a' quali può ben applicarſi il pallo di S. Paolo, in un ſenſo filoſofico, che cono ſcendo Dio, non come Dio l'onorarono (non ſeparandolo affacco dal la materia, o, ponendolo ad eſsa coeterno. ) Pitcagora avea generato il mondo, e lo generarono i Fenici, Orfeo, ed Eliodo. A queſt'idea poetica, Platone aggiunſe le Fi loſofiche accennate da Timeo di Locri nel fuo ragionamento della natura, e dell'anima del mondo, e ne compofe il Timeo, nel qual volea nell'ordine oſſervato dalla ſapienza nella fabbrica del mon do, dar un modello di quella Repubblica, che poſcia propoſe nel Dialogo del Giuſto. Ariſtocele pur comparava la coſtituzione del mondo ad una Repubblica, in queſta v'è il Principe, che comanda ai Magiſtrati militari, e civili, e nel mondo v'è Dio, che col miniſtero degli Dei inferiori, compie, conſerva, ed ordina cuc te le coſe. S'è © e di lo Lei li i e lo i e (a ) D: Natura Deorum lib. I. 3 (36 ) s'è gia dimoſtrato, che i Platonici recenti nel divider in due punti, o ſegni, l'eternità, neaſſegnavano il primo ſegno a Dio, in quanto a Dio, ed il ſecondo a Dio creatore della materia la difficoltà è di ritrovare in Platone qualche coſa che s'av vicini a queſta dottrina. Teofilo (a ) non ve la ritrovd altri menti dicendo, che Platone coi ſuoi ſeguaci poneva Dio, e la materia ingenita; con che non venia a porre Dio, nè uno; nè ſolo. lo qui ſtenderò un lungo paſſo di Plutarco, perché fe 'ne giudichi. Il mondo, dice egli,è bensì ſtato fabbricato da Dio, perchè fra tutte le coſe è bellißimo il mondo e Dio fra le cagioni l'ottimo, ma la ſoſtanza, e la materia, della quale è ſtato formato, non eſſer mai nata, ma ſempre averſi trovata ſottopoſta ab Maeſtro, ed ubbidiente a ricever quell'ordine, e quella diſpoſizione, che fore in quanto ella potelle comportare a lui fimigliante, percbè il mondo non fu creato dinulla, ma di ciò che era privo, di bellezza, di leggiadria, e di perfezione, ſiccome la caſa, la veſte, la ſtatua, perciocchè tutte le cose, primache naſceſe il mondo, foffero confuſe, e diſordinate, nondimeno le coſe confuſe non erano ſenza corpo, ſenza fora ma, ſenza regola, moſle da movimento a caſo, e ſenza ragione. Que sto altro non era; che la ſproporzione dell' anima, di ragione Spoglia ta, perciocchè Dio di coſa ſenza corpo non fece corpo, nè anima di coſa d'anima priva, nella maniera che noi vediamo, cbe il Maeſtro di muſica, e dell armonia, non fa egli la voce, bensì la voce acconcia, e il moto proporzionato; così parimenti Dio non fece il corpo trattabile, e ſodo, nè l'anima atta a moverſi, ed in gannarſi, ma preſo l' uno, e l'altro principio, quello oſcuro e pienodi tenebre, queſto confuſo e pazzo, amendue più rozzi, e più difformidel convenevole ordinandoli; e diſponendoli, e congiungendoli formd un animal beltiſſimo, e perfettiſſimo. Dunque la natura del corpo non è punto diverſa da quella natura, come dice Platone, che abbraccio il tutto, ed è fondamento e nutrice di tutte le coſe che naſcono; non dimeno la natura delp anima fu da Platone nel Filebo nominata infini to, il quale non riceve numero, nè proporzione, nè vi ſi trova miſu ra, o termine alcuno di mancamento, di ſoverchio, di ſimiglianza, o di differenza. Così parla Plutarco ed è facile il dedurne, che ſecondo Pla tone eterna era bensì la materia del mondo, ma nuova la for ma, (a ) Teophil. ad Autolicum 1.2. Plato cum ſuis aſſeclis Deum quidem confitetur ingenitum, patrem præterea & conditorem hominum, at que deinde fubjicit, live ſupponit Deo materiam quoque ingenitam, quæ fimul cum Deo prodiderit five extiterit; verum fi Deus cen ſetur ingenitus, & materia perhibetur ingenita, jam nec amplius Deus conditor & creator eſt hominum etiam fecundum Platonicos, nec quod unus & folus ſit ab his vere demonftratur. nè il moto, ma 1 1 (37 ) má, ed in queſto Platone differiva da Ariftotele, il quale, come s'accennd, fece ad un tempo eterne, e la materia, e la forma; Ariſtotele rimprovera perciò Platone, d' aver fuppofto, che la materia con cuiDio compoſe le coſe, foſſe in moto, e loda Anaf fagora, che la poſe in quiete. Vuole egli ignorare, che affatto poetico foſſe il Timeo; pure non è credibile,che egli non l'aveſſe udito dir più volte da Placone ſteſſo, che nel Dialogo finſe Socra te a favellar con Timeo di Locri contemporaneo forſe a Pittagora; parla dell' abboccamento che Solone ebbe coi Sacerdoti d'Egitto, iutta ſpaccia la favola dell'Iſola Atlantide., ſtempera in una taz za i numeri armonici dell'anima del mondo compoſta di cre ſo ftanze, ne ſparge le reliquie su le ſuperficie de glòbi', conſidera come coſa reale la mecemplicoſi, che Timem (a ) nel ſuo ragiona. mento introduce come coſa politica. In ſomma ben eſaminan do tutte le frafi Platoniche e tutto il conteſto della dottrina Filoſofica poeticamente maſcherata, io ſon perſuaſo, che in Platone, comene Pictagorici, Dio vi s'introduca qual animadel mondo, o la ſteſſa mente, e ſapienza perfecta ſparſa per tutto; allora perciò che dice CICERONE nella natura degli Dei, e quan do Platone fa Dio incorporeo (b ) egli confonde Dio con la mate+ ria, la quale era incorporea, come ſi diffe, prima che da Dio ſe ne eſtraffero i corpi. Dall'alcra parte nell'ipateli, che Dio gli abbia eſtratti, fece Dio concepirſi" al di fuori della materia, co me l'architetto al Palagio, e lo ſcultore alla ſtatua. In vano dun que dall' opere di Platone, e degli altri Filoſofi antichi, i qua li ammifero la materia eterna, li cerca l'idea del Dio che ado. riamo; egli è uno ſpirito infinito, nella di cui natura inviſibile ſono riunite cutte le perfezioni immaginabili, e poflibili; onde gli ſcolaſtici lo chiamarono il cumulo delle perfezioni; e i Cartuliani l'ente infinitamente perfecto. Sino a què l' ammet cevano gli ſtefli Pagani, ma la definizione non balta, ſe ad el fa non s? aggiunge, che Dio ha tratto dal niente l' Univerſo, e che è diltinto realmente, e ſoſtanzialmente da tutto ciò che ha creato. Tale definizione come ortodoſſa propoſe l' Abbate d'Oliveta ’ Filoſofi (c ) dopo di aver eſpoſte tutte le loro fen tenze, tra le quali entra e Pittagora, é Senofane, e Parmeni de, e Platone Itello, Non (a. ) Nel fine. (6 ) Cicer. Natur. Deor. (c ) Nel fine del Tomo 3. della traduzione della Natura degli Dei;. Par ce mot. Dieu, je veux dire un eſprit infini, dont la nature eſt indiviſible & incomunicable; dans lequel font réunies toutes les perfections imaginables & poſsibles, ſans aucun mélange d' imperfe etion; qui'a tiré du ndant l'univers, & qui eſt diſtinct réellement & ſubſtantiellement de tout ce qu'il a créé. 0 1 (38 ) o dell' Non è tuttavia, che debbano ſpregiarſi le dottrine di Placone, e rigettarle come inutili; conobbe egli Dio ſotto un'idea con fuſa, come lo conobbe Ariſtotele, e in quella guiſa che S. Tom maſo da Ariſtotele tralle molti principi, e combinandoli coi rivelati propoſe molte concluſioni Teologiche, così può farſi di Platone; S. Tommaſo dall' uno, e dall'altro traſfe l'eſiſtenza di Dio, impiegando i mori, le cagioni, l'ordine del mondo, i gra di più o meno perfetti delle coſe, ma non potè trarla dall' en te contingente e neceſſario, che Platone non conoſceva, ponen do ecerna la materia, e chiamandola neceſſità. Dimoſtrar il primo ente qual principio intelligente, per l'adequaca idea di Dio, non baſta le da eſſo non ti rimovono tutte le compoſizio ni, dimoſtrando, come fa S. Tommaſo, che in lui non ve n'ha nè di forma, nè di materia, e che non può ridurſi ad alcun genere, Nel Parmenide però non v'è biſogno d'alcuno di queſti ar tificj; tutto vi fi' riduce all'idea metafiſica dellence uno. Convien dedurla da' ſuoi principj, od eſtrarla come fece Pittagora, e Peritione da tutti i compofti, ed eſaminarne le proprietà. Così AQUINO (si veda), ove tratta dell'unicà, e della bontà di Dio, prima ricerca, quanto la ragione, gli può per mettere, coſa ſia l' uno, e coſa ſia il buono, indi col princi pio rivelato cid combinando, dimoſtra la purità, e la bon tà di Dio. Io parimenti ricercherò con la ragione, fe si poſſa ben intendere l' uno del Parmenide, laſciando agli altri la fa rica di ſpiegarlo in un modo fublime, applicandovi le coſe Teologiche, delle quali non intendo d' attaccarne, o diftrug. gerne la minima. Io cratterò della dottrina del fine, indi del metodo del Dialogo. Gli antichi con ragione intitolarono queſto Dialogo, il Par menide o dell' idee, perchè Parmenide parla più degli altri, e tutti i ſuoi ragionamenti raggirano su l' idee, o per cercarle con le aſtrazioni della mente, o per diſtruggere le ſeparate, eſempli ficandone il caſo nell'idea dell' uno, la più ſemplice di tutte l'al tre, e a cutte l'altre comune. Supponevano i Pictagorici, che tutte le coſe imicaſſero, o par ticipaſſero l'idee, o le fpecie; provacontro loro Parmenide, che le cofe non poſſono eſſer partecipi delle fpecie, nè ſecondo il tutto, nè ſecondo unaparte, indi col principio di contraddizione, col progreſſo all'infinito, e coll' ideaſteſſa delle perfezioni divine; gli fteffi argomenti di cui ſono nel Parmenide i femi, fteſe Ariſto tele, ed è mirabile che i comentatori non abbiano penſato di con frontarlo nel ragionamento dell'idee con Placone, ciò che attri buiſco all'ipoceli da loro fiſsata, che in queſto Dialogo Parmenide, o Platone confermi e non diſtrugga. l' idee ſeparate. Annullate tali idee in modo cheSocrate ne reſta convinto, Pare menide per non laſciarlo nell' imbarazzo gli moſtra la neceſſità che ha il Filoſofo d'ammettere certi principj fiſſi ed immutabili e tanto più difficili a comprendere, quanto che non fi poffono de terminare, nè co' ſenſi, nè colla fantaſia. Parmenide' nell'etem plificare il caſo del metodo propone l'idea dell'uno, e la con ūdera relativamente a ſe ſteſſa, indi all'ente, al fine, al non en te. Così un matematico trattando per eſempio del triangolo, lo conſidererebbe prima in ſe ſteſſo, poi per rapporto all'altre figure rettilinee o piane, ed al fine alle non rettilinee, od alcerchio. Definiſce Zenone l'uno per oppoſizione a molti, e chiama uno ciò che non è molti. Ariſtotele, nella metafiſica molto ap prova queſta definizione, perché i molti ſono più noti al ſenſo che l' uno; prende Parmenide la definizione, e negando dellº uno tutto ciò che s'include in molti o li predica de' molti; negà ch' egli fia cutro, parte, principio, mezzo, fine, figura moto, quiete, lo ſteſſo, diverſo, ſimile, diſſimile, eguale, mag giore, minore; in oltre gli nega le differenze del tempo, pre lente, paſſato, futuro, l'eſſenza, la ſoſtanza, il nome, il ſen fo, la ſcienza, l'opinione. Parmenide prende ſempre l'uno nel ſuo concetto aſtrattiflimo, nè men volendo che l'uno â conſideri per rapporto a ſe ſteſſo, perchè nel riferir l'uno a sè li concepireb be come due o come molti. La ſeconda quiſtione è, ſe l'uno ſia che accada all' uno, ed all'altre coſe; qui l'uno fi ſuppone inſeparabile dall'ente, come rente dall' uno, onde tutto ciò che s' include o li predica dell', pud predicarſi dell' uno; quindi ſe nell' ente's include o dell'ente fi predica, la parte, il tutto, il finito, l'infinito, il principio, mezzo, il fine, la figura, il luogo, il moto, la quiete, il fimile, il diffimile, lo iteſto, il diverſo, l'eguale, il maggiore, il minore, il tempo paffato, preſente, e futuro, 1 eſſenza, o la ſoſtanza, la ſcienza, l'opinione, il ſenſo, tutte queſte coſe ſi predicheranno ancora dell'uno. Non ſi predicano però queſte coſe oppoſte dell' uno, e dell'ente. nel medelimo tempo, e ſecondo lo ſteſſo riſpetto, ma in varj te m pi o ſecondo diverſi riſpetti, e ciò fa che le contraddizioni non ſieno, che apparenti, o del genere di quei meraviglioſi, che de generano ſpiegandoſi in puerilità. Cosi penſa lo ſtelfo Platone nel Teeteto, maParmenide nel cercar qui ſe ſia l'uno, quali altre co fe ne fieguano, non cela all'uſo de Sofiſti, ma ſpiega come vero Filoſofo in termini ſemplici i miſteri, e queſta iola credo una nuova prova del liftema Parmenideo da me ſtabilito. In queſte due prime nozioni dell' uno non vi ſi framiſchiano le immaginarie', o poetiche; mabensì ve ne fono nella terza, ove fi rapportal'uno al non ente, o al nulla, di cui non s'ha nozionereale', ma ſolamente immaginaria come dell'impoffibile. V'è un affioma Logico, il qual diceche, dall' impoflibile ogni coſa ſe ne deduce, pera che in lui fi complicano i contraddicorj, anzi il criterio per co nofcerlo è per mezzo dei contradditorj, e poichè l'uno è inſe párabile dall'ente; fia lo ſteſſo dir il non uno, che il non en te, ma del non ente o dell'impoffibile fi dice che ha effenza, o che non l'ha, che è lo ſteſſo e diverſo, che è ſimile, e non fi mile, eguale, non eguale, cheſe genera e fi diſtrugge ec. Dun que le ſteſſe coſe che ſi predicheranno del non ente conveniran no ancora al non uno. Nell'attribuire il non uno all'altre coſe, fi trasformeranno queſte in fantasmi, o sogni d'eſtenſione, di mal fa, di moto e di quiete, ciò che rende il mondo più poetico del cabbaliftico. Platone o Parmenide maneggiano queſto argo mento con ſomma ſagacità, e delicatezza, e ben ſi vede quanto foſſe la loro Filoſofia profonda, e quanto utiliffima eller poſla, non cangiando il grado dell' aſtrazione, nè inneſtandovi opinioni affatto encufiaftiche, come fece FICINO. I celebri Pittori, attenti ad oſſervare in ogni luogo tutto ciò che loro ſomminiſtra idee nuove d'atteggiamenti, di ſcorcii, di lineamenti, difigure, ſe mai su i muri più affumicati ritro. yano quelle ſtriſcie fortuite impreſſevi dalla caligine, le vanno combinando con la loro immaginazione, e creano delle figure leggiadramente fimecrizzate, e canto ſi rifcaldano nel vagheggiar opera loro, che le additano agli altri, come fe ivi foffero,e ſi cruciano e fremono, e ingiuriano, quando queſti ſemplicemen te riſpondono di non ravvifare, che orme irregolari di fumo. I Filofofi, e particolarmente i comentatori hanno lo ſteſſo coſtu me, fiffi in un fiftema l'addatano a tutto ciò che incontrano nell' autore da loro accarezzato, e dove egli ancora parla nel modo più ſemplice, e naturale, e conveniente a'ſuoi principj, par loro di fargli torto, ſe non l'abiſfano nelle loro profonde ſpeculazioni, e lo dimoſtrano tanto più ammirabile, quanto nyono l'intendono, c quanto dagli altri è meno intefo. In tutti i Dialoghi s'è prefiſſo FICINO, di far di Placone (a ) un Teologo Criſtiano, ma non so come ritorni in queſto Dialogo al (a ) Prima ex quinque ſuperioribus de uno fupremoque Deo dixerint quomodo procreat diſponitque deorum ſequentium ordines. Secunda de fingulis Deorum ordinibus, quo pacto ab ipſo Deo proficiſcuntur ec. argum. Marſ. Ficini Parm. vel de uño rerum principio, & de 9 ideis. (41 ) al Paganeſimo, e vi traſporti tutte le idee fimboliche del Timeo, e del Fedro ſenza biſogno, e profitto; e che coſa ſon queſti Dei che ſeguono Dio nell'ordine loro, ed in qual parte del Parmeni de li ritrovo? Annullò il Serano gli Dei, e vi ſoſtituì due ſorti d'idee; Dio è la prima e principal idea, le ſeconde ſono le va. rie idee delle coſe create; ma ſe Parmenide non diſtingueva Dia dal mondo; coſe affatto poeriche non ſono le idee divine? Non bado il Serano, che Parmenide toglie all'ente ſino il tem po' preſente, e le toglie ancora l'eſſenza. Si, ma intende il Se rano l'eſſenza delle coſe ſingolari, e quando Parmenide dice, che l'uno è molte coſe, vuol dire, che egli dà la forza d'elfte re alle coſe ſingolari. Or come ſi può includere nell'idea dell' uno, in quanto tale la forza? E come poteva Parmenide inclu derla nell' uno, ſenza concepirvi l' eſſenza, e nell' accoppiare l' eliftenza alla forza, e non concepir l' uno come molti contro l? ipoteſi? La prima idea, dice il Serano, fi diffonde in maniera ſulle coſe create', alle quali Dio dà la forza, e facoltà d ' eſiſtere, che ad ogni modo circoſcrive ne' determinati cancelli dell' uno, la feffa moltiplici, tà, e quaſi infinità delle coſe ſingolari. Queſta è la luce tenebroſa del Flud, chi può ſpiegarla? Va il Serano peſcando le affezioni dell' idee ſeconde, e ne ri trova ſei, dopo le quali la ſua vena metafiſica, e teologica, ſi conſuma, o perde, ed in tutto il reſto del Dialogo immobil mente fiſto, ed eſtatico ſul ceſto Platonico, par uno di que' Chineſi, che per molti anni guardandoſi la punta del naſo s'im maginano di veder l'eſſenza divina; non batte egli palpebra tutto concentrato in sè, nè degna abbaſſarſi a ſoſtener con note margina li l'imbarazzato lettore. Io ſon ben lontano dal condannare le al tre note di queſto autore, colle quali negli altri Dialoghi eſpone la conneſſione, e callora le ragioni ſemplici del teſto, ma nel Par menide ſpiegando alto il volo per emular il Ficino, li dimentica del ſuo coſtume, e laſcia in aſciutco il leccore; ma come è poſſi. bile, che avendo egli canto ſtudiaco Platone, e confrontati i teſti, nonabbia atteſo ad unpaſſo del Filebo, in cui li ſpiega il fine, che Platone ſi prefiſſe in queſto Dialogo? Nel Filebo, che non ſenza ragione gli antichi faceano ſeguir al Parmenide, cosi ſi parla da Socrate a Protarco. Tu, o Protar dice Socrate, intorno l' uno ed i molti ai dette le coſe pubbliche dei meraviglioſi, le quali, per dir cosi, ſono concedute da tutti, che non fieno punto da toccarli, ejendone alcune puerili, e facili da conoſcerſi, e per nuocere maſſimamente a ragionamenti, fe alcun le ammetteſſe; nè è Tom. II. f de (42 ) - 1 1 tal uno, da ſtimarſi coſa meraviglioſa, ſe alcun dividendo rolla ragione le mem-, bra d'alcuna coſa, e tutte quelle parti, confeſſando quella eſerne una; di poi la confutalle, e ne prendeſe beffe quaſi sforzato a con. feſare coſe moſtruoſe, cioè che una ſola coſa ſia molte ed infinite, ele molte quaſi una ſola, E' quì da notarli quel dividere con la ragione le membra di alcuna coſa, formula che egli repplica ſovente nel Parmenide, in cui dice, ſeparar le coſe con l'intelligenza, e fino sbranarle; indizio manifeſto che qui non ſi tratta, che d'aftrazione di ra gione, per cui nelle coſe più ſemplici fi diſtinguono, non le par ii, ma gli attributi, e le relazioni che le fan molte per rapporto alla mente; or tutto ciò che dice nel Parmenide dell'ente, e dell' uno, non divien egli un di que' meraviglioſi puerili, de' quali par la Socrate, fe non s'averte, che le contraddizioniſono apparen. ti, o che nel medeſimo tempo, e ſecondo lo ſteſſo non s'aſcrive all'uno, il fimile e diffimile? Siegue Socrate: quando alcuno giovane pone l'uno, non eſſer alcu na di quelle coſe, le quali naſcono, e muojono, perciocchè quì un co come poco fa dicemmo, ſi è conceduto, che non ſi debba con futare. Parla quà Socrate della prudenza, della ſcienza, e della men te, di loro natura une, immortali, ed eterne nel ſiſtema Piccagori co, e delle quali, come d'eſſere reali, parla nel Sofiſta. Conclude Socrate: Ma quando ad affermare è altretto un fol Uo mo, un ſol bue, una coſa bella, ed una coſa buona, allora veramen. te in queſte, ed in cotali unità ſi rende ſollecito lo ſtudio, ed anche ſi fa ambiguala divifione. Primieramente ſe ſieno da ammetterſi certe uni tà sì farte, che fieno veramente; di poi, in qualguiſa ſia de penſarſi, che ciaſcuna di quelle coſe ſia una, e la medeſima ſempre, nè fi pren da generazione, nè morte, ma ſe ne ſtia fermiſima nell' unità di lei; finalmente ſe ſia da porſi alcuna coſa nelle coſe generate, od infinite, o partita, ed oggimaifatta moite coſe, o tutta eſa in diſparte da ſe medeſima, il che più di tutte l'altre coſe parrebbe impoſibile che uno, e lo dello ſi facele parimente in uno, ed in molti. Quefto è l'uno, ed i molti che ſi trovano intorno a cotali coſe, ma non quelli, o Protarco che non conceduti bene ſono cagione d'ogni dubitanza, ed ogni facilità ben conceduti. Manifeftiffimo è, che quì Socrate ripete le difficoltà ſull' idee ſeparate fattegli da Parmenide, e ſu le quali confeffa, che impoſſi bile è di scioglierle, indi fa attenzione al metodo inſegnato da Par menide, di cercar l'idee per via dell' aſtrazioni, con le quali ſi to glie ogni difficoltà intorno a'molti, e all'uno. Da queſti palli io deduco, che il fine di Platone in queſto Dialogo altro non fu, che d'allontanarſi da quel meravigliolo e puerile, in cui facilmente fi cade, quando non ben li diftingua no i concerci della mente, o s'amia irasformare i concetti in ido li, ed a realizzarli poeticamente, come faceano i Pittagorici. Per compir queſto diſegno fcelle Platone il Filoſofo più ſpeculativo dell'antichità, e deſcritto da Socrate qual Uomograve, evenerabile, e d'una profondità al tutto generoſa, il che vuol dire, ſe non erro, che egli nella ſua maniera d'argomentare franca, libera, ed inſie me profonda, nulla tenea del lopraciglio, e della vanità dei Sofi fi; Platone quimoſtra fin dove arrivar pud l'ultima analiſi, che i Pitcagorici faceano dell'idee, oltre le quali il procedere'era un eſporſi a pericolo di non più intender quello che ſi dicea, comepur trop ро è arrivato ad alcuni Scolaſtici, che fpingendo troppo, oltre le queſtioni oncologiche, ofarono ſin negare il principio di con traddizione, ed affermarono chel'infinito ſi raggruppaffe in un pun to. Nel GORGIA DI LEONZIO, nel Protagora, ed in altri Dialoghi contro iSo fifti, coll'arte dell'ironia Socratica, li dipinge a diritto Platone quali cacciatori mercenari d'uomini, mercatanti venditori, appal tatori di ſcienze, e diſcipline falſe; ma chi può dire che Platone ebbe difegno di proporſi in queſto Dialogo Parmenide, qual mer catante venditore, ed appaltatore di bujo peſto, che così devono chiamarſi le quiſtioni tenebroſe, ed all'ambicate; bujo peſto è quel lo di cui troppo liberalmente lo caricano il Ficino, ed il Sera no, non quel che combina la doctrina d' Ariſtotele, con quella di Platone; dotcrina che curt " i Peripatetici, e gli Scolaſtici ab bracciarono e che ultimamente con tanta chiarezza e preci* fione, eſpoſe il Wolfio nella fua Ontologia. Queſto Dialogo è primieramente ontologico, e preſo in queſto ſenſo non ha in sè più di pericolo che la metafilica d' Ariſtocele, ma ridotta alla Dialeccica, L'antica Dialetica verſava fu i generi di tutte le coſe, attenca a compararli, a combinarli, per preparare' ed illuſtrare la quiſtio ne propoſta. S'ingegna lo Stanlejo di ridur a tre generi la Dialec tica de Piccagorici.1. Ai non ripugnanti, o ſia all'eſſenza delle coſe nelle quali ſi combinano, coſe tra loro non contradditcorie.. Così l'eſſenza del triangolo o del quadrato, è l'eſfer figure di cre o quattro linee, perchè non v'è ripugnanza, che il numero ter nario o quaternario, s'adatti o fi combini alle linee rette. 2. Ai differenti o alle coſe che tra loro ſi diverſificano nell'eſſenza, nc gli attributi, e ne' modi; così il triangolo è differente dal qua drato, ed il quadrato dal cerchio. 3. Ai relativi a'quali ſi riduco if 2 no (44 ) no tutte le matematiche conſiderate dagli antichi, come il vero modello della diſciplina, ed a cui i moderni riduſſero l'arte dell' analogie filoſofiche, ed il calcolo de' probabili. Platone ſtabiliſce in molti luoghi non tre ma cinque generi del le coſe; l'eſſenza o ciò che è, lo ſteſſo, il diverſo, il moto, e la quiere; a queſte due ultime nozioni ſi riduceva tutta la fiſica antica, onde diſfe Ariſtotele, che ignorato il moto s'ignora la natura. Lo ſteſſo e il diverfo vaga per tutte le altre fcien ze; onde Platone dello fteſſo, e del diverſo, compoſe l'anima del mondo, e la bellezza. Lo ſteſſo e il diverſo ſono relazioni dell' ente in genere, fi ſpargono ſulle relazioni dell'ente in ſpecie, il fimile, il diffi mile, Peguale, il maggiore, il minore, il nuovo, l'antico. Que fta era la ſcala de'generi ſuperiori, o quelle nozioni ontologi che aſtratte per l'acume della mente da' concreti, coſa ben di verſa dalla ſcala de' predicamenti d' Ariſtotele. Il Wolfio fa propoſe per ultimo oggetto degli ſtudj fuoi, di perfezionar" la Icala de'generi, e con eſſa ſciogliere il problema dell' analiſ dell'idee, propoſta ma non trattata dal Leibnizio. I Pittagorici ne diedero i primi ſemi, e Placone più li ſviluppò, applican doli alla determinazione dell' idee, quindi è che nel Parmeni de tutti iſuoi argomenti ſi riducono alle relazioni dell'ente, in genere dell'ente, in ſpecie. Rinferrata ne' fuoi limiti la materia del Parmenide, il meto do che v’applica è quello del principio di contraddizione, che ci conduce all' aſſurdo; metodo non tanto accetto a noi, per. chè ci dimoſtra la noftra impotenza, ma che ci sforza invin cibilmente all'faffenſo. In queſto metodo Platone ne aggruppa molti altri, il metodo d' eſcluſione è quello dell'analiſi geo metrica. Nel metodo d'eſclufione fi numerano tutti i caſi di una co ſa, e s'eſcludono o tutti per dinotare l'aſsurdità, o tutti men in cui fi cerca la ſoluzione del problema. Così Archi mede avendo dimoſtrato, che un dato poligono non è, nèmag giore, nè minore del cerchio, nel quale è inſcritto o circon Icritto, conclude che gli è eguale. Placone in molti caſi ado pra il metodo ſteſſo. Nel metodo dell'analili geometrica, fi aſſume (6 ) il quefito come conceffo, e per legitime conſeguenze s'inoltra fino ad un ve 1 uno, ro (a ) Affumptio quæſiti tanquam conceſsi per ea quæ conſequentur ad verum conceffum. (6.) Wallis Il. dell’Algebra. (45 ) To conceſso, da cui riteſsendo il ragionamento ', li dimoſtra il quelito; molti vogliono, che Platone ſia l'inventore di queſto metodo, e che abbia fatto il Parmenide per darne l'eſempio; maqueſti attribuirono al tutto ciò che conviene adalcune parti, Utiliflime ſarebbono le metafiſiche de'moderni, fe i loro autori fi foſsero limitati all'ipoteſi, e ſi foſſero guardati di proporle in for ma di dogma, cagione d'eterni litigi non ſalvati, ne da ſtile elo quente, nè da calcoli algebraici. Il Carteſio ſegui nelle ſue medi tazioni ilmetodo analitico, ma diede occaſione a molti ſiſtemi più ſtrani de'ſogni, come quello degli Egoiſti, conſeguenza dello fpi nofismo fpirituale. Che dirò dell'arte del Dialogo, in cui s'è già dimoſtrato imi, tarſi i ragionamenti umani, come i Poeti Dramatici aveano imi tate le azioni umane. All'imitazione. di queſte convien il palco, ed il verſo, non all'imitazione de' ragionamenti, la quale per ſua natura appartiene alla DIALECTICA: poco o nulla di leggiadria avrebbono i sillogismi, egli entimemi in verſo, e poco o nulla lor gioverebbe l'apparato della ſcena. Si è pur detto che la quiſtione, e la digreffione al Dialogo, è come la favola, e l' epiſodio al Drama. Nel Parmenide la quiſtione è intorno l'idee, ma non v'è digreſſione, ſe pur non fi voglia ridur a queſta, la preparazione alla diſputa con Par menide, incominciata tra Zenone, e Socrate. La differenza de' drami ſi prende dal diverſo modo dell'azio ne, la quale o è ſemplice, o compoſta, e la differenza de’ Dia loghi dal modo del ragionamento, nel quale, o s'inſegna, os inveſtiga da un ſolo, o s' inſegna, o s'inveſtiga da molti la quiftione propoſta. A quattro generi riduce il Taffo i Dialoghi, al dottrinale, al Dialettico, al tentativo, al contenzioſo. De’due primi generi è miſto il Parmenide, perchè dopo di aver egli diſputato con Socra te, quaſi ſolo favella, non contandoſi le riſpoſte d'Ariſtotele, approvazioni per lo più della concluſione, o preghiere d' eſpor più chiaramente la ragione accennata. Nel inlegnare qual fia la natura o l'idea dell'uno, qui non v'è tentativo, nè litigio, nè in queſto Dialogo v'è molto a ricercare, ſe ſia meglio adat cato all'inſegnamento che il maeſtro interroghi, od i diſcepo lo., perchè appena termino la breve diſputa có Zenone, che Parmenide cominciò a interrogar Socrate, ed avendolo confu? lo, ed imbarazzato con una difficoltà cui non poteva riſpondere, Para (a ). Torquato Taſſo diſc. ful Dialogo. uno. Parmenide paſſa ſenza interrompimento alle tre poſizioni dell ' Vuol Torquato Tallo, che come una ſia l'azione nel Dra ma, così una fia la quiſtion nel Dialogo, la quale o è infini ta, per eſempio ſe deve apprezzarſi la virtù, o è finita, per eſempio che deggia far Socrate condannato a morte. La qui ftione del Parmenide è infinita, perchè fi tratta dell' idee di cui ſi cerca la natura e l'origine, la natura dimoſtrando che non ſono dalla noſtra mente feparate, l'origine dimoſtrando come per via delle ſuppoſizioni s'acquiſtano. Queſte due coſe ne fan no propriamente una, perché non ſi può intender la natura dell' idee ſenza prima determinarne l'origine. L'una e l' altra determina Parmenide, e rimove l' idee feparate per convertire il ragionamento al modo con cui la mente le acquiſta. Parme nide lo propone, non lo dimoſtra per non allontanarſi dal co ſtume della ſua fetta, che era di propor dubitando le coſe: Non è cutravia in ciò ſolamente che appariſce il coſtume di Par menide. Dimanda Socrate, che gli ſia dichiarata la quiſtione delle idee, ed intorno alle coſe che ſi veggono,ed ancora intorno a quelle che ſi comprendono con la ragione. Parmenide, e Zenone attentamente lo aſcoltano, eſpero guardandoſi l'un l'altro fog ghignano quaſi di Socrate meravigliandofi. E queſta è quell'evi denza tanto neceſſaria al Dialogo, e di cui Platone diede si chiari eſempj neli' Ippia, e nel Fedone. Ella è qui ordinata a manife ſtare il coſtume d'un Filoſofo accento, e che colla triſtezza, e coi fogghigni accenna, ciò che nel diſcepolo non s'accorda con la ra gione. Un tratto poi del coſtume d'un Filoſofo attento, è do ve dice Parmenide o Socrate troppo per tempo, innanzi che tu ti eſerciti a parlare, ti sforzi di definire ciò che ſia il bello, il giu ſto, il buono, e qualunque dell' altre ſpecie. Perchè poco fa il con fiderai vedendoti diſputare con Ariſtotele. Per certo mi credi, que fto tuo fervore è bello è divino, il quale alla ragion ſi conduce, ma recati in ſe ſtello, ed eſercitati mentre ſei giovane in queſta fa coltà la quale a molti inutile, e ſi chiama dal volgo garruli tà, altrimenti ſi fuggiria da la veritade. Parmenide qui accenna la Dialectica in quanto vaga per cutti i generi, ſulla qual coſa poco dopo ſoggiunge conſervando il co ſtume divecchio venerabile. Sarebbe cofa ſconvenevole, cheſi trat tale maſſimamente da un vecchio certe coſe si fatte alla preſenza di molti, non ſapendo il volgo, che ſenza queſto vagare, e diſcerne re per tutte le coſeſia impoſſibile abbattendoſi nel vero acquiſtar men te. Ariſtotele e gli altri lo pregarono, e Parmenide riſpoſe con un apo 7 pare inutile apologo: egli è neceſſario finalmente che s'ubbidiſca, tutto che mi è av viſo di tutto quello che patà il cavallo Ibico, cui Atleta e vecchio do vendo prendere la conteſa delle carrette, e per l'eſperienza iremando de' ſuccelli, alimigliando egli a ſe ſtello, dille cheegli già vecchio era coſtretto di ritornar agli amori. Nel medeſimo modo diſſe Parmeni. de, a me pare di temer malto, quando penſo in che guiſa cosè.d'età avanzata, io pola paſar a nuoto un mare cosi profondo di ragionda menti. Intorno la ſentenza, o ſia ciò che ſente il principale interlocu tore del Dialogo, ella è qual conveniva a un Dialettico eſperto, nel vagar per i generi delle coſe, e nell'argomentare, e ben de gno, che nelle coſe intellettuali Platone, Secondo il teſtimonio di Apulejo, lo preferiſſe agli altri Pitiagorici, e n'imitaſſe la ſotti gliezza, e nell' idee, e nel metodo di proporle. Nella Poelia. Epica, altro è che il Poeta imiti narrando un facto, altro che introduca un degli attori a narrarlo. Così nell' Odiſſea, aḥtre ſono le cofe che Omero direttamente narra accadute ad Uliffe, altre quelle che narra Ulife ſteſſo. S'in troducono ne' Poemi i racconti, per variar i modi dell' imita zione, ed ancora per accreſcerla; ella è perciò doppia, quando nel Poema i perſonaggi imitati, imitano effi fteffi col loro rac conto. In queſto Dialogo, Pitidoro imita, narrando i diſcorſi che inteſe da Parmenide. I Dialoghi, benchè fpecie di Poeſia Dramatica, in ciò con vengono con l' Epica, e Platone, che nelle diſpute de'Filoſo fi volle imitare i combattimenti degli Eroi di Omero, emold anche queſto nel modo di rappreſentarli. Nel Filebo propone ſenza alcro la difputa chiaramente enunziata intorno la felici tà ed il piacere, nè premette alcuna circoſtanza ſtorica ai ra gionamenti dei tre interlocutori, Socrate,, Filebo e Protar co; così fa nel Sofiſta, nell' Eutifrone nelle Leggi, e nella Repubblica, ma non cosi nel Convito, nel Fedone, e nel Par menide. Pitidoro vi narra ciò che ha udito da Antifone, e queſto è modo più artificioſo dell'altro, perchè vi ſi ricerca molta ſa gacità nel render neceffario il ragionamento, ed accompagnar lo di quelle circoſtanze che più mettano la coſa fotto gli oc chi, intereſſino il lettore ad aſcoltare i perſonaggi, e di tem po in tempo lo ricreino con opportune digreffioni, ma tutte convergenti alla quiſtione propoſta, ſenza che ſe ne accorga il lettore. Nel diſcorſo naturale noi pafliamo ſenza rifleſſo da una coſa all'altra, ma nel Dialogo, ſe ſi vuol imitando perfezionar la natura, nulla vi ſi deve introdurre ſenza ragion ſuf ficiente. La ſomma difficoltà dell' artificio del Dialogo è nell: interrogazioni, e nelle riſpoſte diftinte e preciſe, ma nel Par menide il dialettico s'accoppia col dottrinale e queſta è la parte dominante, perchè eſcluſe l' idee ſeparate, Parmenide ſem pre parla ſcorrendo per le ſuppoſizioni.; ILLUSTRAZIONE D E L 1 PARMENIDE.. Tom. II. }, (51 ) ILLUSTRAZIONE D E L PARMENIDE. tertentanut Estates L A diſputa su l' idee fatta tra Parmenide, Zenone', Socra te, ed un certo Ariſtotele, viene a Glaucone, e ad Adi manto riferita da Cefalo per bocca d'Antifone, il quale avendo familiarmente converſato con Pitidoro compagno di Ze none', avea su queſta materia udito da lui le ragioni dei tre Fi loſofi. Reſtarono queſte cosi profondamente impreſſe nella me moria di Antifone allor giovanetto, che molti anni dopo ſeb ben diſtratto dagli eſercizi equeſtri, poté in tutte le loro cir coſtanze rappreſentarle nell' abboccamento, che egli ebbe con Cefalo, e coi compagni. Tofto Cefalo eſpone il motivo della diſpuca Parmenide ne Poemi avea detto che tutto è uno, e Zenone provato in uno ſcritto, che uno non è molti. Si comincia la Jercura dello ſcritto, e Socrate vi fa ſopra delle difficoltà a mi fura che ſi legge. Poco mancava' a' terminar la lettura, quan do Parmenide con Pitidoro, e Ariſtotele entrarono in caſa. Si leſſe di nuovo alla preſenza di Parmenide, e degli altri il pri moargomento, e fi difputò incidentemente su la differenza del le due definizioni parendo a Socrate, che il dire tutto è uno foffe lo ſteſſo che il dire, uno non è molti. Glielo concede Zenone, é lodaća la ſagacità di Socrate dichiara', che non per vanità o per 'arcano di Filoſofia egli ha' fcritto, ma per fo ftener l'orazion di Parmenide contro coloro che ſi sforzavano di ſchernirlo, perchè ſe molte contraddizioni degne di riſo pativa l' Orazion di Parmenide, molte altre di più ridicole ſe ne inferivano dalle ſuppoſizioni degli altri. Zenone ſcriſfe il: li bro nella ſua giovanezza, ma un certo avendoglielo rubato.fi pubblico. Si ricomincia la diſputa. Parmenide, e Zenone lafciano a So. crace eſpor tutta la ſua ſentenza su l'idee ſeparate, per le quali moſtrava la definizione dell'uno da Zenone affegnata non eſſer univerſale ". Accorcol Parmenide, che tutta la forza dell'argo mento (52 ) mento di Socrate fondavaſi su l’idee ſeparate, l'imbarazza co ftringendolo ad aſſegnarne alle coſe fiſiche. Non sa Socrate ri folvere la difficoltà. Parmenide fingendo di conceder l'idee ſe parate argomenta contro la loro participazione, contro il lo ro progreſo all' infinito, contro alla loro incomprenſibilità. So crate n'è molto curbato, credendo che annullate l ' idee ſepara te non vi fieno più principj per ben filoſofare. Ammira Par menide il fervor di Socrate, e lo conſiglia ad eſercitarſi nella Dialetica per ben inveſtigare l'idee. Pitidoro ed Ariftotele, pre gano Parmenide ad eſemplificar il metodo dell'inveſtigazione dell'Idee. Egli ſcieglie l'idea dell' uno, e col metodo delle ſup poſizioni la tratta. Orquattro ſono le quiſtioni che ſi poſſono eſtrar dal Parmeni de relativamente alla definizione di Zenone, che l'uno non è molti. La prima è quella dell'uno per rapporto all' idee feparate; Ia ſeconda dell'uno per rapporto asé; la terza dell'unc per rap porto all ' ente; la quarta dell'uno per rapporto al non ente. Le tre ultime quiſtioni ſono propoſte per via d'ipoteſi: ſe l'uno; ſe l ' uno è; fe l'uno non è. Per non traſcurar nulla di ciò che agevola l'intelligenza del Dialogo, premetterò partitamente ad ogni quiſtione la Ipiegazio ne delle voci, e delle nozioni neceſſarie, ſtando più che mi ſia poſſibile attaccato alle parole del teſto quale Dardi Bembo il tra duffe; mi par inutile di por tutto il Dialogo, perchè eſſendoſi ri ſtampato di freſco, tutti coloro i quali hanno vaghezza d inten derlo ſe ne faranno già proveduti,per gli altri èinutile e vana ogni illuſtrazione. Zenone di VELIA defini l'uno ciò che non è molci. Approva Ariſto tele (a ) queſta definizione, perchè in generale ogni defini zione, dovendoſi aſſegnare per le coſe più lenfibilia e più note, l'eſperienza di tutti i ſenſi ci moſtra, che i molti ci ſono più noti che l'uno; i fanciulli più teneri nel coccare, nel vedere, e nell'udire pereepiſcono i molti, e la loro cognizione è imme là dove hanno biſogno, che la loro ragione fi maturi un poco per cominciare a dir uno, e quindi numerar su le I molti dunque eſſendo più noti dell' uno, negandoli di forma 6 ) Metaf. lib. 1o. diata; dita. il (53 ) il concetto negativo dell'uno in quella guiſa, che negando le par ti ſi fa il concetto negativo del punto. Dall'uno G fa l'idea aſtratta dell'unità, come dall'idea dell'uomo l'idea aſtratta dell'umanità. Tre ſono le ſpecie dell'unità; la Lo gica, la Matematica, la Metafisica. L'unità Logica ſono i generi, e le ſpecie, o certe idee univerſali atte a rappreſentar molti in uno; l'unità matematica è il principio compoſitivo de' numeri, o il prin cipio per cui fi numera; principio differente dal zero, da cui ſi nuinera. L'unità metafiſica' è una proprietà traſcendentale dell' ente, o che conviene all'ente in quanto tale, poichè d'ogni ente fi predica l'uno, come fi predica il vero, e il buono, o ſia il perfetto, ma la verità, e la bontà, o la perfezione, inclu dendo ordine nella varietà ſuppone l' uno, onde tra le proprie tà dell'ente egli è la più univerſale (a ). L'unità o l'uno nel ſuo concetto aſtrattiſſimo preſcinde da tutte le relazioni, potendoſi per l'aſtrazione della mente non riferire, nè alle coſe che rappreſenta, nè a' numeri che compone, nè a ciò cui conviene: In queſto ſenſo aftrattiflimo definiſce Zenone l' uno, opponendolo ai molti in genere. Contro queſta definizione cosi argomenta Socrate. Vi ſono idee ſeparate: dunque ogni idea eſſen do una in sè, e molti, nel participarſi a molti l'uno, eimolti poſſono accoppiarſi; dunque non pud dirſi, che l'uno fia molti. Prima di ſviluppar l' argomento rifletterò su certe voci, e nozioni di Socrate. $. 2. Suppone toſto Socrate, che vi fieno idee ſeparate. L'idea ſe condo l'etimologia della voce Greca, significa propriamente com fa viſta, e per traslato ſignifica coſa inteſa, o ciò che s'inten de; ma tallora ſignifica l'atto per cui s'intende, il qual però meglio ſi chiama nozione o concetto. Åleinoo defint l'idea, intelligenza per rapporto a Dio, pri mo intelligibile per rapporto anoi, miſura quanto alla mate ria, eſemplare quanto al mondo ſenſibile, effenza quanto a ſe ſteſſa. In tutti queſti ſenſi la prende or Socrate, ora Parmeni de; ma la prima nozione dell' idea ſeparata è che ella fia il primo intelligibile. $. 3• ve ) Wolfo Metaf. (54 ) §. 3. Socrate: oltre l' idee del bello, dell' oneſto, e del giufto, che Parmenide gli accorda, ammette ancora quelle del limile, del diffimile, del moto, della quiete, dell' uno, e de' molti. Queſte ultime idee ſono tra loro oppoſte e contrarie, come il caldo, il freddo, il bianco, ed il nero; eſſendo contrarie, ciò che convie ne all'una, non conviene all' alira, e quindi ſecondo Socrate i ge neri, e le ſpecie, idee più o meno univerſali conſiderate in se non patiſcono paßioni contrarie, ma nulla vieta nell'ipoteſi di Socrate, che non poſſano participarſi dalle coſe. 1 S. 4. Partecipare è propriamente ritener in sè una parte d'un cutto;; così l'aria partecipa la luce ', poichè ogni particella d' aria ha in sè una particella di luce. In un ſenſo più ampio, la voce partici pare s'eſtende dalla quantità alla qualità, all'azione, all effenza Iteffa.;. così ſi dice, che l'accidente partecipa della ſoſtanza', gli effetti delle cagioni, un figlio le virtù, eivizj.del padre: La par cipazione è quindi' più ampia della ſimiglianza limitata alla ſola convenienza delle qualità, e molto più dell'imitazione, che alla fimiglianza aggiunge la relazione tra il modello, e la copia; due gemelli naſcendo saſlimigliano, e pur l'uno' non è la copia dell' altro. I Pittagorici' nel riferir le coſe all' idee ſeparate, come a loro modellidiceano', che participavano o imitavano l'idee, ma fecondo Ariſtotele non mai filoſoficamente ſpiegarono le voci di participazione, e d'imitazione. S. 56 Cið fuppoſto, il primo argomento di Socrate tratto da queſti principj fi pud diſtinguer in due per maggior chiarezza. Ogni idea è una in sé, ed una in molti, dunque nel tempo ſteſſo, uno può efser molti. Cosi lo conferma, Benchè l' idee lieno tra loro con crarie, nondimeno poſsono eſserº nel tempo ſteſso participate da. molti, anzi dallo ſteſso ſecondo diverſi riguardi, ma in queſte participazioni ritengono la loro unità, dunque: ſon uno e molti. Così lo prova: oppoſte e contrarie ſono tra loro l’idee, del ſimile, del diſſimile', del moto', della quiete, dell’'uno; é dei molti; dunque comenulla viera, che lo ſteſso poſsa aver more in Metaf, in una parte, e quiete nell'altra; eſfer fimile ad un altro in una parte, e diffimile nell'altra, così nulla vieta che ſia uno, e molti; una Caſa ha molti legni, e molte pietre; ogni. Uo mo è uno conſiderato in sè, ed è o ſeſto, o ſettimo conſide rato con altri. la un Uomo, altra è la deſtra, altra la fini ſtra, altre le parti dinanzi, altre di dietro, altre le ſupreme, al tre le infime. Nel Sofiſta egli dice; noi chiamiamo un Uomo denominandolo con molti cognomi, mentre a lui attribuiamo i colori, le figure, le grandezze, le virtù, ed ivizi: nelle quali coſe tutte, ed in altre infinite, non ſolamente diciamo che egli fia Uomo, ma ancora buono, ed altre infinite coſe, e le altre fecondo la ſtella ragione. In cotal gui sa fupponendo noi qualunque coſa una, di nuovo l'appelliamo molte e con molti nomi..... Onde ſi è da noi data occaſione di contraddi re, come jo penſo a' giovani, ed a ' vecchi di tardo ingegno: percioc che incontinente ci potrebbe chiunque far obbiezione che ſia coſa impos fibile, che molte sofe folero una, ed una molte. Dunque uno può eſſer molti; dunque non è generale la de finizione, che uno ſia non molti. La participazione dell' idea evidentemente lo manifeſta. Sciolto è l'argomento ſe fi nega l'ipoteſi dell' idee ſeparate perchè colte l'idee è colca la loro participazione. Parmenide ri gecta l'ipoteſi, come nè generale, nè chiara; non generale.per chè non s'eſtende a cutti i cafi poflibili i; non chiara., 'perchè non pud fpiegarſi la participazione dell'idea. Cost:provo la pri ma parte non ſi debbonoaſſegnar idee delle coſe ſeparate, o aſſegnarſene di tutte le coſe '; che vuol dire, non baſta affe le.coſe morali, e matematiche, mabiſogna af. ſegnarne ancora per le fifiche: dunque non ſolamente vi ſono idee del giuſto, del bello, del buono, del grande, del fimile ec, ma dell'uomo, del foco, dell'acqua, e d' alcune coſe, che molti fimano per avventura ridicoloſe; i peli, il fango, le macchie., ed altre coſe ignobili, e vili. Socrate toſto lo nega, perchè gli pare, che ammettere queſt' idee, ſarebbe coſa troppo diſconvenevole, poi can didamente confera, che alcuna volta queſto penſiero lo turbo, e che quando di là fi ferma ſe nefugge temendo di non corrompere la ſua mente, e fantaſia cadendo in ciancie ineſplicabili., onde a quelle coſe ritornato (cioè all'idee del giuſto, del bello, del buono, ed all idee 'matematiche ) verſa intorno a quelle. In (a ) Sof, pag. 306, (56.) In un caſo ſimile ſi ritrovò il P. Malebranchio; ſentendo egli la difficoltà di ſpiegar chiaramente, come l'eſtenſione intelligibi-: le, eſſendo immobile in Dio, gli rappreſenti il moto, ove il luſtra queſto articolo dice nel fine: (a ) Io non oso impegnarmi'. a trattar queſto ſoggetto a fondo, temendo di dir coſe, o troppo aftrat te, o troppo ſtravaganti, o ſe ſi vuole, per non azzardarmi a dir co ſe che non so, nè sono capace di diſcoprire. Queſto è il ripiego di Socrate. Ariſtotele (do ) ove nella Metafiſica combatte l' idee ſeparate malamente attribuite a Platone, adduce tra l'altre coſe, che dandoſi idee ſeparate ſi dovrebbe darne de' ſingolari, de' corrut tibili; egli non eſtendeche l'argomento da Parmenide eſemplifica to, e poida Alcinoo, che afferi non darſi nel fiſtema de' Platonici idee delle coſe arcifiziali; uno ſcudo, una lira ec. ne delle co fe oltre natura la febbre, la bile non naturale; non delle coſe ſingolari, Socrate, Placone; non delle vili, ed abbiecte ſozzure, paglie ec. donde traffero i Platonici dopo Ariſtotele, queſta di ſtinzione, ſe non dal Parmenide? §. 7. Propoſta che ha Parmenide un'obbiezione, che Socrate non può riſolvere, egli cangia l' argomento ad judicium in quello aid hominem, che vuol dire non argomenta più ſecondo i principi della ragione univerſale, ma ſecondo i principj del diſputante, e ne deduce la contraddizione. Suppone dunque che vi fieno idee ſeparate ", ma come poi date queſte idee lo ſpiegare che lieno participate dalle coſe Queſta participazione ſi fa, o ſecondo il tutto, o ſecondo la parte. Parmenide dimoſtra, che nèl'uno, nè l'altro può eſſere. Sia da una coſa participaca l'idea ſecondo il cutco, dunque tut ta l'idea è in ſe ſteſſa.; e tutta fuori di ſe ſteſſa; dunque nel tempo ſteſſo eſiſte tutta in sè, e cutca fuori di sè. Siaľ idea conliderata in sè A, e participata fia B, C, D ec. generalmen te, o non A; dunque nel tempo ſteſſo l'idea è A, e non A, ciò che è contraddittorio. Nè occor dire che un giorno è uno, e lo Steffo, ed inſieme in mola ti luoghi, e pur non è da ſesteso in diſparte. Il giorno non è che la luce del sole, diffuſa in tutto il noſtro emisfero. Or quel la parte di luce, che illumina me, non illumina il compagno ſebben mi lia vicino. Parmenide li ſerve dell'eſempio della ve la, (a ) Ricerca della verità T. 4. pag.... (b ) Metaf. I..... (57 ) la, la quale molti coprendo, non è perd una in molti, perchè la parte c he copre l'uno, non è la parte che copre l'altro. Reſta a dimoſtrare, che l'idea non è participata dalle coſe ſe condo una parte; la dimoſtrazione è da se manifefta, perchè l'idea participata ſarebbe una, e non una; una tutta in sè, e non una nelle coſe che ne hanno ſolo una parte. Queſto modo d'ar gomentare, è fondato ſul principio di contraddizione adoprato lovente da Platone, e ſtabilito da Ariſtotele, come il primo prin cipio in cui ſi riſolvono cutti gli altri. Eſperimentiamo noi cal eſſere la natura della noſtra mente, la qual mentre giudica che una coſa ſia, non può inſieme giudicare, che la ſteſſa non ſia. Parmenide eſemplifica l'impoſſibilità di queſta ipoteſi. 5. 8. La grandezza è ciò che è capace di più e di meno. Nel conce pir il più fi concepiſce il maggiore, nel concepir il meno fi conce piſce il minore, e nel concepir l'eguale non ſi concepiſce nè più, nè meno nelle quantità che ſi comparano. lo dico che li comparano, perchè nè il più, nè il meno, nè l' eguale concepir ſi poſſono ſenza riguardar una coſa nel tempo ſteſ to che l'altra o ſenza compararle, e in queſta comparazione pro priamente la grandezza confifte, la quale, come ben dice il Wol fio, non ſi può concepir ſenza un altro a differenza della quali tà. Tutto quindi l' effer della grandezza è relativo, od ha tut to l'eſſere in ordine ad un altro. Così Platone eſpreſſe la natu ra della relazione nel Politico, nel Simpoſio, nel Sofifta, e pri ma di lui Archita, ed Ocello, (a ) i quali diviſero la relazio ne in quattro generi. Da queſti autori traſfe Ariſtotele (6 ) la definizione, che dà della relazione. Nulla perd vieta, come & proverà, che per compendiare i concetti non ſi concepiſca la gran dezza come qualche coſa di aſſoluto, a cui accade – eſſere mag giore, minore, ed eguale, e che di nuovo ſi concepiſcano il maggiore, o'l minore come aſſoluti, a' quali accada il più, o meno, o nè l'uno, nè l'altro. Suppoſto dunque, che fi dia l'idea della grandezza, e in conſeguenza del maggiore, del minore, dell' eguale, così argomenta Parmenide. Sia A l'idea del maggiore, B del minore, C dell' eguale; ſi dividano tutte2, e tre in parti ineguali: С poichè dunque una coſa in canto è maggiore, in quanto partecipa l'idea del maggiore, lia l'idea - B del maggiore A diviſa in parti ineguali, e la parte minore delmaggiore ſia participata, quello che la Tom. II. h par (á ) Diſcuſ. Perip. Patriz; T. 2. pag. 185. (b ) Ad aliquid alia dicuntur quæcunque quod ipſa ſunt aliorum effe dicuntur. o il A (58 ) partecipa non ſarà egli nel tempo fefto, e maggiore, e mino re? Maggiore, perchè parcecipa l'idea del maggiore; minore per chè parcecipa la parte minor del maggiore. Così potrà dirli della participazione della parte più picciola dell'idea del minore, e dell' idea dell'eguale. Se'l idee dunque fi participano dalle coſe, ſe condo una parte loro non potrà mai effer quefta, una delle par ri ineguali. Parmenide non procede olore, maè facile l'aggiun-. gervi, che nè meno pud parcicipare delle parti eguali, perchè la parte.eguale del maggiore participata dalla coſa, la farebbe nel tempo ſteſſo eguale, e maggiore; e così la parte eguale del mi nore, ſarebbe la coſa minore ed eguale.. 9. La noſtra mente, come per ſua natura non può concepiricon tradditrorj, così non pud frappaſſar l'infinito, biſogna che s'ar reſti ad un primo, o ad un ultimo, il qual è come Tuncino che ſoſtiene curri gli anelli della catena. Ariſtocele, e'ne'mori, e nel le cagioni, e ne'fini dimoſtra l' aſſurdità del progreſſo all' infini 10, modo d' argomentare imparato dal Parmenide di Platone non men che l' altro del principio di contraddizione. Il Wolfo dimoſtròeffer impoſibile il progreſſo all'infinito rectilineo, e cir colare. g. 10,. Poſta l'aſſurdità del progreſſo all'infinito, così argomenta Par menide: Tu ſtimi che qualunque ſpecie fia una, quando pare i te cbe certe, e molte coſe fieno grandi, parendoti per avventura in ris guardando a tutte le coſe, che ſia queſta una certa idea, onde tu penfi che il grande fia uno. Prima d'inoltrarſi è da oſſervare, che qui Platone inſegna, co me comparando le coſe, nel riflectere a quello in cui conven gono, ne riſulta un'altra idea, come prima avea inſegnato Epicarmo, Queſt' idea è ſempre una, perchè uno è l'atto della mente con cui ſi rifletre a ciò che le coſe hanno di commune. Continua Parmenide: Se'il grande, e l'altre coſe che ſono grandi nel medeſimo modo conſideralli per tutre le coſe, non apparirebbe egli da capo ceri' una coſa grande, onde farebbe neceſſario che queſte tutte pareffero grandi? Vuol dire che nel compararſi dalla mente di nuovo l'idea del grande con le grandezze participate, nè riſulta un'altra idea di grandezza, per la qual coſa concludeParmenide: apparirà di nuo po altra ſpecie di grandezza fuor do esſa grandezza, e di quelle che fono ! (59 ) fono partecipi di lei, e dopo tutte queſte, altra di nuovo con cui som rebbono queſte grandi, nè pide qualunqueſpecie fia una, ma piuttoſto di numero infinito. La ragione è, che l'idee della grandezza di nuovo aſtratte nella comparazione, eſſendo per loro natura re lative faranno fena pre di nuovo comparabili, e così all' infini to. Ariſtocele su queſto fondamento del Parmenide, e tutti i Platonici, e tra gli altri Alcinoo dillero, che non fu potea aver idee de relativi. $. 11. cioè per Dal modo con cui Parmenide comparando l'ideę, altre idee He deduffe, concluſe Socrate, che le ſpecie ſono' atti dell'intel fetto, i quali non riſiedono, che nell'animo. Gli concede Para menide, che ogni atto dell' intelletto è uno, ma gli fa confef fare, che queſt' acto ha un oggetto, ed è l' ente'; l'ente perd in quanto ſi concepiſce o s'intende', non s'immagina o ſente: prende egli qut l'idea, non per la nozione, o per il concetro' della mente 1 atto, ma per la relazione che ella ha ad un certo oggecto, e conſidera l'unità dell'idea' non relativa mente all'atto dell'intelletto, ma all' ente che la partecipa poichè ſecondo i principj di Socrate, ella è ſempre la ſteſa in tutte le coſe. Ne deduce per confeguenza, che ſe l'idee ſono' at: ti dell'intelletto, le coſe che partecipano della ſpezie', o deli? idea faranno tutte intellective, ed intelligibili. Vi riſponde So crace, che le coſe non partecipano' dell' idee, in quanto' queſte fono atti dell'intelletto, ma in quanto rappreſentano le coſe; che vuol dire, in quanto l' idee Tono eſemplari, di cui le co fe fono limiglianze; onde in tanto le coſe le partecipano', in quanto ad effe li fanno ſimili. Parmenide contro queſte fimi glianze dell' idee, argomenta coll' aſſurdità del progreſſo all' ip knito, come fece delle grandezze. $. 12 Supponiamo che' molte' coſé' fieno ſimili per la participazione dell' idee della ſimiglianza. Potendoſi dunque comparar dall'in telletto le ' fimiglianze', e delle coſe, e dell' idee, Te' ne' eſtrar rà un'altra' idea di ſimiglianza, e queſta di nuovo comparando 1' idee con le coſe, darà un' altra idea di fimiglianza, e co sh all'infinito, cio' che è aſſurdo”. Cosi eſprime queſto argo mento Parmenide: non ſarebbe egli neceſſità grande, che' quel che è fimile al fimile' folle partecipe dell' uno, e della fleffa ſpecie? Or hi 2 non (60 ) 5 non ſarà ciò la ſtessa ſpecie, di cui le fimili coſe rendendoſi partecipi fiano fimili? Dunque non può alcuna coſa eller ſimile alla ſpecie, ne la ſpecie ad altrui, altrimenti oltre alla fpecie', altra ſpecie ſempre apparirebbe, che ſe ella folle fimile ad alcuna coſa altra dacapo', ne cellerebbe mai queſto progreſo, che non ſi faceſſe ſempre nuova fpe cie, ſe ancora folle ſimile la ſpecie, a chi di lei ſi rendeſe partecipe: Ariſtotele propoſe lo ſteſſo argomento ſebben oſcuramente L'Uomo, dice, ſignifica non meno la ſoſtanza ſenſibile degli Uomini ſingolari, che la ſoſtanza intelligibile dell'Uomo per sè, o fia l'idea dell' Uomo. Or ſe queſt' idee convengono in una coſa comune, fi concepiſce comparandole un terzo Uomo, equin di un altro, e così all'infinit. Ariftotele creſce l'aſſurdità Socrate lingolare participando dell'Uomo univerſale partecipa, e dell'animale e dell'animale a due piedi, e d'altre coſe, ciod, quelle che ha comuni colle piance, colle pietre, ed altre innume rabili. Converrà dunque moltiplicare all'infinito l'idee, onde per una coſa ſenſibile converrà porne infinite; ſi può aggiungere che queſto numero di nuovo ſi moltiplicherà all'infinito am mettendoſi l' idee dei relativi, poichè ogni coſa che è nell'Uo mo, pud compararſi a turce l' idee delle coſe viſibili, ed invidia bili, o della ſteſſa, o di diverſa ſpecie. Ma l'Uomo ideale, diceano i Pittagorici, effendo incorrutti bile, ed univerſale non ſi può comparar a coſa ſingolare, e cor ruttibile, ed eſtrarne quindi nuova idea? Ariſtotele vi riſponde: i binarj feparati ſono anche eſſi incorruttibili, e pur per conoſcer li biſogna dar un'idea comune di binario, in cui convenga il binario B, il binario C ec. In oltre l'idea di figura è comune al cerchio, al triangolo, ea tutte le figure piane e ſolide, onde ella, è propriamente ge nere relativamente alle ſpecie, ma chi può mai conoſcere una figura che non ſia, nè cerchio, nè triangolo, nè altra ſimile? Intanto la concepiſce la figura in genere, in quanto la mente non s' applica, che ai limiti che circonſcrivono lo ſpazio, fen za far attenzione rifeffa, nè al modo, nè al numero, nè al fito dei limiti ſtelli. Spiegherd la coſa con un eſempio più fa cile. Egli è impoſſibile che io concepiſca un triangolo ſenza rappreſentarmi che egli fia, o Equilatero, o Iſollele, Sca leno; altro è poi, che nel rappreſentarmi uno di queſti crian goli io non faccia determinata attenzione alle ſpecie dei tre lati. Noi non intendiamo le cofe, dice San Tommaſo, ſe non cona vertendoſi a' fantasmi loro. Ora a qual fantasma è anneſſa l' idea della figura? Confuſamente a tutte le figure; ma io non ne, con (01 ) conſidero diſtintamente alcuna, e ſolo attendo a ciò in cui cut te convengono, ed è d' eſſere uno ſpazio circonſcritto; ma ſe nel concepire l' idee de' generi delle coſe matematiche v'è canta dif ficoltà ammettendo l' idee ſeparate, quale ve ne ſarà nell'idee metafiſiche? Nell'ipoteſi Pitagorica ſi dovranno aſſegnar idee del poflibile, dell'ente, dell'atto, della potenza, della cagione, del principio, del modo, dell'attributo, del terminato, è dell ' indeterminato, del neceſſario, del contingente', del perfetto dell'imperfetto ec. nè ſolo di queſte coſe, ma del prima, del dopo, dell'inſieme, del ſeparato, e finalmente del genere in quanto genere, e della ſpecie in quanto ſpecie: coſe tuote af furdiffime nè abbaſtanza eſaminate da coloro che preteſero che noi vediamo le coſe in Dio, perchè ad ognuna di queſte coſe non men che all'eſtenſione, ed al numero dovrebbe aſſegnarſi un'idea, Ariſtotele con gran ragione v'aggiunſe, che neli ipo teſi dell' idee ſeparate, oltre l'idee de relativi converrebbe am mettere l'idee delle negazioni, e delle privazioni, o degli op pofti, cioè dei contraddittori dei contrarj ec. 9. 13. Dace l'idee, data la loro participazione, ed eſcluſa la compa razione a'ſenſibili, ricerca Parmenide fe debbonſi annoverare l'idee tra gli enti relativi; od aſfoluti. Vi fono delle coſe, di cui tutta l'eſſenza conſiſte nel riferir fi all'altre, e queſte ſono relative, (8. 8.) é ve ne ſon altre di cui l'eſſenza conliſte nella non ripugnanza dei predicari, che le coſtituiſcono, e queſte ſon le affolute; Poichè tutto l'efferé de’ relativi è nel loro confronto, (5.8. ) includono effi neceffaria. mente due termini tra loro oppoſti, il fondamento dei quali fo no le coſe affolute, che tra loro fi comparano; quindi il fonda mento del relativo è sempre l' aſſoluto. Un Uomo fuffifte per sè, e ſe foſſe ſolo nel mondo, non farebbe nè Padrone, nè ſer-' vo, ma ſuppoſto che viva in una ſocietà, può eſſer l'uno, e l' altro, in guila però che non è ſervo in quanto Padrone, nè Pa drone in quanto ſervo, ma come Padrone ſi riferiſce a coloro cui comanda, come ſervo a coloro cui ubbidiſce, e l'uno, e l' altro gli accade in quanto è Uomo, ed a diverſi Uomini li ri. feriſce. Poichè dunque l'idee fi riferiſcono ai fimili che le par tecipano, biſogna che ſieno in ſe ſteſſe e parimenti perchè i ſimili che partecipano l'idee fi poffano riferir all’ idee, convie ne che fieno in ſe ſteſi. Biſogna in una parola, che l'idee, e le coſe che le partecipano abbiano un' eſſenza determinata. Con clude (62 ) 1 clude quindi Parmenide, che l'idee hanno tra loro, un ' eſſenza, ma che queſta non è un eſſenza tutta: relativa alle coſe che ſo no appreſſo di noi, o pure le coſe fi nominano ſimiglianze, o in altramaniera di cui facendoſi partecipi, noi la nominiamo con, qualunque di eſſe.;. aggiunge parimenti, che le coſe che ſono in noi, non hanno la virtù ſua d'eſiſtere in verſo l' idee, ma fono quel che ſono relativamente a ſe ſteſſe. Parmenide quin di chiama le cofe. che ſono in. noi,, e: in torno a noi: equivoche: all' idee.. Cagione equivoca: degli animali, delle piante, de metalli ec. diſero Ariſtocele, e gli Scolaſtici il Sole, perchè ſebben concorra alla loro generazione, non conviene con loro, 0 non gli aſſomi glia che nell'eſſere. Parmenide parlando ad bominem par che allu da all' opinione di Socrate, il quale nell' ammecter l' idee, come cagioni delle coſe, era sforzato ad ammetterle come cagioni equivoche,, non potendo ammetterle, come cagioni eſemplari, il che: Ariſtotele così: dimoſtrò:-ſe quando l'Uomo fi genera da Socra te, eglis'alfomiglia all'idea, e non a Socrate, fi potrà generar: { mile all'idea, liavi o non ſiavi Socrate;; ma ľ Uomo generandofia non s'aſſomiglia all'idea, ma a Socrate, come è manifeſto dall' eſperienza; dunque Socrate, e non l'idea è l'eſemplare del generato: Poſto dunque che l' idee: influifcano nella generazion delle coſe, convien ſempre porle, come cagioni equivoche;: ma da: chi Ariſtotile traffe cal idea, ſe non da Placone? ' Or fe: l'idee non hanno relazioni alle coſe, o ſono diloro ca gioni equivoche, come poſſiamo conoſcerle? Se le piante, de pie tre ragionaſſero,. potrebbono mairappreſentarli (rimirando ſe fteſ. ' fe,. ), che il Sole foſſe loro: tanto diſſimile? che ebbe. tanta parte nella loro generazione. Le noſtre idee non ſono cagioniequivoche delle coſe, le quali noi produciamo affilandoſi ſul loro modello. Un Architeto uno Scultore, un Pitcore fanno la caſa, la ſtatua,., l'immagine ſecondo l'idea che ne hanno formata, e perciò comparano l'effet to all' idea per miſurarla,, e perfezionarla;, nella combinazione dell'idée chiare,. e diſtinte conſiſtendo la ſcienza, l'oggetto del la noſtra ha ſempre proporzione all'idee che d'effo formiamo;.. ma ſe l.idee: ſeparate come cagioni equivoche non hanno alcu na proporzione con le coſe che vediamo, non par poffibile di: riconoſcerle, e in conſeguenza aver- Scienza di loro. Delle co fe quindi rivelate, non abbiamo ſcienza ma fede; ſono certe, € infallibili, ma non a noi: chiare e diftinte.. Platone nel Filebo ſtabiliſce due generi di coſe; altre non 'han no avuto origine, nè finiranno giammai, perchè ſono immutabi li, e fempiterne; altre non ſono perchè ſempre 'fi fanno ſono a generazione, & corruzzione ſoggette: À queſti due ge neri di coſe, ' fa corriſponder due generi di cognizione; delle coſe immutabili, ed eterne ſi ha ſcienza, dell' altre non ſi ha che opinione. Le coſe di cui s' ha ſcienza ſono l'idee, perchè ſono ſempre nello ſteſſo ſtaro, nè ſi può ſapere ſe non ciò che è, ed è ſempre nel medeſimo modo; le coſe di cui s' ha opinione fono le coſe ſenſibili, perchè continuamente fluendo, non ſono mai nello ſteſ fo ſtato. Come dunque Placone nel Tilebo, dà fcienza dell'idee, e nel Parmenide non la dà? La riſpoſta generale è, che da cid che ſi dice in un Dialogo,nulla deve inferirſi relativamente a cid che ſi dice nell'altro, perchè Platone non ragiona ſecondo la ſua ſentenza, come nelle lettere per eſempio, ma ſecondo le ſenten że altrui; oltre a cid, Platone trattando nel Filebo della defini zione della ſcienza egli è manifeſto, che tratta ſolo della ſua pof fibilità relativamente all'oggetto,ſenza poi procurarſi di cercare, ſe ſi dia o no tale ſcienza negli Uomini, I Matematici definiſco no il cerchio, e il triangolo in quanto è poffibile, nè fi curano ſe eſiſta o.no: quindi ben ' li definiſce la Filolofia, la Scienza dei poffibili in quanto tali; nel Parmenide non della poſſibili tà, ma dell'attualità della ſcienza ſi tratta, e Parmenide mo ftra, che dandoſi l' idee ſeparate non poſſiamo aver 'ſcienza di effe, perchè non hanno alcuna proporzione con noi, e con le coſe.noſtre. 5. 15. Ammettendo con S. Agoſtino, e S. Tommaſo, cheIddio ab bia idee, e molte idee, onde per eſſe conoſca i ſingolari, i fu turi, i contingenti, gli infiniti, non perciò poſſiamo dire, che abbiamo ſcienza dell' idee di Dio, o che poliamo conoſcere co me per queſt' ideeegli conoſca le coſe. Il Malebranchio, ed il Poiret, che lo tentarono, caderono ſecondo la fraſe di Socrate in ciancie ineſplicabili. 1. 16. (64 ). S. '16.: s' inoltra Parmenide: La ſcienza in sè conliderata è un'idea, come la bontà, la bellezza ec. ma ſe queſt' idea della ſcienza, non ha alcuna proporzione alle ſcienze a noi note, non poßia mo conoſcerla, poichè le ſcienze intanto a noi ſono note in quanto verſano su noi, o su le coſe che ſono intorno a noi. Or non conoſcendo l'idea della ſcienza in quanto tale, nè men poſſiamo conoſcere ſcientificamente l'altre idee, perchè per aver ſcienza dell' altre idee convien participar dell'idea della ſcien za, ciò che è impoflibile: Parmenide par qui ſupporre che la noftra ſcienza paragonata all'idea della ſcienza ſia come il zero all' infinito ma ſe noi non participiamo dell'idea del la ſcienza, come potremo ſcientificamente, o chiaramente, e diſtintamente conoſcere il bello, l'oneſto, il giuſto, e l'altre idee? Nulla a mio credere v'è di più acuto, e profondo che queſtº argomento, e quel d ' Ariſtotele non l'eguaglia, benchè per altro concluda contro l'ipoteſi dell' idee ſeparate. Oſservò egli che lº idee eſsendo immutabili per loro eſsenza, non ſi può per eſse ſpie gar il moto, dalla cui cognizione dipende quella della natura; dunque l' idee ſono inutili alla ſcienza per cui furono introdotte. Coloro i quali amiſero con Eraclito, che le coſe ſenſibili ſono in un continuo fluſso, ricorſero all'idee ſeparate, le quali immutabili eſsendo, ſomminiſtravano a? Filoſofi dei principj immutabili del loro ſiſtema; la difficoltà è come i Filolofi le conoſceſsero, ſe la lor mente, non nell' eſsere, ma nell operare dipende dagli organi del corpo umano, ſoggetto alle vicende dell'altre coſe fenfibili? f. 17. All' argomento tolto dal principio di contraddizione del pro greſſo all' infinito, Placone aggiunge l' altro tolto dalle perfer zioni Divine. Come il retto è la miſura di ſe ſteſſo, e del cur vo, così il cumulo di tutte le perfezioni che è in Dio; ci ſer ve di miſura per giudicare, e delle perfezioni di Dio ſteſso, e di quelle dell'altre coſe. Per via del principio di contraddizio: ne del progreſso all'infinito ſi dimoſtra l'eſiſtenza di Dio, e per via, o di negazione, o di eminenza, o di caſualità, fi di moſtrano le infinite perfezioni di lui, onde ſe a qualche data ipoteſi conſegua l'annullazione di qualche perfezione divina, l'al ſur ſurdo è maſſimo, perchè Dio nell' effer principio dell'eſiſtenza, è ancora principio di tale eſiſtenza, e nulla può eſiſtere ſe ri pugna alla natura Divina. Socrate non potea non conoſcer Dio comeprincipio intelli gente, dunque era neceſſario, che gli attribuiffè l' idee non me no convenevoli all'intelletto, che i tre lati ad un triangolo; pur tace Socrate, quando Parmenide gli prova, che la perfec tiſſima ſcienza o P idea della ſcienza convenendo a Dio, egli per queſt' idea non poteva conoſcer le coſe, ciò che era con trario alla divina natura. Par dunque che Socrate ſupponeſſe l' idee ſeparate, ma dall'altra parte Ariſtocele dice chiaramen te, che Socrate noo ammetteva l' idee ſeparate ſe ben deffe gli univerſali. Non ſi ſoddisfarebbe in parte alla difficoltà, di cendoli che Platone, per bocca di Socrate, parlò dell' idee in fenfo poetico, per aver occaſione d'annullarle, e propor la doc trina che ha da lui copiato Ariſtotele, e della quale poi ſi ſervì contro que' diſcepoli di Platone, che realizzarono l' idee ſeparate.. 18. Annullate l' idee ſeparate, la voce idea nel progreſo del Dia logo, tutta fi riſtringe all' idee, che la mente aftrae comparan do le coſe. S'è già accennato ($. 8.) il modo, con cui deduſ fe Parmenide l'idea della grandezza, e de' ſimili, e li vedrà inoltrandoſi, che egli parlando dell' uno e dell'ente, proteſta di ſeparar le coſe con l'intelligenza, e con queſta fino sbra narle', che è quanto dire, diſtinguer i concetti o l' idee, ſecon do i rapporti delle coſe, foſſero ancora quefte ſempliciffime; nulla v'è di più ſemplice dell'anima per ſua natura indiviſibi le, e pur in eſſa ſi diſtinguono varie potenze, ſecondo le rela zioni, che ai varj organi del corpo ella ha operando, onde fi dice che ella ſente, ë che ella immagina. Nella parte ancora intellettiva, ſi diſtinguono le facoltà che ella ha di comparare, e di aſtrarre, e di combinare e di, e di contemplare l' idee', onde ella dichiaraſi mente, e ingelletto, (c ) voci non altrimenti fi nonime, poichè le loro etimologie di confrontano ai varj uffizj dell'anima; tutte quindi le ſcienze ſono ſu l' aſtrazioni fonda te. La fiſica aftrae dalle coſe ſingolari, la matematica dalle ſen Tom. 11. i (a) Mens è detta a menfura, poichè l' anima compara, e miſura le coſe, Intellectus da intus legere, poichè intendendo ſcieglie, e deduce una cola da un' altra. fibili, (06 ) fibili, la metafiſica da ogni materia. Vuole il Patrizio, che come in una gran parte del Sofifta, čosi in tutto il Parmeni de non ſi tratti che di quella metafiſica, che Ariſtotele colſe da Placone, e di cui le prime idee ne diedero i Pitcagorici, e tra gli altri, Archira e Peritione; io v'aggiungo che la me cafifica avendo due parti, cioè l' ontologia, o la ſcienza, che tratta delle proprietà dell'ente, in quanto ente, e la Teolo gia naturale o la ſcienza, che tratta delle ſoſtanze ſeparate dal la materia, come Dio e l'anima, Parmenide ſi riſtringe in que ſto trattato all' ontologia, e manifefte ne faranno nel progreſo ſo le prove; baſta accennar qui, che dovendofi dar un elem pio del modo con cui s acquiſtano l ' idee, ſcieglie Parmenide l'idea dell'uno, applicando ad efla il metodo delle fuppoſizio ni. Due coſe aggiunge alluſive all'analiſi, ed alla ſinteſi. La prima che ufficio e d' uomo ingegnoſo il poter apprendere, come ſi ritrovi il genere di qualunque coſa, ciò che ſi fa cominciando dall'analiſi, o dall'eſame delle coſe particolari, e per l'aſtra zione, elevandoſi agli univerſali; la ſeconda, che ufficio è di uomo meraviglioſo inſegnar agli altri le coſe ritrovate, ciò che ſi fa per la ſinteſi, combinando l'idee generali, e quindi le lo ro combinazioni, da cui ſi deducono i problemi, e i teoremi, ed indi i corollari, e le annotazioni. Sommo acume di men te fi ricerca nel far le opportune aſtrazioni, e di nuovo da.quefte aftrarne altre, ſin che ” analiſi propoſta ſi riduca all' ul time idee, e ſomma fodezza, ritrovare l'idee, concatenarle in guifa che alcri con facilità, e prontezza le intendano, e l'uno, è l'altro dimoſtra Parmenide, o col luo nome Placone. Se l'uno che ne ſegua. b. I. Vuol Uole il Ficino, che queſta prima fuppoſizione debba inten derſi. Se l' uno, perchè il verbo è, o ſia la copula del predicato o del ſoggetto v'è pofta, non in grazia della coſa, ma dell' orazione. Nel legger la nota marginale del Ficino mi ricordai, che Licofrone (a ) invecedi dire, il parete è bianco, di ceva il parete bianco, ed altri il parete biancheggia, quaſi che Platone non riprovaſſe nel Sofiſta l' orazion ſenza verbi, o che (a ) Ariſt. 1. Phil. 9 (07 ) che i verbi non foſſero ſtati inventati per compendiare i gius dizi ! Non è forſe lo ſteſſo il dire, io amo, che io ſono aman te é io biancheggio, che io fono biancheggiante? La fuppofi zione dunque, je l' uno equivale all' orazione condizionata, ed implicità fé uno, nè così la propone Parmenide, ſe non per intimarci, che a null' altro fi deve badare nell'ipoteſi, che all uno preſo in un concetto aſtrattiflimo. Nella Geometria ſinteticamente ſi comincia dal punto prin cipio della linea; nell'aritmetica, dall'uno principio del nume ro; e nell' ontologia dall' uno traſcendentale, che conviene ad ogni noftra idea. Eſclude tutte le relazioni, perchè riferendofi l'uno per eſempio ad A, B, C ec. non è più uno, ma molti, in quanto in lui fi conſiderano le diverſe faccie che ſi riferi ſcono ai molti. Parmenide in queſta prima ipoteſi eſclude dall' uno cutte le relazioni, cioè quelle dell'ente in genere, e l'alore dell'ente in fpecie. Relazioni dell'ente in genere ſono l'identicà, e la di verſità, perchè non competono meno alla ſoſtanza, che alla quantità, qualità, ed agli altri predicamenti. Relazioni dell'en te in fpecie ſono, la limiglianza, la diſſimiglianza, Peguaglian za, l'ineguaglianza, l'antichità, la novità eco perchè competo no o alle fole qualità, o alle ſole quantità ec. * l une e l'altre intanto ſi dicono relazioni, in quanto non conſiderano le coſe in ſe ſtelle, ma relativamente tra loro: il diffimile, l'eguale ec. non li concepiſcono ſenza i due termini, che tra loro fi paragonano. Se l' uno in quanto tale non può compararſi ad alcuna coſa, biſogna eſcluder da lui tutte queſte relazioni, tan to più ſe nelle coſe riferite s'includono i molti. Parmenide comincia dall'eſcluſione delle relazioni più facili a conofcere', che ſono quelle della quantità; paſſa alle relazioni della qualità, e ad alcre, e finalmente all'eſſenza; nè di ciò con tento efclude le relazioni, che l'uno può aver all'opinione, al la ſcienza, é lino al nome. Se l'uno in queſto concetto aftrat tiſſimo fi nominalle, avendo ogni nome relazione al ſenſo, al la fantalia, od alla mente, e quindi a tutti gli uomini, che lo pronunziano o l'odono, l'uno con l'aggiunta di queſte relazio ni ſarebbe molti. Si ſente più che non s'eſprimequeſt' ultimo grado, ed abbiamo grande obbligazione a Platone, che in que Ro Dialogo, nel rappreſentarci la dottrina della fetta Eleatica, ci ha moſtrato l'uſo opportuno delle aſtrazioni. Egli di conten ta di non moltiplicarla, che fino ad un certo grado, a fine che l'idea coll' altrarla tanto non s'inlanguidifca, è sfumi; onde al fine la mente non poſſa più ravviſarla in quella guiſa, che i 2 l'im 708 ) l'immagine d'un oggetto riflettuta da uno ſpecchio ſucceflivamen te in molti altri, al fin diviene si ombratile, che ſvaniſce da. gli occhi. Frattanto era neceſſario dimoſtrare in un ſoggetto aſtrattiſſimo per sè, l'uſo dell'ultime aſtrazioni che può far la mente, non eſſendovi altro modo di accennare, come in ogni quiſtione s'arrivi a quell' ultima idea, in cui conviene che vi ci ripoſi, anco malgrado l'impeto innato, che inevitabilmente ci porta a ſempre più nelle cognizioni inoltrarci. Nell'inveſtigazione poi dell' idea vaga Parmenide per tutti i generi, come era in uſo nell'antica Dialetica, e fatta la ſuppoſizio ne determinata per via di comparazioni, ed eſcluſioni, egli ricava il punto preciſo della quiſtione propoſta. Con la chiarezza maggio re che io poſſa, procurerò deſprimer diſtintamente tutti i gra di tallor dell'analiſi, e callor della ſinteſi Parmenidea. Nel trat çar l'altra quiſtione meconvenne ſeguire le interrogazioni, e le riſpoſte degli Interlocutori ma quà folo Parmenide parla; onde bafta ſolo ſeguendo l'ordine del Dialogo premetter le.co. ſe neceſſarie, eſtrar la propoſizione, e dimoſtrarla fe fi può cal metodo de' Geometri. L' uno non è molti. Abbiamo quanto baſta illuſtrata queſta definizione; qui fo lo avverto, che come il Wolfio, dopo d'aver definito, che l'en te ſemplice è cid che non ha parti, da queſta definizione ne gativa egli deduſſe, che l'ente ſemplice non è ſteſo, non è diviſibi le, ſenza figura, ſenza grandezza, che non riempie ſpazio, che non ha moto inteſtino ec. Così Platone, da ciò che è l ' uno, dimoſtra le fteſſe coſe, e molt'altre che andremo partitamente, conſiderando, e deducendo dalle nozioni preme{le. g. 3. 11 Wolfio defini il tutto ciò che è lo ſteſſo con molti; per abbracciar in una definizione non ſolo il tutto integrale, che chiamaſi totum, ma ancora il potenziale che chiamali omne. Lo ſteſſo, come ſi vedrà fra poco, conviene non meno alle quantia tà, che alle qualità, ed alle ſoſtanze, e l'idea di molti è più univerſale, che quella delle parti, convenendo i molti e agli enti ſemplici, ed a' compoſti come a' quantitativi. Parmenide non definiſce qui, che il tutto integrale, raccogliendo inſieme le 1 (69 ) le parti, e limitandole in uno, a cui niente manca, ed è per fua natura indiviſibile; la nozione di molti è quindipiù aftratta della nozion delle parti, e in queſto ſenſo Ariſtotele diffe, che il tutto è prima delle parti, e non le parti del tutto, il che, ſe ſi crede al Patrizio, tolfe da Ippodamo Turio. (a ) §. 4. L'uno non è nè tutto, nè parte di sè. Se l'uno è tutto non vi manca alcuna parte, ($. 3. ) dunque ha parti; dunque è molti contro la definizione dell' uno ($. 2. ) Se l'uno è parte di sè, è un tutto riſpetto a sè, ma non pud eſser un tutto, come ſi dimoſtrò; dunque non è parte disè. L'uno non effendo nè tutto, né ſteſo, od è indiviſibile, o è ſemplice. parte, non è 8. S. Ogni cutto ha principio, mezzo, e fine. Cid vuol dire, che propoſtoſi un turco nel numerarne le parti fi comincia da quella che chiamaſi prima, e li progrediſce all' ultima paſſando per le intermedie. §. 6. L'uno non ha principio, nè mezzo, nè fine. ol, Se l'aveſse ſarebbe un tutto ($. 5. ) il che è impoſſibile (8.4. ) Speſre volte inſegnò Ariſtotele, che l'infinito è ſenza principio, ſenza fine; offerva il Patrizio, che lo preſe dal Parmenide, ove ſi dice, che l'infinito (o piuttoſto come io crederei l'indefinito ) non ha ne principio, nè fine, cioè non ſi sa in eſſo, nè dove comin, ciar la numerazione, ne dove terminarla. In queſto ſenſo una li nea non è propriamente infinita, o indefinita, le comincia da un punto, nè una ſuperficie, nè un corpo, ſe la ſuperficie comincia da una linea, e il corpo daunaſuperficie. A queſti infiniti måtema rici, che cominciano da un termine, non compere la definizione, che Platone aſſegna dell'infinito, da cui eſclude il principio, ed il fine. (a ) Diſcuſ. perip. T. 2. p. 280. S. 2: (70 ) S. 7. L ' uno è infinito. L'uno non ha principio, nè fine (S. 6. ) Dunque è infinito. (An. Si 6: ) 9. 8. La figura è una parte dello ſpazio, o dell'eſtenſione circonſcrit ca da cerci limiti, o è retta come il quadrato, il cubo ec. o ro tonda, come il cerchio, la sfera, Pelifli, l'eliffoide ec. o miſta dell'uno, e dell'altro. Il principio della figura è dove i moder ni pongono il vertice, il fine dove pongono la baſe", il mez zodove la figura fi divide per mecà. 8. 9. L'uno non ha figura. Ogni figura, o recta, o rotonda ha principio, mezzo, o fine (8. 8. ) ma l'uno non ha principio, nè mezzo, nè fine. ($. 6. ) Dunque non ha figura. L'uno è infigurabile. $. 10. Non lo può concepire', che una coſa ſia in ſè ſteſſa ſenza il di 1 ſtinguere con la mente, che ella è comprendente e compreſa, cid che è concepirla due volte, o di uno far due. Non ſi può conce pire, che una coſa ſia in altrui, ſenza che ella ſia toccata in mol te parti. Il luogo abbraccia, o comprende la coſa in lui colloca ta · Eſer in alcrui, od effer in ſe ſtello,, ſono due oppoſti ſenza. mezzo, come il moto, e la quiete. So IT. L'uno non è in luogo. O ſarebbe in sé, o in altrui; ($. 10. ) ſe in sè, egli ſarebbe a sè il ſuo luogo, onde abbracciando ſe ſteſſo ſarebbe nel tempo fteflo, e comprendente, e compreſo, cioè l' uno ſarebbe due co ſe o molti contro la definizione ($. 2.) ſe foſſe in altrui, fareb be 1 1 1 1 (71 ) be toccato in molte parti, onde avrebbe molte parti contro la definizione. (§. 2. COROL. L'unonon è circonſcritto da alcuna coſa, terra, Cielo, materia, ſpazio ec. ANNOT. Daqueſto argomento lice inferire, che Parmenide cob ſidera qui l'uno, in quanto è dalla mente aſtratto da corpi, che ſono in luogo; s'è già oſſervato, che l'ontologia degli anti chi era fondata su l' idee aftratce dalla materia, dalla forma, dal compoſto, dagli accidenti; onde queſt'uno aſtratto da corpi, e da loro dipendente non ha alcuna relazione a Dio, ch'è un ente per sè, in sè, infinito cc.. 12. Il moto alla ſoſtanza, ſecondo Ariſtotele, è quando una coſa, per eſempio una parte di terra ceſſa d'eſfer terra, e comincia ad eſſer pianta. Il moto alla quantità è quando una coſa, per eſempio un fanciullo creſce nella ſtatura, ed un vecchio decreſce. Il moto alla qualità è quando per eſempio la carne d unUomo fredda, dura, ed aſpra, li fa da sè calda, molle, liſcia. Preten deva Ariſtotele, che queſti tre moti dipendendo dalla forza in crinſeca, che facea cangiare alle coſe la ſoſtanza, e gli acciden ti loro, li diſtingueſſero dal moto locale, nel qual altro non ſi con ſidera, che il paſſaggio da un luogo all' altro: Parmenide, o Pla tone, benchè parli del moto di generazione, e d'alterazione, par ſolo far attenzione, ſecondo l'ulo de'moderni, all'accoppiamento delle parti, e quindi all aumento delle qualità, due coſe accom pagnate dal moto locale, o di traslazione. Lo conſidera egli in linea retta, oin cerchio, nel qual moto una parte della coſa & forma nel mezzo, e le altre parti fi rivolgono intorno al mezzo. Vuol poi, che tutto ciò che ſi genera ſi faccia in qualche luogo ſecondo il principio da lui in queſto Dialogo replicato più volte. Ciò che non è in alcun luogo è nulla. Platone nel Teeteto dice per bocca di Socrate: Se dimoſtran eli una ſpecie di moto, o due ſpecie, come a me pare, nondimeno io conſidero che cid non ſolamente appaja a me folo, mo ancora tu ne fii partecipe, acciocchè amendue parimenti patiamo qualunque coſa face cia meſtieri, ficchè mi di, cbiami tu forſe moverſi, quando alcune coſa fe mute da luogo a luogo, e nello steſo ſi raccoglie? Teodoro glie lo concede. Socrate ſoggiugne: Dunque fiare una specie questa, ma quando fermandoſi alcuna coſa nello ſteffo luogo s'invecchia, o di bian, ca fi fa nera, o dara dimolle, e ſi altera da certa altra alterazione, son chiameremo noi meritamente queſt' altra ſpecie di movimenti?... Ora dico che fieno due le ſpecie del movimento cioè alterazione, la (72 ) la circonferenza. Egli dice circonferenza in luogo di traslazione in cerchio, per moſtrar che nel pieno ogni coſa va in giro., Conſidera poi quì, che nel farſi una coſa vi la un accoppia mento, nel qual prima una parte fi congiunga a quella che li fa, mentre l'altra parte, che ſi deve aggiungere, è ancora fuori della coſa. 1 $. 13. L'uno non ha moto di alterazione, nè di generazione. Non di alterazione, perchè ſe ſi altera non è più uno, ac quiſtando nuove qualità; ſe fi genera non è più uno, acquiſtan do nuove parti. Or nuove qualità, e nuove parti fanno molti; dunque ſe l' uno o fi altera, o fi genera, è molti contro la de finizione. IN ALTRO MODO. Una coſa non può generarſi o farſi che in un' altra, perchè tutto ciò che è, o fi fa, è in qualche luogo, ma ſe l'uno non può effer in un altro (S. 11. ) nè meno può farſi in eſſo. In ol tre ſe una coſa ſi fa in un altro, non ancora ella è ſe ſi fa. Or quando una coſa ſi fa, una parte è in lei, e una fuori di lei, perchè le parti fi vanno ſucceſſivamente aggiungendo, ma l'uno non avendo parti (5. 4. ) nè può eſſer nè tutto te in sè, nè tutto, nè parte fuori di sè. Dunque non può ge nerarſi. Corol. L' uno non è generabile, nè alterabile, nè par §. 14. L'uno non ha il moto di traslazione. L'uno non è in luogo (5. 11. ) ma la traslazione in linea ret. ta è una mutazione ſucceſſiva del luogo. Dunque l ' uno non eſſendo in luogo ($. 11. ) non può mutar il luogo, ſecondo la linea retta, ma nè meno pud mutarlo, ſecondo la linea circo lare, perchè deve raggirar nel mezzo, e tener fiffe le parti che fi rivolgono intorno al mezzo; ma l'uno non ha nè mezzo, né parte, dunque non può rivolgerſi in cerchio'(. 13. ) Dunque le alluno non conviene nè l'uno, nè l'altro, non gli conviene il moto di traslazione. Q. 15. 1 1. 1 (73 ) g. isi Come ſi concepiſce il moto, nel concepire la traslazione fuc ceffiva del mobile, o ſia il rapporto continuamente vario della diſtanza del mobile a ' corpi contigui, così fi concepiſce la quie te nel concepir il rapporto coſtante di diſtanza a ' corpi conti gui; quindi nel moto, il corpo va ſucceſſivamente occupan do diverſe parti dello ſpazio, e nella quiece occupa le ſteſſe par ti dello ſpazio. $. 16. Luno non è nè in quiete, nè in moto. L'uno non è in sè, nè in altrui (9.11. ) ma ciò che è in quiete, è ſempre nello ſteſſo, ciò che li move è ſempre in al trui. Dunque ſe l'uno non è in ſe ſteſſo, nè in altrui, non ſi ripoſa, nè ſi muove. $ 17 Platone ha ſin ora conſiderato l' uno per eſcluder da lui la ragion di tutto, di parte, di principio, di fine, di mezzo, di figura, di luogo, di moto, cioè per eſcluder dall' uno tutte le relazioni che appartengono alla quantità, come la più nota, e più facile. Senofane pur provava, che l' uno era infinito, im mobile, non ſi trasfigurava nella poſizione, non s'alterava nel la forma, non fi milchiava con alcri. Non è egli molto veri ſimile, che egli ne arecaffe le ſteſſe ragioni, che poi Parmeni de più fteſe, ed affottiglid? Paſſa Parmenide ad eſcluder dall' uno le relazioni dell'ente che appartengono alla qualicà, di cui le prime ſono l'identità e la diverſità. Non premette Parmenide alcuna definizione dello ſteſſo, e del diverſo; come fece del tutto; dai Pittagorici (a ) impard, al dir del Patrizio, che l'identità, e la diverſità non devono conſiderar fi come paſſioni dell' ente, ma come generi ſecondarj, i di cui primi ſono il moco e la quiere. Ariſtotele all'incontro riduce l' identità a una certa unità, e dichiara che ella come la diverſità appartiene alla ſuſtanza, poichè fteſse ſono quelle coſe che con vengono, o nella materia, o nella ſpecie, o nel numero, o nel Tomo II. k gene (a ) Diſcuſ. Perip. T. 2. p. 207. (74.), genere di cui una è la ſoſtanza. Platone eſtende l'identità, e di verſità alle qualità, e da lui impårarono i matematici a dire, che le ragioni o proporzioni, che ſono le ſteſſe con una ſtella, ſo no le ſteſſe tra loro; e non ſi dice pur tutto giorno lo lteſto grado di calore, di lume ec. e. parimente ragioni diverſe, di verſo grado di calore, di lume ec. Dunque non alla ſola fo ftanza, ma alla quantità, alla qualità, ed agli altri predicamen ti apparciene lo ſtello, e il diverſo. Inliftendo il Wolfio su le nozioni ſcolaſtiche, dà il criterio per diſtinguere lo ſteſſo dal diverſo. Quelle coſe, dice egli, fou no le stelle che ſi poſſono ſoftituire. ſcambievolmente ſalvo qua lunque predicato, che loro aſſolutamente, ſotto qualche con dizione convenga; ſicchè fatta la fortituzione, la coſa reſta ta le, come ſe non foſſe ſtata ſoftituita. Se in una bilancia, in cui ſang equilibrati due peſi, in cambio di un peſo, d' una certa grandezza, io ne ſoſtituiſco un alıro, in modo che l'equilibrio Loro non lia tolto, queſti due peſi, in quanto peſi, nulla diſtin guendoli: ſi chiamano gli ſteſſi. Se nel peſo che è prima nella bilancia, vi foſſe una certa figura, ed un certo colore, eun cer to grado di calore, e di freddo, ed anche un certo odore, e tutto ciò appuntino ſi ritrovalle nel peſo che ſi ſoſtituiſce, que fti due peſi non diſtinguendoſi, e nel peſo, e nell' altre qualità li chiamano gli fteſi; Lo ſteffo in numero è ciò che ſi afferma di ſe ſteſſo, o cui ripugna d'efiftere due volte; nel dirſi, queſto triangolo è que ſto triangoló, ' ſi predica lo ſteſſo triangolo di ſe ſteſſo, onde convenendo la ſtella eliſtenza al ſoggetto, e al predicato, egli è manifeſto, che il triangolo in quanto è nell' uno, e nell' altro non ha doppia eſiſtenza, mala ſteſſa, I diverſi poi ſono quelli, che ſcambievolinente non poſſono ſoſtituirfi, falvo ogni predicato che all' uno, o all' altro aſſo lacamente o condizionatamente convenga. Così nel caſo della ſoſtituzione de' peſi della bilancia, ſe un peſo nel ſoſtituirſi all' altro cangia d'equilibrio, il pelo ſofticuito è diverſo dal peſo, di cui preſe la vece; egli è diverlo in ragion di peſo, benchè per altro poteſſe eller lo ſteſſo nella grandezza, nella figura nel calore, ed altre qualità. Poſſono dunque le coſe eſſer le ftel ſe in un predicato, e diverfe negli altri; quindi ſi può diſtin guer lo ſteſſo, e il diverlo in affoluto, e in relativo; ſono aſ loluti, ſe le coſe convengono in tutti i predicati, o diſconven gono falva però la loro eliſtenza; ſono relativi le convengono in alcuni predicati, ma diſconvengono in altri. E'cid neceſſa rio di ben avvertire, perchè in queſto Dialogo fi prende lo ſteſ 1 1 ſo, 1 (75 ) fo, e. il diverſo in queſti due fenfi. Qul Parmenide perd pren de aſtrattamente la coſa, perchè a lui baſta, che l'identità, e la diverficà fiano affezioni, o generi delle coſe non preſe in sé, ma relativamente all'altre, baſtando queſta fola relazione per eſclu derle dall' uno; quindi può facilmente dimoſtrarſi, che l'uno non è, nè a se, nd ad altrui lo ſteſſo, perchè nel ſuo concerto aſtrat tiffimo efclude ogni comparazione; ma Parmenide in alcro modo lo dimoſtra, rappreſentandoſi alla mente per via d'una nozione immaginaria, che l' uno prima è uno, e poi per forza della com parazione egli è molti. Ciò ſi rende ſenſibile col diſegnar l'uno col ſimbolo aritmetico I, e poi aggiongendovi A, o qualche alera lettera, onde egli fia prima i, indi 1 + A. S. 78 L'uno non è lo ſteſſo, nè diverfo a sè, nè ad altri. Se l'uno foſſe da fé ſteffo diverfo, ſoſtituendoſi l'uno per l'uno dove prima della ſoſtituzione fi concepiva i, dopo della foftitu zione si concepirebbe 1 + A, dunque non più i contro l'ipoteſi. Se fia lo ſteſſo ad altrui egli farà quello, cioè 1 + A non cið che è, od uno, il che di nuovo è contro l'ipoteſi.. 19. L'uno non è diverſo, nè da altrui, ne da ſe ſteſſo. L'uno convenendo con tutte le coſe, perchè d'ogni coſa ſi dice, uno non è diverſo da effe, che in virtù di qualche predicato; dun que in quanto non è più uno; dunque non può eſſer diverſo dall' altre cofe. Non è la ſteſſa la natura dell' uno, e dello ſteſfo, perchè quando una coſa li fa la ſteſſa ad aleuna non ſi fa uno; il colore di A per efempio ſia lo ſteſſo, che il colore di B, non perciò mai A è B, perchè le due coſe colorite comparandoſi, benchè con vengano nel colore, e in queſto fieno uno, non perd convengono nell ' çliſtenza, Se gli Itelli non ſi conofcono, che per la Toſti tuzione, gli ftelli convengono bene ne'predicati; ma ſono fem pre due. Dunque quando una coſa ſi fa la ſteſſa con l'altra, di due non ſi få uno, ſe non inquanto ſi concepiſce, che con vengono, o nella quantità, o nella qualità ec. ma non perchè convengono non ſono due; dunque o l' uno paragonato all' uno ſi fanno due, e cosi l'uno non è uno, o reſtando uno non k 2 ſi può (70 ) la pudfar ſoſtituzione. Dunque non pud dirſi, che l' uno fia lo ſteſſo a ſe ſteſſo. 20. Parmenide paſſa a comparar l'uno coi fimili, e diffimili. Aris ftorele dice, che i ſimili ſono quelli che patiſcono lo ſteſſo, ei diffimili quei che pariſcono il diverſo; de' primi una è la qualità, dei ſecondi è diverſa la qualità,onde egli ripone i ſimili, e dilli mili ſotto l'identità, e diverſità, il che imparò da Platone nel Filebo (a ) e più facilmente dal Parmenide, ove Platone defini ſce il ſimile, per ciò cui adiviene patir lo tego, il diffimile, ciò cui adiviene patir il diverſo. Conſidera quì Parmenide le.qualità, come attributi o modi che ſi ricevano nel ſoggetto, il quale nel riceverle in cerca guiſa paciſce; ſono queſte nozioni immaginarie, come quella della ſoſtanza. Su queſte orme Parmenidee, il Wol fio definiſce i fimili quelli, in cui le ſteſſe ſono le coſe, per le qua li doverebbono diſcernerſi, onde ſecondo lui, la fimiglianza è l' identità di quelle coſe per cui dovrebbono tra loro diftinguerli. Se in due volti per eſempio io ritrovo nelle parti gli ſteſſi linea menti, ne' lineamenti gli ſteſſi gradi de' colori ec. in fomma ſe io ritrovo, che le ftelle fieno tutte quelle qualità, per cui dovereb bono diſtinguerſi, i due volti ſono ſimili; diffimili all'incontro ſono quei volti, in cui diverſe ſi ricrovano le coſe per cui tra lo ro fi diſtinguono, che vuol dire i lineamenti delle parti, le figu la collocazione, le grandezze. Il Wolfio fi fece ſtrada con que ſta definizione a definir i ſimili matematici, ben oſſervando, che le loro proporzioni, benchè abbiano per fondamento ilquanto, fi riducono al quale. re, S. 21. L' uno non è fimile nè diffimile ad alcuno, o a se, o ad altrui. Simile a quello cui adivienelo feſto (. 20. ) ma l' uno eſclu de lo ſteſſo (S. 18. ) Dunque efclude il ſimile. L’uno ſe riceve alcuna coſa fuor di quello che è l' eſſer uno, pa tiſce d'eſſer più l'uno, perchè egli è l'uno, ed inſieme la coſa che pariſce, onde almeno egli è due o molti; dunque non è più uno; dunque ſe l’uno non paciſce d'effer lo ſteſſo, o loco, o con altri, non può eſſer a ſe ſteſſo, o ad alcri ſimile, (a ) Patriz. Diſcuſ. perip. p.202. Il (77 ) Il dillimile è quel che pariſce diverſità (5. 20. ) ma l'uno non può parire diverſità, dunque non è, nè diverſo da lui, nèda altre coſe, altrimenti non ſarebbe più uno; dunque l'uno non è diſli mile, nè a ſe ſteſſo, nè ad altrui. 1 l. 22 Concluſo che ha Parmenide non convenir all'uno, nè l'iden: tità, nè la diverſità, nè la ſimiglianza, nè la diffimiglianza, paſ fa a ricercare ſe gli convenga l'eguale o l'ineguale, due pro prietà delle grandezze comparate P une all' altre; l'eguale im murabilmente ſta nel mezzo, da cui l' ineguale allontanandoſi per ecceſſo ſi chiama maggiore, e per difetto minore. L'egua le paragonato all'eguale ha le ſteſſe miſure, paragonato al mag giore ha meno miſure, e ne ha più paragonato al minore. Ra gionando Parmenide con Socrate ad bominem, fi ferve del ter mine di participare, che non è allegorico, ove ſi tratta di par ti. Offervo che non miſurandoli, ſecondo Platone, che con l'uni tà, e col numero, è manifeſto, che la miſura è ſecondo lui quan tità; pur gli attribuiſce lo ſteſso, e il diverſo. g. 23. L'uno non è, nè eguale, nè maggiore, nè minore. Non participando, nè dello ſteſso, nè del diverſo, non parte cipa mai, o le ſteſse, o le diverſe miſure, in conſeguenza non è nè eguale, nè maggiore, nè minore. 6. 24. Come ſi miſurano le grandezze permanenti, così ancora ſi mi ſurano le ſucceſſive, le quali paragonare l'une all' altre, compete loro lo ſteſso e il diverſo, cioè il più, e il meno. Si dice che due Uomini hanno la ſteſsa età, quando è miſurata per lo ſteſso nu mero di rivoluzioni ſolari, e che hanno maggiore o minor età le ella ſia miſurata per maggiori o minori rivoluzioni ſolari. L'antichità, la vetuftà, la novità ſono relazioni degli enti ſuc ceflivi per rapporto alla loro eſiſtenza fucceffiva; antico ſi dice quello che da lungo intervallo di tempo e prima d'un altro; nuo vo quel che ora è, e non fu che già poco tempo prima d'un al tro; il giovane, il vecchio, ſono propriamente le differenze dell' età degli Uomini, mas'attribuiſcono per mecafora a curce le coſe. 9.25. (78 ) f. 25. L'uno non è più vecchio, più giovane di ſe ſteſso, o dell' altre coſe. L ' uno non pud participare, oo delle ſteſse,, o di maggiori o minori miſure degli enti ſucceflivi, perchè non può partici pare dello ſteſso, e del diverſo; ma quel ch'è più vecchio, partecipa di maggiori miſure, quel che è più giovine di minori, dunque ec. g. 26. Per ben intendere come uno nel farli più vecchio di fe fteſso o d'un altro ſi fa più giovane, mi è neceſsario trasferire alcu ne nozioni della ſeconda ipoteſi, ed aritmeticamente ſvilupparle. g. 27 6 3 5 4 Se il rapporto del maggiore al minore crefca per l'aggiun ta agli antecedenti, e a' conſeguenti d'una grandezza eguale, il rapporto ſempre decreſce. Sieno i numeri 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, i quali ſucceſſivamen te creſcono per l'aggiunta dell'unità, èmanifeſto che (a ) > 4 $ Si prendano i quozienti o valori delle ragioni. Il valore della ragione di = it; il valore di = ito il valore di = i +. Or tal eſsendo la ragione qual è il fuo valore ſe I +1/2 > it it ec. come è mani 3 feſto fard > 5 ec. Or rappreſenti A C l' età d'un 3 fanciullo di 3 anni, e B D l'età d'un | fanciullo di due anni, s' aggiunga alla А С F prima età un anno, ciod ad " A C. s'ag giunga CF, e alla ſeconda età B D SA D G. aggiunga un altro anno o DG. Onde s' averà la ragione di }; li vada aggiungendo ſucceſſivamente alle due età un'anno, ed indi un'anno, e li averanno le ragio ni di e di. Egli è manifeſto, che il fanciullo di tre anni è più vecchio di quello di due, ma nel creſcere all'uno, e all' al > 3 4 Ā 1 B tro (a ) Il ſegno è quello del maggiore, Il ſegno di < del minore. Il ſegno è quello dell'eguale. (79 ) tro un' anno la ragione che ne riſulta di è minore dell'altra; molto minore è quella di, e molto più minore quella di onde ſebben il primo fanciullo ſi faccia ſempre più vecchio dell'altro, contuttociò per l'accreſcimento dell'egual quantità ſi fa più gio vane relativamente, perché dove nella prima ragione la differen za era nella ſeconda è minore di 1, e quindi, ſempre mi nore. Egli è vero dunque, che un fanciullo nel farli' più vecchio d'un altro li fa ancora più giovane. Se non ſi compari l'età di due fanciulli, ma ſi conſideri folo l' erà di uno, che ſempre riſpetto a ſe ſteſso creſce di un'anno, egli è manifeſto, che per queſto eguale accreſcimento, nel decreſcer ſempre le ragioni degli anni cra loro comparati, lo ſteſso fanciul lo nel farſi più vecchio di ſe ſtefso, fi fa ancora più giovane. Si vede quindi, che nel farſi il più vecchio dal più giovane, fi fa cid dal diverſo, e che non è diverſo, ma'ſi fa. Corol. Lo era, lo efser ſtato, il li faceva, ſignificano i modi del tempo paſsato; il ſi farà, il ſarà, e ſarà per farſi, i modi del fucuro o dell'inanzi; l'eſsere, il farſi, i modi del preſente. f. 28. L'uno non è in cempo. Se l'uno fofse in tempo participerebbe delle miſure del tempo; dunque or ſarebbe più giovane, or più vecchio, ma queſto non pud eſsere, come s'è dimoſtrato (9. 25. Dunque ec, IN ALTRO MODO. Quel che è in tempo nel farſi più vecchio, ſi fa più giovane di ſe ſteſso, (§. 27.) ma l'uno non può farſi più vecchio, nè più gio vane di ſe ſteſso, perchè non può farſi, nè una cola, nè l'altra (9.25. ) Dunque non è in tempo. Il più giovane che ſi fa dal più vecchio è diverſo da lui, e non è ma ſi fa, ma l'uno non può ricever il diverſo (§. 18. ) Dunque non può farli dal più vecchio il più giovane; dunque non è in tempo. Il più giovane non ſi fa dal più vecchio, nè in più lungo tem po, nè in più breve di fe fteſso, ma ſempre nell'egual tempo con le ſteſso, o fia, o ſia ſtato, o ſia per dover eſsere; (§. 27. ) mą l'uno non è ſuſcettibile dell'eguale (§. 23. ) Dunque nè meno dell' egual tempo; dunque non avendo le paſſioni del tempo non è in cempo.. 29. (80 ) S. 29. L'uno non partecipa, nè del preſente, ' nè del futuro nè del paſſato. L'uno non eſſendo in tempo non può partecipare del tem po, ma le paſſioni del tempo ſono, il preſente, il paſſato, il futuro. ($. 27. ) Dunque non le partecipa. Corol. Se l'uno non è partecipe di niun tempo, non fu mai, nè ſi faceva, nè era, nè ora è fatto, nè fi fa, nè farà. 8. 30. Ogni ente, o ciò che è partecipe di eſſenza, è, ſecondo Plato ne, o nel tempo preſente, o ſarà nel futuro, o fu nel paſſato. Nel Timeo egli dice, che Dio per far il tempo fluente nel numero, fece un'immagine dell'eternità. Dunque l'eternità fiſſa in ſe ſteſſa non contiene, che il preſente, e ciò pur dicono i Teolo gi nel diffinirla con Boezio, una poſſeſſione tutta inſieme di una vita interminabile. Negando dunque Parmenide, che il pre ſente competa all' uno, gli nega l'eternità, onde è egli evidente che non parla di Dio, ma ſolo d'un ente di ragione, dal quale per l' astrazion della mente eſclude tutto ciò che involve rela zione a qualche coſa, ed anche a lui ſteſo. Dall' altra parte, qui Parmenide non eſclude dall'uno, ſe non cid che appartie ne per lo più alle coſe corporee e viſibili, il tutto, le parti, il luogo, l'eguale, il maggiore, il minore, la generazione, la traslazione, le differenze del tempo; e ciò che dice dello ſteſ. fo, e del diverſo, del fimile, e del diflimile, che pur conven gono alle coſe incorporee, lo ricava da ciò che ha negato ne' quanti. 1. 31. L'uno non è, o non ha eſſenza. L'uno non partecipa del preſente, del paſſato, del futuro (9.29. ) ma ciò che ha effenza partecipa dell'uno, o dell'altro ($. 30. ) Dunque l'uno non ha eflenza. Annot. Dall'uno conſiderato preciſamente come uno, cioè a dire oppoſto amolti, ſi debbe eſcludere, oltre l'eſſenza attuale, an cor la poſſibile, perchè la poſſibilità come fonte, e principio del, la (81 ) la realità porta ſeco qualche relazione a cid che eſiſte, é dall' uno ogni relazione deve eſcluderſi.; molto più le relazioni dell' uno all'ente, di ragione che chiamali intellettuale qual è il Lo-. gico, il metafiſico, il matematico, e l'altre relazioni ancora ché aver poteſſe all'ente immaginario ancor chimerico.. §. 32. tra coſa Primafi concepiſce la, non ripugnanza dei predicati delle co ſe, ed è l'eſſenza, e queſta non ſi dice d'altre coſe, o d'al tre eſſenze, ma bensì o gli attributi, i modi, e le relazioni fi dicono deſsa; cal è la definizione logica, che Ariſtotele diede della ſoſtanza, chiamandola ciò che non ſi predica d'al ma che tutte le coſe ſi predicano d'eſsa. In que ſto ſenſo l'eſsenza nel ſuo concetto aſtratto, non differiſce dal la foſtanza, che in quanto queſta ſi riferiſce a ſe ſteſſa, ed agli aleri de' quali è ſoftegno, per il che ſi dice, che ella non ha contrario, e non è capace di più, e di meno. Se l' uno non può predicarſi dell'uno, o di le ſteſſo, per non radoppiarlo o farne due o molti, egli è manifeſto, che non è ſoſtanza to più ſe fi conſidera col Wolfio, che nella nozione della fo ſtanza, v'è qualche coſa d'immaginario, perchè ella fi rappre ſenca alla fantaſią, come un valo od altra coſa, che in sè ri. ceve gli accidenti. $. 33 L'uno non è ſoſtanza. L'uno non ha eſſenza. (S. 31. ) Dunque non ha ſoſtanza ($. 32. ) ſ. 34. La ragione è propriamente quell'atto della mente, che da una coſa n'inferiſce un' alera, od è ancora ſe ſi vuole la con neſſione delle verità univerſali; la ſcienza è la cognizione cer ta, ed evidente delle coſe, ed è tutta opera della ragione che deduce una coſa da un' altra. Nell' attribuire una coſa ad un altra, ſe li ha qualche cimore, che ad efla ſi poſſa attribuire l'op poſto, ſi ha della coſa opinione. Col ſenſo poi non ſi percepi Icono, che le coſe ſingolari, o determinate in ogni parte, e quindi compoſte di molti. Da queſte definizioni e manifeſto chenegli oggetti della ragione, della ſcienza, dell'opinione, del Tom. II. I fen ((82 ). fénfo s } includono moki, çd - in oltre che ogni coſa, che.0.4 ſénte, o su cui di ragiona fcientificamente, od opinabilmente, ha un' eſſenza attuale o poflibile; falfa o vera. 1 $. 356 Dell' uno non li ha ragione, ſcienza, opinione, ſenfo. Quefte coſe includono molti, e dipendono dall'ipoteſid' un eſſenza (§. 34. ) ma l' uno non ha eſenza (S. 31. ) e non in olude molti (.9.,2. ) Dunque ec, g. 36 Non ſi dà nome ſe non alle coſe, della cui eſſenza, o per ragione, o per opinione, o per ſcienza, o per ſenſo ſi ha un ' idea o chiara, od ofcura, o diſtinta, o, confula, o miſta di que Ite differenze. S. 37... L'uno non ha nome. L'uno' non ha effetiza:(: 34:) Dunque l'uno non ha nome. 1 §. 38. Ragruppando in poco ciò che ſin ora ſi è detto, ſi può for mare tal fillogismo. Dal concetto aftrattiflimo dell' uno ſi de vono, eſcluder i molti di qualunque genere effi fieno; ma cid che appatriene alla quantità, alla qualità; alla refazione ec? vi s'includono imolti; dunque devono queſti eſcluderſi dal.concet to aſtrattilfino dell'uno,. ] Se fi diceffe, che così concludendo ſi confonde l'uno col nul la, manifeſto è l'inganno, poichè la definizione del nulla è, che egli non abbia nozione alcuna o poſitiva, o negativa, ciò che elclude dal nulla ogni realtà. Quando'io dico all'incontro, l'uno non é molti, non tolgo a lui ogni realtà, benchè eſplicitámen te io non vi rifletta. Io ſto più immobilmente che poſſo affil ſo su l'uno, in quanto s’oppone a molti, e in queſta conſide razione preſcindo più che poſſo dal conſiderar l' uno, o per rap porto all'ente, o per rapporto al mio penſiero; noi poſſiamo, come accennai, più ſentire, che eſprimere queſte preciſionimen tali, e momentanoe, ma 'non laſciamo di fentirte, e le fencia ·mo (83 ) mo ſe poffiamo eſprimerle in qualche modo, e farle' intendered agli altri; nè per altro la fcola Eleacica; ed indi Placone le pro poſe, che per addeſtrar la mente ad inveſtigar l'idee delle coſe. Era necelfario fciegliere per eſempio quell' idea, in cui la pre ciſione arriva all'ultimo grado, ove pofla mai giungere la men te umana. Non ſi conoſce mai bene la natura', ' ed'i precetti della arte, che l'imita, fe non ned maffimo. Io dimando al Lettore; che legge attualmente il Parmenide di Platone, e lo confronta col mio comentario, fè altro faccio in effo, che ſviluppare il fenſo.ovvio det tefto: Abbia pur Pro clo, e gli altri Placonici, e Gentili, e Criſtiani confiderato queſto Dialogo, non come ontologico, ma come Teologico, io ril pettando, e la dottrina, e l'autorità loro', dirò che la mia Spiegazione ontologica non impediſce, che degli intelletti più fublimi del mio, teologicamente non l'inalzino a coſe maggio ri, come fece il Cardinal Befarione, applicando a queſto Dia logo la dotrrina del preceſo S. Dionigi Areopagita. Si può ri leggere avendo preſente tútra l'intiera ſeſſione, quanto ivi diſ fi appoggiandomi alla dottrina di S. Tommaſo: Dio'è un en te fingolariſfimo, e nell' applicarvi quel che conviene all' en te di ragione; biſogna ftar attenti che non ſi confonda l' uno ton l'altro; la merafíſica degli antichi è la ſteffa che la me tafifica dei moderni; mia nel riferir la prima ' alle coſe, queſte includevano Dio, che gli antichi non ſeparavano dalla mate ria, che per preciſionedi mente, là dove la ſeconda conſiderando fe coſe non ha a Dio, che un'analogia molco lontana, perchè fi diſtingue eſenzialmente, é realmente dalle ſteſſe. SEZIONE TERZA. Se l'uno è, quali coſe adivengono intorno ad eſſo. I. I. Nom On ſi ricerca ſe faecia meſtieri, che ſucceda- un cert' uno, ma ſe vi ſia l'uno; o pure ſoſtituendo la nozione imma ginaria ſe l'uno partecipi l'eſfenza. Dall'ipoteſi così propoſta ne fiegue', che' l'uno non è la pro: pria 'eflenza, o che l' effenzà, e l' uno non ſono gli ſteſi con: cerci z chi dice elfenza, dice preciſamente la: non ripugnanza dei predicati, e chi dice uno, dice 'non molti.; Nel cratcat queſta: ſuppoſizionë, Platone comincia a frami I 2 fchia (84 ) ſchiare all' aſtrazioni le nozioni immaginarie più che di ſopra Queſto fa ſovente l'oſcurità del teſto, perchè per intenderlo ci sforziamo toſto a concepire ciò, che non è che un' imaginazione ed imaginazione tallora falſa, da cui li deduce una contraddizio ne, nèſempre però vera, ma apparente, il che raddoppia l'ab baglio, ſe non vi s'attende; manifeſteranno gli eſempi ciò che io dico, in tanto mi ſia lecito di contraſegnare con due ſimboli diverſi, A, e B, i due concettidell'ente, e dell'uno. Nel farne il compleſſo A + B io rappreſento un tutto che ha due parti, che io tra loro ſeparo con la mente, per ragionarne più diſtintamente fi 2. Se l'uno è, ogni parte di queſto tutto (uno è:) può dividerſi in infinite particelle. Si prenda la particella uno, e ſi concepiſca come ſeparata per un momento dall'altra particella ence, poichè per la fuppoſizio ne l'uno è, egli è manifeſto, che conſta di due particelle, uno ed ente. Di queſto nuovo compleffo ſi prenda la particella uno, e queſta per la ſteſſa ragione ſi dividerà in due altre, ente ed uno, e così all'infinito. Or ſi prenda l'altra particella ente, e poiché ogni ente è uno, ſi dividerà queſta particella in due altre, le quali di nuovo fi divideranno, e così all'infinito; dunque ogni particel. la del cutto uno è, ovvero è l'uno, ſi divide in infinite particel le all' infinito. Così può ſenſibilmente rappreſentarſi. Ente uno А + B 1 Ente uno uno ente 2 a + 2b 2A + 2B ente uno uno | ente 3A ente, uno uno | ente 46 4A 4B 3. a 36 3B 1 uno, Come A + B rappreſenta il primo compleſſo immaginario della e dell'ente così 2a + 2b rappreſenta il ſecondo com pleſſo immaginario dell'uno, e dell'ence dedotto dall'ente, o da A, e parimenti 2A + 2B ſignifica il ſecondo compleſſo imma ginario dell'uno, e dell'ente dedotto da B. ANNOT. Qui Platone fuppone darli reciprocazione tra le due pror (85 ) propoſizioni l'uno è, è l'uno, nella prima delle quali l' uno è il loggetro, cliente è l'attributo, e nella ſeconda l'ente è il ſoggetto, e uno l'attributo. Perchè legitimamente ſia la reciprocazione del le propoſizioni, biſogna che il ſoggetto ſia tanto ampio, quanto l'attributo, onde può reciprocarſi la propoſizione. Il triangolo è una figura di tre lati; nell'altra ogni figura di tre lati è un trians golo, ma non già ſi reciproca la propoſizione, ogni ternario è nu. mero, perchè non ogni numero è ternario. Il non aver avvertita la legge della reciprocazione fece cader in molti parallogismi tallora i Geometri. Corol. Poichè ogni ente è uno, l'uno ſi moltiplicherà come l'ente, onde potrà dirſi, che l'uno è infinito, o che l'uno è mol ti. Queſta è la prima contraddizione di queſt' ipoteſi, ma è con traddizione immaginaria od apparente, perchè l'uno per sè non è molti, ma è molti per accidente, cioè perchè gli accade di mol tiplicarſi, ſecondo gli enti che lo partecipano, onde non predi candoſi dell'uno nel tempo ſteſſo, e ſecondo lo ſteſſo, gli oppoſti, non ha in sè vera contraddizione. g. 3. Platone s'inoltra con le nozioni immaginarie. Conſiderando l? uno, in quanto partecipe di eſsenza, lo prende ſecondo ſe ſteſso con l'intelligenza, ſpartato da quello di cui diciamo che ſia par tecipe, cioè dell'eſsenza. Ciò vuol dire, che dell'ente, e dell'uno Platone fi fa quei due idoli caratterizzati per A, e per B. Nel dirli che li prende l'uno coll'intelligenza ſpar; tato dall'ente, s'allude manifeſtamente all'aſtrazioni della mente. $. 4. 1 L'eſsenza o l'ente, e l'uno ſono diverfi. Alcro è l'eſsenza, ed altro l'uno (: 32. Sez. 2.) Dunque uno in quanto uno è dall'eſsenza diverſo, e l'eſsenza in quanto eſsenza è diverſa dall'ano; dunque l'uno, e l'eſsenza ſono diverſi; Co sì può illuſtrarſi tale ragionamento. L'ente o l'eſsenza in quanto eſsenza include la non ripugnan za dei predicati coſtitutivi; l'uno in quanto uno include l'oppo Gizione ai molti, ma queſti due concetti tra loro non convengo no; dunque ſono diverfi. 8. 5. (86 ) $. s. L'eſsenza, l'uno, e il diverſo fanno tre concetti o tre coſe trx loro diverſe. S'è già dirnoftrato, che l'uno, el ente non termi nando lo ſteſso concetto ſono diverſi tra loro, ma il diverſo non includendo nel ſuo concetto, che la non convenienza, fa un concet to diverſo, ed in conſeguenza una coſa diverſa dall' altre due; dunque l'eſsenza, l'uno, il diverſo fanno tre coſe diverſe.. 6. Si rappreſenti l'uno per A, l'enre per B, e il diverſo per C ne riſultano quindi. Le combi- FA B7 In ogni combi-7 Tre poi eſsendo le combina nazioni di nazione vie zioni v'è ancora A, B,CAC uno in due Erre volte uno? in ogni com uno in due tre volte due E binazione В С! uno in due tre volte tre Abbiamo dunque dedotto da A, B, C, o dall'ente, dall' uno e dal diverſo il 2.primo pari, il ' tre primo diſpari, dae volte 3 parimenti impari, 3 volce 3 imparimenti: impari. Sipuò an cora dedurre due volte due parimenti pari', e queſte ſono tutte le ſpecie dei numeri. Combinandoſi il 2 il 3 due volte, tre volte e fin quattro volte, ma non altre, ſi compongono tutti i numeri: fino al dieci. It 3* 2 + 2 = 4 2 + 3 2 + 6 = 3 ti 3 2 + 2 + 37 2 + 1 + 2 + 2 = 3 + 3 + 2 3 + 3 + = te: 2 + 2 + 2 +19 1 + 2 + 2 + + 3 = I + 2 + 3 + 4 = 10 II 10 è fatto dall'ı, e dal o, e ſignifica ', che il primo articolo dei numeri termina alla prima decina; fe ſucceſſivamente alla de cina ſi aggiunge l'i, il 2, il 3. ec. ſi arriva alla ſeconda decina, e collo ftelso metodo alla terza, alla quarta ec: fino al 100, che è la decima decina da cui ſi va fino a 1000, o 10 volte 1oo ec. I Pita (87 ) I Pittagorici chiamavanol yno il finito, come quello che li mitava l'infinito o l'indefinito ad una tal ſpecie o forma: dot trina, dice nel Eilebo Platone, la quale diſcende dagli Dei; queſta è, the tutte le coſe tengono in loro fteſſe il termine, o l'infinito innato; o piuctoſto l ' indefinito. Lo rappreſentavano nella materia i Pittagorici, e lo ſimboleggiavano nel 2, o nel binario, poichè ogni coſa ſteſa è divit bile in due e ognuna delle parti in altre due,; e così all'infinito. Quando a queſto infinito s'aggiungea luna, che vuol dir la forza o la forma ſe ne faceva il compoſto che era l'altro principio, di cui par la Platone; queſto compoſto dețerminato a una ſpecie dalla for ma componeva un tutto, in cui vera principio, mezzo, e fi në. Lo diffegnavano i Pictagorici per il 3, e lo chiamavano numero perfecto, medio, e proporzione; oſſervò S. Agoſtino che numerando fino al 3,, € rapportando prima il 2 all'1, ed indi al tre nel comporſi la proporzione continua, aritmetica fi forma per la replicazione del 2 il 4, numero che immediata mente luccede al 3, ciò che non ſi ha negli altri numeri, per chè cominciando la proporzione aritmetica dal.2 chi replica il 3 non fa il numero che immediatamente lo ſegue od il 5 ma il 6; nel continuare la proporzione con queſto metodo i numeri riſultanti ſempre più ſe n'allontanano. S. Agoſtino per ciò offerva co'.Pittagorici, che la perfezione dei numeri è ne quattro primi, in cui gli eftremi ſono intimamente uniti ai mezzi, e i mezzi agli eſtremi. Quindi le più perfecte conſo nanze muſicali, ſono fatte dei primi quattro numeri 2 3-4, 1 ' 2'3? ſ. 7. Se l'uno è, egli è ogni numero. Nella combinazione dell'uno, dell'ente, e del diverſo fi de ducono tutti i numeri (9. 6.), Dunque nell' uno, in quanto è, vi ſono tutti i numeri,; Carol. Il numero eſſendo molti nell' uno, in quanto l'uno è., egli contiene moltitudine, e perchè i numeri fono infiniti nell uno che è, vi farà una moltitudine infinita. COROL. 2. Il numero in moltitudine infinita, eſſendo inclu ſo nell'uno che è, farà egli partecipe d'eſſenza. Si prenda la ſerie naturale de numeri 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 ec. fino al oo unità eterogenea alla prima, e da cui fi comincia l'alcra ferie 200, 30, 40, fino 200 = 60 altra unità eterogenea, da cui comin (88 ). cominciali, un' altra ſerie 2 co ', 300'ec. ſino a o, e cosi all' infinito. Se di queſte tre ſerie ſe ne fa una ſola ſi ha 1.2.3.4.5 ec. co '... 00?... oo..., fino ad in cui ſi potrebbe cominciar di nuovo la numerazione. Cominciando da uno, li può con le frazioni continuar la ſe. rie decreſcente con lo ſteſſo ordine che l'altra, onde 1 I 1 ec. • • ec. fino 3 4 5 I 1 I I I wec. 4 Combinando la ſerie dei finiti intieri, rotti, e degli infiniti matematici, e immaginarj, fi ha tutta la ſerie. ec. 1.2.3.4 ec. co oo oo ' ec. 0° 5 4 3 2 In queſte eſpreſſioni non v'è errore, purchè non s' attenda, che alla proporzione delle quantità, nè ſi realizzino i ſimboli. Ma non biſogna credere, che la numerazione ſia terminata, po tendoſi concepire, e tra gli intieri, e tra rotti, e tra gli infi. niti dei mezzi proporzionali, i quali ſono, come ben prova il Ba rovio, veri numeri (ſe ben noi non poſſiamo eſprimerli ) perchè ſimboli di vere quantità, come i numeri, ointieri, orotti, e gli infinitamente grandi, egli infinitamente piccioli. Platone, al dir d'Ariſtotele, poſe i due infiniti (a ) magnum & parvum, e queſti, come ben ancora lo riconobbe il P. Grandi, ſono gli infinita mente grandi, e gli infinitamente piccioli dei moderni Geome tri; infiniti replico immaginarj, de' quali con tanta chiarezza trattò il Wolfio nell'Ontologia, ſgombrando tutte le difficoltà' che v'oppoſero coloro, che non ben inteſero queſte due ſpecie d'infiniti Platonici, caratterizzati da profondi Geometri con tan to utile della Geomecria, della Mecanica, ed altre parti delle Matematiche. Queſti due infiniti di Platone non ſono diverſi dai grandiflimi, e menomiſlimi, di cui qui parla. 8. 8. In quanti luoghi è l' ente, in tanti è l'uno. Se l' uno è egli accompagna ſempre l'ente, ma non v'è ente, che non ſia in qual che luogo (9.12. Sez, 2. ) Dunque in quanti luoghi è l'ente, in tanti è l'uno. a ) Plato vero duo infinita magnum & parvum. Arift. 3.Phiſ. c.4. §. 9: (89 ) g. 9. Se l' uno è, non ſolo ' egli è l'uno, ma un certo uno. Ogni ente ſingolare partecipa dell'ente, dunque dell'uno; dunque come ogni ente ſingolare è un certo ente, ogni ente ſingolare è un certo uno. ČOROL. Si compartiſce dunque l'uno, non ſolo con le coſe in genere, ma con le coſe ſingolari, onde v'è l'uno, e il tal uno, e a queſto compete, come all'altro, eſfer molti, perchè vi ſono molti enti ſingolari, e compete loro il luogo degli enti ſingolari. g. 10. Se l'uno è, egli è un uno che è uno, e cert' uno, e mol ci, e parti, e finito, e in moltitudine infinito. Egli è uno, e cert'uno, ſe accompagnando gli enti è in ogni ente, ed in ogni cal ente; egli è tutto ſe ogni ente, in quan to è, egli è un tutto; egli è párte, ſe ogni parte dell'ente è jina; egli è finito, ſe ogni tutto ha i ſuoi limiti, e infinito le contiene in sè tutti i numeri. Annot. Queſte contraddizioni non ſono che apparenti. D. II. Se l'uno è, egli ha principio, mezzo, e fine. L'uno è finito, e tutto, e parte (S. 10. Sez. 3. ) Dunque ha in sè limiti, perchè ogni una di queſte coſe ne ha; dunque ha principio, mezzo, e fine. Corol. Dunque l' uno è partecipe di figura retta o roton da, o d'amendue miſta. ANNOT. Come l'uno, di cui quì parla Parmenide, pud effer Dio, o qualche idea divina, fe egli è circonſcritto da tutti i luoghi degli enti, ſe s'individua cogli enti ſingolari, ſe è tutto, parte, finito, figurato ec. 5 Tom. II. m 6. 12. (20 ) Do? 127 ** Se. l'uno è, egli è in ſe ſtello, e iş altrui., Ciò che è tutto, comprende tutte le ſue parti; ma l'uno com prende tutte le ſue parti, dunque l' uno è un tutto; ma il tutto contien ſe ſteſſo, è l' uno è un turco. Dunque l'uno contiene ſe fteffa. ANNOT. La propoſizione è identica, e vuol dire: un tutto è. un tutto; o iltutto è nel tucta; non ſi faccia più attenzione al tutto, mamaall all'uno, e li concluderà, che l'uno è nell'uno. Si com bini poi l'uno, e il cucco, e ſi concluderà, che come il cutto è in ſe ſtello, così l'uno è in fe fteflo. Quel che è in ſe ſteſſo, egli è in ogni ſua parte, ed in tutte le parti, ma il cutto non può eſſer in niuna parte, perchè il più au conterebbe pel manco, nè meno il tutto può eſſer in tutte le par ti, perchè ſe in cutie, farebbe ancora tutto in ciaſcuna, dunque il tutto non è in ſe ſteſſo, ma l'uno è il cutto; dunque non è in fe fteflo. Ogni coſa è in qualche luogo, perchè ciò chenon è in qualche kuogo è nulla (S.12. Sez.2.) e quel che è in qualche luogo è in fe felio, o in altrui, perché non li dà mezzo; mas'è dimoſtrato che ſe è l'uno egli non è in ſe ſteſſo, dunque è in altrui; ma di ſopra s'era pur dimoſtrato, che egli era in le ſtello; dunque è in ſe ſteſſo, ed in alcrui. ANNOT. Non v'è quì che contraddizione apparente, perchè quando ſi dimoſtra, che l'uno è in ſe ſteſſo, ſi conlidera che l'uno è un tutto le cui parti fon tutte inſieme, quando all'incontro fi confidera, che l'uno è in altrui, non ſi concepiſce il tutto con le párti pret inleme, ma come quello che non è in niuna delle ſue parti. S. 13. Se P upo è, egli fta, e ſi muove. Quel che ſta è ſempre in ſe ſteſſo, perchè da lui non mai & di parte; ' ma l'uno eſſendo nell' uno, non ſi diparte mai da fe ftef ſo; dunque è ſempre nello ſteſſo; dunque fta. Quel che è ſempre in altri non è mai nello ſteſſo, e non eſsendo nello ſteſso mai non fta, e non ſtando ſi move, ma l' uno non è in ſe ſteſso, ma ſempre in altrui; dunque ſempre fi move. ANNOT. Non è pur queſta, che contraddizione apparente.. 14. (91 ) $. 14. 1 e il Una coſa comparata all'altra, o è la ſteſsa, o diverſa, o è par te di quella coſa conliderata come tutto, od è tutto, conſiderata 1a cofa come parte. Così dice Platone, e par conſiderar lo ſteſso, e il diverſo relativamente alle qualità ſolamente, e la parte, cutto relativamente alla quantità. Se dunque fi dimoſtraſse, che una coſa relativamente a un' altra non foſse, nè tutto, ne pare ce, nè la Ateſsa, ne ſeguirebbe per il metodo d' eſcluſione, che ella fofse diyerſa. g. 15. Se l'uno è, egli è a ſe ſteſso lo ſteſso, ed a ſe ſteſso diverſo. Se egli è in le ſteſso, e fta ſempre, egli è a ſe ſteſso lo ſteſso, ſe egli è in altrui, e ſempre lr move, è da ſe ſteſso diverſo. L'uno non è parte di ſe ſteſso, nè tutto rifpetto a ſe ſteſso, nè l'uno è diverſo dall'uno; or s'è luppoſto, che una coſa compara ta ad un'altra, fe d'eſsa non è tutto, nè parce, nè diverſa ſarà la ſteſsa; dunque l'uno ſarà lo ſteſso con ſeco; ma ſe l'uno è in al trui non è ſempre lo ſteſso a ſe ſteſso; dunque per l' eſcluſione Platonica ſarà egli da ſe ſteſso diverſo'. §. 16. ne Per eſpor: l'argomento ſeguente in tutta la ſua forza, convie. ne particamente illuftrare i principj da cui dipende. Si ſuppo 1. Che l' uno è da sè diverfo, come da ente nell'ipo teſi, che egli ſia. 2. Che il diverſo e lo ſteſſo, effendo contra rj, uno non può mai eſser dell' altro. Cost lo ſpiego · Molci enti potendo efiftere, od eſiſtendo nel tempo ſteſso, lo ſteſso farebbe nel diverſo, ciò che è impoſſibile, non potendo i con trarj, cioè A, e non A ſtar inleme. Ben ſi vede che qui parla Platone del diverſo, e dello ſteſso aſsoluto, e non relati. vo, quale abbiamo fpiegato nel G. 17. Sez. 2. perchè nulla vie ta, che due coſe non poffino eſser diverſe' nell'eſsenza, nelle quantità, nelle azioni ec. ed intanto eſiſtere nel tempo ſteſso mi Iura eſtrinfeca delle coſe. Non è cosi conſiderando il diverſo aſsoluto, o l'idea del diverſo, e conſiderando lo ſteſso aſſoluto o l'idea dello ſteſso.; l'uno non può mai ſtar nell'altro, e in conſeguenza la ſteſsa coſa non può mai partecipare nello ſteſso tempo di queſte due idee contrarie. Allude qui tacitamente Par m 2 meni (92 ) menide a ciò che ha già dimoſtrato, parlando della participazio ne dell'idee. L'argomento ha tanto maggior forza, quando fi conſiderano gli enti ſeparati dall' uno, poichè ſe foſsero diverfi, per ragion del diverſo participerebbono dell' idea del diverſo che è Tempre una, dal che deduce Parmenide, che non poten do eſser diverſi per la participazione dell'uno nell'ipoteſi di Socrate, non ſono diverſi tra loro. 3. Suppone che le coſe che non ſon uno, non fieno partecipi dell'uno, perchè non ſarebbono uno, ma uno in certo modo. Quì pur Parmenide parla dell'idea dell' uno, che participandofi dalle coſe non è più uno, ma uno con certe circoſtanze, od in certo modo, ma ſe non ſon uno nor faranno eziandio numero, perchè ogni numero è uno. 4. Le coſe che uno non ſono, nè aſsolutamente uno, non poſsono eſser parti dell'uno, poichè l' uno non può eſser parte delle co ſe che non fon uno, nè può eſser tutto, quafi comparato a par ricella. Parmenide alludetacitamente a ciò che diſse di ſopra, che idea non pud eſser participata, nè ſecondo la parte, nè ſecon do il tutto, dal che deduce, che le coſe che non ſon uno ne fono particelle dell' uno, nè ſono all' uno quaſi a particella. Ciò ſuppoſto così argomenta Parmenide col metodo d' eſcluſione. g. 17. Se l'uno è, egli è diverſo, e lo ſteſso con altre cofe; all'uno convien il diverſo, aſsolutamente in quanto diverſo, e non all” altre coſe, cui non conviene, che relativamente Dun que l'uno è diverſo dall'altre coſe.; le altre coſe non ſono diper fe dall'uno, nè ſono parci, nè tutto riſpetto all' uno; dunque fono le Aeſse con l'uno. F. 18. Chi proferiſce lo ſteſso pome una, e più volte ſenza riferirlo a più coſe, come ſi riferiſce nei nomi equivoci, ed analoghi, eſprime fempre lo ſteſso concetto; dunque nel proferire la voce, diverſo; applicandola all'uno, confiderato relativamente agli altri, e un' altra volta agli altri conſiderati relativamente all'uno, nell'ado prar lo ſteſso nome s'eſprime lo ſteſso concetto. Quindi dice Par: menide: quando diciamo eſſer gli altri diverſi dall' uno, e l'uno ef ſer dagli altri diverſo, non mai introduciamo il diverſo a figuificar altra coſa, che la natura di cui è proprio nome. $. 19. (93 ) S. 19. s'è gia oſſervato, che fimile è quel che patiſce lo ſteffo; difts mile quel che patiſce il diverſo (9. 20.Sez. 2.) Se l'uno è, egli è ſimile, e diſſimile a ſe ſteſſo, ed agli al tri. L'uno è diverſo dagli altri (9. 17. Sez. 3. ) Dunque l'altre coſe ſono diverfe dall' uno, ma non fono diverſe nè più né meno dall'uno, che l'uno dall' altre coſe (S. 18. Sez. 3. ) e ſe nè più, nè meno, rimane che egualmente fia uno. In quanto adiviene alle uno l'effer diverſo daglialtri, e gli altri dall'uno, egli patiſce la ſteſſo per rapporto agli altri, e gli altri per rapporto a lui; ma ciò che patiſce lo ſteſſo è fimile, dunque l'uno e limile agli altri, e gli altri per la ſteſſa ragione fon fimili a lui. Il diverſo è contrario allo ſteſſo; ma fi dimoſtro, che l'uno agli altri è lo ſteſſo, e diverſo, (S. 17. Sez. 3. ) ed è contraria paffione effer lo ſteſſo agli altri, ed effer diverſo dagli altri ma in quanto diverſo parve fimigliante; dunque in quanto lo Steffo fia diflimigliante, ſecondo la paſſione contraria. E' da notarſi, che l'uno è ſimile agli altri, in quan to diverſo, e diſſimile in quanto lo ſteſſo. S. 20. Due coſe che ſi toccano ſono preſenti l'una all ' altra, nè tra effe vi ſi frammette un terzo, perchè in queſto caſo non più toccherebbono ſe ſteſſe, ma il terzo frappoſto. Ove due coſe fi toccano, due ſono le coſe, ed uno il contatto, ove tre li toc chino, tre ſono le coſe, e due i contatti; in ſomma creſcen do i termini creſcono a proporzione i contatti, ſecondo il nu mero dei termini meno uno. Si tocchino tra loro due punti matematici, ' poichè nulla fra loro s'interpone, un punto per ragion del contatto coinciderà con l'altro; fi facciano toccare da un terzo punto, queſto pu. re coinciderà, e quindi infiniti punti matematici non fanno che un punto, onde de liegue, che la linea non è compoſta di punti, o che i punti ſovrapofti gli uni agli altri non fanno grandezze. Ciò naſce, perchè tutti i punti ſono omogenei ſen za parti, ma ſe vi foſféro degli enti tra loro eterogenei, ben chè non eſteſi, o ſenza parti, nulladimeno poſti gli uni appreſ so gli altri, benchè non componeſſero grandezza, tuttavia fa rebbono più, come ben offervò Ariſtotele. Ciò diede occaſio ne al Leibnizio di compor l'eſtenſione di enti ſemplici, ma ete (94 ) eterogenei, o diverſi di ſpecie, che eſiſtendo ſcambievolmente gli uni fuori degli altri coeſiſtano in uno; quindi per la no zione dell' eſtenſione, convien conſiderare, e più enti che eſi Atano fuori di sè, e che tra loro s'unifcano, e formino uno. Non fanno però un eſteſo;, perchè fe ben inſieme eſiſtano, non ſono tuttavia tra loro uniti, come allora che liquefatti più me talli ſi confondono in una maſſa. Le partipoi indeterminate dell'eſteſo, conſiderate in aftratto, cioè ſenza far attenzione alla loro fpecie, non diferiſcono tra lo ro, che nel numero. Non ſarà inutile quefta offervazione nel progreſſo. Intanto ſi oſfervi, che l'uno eſcludendo nel ſuo con cetto i più, oi molti, per quanto l'uno ſi moltiplichi per ſe ſteſ fo è ſempre uno, onde egliè il ſuo quadrato, il fuo cubo, ed ogni altra potenza, foſſe anche ella di dimenſioni infinite, e non folo avete un eſponente, ma molti, come le quantità che ſi dicono eſponenziali. $. 21. Se l'uno è, egli tocca ſe ſteſſo, e l'altre coſe. L'uno è in fe fteſſo, ed in altrui (5. 12. Sez. 3. ) In quanto è in fe fteſſo vien impedito di toccar l'altre coſe, dunque tocca fe Hello; in quanto è in altrui, è nell'altre coſe; dunque le coccherà. IN ALTRO MODO Una coſa nel coccar l'altra giace appreffo quella che tocca, ed occupa la ſede vicina; ma ſe l'uno tocca ſe ſteſſo, giace appreſſo ſe steſſo, ed è quindi due coſe, il che non potendo effere, mani feſto è che non pud toccarſi. Le coſe diverſe dall'uno, non potendo effer numero, perchè.non partecipano l'uno, non pociamo mai con l'uno far due, ma nel contatto v'è ſempre almeno due (9. 19. Sez.-3.) Dunque l'uno non toccherà l'altre coſe.: ANNOT. La contraddizione pur è qut apparente, e ſi fa l'ano corporeo nel fupporre, che ei tocchi. Nozione immaginaria. 22. Parmenide ragionando ad hominem con Socrate fuppone la par ticipazione dell'idee, combattuta nella prima parte; conſidera quindi la grandezza, e la piccolezza, come due ſpecie ſeparate, tra (95 ) tra loro contrarie; ben a cid s'avverta, perchè in queſto conſiſte la deſtrezza del Filoſofo, e la forza del ſuo ragionamento, S. 23 2 os' Se l'uno e, egli non è ně eguale, nè maggiore, në mi nore degli altri enti. Sia l'ente minore degli altri enti, egli dunque participerà dell ' idea della piccolezza, la qual è contraria alla ſpecie della gran dezza. Si concepiſca, che la piccolezza ſia nell' uno, o farà in tutto l'uno, o in alcuna parte di eſso; fe in tutto l' uno, eftenderà per l'intiero uno tutto al di dentro, che vuol dire lo compenetrerà con la ſua ſoſtanza, o l'abbraccierà con eſtremi li. miti al di fuori, che vuol dire lo comprenderà; ma ſe la picco lezza s'eſtende al di dentro di tutto l' uno gli è eguale ", e fe lo comprende gli è maggiore, onde la piccolezza ſarebbe nello ſteſ ſo tempo grande, ed eguale contro l'idea di lei. Se la piccolezza è una parte dell'uno, ne ſeguirà, che ella lia di nuovo in tutta la parte, o al di fuori, o ál di dentro quindi che ella fia eguale, o maggiore per le coſe dimoſtrare; dunque non potendo eſser la piccolezza, nè in tutto l' uno, nè in parte dell'uno, non ſarà nell'uno, onde l'uno non farà pic colo, o minore degli altri enti. Corol. In alcuno degli enti per la ſteſsa ragione non po irà ritrovarſi la piccolezza, onde in queſta ipoteſi non v'è al tra cofa piccola, che la piccolezza ftetsa, ma dove non v'è il piccolo, non v'è neppur il grande, perchè l' uno non è che per riſpetto all'altro; dunque non vi faranno coſe grandi, trartone la grandezza, e quindi I uno, e altre coſe ſaranno prive di grandezza, e di piccolezza. e S. 24. Se l'uno è, le altre coſe non ſono di eſso nè maggiori, nè minori, nè eguali. Le altre coſe aſsolutamente parlando ſono prive di grandezza, e di piccolezza, dunque, rifpetto alla uno, non fono nè piccole, ne grandi, e per la ſteſsa ragione, l'uno non è nè maggiore, nè minore dell'altre coſe, eſsendo privo di grandezza, e dipiccolezza. 5.125. (26 ) S. 25. Se è l'uno egli farà eguale a ſe ſteſſo, ed all'altre coſe. Non è maggiore, nè minore dell'altre coſe, ma ſe l'uno non è, nè maggiore, nè minore dell' altre coſe, egli per la forza dell'eſcluſione ſarà eguale. §. 26. Se l'uno è, egli è eguale a ſe ſteſſo, ed all'altre coſe. Non avendo in sè, nè grandezza, nè piccolezza, nè eccede rà ſe ſteſſo, nè da ſe ſteſo farà ecceduto, dunque farà eguale a ſe ſteſſo. S. 27. L'uno è maggiore, e minore di fe ſteſſo. Egli è in ſeſteſſo, dunque li comprende; dunque èmag giore di ſe ſtello; eſſendo in ſe ſteſſo, egli è da ſe ſteſſo com preſo, dunque è minore; dunque è maggiore, e minore di ſe ſteffo. S. 28, Se l'uno è, le altre coſe ſono maggiori, minori ed eguali all' uno. Null'altro v'è, che l'uno, e l'altre coſe, non dandoſi mez zo, ($. 12. Sez. 2. ) Quel che è in una coſa è minore di eſſa (S. 10. Sezione 2. ) e ciò che la contiene è maggiore; dun que, poi che ogni coſa è in un luogo, (. 12. Sezione 2) e che altro non v'è che l' uno, è l' altre coſe neceſſariamente ſono nell' uno, o l' uno nell'altre coſe; ma ſe l' uno è nell' altre coſe, queſte ſono maggiori dell' uno, perchè lo conten gono; l'uno è minore, perchè è contenuto; dunque l'altre co le ſono maggiori, e - minori dell’uno: ma s'è dimoſtrato, che l' uno non eſſendo nè maggiore, nè minore dell' altre coſe, all' al tre coſe farà eguale (§. 24. Sez. 3.) Dunque egli è eguale, mag giore, minore dell'altre coſe. Corol. Egli dunque può eſſere di miſure eguali, maggiori, e minori, riſpetto a sè, ed all' altre coſe. Quindi Ha 1 1 ! (97 ) Ha più miſure riſpetto alle coſe delle quali è maggiore, me no miſure riſpetto a quelle delle quali è minore, e pari miſu re riſpetto a quelle delle quali egli è eguale. 6. 29. 9 Paſſa a dimoſtrare Parmenide, che ſe l'uno è, egli è parce cipe del tempo, ed è, e ſi fa più giovane, e più vecchio di ſe fteſto, e degli altri, ed in contrario, e che non è, nè ſi fa nè più giovane, nè più vecchio di ſe ſtello, e degli altri par cicipanti il tempo. Per intendere adequatamente queſte propoſizioni, in cui s'af follano varj principi i biſogna prima ripaffare ciò che fi diſle nel ſ. 3. Sez. 3. 9. 27. Sez. 2. ove fi dimoſtrò. 1. Che chi partecipa dell' eſſenza, partecipa delle differenze del tempo. 2. Che cið che ſi fa più vecchio di ſe ſteſſo, e dell'altre coſe, nel farſi più vecchio, li fa più giovane, e cið per eguali parti di tempo, ag giunte agli ineguali, il che abbiamo dimoſtrato coll' eſempio delle ragioni di e diſucceſſivamente accreſciute di 1. comparando percið le ragioni di į, e di abbiam veduto, che i loro va Iori i ti, eit ! + divengono ſempre minori. Altreſuppoſizioniegli fa ne' ſeguenti argomenti. 1. Il tempo è un fluſſo, da cui ſi fa progreſſo dal pallaco al preſente, e dal pre Tente al futuro, e dall'era all'è, è dall' è al ſarà. 2. Che una coſa che'ſi fa paſſa dal preſente ove è, nel futuro ove ſarà, e perciò nel farli è di mezzo cra l'uno, e l'altro, onde propria mente ciò che è nell' inftante, non ſi fa, ma è quello che è, o, come l'eſprime Platone, una coſa che ha fatto acquiſto del preſente cella di farſi, od è ciò che allora convien che fi faccia. 3. Il preſente è ſempre unito all'uno, perchè è ſempre unito all' ente, dal qual l'uno è inſeparabile. 4. Il diverſo, o l'idea del diverſo è la ſtella coſa ſecondo i principi di Socra te, e percid è ſempre uno, onde quello che non è uno, non può eſer il diverſo, o l'idea del diverſo, onde le coſe diverſe dall' uno, o che partecipano il diverſo, ſono più che l'uno, o hanno in sè moltitudine, e in conſeguenza numero o più. 5. Delle più ſono prima le poche, che le molte, e delle poche prima il pochiſſimo. 6. La coſa che prima li fa è la prima, e le dipoi ſono più giovani delle già fatte innanzi. 7. E' impof fibile', che una coſa ſi faccia oltre la natura, onde in una co ſa che ha principio, mezzo, e fine, prima li fa il principio, indi il mezzo, e poi il fine, che vuol dire, il fine ti fa i'ulti mo. 8. Quel che ſi fa ultimo è più giovane di quel che fi fa Tomo II. il a e ce I 21 S: i n (98 ) il primo. 9. Chi ſi fa con tutte le parti infieme d'un tutto,, fi fa nello ſteſſo tempo inſieme col cutto.. 1 1 ſ. 30. Se l'uno è, egli è, e ſi fa, e non è, nè ſi fa più vecchio, e più giovane di ſe ſteſſo. Se l' uno è participando l'eſſenza, participa del tempo ($. 3. Sez. 3. ) ma quel che è in tempo, è in un fluſſo continuo o pal ſa dal paſſato al preſente, o dal preſente al futuro (S. 28. Sez: 3.) Dunque l'uno e continuamente in queſto paſſaggio. In quanto paſſadall'era all' è fi fa più vecchio di sè;ma nel farſi più vec chio, ſi fa più giovane (S. 26. Sez. 2. ) Dunque ſi fa più vec chio, e più giovane di ſe ſteſſo. Chi non oltrepaſſa il preſente, nel far progreſſo dal paſſato, nell'avvenire non ſi fa, ma è ciò che è ($.22. Sez. 4. ) Dunque quando l ' uno tocca primieramente il preſente, non ſi fa allo ra vecchio, ma è vecchio oggimai, Nel toccar il preſente, co me ha prima di lui fatto acquiſto, cefla di farli, od è ancora ciò che avvien che ſi faccia i $. 28.Sez. 3.) Dunque l'uno, quan do fatto vecchio conſeguiſce il preſence, cella di farſi, od è allora più vecchio di ſe ſteſſo, di ciò che era toccando il pal fato; ma l'uno è di quello più vecchio, onde fi faceva vec chio; e facevali di ſe ſteſſo, ed il più vecchio è più vecchio del giovane; dunque allora l' uno è più giovane di ſe ſteſſo quando fatto vecchio conſeguiſce il preſente, ma il preſente è fempre unito all'uno; dunque l'uno, ed è ſempre, e li fa più vecchio, e più giovane di ſe ſteſſo; ma facendoſi tale, od ef ſendo in tempo pari ritiene la ſteſſa età, e chi ritiene la ftel fa età, non è più vecchio, nè più giovane; dunque l'uno eſ ſendo, e facendoli in tempo, non è più vecchio, nè più gio vane di ſe ſteſſo. g. 31. Se l'uno è, egli è più vecchio dell'altre coſe, o l'altre coſe più giovani di lui. Nelle coſe diverſe, che hanno in sè moltitudine o numero, altre ſon fatte prima, altre dappoi; ma il primo che ſi fa è pochifiimo, (9. 26. Sez. 3. ) e nei numeri l'uno è pochiſſimo, dunque l'uno è facco inanzi alle coſe che hanno numero, o che fono. 1 (99 ) fono diverſe dall'uno, o ſono gli altri; ma il primo che ſi fa è più vecchio, le coſe che dipoi ſi fanno, ſono più giovani; dunque l'uno è più vecchio dell'alcre coſe, e l'altre coſe più giovani. g. 32. Se l'uno è, egli è più giovane dell' altre coſe, e le altre coſe più vecchie dell' uno. L'uno non può farſi oltre la natura fua (.9.,26. Sez: 3. ) Dunque avendo parti, o principio, o mezzo, o fine, ſi fa ſecondo la natura del principio, del mezzo, e del fine, ma il princi pio fi fa il primo, è il fine ſi fa l'ultimo, ma l' ultimo fatto e più giovane dell' altre coſe, e l' altre coſe più vecchie dell' uno ($. 26. Sez. 3. ); dunque l'uno è più giovane degli altri, e gli altri dell'uno. $. 33. Se l'uno è, egli non è più vecchio, nè più giovane dell' altre coſe.. Ogni parte dell' uno è una; ogni parte del mezzo è una, ed uno è parimente il fine, od il tutto, onde fi farà l'uno, é colla prima coſa che fi fa, ed infieme colla ſeconda, colla ter za ec. onde percorrendo ſin all'eſtremo fi farà un tutto, o 1 uno non eſcluſo nella generazione dal mezzo, non dall' eftre mo, non dal primo, non da altro; ma ſe l'uno ſi fa inſieme con tutte le parti d' un tutto ha la ſteſfa età con tutti gli al tri; dunque ſe non è nato oltre la propria natura, non è fac to prima nè dopo l'altre coſe, ma inſieme e fecondo queſta ragione non è più vecchio, o più giovane degli altri, nè gli altri dell' uno. ſ. 34. Se l' uno è, egli ſi fa più giovane, più vecchio di ſe ſteſſo. Se alcuna coſa foſſe più vecchia d' altra, li farebbe ancora più vecchia di ſe ſteffa: A ſia più vecchio di B, nel creſcerfi gli anni ad A, egli & fa più vecchio di fe fteffo, e di B; dun n 2 que (100 ) | 1 que l'uno nel farſi più vecchio dell' altre coſe ſi fa ancora più vecchio di sè; manel farſi più vecchio, ſi fa ancora più gio vane per la ſteſſa ragione, che creſcendo tempi eguali, la ra gione decreſce (5.27. Sez. 2. ) Dunque l'uno li fa più giovane di ſe ſteſſo, ma s'era dimoſtrato, che ſi faceva più vecchio (S. 30. Sezione 3. ) Dunque ſi fa più giovane, e più vecchio di ſe Iteffo. 1 f. 35. Se l'uno è, egli non può farſi, nè più vecchio, nè più giovane dell'alere coſe. Ciò che fi fa più vecchio d'un altro, o più giovane, ſi fa più vecchio, e più giovane ancora riguardo a sè (1.37. Sez. 3.) ma l' uno non ſi fa, ma è, e più giovane, e più vecchio ri guardo a sè; dunque non ſi fa, nè più giovane, nè più vec chio riguardo agli altri. Se l'uno è più vecchio, che le altre coſe, ha più lungo tem po dell'altre coſe, ma creſcendoſi il tempo, egli ſempre eccede meno, onde ſi fa più giovane riſpetto alle coſe, delle quali era innanzi più vecchio; ma ſe egli ſi fa più giovane, quell' altre coſe ſi faranno più vecchie; dunque le coſe che erano innanzi, e più giovani dell'uno, ſi fanno dell' uno più vecchie, cinè fi fanno più vecchie, riſpetto a quello che era più vecchio; ma le coſe più vecchie non ſono, ma fi fanno ſempre, perchè la fanno più vecchie, mentre l'uno ſi fa più giovane; dunque le coſe ſi fanno ſempre più vecchie dell'uno. Le coſe poi più vec chie, parimente ſi fanno più giovani dell' uno più giovane perchè l'uno, e l'altre coſe movendoli in contrario G fanno vi cendevolmente contrarie, cioè le coſe più giovani dell'uno, ſi fanno più vecchie dell'uno che è vecchio, ed all'incontro l'una più vecchio, li fa più giovane delle coſe più giovani;, ma non, è poffibile che l' uno, e l' altre coſe fieno fatte nè più giova ni, nè più vecchie, perchè le cali foſſero, non più li farebbo no; dunque le coſe, e l'uno tra loro ſi fanno più vecchie, e più giovani: l'uno li fa più giovane delle cofe, per quello che parve eſſer più vecchio, e prima fatto, l'altre coſe poi fi fanno più vecchie, per quello che ſono ſtate fatte dopo, e ſecondo la ſella ragione: l'altre coſe ancora ſe ne ſtanno riſpettivamente alla uno, come quelle che ſono ſtate più vecchie, e prima dell'uno. Dunque inquanto che nè l' uno, nè gli altri fi fanno, diſtan do 1 (101 ) $ do ſempre tra loro di un numero pari, non ſi farà nè l'uno più vecchio degli altri, nè gli altri dell' uno. Ma come decreſce ſempre la ragione dei tempi, o con minor particella ſempre tra loro differiſcono le coſe prime dall' ultime, e l'ultime dalle prime, così è neceſſario che l' altre coſe ſi facciano, e più vecchie più giovani dell'uno, e l'uno dell'altre coſe. Quinci aggruppando in uno tutte le propoſizioni, abbiamo di. moſtrato, che l'uno è, e li fa più vecchio, e più giovane degli altri, e di nuovo non è più vecchio, nè più giovane di ſe ſteſſo e degli altri. Corol. Perchè l' uno è partecipe del tempo, o ſi fa più vec chio, e più giovane, egli è partecipe del quando, del futuro, e del preſente. Dunque era l'uno, ed è, e ſarà, e ſi faceva, e fi fa, e li farà, e ſarà ancora alcuna coſa in lui, e di lui, ed è, ed era, e farà. COROL. 2. Perchè la ſcienza, l'opinione, il ſenſo, la defini zione, il nome, riguardando le coſe che ſono nelle differenze dei tempi, in quanto l'uno è capace di queſte differenze, è ancora fog getto di ſcienza, d'opinione, di fenſo, può definirli, e può no. minarſi. Annot. Qui Parmenide non dà ſcienza, e definizione, ſe non delle coſe ſoggette al tempo, il che biſogna accordare con ciò che diſke (9.16. Sez. 1. ) La ſcienza che appreſſo noi è ſcienza del le verità, che ſono a noi dintorno. 9. 36. Riſtringiamo adeſſo in poco, quanto Platone ha propoſto nella propoſizione condizionale, o ſia nell'ipoteſi ſe l'uno è. 1. Diftin le colla mente i due concetti dell'uno, e dell'ence., 2. Ne com poſe un tutto intellectuale di due parti, o dei due concetçi dell' uno, e dell'ente. 3. Tra loro paragonandoli ne deduſſe il terzo concetto del diverlo. 4. Conclure che nell' uno o è una moltitu dine infinita di numeri, che dividono l' uno a proporzione dell' ente. 5. Che l'uno è tutto, e parte, e finiso, e infinito. 6. Da ciò che è un tutto finito, conſiderò in effo il principio, il mez-, 2o, il fine, e quindi la figura. 7. Da ciò che è un turto, e che il tutto è nel tutto, conclure che l'uno è nell' uno, ed in fe ftel 1o. 8. Da ciò che l'uno è comeparte nel tutto, conclure che è in altrui. 9. Che ſta, e ripoſa, ſe egli è in ſe ſteſſo. 10. Che ſi mo ve, le è in altrui. 11. Che è ſimile a sè in quanto l'uno, è lo ſteſſo che l'uno. 12. Simile agli altri, perchè paciſce d' eſſere co me gli altri. Che è diffimile in quanto cert'uno, e certo ente. 14. (102 ) 14. Che è lo ſteſſo, poichè ekſte, ed eſiſtono glialtrienti nello ſteſſo tempo. 15. Che è diverſo, in quanto non ha in sè ciò che hanno gli altri enti. 16. Quindi fimile, e diffimile, perchè patiſce le ſteſſe cofe. 17. Che è maggiore, minore, ed ineguale, e non maggio re, minore, nè eguale dell'altre coſe. 18. Che è, e ſi fa più gio vane, e più vecchio di ſe ſteſſo, e dell'altre coſe, e non è, e non fi fa, nè più vecchio, nè più giovane dell'altre coſe, e l'altre co fe di lui. 19. Finalmente, che dell'uno in quanto è li ha ſcienza,, ſenſo, opinione, e può denominarſi, e definirſi. Si potrebbe più compendioſamente ridur in poco l'argomento di Parmenide, conſiderando che reciproche ſono queſte due pro polizioni: l'unoid, è l ' uno, per il che ſi può predicar dell'ente ciò che ſi predica dell' uno, e dell' uno ciò che ſi predica dell' en per ragione dei diverſi concetti formali, predicandoſi dell' ente, la parte, il finito, l'infinito, il principio, il mezzo, il fine, la figura, lo ſteſſo, il diverſo, la quiete, il mo to, il limile, il diſſimile, e il maggiore, l'eguale, il minore, it giovane, il vecchio ec. cutti queſti predicaricompereranno pari mente all'uno. Ben ſi vede, che qui non ſi parla che dell' en te corporeo, e degli enti particolari, a cui or compete una co fa, ed or un'altra. il tutto, S. 37: Ma perchè i predicati oppoſti, come il fimile, il diffimile, it maggiore, e il minore non poſſono competere nel tempo ſteſſo all' uno, ed all'ente ſenza contraddizione, Parmenide moſtra che queſti attributi contrari non gli competono nello ſteſſo tem po, ma in diverſi tempi; tal è la natura di ogni ente finito: gli attributi, imodi, le relazioni, delle quali è capace, non hanno luo go in lui, che ſucceſſivamente a differenza dell'ente infinito, in cui tutte le perfezioni poſſibili, che attribuir gli ſi poſſono,.ftan no in lui tutte inſieme, onde non male con due parole molto energiche, ſebben barbare, ſi chiamò Dio dal Bulfingero, omni tudo compoſibilitatis. Gli Scolaſtici lo chiamarono atto puro, cioè atto ſenza alcuna miſtura di potenza, e quindi diametralmen te oppoſto alla materia che è pura potenza, e talmente pura, che al cuni degli ſcolaſtici la ſpogliano dell'atto entitativo, edell'eſiſtenza. $. 38 (103 ) go 38. Se l'uno è; egli prende diverfi ſtati ſecondo le:: differenza dei tempi. Nel tempo ſteſſo non ſi può participare, e non participare dell'eſſenza, e delle coſe che conſeguono al non participarla, ed al participarla; or il farli è renderſi partecipe dell' ellenza; il rovinarli e privarſi dell' effenza; dunque l'uno non può ne! tempo ſteſſo, e prender, c laſciar l'eſſenza. Dunque la pren de, e la laſcia in diverſi tempi, Quando ſi fa uno, egli perde l' eſfer molte coſe; quando ſi fa molte coſe ceffa d'effer uno; nel farfi uno, e molte, li fepara, e fi congiunge, qualora ſi fa ſimile, e diffimile, ſi affimiglia, e diffimiglia; quando ſi fa maggiore, minore, ed eguale, creſce, decreſce, e li pareggia; quallora movendoſi fi ferma, e quallo ra fermandoſi li move. Or tutte queſte coſe, eſſendo tra loro contrarie, l ' uno non può averle nel tempo ſteſſo, dunque l'ha in tempi diverfi. 9. 39 Non fi pud paſſar dalla quiete al moto, e dal møto alla quie te, ſenza cangiamento di itato. Un corpo che cangia fuccelli vamente la relazione di diſtanza, che egli ha ad altri corpi vi cini, ha uno ſtato diverſo da quello d'un corpo, che conſerya ſempre a ' corpi vicini la ſteſſa diſtanza. Queſto cangiamento di uno ſtato all' altro ſi fa in tempo; ma conſidera Platone, che nel paſſaggio dal moto alla quiete, e dalla quiere al moro, v'è un non so che d'improvviſo, e di momentaneo, che ſi conce piſce nell'iſtante del paſſaggio, e non più appartiene al moto, che alla quiete; non al moto, perchè la coſa ſi concepirebbe ancora in ripoſo; non al ripoſo, perchè la coſa fi concepiſce ancora in moto, Conclude dunque Placone, che queſta natu ra improvviſa è quaſi ſconvenevole tra il moto, e la quiete; che ella non è in verun tempo, e a queſta da queſta paſſan do fi muta nello ftato ciò che li move, e nel moto ciò che ſi ri pola. 8. 40. (104 ).. §. 40. Se l'uno è, nell'atto che cangia ſtato, non gli competono più i predicati dell'ente. Nel paſsar l'uno dal moto alla quiete fi muta momentaneamen te, e all'improvviſo, o mutandoli egli non è in alcun tempo; dunque non ſta nè fi move. Così quando paſsa dall'eſsere alla ro vina, o dal non eſsere al farſi, non è, nè ſi fa, nè fi diſtrugge. Parimente quando paſsa dall' uno in molti, e da molti in uno, non è, nè uno, nè molti, nè ſi congiunge, nè fi ſcongiunge, e paf fando dal ſimile al diſſimile, od al contrario, non è, nè affimi gliato, nè diſlimigliato, e paſsando dal piccolo al grande, ed all' eguale non creſce, nè decreſce, nè ſi pareggia. Annot. Da queſta dottrina ſebben metaforicamente da ' Plato ne eſpreſsa, imparò Ariſtotele ad introdurre tra i principj delle generazioni, la privazione mal a propoſito ſchernità da coloro, che non ne inteſero nè la forza, nè l'uſo. Quando una coſa ha perdute tutte le diſpoſizioni o determinazioni, che la rendevano tale, ella ceſsa d' eſsere la tal coſa, cioè reſta priva di tutto ciò che la coſtituiva, e diſtingueva dall'altre coſe, ma nell'atto ſteſ fo, in cui ceſsa d'eſsere quel che era, comincia ad eſsere ciò che non era, o paſsa dalla privazione alla forma contraria; queſto ſtato di mezzo che è tra la forma, e la non forma, Platone chia ma natura mirabile, e momentanea, ed è certo, che ella nel fifa far i gradi della noſtra cognizione ci moſtra quelli della natura che non opera mai per falti. Nel Timeo dice: Dovendo eſer l'ef figie delle coſe diſtinta da ogni verità di forma, non fia mai prepa rato quel medeſimo grembo di tal formazione, ſe egli non farà informe di tutte quelle ſpecie, le quali è per ricever da qualche parte, percid che ſe egli faravvi alcuna di quelle coſe che in sé riceve fimiglianza, quando riceverà una natura contraria di quella di cui è ſimile, ovve ro un' altra, affatto malagevolmente la ſimiglianza, e l'effigie di quel la eſprimerà quando moſtrerà la ſua, però egli è convenevole, che di tutte le ſpecie ſia privo quello che ha in sè da ricevere tutti i generi. Siccomequelli che hanno da fare unguenti odoriferi, l'umida materia, la quale vogliono di certo odore condire, di tal guiſa preparano, che * ella non abbia alcun proprio odore. E coloro che vogliono in materie molli imprimerealcune figure, niuna figura affatto laſciano primiera mente apparire in quella, ma quelle cercano in prima di render qan to poſibil fia polite. Ciò ſi rende ſenſibile nelle quantità algebraiche poſitive, e ne gative, nelle quali non ſi paſsa dall'une all'altre ſenza paſsar per 1 1 1 il (105. ) o il zero, che non è nè negativo, ne poſitivo, ed è il vero fim bolo della privazione. Nella Geometria il punto matematico equi vale al zero, che è il principio negativo dell'eſtenſione, e dal quale fi comincia la miſura, come l'unità è il principio poſitivo, per cui fi comincia la ſteſſa miſura. Il punto è comune alla linea, che ceſsa per eſempio di eſsere alla ſiniſtra, e comincia ad eſsere alla deſtra, o che termina d' eſser in alto, e comincia ad eſser a baſso; così egli non è deſtro, nè finiſtro, nè alto, nè baſso. Tut te queſte ſono eſpreſſioni utiliNime, e ſebben noicele rappreſen ciamo per fpecie aliene, come il niente, o l' impoflibile, tuttavia molto fervono a reggere i noſtri ragionamenti. L'origine, e la natura del calcolo delle fuſioni dipende dall'uſo della natura momentanea, ed ammirabile di Platone. In queſto calcolo non ſi cercano, ſecondo il Newtono, le quantità infinita mente piccole, chemainon poſsono determinarſi,ma la ragione del le quantità naſcenti, od evaneſcenti, cioè di quelle, le cui fuffio ni, o velocità nel naſcere, o nel ſvanire equivagliono al zero, il qual ſimboleggia il termine del ripoſo, e il principio del moto il termine del moto, ed il principio del ripoſo. Sieno nel preſen te momento le fluenti quantità y, x; nel momento ſeguente di verranno ſecondo l' eſpreſſione Newtoniana y toy, ed xtoy, ove o y, od ox eſprimono i momenti delle velocità. Softituite queſte eſpreſſioni in un'equazione propoſta, per eſempio in quel la della parabola yy. =ax, quefta fi caogierà nell' equazione. yy + 2 oyy tooyy = oaxtoax o cancellando gli eguali 2oyy tooyy = oax, e cancellando il comune o 2 yyt oyy = ax Sin che la quantità efpreſsa per o reſta finita, non può mai de terminarli la ragione delle quantità che fluivano, ma nella ſup poſizione che ella s' annulli, come nel caſo dell' ultima o della prima velocità delle grandezze, ove o s'eguaglia a zero, fi ha 2 yy = ax, e ponendo l'equazione in analogia 2 y.a:: x.y ragione determinata, con cui le qualità cominciano o termic nano di Auire. Il Newcono ſpiega più a lungo queſte coſe nel ſuo trattato delle Curve, e lo ſpiega non chiarezza il Ditton nell'inſtituzione delle Auſſioni; baſta a me d'averlo quì accennato, per moſtrare che agli antichi non man cavano quell' idee, che i moderni hanno poi ſviluppato, carat £ erizzandole con canta utilità delle ſcienze, e delle bell'arri. Tomo II. 5. 41, (106 ) S.' 41, 1 Platone preſuppone nel ſeguente argomento, che la partenon è parte nè di molti, nè di tutti, ma di cert'una idea, e di cert'uno che chiamiamo tutto, ed è un cutto fatto da tutte le parti, e in sè perfetto, Dalla parola idea lice argomentare, che qui non fi craica che dei concetti, con cui fi concepiicono i molti, e il tutto, e le parti. L'idea dei molti è l'idea dei più aſſolutamente preſi, e com prende egualmente le parti, ed i tutti, dicendoſi molte, o più parti, molti o più molti. L'idea del tutto è l'idea dell'uno più riſtretto in un certo numero, o riſtretto in cerci limiti; idea della parte è l'idea d'uno incluſo in queſti più già ridoc ti. Non ſi pud quindi rigoroſamente parlando dire, che la par te ſia parte di molti, perchè conſiderandoli ſecondo la loro propria idea, non fanno ancora il tutto a cui ha immediata re lazione la parte, Nel dir dunque Platone, che la parte non è parte di mol ti, allude ai modi, o ai più vagamente preli, e nel dir che la parte è parte del tutto, allude ai più riſtretti; ne' più, come s'accennd, vi ſono incluſe indifferentemente le parti, ei tutti, onde ſe la parte foſſe parte dei più, potrebbe eſſer parte di ſe Iteffa. Aggiunge Platone, che ogni parte non è parte di qualun que uno ma d'un cert' uno, cioè di un certo tutto. La par te del triangolo non è la parte del quadrato, nè un ſoldato che è una parce d' un eſercito, è parte di una proceſſione di Frati. Il tutto poi che è fatto di tutte le parti, o a cui non man ca alcuna parte, è perfetto., Si oſſervi in oltre eſſer lo ſteſſo, il dir molti, o più d'uno; che ogni coſa quindi o è uno, o più, cioè molci; che una parte dell' eſtenlione cratca fuori di efla, o feparata da eſſa, eſſendo fteſa, contiene più, e ſe dinuovo ſi ſepa ra in due, una di queſte parti eſſendo di nuovo fteſa, ritiene ipiù. In altri termini ciò vuol dire, che non v'è parte dell'eſtenſione che non ſia diviſibile all'infinito, e come la prima divifione fi fa per 2, ed indi per 2 i Pittagorici aſſegnavano il 2, come il fim bolo dell'infinito. Prima che una parte fi ſeparaſſe da una certa eſtenſione, ella riteneva il nome di parte, ma quando è ſeparata, e che di nuovo ſi divide, ella non è più parte, ma tutto. Queſti nomi di tutto, e di parte ſono ſempre relativi; coloro per ciò che definiſcono l' eſtenſione, ciò che ha parti fuori" di? par (107 ) parti, null' altro dicono ſe non che l' eſtenſione è l'eſtenſione, perchè non ha parti ſe non ciò che è eſteſo. Molto peggio fan no coloro, che ſuppongono, che l' eſtenſione eſſendo compoſta di una infinità di parti fteſe, ſia compoſta d'una infinità di ſo. ſtanze tra loro tutte ſeparate, perchè l'idea dell'eſtenſione null hache di relativo, e ſuppone la coſa aſſoluta,' o la ſoſtanza, su cui la relazione ſi fonda. Il corpo fiſico, e mecanico non ſono pura eſtenſione, come il geometrico,; perchè nel corpo fiſico v'è la forza, o la for ma, e nel mecanico il peſo, origine delle proprietà, e dei lo ro fenomeni.. 8. 42. Se l'uno è, le parti in quanto parti ſono parti dell' uno, o partecipano dell'uno. Le parti non poſſono eſſer parti di le ſteſſe, nè di molti ($. 40. Sezione 3. ) dunque dell' uno, il che è dire, che partecipano dell' uno. §. 43, Se l'uno è, il tutto in quanto tutto partecipa dell' uno. Il tutto cui nulla manca delle tre parti è uno; dunque par tecipa dell'uno. Corol. Il tutto dunque, e le parti partecipano dell' uno, e ciò ſignifica un non so che di ſeparato da gli altri, ma eſiſten; te per sè, ſia egli qualunque coſa. ANNOT. Non par egli, che Parmenide nel dir, che queſt' uno ſia ſeparato dagli altri, e per sè eſiſtente, alluda all'idee feparatę che ha combattute nella prima ſeſſione '? Se non vuol ciò dirſi, come contrario alla profonda Filoſofia d'un sì grande Uomo, non ne liegue egli, che parlando qui con Socrate, parla bensi col fuo linguaggio, ma nel tempo fteffo incende di favellare fecondo le attrazioni della mente. 0 2 9.44. (108 ) 8. 44. Se l'uno è, le cofe che partecipano dell' uno fono altra coſa che l'uno. Niuna coſa può effer alcun uno fuor che lo ſteſſo uno; dunque ſe le coſe partecipano dell'uno, che vuol dire, non ſono lo ſtes fo uno, bifogna che fieno un'altra coſa. Dunque le coſe che partecipano dell' uno fono de verſe dall'uno. S. 4.5. Se l' uno è, le coſe che partecipano dell'uno, ſono in moltitudine infinite. Se le coſe che partecipano l'uno ſono diverſe dall' uno, non ef fendo uno nè più d'uno non faranno niente; ma non fon l'uno, dunque più d'ano, dunque ogni parte d'uno, include in eſſa i più, e queſti altri più, e così in infinito, dunque le coſe clre parteci pano l'uno, ſono infinite in moltitudine. COROL. Poichè il più include per fua natura la moltitudine in finita, ogni parte che d'eſſo ſi tragga fuori con l'intelligenza le ben piccoliflima rifpetto all'altre, ſarà in moltitudine infinita. ANNOT. Platone dice da quelle (cioè dei molti ) trar fuori con r* intelligenza alcuna cofa piccoliffima. In qual altro modo pud egli meglio indicar l'aſtrazione della mente.? nel dir Platone, che confiderando la diverſa natura della fpecie fecondo ſe ſteſſa quanto di lei vediamo, fia egli infinito, e in moltitudine, altro non ſignifica con la diverſa natura, ſe non che ogni parte dell' eftenfione include in sè più, e queſti altri più, e infiniti in. moltitudine. 1 g. 46. Se l'uno è, la parre in quanto parte è diverſa dell' uno, per chè l'uno è per sè indiviſibile, e la parte per sè divifibile. 8. 47 (109 ) S. 47. Se l'uno è, le parti ſono più che l' uno. Le parti diverſe dell'uno, ſe non ſono uno, o più d'uno, nulla ſaranno, ma ogni cofa è uno o più; dunque ſe le parti diverſe dall uno non ſon uno, ſaranno più che uno. S. 48. Se l'uno è, le parti che lo partecipano hanno termine tra loro, e riſpetto al tutto, e il tutto riſpetto alle parti. Ogni parte è una, ogni tutto è uno; ſe l'uno e l'altro parte cipa l'uno; ma quello che è fatto uno ha un termine. Dunque ec. Corol. All' altre coſe, che all' uno, avviene che partecipan do dell'uno, e di loro ſteſſe, ſi fanno in loro cert'altra coſa, il che dà loro il termine, ma la natura loro che include i più, è per eſſenza infinita in moltitudine; dunque le altre coſe che l'uno tutte ſecondo le particelle loro, ſono infinite in numero, e par tecipi di termini. g. 49. Se l'uno è, le coſe che partecipano l'uno, fono fimili, e dil ſimili, ſi movono, e ſi fermano, od hanno altre paſſioni con trarie, Le altre coſe che l'uno, ſono tutte infinite, o indefinite, fe condo la loro natura, onde tutte patiſcono lo ſteſſo, ed aven do cermini, e diverſi termini, patiſcono il diverſo, ma il limi le è quel che patiſce il ſimile, il diſſimile quel che patiſce il diverſo. Dunquele coſe, altre che l'uno, ſono ſimili, e diffimi li. Maſe patiſcono le ſtelle coſe, e diverſe, pariranno anche il moverſi, ed il fermarſi, l'eſſer maggiori, minori, ed eguali, l' eſſer più vecchie, più giovani ec. e 3. 50 Riepilogando le coſe dette, abbiam dimoſtrato che ſe l'uno che in quanto lo partecipano ſon d'ello parti. Che il tutto dal le parti riſultante partecipa pur dell' uno; che le parti parte cipanti del tutto, è dell' uno ſono infinite in moltitudine, che han (110 ). hanno termine tra loro, e rifpetto al tutto, come il tutto l'ha riſpetto alle parci, onde nel patir le coſe ſteſſe, e diverſe ſono ſimili, e diffimili, ſi moyono, e fi fermano. Paſſa a confiderar Parmenide nella ſuppoſizione, che sia l'uno, coſa adiviene alle coſe che non partecipano l'uno. g. 58. Se l'uno è, e le altre coſe che non partecipano l'uno, non ſono nè tutto, nè parii, nè fimili, nè diffimili, nè le ſteſſe nè diverſe, non ſi movono, non fi fermano, non ſi fanno, non ſi diſtruggono, non ſono, nè maggiori, nè minori, nè eguali, nè vecchie, nè giovani. Si concepiſca l'uno ſeparato dall'altre coſe, cioè fi concepi ſca che le altre coſe non lo partecipano, non vi ſaranno mol ti, perchè ognun de molti è uno; non vi ſarà numero, o mol titudine ordinata che principia dall’uno, il quale ſucceſſivamen te li va aggiungendo a ſe ſteſſo, e fa ogni numero uno nella fua fpecie; non vi ſarà tutto, che è una moltitudine riſtretta in uño; non vi ſaranno parti, ognuna delle quali è uno ordi nata ad un altro uno; non vi ſaranno coſe limili, nè diffimi li, nè le ſteſſe, nè diverſe con l' uno, perchè ſe teneffero in se -ſimigliznza, ediffimiglianza, comprenderebbono in sè due ſpecie tra loro contrarie, onde non eſſendo partecipi di due, nemme no lo ſarebbono di due contrarj; non poſſono eſſer quindi le coſe nè ſteſſe, nè diverfe, nè moverſi, nè formarſi, nè diftrug. gerſi, nè effer maggiori, giovani, e vecchie, perchè eſſendo ſem pre partecipi di due coſe contrarie ſarebbono partecipi di nu mero. ANNOT. Queſto è lo ſteſſo che concludere che l' uno traſcen dentale, eſſendo inſeparabile dall' ente, è lo ſteſſo tor dalle coſe l' uno, che l'ente, od annullarlo. g. 52. 1 Parmenide ha ultimamente conſiderato, coſa accaderebbe alle coſe, ſe non vi foſſe l'uno, che per ipoteſi ſtabili. Or cangia ipoteſi, e cerca, coſa accaderebbe alle cofe fe non vi foſse l'uno. Queſte due ipoteſi ſembrano diverſe, ma ricadono poi nello ſteſso, perchè canto è annullar le cote ſeparando da loro l' uno che è, od eſsere ſi concepiſce, quanto annuliarle ponendo le co ſe, e negando l'uno. SE (111 ) . B. I. Uando per eſempio fi dice grandezza, e non grandezza, QI si dicono due coſe oppoſte, e tra loro contrarie, poichè la non grandezza diſtrugge ciò che la grandezza pone o in natu ra, o nella mente; le fi fanno quindi le due propoſizioni, la grandezza è la non grandezza non è, tutte e due ſono nega tive, ma l'una è d' un ſoggetto finito, e determinato, l'altra d'un ſoggetro infinito, e indeterminato. La grandezza é il ſog getto di decerminata ſignificazione, la non grandezza di ſignifica zione indeterminara, perchè non grande è il piccolo, non grande il punto, non grande l'unità ec. Or il determinato è contrario all indeterminato; dunque, come ben oſservò Marſilio Ficino, le due propoſizioni, la grandezza è, la non grandezza non è, ſono con trarie, ſebben l’una, e l'alcra fieno negative. Lo ſteſso debbe dirſi delle due propoſizioni, l'uno non è, il non uno non è, egeneral mente della propoſizione A non è; non A non è: nella pri ma ſi nega ad A l'eſere, nella ſeconda ad A che fi nega, ga l'effere. Negar ſemplicemente una coſa, e negare la nega zione, ſono coſe tra loro contrarie. La propoſizione all'incon. tro A non è, e l'altra non A è, ſono equivalenti, perchè nel la prima di A fi nega l' eſſere, nella ſeconda fi afferma, che ad A fia negato l' eſſere. Affermare la negazione è lo ſteſſo che negar la cola; dunque equivalenti propoſizioni ſaranno, l'uno non è, il non uno è. E' poi da oſſervarli, che le negazioni, e pri vazioni ſi conoſcono per le loro realtà oppofte, la cecità per la vi fione, le tenebre per la luce, non A per A. ſi ne B. 2. Se l'uno non è, nel pronunziar la propoſizione ai concepiſce chiaramente e diſtintamente, che l'uno non fia, o li ha fcien za di ciò che s'eſprime, e s'eſprime qualche coſa diverſa dall' altra, l'uno è. Le privazioni, e negazioni ſi concepiſcono chia ramente, e diſtintamente per le loro realtà oppoſte, dunque il non uno per l' uno (J. 1. ) ma la propoſizione il non uno è, è, equivalente all'altra l' uno non è, dunque queſta propoſizione l' uno non è, fi concepiſce chiaramente e diſtintamente, o li ha ſcienza di lei. La propoſizione l'uno non è, è diverſa dall' altra, 3 uno (112 ) ! $ 1 1 uno è, e chiaramente, e diſtintamente ſi concepiſce la loro diver ſità; dunque nel dir l' uno non è, ſi concepiſce qualche coſa di diverſo. Platone così lo dice: eſprime primieramente alcuna coſa che ſi può conoſcere, poſcia differente dall'altra, colui che dice uno, aggiungendovi l'eſfere, oil non eſſere, perciocchè non ſi conoſce meno, ciò che fia quel che ſi dice non ellere, e come ſia certa co fa differente dall'altra. Corol. Può dunque predicarſi dell' uno la ſcienza, e la di yerſità. S. 3. Se non è l'uno, o ſe il non uno è, il non uno partecipa delle coſe che di lui ſi predicano, e non le partecipa. Del non uno è, ſi predica la ſcienza, e la diverſità (Cor. ant. ) dunque partecipa di queſte coſe, mapoichè egli non è, non aven do eflenza, non può participarle, perchè il non ente non ha pro prietà, dunque non le partecipa; dunque le partecipa, e non le partecipa. COROL. Così s'eſprime Platone: Il non ente è partecipe di sé, e d'alcuna coſa, e di queſta, e con queſta, e di queſta, e di cut te le coſe sì fatte; concioliachè non li direbbe uno, nè le diverſe coſe dell'uno, ne avrebbe egli alcuna coſa, nè alcuna coſa fi chia merebbe, ſe non foſſe partecipe di alcuna, nè di queſte altre nondimeno è impoſſibile che ſia l'uno, ſe egli non é, ma niuna cofa vieta, che non ſia partecipe di molte coſe, ed è neceſſario ancora ſe è quello l'uno, e non altro, ma ſe non è, nè l'uno, nè quello non ſarà egli; non ſi dirà nulla di lui, ed il ragionamento farà d'altra cofa, ma ſe fi ſuppone che quello uno non ſia, è ne ceſſario che ſia partecipe di lui, e di molte altre coſe,. 4. Se il non uno è, il non uno è ſimile a ſe ſteſſo, e diffimile all'altre coſe, ed al contrario. Il non uno convien col non uno, dunque con ſe ſteſſo; dunque è ſimile a ſe ſtello. Il non uno è diverſo dall'altre coſe che parte cipano l'uno, dunque è diffimile dall'altre coſe; ma il non uno non eſſendo, non può aver proprietà d'effer ſimile, nè diffimi le, dunque ec. 8. S. 1 (113 ) §. 5. Se il non uno d, egli è eguale, ed ineguale all' altre coſe, e nel tempo ſteſo eguale, ed ineguale. Gli eguali ſono fimili nella quantità; ma il non uno non ha ſimiglianza con l'altre coſe, dunque non ha egualita; ma ſe egli non è eguale agli altri, gli altri non ſono eguali a lui, dunque è loro ineguale; ma gl' ineguali partecipano dell' ineguaglianza, cioè di grandezza, edi piccolezza; dunque l'uno che non è, egli è grande, e piccolo; ma tra il grande, e il piccolo ſi frammetter eguale, e chi ha grandezza, e piccolezza, pud ancora aver egua glianza; dunque l'uno che non è può participare di queſte coſe; ma s'è dimoſtrato, che non le partecipa, dunque ec. 5. 6. Se l'uno non è, ha in certo modo l'eſſere, o s'attri buiſcono a lui coſe che l'hanno.. -. Nel dire che l'iuno non è, ſi ha ſcienza di cid che ſi dice; nel dir che è, diverſo dall' uno, che è, e dall'alcre coſe; che è fimile, non fimile; diſſimile, non diſſimile dall' altre coſe; eguale, no eguale, fi profeſſa di concepire, e di pronunziare il vero, ma eſprimendoſi, e pronunciandoli queſte coſe a guiſa di enti, all'uno che non è s' attribuiſcono in queſto modo, onde egli ha in un certo modo l'eſſere. B. 70 Queſta propoſizione: il nulla è nulla, il nulla non è nulla, equivale a queſte altre due: il non ente è non ' ente; il non ente non è non ente. La prima di elle è affirmativa, ed iden, tica, perchè fi afferma il nulla di ſe ſteſo, la ſeconda è nega tiva, perchè ſi nega il nulla del nulla, che vuol dir, ſi affer. ma qualche coſa, perche una negazione diſtruggendo l' altra elleno affermano. Nel dire il non ente, non ente, il non en te vien a participare in un certo modo dell effere, affine di ef ſer non ente.. Nel dire all'incontro il non ente non è non en te, il non ente per non eſſere non ente che vuol dir per eſ ſere, vien a partecipar del non eſſere. Così intendo Platone, Tomo II. P allor (114 ) 1 allor che dice: il non ente ad eller non ente ba il legame dei non eſſere, fe dee non eſſere, come lente tiene nella ſtella guiſa il legame deli eſere, perchè ei non ſia non ente, affinchè di nuovo ei fia perfettamente, e non ſiapartecipe il non ente delléſenza, del non eſſer non ente, ma dell'eſenza dell'eſer non ente, ſe il non ento fia perfettamente. $ Se l'uno non è, egli partecipa; e non partecipa dell' eflenza 1 L'ente è partecipe del non eſſere, ed il non.ente dell'eſſe re ($. 7. Sez. 4. ) ma ſe non è, l'uno é neceffario che ſia par tecipe del non eſſere, affinchè ei non ſia; dunque appariſce, che l'eſſenza ſia nell' uno, ſe egli non è, e la non effenza ſé egli è. ANNOT. Tutti queſti ſono ſcherzi metafiſici, per dar luogo alle nozioni immaginarie, e quindi alle contraddizioni, che mo ſtrano le coſe impoſſibili; ben deve oſſervarſi, che facilmente con effe fi cade in quel mirabile, che degenera in puerilità. Platone ſobriamente l' adopra, per dimoſtrare in quali raffina menti sfumavano le dottrine della ſetta Elearica. 9. 9. Se l'uno non è, ha mutamento, e in conſeguenza moto, e non ha moto, Šisru ! L'uno parve ente, e non ente, onde fta così, e non così, dunque fi muta paſſando dall' eſfér al non effer; dunque ha moto. Ma fe l'uno non è, non è in alcun luogo, perchè ogni en té è in qualche luogo, ma non eſſendo mai in luogo non pudo paſſare da un luogo all'altro, dunque non percid fi move, per che non ſi traſmuta.. io. (115 ): $. io. Y Se l'uno non è, non ſi altera, e non alterandoli ne ſi muta, nè ſi move. L'uno non eſſendo, non può mai verſare in quello che non è, dunque non alterarſi, poichè ſe l'uno da ſe stello li alceral fe in alcun luogo, non ſi ragionerebbe più deil' uno, ma di cer ta altra coſa; ma ſe non li altera non ſi rivolge in fe fteffo nè fi muta, nè ſi altera; dunque ec. ļ $. Se l'uno non è, fta e ſi moồe, e fi altera, Quel che non ſi move ſe ne ſta in quiete, e ſi ferma que gli che in quiete ne fta; dunque l'ano non effendo, comeapo pariſce ſta egli e li move, anzi movendoſi è neceſſario che ſi alteri, perchè in quanto alcuna coſa ſi move, incanto ſe ne ſta ella non nello ſteſſo modo, ma altrimenti; dunque l'uno mentre fi move ſi altera, e nondimeno non movendoſi in niun luogo in niuna guiſa ſi può alterare; dunque in quanto fi move", ciò che non è uno ſi altera; ma in quanto non ti move, non fi alce ra, dunque l'uno non eſſendo ſi altera, e non ſi altera. $. 12 Se l'uno non è, egli è diverſo da quel che era prima, non ſi altera; non fi fa, non ci muore, e di nuovo ſi fa, emuore. Cid che ſi alcera è neceſſario che ſi faccia diverſo da quel che era prima, ma quel che non fi altera, non ſi fa në muore; dunque l'uno, non eſſendo mentre fi altera, e ſi fa, e periſce, ma non alterandoſi, non fi fa, nè muore, nè periſce, ed in do tal guiſa l' uno 'non effendo, li fa, e muore e di nuovo non fi fa, nè muore. §. 13: Sin ora ha dimoſtrato Platone, che ſe l' uno non è, egli dà di sè fcienza, ed ha in sè diverlicà, che è partecipe, e non par tecipe di altre cole; quindi lo ſteilo-, e non lo ſteſſo con ſe ſtel р. 2 (116 ) ſi move fteffo, ſimile e diffimile nè ſimile, nè diffimile, eguale, ed ineguale, non eguale, nè ineguale, partecipe d'eſſenza, e non partecipe, ſi muta, e non ſi muta e non ſi mo ve, fi altera, e non fi altera, ft fa, c periſce, e fi fa, e non periſce. Tutte queſte concluſioni derivano dalla poſizione, l' uno non è; l'uno eſſendo inſeparabile dall'ente, ſe non v'è l'uno, nè pur v'è l'ente. OrPente non è, che il poflibile. Annullato dunque il poſſibile reſta l' impoffibile, da cui ſecondo l' Aflioma ſegue coſa, ex impoſſibile ſequitur quolibet, perchè nell'idea aſtrat ta dell'impoſſibile s'includono tutte le contraddizioni. Platone dal conſiderare, che l'uno non ha eſſenza, e non n'è capace, nega tutte le altre relazioni che pud avere. Premetto a ciò che quando diciamo, che alcuna coſa non ſia, nel proferire, queſto non è, fi fignifica ſemplicemente, che non è al tutto in niun modo, e non eſſendo in niun modo, non è capace in alcun modo di eſſenza; dunque non potrà eſſere il non ente, ne in alcun modo farſi partecipe di eſsenza. §. 14. Se l'uno non è, non può farſi in alcun modo par tecipe d'eſsenza. Quel che non è, ſignifica ſemplicemente, che non è al tur 10, in niun modo, o non è ſemplicemente capace di eſsenza, dunque fe l'uno non è, non può mai eſser capace d'eſsenza.. 15: ne la per Se l'uno non è, non pud farſit, nd morire. Chi non è partecipe di eſsenza, non la riceve, nè la de. Dunque fe. L'uno non è, non pud nè ricever, nè acqui ftar l'eſsenza, perchè non n ' è capace; dunque non periſce, nè fi fa. $. 16. Se l'uno nonè, non fi altera, nè fi move, nè ſe ne ſta, non ha grandezza, nè piccolezza, nè parità, né limiglianza, e dia, verlin (11 ) 3 onde eſsenza, non può aver ne grandezza, nèpic marfi. Se verſità riſpetto all' altre coſe, e a ſe ſteſso, nè gli conviene ale cun altro attributo Se l'uno non è, non ſi altera, perchè fi farebbe già, je pe rirebbe potendo queſto; ſe non ſi alcera, nè men fi move, ſe come non ente, non eſsendo in alcun luogo, non pud ſtar lo ſteſso in alcuna coſa, nè in alcuna coſa fermarſi. Se non ha nè piccolezza, nè parità, eſser ſimile, o diverſo, o rifpetto all'altre coſe, o a ſe ſteſso, nè le altre coſe potranno eſser in lui in alcun modo, gli ſono, nè fimili, nè diffimili, nèle ſteſse, nè diverſe, nè pud ſtar ſeco, non ha il di lui, o ciò che ſi dice di alcuna coſa, o queſto, o di queſto, o d'altrui, o ad altrui, o alcuna volta, o dopo, o al preſente, o ſcienza, o opinione, o ſenſo, o fer mone, o nome, o qualunque altro degli enti. Annot. Sebben ſi oſserva, Platone al non uno toglie tutto quello che ha dato all'uno, conſiderato in ſe ſteſso nella prima Sezione, argomento evidente, che, quando tutti gli altri man caſsero, quì non ſi trarca che delle aſtrazioni della mente, fra miſchiate tallora con le nozioni immaginarie, quali ſono in que fta Sezione, e nel rimanente. Non ci reſta che l'ultima quiſtione, in cui ſi cerca ſe non è l'uno, che accada all'altre coſe. SEZIONE QUINTA,. $. 1. S'orser Oſservi tolto. 1. Che ciò che è, o è l' uno, o l'altre co ſe • 2. Che ſe queſte non foſsero (almeno nella noſtra im-. maginazione, o nella noſtra mente ) di loro non ſi diſputereb be, perchè il nulla non ha proprierà. 3. Che ſe dell' altre li fa vella, l'altre ſono il diverſo, poichè l'altro, e il diverſo ſono fi nonimi', onde diciamo altro non eſser l'altro, che l'altro d'al tri, ed efser del diverſo diverſo, e che per far le coſe altre dalla uno, vi ſi debbe aggiungere qualche altra coſa, onde fieno per eſser altre, di cui ſaranno altre. 3 Tesni f. 2. (118 ) S. 2.. Se l'uno non è, le coſe altre o diverſe dall'uno, non ſono altre. o diverſe, che per ragion di ſe ſteſse.. Nelle coſe altre dall' uno o diverſe dall'uno, vi's include' qual che altra coſa, per cui fieno altre, ma queſta coſa non pud ef ſer l'uno, perchè per ipoteſi egli non v'è. Dunque, poiché non v'è, che l' uno, e l'altre coſe, eſcluſo che altre coſe non fieno. altre per luno ne liegue che ſieno altre per ſe. ftelse, COROL.. Dunque: per ſe ſteſse. ſono ciò che ſono tra se.., S: 3 Se: l'uno non v'è, le coſe altre dall' uno ſono tali per una moltitudine infinita. Non v'è che uno o i più, dunque le coſe altre o diverſe 1 dall’uno, non potendo eſser altre che l'uno, il quale non v'è per ipoteſi, non ſaranno altre che per i più, cioè per la mol: titudine; ma il più, o la moltitudine eſsendo per le ſteſsa in finita '; le coſe. altre dall uno,. ſono alore per una: moltitudine infinita.. COROLLAR. Qualunque mala dunque di loro appariſce in molti-. tudine infinita, e ſe alcuno ſi prenderà ciò che menomilimo pare co. me. Sogno, incontinente in vece di quello che pare uno, ſi fa innangi una moltitudine infinita, e in vece di quella chemenomilimopar ve, apparirebbe grandiſſimo già, ſe il pareggialli ad altre coſe in die Sparte da lui. Cosi: parla Platone: fia prefa qualunque parte d'eſtenſione, el la è diviſibile in due, ed inoi in due, e così all'infinito. Della di viſione di cui è capace il tutto, ſono capaci reſpettivamente le parti, nè v'è particella si minima, che le noi nell' ipotefi che non v'è uno, poteſſimo vedere con un microſcopio miracolo fo,, non ci pareſse diviſa in una moltitudine infinita di parti, ma tali che nell' iſtante ſteſso, che noi vedeſſimo la parte, la vedremmo attualmente diviſa in altre parti infinite, e cosi all'in finito; non è che io dir voglia, che vedremmo l'infinito at tuale, perchè non poſſiamo intenderlo, non che vederlo, nè so come il Leibnizio abbia poruto concepir nella più minima par 1 (119 ) parte di ciò che egli chiama 'materia, un numero attualmente infinito di monadi"; biſogna prima provare, che noi concepia mo l'infinito attuale -, ed indi che vi ſieno queſte monadi; ma ſe vi foſsero, il che io non l' ammetto, che come principio di co gnizione, e non di natura, in eſse, come l'eſprime il nome loro, v è un'unità, che è il fondamento di concepir nella monade innumerabili proprietà; ma quì nell' eſtenlione Platonica, biſo gna rappreſentarfi ogni parte deſsa ſeparata dall' uno; ' v'è in ciò contraddizione, ma appunto Platone - la ſuppone per de dur dall'aſsurdo i, l'impoſſibilità di ſeparar l' uno dall'ente. §. 4. Se non è l'uno in ogni maſsa apparente apparirà il numero, e le proprietà dei numeri, l'eguale, il mag giore, il minore. Tolto l' uno dalla maſsa, ci ſi fa come nel ſogno innanzi una moltitudine infinita, in cui ſe ſi vuol ordinar colla mente la moltitudine, vi ſi trova il numero; quindi il pari, e l' impari; il picciolo, il grande, il piccioliſſimo, il grandiſſimo., compa rando tra loro le maſse, in cui s'è diviſa la maſsa maggiore, e quindi l'eguale, perchè non ſi può paſsar dal maggiore al mino re ſenza paſsar per l'eguale, ma queſti ſaranno tutti fantasmi d' egualità, di maggiore, di minore, di pari, d'impari ec, come di numero, §. 5. Se non v'è l' uno, ogni maſsa apparente avendo termine appa rente, riſpetto all' altra non ha nè principio, nè mezzo, nè fine riſpetto a fe ftefsa. Si prenda alcuna delle maſse apparenti coll intelligenza, in nanzi al principio, ſe le fa ſempre innanzi altro principio, e dopo il fine, ſegue ſempre un altro fine, e nel mezzo altre coſe ſem pre più interne del mezzo, e ſempre minori, perchè non ſi può ricever in queſta alcun uno, non eſsendo l'uno. Annot. E ' da oſservarſi, che qui Platone dice, prender alcu na coſa con l'intelligenza, cioè aſtrattamente conliderarla í vi ag (120 ) aggiunge poi che potendoſi prender la maſsa ſenza l' uno, cioè fenza far aftrazione dall'uno, ſi sbrana qualunque coſa così pre ſa con l'intelligenza, che è quanto a dire con la mente fi* di vide in più parti, e queſte in altre, e così all'infinito. S. 6. Se l'uno non è, preſa qualunque maſſa a chi da lungi la mira groſſamente par uno, ma chi da preffo l'in tende è un infinito in moltitudine. Non potendo noi nulla concepir ſenza l' uno a prima viſta, e da lungi mirato ci par uno, ma da preſſo, e acutamente vedendolo, tolto l'uno, ci rappreſenciamo infiniti. COROL. Se dunque non v'è l'uno, ma l'altre coſe dall' uno, qualunque di eſſe è infinita, e con termine ed uno, e molci. Se non v'è l'uno le altre coſe ci pareranno, e ſimili, e diffi mili, e le ſteſſe, e le diverſe, e unire, e ſeparate, e moverſi, fermarſi; nè potendo noi concepir le coſe ſenza l'uno le ve dremo, come adombrate da lunge, e patir lo ſteſſo, ed eſſere fimiglianci, mada preſſo molte, e diverſe, e per il fantasma della diverſità diverſe, e diflimiglianti tra loro ſteſſe e pari mente ci pareranno le maſſe ſimili, e diffimili, e da loro ſteſ ſe, e tra di sè, e le ſteſſe, e diverſe tra loro, e che tocchi no, e fieno ſeparate da loro ſteſſe, e fi movano con tutti i mo ti, e ſi facciano, e periſcano, e nell' una, e nell' altra manie e tutte le coſe sì fatte che li poſſono dedurre dalle coſe 7 ra, già dette. S. 7. Ha dimoſtrato fin ora Parmenide 3 che adiviene alle coſe ſe non è l' uno, cerca poi che fieno gli altri che non ſon uno. 1 §. 8. (121 ) $. 8. Se non è l'uno, le alere coſe non ſon uno, ne molti. Non ſono uno, perchè non v'è l' uno; non ſono molti perchè i molti preſuppongono l'uno. ital 18. s. Se non v'è l'uno, non vi ſarà nè opinione, nè fantasma, ne ſcienza dell'altre coſe. Le altre coſe non hanno alcun concetto con niuna di quel le che non ſono, nè alcuna di quelle che non ſono è appreſso ad alcuna dell'altre che ſono; dunque appreſſo ad altri non v'è opinione, non v'è fantasma dell'ente, e quindi dell uno; ma ſe non v'è l'uno, non effendo poſſibile il penſar a molte coſe fen za r uno, neppur èpoſſibile che ſi penſi che fieno uno, o mol ti le coſe.. 10. Se non vè l' uno, le coſe non fono nè fimili, nè diffi mili, nè le ſteſſe, nè diverſe, nè ſi toccano, ne & ſeparano Non ſi poſſono concepir le coſe ſenza l'uno; dunque ſe non vi è l'uno, non ſi poſſono concepire, nè ſimili, nè diffimili nè le fteffe, nè diverſe, nè unite, nd ſeparate. COROL. Dunque ſe non v' è l' uno nulla v'è, onde o ſia l' uno, o non fia, ed egli e l'altre coſe ancora ſono, e non ſo no ad ogni modo riſpetto a fe ftelle, e tra di loro, e appajo no, e non appajono. II. Riftringendo in poco tutto ciò che negli ultimi paragrafi s'è eſpoſto, egli è manifefto, che l' uno efiendo inſeparabile dall' ente, ove non v'è più uno, non v'è più d'ente, cioè v'è nul. la, ol'impoſſibile", da cui ſeguono tutti i contraddittorj, qual Tomo II. q Pla (122 ) Platone ci eſpoſe per via di nozioni affatto immaginarie; egli ne fa veder i uſo, e moſtra nel tempo ſteſſo, quanto la fan taſia ſia diverſa dall' intelletto, poichè ella ci rappreſenta una coſa, mentre la mente ragionando ce ne fa concepire un'altra. Si conclude dunque, che Placone in queſto Dialogo non fi af fiffa che a moſtrar ſuſo dell'aſtrazioni della mente, nell' inve ſtigazione dell' idee. 1. Con le negazioni, come fece nel primo capo. 2. Con le analogie dell'altre idee aſtratte; finalmente con le cognizioni dell' idee, del ſenſo, della fantaſia, combinate a quelle della mente. LETTERA A SALIER Primo Cuſtode della Biblioteca DEL RE CRISTIANISSIMO. On dubitate che io ſia mai per dimenticarmi di voi, co N°me alcuni venuti ultimamente di Francia m' accufaro no da voſtra parte; troppo m'è rimaſta impreſſa l'idea della bontà, e gentilezza voftra, troppo è ſtato vivo il piacere e ſodo il profitto, che io ricavai dalle converſazioni letterarie, che abbiamo fpeſſo avute inſieme, e tra l'altre su l'opere di Platone; ce ne porgevano il motivo le ſaggie rifleſſioni, che leggevaci l'Ab bate Fraguier, or su l'ironia di Socrate, or ful carattere de'So fifti, or su la Repubblica, ed or su le Leggi, tutti oggetti delle belle diſſertazioni, che egli diede alla voſtra Accademia. Solo la Iciò egli intatto il Parmenide, o non aveſſe il tempo, o la voglia d' applicarſi a ſviluppare un Dialogo, che è il più malagevole di Platone, o temeſſe dioffendere la ſoavità del ſuo genio con l'idee troppo auftere, e filoſofiche, delle quali il Dialogo abbonda. Voi ben ſapete, che per voſtro conſiglio m' applicai a leggerlo con attenzione fin dall'anno 1725. e ne concepii quel fiſtema, di cui állor vi parlai. Venuto in Italia, e diftratto da graviſſimi intereſſi dimeſtici, ne interruppi l'eſame già cominciato, ſebbene negli intervalli io leggeſſi continuamente Platone; e l'avrete ve duto nel Sogno del Globo di Venere, che il Signor Conte di Cai lus v avrà forſe dimoſtrato in lingua Franceſe tradotto. Di tem po intempo io parlai del Parmenide con gli amici, e mi fi fue gliò il deſiderio di compierne il ſiſtema da me abbozzato all'occa lione del Platone di Dardi Bembo, che ſtampali in Venezia, con P aggiunta delle note e degli argomenti del Serano letteralmente tradotti. Dalla Differtazione preliminare ritrarrete l'idea generale del la Filoſofia Eleatica così celebre per l'acurezza, e per la profon dità de' Filoſofi, come la Jonica per la fodezza dell'eſperienze, e l'Ita (124 ) 1 1 ľ Italica per la felice combinazione della Geometria, e dell'A ſtronomia alla Fiſica. Non è difficile ſcoprire, che la metafiſica do Ariſtotele è tratta in granparte in queſto Dialogo, in cui Plato ne abbandona quaſi l' artificio poetico adoprato negli altri, e ſi ſpiega nella maniera più ſemplice, e più preciſa. Nella prima Sef fione io v'oſſervai i tre fonti delle allurdità degli argomenti me tafiſici; il principio di contraddizione, il progreſſo all'infinito, el' annullazione fuppofta di qualche perfezione divina. GliEleatici, che forſe gli inventarono, riconoſceano i limiti dell'intelligenza uma na, e pur era queſta la minor parte della Dialectica loro, la qual vaga va per tutti i lommi generi delle coſe. La quiſtione dell'origine e della natura dell' idee v'è più che abbozzata, e la riſpoſta che so crare diede a Parmenide, su la maggior difficolcà dell' idee, è la ſteſſa che uso il Padre Malebranchio nel medeſimo caſo. Nell'al tre opere s' accuſa il Commentatore di dar troppo ſpirito al ſuo Filoſofo; in queſta è cutto il contrario, poichè per quanto ſi ſpieghi Platone, vi reſta fempre molto a medicare, e la compa razione del reſto fa ſempre vergogna al commento. Ficino e Serano, che aſſegnarono al Dialogo un grado di ſublimità Teologica non convenevole, l'hanno sfigurato, e colto agli altri il profitto, che avrebbono potuto ricavare da una ſpe colazione così ben dedocta e conforta nè punto inteſa dai due Commentatori, i quali preteſero che in queſto Dialogo chiama to dell'idee, voleſſe Platone diſputare a pro delle feparate, quan do egli manifeſtamente le rifiuto, tutto riducendo all' Ontolo gia che è la più bella, e la più utile parte della metafiſica In molci errori cadè miſeramente il Carcelio, per averla ab bandonata, eſpregiata; e non furono dal Leibnizio, ed indi dal Wolfio ridotti al ſuo vero lume i dogmi filoſofici, ſe non dopo che effi s' affaticarono a dimoſtrare, le nozioni Ontologiche eſſer quelle alle quali convien avertire prima d' inoltrarſi nella combinazione dell'idee, e quindineiſiſtemi. Tutti gli uomini pre veggono gli aſtratti ne' concreci, pochi hanno la forza di ſepa rarli, pochiſſimi quella di ridurli in teoria, ed è ſolo riſerva to a' ſommi Filoſofi il farne ſiſtema. Voi molto più vedete in Platone, che io poſſa eſprimere; in canto vi prego a conſer varmi il voſtro affetto, ed eſſer certo che il mio farà ſempre inviolabile. La scuola stoica è quella che nell'antichità ha sviluppato con maggior rigore e profondità una riflessione semiotica. Tuttavia l'indagine degli stoici si polarizza, com'era già av­ venuto per Aristotele, su due ambiti fondamentalmente di­ stinti tra di loro: da una parte, una teoria del linguaggio in senso stretto, che comporta anche un'analisi dei rapporti tra linguaggio, pensiero e realtà (in corrispondenza della terna significante, significato, oggetto esterno); dal­ l'altra, una teoria del segno proposizionale, connessa con la teoria dell'inferenza. Questi aspetti della filosofia stoica trovano però un pun­ to di convergenza, come vedremo, nel loro comune legame con il lekt6n, un'entità che ha uno statuto eccezionale nella metafisica stoica. In effetti, a fondamento di quest'ultima, si pone la speciale dialettica tra le entità che condividono la proprietà di essere "corpi" (sOmata) e quelle entità che sono invece corporee (asOmata). Più in dettaglio si può dire che di solito l'ontologia stoica prende in considerazione solo quegli individui che hanno la caratteristica di essere oggetti tridimensionali e di possedere altresì una resistenza nel tem­ po. Questi, appunto, sono i corpi e solo essi vengono consi­ derati esistenti. Ora, tanto nella teoria del linguaggio, quan­ to in quella del segno proposizionale, accanto alle entità corporee vengono prese in considerazione anche delle entità incorporee, quali i lekta. Per il momento è invece necessario sgombrare il campo da due equivoci. Il primo concerne il destino che tocca alle entità incorporee: esse non vengono relegate semplicemente nell'ambito del non-esistente, ma vengono investite di una esistenza derivativa' (Long ). Il secondo pos­sibile equivoco concerne la nozione stessa di corpo. Contra­ riamente a quello che ci attenderemmo in relazione a una nozione moderna di corpo, per gli stoici erano "corpi" an­ che le qualità, in quanto venivano considerate come materia in un certo stato. Le proprietà di un certo individuo costi­ tuiscono stati o modi del suo essere e, per la loro esistenza, dipendono dall'esistenza di questo individuo. Se l'individuo esiste, le sue proprietà sono appunto disposizioni esistenti di materia (Rist). Si profila, a questo punto, una ontologia che pone al suo centro la nozione di "particolare": quest'ultimo viene carat­ terizzato come un oggetto materiale, che ha una forma defi­ nita come condizione necessaria e sufficiente della sua esi­ stenza. La forma, del resto, è l'elemento caratteristico di un oggetto, che lo rende identificabile come tale (Long). È proprio su questi presupposti antologici che si innesta e si sviluppa la teoria semiolinguistica degli stoici: il bisogno di una teoria del significato e della verità nasce appunto a proposito deIl'identificazione dei "particolari", ed è con­ nesso a una teoria della percezione. Così, si terrà presente innanzitutto che per gli stoici le im­ magini (phantasfa1) prodotte nella mente dagli oggetti ester­ ni danno luogo a una percezione vera se esse riproducono esattamente la configurazione di tali oggetti.1 Del resto, le immagini giocano un ruolo importante nella teoria del si­ gnificato degli stoici, come si sa che avevano una parte im­ portante anche nella teoria del significato di Aristotele. In secondo luogo si può considerare come fondamentale il fatto che uno dei modi di identificare un "particolare" è quello di identificarlo linguisticamente. In questo caso è fondamentale l'abilità di A nel comunicare a B che sta par­ lando intorno a X, come pure l'abilità di B di indicare ad A che egli ha compreso il suo riferimento. Il passo di Sesto Empirico che contiene i lineamenti fon­damentali della teoria linguistica stoica si trova proprio in un contesto che concerne un conflitto di opinioni intorno alla verità. È importante sottolineare che per gli stoici una teoria del­ la verità, cioè la ricerca delle basi per una verifica delle pro­ posizioni, non può essere elaborata in maniera indipenden­ te da una concezione della struttura del mondo e da ciò che può essere detto intorno a esso. Ecco il passo di Sesto. Alcuni hanno riposto il vero e il falso nella cosa significata (tò smainomenon), altri nella voce (phon), altri infine nel mo­vimento del pensiero. Della prima opinione sono stati i porta­ bandiera gli stoici col sostenere che sono tra loro congiunte tre cose, ossia la cosa significata (tò smainomenon), quella signi­ficante (tò smafnon), e quella-che-si-trova-ad-esistere (tò tyn­ chanon), e che, tra queste, la cosa significante è la voce (ad esempio la parola "Dione"); quella significata è lo stesso stato di cose (autò tò pragma) indicato dalla voce pronunciata (tò hyp'autis dloumenon), che noi percepiamo come coesistente (paryphistamenon) con il nostro pensiero (dianoia1), mentre i barbari, pur ascoltando la voce che lo indica, non lo compren­ dono; infine, ciò-che-si-trova-ad-esistere è quello che sta fuori di noi (ad esempio, Dione in persona). Di queste cose due sono corpi, cioè la voce e ciò-che-si-trova-ad-esistere, ed una è incor­ porea, cioè l'oggetto significato o "detto" (lekton), e proprio quest'ultimo è vero o falso (Sext. Emp., Adv. Math.) A partire dalle notizie di Sesto, anche per gli stoici il fe­ nomeno della significazione linguistica può essere ricostrui­ to nei termini di un triangolo. Si può osservare che compaiono i termini significante e significato (come è dato trovare anche nella teoria mo­derna di Saussure), ma non quello di segno. Come anche slmsin6menon (significato) lekt6n (detto)  tmsm lnon (significente) tynchAnon  in Aristotele, la nozione di smeion appartiene a un altro ambito della teoria, che non è quello strettamente linguisti­co. Si può notare anche che l'esempio che viene dato qui è abbastanza particolare, in quanto si tratta di un nome pro­prio. In secondo luogo, se da una parte, come per Aristotele, i termini che individuano la significazione sono tre e com­prendono anche l'oggetto, che propriamente è esterno al linguaggio, tuttavia la coincidenza tra i due modelli è solo parziale. Soltanto il primo e il terzo termine, cioè la voce si­ gnificante e l'oggetto, possono essere assimilati nei due triangoli. Un caso assolutamente a sé costituisce il termine che si trova al vertice superiore del triangolo, chiamato prima ù·lJ_ main6menon, poi anche lekt6n. Soprattutto nella sua se­conda denominazione costituisce un termine peculiare della filosofia del linguaggio degli stoici e rimanda a un concetto complesso e di grande interesse. Un primo aspetto della sua peculiarità lo si può rilevare in un confronto con Aristotele. (oggetto esterno, referente). Nella stessa posizione del triangolo della significazione Ari­stotele pone delle entità psicologiche, che venivano consi­derate le medesime per tutti gl’uomini. Il lekt6n degli stoici, come ci dice Sesto nel passo riporta­to, ha caratteri completamente diversi, in quanto i barbari, pur udendo i suoni e vedendo l'oggetto, non lo compren­dono . Come rileva Todorov, la differenza tra le due nozioni consiste innanzitutto nel fatto che, mentre l'en­tità presa in considerazione da Aristotele si situa a livello della mente dei locutori, quella considerata dagli stoici si situa direttamente al livello del linguaggio. Todorov interpreta il lekt6n come la capacità del primo elemento di designare il terzo. Tale interpretazione poggia anche sul fatto che l'e­sempio dato è un nome proprio, che ha una capacità di de­ signazione come gl’altri nomi, ma è molto controverso se abbia un *senso*. La risposta che di solito si dà a questo inter­rogativo è negativa. I barbari odono sicuramente la sequenza di suoni /dione/ e vedono Dione, ma sono incapaci di connettere il suono con il suo oggetto di riferimento. Comprendere, dun­que, come avviene appunto nel caso dei Greci, consiste pro­prio nel percepire la connessione tra la parola che viene pro­nunciata e l'oggetto cui si riferisce. Anche Long identifica il lekt6n con tale connessione, ma nel senso che esso si configura come l'affermazione che un enunciato fa nei confronti di qualche oggetto; in questo caso, la tra­duzione più propria di lekt6n è "ciò che è detto", in quanto tale espressione copre sia la nozione di giudizio che quella di stato di cose significato da una parola o da una serie di parole. L'idea che il lekton si può configurare come una affer­mazione intorno all’oggetto emerge da una testimonianza di Seneca (Epistulae morales), in cui viene delinea­to uno schema triadico della significazione analogo a quello di Sesto, ma con una proposizione – “Cato ambulat” -- laddove Sesto propone solo un nome (“Dione”). Seneca invita a distinguere tra l'oggetto di riferimento, cioè Cato­ne, che è un oggetto materiale, e l'asserzione intorno a esso, che è un incorporale. Tale asserzione è propriamente il lekton, del quale termine Seneca propone tre diverse traduzioni latine: “enuntiatum,” “effatum,” e “dictum.” Dato che l'esempio proposto da Seneca è una proposizio­ne, risulta più agevole, rispetto ali'esempio di Sesto, capire come possa essergli applicato il predicato "vero" o "falso".4 nfatti solo i lekta che costituiscono una proposizione com­pleta possono essere veri o falsi. Nel modello aristotelico della significazione, una espressione e un simbolo di uno stato psichico (pathmata en tiipsychi1) elo dei pensieri (noimata). In questo modo, non viene operata una chiara distinzione tra la nozione di si­gnificato e quella di pensiero. Tale concezione ricompa­re del resto nella nota teoria di Ogden e Ri­chards, i quali disegnano un triangolo se­miotico in cui figura al vertice superiore la nozione di "thought" ("pensiero"). Diversa è la concezione proposta dagli stoici. In effetti, dalla testimonianza concorde di Sesto e di Diogene, si ricava una nozione di significato nettamente distinto dal pensiero, anche se intrattenente con questo un certo tipo di rapporto. Dice infatti Sesto. “Gli stoici affermano che il lekton è ciò che sussiste in confor­mità con una rappresentazione razionale (logike phantasia) e che una rappresentazione razionale è quella secondo cui il rappresentato (phantasthén) può essere espresso in parole (Sext. Emp., Adv. Math.). In termini del tutto analoghi si esprime Diogene (Vitae), usando anche le stesse espressioni. Cosi, da en­trambi i passi si può ricavare l'idea che gli stoici operassero una distinzione netta tra il lekton, che rappresentano il livello del significato, e la rappresentazione razionalie (logike phantasma), che possiamo definire come delle forme di atti­ vità intellettiva o dei pensieri. Quest'ultime entità sono pe­culiari della specie umana e possono, ali'occorrenza, essere espresse in parole -- a questo infatti si riferisce l'aggettivo, “logike”. Ma, sempre dai due passi, si può ricavare anche che i due termini, il lekton e l'attività di pensiero, vengono messi in relazione. Long cosi commenta il passo di Se­sto: "I take this difficult passage to mean that the lekton is defined as the objective content of acts of thinking (no­esis)" e aggiunge anche "or, what comes to the same thing in Stoicism, the sense of significant discourse". Prima di ap­profondire il senso di questa seconda asserzione di Long, soffermiamoci sulla prima. Dunque la relazione che il lekton instaura con l'attività di pensiero è tale per cui esso si configura come contenuto o risultato di tale attività. Ma questa nuova relazione, che ve­ niamo scoprendo attraverso le testimonianze di Diogene e Sesto, comporta un elemento nuovo rispetto a quanto lo stesso Sesto dice altrove (Adv.Math.), quando ha messo in relazione il lekton con l'espressione significante (cioè con il smainon). In effetti, se il lekton viene ora definito come qualcosa che sussiste in conformità con una rappresentazione razionale, è evidente che l'accen­to appare spostato dal precedente rapporto con il suono della voce, a un rapporto con l'attività del pensiero. Questa, prima di dimostrarsi un'apparente contraddizio­ne o un falso dilemma, ha diviso sia le testimonianze degl’esegeti antichi sia le interpretazioni degli studiosi moderni degli stoici. Come mette bene in evidenza Mignucci, il lekton, essendo incorporeo, non può essere disgiunti da qualcosa di corporeo che faccia in qualche modo da sup­porto ad essi e che permetta la loro esprimibilità. Il proble­ ma diviene allora quello di stabilire se a fare da supporto a un lekton siano: un suono della voce; o l'attività della mente che li pensa. La prima definizione di Sesto opta per la prima; la seconda, come pure la definizione di Diogene, per la seconda. Ugualmente, tra gl’interpreti moderni, Mates risponde che è la parola a fare da supporto al lekton. Zeller11 e Bréhier12 assumono l'altro punto di vista. Come dicevamo, questo è un falso dilemma, non resolu­bile tuttavia filologicamente, in quanto nei testi antichi c'è un'uguale quantità di elementi di convalida per ciascuno dei due punti di vista. Piuttosto è necessario considerare un du­plice presupposto che sembra agire nella teoria stoica. Da un lato il verificarsi di discorsi significativi rimanda a un'at­tività intellettuale, in assenza della quale non è possibile che si diano i significati. Dall'altra, il risultato dell'attività intel­lettuale ha bisogno dei suoni della voce significativi per esplicitarsi oggettivamente. È possibile, anzi, trarre le con­seguenze dal fatto che un lekton è definito da una parte co­me *contenuto* di una rappresentazioni razionale e dali'altra come il significato di una parola: conseguenze che indicano la necessità di postulare una stretta connessione tra i contenuti dell'attività rappresentativa della mente e il loro essere si­gnificati attraverso le parole. I due termini, in realtà, non possono essere disgiunti l'uno dall'altro. A questo punto possiamo comprendere la seconda asserzione di Long che abbiamo anticipato: il senso del discorso significante e il contenuto oggettivo degli atti di pensiero devono essere considerati come la stessa cosa.. La precedente conclusione viene del resto appoggiata da tà14 è dato dalla "rappresentazione" (phantasia) passo Diogene spiega che la phantasia ha un ruolo assoluta­mente primario, in quanto non è possibile, senza di essa, rendere conto di alcuni processi fondamentali della conoscenza, quali l'assenso (synkatathesis), la comprensione (kata/psis) e l'attività di pensiero (nosis). Infatti la rap­presentazione viene per prima, poi il pensiero (dianoia) che è capace di parlare (eklalètik), esprime in parole (/6g01) ciò che esperimenta come il risultato della rappresentazione.  Il passo di Diogene è importante perché ripropone la no­zione, già platonica, del pensiero come discorso inter­no. Tutto ciò porta a concludere che per gli stoici esiste Long sulla considerazione di un passo di Diogene Laerzio (Vitae) in cui viene detto che il criterio di veri- .. In questo una sostanziale identità tra i processi del pensiero e quelli della comunicazione linguistica. Il fatto poi che i processi cognitivi siano basati sulla phantasia getta luce sul ruolo che le immagini mentali hanno nella teoria linguistica del si­gnificato.Il lekton, che abbiamo finora incontrato come elemento centrale della teoria del linguaggio, costituisce una nozione fondamentale anche della teoria del segno e, in un certo f110do, è un fattore di mediazione tra le due teorie. Infatti i 5egni (smefa) per gli stoici sono anzitutto dei lekta, in auanto sono costituiti da proposizioni. Questo fa sì che, come sottolinea Eco, nella se­ fllÌOtica stoica si verifichi una saldatura di diritto tra la 0ottrina del linguaggio e la dottrina dei segni. Infatti, per­ ché ci siano segni occorre che siano formulate proposizioni e le proposizioni debbono organizzarsi secondo una sintassi Jogica che è rispecchiata e resa possibile dalla sintassi lingui­stica. Occorre tener presente che gli stoici non di­cono ancora che le parole sono segni (-- cf. H. P. Grice – “Not all things that mean are signs. Words are not”) -- sarà Agostino il pri­ (110 a fare una simile asserzione -- e rimane, del resto, una differenza lessicale tra la coppia smafnonlsmain6menon e sl!mefon. Tuttavia il fatto che i segni siano dei lekta ci illumina sul­ ra necessità, avvertita dagli stoici, di tradurre il segno non verbale in termini linguistici e di legare, dunque, per quanto jfl maniera implicita e indiretta, le due teorie. Ecco la definizione di segno che ci viene data da Sesto: Gli stoici, volendo presentare la nozione di segno, dicono che è una proposizione (axioma) che è l'antecedente (prokathegou­menon) in un condizionale vero (en hyghiei synemménOl), e che è rivelatore del CONSEQUENTE (ekkalyptikòn tou ligontos). E dicono che la proposizione è un lekt6n completo in se stesso; e il condizionale vero è quello che non comincia dal vero e finisce ] Riprenderemo più avanti le varie problematiche che ven­gono presentate in questo passo. Per il momento ci preme sottolineare che in esso si definisce il segno come un lekt6n completo, cioè come una proposizione che si pone in rap­porto di implicazione con un altro lekt6n, cioè con un'altra proposizione, secondo lo schema: p -:J q. Si deve notare che, come per Aristotele, l'attenzione per il segno è esercitata in funzione della conoscenza che esso permette di raggiungere: l'ottica, in altre parole, è ancora quella epistemica, e il segno appartiene a un campo che è di­stinto sia da quello logico sia da quello semantico in senso stretto. Il segno, infatti, non è una proposizione qualsiasi che figuri come antecedente in un condizionale vero, ma SOLO QUELLA PROPOSIZIONE CHE PERMETTE DI SCOPRIRE IL CONSEGUENTE – cioè, che permette l'accesso a una nuova conoscen­za. Va comunque notato che, se l'ottica con cui gli stoici guardano al segno è la stessa di quella di Aristotele, assolu­tamente diverso è il tipo di inquadramento logico. È nor­mallnente accettato che Aristotele pratichi la logica delle classi, mentre gli stoici introducono quella proposizionale. Ciò comporta che l'attenzione venga spostata dalla so­ stanza degli eventi (Todorov), per quanto concerne il punto di vista antologico, e dal nome/aggettivo, che funge da predicato, alla proposizione, per quanto concerne l'espressione linguistica. In effetti, in Aristotele si poteva notare un certo disagio a trattare le sostanze e le proprietà come segni. Ciò che, invece, può essere trattato come segno sono i fatti e gl’avvenimenti espressi da proposizioni. E del resto Aristotele, pur senza denunciare la differenza, tutta- nel falso [ di un condizionale che comincia con il vero e finisce nel vero. Essa fa scoprire il conseguente poiché la proposizione "ESSA HA LATTE" sembra essere rivelatrice (de/Otik6n) di quest'altra "ESSA CONCEPTIO" (Sext. Emp., Hyp. Pyrrh.). Essi chiamano antecedente la prima proposizione  via fornisce alcuni esempi di segno -- come quello della Reto­rica. "Se essa ha latte, essa ha partorito" -- in cui vengono presi in considerazione eventi e non sostan­ze. Ma nella filosofia aristotelica la teoria del segno ha una parte marginale. Il segno viene fatto rientrare nel procedi­mento sillogistico (costituisce una premessa del sillogismo) e viene confinato nel campo dei procedimenti retorico-dia­lettici, se non è un tekmirion, cioè, un segno necessario. Nella scienza vera e propria, fondata sul sillogismo perfet­to, il smeion non trova f>osto. Al contrario, nelle scuole postaristoteliche, l'inferenza da segni acquista un ruolo centrale: dalla retorica e dialettica, suoi punti di partenza, il segno viene esteso alla scienza in generale e alla filosofia nel suo grado più alto. Gli stoici e gl’epicurei vedono nel segno il procedimento canonico del passaggio da ciò che è noto a ciò che è ignoto. Preti sostiene che, a proposito della teoria del segno, tra Aristotele e le scuole posteriori si può individuare un anello di congiunzione, rappresentato dalla teoria di Nausifane, un seguace di Democrito e uno dei maestri di Epicuro. Da quanto ci è rimasto della sua opera, il Tripo­ de, 1 8 è possibile cogliere i punti essenziali di questo passag­ gio . Per Nausifane, infatti , il discorso filosofico (basato per Aristotele sul sillogismo) e quello retorico (basato sull'enti­mema) presentano in realtà la stessa struttura logica. In en­trambi i casi è necessario distinguere tra la CONSEQUENZA o conclusione  (ak6/outhon), la "premessa" (homologoumenon) e "ciò che deriva dalle premesse" (tlnon lphthénton ti symbafnei: il sillogismo?). In ognuno dei due tipi di discorso il problema è quello di partire da cose presenti (hyparchonta) per giun­gere in maniera metodica alle cose invisibili. Il metodo del passaggio è la akolouthia, "la relazione di consequenziali­tà", di implicazione o implicitazione, comune appunto a filosofia e retorica. Ora, come testimonia Sesto, dalle cose evidenti (apò ton enargOn) alla comprensione del­ le cose oscure (adla) per mezzo del segno come relazione di akolouthia costituisce proprio il nocciolo della dottrina de­ gli stoici -- come pure di tutti coloro che Sesto riunisce sotto la possibilità di passaggio il nome di "dogmatici". Non solo, ma come prova della centralità della semiotica, anche la dimostrazione viene considerata un segno: fatto che testimonia la riduzione della filosofia della scienza a semiotica e che conferma la tendenza delle scuole post-aristoteliche a ridurre o trasfor­mare il sillogismo nell'inferenza implicativa. 6.2.2. 1 I tipi di segno,  comune e proprio. Nella semiotica stoica si registra la scomparsa della di­ stinzione terminologica tra tekmrion e smeion: il primo termine non viene più usato e i segni vengono tutti denomi­ nati smeia. Un'ipotesi plausibile è che ciò sia legato all'ab­ bandono del sillogismo e della sua distinzione in figure la quale sorreggeva tale opposizione. Tuttavia, al suo posto, sembra comparire un'opposizione tra "segno comune" (koinòn smeion) e "segno proprio" (fdion). Tale distinzione non era specificamente stoica, ma appartenente a una koini filosofica ellenistica, sulla quale c'era accordo anche tra scuole per altro verso in contrasto. Una definizione sufficientemente chiara dei due tipi di se­ gno si trova nel trattato semiotico di Filodemo. Un segno è comune (koin6n) per nessuna altra ragione che quella per cui può esistere, sia che l'oggetto non percepito (tò adlon) esista, sia che non esista. Noi diciamo che la persona che crede che questo particolare uomo sia buono a causa del fatto che è ricco, sta usando un segno non valido e comune dal momento che molti che sono ricchi risultano malvagi e molti buoni. Perciò il segno proprio (idion), se è necessario (ananka­ stik6n), non può esistere altrimenti che con la cosa che noi di­ ciamo appartenere di necessità ad esso, (cioè) l'oggetto non evi­ dente di cui è segno  (Philodemus, De signis) C'è una convergenza nelle scuole postaristoteliche nel ri­ tenere il segno comune come non valido e nell'accettare in­ vece unicamente il segno proprio. Dalla definizione di Filodemo si ricava che una differenza peculiare consiste nel ca­ rattere di necessità del segno proprio, che viene definito co­ me "necessario" (anankastik6n), carattere non posseduto da quello comune. Viene dunque da mettere in parallelo il segno proprio con il segno necessario di Aristotele che ri­ chiedeva una connessione necessaria con l'oggetto a cui rin­ viava. D'altra parte, il segno comune è definito come quel segno che può rimandare a qualcosa di esistente, di cui sa­ rebbe segno, ma può anche non rimandare a niente. Dato l'esempio, cioè l'inferire dalla ricchezza di un uomo la sua bontà (inferenza che in certi casi funziona e in certi altri no), sembra plausibile porre in relazione il segno comune e i segni in seconda e terza figura di Aristotele. Infatti per Ari­ stotele si poteva inferire dal pallore di una donna il suo es­ sere gravida (segno in 2a figura) oppure dalla bontà di Pit­ taco la bontà dei sapienti (segno in 3a figura): ma questi se­ gni non in ogni caso risultavano verificati. Si può così giungere a una conclusione interessante: men­ tre Aristotele, pur negando validità scientifica ai segni non necessari, ne prevedeva comunque un uso in un ambito epi­ stemologicamente più basso, come quello della retorica, do­ minio delPopinione, la scuole postaristoteliche sembrano aver fatto definitivamente piazza pulita delle inferenze del tipo non necessario. 6.2.2.2 I tipi di segno: B) "rammemorativo" e "indicativo" Filodemo aveva scritto il suo trattato intorno alla metà del I secolo a.C. Circa due secoli dopo, Sesto riprende la di­ stinzione tra segno preso in senso proprio (idlos) e segno preso in senso comune (koinOs), mettendola in esergo alla sua trattazione del segno; ma, stranamente, assimila questa a un'altra opposizione, quella tra segno rammemorativo e segno indicativo: Il segno [. . .] si dice in due maniere, comune (koinOs) e proprio (idt'Os). In maniera comune si dice segno quello che sembra rive­ lare qualche cosa: in questo senso sogliono chiamare segno anche ciò che serve a richiamare alla memoria la cosa osservata in­ sieme con esso. In maniera propria si dice segno quello che è in­ dicativo di una cosa avvolta nell'oscurità. (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 143) Apparentemente, e in maniera contraddittoria, tuttavia Sesto sembra voler mantenere la duplice distinzione, in quanto, dopo aver introdotto l'opposizione tra segno co­ mune e segno proprio, dichiara di voler trattare solo di que­ st'ultimo (ibidem, 143); e poiché il segno proprio è quello che permette di scoprire le cose che sono oscure, egli propo­ ne di distinguere preliminarmente le cose in "manifeste" e "oscure", e di suddividere ulteriormente quest'ultime in tre categorie. Ne risulta una quadruplice tipologia: (i) Le cose manifeste o immediatamente evidenti: sono quelle che giungono alla conoscenza in maniera diretta; co­ me esempio Sesto porta "il fatto che è giorno e che io sto di­ scorrendo"23 quando io faccio realmente queste cose. (ii) Le cose oscure in senso assoluto: sono quelle che han­ no una natura tale da non arrivare alla nostra comprensio­ ne (kata/psis), come a esempio "se le stelle siano di numero pari o dispari" o "se i granelli di sabbia della Libia siano di un determinato numero".24 (iii) Le cose oscure temporaneamente: sono quelle che pur avendo una natura manifesta divengono, per certe cir­ costanze, non evidenti per un certo tempo: l'esempio è il fatto che, chi si trova a una certa distanza, non vede la città di Atene. Atene, visibile per sua natura, diviene tempora­ neamente invisibile a causa della distanza.2 (iv) Le cose oscure per natura: sono quelle che hanno una natura tale da non essere percepite, ma sono soltanto pen­ sabili (noto1).26 Gli esempi sono "i pori intelligibili" e "il vuoto". Non si pone un problema di segni a proposito della prima e della seconda categoria, in quanto le cose manifeste ven­ gono comprese in maniera non mediata e le cose oscure in senso assoluto non possono essere comprese affatto. Invece è proprio attraverso i segni che possono essere comprese le cose che appartengono alle ultime due categorie. Ma i tipi di segno sono diversi per ciascuna di esse. Le cose tempora­ neamente oscure si colgono attraverso i segni rammemora­ tivi, quelle oscure per natura attraverso i segni indicativi. Ecco la definizione che ne dà Sesto: Dei segni [...], secondo costoro [i dogmatici], alcuni sono ram· memorativi (hypomnstika), altri indicativi (endeiktika). Chia­ mano segno rammemorativo quello che, osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, appena esso si presenta, se quella è avvolta nell'oscurità, ci conduce a ricordare la cosa che è stata osservata insieme a tal segno e che non si presenta ora in maniera evidente, come avviene per il fumo e il fuoco. È invece indicativo, come dicono, quel segno che, non osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, pure, per la propria natura e costituzione, segnala ciò di cui è segno; così, per esempio, i movimenti del corpo sono segni dell'anima. (Sext. Empyr., Hyp. Pyrrh., II, l00-1Ol)27 Il segno rammemorativo è, in sostanza, frutto di un'asso­ ciazione costante tra cose comunemente osservate in con­ nessione empirica. Sembra, tra l'altro, che gli esempi che Sesto sceglie per illustrare questo tipo si distribuiscano se­ condo la tripartizione28 contemporaneità/anteriorità/po­ steriorità tra il segno e la cosa indicata: nel caso di "fu­ mo-+fuoco" vi è contemporaneità; in "cicatrice-+piaga" o in "fascia-unzione degli atleti" il fatto indicato è anterio­ re; in "ferita al cuore-morte", il segno rimanda a qualcosa di posteriore.29 Il segno indicativo, a differenza del precedente, non è su­ scettibile di essere osservato insieme alla cosa di cui è segno, in quanto quest'ultima non è mai stata manifesta e spesso non è nemmeno sospettabile. Ne sono esempi "i movimenti del corpo" che permettono di risalire all'"anima", o "il su­ dore" che rimanda ai "pori della pelle".30 Sesto accetta la validità epistemologica dei segni rammemorativi, mentre nega validità epistemologica ai segni indicativi, che sono, secondo lui, un'invenzione dei "filosofi dogmatici" e dei "medici razionalisti".3 1 Possiamo ricapitolare con il seguente schema la classifi­ cazione di Sesto: cose manifeste oscure   non danno luogo a segni danno luogo a un segno in senso assoluto per natura danno luogo a un segno indicativo rammemorativo Si deve però osservare che la distinzione riportata da Se­ sto tra segno rammemorativo e segno indicativo solleva molti dubbi circa la sua provenienza stoica. In effetti, non se ne trova traccia in altre fonti e neppure nel resto della trattazione dello stesso Sesto. Inoltre, tale distinzione appa­ re addirittura in contrasto con l'indirizzo complessivo della filosofia stoica e soprattutto con l'orientamento logico-for­ male della teoria del segno. Questa distinzione, per quanto importante dal punto di vista epistemologico, appare irrile­ vante dal punto di vista logico. Invece, sembra essere genuinamente stoica la distinzione tra segno comune e segno proprio, secondo la testimonian­ za di Filodemo. È, tra l'altro, il carattere necessario del se­ gno proprio che dimostra la coerenza di essa con il pensiero stoico. Infatti, il segno degli stoici è sempre un segno "ne­ cessario", come un'analisi più dettagliata della sua struttura ci permetterà di vedere. Ritornando alla definizione stoìca di segno che abbiamo visto, si devono prendere in considerazione almeno tre cose. Prima di tutto la nozione di synemménon, che letteralmente significa "connesso" o "connessione". Il suo significato lo­gico ci viene chiarito da Diogene: si tratta dell'asserto temporaneamente  condizionale del tipo "Se p, q", in cui a una prima proposizione consegue una seconda come nell'esempio "Se è giorno, c'è luce". La seconda cosa da prendere in considerazione è la no­zione di condizionale valido (hyghiés, "sano", igienico). Da un passo di Sesto, dove se ne trova la definizione, è possibile ricavare che questa nozione è affine alla moderna INTERPRETAZIONE VER-FUNZIONALE di "Se p, q". Infatti la validità o in­ validità dell'asserto condizionale "Se p, q" dipende dal valore di verità dell’antecedente e del conseguente di esso.Sesto, in due passi paralleli, camente quel condizionale che non comincia dal vero e fi­nisce nel falso e fcrnisce una tavola dei valori di verità del tutto conforme a quella che la logica contemporanea preve­ de per l'implicazione materiale:  p q ·se p, q• valido vero vero falso falso vero falso invalido falso vero valido Sesto accenna anche a un disaccordo tra i logici stoici a pro­posito del criterio per giudicare un condizionale valido. Esso corrisponde a ciò che è stato definito dai Kneale il dibattito sulla natura dei condizionali, che anima le discussioni di logica ali'epoca degli stoici. Il terzo elemento da rilevare è legato alla nozione di se- definisce come valido uni­ valido  gno come antecedente (prokathegoumenon) in un condizionale valido. In effetti, come fa rilevare lo stesso Sesto, i ti­pi di condizionale valido sono TRE nella tavola dei valori di verità corrispondente all'IMPLICAZIONE MATERIALE: 1) V V; 2) F F, e 3) F V. INVALIDO: V F. Il problema diviene dunque quello di vedere se la struttura del segno sia da ricercare in ciascuno dei tre tipi di condizionale valido, o solo in casi particolari. Ora, in effet­ti, un segno non può non essere espresso da una proposizio­ne vera, come pure deve essere vera la proposizione a cui es­so rimanda. Così SONO ESCLUSI sono il secondo (F F) e il terzo caso (F V), in quanto hanno un antecedente falso. Dunque, l'uni­ca possibilità è relativa al PRIMO tipo di condizionale – cioè, quello che comincia dal vero e finisce nel vero. Ma c'è un'ultima osservazione da fare, ed è relativa al carattere che il segno deve avere di essere *rivelatore* (enkalyp­ tik6n) del conseguente. In effetti, un condizionale del tipo "Se è giorno, c'è luce", nel momento in cui si verifichino le due condizioni che sia giorno e che vi sia luce, è formato da due proposizioni entrambe vere.Tuttavia, secondo Sesto, non si realizzano in questo caso le condizioni perché vi sia un segno, in quanto entrambe le proposizioni rimanno a FATTI DI PER SÉ EVIDENTI (cf. la caverna di Platone). Il primo termine del condizionale non è *rivelatore* del secondo – cf. Grice: “Black clouds mean rain” – yes). In effetti, per comprendere la vera natura del segno bisogna passare dal piano strettamen­te logico a uno più generalmente epistemologico, epistemico, o cognoscitivo, doxastico incluso. Il segno, per gli stoici, non solo deve avere una corretta costruzione dal punto di vista logico, individuabile nella implicazione tra due proposizioni vere, ma deve anche possedere il carat­tere di dispositivo che permette di accrescere la cono­scenza. Come già in Aristotele, anche per gli stoici il segno si appoggia su un livello logico, ma si inquadra in un'ottica co­noscitiva. Gli esempi di carattere medico (Grice: “Those spots didn’t mean anything to me, but to the doctor, they meant measles”) denunciano l'ori­gine di quest'ottica. In generale il segno deve permettere il passaggio inferenziale da una conoscenza di facile accesso, come "egli ha sputato cartilagine bronchiale" – or Grice’s “Spots” -- a una cono­scenza di molto più difficile accesso, come "egli ha una pia­ga nel polmone" (“measles – and Dahl ignored it. A tragedy – and part of a father’s responsibility and liability to know what measles spots mean””) Tuttavia, ciò che la teoria del segno ac­quisisce, passando dalle mani dei medici a quella dei filosofi, è una solida struttura dal punto di vista logico-formale, tale da escludere la possibilità di inferenze scorrette o non igieniche – malatta.  Quanto ampio e difficoltoso fosse il lavoro che i filosofi dovevano svolgere, sul piano logico, per stabilire un criterio atto a escludere le inferenze scorrette, lo dimostra l'acceso dibattito che si sviluppò sulla natura dei condizionali (Kneale). Scrive infatti Sesto Empirico. Tutti quanti i dialettici sono generalmente d'accordo neli'affermare che un condizionale è valido quando il suo conseguente segue (akolouthei) dal suo antecedente, ma disputano sul come e quando esso segua, e propongono criteri rivali (Adv. Math.). Riferendosi a questo dibattito, Sesto elenca quattro crite­ri che sono proposti per stabilire la validità di un as­ serto condizionale: quello di FILONE MEGARICO (H. P. GRICE); quello di Diodoro Crono; quello della srsnartsis attribuibile a Crisippo; e quello della émphasis. Sulla disputa si può tuttavia fare un'osservazione genera­le preliminare. Il punto di partenza, infatti, come fa notare Hurst, è una relazione già conosciuta, nel senso che essa è riconoscibile nei suoi esempi. Ciò che invece costituisce lo scopo è una definizione di questa rela­zione di consequenzialità (akolouthla) in termini formali. Nel corso dell'intero dibattito sulla natura dei condizionali i logici si sono concentrati sul definiendum e non sul definiens. Quest'ultimo, che può possedere proprietà autonome, essendo dotato di significato, non è stato preso in considerazione se non nella misura in cui poteva essere pro­vato che esso coincideva con il definiendum. Si è cosi spesso creata una confusione tra i due livelli e spesso sono stati scelti esempi che ambiguamente sono in grado di elucidare sia la relazione riconosciuta, sia le proprietà della relazione logica che essi tentavano di identificare con la prima. Può aiutarci a comprendere meglio questo modo di procedere un paragone con i metodi della logica contemporanea. I logici contemporanei, infatti, sono in genere interes­ sati unicamente al definiens, cioè alla relazione che essi pos­sono stabilire in simboli, senza riguardo alla questione se tale relazione sia identica a quella che è ampiamente cono­sciuta, facilmente riconosciuta, e poco compresa come quella di una espressione di implicitazione ("following", “yielding” -- Hurst). A esempio Peirce e Russell erano interes­sati alle proprietà della implicazione materiale indipenden­temente dal fatto che essa riproducesse il significato "usua­le" di "implica" ("implies", o di “se”). Così pure Lewis era interessato al sistema della implicazione rigida senza sostenere che l’im­ plicazione rigida rappresenti il significato di "implica" (cf. H. P. GRICE citato da P. F. STRAWSON, Introduction to Logical Theory – e P. F. STRAWSON, Introduction to “Philosophical Logic” on Quine on the meaning of ‘if’. --. Questa differenza nel modo di procedere tra antichi e moderni comporta un'ulteriore differenza formal. Mmentre i logici antichi sono interessati a dare un'unica definizione, i moderni lo sono a fornire due definizioni: quella di "im­plicazione materiale" e quella di "implicazione rigida". Filone è il primo esponente della scuola megarico-stoica citato da Sesto ed è il primo che dà un'interpretazione vero­-funzionale dell'espressione "Se p, q". Secondo Filone – citato da Grice nella William James IV, ‘Condizionali indicativi’ --, un'espressione condizionale è valida o o vera se, e solo se, non co­mincia con il vero e finisce con il falso. Come abbiamo già visto, la definizione che Filone dà del criterio di consequen­zialità (ako/outhfas kritrion) corrisponde al quadro del­ l'implicazione materiale. Infatti sono tre i casi in cui il con­dizionale è valido, corrispondente ai tre esempi seguenti:  "Se è giorno, c'è luce" (VV); "Se la terra vola, la terra ha le ali" (FF); e "Se la terra vola, la terra esiste" (FV). Come sottolineano i Kneale, è probabi­le che Filone ha in mente l'uso dell'espressione "Se p, q" nel ragionamento e che vuole attirare l'attenzione sul fatto che la congiunzione dell'asserto condizionale con il suo antecedente implicita sempre il conseguente. L'interpretazione proposta da Filone è la più debole che soddisfi tale requisito.  Diodoro Crono è il maestro di Filone, e la ragione per cui Sesto lo cita per secondo può essere forse attribuita al fatto che, mentre Diodoro riuscì a confutare Filone, que­ st'ultimo non riuscì a fare altrettanto con il primo (Hurst – “wheras H. P. Grice had no qualm about criticising his own tutee!”). La critica che Diodoro muove all'interpretazione filonia­na -- verso la sua diodoreana -- insiste proprio sul carattere di debolezza di quest'ultima. Egli individua infatti degl’esempi di condizionale che, pur potendo soddisfare il requisito filoniano in un tempo tt , possono tuttavia mancare di soddisfarlo in un altro tempo t2. A esempio, l'asserto "SE É GIORNO, IO STO CONVERSANDO” è considerato VERO da Filone se si dessero le condizio­ni , in un tempo t  , per cui è giorno e io sto conversan­do. Diodoro invece crede dimostrare che esso è falso, sostenendo che non c'è niente nella sua natura che permetta di dire se esso cada o no sotto la DEFINIZIONE di Filone. Infatti, esso – “SE É GIORNO, IO STO CONVERSANDO” può essere pronunciato anche in un tempo t2, quando è giorno -- MA io rimango silenzioso. In questo caso es­so avrebbe la forma – o interpretazione -- invalida (falsa) VF. Per ovviare a questo inconveniente, Diodoro elabora una concezione secondo la quale un condizionale è valido quan­do "non ammise, né ammette di cominciare con il vero e fi­nire con il falso". L'esempio che egli dà è "Se non esisto­no gl’elementi atomici delle cose, esistono gl’ele­menti atomici delle cose", che, secondo Diodoro, ha l'ante­cedente sempre falso e il conseguente semprevero: ciò ba­sterà a escludere l'evenienza di un antecedente vero con un conseguente falso, unico caso in cui il condizionale sarebbe non valido La terza concezione di condizionale valido riportata da Sesto è quella che, secondo diversi studiosi moderni (Mates; Bochenski), corrisponde alla implica­zione rigida di Lewis o comunque a una forma di implicazione necessaria (Kneale; Preti). In maniera con­corde con il passo di Sesto, che abbiamo visto, questa con­ cezione viene riportata da Diogene (Vitae). ÈVERO un condizionale nel quale il contraddittorio (antikefmenon) del conseguente è incompatibile (macheta1) con l'anteceden­te, come a esempio “se è giorno, c'è luce”. Il nome del sostenitore di questa concezione non ci è sta­to lasciato da chi la riferisce. Ma vi sono prove che essa appartenesse a Crisippo (cfr. anche Miiller). La nozione di "incompatibilità", messa in scena da que­ sta definizione, è molto interessante, ma problematica in quanto non viene chiaramente definita. Hurst, commentando il passo, tende a mostrare che la relazione di incompatibilità e anche, più in generale, quella di "consequenzialità" (following, yielding), non possono essere espresse in termini estensionali, cioè mediante relazioni esterne, che sussistono tra le proposizioni in virtù di pro­ prietà che esse avrebbero al di fuori della relazione. Al con­trario, è necessario ricorrere alle relazioni interne che sussi­ stono in virtù del loro significato. Può essere interessante confrontare questa conclusione di Hurst con le osservazioni di Preti, il quale so­ stiene che l'esempio di Sesto, dato a proposito della “synar­tsis” (connectio”) sembra alludere a qualcosa di ancora più forte della strict implication di Lewis, alla vera e propria tautologia". Preti basa la sua osservazione sulle notizie circa la dottrina stoica che vengono riportate da Filodemo nel De signis. In effetti in quel testo è presentato come genuinamente stoico il metodo inferenziale della contrapposizione (ana­ skeu), che appare analogo a quello della synartsis. Infatti, l'inferenza per contrapposizione è quella in cui la negazione del conseguente comporta la negazione del­ l'antecedente. Essa si configura in maniera tale che la verità del condizionale "Se il primo, il secondo" è garantita dalla verità del corrispondente condizionale "Se non il se­condo, non il primo". Preti sottolinea le affinità tra la synartsis (secondo cui la negazione del conseguente è incompatibile con l'anteceden­te) e il metodo di contrapposizione (anaskeu) (in cui la ne­gazione del conseguente comporta la negazione dell'antece­dente), e in entrambi i casi chiama in causa la implicazione rigida di Lewis, con la precisazione che gli esempi forniti da Filodemo sembrano indicare un rapporto più forte, che ten­de a risolvere l'inferenza o in una forma di tautologia o in una forma di L-implicazione. Nel passaggio dalla teoria aristotelica del segno a quella stoica c'è, come abbiamo visto, uno spostamento di accento dai termini su cui si costruiscono le proposizioni categori­ che nel sillogismo, alle relazioni tra le proposizioni nell'as­ serto condizionale. Contemporaneamente si registra un'ac­centuazione del carattere, già presente in Aristotele, di con­sequenzialità necessaria che la relazione segnica è chiamata a istituire: l'inferenza dal termine noto a quello non noto deve presentare un carattere cogente. – cfr. Hobbes on ‘consequence’ – Computatio – e Grice, “Meaning Revisited” – x, y – consequence --. Ci sono due ragioni di questo aspetto necessaristico della semiotica stoica, una legata ali'analisi della natura della ra­ gione e dei suoi processi, l'altra riferibile alla configurazio­ ne della metafisica stoica (Lacy). Per il primo punto è Sesto43 stesso a informarci che gli stoici ritenevano che l'uomo si differenzia dagli animali per la sua capacità di discorso interno (logos endiathetos) e in virtù della sua abilità di combinare i concetti e di passare dall'uno all'altro. L'uomo possiede infatti la nozione di consequenzialità (akolouthfa) e con ciò egli possiede anche la nozione di segno, che ha appunto la forma: "Se questo,  quest'altro". Così l'esistenza del segno si pone in stretta dipendenza dalla natura del pensiero umano. Quanto al secondo punto, la metafisica stoica poggiava sull'idea che il reale fosse costituito da una catena ininter­ rotta di eventi, legati tra loro da rapporti di causa-effetto. Tali relazioni erano .:oncepite come necessarie in quanto dipendenti daiPordine razionale istituito dalla divinità. In questo modo, la consequenzialità necessaria nella relazione segnica valida riproduce quella stessa consequenzialità che si rintraccia a livello della concatenazione degli eventi. L'insistenza che gli stoici pongono sull'asserto condizionale e sull'inferenza da segni indica proprio l'enfasi da loro col­ locata sulla relazione necessaria tra concetti e proposizioni a livello logico e tra cause ed effetti a livello metafisica. Su queste basi, del resto, riposa la stessa accettazione, con riserva, della divinazione da parte degli stoici. La divi­ nazione consiste, infatti, nel cogliere la relazione che colle­ ga certi avvenimenti presenti e altri che avverranno.4 Ora, per quanto la razionalità degl’uomini sia sostanzialmente dello stesso tipo di quella che hanno gli dei, tuttavia questi ultimi possiedono la conoscenza dell'intera catena causale che lega gli eventi ("conligatio causarum omnium"), men­tre ai primi è preclusa. Gli uomini non possono conoscere dunque le cause ma solo gli indizi caratteristici delle cause ("signa causarum et notas") degli eventi e su questi si basano per predire il futuro. Ma, a differenza di quanto av­ verrebbe per gli dei, i condizionali degl’uomini intorno al futuro mancano di necessità. Nel caso della scienza umana (che per gli stoici equivale a quello della dialettica) il segno deve basarsi su un'impli­ cazione necessaria. Ma questa, che è una caratteristica irri­ nunciabile, non è tuttavia sufficiente a definire un segno. Infatti, in un condizionale come: "Se è giorno, c'è luce» il giorno non potrebbe essere considerato un segno della luce in quanto entrambe le cose sono evidenti e quindi l'in­ferenza non può provare nulla. La verità su cui si basa è certamente a priori e analitica, come sembra richiesto nel caso delle verità necessarie, ma tale condizionale è privo della caratteristica di permettere di scoprire una nuova co­noscenza. Il segno stoico, in conclusione, si deve inquadrare in uno schema logico (che è quello deli'implicazione necessaria), ma deve contemporaneamente superarlo per collocarsi in un'ottica epistemologica, nella quale esso diventa fattore dell'accrescimento del sapere: bisogna sempre tener presente che l'essenza del segno è l'inferenza che va dalle cose ma­ nifeste a quelle non percepite. Ma a questo punto sembra delinearsi nella semiotica stoi­ ca un problema difficilmente resolubile: come è possibile che l'inferenza segnica sia analitica (se si pensa alla L-impli.. cazione di cui parla Preti) e contemporaneamente fornisca una nuova conoscenza (la scoperta di un fatto nascosto)? Prendiamo come esempio di segno una dimostrazione (infatti anche la dimostrazione viene considerata, secondo la testimonianza di Sesto, un segno):- sono pori intellegibili nella pelle. - Il primo. - Dunque , il secondo . Qui l'inferenza è condotta dal fatto percepibile rappre­ sentato dallo scorrere del sudore al fatto nascosto che esi­ stano pori nella pelle. La presenza dei pori è un fatto oscuro per natura. Infatti, essi possono soltanto essere conosciuti dalla mente (noto1), ma non dai sensi in un'epoca in cui il microscopio non era ancora stato inventato. Sesto aggiun­ge, come argomento rafforzativo delle premesse nel ragio­namento precedente, un'ulteriore argomentazione: - compatto e non poroso. - Il sudore scorre attraverso il corpo. Pertanto non è possibile che il corpo sia compatto, ma esso è poroso. La premessa maggiore di questa argomentazione sembra essere basata sul test di contrapposizione (Q::jJ) applicato alla premessa maggiore del precedente. Infatti se al condi­zionale: p (se il sudore scorre attraverso la superficie del corpo) ::q (ci sono pori intellegibili nella pelle) Se il sudore scorre attraverso la superficie del corpo, ci È impossibile che un liquido scorra attraverso un corpo applichiamo il test di contrapposizione, otteniamo l} (se la pelle è un corpo compatto e non poroso) :>p (un li­quido non vi può scorrere attraverso), espressione che è alla base della premessa del secondo ra­gionamento di Sesto. Essa permette di sviluppare un ragio­namento corrispondente al MODVS TOLLENS, che convalida la conclusione del primo ragionamento. Non si saprebbe dire se gli stoici riescano a evitare, con il ricorso alla contrapposizione, la contraddizione che esiste tra la richiesta di una relazione necessaria e a priori tra le due proposizioni del condizionale e la necessità che il segno produca nuova conoscenza. Di fatto la contrapposizione rende necessaria la relazione anche nel caso di verità fattua­li, poiché parte dall'assunzione che il fatto oscuro per natu­ra sia legato a quello evidente in modo tale che ciò che è evi­ dente non potrebbe esistere se il fatto non percepito non fosse quale viene rivelato essere. Antonio Schinella Conti. Antonio Conti. Keywords: Conti’s French letters – Conti’s Scritti Filosofici, Dialoghi Filosofichi, about whether corpori celesti are inhabited -- l’infinito, self-referential, recursion, anti-sneak, regress, infinite regress in the analysis of communication, calcolo finitesimale, calcolo infinitesimale, Enea stoico, Ottavio Stoico, Cicerone stoico, semiotica stoica – allegoria dell’Eneide, scudo di Enea, Il Parmenide di Platone – assiomatico dell’essere – L’essere e. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Conti: l’implicatura conversazionale – filosofia italiana – Luigi Speranza (San Miniato). Filosofo italiano. Grice: “Conti is a good one – a historian of philosophy, or rather a philosophical historian – I never know! – his chapter on the Greek embassy that brought philosophy to Rome is stimulating!” Studia a Siena e Pisa. Si laurea a Lucca. Insegna a Lucca, Pisa, Firenze. Filosofo del bello, che define stare fra il vero e il buono, e li collega come il mezzo tra il principio e fine. Altre opere: “Cose di storia e d'arte; Evidenza, amore e fede, o i criteri della filosofia, discorsi e dialoghi. Famiglia, patria, Dio, o i tre amori”; “I discorsi del tempo in un viaggio in Italia”. In ogni città coglie occasione per un insegnamento civile; a Venezia isulla religione, a Milano sullo stato, ecc.; “Il bello nel vero, o estetica”; “Il buono nel vero, o morale e diritto naturale”. “Illustrazione delle sculture e dei mosaici sulla facciata del Duomo di Firenze”; “Il vero nell'ordine, o ontologia e logica”; “L'armonia delle cose, o antropologia”. Cerca di costruire una metafisica fondata sulla relazione, l'armonia, l'ordine; Studia l’educazione religiosa, civile e private; “Letteratura e patria, collana di ricordi nazionali”; “Nuovi discorsi del tempo, o famiglia, Patria, Dio Religione ed arte, collana di ricordi nazionali”; “Storia della filosofia”, molto accreditata. “Sveglie dell'anima. Il Messia redentore vaticinato, uomo dei dolori, re della gloria. La mia corona del rosario. Ai figli del popolo, consigli. Giovanni Duprè o Dell'arte, 2 dialoghi. Evidenza, amore e fede o i criteri della filosofia” -- lezioni e dialoghi sulla filosofia cristiana; lavoro scientifico e popolare, e discorsi sulla storia della filosofia, accordo della filosofia con la tradizione; discussione sulla filosofia e la fede. La filosofia di Dante. “Il bello qual mezzo”. Dizionario Biografico degli Italiani. Armonie ideali nell'opere belle. L'artista deve tendere al più alto se gno ideale. Ordine dell'idea chiaro che include giudizj e ragionamenti. Dialettica dell'arte, o dialettica rappre sentativa. L'idea è universale, talchè i particolari dell'arte non debbono mai ecclissare o escludere l'universalità del concetto; perché, altrimenti, arte bella non c'è’ L’ordine ideale porge alle immagini formosità. eletta, che manifestasi o per cose straordinarie, o per l'eccellenza de'modi, o per tutto ciò ad un tempo, ma ſuggendo le ampollosità.  L'ordine ideale si determina ne sezni; onde s' origina l'armonia de'con trapposti. Armonia dell'ordine ideale con la natura, legge di corrispondenza e di contrapposto anche in ció.  Armonia col divino per natura.Il gusto del Bello. Regola prossima è il gusto. Sentimento di verità, di bellezza, e di bene. Che cosa è il gusto? Ana logie del gusto intellettivo col gusto sensitivo. Urficj del gusto; sanità e infermità; abiti buoni, o vizinsi; S'esamina gli ufficj del gusto intellettivo della bellezza. Effetto del gusto. Il gusto non può mancare a ' veri artisti, e avvertenze io giudicare il gusto loro dall' opere. Quattro gradi del gusto. Aiuto che il gusto del bello riceve dal sentimento logico e dalla morale coscienza. Stato di sanità o di malattia, cioè buona o rea edu cazione.  E empj. Stato d' abiti buoni o viziosi. Esempj. Conclusione. Come si può guarire o correggere il gusto falso. Le leggi del gusto. Che cosa presuppone l'esame ch'uno faccia del proprio gusto, 3. affinchè possa regolarci un gusto buono e rettificarsi un gusto cattivo, 4. e primiera mente il derivato da falsa educazione. 5. Studio perciò di buoni esemplari. 6. Esame degli abiti viziosi, e quanto alla verità – 7. e quanto a ' fini dell'arte. - 8. Il gusto deve mostrarci il modo e il quando dell'operare. Elevazione del sentimento. 10. Verosimiglianza. Esempj. Equazione di tutti gli elementi dell'arte con l'idea. Gusto de' limiti. I limiti massi. mamente ne segni esteriori.  I Pedanti e i Licenziosi. Argomento. Che sieno i Pedanti e i Licenziosi. Significato più generale di questi vocaboli. 4. Si gnificato più proprio e stretto. Errori contrarj e vizj comuni. La pedanteria va fuori di natura. 7. Esem pj. 8. Va fuor di natura la licenza. 9. Esempj. Non comprendono l'universalità i Pedanti. Esempj. 12. Nė la comprendono Licenziosi. 13. Esempj. Non hanno vera nobiltà i Pedanti, 15. e la licenza è ignobilità. Talchè gli uni e gli altri non consegui scono fama durevole. Estro. Leggi dell'ordine immaginato.. 1. Argomento. Immaginazione. Rinnovazione di fan tasmi, 3. e innovazione o invenzione. 4. Queste per tre modi, spontaneo. pensato, meditato.Legge univer sale della fantasia e sede di quella nell'intelletto. 6. Gradi dell'invenzione immaginativa. Primo; mutamento di alcune cose percepite.Secondo; immagini di cose reali non percepite. Terzo; novità d'imma.ini fra percezioni oscure. 8. Quarto; un ordine di verosimiglianze relativo a un or dine di cose reali determinato. 9. Quinto; relativo a no tizie vaghe. 10. Sesto; relativo ad astratte generalità. 11. Settimo; fantasmi di cose semplici, spirituali, divine. 12. Ultimo; armonia universale di fantasmi e loro elevazione. 13. Perché l'estro abbia tal nome. Origini sue misteriose. 15. Estro fallace o vuoto, e vero o fecondo.  Conclusione. Armonia interna delle Immagini. Argomento. Sceltezza e vita delle immagini, Scel. tezza rispetto all'arti diverse; 3. e rispetto ai componi menti speciali d'un' arte; e rispetto agli argomenti. Sceltezza per la qualità e per la quantità. 5. Vita delle immagini, 6. come le figure d'affetto nell'arte del dire. Unione del sensibile con l'ideale. Allegoria, e 8. allegorie speciali, e vizj dell'allegoria. 10. L'im magine deve ritrarre l'idea intera; e quindi bisogna imma ginar l'opera innanzi di farla e che rispondano i par ticolari al lutto e l'e - trinseco venga dall'intrinseco, e gli accessorj dal principale. 13. Spiritualità delle im magini. 14. e vizj opposti. 15. Relazione specificata delle immagini co' segni. Armonie di verosimiglianza in generale. Argomento e legge universale di corrispondenza e di con trapposto, e come si rifletta nelle immagini dell'arte. 2. Questa legge apparisce nella qualità, quantità, tempo e spa zio. 3. Relazioni. 4. Esempj antichi di letteratura. 5. Esempj dell'éra nostra, - 6. Drammatica e lirica 7. Figure di confronto ne'linguaggi. – 8. Esempi del disegno e della musica. 9. Analogia del corporeo e dello spiritua le. 10. Loro diversità; – 11. e contrapposto nella na tura e nell'arte. 12. Verosimile immaginoso, che differi sce dal reale, benchè gli somigli. 13. Quello trascende. Poesia e architettura. 14. Scultura, pittura, musica, e arti ausiliari. Com'accade ciò. Armonie con la natura corporea. 1. Argomento. Legge naturale di simetria. 5. Vi sta e udito porgono immediati all'arte bella i sensibili rap presentati, Il lalto remotamente, il gusto e l'odorato indirettamente forniscono all'arte cose immaginabili, salvo la poesia ch'è universale.  Legge naturale di simetria ne ' visibili aspetti, - 6. e ne' suoni. - 7. Legge corrispon dente nell'arte bella. 8. Simetria di quantità nel grado. Simetria di quantità nel numero de' suoni, delle cose visibili. 11. Simetria naturale dello spazio. 12. Simetria nell'arti, quanto a’limiti. 13. Simetria di limiti anche nell'unione di più cose. Simetria di luo ghi. 15. Simetria di tempo misuratore, e di tempo rap presentato. - Armonie con la natura spirituale. Gli affetti. Somiglianza loro; 3. varietà; 4. contrapposto. 5. Personificazione immaginosa dell'unmo, 6. e della socievolezza; - 7. che dall'arti non prò mai scompagnarsi. - 8. Personificazione immaginosa del mondo materiale per tre modi. Materialismo non può spiegarla. 11. Person i ſicazione immaginosa del soprannaturale; 12. presa sostanzialmente da simboli e miti di credenze religiose; 13. ma trasformate dal. l'estro. 14. La personificazione, ritraendo l'uomo, ac cenna lo stato degli artisti e de' tempi loro. Grecia, Roma, 15. Italia; suo scadimento; letterature straniere.. 16. Anche nell' altre arti avviene lo stesso. Immaginazioni tragiche e comiche Argomento. Può l'ottimo essere argomento del l'arte bella? 3. Può il pessimo? — 15. Immaginazioni tragiche e comiche. - 5. Quando mai nasce l'immagina zione tragica più specialmente? 6. Quando la comica? 7. Condizioni dell'una, - 8. e dell' altra. La morte immaginata nell'arte, 10. eidolori del senso, tragica mente; comicamente. 12. Deformità fisiche nel rispetto tragico; 13. e nel comico. - 14. Le mostruosità nell'un rispetto, · 15. e nell'altro, e come in ciò facilmente si trasmodi. Ordine de' Segni. Stile. Pag. 176 1. Argomento. 2. Nozione generica dello stile. - 3. Nozione meno generica. - 4. Nozione determinata. 5. Ne cessità di meditare lo stile. 6. Idem. 7. Ordine dello stile. Unità. - 8. proprietà, evidenza, 9. vivezza, for. mosità. 10. verosimiglianza. Legge sua universale. - 11. L'unione di dette qualità forma il decoro. 12. Esempio di essa, - 13. Esempio del contrario. 14. La misura nello stile. 15. Sunto. Armonia intrinseca dello stile e co ' propri segni.. 1. Argomento. - 2.Unità del bello stile. 3. Si riscon tra nell'arte del dire; ne'proverbj e rispetti, · 4. nelle sentenze, 5. nel periodo, 6. nell'armonia e nell'unione del discorso. 7. Si riscontra nell' arti del disegno; nel l'architettura, 8. ch'è un discorso anch'essa; - 9. nella scultura e nella pittura, 10. simili pur esse al discorso; - 11. e nella inusica; 12. che ha disegno perfetto, o unione d'armonia e di melodia. - 13. Proprietà de' se gni; e come segni adoperino l'arte del dire, la musica, 14. l'architettura, e l'arti figurative; 15. onde viene la proprietà dello stile. 16. Conclusione. Armonia dello stile col pensiero.. 1. Argomento. 2. In che consiste l'evidenza. -3. Dee rispondere lo stile a integrità del pensiero; 4. e a varietà d'argomenti; - 5. abbracciando l'universalità dell' argo mento, proprio, 6. e distinguendolo, per poi bene com porlo. 7. Mancamento d'arte o di volontà impedisce tal perfezione. 8. Vivezza di stile, o moto, 9. nell'arte del dire, 10. nella pittura e scultura, 11. nell'archi tettor3, 12. nella musica. 13, Formosità, - 14. anche nello stile grande, e nel sublime. 15. Onde procede la deformità? 1Armonia dello stile con la natura..... 228 1. Argomento. 2. Il bello stile corrisponde alla natura dell'artista e a quella degli oggetti. 3. Non si possono separare le due relazioni senz'errore e deformità. – 4. Avvi una parte relativa all'artista; 5. e una parte relativa agli oggetti, e danno armonia. 6. La legge di corrispondenza e di contrapposto ſa nascere le diverso specie del bello stile in quei gradi che l'ordine ha varj nella natura. 7. Idem. 8. Nello stile tenue an prevalenza i simili, 9. Qua lità principale di esso è la venusià. 10. Nello stile mez. zano han prevalenza i diversi. 11. Qualità principale di  esso è la naluralezza, 12. Nello stile grande han preva lenza i contrarj. 13. Qualità principale di esso è la pe regrinità. 14. Nello stile sublime han prevalenza i contrapposli supremi. 15. Qualità principale di esso è l ' ammirabilità. Arti del Bello speciali. Cap. XL. Come si originarono le Arti speciali del Bello. Pag. 249 1. Argomento. — 2. Due generi supremi dell'arte bella, cioè arti di suono e arti di prospettiva. 3. Arte de' suoni parlati, e arte de' suoni armonizzati. 4. Arti prospettive di spazio, e arti prospettive di figura. -- 5. Arti prospettive distinte in arti di spazio imitato e di spazio naturale; in arti di figure imitate e di figure naturali. 6. Onde l'arti del disegno son distinte dall'arti di naturale amenità e dalla mimica e danza, le quali sono arti secondarie. 7. Arti ansiliari dell'arti principali e delle secondarie. 8. Diver sità di segni sensibili determinò diversità del significato, quanto al mondo esteriore, 9. e quanto al mondo interio. re. 10. Stato implicito dell'arti: poesia; 11. arti del disegno e musica. 12. Poi si distinsero l'arti del Bello fra loro; e s'esamina per la poesia, per l'architettura, 13. per l'arti figurative, 14. e per l'arte musicale. Di stinzione di ogni specie in ispecie minori. 15. Conclu sione. 16. L'arte bella fa quasi un mondo novello. Ordine fra l’ Arti speciali del Bello...... 1. argomento. 2. Criterio per giudicare i gradi dell'arti belle. 3. Segni supremamente ideali della poesia. L'ordine loro è una invenzione distinta dall'altra delle im magini. 5. Perfezione suprema de' significati poetici. 6 Ma questa precedenza rende difficile al sommo il poetare buopo. 7. In che la poesia verso l'altre arti sia inferiore. 8. Architettạra, e perfezione ideale del suo disegno. 9. Perfezione del suo significato. -- 10. In che cosa l'archi tettura è vinta dall'altre due arti del disegno. 11. Pit tura e scultura; disputa di quale fra loro primeggj, antica. - 12. S' esamina quanto a ' segni, 13. e quanto al signi ficato di queste arti. 14. Musica; in che sta un suo sin golare pregio, 15. da cui procede la potenza musicale; benche in altro rispetto la musica resti- superata. - Della Poesia.... Pag. 283 1. Argomento; definizione della poesia. -2. Come la poe sia somigli la filosofia. 3. Consentono tutti nel divario fra considerare direttamente i sensibili esterni e il conside rarne l'altinenza con l'anima. 4. Però l'idea che regola i poeti, si è l'idea dell'uomo interiore, avvivata d'immagibi. Si riscontra ciò ne' sensibili esterni, comuni alla musica e al segno e alla poesia; – 5, ne' sensibili esterni, propri solo alle rappresentazioni poetiche; - 6. ne' sensibili inter ni, che la sola poesia può prendere per oggetto immediato; - 7. e poi, nelle cose di pura intelligibilità. 8. Tanto è più alta la poesia, quanto più rende viva immagine del. l'uomo interiore; - 9. e, inoltre, quanto più rende imma gine di ciò che l'uomo dev'essere; 10. perchè il poeta tende alle più élette forme dell'anima; 11. e indi cerca immaginativamente di risolvere in armonia le contraddizioni del mondo; 12. come si riscontra ne' poeti veri del tempo antico e del nuovo, - 13. e anche ne' poeti scettici, ov'essi han vera poesia; 14. talché, quest' arte rappresenta in immagini l'universalità dell'intelletto. 15. E ogni ge nere perciò di componimenti nell'arte del dire può parteci - pare di poesia. 16. Conclusione.Le specie della Poesia. Argomento. Tre modi principali della poesia: espositivo, 3. narrativo, - 4. dialogico. sia par talora non essere imitativa nè inventiva, se cade in soggetto reale. 6. Si scioglie la difficoltà, distinguendo al. lora il soggetto reale dalla rappresentazione immaginosa. 7. Indi è varia l ' attinenza fra la poetica rappresentazione ed il soggetto. — 8. Idem. – 9. Indi anco è vario lo stile figu rato nella poesia espositiva, 10. o nella narrativa, - 11. o nella dialogica. 12. Anche il numero musicale dello stile diversifica. 13. Idem. 14. Diversifica pure l'ori. gine de' tre modi principali di poesia, l'espositivo prece dendo a tutti, 15. e poi al drammatico il narrativo. • 16. Conclusione. 302 5. La poe Dell'idioma, 1. Argomento. - 2. Lingua, in significato generale, è unità parlata della morale unità d'un popolo; 3. e che mai non manca di segni per cose antiche, 4. nè ha sino nimi perfetti. 5. Le Parlate. 6. I Dialetti. - 7. Le Lingue. 8. Scelta fra le tarlate. 9. Scelta fra' Dialetti. 10. Distinzione d'una lingua da ogni altra lingua. 11. Uso di lingua parlata, e uso di lingua scritta; 12. iden tici nell'essenza, e in che diversi, 13. Come uso di buoni scrittori giova, 14. e come giova uso di ben parlanti. 15. Realismo e Idealismo nell' usare l'idioma. 10. Con clusione. Arti del disegno. Pag 338. 1. Che cosa sono l'arti del disegno - 2. Il disegno è fon damento alle tre arti particolari.. 3. Doppia significazione del vocabolo disegno. -- 4. Ogni qualità sensibile de' corpi ha relazione con la lor forma; 5. e può risguardarsi per natura, e per l'arti del disegno, quasi accessoria. - 6. La forma ci palesa l'unità; 7. ch' esterna dipende dall ' in terno delle cose, si per natura e si per arte. 8. Esempj di ciò; e in che dunque consiste l'ordine ideato comune al l ' arti del disegno. – 9. Per acquistare il disegno, ci oc corre abito astrallivo degli occhi, - 10. fantasia ferma e viva in ritenere la linea pura, 11. e intelletto esercitato a distinguere, paragonare, comprendere i contorni; 12. nè basta vedere, ma bisogna saper vedere o guardare; 13. e in ciò sta il cosi detto giudizio degli occhi. - 14. Come si faccia l'esercizio nel disegnare. 15. Una regola princi. pale per l'arti secondarie. 16. Conclusione. Architettura.... 1. Che cosa è l'architettura. 2. Si originò dal convi. vere umano. - 3. Si distinse dall'ingegneria per fine di bel lezza, 4. ritraendo l'immagine formosa del consorzio umano, 5. Questa idea perció la rende inventiva; 6. e indi l'architettura prende significato a ' suoi disegni, 7. e anche la loro unità; 8. ehe si palesa nelle proporzioni della massa, nel congiungimento delle linee, 9. e anche negli ornamenti. – 10. Com'espressione del consorzio uma no, quest' arte abbraccia le altre arti del disegno; – 11. s' accorda co' luoghi abitati dall ' uomo, e a sė li conforma; 12. imprime la bellezza sua nelle città intere, - 13. nel l'intera patria d'una nazione, — 14. per ogni luogo di es sa; 15. e si distende a tutta la terra civile, com' efligie inica dell'incivilimento. 16. Conclusione. S ulura..... 376 1. Che cosa è la scultura. - 2. Principale soggetto al l'arti figurative si è l'aspetto umano. - 3. Più proprio della scultura è la relazione de' lineamenti con la vita interiore, anziché dell'uomo con la natura. -- 4. Indi all'arte sculto. ria il colorito e accidentale, ec. - 5. Nè la scultura di tutto rilievo ha paesaggj, che ristretti son' anche nel bassorilievo: - 6. è limitata nel figurare animali; --- 7. e anche ne'gruppi di ligure umane. - 8. Soggetto più proprio alla scultura ė la bellezza umana del corpo, e in essa si comprende la fisio. logica e la fisica. 9. E perché si dica ciò della scultura piucchè della pittura, distinguendo tra figura e forma. - 10. L'unità intera della immagine umana comparisce nella scule tura solamente. 11. Divario i'ra le due arti nel nudo e ne' panneggiamenti. 12. Limiti posti dal pudore. 13. Qual sia -dunque l'idea esemplare dell'arte scultoria, 14. E come bisogni evitare ia essa, piucché nella pittura, il freddo  ed il generico; -- 15. ma senza cascare nei vizj opposti, 16. Conclusione. Pittura.... Pag. 395 1. Che cosa è la pittura. – 2. Idea che serve d' esemplare alle immagini ed a'segni di quest'arte, cioè armonia fra l'uomo e la natura esteriore, come rilevasi dal colorito; 3. e perciò dalla figura colorata e dal prospetto aereo. - 4. Magistero essenziale della pittura è il colorito; – 5. ma non contraſfacendo i rilievi della scultura, 6. nè gareggiando con le cose reali pe' colorie per gli splendori, 7. nė pe' se goi di vitalità; gareggiamento impossibile, - 8. e dannoso; 9. bensi eleggendo que' segni che sveglino i sentimenti nell'anima nostra, come le cose di natura sogliono. 10. La pittura è visione di fantasia. 11. che splende in gen tilezze d' ornamenti, e in paesaggj. 12. e ne segni del con • versare umano, 13. e nell'unione verosimile di più tempi e luoghi, 14. e nel simboleggiare affetti sovrammondani. 15. Conclusione. 16. Utilità di tutte l' arti del dia segno. Musica...... 415 1. Che cosa è la musica. 2. Qual n'è l'idea regolatri ce. Relazione de' suoni col sentimento umano. 3. Ragione anche fisiologica di tale attinenza. 4. E indi attinenza principale di quest'arte con la voce umana. 5. Ma la relazione de' suoni col sentimento é indefinita, 6. e però la musica può indefinitamente significare ogni affetto. 7. Esprime e incita direttamente l' esaltazione degli af. fetti, 8. e viene usata per significare più vivo l'esalta. mento comune alla poesia ed all' arti del disegno. 9. Ciò apparisce altresi dal significato universale d'armonia. 10. Però idea suprema e reggitrice della musica è, ch' essa renda immagine dell' esaltazione di ogni affetto umano. La quale idea si determina nel concetto de' componimenti varj. 11. onde nasce la musicale unità, – 12. e l'invenzione di una frase principale, 13. che si svolge. - 14. Errori sulla na. tura della musica. Sensisti e Positivisti assoluti, - 15. Sen timentali, Aritmeticanti, Retoricanti. 16. Conclusione. CAP. L. Unione fra tutte l’ Arti del Bello... 434 1. Danni del separare l' Arti, e argomento. 2. Unità d' obbietto, di soggetto e di potenza prevalente nell' Arti del Bello. 3. Perfezionamenti loro successivi, e legge di que sta successione. - 4. Si risolve una difficoltà. 5. Prima si perfezionò la poesia; 6. indi l'architettura; - 7. poi la scultura, e poi la pittura; — 8. Apalmente la musica. 9. Aiuto che si porgono l'Arti; quale la poesia? – 10. quale l'architettura, 11. l'arti figurative, - 12. la musica? 13. Si conferma l'unità essenziale dell'Arti fra loro. -- 14. Ri torno del pensiero alle cose ragionate; 15 e 16. indi con clusione generale. DIALETTICA. La Filosofia e i Concetti universali. Idea della Filosofia. Che cosa è la Filosofia?  È scienza del pensiero, ma del pensiero in atto di vita, e non soltanto delle leggi logiche astratte; e però è Scienza della coscienza e dello spirito; Scienza degli oggetti connaturali al pensiero, e però di Dio, dell'universo e dell'uomo; Scienza, per tanto, delle somme cause, dell'ultime ragioni e de' primi prin cipj; Scienza, poi, della conoscenza, della scienza e della verità. Perciò nell'idea di relazione s ' appuntano i quesiti tutti della Filosofia; e ivi troviamo la sua più alta verità. Talchè la Filosofia e Scienza di Dio, del mondo e del l'uomo nell'ordine loro uoiversale; o, più breve, Scienza delle relazioni upiversali; e siccome queste forman l' ordine, dunque altresì Scienza dell'ordine universale.  Come in ogni altra Scienza, cosi nella Filosofia si ha perfezionamento, levandosi a un'idea superiore. - 12. Questa è l'idea di relazione. - 13. Ciò richiede la tendenza e il bisogoo de' postri tempi. – 14.Im portanza della Filosofia; danni d'una Filosofia separativa. — 15, Vantaggj d’una Filosofia comprensiva. 16. Sunto. La Verità.... 1. Perché dobbiamo esaminare l'idea universale di verità. 2. La verità è sempre entità conosciuta. – 5. La verità è ordine d'entità conosciuto. - 4. Si procede relazione in relazione. L'unità dell'oggetto conosciuto si comprende, si distingue, 6. si riupisce di nuovo. - 7. Però gli Antichi dissero che la verità è pei giudizj. - 8. L'errore perciò sta nel vedere l'oggetto da una parte sola, e quindi nel travedere, 9. come si rileva degli errori metafisici; - 10. nello Scet ticismo medesimo, e negli errori morali e delle Scienze fisiche. 11. Sicchè l'errore confonde, separa, nega. 12. Jadi spieghiamo il progresso della scienza e della civiltà, 13. o il regresso; 14. le invenzioni e le scoperte. – 15. esame dell'idea di verità ci mostra il costrutto semplice degli Univer sali, presupposto da ogni conoscenza. - - L'Entità. Pag. 1. Si comincia dalla nozione d'entità. — 2. Che cosa sono gli universali, - 3. Tre ordini d'universali: gli analogici, 4. gli attributi metafisici, e le condizioni universali del creato. - 5. L'uoiversale si è in ogni cosa e presentasi all'intelletto. - 6. L'idea d' entità primeggia fra gli universali. La esami Darono gli Antichi, – 7. i Padri, il Medioevo, e la Filosofia moderoa. 8. Non possono farne a meno anche gli Scettici e i Soggettivisti. 9. Questa idea non può pegarsi. Ma esaminandola, bisogna evitare tre difetti. - 11. Si tripartisce: idea dell'essere comunissimo, - 12. idea d'essenza, - 13. idea d'esistenza; – 14. com' apparisce anche da' linguaggi, 15. e dall'antica dottrina sull'essere e sulla possibilità, ch'è di tre specie. - 16. Conclusione. L'Ordine dell'entità.... t. L'idea d'ordine si distingue nell'idea di relazione, d'atto della relazione e di correlazione. 2. Che cosa è la relazione? L'esperienza ce la mostra ovunque. 3. Ogoi en tità è un tutto di relazioni, benchè, quando si tratta di cosa fioita, non essenziali. Ciò si rileva dal concetto d' essere, - 4. d'essenza e d'esistenza. – 5. La relazione poi è, o intrinseca, - 6. od estrinseca (cioè ad intra, o ad extra ). – 7. Ogni relazione si è atlo; anche le attineoze ideali o di ragione. - 8. Conie si procedè per giungere a questa universalità dell'idea d'allo. Gli Italioti, gl’lonici, Platone; 9. Aristotele; 10. i Padri, gli Scolastici, e il Cartesio; 11. il Leiboitz e la Fisica nioderna. 12. Correlazioni. Unità e triplicità in ogoi cosa. -- 13. Dottrine aptiche su ciò. - 14. Il Dogma cristiano della Trinità. - 15. Le correlazioni spiegano la legge universale de' simili e de' contrapposti, 16. Conclusione. l conoscimento dell'Ordine.. 1. Nel conoscimento dell'ordine si distingue il Vero, il Bello ed il Buono, distinta la triplice relazione della Verità col l'intelletto, benchè io significato generalissimo ogoi relazione col nostro conoscimento sia Verità. 2. L'universalità del Vero corrisponde ai gradi dell' essere; e come li notarono già i Filosofi. - 3. Cose non animate; 4. cose animate; 5. gl'intelletti, ove la presenza dell'entità è manifesta. 6. La verità è relazione dell'entità con gl’intelletti, cioè intelligibi lità. Che cosa è la Bellezza, cioè l'ammirabilitd, con trapposta al Vero. Suoi gradi, 8. ne' corpi non animati, Degli animati e negl'intelletti. 9. Che cosa è il Bene, cioè l'amabilità. Suoi gradi, — 10. ne' corpi, negli animali e nella mente, 11. Assioma che deriva dall'esame degli universali, - 12. e loro convertibilità mutua; – 13. la quale si manifesta nella scieoza, nell'arte e nella vita, perché il Buono conduce al Vero ed al Bello, - 14. e il Bello conduce al Vero e al Buono. -15. Nell'esame degli universali analogici abbiamo riscontrato le distinzioni già fatte dai Filosofi antichi e recenti. - 16. Conclusione, e come il Bello morale sia l'accordo del Vero, del Bello e del Buono. Attributi metafisici correlativi e Idea di Dio. Pag. 101 1. Esamedegli attributi metafisici, al quale ci porta l'esame degli universali analogici. — 2. Che cosa s'intende per attri buti correlativi metafisici. 3. Idee di questi attributi, tro vate nell'idea d'entitd; 4. trovate nell'idea d'ordine dela Ľentità; - 5. trovate nell'idea di conoscimento dell'ordine. - 6. L'idee degli attributi metafisici correlativi, e l'idea di Dio, non sono correlazioni astratte; - 7. nè limiti soggettivi; - 8. nè un ideale soggettivo; 9. nè, d'altra parte, sigoi ficano che Dio sia il grado supremo degli esseri; – 10. nè la parte o il tutto; 1. nè Pessenza o la sostanza delle cose contingenti. – 12. La correlazione degli attributi metafisici viene rappreseotata dall'idea del possibile fra l'idea d'Eote e l'idea d'esistente, o dall'idea d ' indefinito fra quelle d'Infinito e di finito. - 13. La correlazione stessa fu pure significata dal Gen tilesimo, 14. da' simboli suoi più notevoli, 15. e dalla simbologia naturale. - 16. Conclusione. Cap. VII. Idea di Creazione.... 121 1. Possibilità razionale della creazione. - 2. Vi ha nel pensiero umano questa idea dell'atto creativo, cioè di Causa prima. — 3. L'idea di causa si distingue dall'idea di sostanza; 4. e si riferisce ad un che, il quale comincia dal nulla quanto all'esistenza, benchè non quanto alla potenza; 5. si riferisce, poi, ad un termine distinto essenzialmente dalla cau sa, o ad extra. - 6. Più vera e più potente fra tutte le cagioni è l'intellettiva. 7. La Causa creatrice si distingue dalle cause naturali, perchè alla totalità delle cose preesiste la pos 8. perchè il soggetto, cioè la sostanza, si produce ad estra; 9. e perchè avvi efficienza intellettuale assoluta: - 10. opde la Causa creatrice fu chiamata Verbo ia tutte le Tradizioni sacre, e il mondo è arte di Dio; -11. la quale produce una somigliaoza divina nell'universo, mentre Dio non somiglia i finiti e li trascende. - 12. Gli errori e i dubbj sul dogma razionale di creazione nascono dalla fantasia, - 13. e dallo sdegoare il mistero, comune ad ogni causalita; 14. sicchè gli errori provocarono lo svolgimento del Teismo nell'età de' Padri e de' Dottori, 15. e dell'età della Riforma e del Rinnovamento. - 16. L'idea di creazione ba tanta importanza, sibilità pura; - perchè risguarda la Causa universale. CAP. VIII. Idee relative all'Entità della Natura....... 143 1. Argomento; le condizioni dell' entità: Prima condizione della natura, per l'essere suo, il quanto; 2. che si distia. gue nell'unità, 3. nel numero 4. (che non può essere infinito), 5. e pella unione delle unità. 6. Condizione seconda per l'essenza, il quale; - 7. che si distingue nella varietà, 8. nella contrarietà, 9. e nella somiglianza;. 10. più notevoli dove la oatura è più alta. - 11. Terza condizione per l'esistenza, il quando; 12. che si distingue nel momento, -13. nella successione, - 14. e nella durata; - 15. non predicabili dell' Eternità. 16. Conclusione. il pine. - Idee relative all'Ordine della Natura....... Pag. 1. L'ordine della natura viene dall' attinenza della crea zione, 2. La relazione delle cose create ci dà la dipendenza, o derivazione; 3. ossia la sostanza, - 4. la causa, 5. e l'essenza reale. - 6. L'Atto delle cose ci dà il come (quomodo); – 7. ossia il principio, 8. il mezzo, 9. e 10. Le correlazioni delle cose ci dàono il dove, che può essere correlazione ancointellettiva, 11, e correle zione materiale; - 12. ossia il punto, - 13. Y estensione particolare, 14. e lo spazio, 15, che non può essere infinito, ma è nell'infinito; 16. e il sublime si origina da cið. Cap. X. Condizioni naturali del conoscimento...... 1. Criterio della conoscenza; ove si riscontrado: l'oggetto ideale, – 3.6. l'idea, - 4. che ci fa conoscere il si mile per ilsimile, 5. (onde si spiega la formazione dell'idee universali, e la conoscenza delle cose esteriori, 6. di noi stessi, degli altri uomini, - 7. e di Dio), - 8. c. il senti mento, in relazione del quale ogoi cosa dicesi un fatto, ed esso medesimo ha questo pome. 9. Forma del bellezza; - 10. e qui si riscontrano: la cosa formata, 11. l'idea esem plare, 12. e il gusto. - 13. Legge del bene, ove si ri scontra il bene oggettivo, - 14. la felicità, - 15. e l'utilitd. - 16. Conclusione. Divisione della Filosofia e Arte dialettica. L'Enciclopedia.... 1. Per determinare i quesiti della Filosofia, bisogna ve. dere le sue parti e l'Enciclopedia o l'albero del sapere umano, Ordine di formazione, ordine di logica dipendenza. Criterio armonicamente oggettivo e soggettivo per trovare la distiozione dello scibile e l'ordinamento suo. Quattro classi di conoscenze: onde vengono la Teologia positiva, la Filosofia, le Matematiche e la Fisica. 6. Parti della Fi losofia universale. - 7. Filosofie particolari e applicate. 8. Matematica. - 9. Fisica. - 10. Storia sacra, umana, na turale. – 11. Arti filosofiche, matematicofisiche e storiche. 12. Tradizione perenne dell' Eociclopedia. – 13. Errori che la guastano. 14. Pericolo dell'Enciclopedie a dizionario, le quali spezzano la continuità del sapere. - 15. Divisione della Filosofia in tre parti: la Dialettica, l' Estetica e la Morale. - 16. Conclusione. La Dialettica. Che cosa è la Dialettica. È quasi un dialogo. Esemplare unico dell'Arte logica è la natura, -se no e s'op v'è ignoranza. L'Arte logica è osservazione di natura, - 6. se oo avvi leggerezza, impazienza e preoccupazione appas sionata. – 7. È imitazione di natura, 8. se no avvi artifi cio. – 9. È inveozione ordinativa, pop oggettiva, - 10. se no avvi l'assurdo. - 14. È per fine di verità, - 12. se no si confondono l ' arti, che per altro s' accordano e s ' aiutano. 13. La Verità, com'oggetto dell'Arte logica, viene deter minata dalle operazioni di questa, - 14. e però è ordine d'en tità ripensato, 15. ragionato, — 16. e significato. La Critica interiore vera e la falsa........ Pag. 251 1. La Critica suppose un Criterio, che paturale cono scenza porge alla riflessa. - 2. Il bisogno di Critica interiore viene dal bisogno di cercar l'origini dell'errore, e dall'altro di sceverare nelle cognizioni la parte oggettiva e la soggettiva; - 3. e però è antichissima; benchè a questa si contrapponesse Ja Critica eccessiva. 4. Esempj dell'una e dell'altra nel Cartesio e nel Kant. 5. Principiare dal dubbio universale non si può; e questa è critica smodata, o fuori di natura. 6. La riflessione filosofica deve cominciare dalla ignoranza filosofica, piuttostochè dal dubbio metodico. 7. Però la Critica eccessiva non può condurre alla scienza; pone, qualunque sia l'intenzione de' Critici, alla virtù; 9. è causa di desolazione, - 10. o di misera indifferenza. 11. Jovece per la Critica razionale s' afferma il oaturale co noscimento, 12. la forma di questo e la materia; 15. cioè la forma naturale in relazione con gli oggetti, - 14. e la realtà degli oggetti stessi, che costituiscono la materia necessa ria o coboaturale del pensiero. · 15. Postulati della Critica - 16. Ogni operosità viene impedita dal Criticismo. Cap. XIV. Verità connaturali al pensiero umano. 272 1. Tre requisiti delle verità connaturali. – 2. Esistenza di noi stessi. - 5. Errore del Kant e de' Positivisti, - 4. e loro confutazione. 5. Si riscontrano i requisiti della conoscenza naturale nella coscienza di noi stessi. – 6. Notizia del mondo esteriore, – 7. e dell'ordine suo. — 8. Opinione del Kant e de Positivisti, 9. e loro confutazione. - 10. I requisiti della conoscenza naturale si trovano nella notizia del mondo. 11. Idea di Dio. - 12. Opinione del Kapt e de' Positivisti. 13. Confutazione, 14. Si riscontrano nell'idea di Dio gli stessi requisiti o spontaneità, - 15.inconvertibililà e insepa rabilità. Da queste notizie di noi, del mondo e di Dio risulta la sostanziale totalità della coscienza. 16. La Filosofia non può disconoscere questa materia del pensiero e della scienza. CAP. XV. Armonia tra le forme della conoscenza e le cose. 294 1. Che cosa è la forma. – 2. L'armonia tra le forme del conoscimento e gli oggetti, onde provenga. 3. Apparenza sensibile, - 4. corrispondente agli oggetti percepiti; – 5. e quindi si fece da Galileo e poi dagli altri la distinzione fra le qualità primarie de' corpi e le secondarie; - 6. talchè verifi chiamo che l'apparenze sensibili son segoi reali, realmente vera. - . corrispondenti alla realtà delle cose. -7. Aoche le apparenze, che dano'occasione d'inganno, procedono da leggi di natura. - 8. La vista ci dà i segoi apparenti delle distanze. – 9. For me intellettuali, corrispondenti all'entità e verità delle cose, ue' concetti, - 10. ne giudizi, -11. e oei raziocioj. 12. Armonia tra il conoscimento di ciò ch'è o avviene deotro di noi, e il conoscimento di ciò ch'è fuori di noi: per i segoi del l'anima del corpo; – 13. per l'analogie fra l'anima l'uoj verso; - 14. per l'intendimento delle qualità e delle condi zioni d'ogoi cosa esterna; — 15. e per la conoscenza di Dio. 16. Conclusione. Principj armonici della ragione... Pag. 318 1. Che sono i principj universali della ragione. — 2. Na scono dalle idee universali, e s'ordipano com'esse. -3. Prima classe, corrispondente agli universali analogici. Per l'entitd si distinguono più principj, riflettendo all ' idee d' essere, 4. e all' idee d'essenza e d'esistenza. 5. Per l'ordine del l'entità, si distinguono, riflettendo all'idee di relazione, 6. di atto della relazione e di correlazione. - 7. Per il cono. scimento dell'ordine, si distinguono, riflettendo all' idee del Vero, – 8. del Bello e del Buono. – 9. Seconda classe, cor rispondente agli attributi metafisici correlativi. – 10. Terza classe, corrispondente alle universali condizioni della Datora fioita. Si hanno: Per l'entità di questa, i priocipj di quantild, di qualità e di tempo; 11. per l'ordine della natura, i principj di derivazione o dipendenza, - 12. di modalità e di confinazione o del dove; – 13. per il conoscimento dell'or dine, com ' esso è negl' intelletti creati, i principj che risguar dano il criterio della verità, la forma della bellezza e la regola del bene. – 14. In che stia l'utilità de' principj uni versali. – 15. Due opinioni estreme ed erronee: l' una che li Dega, l'altra che li reputa generativi di tutto il conoscimento. - 16. Conclusione. L'Osservazione...... 340 1. Materie da trattarsi. — 2. Atteozione. - 3. Osservazio ne. – 4. Riflessione. - 5. Si verifica ciò nelle verità d'espe rienza esteriore, cosi per Arte logica naturale, 6. come scientificamente. 7. Si verifica delle verità di esperieoza interiore, cosi per suggerimento di natura, 8. come per la Scienza. 9. Si verifica delle verità intellettuali pure, 10. cioè negli universali della Metafisica e delle Matematiche. 11. Si verifica nelle conoscenze ricevute dall'autorità, 12. e ipdi vien la Critica, 13. Lo stesso aodamiento si vede nel procedimento storico delle Scienze. -44. Idem,-15. Anche nel procedimento della Letteratura. 16. E anche nell'Arte pedagogica. Metodo che imita la Natura...... 1. Che cosa è l'imitazione dialettica: parte sostanziale del metodo. 2. Sintesi primitiva. – 3. Analisi. - 4. Sintesi 541 - secondaria. 5. Legge dialettica. 6. Il metodo allora è quasi un contrappuoto musicale. -7. Però non può essere nè solameote analitico, nè solamente sintetico. 8. Difetti del Puno e dell'altro, - 9. Il metodo compreosivo gli uoisce. 10. Contrarie inclioazioni di ogni età verso l'analisi eccessiva o la sintesi eccessiva. 11. Esempio del Gioberti. - 12. Il vero metodo è propriamente dialetlico o dialogico. 13. Sua utilità nelle Scienze; 14. nell' Arti del Bello, - 15. e nel ” Arti del vivere civile.. 16. Conclusione. L'invenzione dialettica..... Pag. 381 1. Che cosa è l'invenzione scientifica, o che cosa è la Scienza com'ordine meditato di conosceoze, - 2. Si comincia dalla comprensione dell'oggetto per una definizione nominale; - 3. poi si viene all'analisi con la divisione, – 4. con la tési e con l ' antitesi, con la prova dall'assurdo, e con l'elimina zione; - 5. fochè si giunge alla definizione dialettica, che può essere o intrinseca o per via disole relazioni. - 6. Poscia, passando alla sintesi, abbiamo l'ordine induttivo e il dedatti 7. Tutto questo mirabile ordinamento è una ricerca delle ragioni, e uno spiegare per esse; oode gli Antichi dis. sero che saper vero è un sapere per le cagioni; - 8. cioè per principj; - 9. e questo s'avveranella teorica degli universali, - 10. e nella Scienza dell'uomo, dell'universo e di Dio; s'avvera nelle Scieoze civili e storiche; Delle Matematiche, e nella Fisica. Indi si spiega l'invenzione degli stromenti e delle macchine; 15. come altresi la ipotesi e l'intuizione dottrinale. 16. Supto. vo. – IL FINE DELL’ARTE DIALETTICA.  Argomento. Connessione logica. Che stato der essere quello di chi cerca la verità, e DIFETTI CHE BISOGNA EVITARE. Si può errare io ciò per leggerezza,  o per una preoccupazione. CHIAREZZA e difetti da evitarsi. Errori che procedopo da leggerezza,  e da preoccupazione, prendendo per chiaro ciò che non è. Certezza; e difetti evitabili; badando anche ip ciò di non errare per leggerezza d' assensi e per qual che preoccupazione, stimando che sia certo l'incerto, e vice Connessione, chiarezza, certezza, non possono realmente trovarsi che pella verità. Si concbiude: che fine d'ogoi Scienza, e perciò anche della Filosofia, non è di dare a noi, quasi mancanti d'ogni ragionevole conoscenza, un primo conoscimento della verità, si l' ordine riflesso della co gosceoza e della verità: e poi, che L’ARTE DIALETTICA È ALTRESÌ UN ABITO MORALE; e ancora, che L’ABITO DEL PARLARE  meditato giova molto all'ordine del pensare RAGIONATO E RETTO versa.. I Criterj della Verità o Leggi universali della Dialettica. L'Evidenza, o il Criterio della Verità. Argomento, e qual sia il disegno della Dialettica, e qual ragione v'abbia di trattare qui de Criterj; e dottrina loro semplicissima. Il Criterio è uoa regola, perch'è un segno della verità in relazione con l'intelletto. Non può negar si, fuorchè negando la conoscenza; non può travisarsi, fuorchè da' sistemi sostanzialmente falsi; e vi ha una dottrina costante sulla natura del Criterio. Il Criterio è un segno apparte nente all'ordine della verità, ed è universale. II Criterio, perciò, è l ' evidenza dell' ordine di verild; è quindi uno e moltiplice, ossia è un ordine di Criterj; perch'è l' evidenza dell'ordine di verild in sè stesso, e ne' suoi contrassegni universali; cioè coutrassegni d'amore e di fede, perchè l'ordine della verità corrisponde all'ordine della nalura umana. Il Criterio vale altresi nelle cognizioni anteriori alla Scienza, 10. nè la Scienza può disco noscerlo. 14. Nella Scienza, poi, l'evidenza precede il ragionamento, l'accompagna, e lo compisce. 12. Nella Filosofia, l'evideoza del Criterio naturale si converte in evi deoza scientifica; non già perchè si comioci dal dubbio; anzi non può cominciarsi da esso, perch'è un riconoscimento. – 13. Criterio della Filosofia è l' evidenza dell'ordine universale;. 14.senza di che quella è fuor di natura. - 15. Criterio delle altre Scienze è l' evideoza d'un ordine particolare; ma in essa i Criterj sccondarj bao solo un ufficio indiretto e più ristretto. - 16. Conclusione. -L'evidenza del Teismo, come di verità ordinatrice o di Criterio supremo.... 1. Perchè la verità di Dio creatore sia Criterio compren sivo alla riflessione. 2. La Scienza de' limiti è scienza ne cessaria; e il Teismo ci avverte de' nostri limiti. 3. Questi sono la natura stessa dell'intelletto e delle cose. 4. Soprin telligibile, soprannaturale, 5. intelligibile: 6. la verità di creazione fa serbare questi limiti, e spiega il perchè del sovrintelligibile divino, –7. del sovriptelligibile naturale, 8. e ci rende liberi e sicuri nello studio delle cose intelligibili, che sono inesauste a mente umana. - 9. Quindi essa rende soddisfatto qualunque bisogno dell'uomo, e ordina le Scienze che si riferiscono a' bisogoi stessi. Teologia positiva, - 10. Filosofia, Matematica, — 11. Fisica, 12. Filosofia della Sto ria, Filologia e Critica. - 15. Quel Criterio spiega la legge del progresso in Filosofia e il regresso sofistico. – 14. I siste mi, opposti alla verità di creazione, ristringono la conoscenza riflessa, 15. e poi l'apoientano. - 16. Conclusione. - -  543 - Sistemi opposti al Criterio della Verità, e pri mieramente il Panteismo.... Pag. 472 1. Argomento. - 2. Contradizioni del Panteismo, e pro posito di affermare le contradizioni.- 3. Panteismo orientale, 4. pitagorico, - 5. eleatico ed ionico; - 6. degli Ales sandrini e Gnostici, - 7. che difendevano il Paganesimo; 8. de' Reali nel medioevo, – 9. e dell'altre Sètte; - 10. del Bruno e del Campanella 11. (sterili, se paragonati al Car tesio ed a Galileo ), · 12. dello Spinosa (non paragonabile alla fecondità del Leiboitz), - 13. de' Panteisti tedeschi, 14. e de' loro discepoli. 15. Verità grandi, che balenano dal Panteismo; 16. il quale, bensì, le travisa, e però nega i fatti più sublimi della coscienza. II Dualismo. 493 1. Argomento. - 2. Io che il Dualismo è peggio, e in che meglio del Panteismo? 5. Dualismo fra gl' Indiani. 4. D'Anassagora, - 5. di Platone, -d'Aristotele, 7. degli Stoici. - 8. Dualismo tra certi Filosofi maomettani. 9. Dualismo nella Cristianità del medioevo; 10. e come le tracce del Dualismo antico si trovino anche ne' Dottori scola stici; - 14. talchè se n'occasionava, ne' tempi della Riforma, up Dualismo nuovo, non antiteistico, macosmologico e antro pologico. – 12. Il Cartesio; – 15. ed effetti delsuo Dualismo, segnatamente nel Malebranche, - 14. e nel Leibojtz; 15. o anche nell'Idealismo, nel Sensismo e nello Scetticismo poste riori. 16. Il Dualismo riduce i contrarj a contradittorj, - talchè rompe ogoi armonia. L ' Idealismo e il Sensismo.... 515 1. Differenza fra l ' Idealismo e il Sensismo. 2. Cenno storico di questi sistemi. – 3. Io che propriamente consiste l ' Idealismo (e sbaglio d' alcuni moderni), e paragone con gli effetti del Sensismo. - 4. Vizio principale degl ' Idealisti. 5. Nel Sensismo la coscienza umana non riconosce sè stessa; 6. non l'intelletto, essenzialmente diverso dal senso; - 7. non - 8. non l'idealità; 9. non la riflessione sopra di noi; 10. non la religiosità; 11. non la certezza nella cogoizione de' corpi; 12. non la Filosofia; si solamente la Fisica, - 13. ma falsata e con metodi non suoi. - 14. E sono alterate anco le Matematiche, - 15. com' altresi la Sto ria. - 16. Sunto.  -  Lo Scetticismo...... Pag. 1. Argomento. 2. Scetticismo nell'Asia e fra gl ' Italo greci; - 3. nell'età Socratica e del medioevo; 4. nell'età moderna. – 5. Eclettici e Mistici, che non riparano allo Scet ticismo, dacchè gli concedono di partire dal dubbio. – 6. Idea Jismo scettico e Sepsismo scettico. 7. Razionalismo, 8. e Positivismo; – 9. e quindi Scetticismo metafisico, antimetafisico, - 11. che bensi trova la Metafisica per tutto. – 12. Come la natura repugoi dallo Scetticismo. 13. Con seguenze principali di questo. Desolazionee scherno. - 14. Dif ficoltà pelle controversie, o Dommatismo scettico; abito di giudicare de' fatti umani da sole circostanze esteriori. 16. Lo scetticismo riduce a nulla il pensiero. 10. e 15. e L'Amore della Verità... 22 4. Che cosa è nell'ordine suo pieno il Criterio? Condizioni intrinseche ed estrivseche per la conoscenza della Verità. 2. Sentimento e amore. 3. L' affetto è conoscenza e la cono scenza è affetto. -- 4. Bisogna secondare con la libera riflessione il naturale affetto. 5. Come l'affetto della Verità dia im pulso al ragionamento, l'accompagni e lo assicuri, e perciò bi sogna guardare a quell'impulso, 6. a quella compagnia e a quel riposo; - 7. e sbagliarono tanto i Sentimentali, che di visero l'affetto dall'evideoza; 8. quanto gli Astratteggian ti, che separarono l'evidenza dall'affetto. 9. Ufficio del l'amore di Verità nelle Matematiche ed io Fisica. - 10. Ufficio di quello in Filosofia, il quale altresì ci mostra gli affetti con naturali, che corrispondono agli oggetti della Filosofia stessa; - 11. cioè l'amore di noi medesimi e degli altri uomioi, 12. l'ammirazione affettuosa per l'ordine della natura 13. e gli affetti religiosi. – 14. Quello è anche Criterio degli Studj critici, storici e teologici. – 15. Nelle passioni l'affetto patu rale può facilmente riconoscersi. – 16. Per l'affetto la scienza si converte in sapienza. salità; Il Senso Comune... Pag. 1. Quando la parola serve di Criterio? - 2. Che cosa è il Seoso Comune? Due sigoificati di esso, - 5. dal separare i quali vennero due opinioni false, · 4. Limiti del Senso Co mune:. 5. i principj, 6. le immediate percezioni, 7. e le immediate conclusioni. 8. Ufficio diretto e generale del Senso Comune in Filosofia; non cosi nell'altre Scienze, 9. fuorchè dov'esse s' uniscono alla Filosofia stessa. - 10. Obie zioni sull'esistenza del Senso Comune, per la contrarietà delle opinioni. – 11. Obiezioni contro la testimonianza de' Lioguagej al Senso Comune, per la supposta indifferenza de' vocaboli al si e al no; – 12. per il materiale significato primitivo di parole che ricevevano poi un sigoificato spirituale. 13. Obiczioni sulla ragionevolezza d'usare il Senso Comune a Criterio, qua sichè questo sia credenza, non evidenza; - 14. quasichè vo gliamo reputarlo sapienza o scienza; 15. quasichè occor resse interrogare tutti gli uomini.. 16. Sunto, e necessità di ricondurre le Scienze alla natura, come le Arti del Bello. Tradizioni e progressi nelle Scienze... 1. Criterio delle Tradizioni scientifiche. 2. Due siguifi. cati del vocabolo Scienza. – 3. Dobbiamo verificare l'univer 4. distinguendo i principj, i teoremi, i problemi, e gli errori. 5. L'unità del consentimento non toglie la libera varietà. -6. Consentimento e progresso pe' principj e ne' teo remi, -7. e ne' problemi. – 8. Le Sètte son dimezzatrici della Verità; 99.. eppure confermano i teoremi, 10. e son’oc casione di progresso, mostrando i mancamenti della Filosofia, 11. perfezionandone la forma, 12. e alcune dottrine particolari, - 13. e le loro conseguenze nelle dottrine de'Fi losofi. – 14. Nascono due opinioni false: cioè i sosteoitori della sola evidenza privata; – 15. e i sostenitori del solo criterio storico. - 16. Conclusione. Relazioni fra le Scienze e la Religione..... 1. L'argomento, che ora si tratta, è Glosofico di sua na tura, – 2. Due significati della parola Religione. - 5. S'esclu de: che la Filosofia debba ricevere l'autorità senz' uo motivo evidente di ragione; – 4. che, per l'esame, debba sospendersi la Fede; 5. che l'autorità del verbo religioso sia un Crite rio diretto per ogni Scienza; - 6. che la Filosofia debba en trar pe' Misteri, o la Teologia nel ragionamento filosofico; – 7. che sia lo stesso metodo e lo stesso fioe a’ Filosofi e a' Teologi. - 8. Nel fatto, l'efficacia delle Religioni è universale sopra i sistemi filosofici; 9. e sempre la Religione s’ è reputata upa Fede; 10. Criterio è poi, se corrisponde alla coscienza; 11. talchè sia un'evidenza e una credenza, cioè una credenza evidente. · 12. Fa quasi specchio all' uomo interiore, - 15. che riconosce l'integrità dell'essere suo io quella. 14. Gra vissimo errore del negare validità razionale lenza non filosofica. 15. Il Criterio religioso sublima l'animo e lo ràs. serena, porgendo così le due condizioni necessarie d'ogni me. ditazione più alta. 16. Sunto. Leggi speciali della Dialettica. oi. - - Dell'Ordine, come suprema Legge razionale. Legge suprema razionale.  Leggi concrete o datu rali, Legge soprema è l'ordine. Unione de' termi. Cercare questa unione, rispetto agli oggetti, pelle operazioni, cosi dell'Arte bella e dell' Arte buona, come dell'Arte dialettica. Cercare la somiglianza de' ter mioi, –  le loro differenze, e le loro contrarietà, escludendo i contradittorj. Ksempio tolto dalla teo rica de' Criterj. Errore, deformità, male, sono disor dini. Ogni errore non altro è, che da una parte soltanto risguar dare la verità, segregandola dal resto che le appartiene, e senza cui non è più verità. - Gli errori e il male cadono d'ec cesso jo eccesso. Meraviglie della ragione umana, che imita l'ordine della natura interiore ed esteriore. Coo clusione. Ordine dell'idee Ripensamento dell'idee. L'idea, del suo valore intimo, è sempre vera; quantuoque altresi per idea s’in. tenda lutto ciò che con la riflessione s'afferma e nega; e allora l'idea può essere falsa. Bisogna esaminare il positivo del l'idee; nè può darsi un'idea negativa per sè medesima. 6. Poi bisogna esaminare l'ordine dell'idee con gli oggetti, e come non possiamo pegar l'idea d’un oggetto, se igooriamo la sua intima essenza, nè possiamo negare l'idea d'un fatto, se ignoriamo il comeavviene il fatto, ec.; e bisogoa esa minare qual sia la natura dell'oggetto, coocepita per mezzo dell' idee. - 8. Idee a priori e a posteriori? L'idee hanno fra loro uo ordine cbe va riconosciuto; 10. talcbè, riflettendo a quello, si formano idee distinle, adequale, chia -A1. e ci leviamo all'idea perfetta. Bisogna, in line, ch' esaminiamo la forma concettuale dell'idee, 13. la loro estensione e comprensione, 14. onde riconosciamo l'unità 15. per la quale l'idea è un esemplare unico di 16. Chi poo badi alla oatura dell' idee non può intendere alcuni fatti maravigliosi della patura umana. Ordine della Memoria.. 1. Argomento.La legge della Memoria è l'ordine stesso che regge l'idee. 3. Associazione dell'idee. 4. Come possono in unità raccogliersi le varie associazioni, notate da' Filosofi. 5. Quella medesima legge si distende al richiamo de' fantasmi e de'segoi. - 6. E anzi, abbraccia tutte le facoltà, concorrenti nella Memoria, 7. e unità naturale del. 8. e l'unità morale del genere umano. — 9. Que st' ordine, ch'è legge della Memoria, diviene regola. È neces saria l'attenzivce sull’idee e il raccoglimento. 10. Bisogoa 32 * re, dell' idee, molte cose. ſaomo, - considerare la coonessione dell'idee e i segni seosibili per facil. mente richiamarle. - 11. Inoltre, acquistar l'abito della ri flessione sull'ordine de' giudizj e de' raciocinj, per il pronto discorso scientifico. 12. Singolarmente quell'abito è neces sario per la Memoria delle parole. 15. Tadi procede la pa dronanza dell'esporre. 14. Per l'uoità coosapevole interna, occorre rammemorare il nostro passato. 15. Per unità morale del genere umano poi, occorre la Tradizione, ch'è me moria. – 16. Conclusione. Ordine de' giudizj.. Pag. 166 4. Argomento. 2. Co.ne dall'idee si svolgono i giudizj; - 3. onde i giudizj possibili sono distinti da’ formati o reali. - 4. Categorie, 5. oggettive e soggettive. 6. Perfezio oamento di questa dottrina. - 7. Categorie oggettive, o se condo gli Universali; 8. Categorie soggettive: 9. I. quanto alla forma concettuale dell'idee, giudizj universali, ge nerali, particolari, singolari; - 10. II. quanto alle relazioni fra l'idee, categorici, ipotetici, disgiuntivi, 11. problema tici, assertori, apodittici, - 12. diretti e comparativi, astratti e concreti, a priori e a posteriori, - 13. analitici e sintetici; - 44.III. quanto alla forma de'giudizj, affermativi, negativi, limitativi; 15. IV. quanto alla relazione di più giudizj, equipollenti, convertibili, contradittorj, contrarj e subcontrarj. 16. Conclusione; e come sia necessario, giudicando, solle varsi all'idea distinta, chiara, adequata, e quindi perfetta, di ciò che meditiamo. Ordine del ragionamento.. 186 1. Argomento. Regole. • 2. Legge dialettica. Idea media; e come il raziocinio sia un giudizio complesso che si scioglie in tre giudizj. – 4. Priocipio formale del raziocinio. - 5. Deduzione e induzione. - 6. Deduzione dal simile al diverso. – 7. Induzione dal diverso al simile. - 8. La diffe reoza tra il ragionamento deduttivo e l'induttivo, in che non può consistere? — 9. Qual'è duoque la differenza del ragiona mento deduttivo, 10. e dell'induttivo? - 11. Da essa viene la regola. 12. E, per opposto, dal violarla vengono i sofi - 13. e si vedenel dedurre, - 14. e nell'indurre.: 15. Non deve mai separarsi la 'regala formale dalla materia del ragionamento; - 16. oè la materia di questo dall'ordine suo. C.: P. Utilità del ragionamento. 206 1. Argomento. 2. Come deve intendersi che si procede dal noto all'ignoto? 5. Che cosa troviamo di nuovo per via del ragionamento? 4. Deduzione; 5. in Fisica, in Ma. tematica applicata; – 6. altre scoperte, – 7. per equipollen za, conversione, opposizione, esclusione'; 8. deduzione per via di regole applicate. – 9. Induzione, é sua certezza. --40. Induzioni fisiche. 11. Analogia. 12. Ipotesi. – 13. In duzione metafisica. – 14. Due erroriopposti: l'uso di coloro che immaginano la deduzione quasi generazione; 15. l'al tro di coloro che negano il dedurre. 16. Conclusione. smi;  Unione e varietà de'Metodi.......... Pag. 227 1. Argomento. 2. La verità, com ' ordine conosciuto, si trasforma in Metodo: può vedersi dalla Storia della filosolia, 3. e delle Scienze fisiche; 4. talchè vana è la disputa se preceda l'importanza de'Metodi o de principj; - 5. e quindi ancora si vede che il Metodo risguarda il soggello e l'oggello, e ch'è psicologico ed ontologico insieme, 6. cioè critico. - 7. Faria il Metodo; ma neile varietà c'è leggi comuoi. 8. Le varietà poi derivano dalla natura dell'argomento, 9. taotoché riesce assurdo il coofondere tra loro i Metodi; 10. e vba Scienze deduttive, 11. induttive,. 12, miste; 13. più sintetiche, o più analitiche. 14. I Metodi, variando secondo la varietà delle cose, diversificano pure secondo la mente di chi pensa la verità, 15. e secondo la mente di co loro, a cui la verità s ' espone. 16. Sunto. Abiti necessarj al ragionamento Metodo è abito, e richiede: abito di virtù, abito intellettuale che disponga l'intelletto all'Arte ragionativa, e abito dell'Arte. Abito morale, cioè amore della Verità. Bisogna essere preoccupati solo da questo amore; unito alle virtù morali, e come dagli abiti viziosi opposti s' of feoda il ragionaiento buono. Abito intellettuale del rac coglimento, donde nasce il diletto della meditazione, e che porta con sè l'abito di badare all'armonia delle facoltà e delle dottrine, e di ordinare i proprj studj. Abito intellettuale dell'Arte, cioè il possesso delle regole. 41. e dell'ordine loro; 12 donde procede la necessità di tre atti razionali abitualmente, cioè l'esame del pensiero del principio de' ragionamenti, a mezzo e io fine; 13. il quale ultimo è importantissimo; 14. e indi viene il possesso della ragione; 15. acquistato piucchè mai dall'esercizio della pewna e della disputa; 16. purchè questa sia conveniente. L’ESPOSIZIONE. Iinportanza dell'argomento, Ufbej della PAROLA: interno e SOCIALE. LA PAROLA s’unisce strettamente al pensiero, ma non lo costituisce; bensi lo determina. Non bastano i fantasmi, ma ci vuole IL SEGNO dell'idea, tanto più che IL DISCORSO esterno aiuta con la successione sua la riflessione discorsiva. LEGGE DELL’ESPOSIZIONE si è la legge dialettica; ossia determinare con la lingua l'ordine del pensiero; il che apparisce anche da' nomi che si dànoo a'termio i della proposizione e del raziocinio, e al congiungimento de' termini; e poi, la bellezza dello stile dottrinale accorda il Vero col Buono. Regola perciò è: determinare coll'ORDINE DELLA PAROLA l'ordine del pensiero; in conformità dell'idee e dell'idioma, donde si traggono le regole tutte grammaticali,  e dello stile. Quindi è impossibile separare la bellezza dell ' Esposizione dalla profondità e dall'ordine del pensiero. Se non determiniamo con le parole il proprio concetto, in conformità dell'intimo legame fra i concetti, e in conformità del linguaggic, vengono gravi errori. L’INTERPRETAZIONE E L’IMPLICATURA (“He hasn’t been to prison yet”). L'Interpretazione. Argomento. In quante maniere debba determinarsi l'ordine del pensiero ALTRUI altrui. Relazioni del DISCORSO con la lingua; e perciò la sappia, chi vuolesser critico; tutti sapere ogni liogua, non si può pè giova; e allora valersi degl'interpreti migliori. Relazioni del DISCORSO con la mente ALTRUI; e perciò stare al senso letterale, quanto si puo; oon interpretare alla leggiera né cop troppo di SOTTIGLIEZZA, non alterare né i difetti né i prenj; badare AI FINI che il testimone o lo scrittore SI PROPONEVA – “what he meant, not what he means!” -- Relazioni del DISCORSO con l' animo ALTRUI; e pero guardare alla capacità e alla veracità con argomenti intrinseci ed estrioseci;: nè la capacità negare, preoccupati da un'idea; nè, per la veracità, eccedere ne' due vizj opposti d'una Critica adulatrice o caluoniatrice. Relazioni con la Società umana; e però con l'incivilimento,  con la Religione, con l ' uniune delle prove. Sunto, Metodi secondo le varie Discipline.  Metodi speciali. Perchè i Metodi si distinguono secoudo le Discipline varie?  Quanti sono i Metodi speciali, che procedono dalla relazione varia degli oggetti con la mente? Ogni errore sostanziale di Metodo procede da un errore su detta relazione. Gli errori de' sistemi sul Metodo, esaminati, rendono testimonianza tutti insieme alla vera dottrina. La distinzione de' Metodi è necessaria pell'Arte del Vero, come si distinguono l'Aiti speciali nell'Arte del Bello;  e chi oega la differenza de' Metodi, pega implicitamente esplicitamente una qualche verità; come nell'Arti Belle, 8. cosi nell'Arte dialettica. 9. Connessione de' Metodi;. 10. e ciò si vede anco nell' Arti del Bello. Hl. Ma la connessione non toglie poi la distinzione, 12. secoudocbė il rispetto delle verità mediane o collegatrici diversifica; 13. onde bisogna rispet tare la varia competenza nelle Scienze diverse; 14. beocbe uno Scienziato possa partecipare di più Scieoze. 15. Sunto. - 16. La confusione de' Metodi è coutro il progresso della civiltà. Cap. XLII. Metodo degli Studj religiosi. 1. Argomento. 2. Proprietà del Metodo negli Studj re ligiosi. – 3. Metodo storico circa i fatti; – 4. e guardare do v apparisca propriamente la loro Storia. 5 Metodo joterpre tativo circa i fatti, -6, e le dottrine, 7. Metodo filosolico circa la possibilità razionale de' fatti dividi, 8, e come gli . 505 - Avversarj neghino irragionevolmente questa possibilità; 9. poi, circa la razionale convenienza in genere de ' fatti divini, ma esclusa sempre la necessità; - 10. poi ancora, circa la ra zionale convenienza in ispecie, cosi de preliminari della Fe de, 11. come nelle Verità misteriose. 12. Unione del Metodo filosofico, dell'interpretativo e dello storico, per le origini del Culto e per la sua universalità nel tempo, 13. per le sue relazioni universali con le Scienze e con l'Arti, 14. con la Civiltà intera, - 15. e con tutti gli altri Culti. Metodo teologico si distingue dagli altri Me. todi e vi s'accorda.. Pag. 342 1. Argomento. 2. Il Metodo teologico si distingue dal filosofico, perchè muove dall'autorità, – 3. perchè risguarda il soggetto medesimo in un rispetto differente, 4. perchè, quantunque abbia io sè una parte filosofica, non è meramente filosofico. 5. Si distingue dal Metodo critico e filologico, percbė storicameote e ioterpretativamente riconosciamo cause sovrunane, l' Intelletto sovrumano, tini soprannaturali. 6. Si distingue dal Metodo matematico, perchè risguarda la libertà divina e l'umana ne' fatti religiosi. – 7. Si distingue dal Mo todo fisico; e tal distinzione ha importanza eguale pe' Teologi, che non debbono considerare come il mondo è fatio, - 8.6 pe ' Fisici, che non debbono considerare come il moodó fu fatto. 9. Il Metodo teologico s'accorda poi col filosofico; perchè il Teologo non deve separare mai l'attinenza fra Teologia e Filo sofia che porge a quella le verità prelimioari, l'analogie razio nali e l'ordinamento; - 10. pè il Filosofo deve mai separare l'attinenza tra Filosofia e Teologia, che rende più autorevoli o efficaci le verità razionali. – 11. II Metodo teologico s'ac corda col critico, perchè il Teologo ha bisogno di guardare alla Storia universale e alla Linguistica; — 12. il Filologo ba bi sogno diguardare alla Storia religiosa e ai monumenti sacri. 13. S'accorda col matematico, per la severità del ragiona mento, per molti esempj, per molte dottrine fisicomatematiche, per l'evidenza del concetto d'infinità. – 14. S'accorda col fisi co, perchè il Teologo non deve mai tenere la scoperta di cose na - 15. pė il fisico deve spregiare la verificazione delle ipotesi, secondo le narrazioni sacre. 16. Sunto. Metodo della Filosofia.... 361 1. Argomento. — 2. Proprietà del Metodo filosofico. – 3. Raccoglimento nella coscienza. 4. Esame de' fatti interni, delle loro leggi e cause. turali; - - 5. Delle relazioni con gli oggetti; 6. e però avvi una parte del Metodo, asceosiva da'fatti agli oggetti stessi, e una parte discensiya dagli oggetti a ' fatti. -7. Si distingue dal Metodo teologico, e dal critico o filologico: 8. dal matematico, per la natura de' concetti, la natura degli oggetti; – 10. dal fisico, per la natura de' fat ti, e per le relazioni loro con gli oggetti, 11. e quindi per la ricerca delle classi loro, e leggi e cause, e per i priocipi della ragione. - 12. Si accorda col Metodo teologico per l'esa 9. e per . - me della coscienza; 13. col critico o filologico, per lo stu. dio dell'umana natura pe' fatti umani esteriori e nelle lingue; 14. col malematico, per la speculazione di verità con ma teriali; – col fisico, per l'altigenze fra le cose intellettuali e le corporee. 16, Sunto. CAP. XLV. Metodo della Filosofia Civile.... Pag. 381 1. Argomento. — 2. Proprietà del Metodo nella Filosofia Civile. Questa si fondi sopr'i fatti, – 3. badando alla notizia loro precisa e al collegamento loro. 4. Studio delle cagioni; ma fuggendo di prendere l'analogie per identità. - 5. Esame delle cagioni esteriori ed interiori, non separabili, ma distinte. - 6. Le cagioni interiori hanno più importanza: 7. ma senza trascurare l' esteriori. - 8. Si ascende alle leggi o ragio ni. Leggi supreme della Scienza storica, della Politica, della Giurisprudenza, dell'Economia. - 9. Le dette leggi non tol gono la libertà, - 10. come la libertà non toglie alle conse guenze proprie la necessità; 11. tantochè in ciò risplende l'ordine della Provvidenza. – 12. Dopo l'esame induttivo delle cagioni e leggi può farsi la deduzione, o probabile o necessa ria, di ciò ch' è avvenuto e che può avvenire. 13. Questa Filosofia delle ragioni o leggi, che governano le nazioni, non può trascurare il procedimento storico; ma neppure si può, per questo, trascurare la teorica di quelle. - 14. Talchè la Scienza civile ha due presupposti, la Storia e la batura. –15. Però il Metodo suo si distingue da ogni altro, 16. e a tutti si upisce. Metodo critico nella Storia. 401 t. Argomento. – 2. Esame de' fatti, Discipline che aiutano in ciò la Storia: Cronologia e Geografia, – 4. Archeo logia, Diplomatica, Statistica, Archeologia preistorica, Etno grafia. 5. Come si può andare in eccessi con queste disci pline. - 6. Ipercritica. – 7. Esame delle cagioni; e iodi lo Storico rifà la Storia entro di sè. 8. Cause finali, 9. particolari, generali, 10. psicologiche, A1. divine. 12. Oggettività della Storia; 15. e come ciò la renda bel lissima e ammaestrativa. – 14. Come lo storico si distingua da ogoi altro Metodo; 15, e vi si accordi. 16 Sunto, CAP. XLVII. Metodo critico nella Linguistica. 420 1. Proprietà del Metodo interpretativo delle Lingue. 2. Raccolta ed esame de' vocaboli. – 5. Come bisogna valersi dell ' uso proprio nelle Lingue parlate, e come giovino i testi moni dell'uso. A chi ricorrere per lo Lingue morte. Grammatica poi determina le classi e le leggi de' vocaboli, 5. Avvisi necessarj a far bene la Grammatica. – 6. Io che con siste la Filologia comparata. – 7. Utilità di essa, e da quali estremi bisogna fuggire. 8. Il fine dell'esame filologico è interpretativo principalmente; – 9. e ciò ne determina i con fini, i modi, 10. e le relazioni; che sono massimamente due: con la Letteratura, 11. e con la Storia, - 42. E iodi anche vediamo le indirelle relazioni della Linguistica; cioè con 4. La ca, la Teologia. 13. con la Filosofia, 14. cop la Matemati 15. e altresi con la Fisica, sempre distinguendosi da tutto ciò. 16. Sunto. Metodo matematico... Pag. 440 1. Proprietà del Metodo matematico. – 2. Quantità pore, cioè astratte da ogni altra idea. – 5. Nel che, poi, bisogna di stinguere fra l'insegnamento elementare ed il superiore. 4. Si cerchino le ragioni, sgombre da ogo' idea straniera. 5. Idea dell'Infinito, distinto dall'indefinito matematico. - 6. Il Cavalieri. – 7. Distiozione dal Metodo teologico, - 8. e relazioni con esso; dal Metodo filosofico: e accordo con la Logica, onde l'insegnamento della Matematica è razionale, 12. Distinzione dal Metodo critico, segnatamente dal letterario, 13. e accordo. - 14. Relazione col Metodo fisico. 15. Come le dimostrazioni matematiche abbian virtù di assestare gl'intelletti, e anche possano dissestarli.. 16. Sunto. Metodo nelle Scienze fisiche. Argomento. Proprietà del Metodo nelle Scienze fisiche, - 2. Prinia d'indurre si comincia dall'Analogia; 3. cbe talora non può giungere all' Induzione, 4. Può essere fonte di errori; o del troppo generaleggiare, 5. o del poco. – 6. Essa è di molta difficoltà. 7. Regola da tenersi. – 8. Indu zione. Uffioj del senso e dell'iotelletto. 9. Ci solleviamo alle 10. alle cause, - alle leggi, 12. e però al. l'ordine. Doppio errore de' Sensisti e degl ' Idealisti. 14. Frantendono allri la luduzione, ch'è legittima e necessa ria, 15. e da cui siamo condotti alla Deduziune. Suato. Cap. L. Segue del Metodo fisico; e Ordine fra le Scienze.. 479 classi, 16. 1. Argomento. – 2. Abiti che prende la meote per gli Studi fisici. – 5. Idem. 4. Necessità di mantenere l'ordine fra le Scienze. - 5. Guai, se la Fisica è usurpativa. Confusione della Fisiologia con la Psicologia: – 6. de' fatti esteriori con fl'interiori. – 7. Confusione di linguaggio, e dogmatismo. 8. Si confondono i bruti con l'uomo; – 9. la volontà con gli atti meccanicamente determinati. – 10. Si distingue il genere umano in più specie, poi si pongono le trasformazioni di tutte le specie; -- 11. si confonde l'ordine de' fini col piacere • con la materiale utilità. - Abiti cbe prende l'intelletto per gli Studj religiosi; Filosofia; - 14. per le Matema. tiche; - 15.per la Gritica. 16. Conclusione generale. STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA. Epoca dell' èra pagana. Civiltà degl' Italici. Successione dei loro sistemi.. Scuole italiche. Sistemi latini. CICERONE Giureconsulti romani.  CIVILTÀ DEGL'ITALICI. SUCCESSIONE DE'LORO SISTEMI. Tre tempi dell'incivilimento italici; i l'elasghi, la trasformazione loro negli Elleni, le colonie. - Il terzo è più nolo; quali sono i suoi termini. Cinque cagioni più principali dell'unione fra la civiltà orientale e l'italica: colonie, commerci, viaggi, lingue, tradizioni. Tre opinioni sopr’esse; tutto dall'oriente, nulla e opinione media. Dipendenza non generica nė volgare della filosofia italica; daʼsistemi orien tali. La civiltà jtalica fiorisce primamente dove più vive le comunicazioni con l’Asia e dove più ricco un anteriore incivilimento. l'ero quest'epoca si chiama oriental italica. Questa è un'età di passaggio, fra le qualità orientali e il tempo socratico. Si veda le attinenze lia filosofia italica religione e civiltà. Quanto alla religione sacerdotale, se n'ha indizi per le memorie de ' Pelasghi, de ' Misteri e degli Orfici. Celebre passo di Erodoto sulla religione de ' Pelasghi, e sul nome degli dèi posteriori ec., e conseguenze di ciò. Somigilianze tra la religione pelasgica e quella de' Bragmani. Misteri: quelli di Samotracia istituiti da 'Pelasghi; domma che s'insegnava segretamente e molto simile al panteismo dell'India. Ciò pur anche ne’ misteri eleusini; panteismo naturale, metempsicosi, immortalità, purificazione. - La teologia d’Eleusi non può interpretarsi solamente in senso fisico. Testi monianze di lode que' Misteri pel domma sull'immortalità. Le due anime; anch'in Omero ec. – Gli Orfici: qualcosa di storico v'è circa Orfeo, benché con mistura di simbolo.-- La dottrina che va sotto il nome d'Orfeo si raccoglie da tradizioni antiche e da'versi orlici. Le tradi zioni attribuiscono a Orfeo una religione collegata poi a'Misteri eleusini: cosmogonie orliche, somiglianti all'indiane. Quanto a'versi orlici, que sli non appartengono a Orfeo; ma parecchi son certamente molto antichi. Da varj ioni (che si riferiscono qui, apparisce il panteismo naturale come ne ' Vedi. Passi che fece la religione tra l'Italogreci: panteismo natu rale con molte tracce del Dio unico; adorazione degli astri, massime nel volgo; teogonie, o emanazioni sempre più specificate e che prendono attri boti e nomi distinti; individuazione ultima e volgare del politeismo, specie per opere degli artisti e de' poeti, abbandonando quasi ogni simbolo. Memorie sul combattimento fra le religiose tradizioni e il politeismo cre scente. - La filosofia, dunque, prima sacerdotale; poi sacerdotale e laicale ad un tempo; cedè inline al politeismo, rispettandolo, se non altro, come apparenza o credulità popolare. — Questo resistere al male, e poi cedergli, si vede ancora per l'altre parti della civiltà italogreca. La filosofia venne preparata da molte cagioni, e però dovè fiorirvi assai presto, anzi chè cominciare a' tempi di Talete molto dubbiosi. - La filosolia mosse da un ritorno sulla coscienza morale Questa filosofia morale e religiosa fiori, prima di Taleto, non solo in Italia ma tra gli Ionj pur anco; e se n'ha prove non dubbie. La cuola pitagorica precedeva Talute; ma va di. slinto Pitagora dal Pitagoresimo. - Molti argomenti di fatto e molte auto rità per mettere in saldo le antiche origini di tal filosofia. Anche la scuola di Xenofane antecedė Xenofane stesso; e quindi abbiamo, prima il Pitagoresimo, poi la scuola cleatica e l'ionica, infine i sistemi negativi. L'epoca dell'incivilimento italogreco si può distin guere in tre tempi; de Pelasghi (o con qual altro nome si voglia chiamare que' popoli primitivi); della trasforma zione di essi negli Elleni; delle colonie. L'età de' pelasghi o degl’antichi abitatori d'Italia si perde nella notte de’ secoli, ignoto il principio e la durata. È certo bensì, che quegl’abitatori vennero d'Oriente, come se n'ha prova in tutte le memorie e ne’ linguaggi e nelle reliquie dell'arti, e che i pelasghi, quantunque paruti barbari a Ecateo e ad Erodoto e di barbaro dialetto, sono la più antica sorgente e più copiosa delle genti e lingue e religioni elleniche (Balbo, St. d'It.; Cantù, St. univ.; Guignaut, note al Lib. IV del Creuzer, Rel. de l'antiquité. Sembraron barbari, perchè reliquie di popoli più segregati allora da'popoli nuovi, già molti passati avanti. Fatto è che di là, ove i pelasghi abitarono, fan derivare i greci la civiltà loro, dall' Elicona, dall'Olimpo e dal Pindo. Accadde poi e IN ITALIA un cozzo di popoli. Qual cozzo, e di che popoli, è molto incerto agli eruditi. Ma questo si sa, ed Erodoto l'afferma più volte, che al lora con trasformazione lunga e tempestosa i pelasghi si convertirono in elleni. Viene poi l'età delle colonie; un rovesciarsi di genti greche le une sull'altre, un invadere, un esulare, e indi un propagarsi di colonie, prima nell'Asia minore e nell'isole, poi nella Calcide, nell'Eubea, in Sicilia e SULLE COSTE D’ITALIA, e infine (propag gini di colonie da colonie) in Asia, in Tracia, sul Danubio e nel Mar Nero. Questa terza età è propriamente storica. Dell'altre due il più va ingombro di favole. La terza comincia, secondo l'Hofler assai temperato nelle cronologie, sul secolo undecimo avanti l'èra nostra. (St. Univ.) In un'età così lunga e operosa, e ch’ebbe così lunghe e ricche preparazioni, si forma la civiltà e FILOSOFIA DEGL’ITALICI -- la quale, svolgendosi nelle colonie d’ITALIAe dell'Asia minore, cedè poi al primato d' Atene; onde comincia una seconda età di filosofia. Nell'epoca di che si parla ora, in ogni tempo del l'epoca stessa, cinque cagioni principalmente mantenevano unite la civiltà orientale e l'ITLICA; colonie, commerci, viaggi, lingue, tradizioni: Le colonie, nè dico solo l'egiziane di Lelege, Danao, Cecrope ed altri, ma le prime venute dalla terra degli arii e de' persiani, e l'ultime ellene che si spargevano per l'Asia minore; i commerci, che com’appare in Omero, non cessarono mai tra ITALIA e le coste dell'Asia. I viaggi per l'Oriente, non possibili a negare in tutto, de FILOSOFI d'allora, come Ritter non nega quelli di PITAGORA A CROTONE, Ritter negatore sì voglioso. Le lingue, che certo prendevano gl'inizj degli Orientali, e con le lingue le tradizioni d'ogni maniera. Tra queste, principali le religiose, in torno a cui son tre le opinioni: da Erodoto fino a Creuzer la mitologia ITALICA, la greca segnatamente, si reputarono di provenienza orientale e il più egiziana. Ma poi Müller, Voss e altri riferirono tutto ad origine greca. Guignaut (Note al Crcuzer) ed altri con lui tennero finalmente l'opinione media. E questa si è che i germi delle credenze religiose si trapiantassero d' Asia com'anco radici e forme generali delle lingue; ne può pensarsi altrimenti, dacchè ivi coabitarono un tempo le genti ellene: ciò non impedì, nè mai l'im pedisce uno svolgimento di proprie fattezze così nelle lingue come nelle religioni: all'età poi delle colonie, quand' elle si sparsero sull' Asia minore, per l'Egeo e nel Ponto Eusino, dalle comunicazioni fra loro e i vicini orientali scaturi la fonte più copiosa d'idee e di simboli asiani, manifesta già in Esiodo ed in Omero.  Talchè (ponete mente, o signori), se lo spargersi di colonie nell'Asia minore avvenne dall’undecimo all'ottavo secolo incirca, e nel con tinente poi d'ITALIA e di Sicilia dall'ottavo al sesto, que st'ultimo fatto s'incontra per appunto col ritornare delle tradizioni orientali fra gl’elleni, e ne sorge in mezzo la filosofia nuova degl'ITALICI. Non istarò dunque a disputare com’essa deriva più o meno da’sistemi orientali, bastandomi ch'ella dipende per fermo da molte tradizioni d'Oriente o per le origini delle schiatte o pel riaccostarsi loro all'Asia. Che tal dipendenza poi de' popoli d'ITALIA, nazione antichissimamente civili e nella civiltà loro pertinaci, possa credersi affatto generica e volgare, cioè senz'efficacia sull'educazione speculativa, giudicatene voi, o signori, che pur vedete gli effetti odierni del comunicare le nazioni fra loro. Dove fu egli il primo fiorire della civiltà ITALICA? nelle colonie d'Asia e di Magna Grecia. Non già in Grecia propriamente detta. Perchè mai, o signori? La ri sposta non par malagevole. Prima che in Grecia, fiori la civiltà negl'Ionj dell'Asia minore, appunto perchè più vicini all'Asia media, sorgente de' popoli e della civiltà; e prima pure che in Grecia fiorì nella Magna Grecia, cioè in ITALIA, perchè ivi più forse ch'altrove ra dicò la civiltà pelasga, e perchè le tradizioni che fanno ionio Pitagora e ionio Xenofane, venuti tra noi, dan segno come frequenti e vive fossero le comunicazioni tra LE COSTE ITALIANE e l ' Asia minore. Dico poi, ad ogni modo, che le colonie greche trovarono in ITALIA grandi semenze di civiltà, nè però ebbero impedimento, anzi ebbero aiuto a presto incivilirsi e prosperare. Di fatto recatevi a mente, o signori, due cose molto important. Prima, che le tavole d'Eraclea, lette dl Mazzocchi, fan prova come i coloni greci prendessero dagl'ITALIOTI misure e confinazioni agrarie. Seconda, che i Lucani, i Bruzj, i Sanniti, dopo essersi ritirati davanti alle colonie greche, e riparatisi a’ monti, ne discesero poi, e le ributtarono (Hofler), talchè più non resta in ITALIA dialetti greci (in PUGLIA ve n'ha, ma di colonie recenti e fuggite dai Turchi); la qual cosa non poteva accadere, se que'popoli montanari non serbavano istituti civili. Ecco il perchè ho chiamato quest'epoca orientalita logreca (italogreca ITALIOTA per più brevità); greca, perchè filosofia di colonie greche; ITALIANA perchè sorse più splendida in ITALIA e con tradizioni italiane (italica chia marono pure i Greci, come Platone ed Aristotile, la scuola pitagorica e di VELIA); orientale, perchè con origini e comunicazioni asiatiche. Non si toglie a' Greci la loro eccellenza ' se notiamo quel ch ' essi appresero; offenderebbe la verità e loro chi loro negasse la mira bile potenza di far proprio l'imparato e di dargli bellezza e compimento; essi il ricevuto per dieci lo ridussero a mille e quel mille lo insegnarono al mondo; ecco la lor gloria vera e non superata. Quant' all'ITALIA nostra, o signori, principalmente sul terreno di lei sorse co' Pitagorici questa filosofia nuova che tanto potè su Platone e sopr’Aristotile. L’ITALIA ricevè dal 1 ° Oriente e da’Greci, l’ITALIA poi restituì alla Grecia e alla civiltà de' secoli avvenire; e potè dirsi allora quel che poi disse PLINIO. Omnium terrarum alumna et parens, omnium terrarum electa, una cunctarum gentium in toto orbe patria. Ma le lodi antiche suonano vituperio a’tra lignati: avvaloriamoci, o signori, d'emulazione e di virtù, e non di lode. E quest'epoca, di fatto (come dissi altrove), è un'età di passaggio; ritiene ancora le qualità orientali, ma che mostrano già di convertirsi nell'altre dell'età socratica. Così tra gl’ITALIOTI come tra gli Asiatici, abbiamo un sistema religioso sacerdotale; ma ora si nasconde ne' misteri, e si separa perciò interamente dalle credenze popolari che prevalgono. Tra gli uni e tra gli altri la filosofia dipende dal sistema religioso. Ma ora si svolge in un modo più laicale e più da sè stesso, perchè così ri chiede la mobilità di quelle repubbliche, e perchè il sistema religioso si rimpiatta, e nè ha sull'invecchiare il vigore speculativo degl'inni e commentarj vedici; par come un'eco de' tempi passati, più che voce vivente. E siccome la filosofia di quest'epoca pigliò i germi da' misteri (Ritter), che hanno del panteismo orientale, così ell'hanno del panteistico a mo' degl'Indiani, ma con tendenze più manifeste alla DIALETTICA che va per distinzioni anzichè per confusioni. Poi, qui come là s' unì la poesia con la speculazione, ma più altresi se ne distinse; perchè i poemi omerici non furon mai ravviluppati con una enciclopedia d'episodj. Ed i poemi scientifici di VELIA (il Sulla Natura di Parmenide) e di GIRGENTI (il Della natura di Empedocle) s'accostano alla prosa. E qui come là v'è ncertezze storiche, meno per altro. Giacchè il più delle incertezze cadono su' misteri e sulle origini pitagoriche, non già sulle scuole posteriori. Premesso ciò, si veda, o signori, qual fosse in attinenza con la filosofia la religione e la civiltà degl'ITALIOTI. Della religione, come sistema sacerdotale, me ne passerò più breve che non feci per l'India, giacchè (com ' ho detto) quel sistema era sul morire, e se n'ha meno ragguagli e meno certezza. La religione sacerdotale ITALIOTA si può ricercare in tre modi: per le notizie assai oscure dei Pelasghi, i quali tennero idee religiose più primitive e più vicine alle orientali; per le notizie scarsissime de' Misteri; per quelle degli Orfici. Essi e l'origine de' Misteri appartengono, credo, all'età di combattimento e di trasforma zione. Quanto a’ Pelasghi, Erodoto scrive che da loro non si metteva nome agli dèi; aggiunge che i nomi vennero d'Egitto e che i pelasghi non li volevano accettare, sì ne rimisero la decisione all'oracolo di Dodona, riuscito favorevole a que' nomi; e dice infine che le nascite e le forme e gli aspetti degli dèi vennero cantati da Esiodo e da Omero; tutte cose già ignote. Vuol notarsi com’Erodoto accenni pure che un simbolo osceno gli Ateniesi lo presero da’ Pelasghi, i quali ne spiegavano il senso ne' Misteri; e sappiamo di fatto che pure ne' Misteri eleusini e bacchici si mostrava i simboli femminili e maschili secondo i riti d'Oriente. Erodoto, uomo schietto, n'avvisa che il narrato da lui circ' a ' Pelasghi glie l'avevano appreso le sacerdotesse di Dodona, ma che il resto, circa le invenzioni d'Omero e d' Esiodo, lo diceva di suo. Che cosa si raccoglie, o signori, da questo luogo così famoso? Primo, che la religione de' Pelasghi era più delle succedute lontana dal politeismo; secondo, che quella si rappresentava co'sim boli orientali della generazione divina e però ne teneva i principali concetti; terzo, che il passaggio dalle divi nità innominate alle nominate, cioè da un che meno pagano ad un più, non accadde senza contrasto, e indi si ricorse agli oracoli; quarto, che tenuto il simbolo antico ed esteriore, la sua spiegazione si fece nell'in terno de' Misteri; quinto, che i nomi si suppongono venuti d'Egitto in età più recente, perchè all' Asia media non s'imputavano queste tradizioni; infine che Erodoto reca l'antropomorfismo ad invenzione di poeti, non perchè già tal errore non fosse cominciato popolar mente, ma perchè que' poeti l'ordinarono (più o men di proposito) in sistemi di mitologia, ed in modi specificati. Che poi la religione pelasgica somigliasse quella de Brag mani lo attestano Ferecide e Acusilao in Strabone (Ed. Sturz ); dicendo che i Cabiri, divinità pelasgiche, son generati da Efesto e Cabira, e che sono tre Cabiri maschi e tre femmine. (Creuzer ) Venendo a’ Misteri, abbiamo da Erodoto, non solo che i Misteri di Samotracia venissero istituiti da' Pela sghi (II, 5), ma (com’abbiamo sentito ) che altresì nel l'interno di quelli si spiegasse i simboli esterni. Come si spiegavano essi? Apollonio di Rodi serbò del vecchio storico Mnasea un luogo prezioso circa i dommi primi tivi di Samotracia. (Schol. Apoll. Rhod. ad 1, 917.) Che dommi, o signori? Similissimi a quelli dell'India. S'in segnava, di fatto, un principio onnipotente, Azieros; la materia fecondata, Aziokersa, o principio passivo; e il principio attivo, fecondatore, Asiokersos. Vuol egli dir ciò che il principio attivo ed il passivo si distinguono dall'essenza universale, Azieros o Brahm? 0 piuttosto (giacchè l' interpretazione di que' nomi non è certa ), Aziokersa, Azieros, Aziokersos e Casmilo o Cammillo che da taluno s'aggiungeva secondo Apollonio, rispon dono a Maya, a Brahma, Visnù e Siva, taciuta l'essenza universale, il Dio neutro, come non si nomina il Dio supremo nel Rig Veda? tanto più che Casmilo rispon derebbe, l'afferma Dionosidoro, ad Ermete cioè al Dio delle trasformazioni. Comunque, nell'incertezza de' docu menti tal cosa è certa, il domma samotracio mostrare analogie non poche col panteismo vedico e con la Trimurti. (Saint Croix, sur le Mystères du Paganisme; Creuzer, V, 2. ) E risponde non meno a quel panteismo la dottrina samotracia dell'età varie mondane, o che il mondo si distrugga e rinnovi per forza di fuoco. Anche ne' Misteri eleusini s'esponeva la dottrina d’un principio passivo, d'uno attivo, dell'armonia mon diale che ne nasce, e di ciò che distrugge le forme senza intermissione. Bacco, Cerere, lacco e Mercurio, ossia grecamente Dionisio, Demeter, Iacco ed Ermete, non ritraggono forse, o signori, i sistemi dell'India, del l'Egitto e della Persia? E forse su quelle divinità è, innominato, il Dio androgeno, o il Cronos e lo Zeus de' tempi remoti, divenuto poi un principio maschile, contrapposto a Giunone principio femminile. Di que' Mi steri non si sa i particolari, vietato rigorosamente il propalarli, come dice Pausania (art. Beozia) e Apollodoro (Argon. I), e come dimostra il Meursio (De Festis Græcorum). Pure, da'cenni dell'antichità si ritrae che insegnavasi nell' orgie il panteismo naturale (com’ho detto di sopra), e la metempsicosi, e l'immortalità del l'anima (forse col ritorno all'essenza divina), e la puri ficazione per mezzo della virtù. Il panteismo naturale viene indicato da CICERONE (De Nat. Deor.), che diceva: come le dottrine de'Misteri eleusini, ridotte a termini di ragione, si conosce meglio per esse la natura delle cose che quella degli dèi. Che vuol egli dire? CICERONE accusa di dottrina neramente fisica gli Eleusini, che la teogonia confondevano, in realtà con la cosmogonia, e ciò accade nel panteismo naturale. Prova, dunque, tale accusa, e viene confermato da molt' indizj, che la religione d' Eleusi somiglia il panteismo de' Vedi; di fatto, che si trattasse d'una fisica soltanto, o senza vedervi dentro la divinità o un che superiore alla natura esterna ce lo vieta lo stesso CICERONE. Egli scrive nel II “De Legibus”, che i Misteri eleusini s ' hanno da riguardare come il massimo beneficio d'Atene, perch'insegnano a viver lieti e a morire tranquilli nella speranza di vita migliore; cosa ripetuta da lui nelle Verrine, V. Dice Platone (Fedone) che l'iniziarsi a' Misteri purifica i cattivi, e dà a'buoni felicità eterna, cioè un'abitazione comune con gli dèi dopo la morte. Isocrate afferma (Panegirico) che i Mi steri mettono in cuore agl'iniziati le più dolci speranze quant'alla fine di questa vita e quant'all'altra che non finirà mai. Che poi gl'iniziati s'ammaestrassero alla virtù si ha da molti argomenti; e il Meursio dimostra che quelli si preparavano a’ Misteri con gli esercizi di castità, e poi si credevano astretti, quasi da sacramento, a rendersi migliori. Così Aristofane (Rane) mette in bocca a un coro d'iniziati queste parole: « Il sole e una luce aggradevole sono per noi che onoriamo i Misteri e osserviamo le regole della pietà verso i forestieri e verso i cittadini. » Però que' Misteri si chiamavan teleti (7: ) ett ), giacchè da loro veniva la perfezione della vita. Va notato che la me tempsicosi s' univa col domma dell'immortalità in que sto modo: credevano gli antichi che il principio animale, principio di vita e di senso, distinguasi sostanzialmente dal principio intellettivo; e che l'uno, cioè l'animale, passi di corpo in corpo, ma l'altro se ne sciolga dopo alquanti giri di secoli e in premio del vivere onesto, ritornando all'essenza universale o divina. Però si di stingueva in Persia il fervéro o genio dall' animazione, e in China Hoen da Pe, e tra gl’Indiani atma e pran, e in Grecia il démone (dzepov) o anche logo da psiche, e tra’ ROMANI “animus” da “anima”. Quindi l'anima sensitiva s'immaginò non altrimenti che come materia sottilissima, e che, divisa dal corpo, ne teneva le apparenze, erane lo spettro od il fantasma, vagante nelle notti e intorno a' sepolcri. Tal distinzione si vede pertino in Omero, allorchè Ulisse approdando a'Cimmerj inter roga i morti (Odiss.): « D'Ercole mi s'offerse alfin la possa, Anzi il fantasma; però ch'ei de' numi Giocondasi alla mensa, e cara sposa Gli siede accanto la dal piè leggiadro Ebe, di Giove figlia e di Giunone. » La terza fonte di notizie, cioè le memorie orfiche, non vanno soggette, o signori, a tanta perplessità, e può trarsene qualche costrutto; purchè evitiamo così la co moda credulità come l'eccesso de critici. S'è giunti a du bitare d'ogni realtà storica ed antica rispetto ad Orfeo; ma, quantunque la parte storica si frammischi a' por tenti della favola, e un nome (al solito) rappresenti le dottrine e i canti di più, nondimeno qualcosa di reale e d'antico vi ha; perchè Ibico (in Prisc.) che fiorì presso al 550 prima di Gesù Cristo, già ram menta Orfeo; lo rammenta Pindaro (Pith.), anzi lo chiama padre de canti apdov Tr UTEP (Ott. Mül ler, St. della Lett. Gr. ); lo rammentano ancora gli an tichi Ellenico e Ferecide e le tragedie ateniesi. Da molti luoghi di Platone (Leg. VIII; Ione, Convito, Rep. 11) apparisce che a tempo di lui eran divulgati già molti carmi col nome di Museo e d’Orfeo; questi è citato nel Filebo e nel Cratilo; e si scorge che l ' espiazioni de’de litti appartenevano alle discipline orfiche. La dottrina che va sott' il nome d’Orfeo si racco glie da tradizioni antiche e da versi orfici. Quanto alle tradizioni antiche, elle attribuiscono tutte ad Orfeo una religione, che istituita da lui si collegò quindi a Misteri d'Eleusi (Müller): e ciò conferma il già detto sulla natura di quel sistema religioso. Si rileva poi dagli antichi scrittori un sistema orfico di cosmo gonia, benchè sotto più forme, e talora v'han messo la mano autori dell' èra cristiana. Creuzer ne dà cinque di tali cosmogonie; rilevantissima quella di Ferecide Siro, pel quale son tre i principj Zeus o Giove o Cronos o l'etere, il Caos o massa inerte ch'egli vivifica, il Tempo o la durata senza limiti. E qui voi scorgete, o signori, l'indefinito ch'è concepito nell'astra zione del tempo (come tra’ Persiani ), e dall'indefinito i due principj, l'attivo ed il passivo. Nella cosmogonia che viene riferita da Atanagora e da Damascio, v’ha l'idea indiana dell' uovo nell'acque, da cui esce Eros o Fa nete, amore o manifestazione dell'armonia universale; e tal idea orfica viene rammentata negli Uccelli d'Aristofane. Il mondo, poi, si rinnova per bruciamento (co me secondo Eraclito, gli stoici, gl'Indiani e l'orgie eleu sine), in virtù di Dionisio corrispondente a Siva. (Creuzer) Mi pare che il Maury ottimamente riduca le teogonie o cosmonie orfiche a questo: Cronos genera i due principj, l'etere e il caos; il caos in virtù dell' etere prende la forma d'uovo, avviluppato dal l'erebo o dalla notte, cioè dalle tenebre primitive, a cui segue la luce o l'amore, quando l'uovo si spacca, ossia quando il germe involuto si svolge nelle sue parti: queste le idee più principali che risultano dal paragone de' più antichi testimoni. Ma i versi che ci restano sott'il nome d’Orfeo, son essi autentici? Aristotile e Cicerone negarono già che i versi propalati fin d'allora come d'Orfeo gli apparte nessero; e più n'è dubbio a' dì nostri, perchè nei primi secoli dell' èra volgare molti documenti si rimaneggia rono, e molti se ne invento. Ma dice Mullachio (Fragm. Phil. Græc., ed. Didot. Parisiis): Plerique ver sus puroque et simplici sermone insignes sunt; talchè, considerata la purità e il fare antico di molti versi, e il riscontro di varie testimonianze. ond' essi ci sono tramandati, e l'accordo loro con le tradizioni vetuste, possiamo affermare che quelli senz'essere forse d’un poeta che si chiamava Orfeo, sien per altro reliquie vere degli Orfici antichi. Udite l'inno insigne alla Natura, tradotto dal Cantù nella Storia universale e riferito negli Schiarimenti (Tauchnitz): « Natura, diva madre universale, in tante guise madre, celeste, venerabile, molto creante spirito (o cuor ), regina che tutto domi indomata, tutto governi, in tutte parti splendi, onnipossente, ve nerata in eterno, divinità a tutte superiore, indistrutti bile, primonata, antichissima,... comune a tutti, sola, incomunicabile, padre a te stessa senza padre, che per maschia forza tutto sai, tutto dài, nodrice e regina di tutto; feconda operatrice di quanto cresce, di quanto è maturo dissolvitrice, delle cose tutte vero padre e madre e nodrice e sostegno. Le quali ultime parole già udimmo per Aditi nell'inno del Rig Veda. Or bene, che dottrina s’asconde, o signori, ne' versi orfici? La stessa che ne' Vedi: la natura universale è padre e madre, ossia, principio attivo e passivo; ell’è divina, perchè non è la materia, sì l'essenza universale, spirito divino primo e materia prima in unità; è senza padre, cioè senza principio; è primonata, cioè generata da sè stessa con uscire all'atto dall'indefinita potenza; indi, ella è padre di sè stessa; infine, si palesa con tre divine opera zioni, genera tutto, sostiene tutto, distrugge tutto. In Clemente Alessandrino (Stro. V), in san Giustino (Co hort. ad Græc.), in Eusebio, nell'egloghe di Stobeo, in Proclo, in Porfirio e in altri si ha varj altri frammenti più o meno antichi, ma che rendono lo stesso sistema. Un inno ch'Eusebio prese da Aristobulo peripatetico. insegna qual sia l'unico genitore del mondo, comie lo chiamano i prischi documenti degli uomini,contro l'er rore antico, cioè contro il politeismo; e che Dio tiene in sè il principio, il mezzo e il fine. (Pr. Ev.) Riferirò un altro inno ch’Eusebio tolse da Porfirio (Ivi, e Stobeo, Eclog. Phis. 1, 2, 23, e Bibliot. del Didot, Framm. ec. p.6 ): « Primo e ultimo è Giove che splende col fulmine. Egli capo e mezzo, e a lui son create tutte le cose. Giove è nato maschio, Giove nato intatta ver gine. Egli sostiene la terra e l'aria stellata de 'cieli; ed è insieme re e padre d'ogni cosa e autore della loro origine. Unica forza e unico demone che governa tutte le cose, quest' unico le chiude tutte nel suo corpo regale, il fuoco, l'onda, la terra, l'etere, e la notte e il giorno, e il consiglio, e il primo genitore e nume del l'amore: contiene tutto ciò Giove nell'immenso corpo. E il capo esimio di lui e il volto maestoso irradia il cielo, intorno a cui sparge con molto lume la chioma pendente e aurea d'astri; e gli sta sull'alta fronte, a somiglianza di toro, un doppio corno che l'accende di fulgido oro. Ivi sono l'oriente e l'occidente, giri noti a' supremi dèi. Son occhi di lui il sole e la luna che corre di contro al sole. In lui è mente verace, ed etere regale non sottoposto a morte, il quale col consiglio muove e regge ogni cosa; e quella mente, perchè prole di Giove, non può essere nascosta da niuna voce o stre pito o suono o fama. Così, egli beato possiede e senso dell'animo e vita immortale, spandendo il corpo illu stre, immenso, immutabile e con valida forza di brac cio. A lui son omeri e petto e terga immani le ampiezze dell'aria; e con veloci e native penue precipitando, egli vola intorno a tutte le cose. La terra, madre comune, ei monti che levano l' alte cime, formano il sacro ven tre di lui ne fanno la zona media i tumidi flutti del mare sonante. L'ultima base che sostiene il nume, sta nell' intime radici della terra e negli ampj spazi del l'erebo e negli ultimi confini che inaccessa ed immota spande la terra. Tutte le cose egli nasconde primamente nel mezzo del petto, e poi le manda fuori nell'alma luce con opera divina. » Tra le figure poetiche non si può non vedere in quest'inni l'opera della riflessione che affaticasi di scoprire e spiegare l'attinenza fra Dio e l'universo, confondendola, per abuso d'induzione, con l'attinenza tra l'unità delle sostanze e la moltiplicità c mutabilità de'fenomeni. Non fa dunque meraviglia se Pitagorici, Eleati ed Ionj che presero gli esordj dalle dottrine orfiche e de' Misteri e però dall'antiche tradi zioni pelasghe, cadessero nel panteismo. Ecco dunque i passi che sembrano fatti dalla reli gione fra gl’ITALIOTE. Prima è un tal panteismo natu rale, in cui le divinità sono le forze della naturu; non le forze per altro simboleggiate, come interpretò poi la scuola de' Fisici (Plutarco la distinse sì bene dall'an tica scuola de' Teologi), bensì le forze naturali confuse con gli attributi divini. In quel panteismo, come nel Rig Veda, gli dèi son poco determinati: differiscono poco gli uni dagli altri; escono tutti e rientrano nel Dio unico (Creuzer, V, 4). Talche certi Padri pensarono ch'ei fosse un culto dell' unico Dio creatore, e tal culto contrapposero alla corruzione posteriore dell'idolatria; Storia della F lofint. 17 2 ill 1 ma, veramente, non può chiamarsi un teismo, bensì un panteismo naturale, dove nondimeno le tracce del l'unità di Dio si conservano così spiccate da causare l'opinione ch'io vi diceva. Però le divinità pelasghe non avevano un nome, dice Erodoto; e a dar loro un nome s ' opponevano le sacerdotali tradizioni (Ispot 20091). E come narra Platone nel Cratilo che prima si chiamò in genere 0: 9 le divinità, così cabiri le dissero i Pelasghi, ossia (forse) potenti; e ciò risponde agli dei complices o consentes degli Etruschi. Poi, questo panteismo naturale si ristrinse più par ticolarmente (e specie nel culto popolare) all'adorazione degli astri, dove più che in altro ci apparisce la po tenza di Dio: e che sia così l'attestano Platone (Fileb. e Crat. ) ed Aristotile (Met.). Allora Zeus o Giove fu proprio il cielo; e si mantenne questo nel detto volgare: Giove che fa? per dire: che tempo fa? Ma il panteismo naturale de' sacerdoti più e più si foggiò a sistema d'emanazioni, per ispiegare con modo determinato la dipendenza di tutto dalla causa prima; e indi le teogonie e cosmogonie orfiche e quella d’Esio do. Le operazioni divine, allora, ebbero nome partico lare, e vennero simboleggiate con immagini esterne; come narrai che la triade pelasga prese il nome dall'onnipo tenza e dalla fecondazione; e si sa del Giove con tre occhi in Argo (Pausania ), della Venere piramidale di Pafo, e co' due sessi (statuina nella bibliot. naz. di Pa rigi), dell' Apollo a quattro mani, del Sileno a due te ste, di una dea a quattro teste nel Ceramico d' Atene, del Giano bifronte, della Diana mammellata d'Efeso e della Cibele come informe pietra. Tutti questi nomi e simboli, a poco a poco divennero nomi e attributi pro pri di certe divinità specificate; e la Trimurti, le cui vestigia restano fin anche negli dèi omerici, Giove, Net tuno e Plutone, s'individuò per modo che l'un Dio non più si confuse con gli altri, e questi si moltiplicarono all'infinito. Però, questa individuazione favoriva il politeismo a volgare e si mescolava con esso, e n'era eccitata e lo eccitava; e ambedue si stabilirono più che mai con l'arti del disegno, che lasciati quasi del tutto i simboli, ri dusse gli dèi a forme umane, con alcune qualità pro prie di ciascuno. Un'ombra di simbolo restò, ma velata, nelle forme tra maschili e femminili di Bacco e d'altri dei, figura sacra dell'androgenia, quando s'abbandono la rozzezza dello scarabeo (Winkelman, St. dell'arte ec. ); e tal simbolo (sia detto di passaggio ) alcuni artisti vo gliono imitare quasi perfezione di membra umane e le sono immaginarie! Fatto sta che la scuola d'Egina, Polignoto, Fidia, Prassitele, imitando i poeti ebbero più ch'altro efficacia nel fermare quel politeismo di dèi spicciolati. Vuolsi por mente adunque, o signori, che da un lato restava la tradizione sacerdotale, benchè più e più cor rotta, e cresceva dall'altro il politeismo. Come restava la tradizione? Ne' Misteri; già lo vedemmo. E perchè mai dovè occultarsi? Dicono le memorie antiche, i primi re di Grecia e d'Italia fossero ad un tempo sa cerdoti, capitani e giudici; patriarcato ch'è origine d'ogni nazione. (Arist. Pol. III, 14. ) Le memorie stesse ci nar l'ano poi d'un contrasto lungo e sanguinoso tra le classi sacerdotali e le guerriere; il che apparisce anco nell'In die; ma se ivi le liti si composero stabilmente, fra gl'Ita logreci al contrario scapitò la classe sacerdotale che (l'accennano i racconti circa Erettéo e gli Eumolpidi) si dovè segregare in alcuni luoghi, come Eleusi, lasciando a' re tutto il resto; e così, a poco a poco, e tanto più quando sorsero i governi popolari, s'abbandonò l'inse gnamento religioso e restò solamente i riti esteriori del sacrifizio e delle feste. Quell'insegnamento, dunque, escluso da ' popoli, rifuggivasi nel mistero, in que'luoghi appunto che la classe sacerdotale abitò, com’Eleusi e i sacri querceti di Dorona. E che fa intanto la filosofia? Ella è sacerdotale dap prima, o teologia, perchè tenute le tradizioni asiatiche, cresce nel sacerdozio pelasgo ed orfico; poi, nell' età che  > il sacerdozio si separa e s’asconde, dalle semenze reli giose de' Misteri germogliano i primi sistemi come i pi tagorici, che han del sacerdotale e del laicale ad un tempo. Questa filosofia, perciò, combattè dapprima il politeismo, per esempio ne' frammenti di Xenofane che derideva il fingere dèi a somiglianza nostra. Poi, dac chè il concetto di Dio sempre più s' annebbiò, i poste riori consentirono a' tempi, e gl' Ionj, gli Eleati, e molto più i sofisti, menaron buona, se non altro come appa renza o come credulità popolare la mitologia. Nè altrimenti andò negli ordini tutti della civiltà. Di fatto; quando i governi regi si mutarono in popola reschi, molta efficacia e salutare v'ebbe la filosofia mercè i Pitagorici, e segnatamente Zeleuco e Caronda, i cui frammenti di leggi muovono dal dimostrare che Dio è; ma in progresso la filosofia non potè resistere alla li cenza, fu perseguitata, e però cadde in mano di sofisti che inventarono l'arte della parola per la parola, malvagi adulatori di plebe e mercanti di cavillo. Abbondando le ricchezze, nate da operosità, fiorirono scienza ed arte; ma successe un abito d'ozio e di godimenti, e la Magna Grecia in ITALIA e l'Ionia caddero in mollezze di trista fama. Resisterono i primi sapienti, come dimostra l'istituto pitagorico; ma cedè a poco a poco la loro austerezza, e già Xenofane canta « ch'è dolce nel verno stare al fuoco bevendo, e domándare all'ospite: quant'anni avevi tu quand' il Medo invase? » il Medo, o signori, invasore della patria ! lei sofisti, all'ultimo, la filosofia diventò l'arte di godere. Nell'ordine morale s'arrivò a tal segno ch'Ateneo rimprovera Platone, perch'e' disse nel Sofista come Parmenide di VELIA ama Zenone di VELIA; quasichè tal parola, detta di giovane, non ricevesse mai buon senso. E la filosofia, resistente dapprima co' Pitagorici, giunse co ' sofisti all'indifferenza tra bene e male; indifferenza molto diversa e peggiore dell'indiana; chè questa è non curanza del moltiplice e vario ch'apparisce, in grazia dell'unità sostanziale, ma quella è non curanza senz'al tro; ivi è un'ombra di moralità, qui nessuna. Mostrate così l ' attinenze tra filosofia, religione e ci viltà degl'Italogreci, resta che vediamo il principio e la successione de' loro sistemi. Cominciamo da dire che in tutta questa età e per confessione di tutti, v'ha incer tezza sul tempo preciso de' varj filosofi; e bisogna ri correre il più a Diogene Laerzio, autorità poco accettata. Le congetture dunque son lecite; e tutti ne fanno. Avvertirò inoltre che sul definire l'età de' tempi remoti variano le tendenze degli Orientali e de' Greci; que sti tirano al meno e quelli al più. Per che ragione? I Greci amando la certezza de' fatti, li trasportano quanto più si può nel tempo storico, e lontani dal favoloso; al contrario degli Orientali, che amano l'indefinito de se coli; effetto del panteismo. Premesso ciò, rammentate, o signori, che prima dell'undecimo secolo avanti Cristo Pelasghi ed Elleni si mescolarono insieme; e allora co minciò l'età delle colonie; e da esse la più nota civiltà ITALIOTA. Quali preparazioni vi riscontriamo noi per la filosofia? La civiltà pelasga, le dottrine orfiche, i Mi steri; inoltre le comunicazioni più che mai frequenti per l'Asia minore (dove prosperavano tante colonie) coll' Asia media. E che tempi erano quelli per l'Asia media? Rammentiamocene, o signori; erano i tempi di splendida civiltà, quando circa il mille avanti Cristo si compilavano i Vedi ed i poemi, e fiorivano le scuole di filosofia. Chi potrà dunque negare, che date tali prepa razioni e la civiltà delle colonie, e dato quell'impeto di vita civile ond' il pensiero s'agita tutto, e poste le sedi nuove in paesi non selvaggi come l' America, ma già inciviliti, sorgessero presto le speculazioni filosofi che? Non farebb' egli un'ipotesi strana chi le credesse indugiate a tre o quattro secoli dopo, fino a Talete, anzichè colui che le dicesse più meno già in via circa il mille od al novecento prima dell' èra volgare? A ogni modo, tempi precisi non se n'ha; e poichè la critica devé supplire, parmi più ragionevole vi supplisca così, che stando ad indizi già riconosciuti per poco probabili. La filosofia mosse anc' allora da un ritorno sulla coscienza morale; ce ne assicura la moltitudine di sen tenze attribuite dagli antichi a ' Sette sapienti; a uno de' quali, cioè a Chilone, si reca il detto: conosci te stesso. Abbiamo poi alcuni tra ' poeti gnomici, come le recide, della cui antichità non si dubita punto; e chi, Foclide per esempio, lo fa contemporaneo, chi anteriore a Pitagora. Le sentenze di Mimnermo, Evano, Metrodo ro, Teognide e va' discorrendo, mostrano chiaramente la riflessione sulle verità morali, benchè nascosta in afori smi. Così queste di Foclide: « Non dire mendacio, ma parla sempre con verità. Primieramente venera Dio e quindi i tuoi genitori. Non disprezzare i poveri, nè voler giudicare alcuno ingiustamente, perchè se tu giudiche rai male, Dio poi ti giudicherà. Fu da Dio a’mortali dato in uso lo spirito ch'è immagine di lui. Il corpo abbiamo dalla terra e si scioglie in essa e siam polve re, ma lo spirito va in cielo. » Or bene, io dico, e mi sembra di poter essere sicuro, che codesta filosofia morale e religiosa sorse e fiori prima del panteismo materiale di Talete e d’Anassi mandro; perchè n'ho prove storiche (come dirò), e per chè dalle tradizioni sacre orientali e orfiche non si poté saltare in un subito alla materialità. Dove fiorì? Non in Italia soltanto co ' più antichi savj della scuola ita lica, ma nell' Asia minore altresì, fra gl ' Ionj, dovunque insomma germinò la civiltà ellena. Di fatto, che che vo glia credersi delle tradizioni circa Pitagora e del suo venire dall' Ionia, esse, unite alla certezza che Xeno fane pure ne derivasse, mostrano almeno che l'antichi tà non reputò straniere agl' Ionj 1 ' idee pitagoriche ed cleate. Aggiungete che Talete ha molti più segni di spiritualità che non i posteriori; e tal peggioramento non si può negare. Perchè dunque, dimanderete, vien solo ricordata la scuola italica? La risposta è facile e il caso è comune; si ricorda i luoghi dove la scuola più crebbe e durò. y Ma la scuola pitagorica o ITALIOTA, dimanderassi an cora, ell’è anteriore a Talete, cioè al panteismo materiale degl' Ionj? Mi sembra certo, purchè si distingua Pitagora dal Pitagoresimo; questo è la totalità di dot trine comuni a tutta una scuola di filosofi; quegli è un tal nome, parte storico, parte simbolico, che può essere prima o dopo, senzachè provi l'anteriorità o posteriorità della scuola nel suo nome rappresentata. E nondimeno anche sull'età di Pitagora son diverse l' opinioni. Quanto a Pitagora, Meiners lo crede nato al 584 avanti l'èra nostra; lo crede nato Lacher al 608. Come si determina ciò? Per autorità non salde, e per vie di congetture. Talete poi, secondo Apollodoro, sa rebbe nato il 640, anteriore perciò a Pitagora; dáta non senza incertezze. (Ritter, St. della fil. ant.) Ma ecco il Niebuhr (St. Rom. I) che contrapponendo a Polibio ed a Cicerone l'autorità d'alcuni scrittori orientali, crede probabile la contemporaneità di Pitagora e di Numa; talchè andremmo più oltre che la data di Talete. Avanti alle dáte di Pitagora s'ha in ITALIA e Sicilia ZELEUCO E CARONDA, legislatori l'uno di LOCRI e l'altro di CATANIA; e ne' frammenti di quelle leggi v'ha il segno delº pitagoresimo. Il Krug fa CARONDA DI LOCRI del 668; il Benteley, l'Heyne, il Saint Croix, Centofanti, del 730. Quando Pitagora venne in Italia, in CROTONE, si dice che subito la scuola crescesse tanto di numero e di potenza, da bisognare feroci persecuzioni a spiantarli: il che umanamente non può accadere. La scuola dunque precedeva. Il personaggio di Pitagora, l'istitutore insomma del Pitagoresimo, diventa un simbolo in gran parte; il che dà segno d'antichità molta, e di tradizioni orientali. Nella scuola pitagorica è mescolanza di culto e di speculazione; e ciò indica il passaggio dall' età teologicha (MYTHOS) alla filosofica o LAICALE (LOGOS), che in modo distinto vengono più tardi. Secondo la comune leggenda, tra l'istituzione della scuola ITALIOTA, il suo prevalere anco negl' istituti civili, e la sua persecuzione, corsero pochi anni; il quale rovesciamento di favori popolari si dà presto a un uomo, tardi a un potente consorzio d'uomini. La storia di Pitagora, simbolico in gran parte, ha natura di leggenda; e sogliono le leggende avvicinare tempi lontani. Indi le confusioni dette di sopra.  Nella scuola pitagorica son chiare e molte le vestigia orfiche; talchè l'antichità di queste palesa l'antichità di quella che le raccoglie; com'elle poi diminuiscono in progresso, e appena si scorgono negl' lonj. I Pitagorici han forma di consorteria, e tra loro è comune e costante un corpo di dottrine. Ciò rammenta, o signori, gl’usi orientali che sempre più si perdono nelle repubblichette popolari; e rammenta l'antichità più remota, dove più vale l'unione e l'autorità. Aristotile dà la filosofia de' Pitagorici come una, e vi scopre solo differenze accidentali. Le tavole d' ERACLEA, lette dal Mazzocchi (come accennai già), mo strano un incivilimento anteriore, e quindi un'antica preparazione alla scienza. E delle prove d'antica civiltà nelle genti d'ITALIA recherò qui cosa che pare non fosse disputata fra' Greci, val a dire ch'essi, come dice Taziano (Or. contra Greci) prendessero da’ TOSCANI la plastica. Cousin dimostra con le autorità non ricusabili di Sozione, d' Apollodoro e di Sesto che Xenofane nasceva il 620 avanti l'èra volgare, un 60 anni circa prima di Pitagora stando agli anni di Meiners. Ora, se la dottrina di Xenofane tenne del Pitagoresimo, come mai sarebb'egli tanto più vecchio del suo maestro? Se bisogni stare alle memorie greche talquali, i capi della scuola pitagorica di CROTONE e di VELIA vennero d'Ionia; men frechè in lonia correva un tutt'altro pensare. Qui, prendendo la cosa talquale, v'ha due inverisimiglianze, prima che ne luoghi de' capiscuola non ci avesse quell'indirizzo di speculazioni, come sarebbe assurdo che d'Alemagna venissero in Italia fondatori d'eghelismo e là non n'apparisse il focolare. Seconda, che piuttosto que' filosofi cercasser favore in Italia, sé qui non preparato il terreno. Ma tutto si concilia, quando il silenzio delle mete, in tanta oscurità di tempi dissero all'incirca il più rinomato, tacquero il meno, senza negarlo bensi, chè non lo conobbero forse. Dissero la scuola ionica, tacendo la scuola religiosa comune là ed a' Magnogreci, O ITALIOTI, perchè più celebre qui; dissero i più famosi capi delle scuole ITALIOTE, tacendo le lontane e recondite preparazioni. E ch'elle ci fossero, mostra il celebre passo di Platone che fa dire a Zenone di VELIA. Queste opinioni sull'uno cominciarono da Xenofane, anzi da più antichi di lui. (Soffista.) Brandis e Ritter crederono s'alludesse ad avere quella dottrina germe innato negl' intelletti. Al che ripugna Cousin e con ragione. Prima, qui si parla storicamente e non teoreticamente. Poi, se volesse allu (lere a germi naturali e senz' origine, come mai, anzi, parlerebbe Platone di cominciamento anteriore? (te 2.2.1 i te tepisºsv č.pčarevov). De primi Pitagorici non v'è scritti; scrissero i più vicini al tempo di Socrate; e ciò per l'uso degl'insegnamenti orali, per la costanza delle tradizioni e pel segreto delle dottrine religiose. Or tutto ciò è segno d'antichità e risponde agli usi orientali. Nella scuola ionica poi sembra che fino il primo, cioè Talete, scrivesse versi, probabilmente prose (Diog. Laert. I, 34, Plut. de Pitiæ Orac. 18, Arist. Phys. ); il che mostra un fare più nuovo, e desiderio di stabilire la novità. L'uso di non iscrivere, uso lasciato si tardi da ' Pita gorici, spiega ben anco il perchè sembrò più recente « lella scuola ionia il pitagoresimo: più recenti erano le scritture, non la loro filosofia. Recherò infine (lue singolari testimonianze di Padri greci, d'Ermia verso la fine del secondo secolo, e d' Eusebio dottissi mo ne' libri originali della greca filosofia. Ermia, dun que, nell'opera Derisione de' filosofi gentili enumera le contrarie opinioni loro sull'anima, sul bene, sull'immortalità, sulla divinità e sui principj del mondo; e poichè ha.rammentato varj filosofi, viene a Pitagora e lo distingue dagli altri così: egli d'antica nazione. Qui, segnalare tra gli altri Pitagora per antichità, è notabile assai. Eusebio, poi, più espressamente nelle Preparazioni evangeliche dice: che Pitagora nacque a Samo O IN TOSCANA o altrove, ma non greco, e ch' egli fu principe de filosofi, talchè alla filosofia ITALICA di TOSCANA (ETRURIA) E CROTONA succedette la ionica e la di VELIA. Anzi anche Flavio rammenta tre filosofi prischi con quest' ordine qui, Ferecide Siro, Pitagora e Talete. Questi argomenti, la cui tesi è convalidata pure dal l'autorità di Niebuhr, di Cousin, di Gioberti (nel Buono), di Poli (Appendice al Manuale del Tennemann) e di Centofanti (Pitagora), e che non hanno in contrario argomenti positivi di tradizione, o concordi autorità di storici antichi, mi fanno sicuro che il pitagoresimo, come scuola religiosa e morale, anteceda l'altre scuole; poi venga la di VELIA, e come più affine alla prima, e come precedente a Xenofane stesso per la dottrina dell'unità universale; succeda loro l’ionica, quant'al suo cominciamento bensì, non quanto alla sua continuazione che s'accompagna (com' accade) con l'altre; e vengano infine, su che non ha dubbio, le gative. I quali sistemi darann ' argomento ad altra lezione. vole ne SCUOLE ITALCHE. Causa interiore del Pitagoresimo è la necessità d'una riforma morale: da ciò l'esame di coscienza posto per principio di filosofia e di vita buona. Cause esteriori. Si volle la riforma religiosa e morale da cui la civile, per mezzo della filosofia. - Parti non dubbie nelle memorie degl'istituti pitagorici. Notizie su Pitagora e sugli altri più famosi. Quali documenti abbiamo certi sulla scuola italica. - Il Carme aureo i antico.- Le notizie che ci danno gli Alessandrini non vanno accettate senza esame, ma nemmeno rigettate con leggerezza. - Oggetto della filo sofia pitagorica, suo fine e metodo. — Quali cagioni dettero impulso a quel metodo che fu applicazione d'idee matematiche. Ma ciò non vuol dire che lal dottrina stia in un ideolismo matematico; giacchè la monade si pensò come una forza. - Il numero rappresentava l'attinenze o l'armo. nia; indi il simbolo musicale. Due furono i significati del numero, it simbolico ed il reale. Verità del metodo matematico; suoi eccessi nel pro cedere dall'astratto al concreto: esempi varj. – Si cercò le leggi mentali della quantità effettuato nella realtà, per salire con esse a Dio, causa, ragione e legge. Dio è principio de'principj; e poichè i principj delle cose si dis ser numeri, Dio è il numero per eccellenza. -Questo è l'unità. – L'unità bensi presa, non come parte d’un tutto, ma in senso generale. - A Dio non si può applicare il concetto d'uniti nemmeno in quel senso; Dio è sopruni tà; ma l'errore precedė dalla induzione astrattiva. Si dimostra co ' do cumenti che il significato dell'unità pitagorica ė panteistico, ma ondeg giante tra il vero ed il falso. - L’unità, come per gl'Indiani, parve l'indefinito che si determina. — Grandi verità contenute nell'implicitezza di quelle dottrine. — Dio si pensó come unità suprema di tutti i contrarj; l'universo, come i contrarj in atto, e ridotti all'armonia da Dio. - L'uni tà generale o la monade che si distingue in monadi secondarie, spiega lo teoriche d'allora sugl'intervalli, sul vuoto, sull’intinito, sul finito ec. L'anima è numero, ed è nel corpo come Dio nel mondo; è l'armonia del corpo. La verità è l'uno e il numero; l'errore va fuori dell'armonia. -- Intelletto e senso. — Dio, ragione prima del conoscere, perché gl’intelletti si credettero divini. Poi, perchè Dio è il numero per eccellenza, e il nu mero è l'esemplare del mondo. Quanto alla scienza, si sbagliò cercando sempre l'assoluta necessità razionale. Numero e armonia il bene; disar monia il male. - Fine dell'anima intellettiva il ritorno all'essenza pri ma. --- Come si tentó fuggire le contraddizioni del panteismo naturale negando la cognizione diretta dell'essenza. - Xenofane tentó fuggirle col panteismo ideale. - Cinque concetti principali di Xenofane: Dio è uno; sommo potere; gli manca ogni contingenza e però non è nè finito nė infi nito né in quiete nè in moto; Dio non può nascere, perchè il non ente non può dal nulla divenire qualcosa: Dio è il tulto. — Indi segui che il mondo è apparenza. – l'armenide stabilisce chiaro il doppio aforismo degli Eleati e degl ' Ionj, e condanna il secondo. Muove dall'idea generale d'essere; Dio si fa più indefinito che in Xenofane. – Tutto è idea. Melisso fa Dio più indeterminato ancora, chiamandolo un qualcosa. -- Gli attributi della moralità non più appariscono. – Panteismo materiale de gl'Ionj: nasce in condizioni opportune. - Il moto delle cose vien conside rato nell’ente o nell'assoluto, ch'è la materia eterna divina, dotata di pensiero. – Diversità nel concepire tal moto fra ' dinamici e i meccanici. E la causa prima del moto la posero diversamente in quella cosa che più parve trasmutabile in ogni altra cosa. – Talete ba dello spirituale anco ra; la grossolanità materiale viene crescendo. Anassayora vide l'assur dità del panteismo, e prese il dualismo; ma non détte troppo alla mente. — Idealismo ateo di Protagora; materialismo di Democrito; le due forme di scetticismo particolare. Scetticismo universale di Gorgia ec. Misticismo d'Empedocle; e perché il suo sistema paia indeterminato ed ecclettico. — Due schiere d’uomini; gli atei e i l'itagorici di quel tempo: interpreta zione storica, e interpretazione fisica della mitologia. Qual è mai, o signori, la causa interna del Pitagoresimo? La necessità d'una riforma morale; necessità profondamente sentita da uomini ornati, quanto la gentilità comporta, di grandi virtù. Il conosci te stesso e esame di coscienza morale negli istituti pitagorici, e fondamento altresì di speculazione; chè, nella coscienza e'trovarono il dovere e nel dovere Dio. Cagioni esterne furono il guasto crescente della religione, de costumi e della libertà, al quale s'oppone il Pitagoresimo, e inoltre (com’ho avvertito più volte) le tradizioni e i commerci d'Oriente, le dottrine orfiche ed i Misteri. Si volle, pertanto, una riforma religiosa e morale, da cui venisse la civile; e criterio a tutto ciò désse la Scienza. Il che spiega gl'isti tuti pitagorici su cui gli Alessandrini mescolaron favole, ma la natura di consorteria e un culto segreto (Ritter ) e la sostanza dell'arti educative non cadono in dubbio. La riforma religiosa si tentò co’riti e dommi segreti; la morale con l'opporsi a tre vizi, voluttà, superbia ed avarizia, ed esercitando anima e corpo nella musica e nella GINNASTICA; la civile, domando la licenza con abiti disciplinati ossia con l'autorità (curos pz) e con la vita comune. Il discepolato morale prepara così alle speculazioni, e, preparato, s'eleva l'alunno a gradi più alti e più liberi. (Centofanti, Pitagora; Puccini.) Circa Pitagora o di Samo nella lonia o di Samo nella Magna Grecia in ITALIA, poco v'ha di sicuro e con mescolanza di simboli; pare tuttavia che un fondamento storico v’ha e ch'egli e uomo di molta dottrina e virtù. Per la dimenticanza in che vennero le colonie di Magna Grecia in ITALIA e tutte le antichità italiche dopo le conquiste di ROMA, e per la guerra feroce contro i Pitagorici, non ne sappiamo quasi nulla; li sappiamo bensì a lor tempo in molta riverenza. Si rammentano con più certezza LISSIDE, CLINIA, ED ARCHITA cittadini DI TARANTO in Magna Grecia, EURITE E FILOLAO o di TARANTO o di CROTONE. ARCHITA, il più celebre di tutti, capitana più volte gli eserciti, e non ha mai la peggio; buon padrefamiglia e cittadino, domatore di sè stesso, famoso per invenzioni e scoperte in musica ed in matematica e per libri d'agricoltura. La scuola pitagorica venne atrocemente perseguitata; molti fra gli scampati, o si rifuggirono in Grecia o si sbandarono in ITALIA. Sembra che l'odio movesse da opinioni politiche, parteggiando essi per GL’OTTIMATI; ma chi badi alla segretezza del culto attestata da Erodoto, e alla tradizione che un capopopolo attizza le ire, invelenito dal non es sere accolto nell'adunanze, s'accorgerà che trattasi qui, come per Anassagora e per Socrate, del politeismo volgare geloso e persecutore. Gli scritti col nome di TIMEO, d'ARCHITA e d'OCELLO LUCANO sono apocrifi, e i frammenti di BRONTINO e d'EURISAMO; ma non quelli di FILOLAO (vedili nel libro di Boecckh su FILOLAO, e Ritter); i quali col carme aureo e con ciò che narra Platone ed Aristotile sulla scuola ITALICA, ne dánno contezza. Nel sostanziale di essa gli storici vanno d'accordo. Quanto al Carme aureo, e's'attribuì a FILOLAO, a EPICARMO, a LISIDE, a EMPEDOCLE di Girgenti, da Crisippo a'Pitagorici. Sta il Mullachio per LISIDE; e: mostra, comunque, che ne' versi aurei non v'ha nulla di non antico, e come un alemanno, secondo l'usanza di molti critici odierni, neghi l'autenticità pel dubbio di tre’ sole parole, che a lui non paiono antiche; e antiche le dimostra il Mullachio. (Fragm. Phil. Græc. Didot). Le relazioni che ci danno del pensar pitagorico gli Alessandrini, non vogliono accettarsi senza discrezione; chè in loro la critica è poca, molta la voglia d'interpretare a lor modo gli antichi; tuttavia dire come si dice) che il Pitagoresimo, quale dagli Alessandrini si descrive, non i meriti fede per le grandi somiglianze con Platone, è dir troppo, sapendosi negli Psilli di Timone Fliasio che quegli ebbe in gran pregio i Pitagorici: « E tu, o Platone, giacchè ti possedeva l'animo il desiderio di sapere, comprasti con gran pecunia un piccolo libro, da cui imparasti a scrivere tu pure il TIMEO. (Fragm. Phil. etc. ) La filosofia de' Pitagorici, come tutta la filosofia antica, come la filosofia d'ogni tempo, meditò i primi prin cipj dell'essere, del conoscere e dell'operare. Il pensiero della causa suprema ch'è ragione e legge, vediamo bene da tutte le loro memorie che occupò quegl'intelletti for temente. Fine della filosofia parve loro ed a tutti gli antichi, la liberazione degli errori e de' mali comuni, ma con tal divario dagl'Indiani, che la speculazione dovesse congiungersi all'operosità civile. Metodo di filosofare fu il matematico; cioè l'applicazione d'idee matematiche alla natura universale, così esterna come interna, e al suo principio. Onde mai tal metodo? quali cagioni gli dettero im pulso? Già negli antichi v'ha inclinazione di filosofare a priori sul mondo (sebbene l'esperienza, anch'esterna, non s ' escludesse dai Pitagorici), perchè mancavano gli stromenti; poi, premeva più lo speculare teologico, re cato altresì nella fisica; e le lunghezze d'una fisica os servatrice non si comportavano in tempo, che i varj studj non erano scompartiti tra più dotti. Inoltre l'arimmetica e la geometria vennero d'Asia, nate tra le scienze più antiche, perchè non bisognose d'osservazione. Altresì di tali scienze s’aveva necessità tra popoli commercianti e tra colonie che dissodano terreni, asciugano paduli, e scavano canali. Più, la discordia tra' politeisti e il mono teismo - antico fece spiccare, quant'al concetto di Dio, le nozioni d'uno e di moltiplice, come anche si scorge nel vecchio Testamento. Infine, tempo é spazio ci danno la quantità, e sappiamo che l'induzione falsa indíava, come ne' Vedi, lo spazio e massime il cielo (onde l'uranismo), e il tempo (onde l’Aherene de' Persiani, il Crono de Greci, il Saturno de' Latini), talchè le tradizioni orientali e or fiche, cadendo in tali concetti, davano impulso a quel modo di filosofare. I Pitagorici, dunque, parlano dell'uno, del due, del tre, del dieci e delle combinazioni loro allorchè discor rono del mondo e di Dio. Ma si vuol credere forse che tal metodo li riducesse a vane astrazioni? ossia, ch'e'sti massero Dio e il mondo idee matematiche e nulla più? In altre parole, il Pitagoresimo fu egli un idealismo matematico? No, sicuramente; Aristotile lo spiega chiaro dicendo: ch'essi stimarono le cose una imitazione de'numeri (μίμησιν είναι τα όντα των αριτμών. Μet.). Imitazione, dunque; a leggi di numero, cioè, rispondono le cose; e la mente ritrova l'une nell'altre; e in questo è la scienza. Anzi (e va notato accuratamente ), che mai restava pe' Pitagorici, levato il composto? Restava la monade. E che cos'era la monade? Forse un'astratta unità, o l'atomo indifferente inattivo di Democrito e di Leucippo? No; ma l'essenza ch'è una forza: il concetto di forza o d' attività prevale nel Pitagoresimo, così ri spetto a Dio come rispetto al mondo. Di fatti, e ch'è mai, secondo i Pitagorici, l'ordinamento universale se non la continua limitazione (o determinazione) dell'inde finito? Ciò resulta da molti riscontri, ma singolarmente dallo specchio de contrarj (di cui parleremo). Inoltre, Dio per que’ filosofi è mente e causa o principio; causa è l'anima; e causa d'ogni armonia è l'unità. (Frag. di FILOLAO; Siriano, Com. Met. d ' Arist. XIII; Ritter St. Fil. ant.; Bertini, Idea d'una Fil. della Vita) Quindi, pe' Pitagorici, le leggi del numero e della geo metria rappresentavano l'attinenze; cioè, significavano il rispetto d'una cosa all'altra, e d'uno all'altro con cetto, l'armonie particolari e l'universale; da ciò i lor simboli musicali. Si dica pertanto, o signori, che per la scuola italica eran due i significati del numero; significato simbolico e reale. È significato reale quando noi diciamo: Dio è uno e le creature sono moltiplici; e così dicevano essi che Dio è il numero per eccellenza, cioè l'unità e la totalità d'ogni perfezione. È significato simbolico quando s'astrae i numeri a significare gli oggetti; come dicendo (per esempio) l'unità e il numero, e s'intendesse Dio e le creature; così parlavano più spesso i Pitagorici. Al lora si fa come l'algebrista un linguaggio figurativo. assai comune agli Orientali; e ciò toglie l'apparente stranezza delle parole. Il metodo matematico ha egli verità? Certo non manca di buon fondamento, perchè tutto nel mondo si distingue o d'essenza o d'accidenti o di parti, di gradi o di potenza o di atti; e tutto, dunque, è capace di numero e di misura. Per altro, le leggi matematiche non hanno da cercarsi a priori nella realtà, bensi con l'osservazione; come Galileo, osservato il cadere de corpi, vi scoperse la quantità del moto crescente. Trovata la legge matematica, s'applica poi a nuove scoperte, come dalla legge matematica delle oscillazioni s'inventò il pen dolo. Chi volesse procedere a priori, sbaglierebbe, perchè dalla idealità non si può concludere la realtà contingente; per esempio, dall'idea d'un circolo non si può conclu dere ch'e' si dia in natura. Bensì, nella realtà si scopre ognora leggi ideali a cui essa risponde sempre (come le proporzioni tra spazio e velocità nella caduta son sempre le stesse ), ed anche, esemplando il reale all'ideale, quello vi combacia, come, facendo un circolo, i raggi gli ha sempre uguali. Ebbene la scuola italica non ignorò i buoni metodi della osservazione e delle matematiche applicate; già ho notato le dottrine fisiche d'Archita; del metodo sperimentale di Polo ci ragguaglia Aristotile (Met.); le dottrine musicali d'allora fan supporre molti esperimenti; Erodoto scrivche i medici italiani erano i più reputati; e tutti sappiamo le meraviglie d'Archimede. Tuttavia il metodo astratto ebbe il diso pra. Così, rappresentando il principio, il mezzo ed il fine col numero tre, lo vedevano in ogni cosa; però Filo lao divideva il mondo in tre parti. Il numero dieci è compiuto in sè stesso, perchè si compone sommando i suoi quattro numeri primi? ebbene, dieci i pianeti. Cin que i corpi regolari nella geometria? dunque altrettanti gli elementi, e ciascun d'essi n ' ha la figura; la terra ha il cubo, il fuoco la piramide, l'aria l'ottaedro, l'ac qua l'icosaedro, l'etere il dodecaedro; e dunque, altresì cinque i sensi. Se i quattro numeri primi, sommati tra loro, fanno il dieci; e se i quattro numeri pari (2, 4, 6, 8 ) e i quattro numeri dispari (1, 3, 5, 7), sommati, fan tutt'insieme trentasei, la tetrattisi o quadernario dovrà riscontrarsi nelle cose; e quattro, per esempio, sono i gradi della vita: minerale, pianta, animale e uomo; e, ne' corpi, il punto è unità, la linea è qualità, la super ficie è triade, il solido è quadernario, si compone, cioè. di quattro punti. Questo metodo, applicato alle cose dell'esperienza, riuscì arbitrario non di rado, e se, inalzato a Dio, ne guastò il concetto per l'astrazione dell' indefinito; pure, accompagnato come fu da tradizioni buone, da molte virtù morali, da preziose osservazioni interne ed anco esterne, ed eccitando la speculazione, fece sorgere tra gli errori belle e profonde verità. Quel metodo era (com’ac cennai): trovare le leggi mentali della quantità geome trica e arimmetica effettuate nella realtà e salire con queste alla prima cagione, alla prima ragione ed alla prima legge. Però dice FILOLAO che l'intendimento mate matico è il criterio di verità. La prima cagione dell'essere, che è ella mai? Sic come i Pitagorici voller trovare i principj delle cose e il principio de principj, così precede il quesito: che son mai tali principj? Risponde Aristotile: « I Pitagorici, educati nelle matematiche, dissero i numeri esser prin cipj delle cose. » (Met.) cioè tutte le cose si ridu cono a leggi supreme di numero, e queste leggi costi tuiscono la loro essenza. Or bene, che cos' è la prima cagione? È il primo principio, per Filolao; è la causa che antecede ogni altra causa, per Archita: « quam Are chytas causam ante causam esse dicebat, Philolaus rero omnium principium esse affirmabat. » (Siriano, alla Met. Storia della Filosofi. - 1. 18  l' Arist. XIII. Dunque se i principj delle cose son numeri, il primo principio è tale altresì; o, come diceva Hierocle nel commento al Carme aureo (Fragm. Phil. Græc.): « Se tutto è numero, Dio è numero. » Che nu mero? Il numero per eccellenza. Che cos' è il numero per eccellenza? Vediamolo. Il moltiplice fa supporre l’unità; e l'unità n'è sem pre il principio; così abbiamo solido, superficie, linea, punto; questo è il principio della linea, della superficie e del solido. Dunque Dio, ch' essendo il primo principio, è il numero per eccellenza, è altresì l'uno per eccellenza. (Aless. Afrod. Comm. alla Met. d ' Arist.) Resta da ve dere che cosa sia l'uno per eccellenza. L'unità, idealmente, si può considerare e qual parte che compone la pluralità, e quale idea generica che abbracci la pluralità stessa. Diciamo: il venti è compo sto d'uno più uno, più uno ec.; ecco le unità che com pongono un tutto. Diciamo ancora: una ventina, un centinaio, un migliaio, un milione; ecco l'unità gene rica che abbraccia ogni numero, considerato come unità. Nel primo caso, l'unità è l'elemento della pluralità; nel secondo, è la forma mentale che fa capaci di compren dere in un concetto le moltiplicità sparpagliate. E in tal senso l'unità si può chiamare il numero per eccel lenza, giacchè abbraccia ogni numero. Or bene, o signori, si può egli applicare a Dio l'idea d'unità ne' detti significati? No; Dio non è il compo nente della moltiplicità; nè Dio è un che generico e comune alle moltiplicità particolari. L'unità di Dio è, a dir così, una soprunità, come, secondo i Teologi, le rela zioni personali della Trinità son soprannumero. (S. Aug. in Joann. Evang. ) Si dice uno per negare il moltiplice, nulla più; e chi confonde l'analogia di tali concetti col significato proprio, o cade nel panteismo, o accusa erro neamente la filosofia e la teologia. Si domanda, per tanto: la scuola pitagorica usò que' concetti nel signi ficato vero? Da’tre frammenti di Filolao apparisce che Dio per lui è imperatore sommo e duce, uno, eterno, permanente, immobile, simile a sè stesso, diverso dal l ' altre cose, potentissimo, supremo, e che solo conosce l'essenza eterna. Anzi, Siriano nel luogo già citato dice, che pe' Pitagorici Dio è una e singolare causa, astratta « la tutte le cose, e superiore alla dualità de' principi, la quale vedremo più qua: « Ante duo principia unam et singulam causam, et ab omni abstractam præponebat. Parrebb'egli, dunque, che l'unità de' Pitagorici sia nel senso buono? Bertini interpreta più benignamente che si può certe opinioni pitagoriche. le quali ne farebbero dubitare; e tuttavia conclude: « Il sentimento religioso e morale gl'induceva a collocare Dio molto al disopra del mondo; ma il fato della logica li forzava sovente ad immedesimarli in una sola sostanza e ricacciavali nel panteismo. » Che vuole dir mai fato della logica? Vuol dire la necessità di certe conse guenze, dati certi principj. Or via, quali son dunque i principj che menavano al panteismo, non ostante l'alte verità frammischiate in abbondanza? Era, appunto, il concepire Dio quasi unità generica, o numero per eccel lenza; e questo in grazia della non buona induzione. Di fatto, poichè i numeri son pari ed impari, e l'unità, cioè il numero genericamente preso, s'estende ad en trambi; così la scuola pitagorica chiamò Dio pari ed impari, e diceva che l' uno è l'essenza di tutte le cose (Arist. Met. I ); l'essenza delle cose chiamata eterna (la FILOLAO; che inoltre affermò, le cose diverse e con trarie non istarebbero senz'armonia, e tale armonia è il numero per eccellenza, cioè Dio; aggiunse, che tal numero è legame all'eterna durata del mondo; anzi (e questo val più ), esso legame produce sè stesso. (V.framm. i FILOLAO nel Ritter. St. della Fil. ant.) Finalmente. Dio pe' Pitagorici è limitato ed illimitato ad un tempong 11pTLOTES PITTOy, Arist. Met. 1. ) Par dunque certo ch ' essi concepivano Dio com'unità generica, in cui s 'uniscono potenzialmente i contrarj del mondo, pari e dispari, femmina e maschio, male e bene, e via discorrendo; contrarj che si distinguono attualmente quando il potenziale viene all'atto, e l'illimitato si limita, e l'essenza universale (conosciuta solo da Dio, cioè da sè stessa) si determina mano a mano ne' fenomeni. Dubitò il dotto Bertini che s'intendesse da' Pitagorici, non dimmedesi mare le cose in un' essenza, ma d'accennare che Dio la in sè i contrari perchè li supera. E non esito punto a dire che ciò e ' tenevano forse, ma in confuso, e la con fusione generava il panteismo. Di fatto, se quel concetto era limpido, essi non avrebber detto che Dio è pari ed impari; giacchè i contrarj sono il modo finito delle per fezioni mondane, e però non si contengono in Dio. Si risponderà: noi n'abbiamo un'idea più chiara. Va bene; se i Pitagorici avesser capito chiaro come Dio superi l'universo infinitamente, le parole chiare l'avrebber tro vate anch'essi. Anzi, l'infinito lo pigliavano per l'inde finito o potenziale; e quindi, il finito sembrò a loro il perfetto, e l'infinito l ' imperfetto. Aristotile serbò lo specchio delle contrarietà in dieci antitesi (dispari e pari, finito e infinito, uno e più, quiete e moto, luce e tenebre, bene e male ec. ), fatto da qualche Pitagorico; e Simplicio notò come le contrarietà si comprendano si risolvano in Dio. (Arist. Met. I, Simpl. Phys.) Inol tre, come il mondo era la decade, cioè la pienezza d'ogni grado d ' entità, e così Dio; che riceveva nome d'ogni numero, unità, diade, triade, quadernario (o solido), set tenario, decade. Dimodochè pe Pitagorici, come per tutta la filosofia pagana (avvertite, o signori ), il quesito della causa pri venne a quest' altro: Come si limiti 1 illimitato; ossia, pensarono gli antichi che la produzione del mondo consistesse nel determinare in atto la potenzialità prec sistente: talchè Filolao pone tre principj, l’illimitato. il confine, e la causa (το απειρων, το πέρας, το αίτιον ). Il che parve in due modi: i Pitagorici, com’i pan teisti ionj e indiani, dissero che quel potenziale sta in Dio; i dualisti, che e' sta fuori di Dio, ed è la mate ria informata da esso. Nella scuola italica, poi, la im plicitezza de' concetti adombrò alte verità; Dio (per ma esempio), legame del tempo e dello spazio, se non si prende com ' identità d'ogni essenza, vuol dire benissimo che l'unità divina con l'unico atto creatore e conser vatore fa l’unione del moltiplice disgregato: però Dio è l'armonia dell'armonie. Che cos'è dunque Iddio pe' Pitagorici? L'unità su prema di tutti i contrarj. Che cos'è l'universo? I con trarj in atto, e ridotti da Dio all'armonia. Come l'unità generica non diviene numero se non si distingua in unità determinate o particolari, così la monade suprema non genera il mondo se non si distingua in monadi o so stanze particolari. Che si richiede, o signori, a formare il numero? L'unità e la distinzione d'un'unità dall'al tra. Ma la distinzione, considerata mentalmente, non è forse un concetto negativo e indeterminato, dacchè si gnifichi che l'una cosa non è l ' altra? Or bene; e pen savano essi che a formare l'universo ci voglia le unità o monadi particolari, poi la loro distinzione; ossia, come (lice Aristotile, elementi positivi da un lato, elementi nega tivi dall'altro. Da queste due maniere d'elementi si fa tempo e spazio; nel tempoi momenti e la distinzione di un momento dall'altro, cioè gl'intervalli; nello spazio i punti e la distinzione d’un punto dall'altro cioè il vuoto. Tal cosa venne simboleggiata con l'ispirazione del vuoto; ossia distinguendosi le monadi, il vuoto entra in loro com'aria ne’polmoni. I due elementi, il positivo ed il negativo, uniti tra loro, fanno la diade o il pari; l'ele mento positivo o l' unità, così sola come aggiunta al numero pari (per esempio il tre), fa il dispari. Ed ecco, o signori, l' unità nell'altro senso ch'io spiegava di sopra, cioè nel senso non generico ma particolare di compo nente il composto. Talchè l'unità nel senso generico è Dio; le unità nel senso particolare fanno il mondo. Ed ecco altresì perchè si diceva da’ Pitagorici che il pari è illimitato, illimitato perchè il vuoto e l'intervallo (o la negazione) è in astratto un che potenziale, può ricevere distinzione da' punti e da’ momenti all' indefinito. Si diceva per contrapposto che il dispari è limitato, giacchè chiude l'intervallo ed il vuoto tra due estremità positive o tra due monadi, riduce in atto la potenza, e si fa la triade, numero perfetto che ha principio, mezzo e fine. Voi capite, o signori, come per la teorica de’toni e degl' intervalli si vedesse analogia tra la musica e l'universo. Il quale, venendo dall'essenzá eterna come necessario svolgimento d'attività, non ha reale comin ciamento, è ab eterno; comincia sì, ma quant' al nostro pensiero (-o iniyocav), ossia il pensiero nol può con cepire altrimenti. Nè s'avvidero essi che se il pensiero nol può concepire senza cominciamento, segno è che l'op posto è irrazionale. Che cos'è l'uomo nell'universo? Un'anima razionale che sta nel corpo come in u sepolcro, dice FILOLAO. L'anima è numero e armonia (Plut. De plac. phil. IV, 2 ), o monade che riduce ad unione la moltiplicità del corpo e n'è principio di vita e causa motrice. Se Platone confutò nel Fedone la sentenza che l ' ani ma è armonia, combatte i materialisti che ponevano l'anima com'un risultamento dell'unione corporale, an zichè com’un principio di essa, a mo' de ' Pitagorici. Ma Platone invece s'accorda con Filolao dicendo, che l'ani ma è sepolta nel corpo. Se non che in Platone ha senso più dualistico; ma ne’ Pitagorici significò (badando noi alla totalità delle lor opinioni), che come Dio è l'anima del mondo, e vien da essa immediatamente l'anima uma na (V. Ritter e Bertini), così vien dalla terra, infima ne'gradi dell' entità e delle emanazioni tutte, il corpo. Derivano da tutto ciò le teoriche sulla ragione som må del conoscere e sulla legge dell'operare. Come l'en tità, così la verità è l'uno e il numero, e l'errore va fuori dell'armonia; talchè come il numero fa la misura di ciascun ente o la specie loro, e fa l' attinenze del l'uno all'altro, così la verità è nell' attinenza dell'in telletto con le specie degli enti e con le loro attinenze. Ma come si conosce da noi? Il simile col simile; però distinse la scuola italica il senso dall' intelletto come in due parti (Cic. Tusc. IV, 5 ); l'intelletto è divino e si conosce per esso (benchè in modo relativo, dice Filolao) la divinità della natura; il senso è terrestre, e si conosce per esso il fenomeno o l'apparenza sensibile. Ragion prima del conoscimento è dunque Dio; ma com’es senza prima degl'intelletti. In Dio sta la ragione pri ma, non solo perchè raggiano da lui gl'intelletti, ma perche Dio è numero, e il numero è l' esemplare del mondo; esemplare riconosciuto dall' intelletto. (V. il Cou sin e lo Stalbaum, ambedue nel commento al TIMEO) Però, avvertite, o signori, la scienza pe' Pitagorici, come per ognuno che n'abbia vero concetto, stette nel ritro vare la necessità razionale di ciò che conosciamo. Essi voller saper non solo ciò che è ed accade, ma perchè ciò dev'essere ed accadere. Tuttavia successe a loro quel che ad ogni panteista; si credè di trarre a priori le cose dal conoscimento dell'essenza universale, come le pro prietà d'un triangolo. Ma invece, e lo dissi altrove, la necessità razionale (eccetto la ontologia e la teologia naturale e le loro applicazioni e le matematiche) sta solo in vedere come, supposto un che, ne venga di neces sità un altro per attinenza; ad esempio, data la per cezione, non può non essere il corpo, o data la volontà negli uomini che son razionali, non può non essere la libertà. L'assoluta necessità vedesi solo dove può trarsi l'illazioni da un'idea, anzichè sperimentare de' fatti; nel resto è necessità ipotetica, e non altro; o anco è sola contingenza. (V. Lez. I. ) Come l'entità e la verità sono numero, negazione la potenzialità indefinita e l'erro re, così è numero ed armonia il bene, disarmonia o ne gazione il male. (Arist. Met. I.) Il bene è misura, il male è dismisura: da ciò quel detto pitagorico: « La misura è ottima, pétpov Žpustov. » E come Dio è l'ar monia universale, il numero per eccellenza, egli è il bene o misura o legge. Però, come l'intendimento va per armonie matematiche e musicali, così la volontà; e indi nasce la virtù, ch'è numero dentro di noi, componente la discordia degli appetiti (Carme aureo, 57-60 ); numero fuor di noi nell'educazione della famiglia e della città.. (Fragm.di LUCIANO OCELLO ) Allora l'anima si va conformando a Dio (ov.02.09749. Tapos to delov ); la disforme da Dio passa in corpi diversi con la metempsicosi od è punita nel Tartaro; la conforme a Dio ritorna nell'essenza ond'ella emanò. » Sarai, dice il Carme aureo, un Dio immorta le, incorrotto, non sottoposto a morte (v. 71: ETEL 0212. τος θεός, άμοροτος, ούκ έτι θνητος). Signori, chi non mirerà, in mezzo a quell'ombre, la luce di sì alte dot trine? Ma, tralignando i tempi, la filosofia traligno. Il sistema pitagorico è, quant'a'principj, un pantei smo naturale; perchè l'unità per eccellenza vi comprende lo spirito e la materia, distinti poi come tutte l'altre contrarietà. Come voleva egli scappare il Pitagoresimo alla contraddizione suprema d'identificare tutte le contrad dizioni? Dicendo che non conosciamo l'essenza in modo diretto: quasichè importi tal conoscenza per escludere l'assurdo. La scuola di Elea tentò fuggire la contrad. dizione, escludendo la materialità, il moltiplice ed ogni mutamento, e così creò un panteismo ideale. Xenofane, nato a Colofone d'Ionia il 620 av. G. Cri. sto, venne assai tardi a VELIA città di Magna Grecia. L'idealismo suo nasceva prima di lui; ma egli lo recò a sistema. E l'idealismo nasceva per più cagioni; pri ma, com'ho detto, ad evitare le contraddizioni del pan teismo naturale; poi, perchè il sistema idealistico ha dello scetticismo, a cui ora pendevano i Dorj non più austeri, e più gl'Ionj (ionica pure la colonia d'Elea); scetticismo voluttuoso e mesto che apparisce nel poeta Mimnermo, di Colofone anch'esso, e in alcuni versi di Xenofane; inoltre, già il sistema pitagorico, benchè com prensivo, faceva prevalere i concetti spirituali, però Xeno fane, vissuto a lungo in Ionia, venuto poi in Italia, mostra nell'ontologia l'idealismo italico, ma nella cosmologia la fisica degl'Ionj. Egli scrisse in versi, e ne resta frammenti, da cui, com'anche da Platone e da Aristotile, si rileva le sue opinioni. (Fragm. Phil. Græc. Didot. ) Uscì di patria per le invasioni Lidie, viaggiò in Sicilia, si fermò in VELIA; e visse più che centenne. (Censorino.) Xenofane ha di Dio un'idea sublime. Egli è uno, non simile all'uomo, immoto, è tutto vedere, intendere e udi re. Ma si deve, o signori, notare cinque concetti che formano il sostanziale del sistema. Dio è uno. Xenofane tolse il principio pitagorico che l'uno si converte con l'ente; però Dio, entità suprema, è uno. L'unicità di Dio, Xenofane la provò benissimo per un secondo concetto ancora, ch'è la potenza. Voi sapete già, o signori, che per la scuola italica l'unità o la monade o l'entità (vocaboli equivalenti) è forza, è un'energia. Ciò pure affermò Xenofane; e però Dio, ch'è l'ente, è sommo po tere (20 % TELY ): quindi se più dèi uguali, nessuno è po tentissimo per l'eguaglianza, se più dèi inferiori, nes suno è potentissimo per l'inferiorità. Talchè Xenofane, riprensore d’Esiodo e d'Omero, scherniva com’empie le superstizioni volgari, e, diceva, se i cavalli sapessero di segnare, fingerebbero gli dèi a loro sembianza. Traeva da ciò un terzo concetto; che a Dio manca ogni contin genza, finità e infinità, moto e riposo. L'infinità? In che senso la nega egli Xenofane, e contro chi? Nel senso d'illimitato o indefinito che si determina con atti successivi; contro i Pitagorici pe' quali Dio è infinito e finito ad un tempo, si distingue nell'universo e vi si muta perennemente, benchè immutato nell'essenza: for s'anche, dove Xenofane accenna il moto e il riposo, con futa le opinioni degl' Ionj già cominciate e già oppo ste all'ITALICHE più antiche, ma pe' Pitagorici ancora Dio comprende in sè le contrarietà fra cui Aristotile notò (come vedemmo) il moto e la quiete, ugualmente che il finito e l'infinito, il finito ch'è quiete, l'infinito (indefi nito ) ch'è moto. Crederemo noi dunque, o signori, che quest'altra verità, in Dio non essere contingenza, con ducesse gli Eleati al Dio creatore? No; e si scorge dal l'esame d'un quarto concetto, per sè vero, ma falso nell'applicazione: Dio non può nascere. Va bene; ma per chè? udiamolo, signori; il perchè ce lo dà il trattatello De Xenophane, MELISSO e GORGIA, attribuito ad Aristo tile, non di lui forse, antico ad ogni modo. Si dice, adunque: Dio non può nascere, perchè l'ente non può non essere, e il non ente non può dal nulla divenire qual cosa. L'ente, ch'è per essenza, certo non può non essere; ma il non ente nel significato di Platone e pitagorico è il contingente; che può non essere appunto, giacchè non è per essenza sua propria, bensì dall'ente. Xenofane, per altro (notate, vi prego, siguori), prese il non ente in significato di nulla, e il nulla è impossibile sia mai altro che nulla; ma ciò che diventa, è nulla in sè, nulla non già nella potenza causatrice. Che ne conchiudeva Xenofane? Non solo che non si dà creazione, ma che non si dà pure causalità nessuna; non v'ha che l'es senza immobile, infeconda, inaccessibile. (ch'è dun que il resto? o quel che ci pare in continua mutazione? Fenomeno, apparenza, illusione, e nulla più; talchè la fisica che si fa con l'apparenze è illusoria, non è scien za. Però egli disse in un verso: « Queste cose (del mondo) non hanno altra vita che l'apparenza, e appartengono alla opinione. (Plut. Symp. IX. ) De' dubbj di Xeno fane sul mondo parlo altresì Timone Fliasio ne' Psilli. (Fragm. Phil. Græc.) E per provare ciò s'adoperava un quinto concetto: che Dio o l'ente è tutto, o intero. (Fragm. di Xenoph.) Che vuol egli dire? Cerchiamolo. Che idea vi dà, o signori, l'infinità? Certo, pienezza d'es sere, cioè che ivi non ha mancamento. Ma tal pienezza significa forse il tutto? No, chè tutto è idea relativa: tutto, implica parti; e quindi ogni tutto può essere più o meno, come numero ch'egli è; nè numero assoluto si dà; mentre assoluto è l'infinito. Or bene, l'induzione astrattiva concepisce il mondo com'un tutto e confonde l'infinità (come pienezza d'essere) con l'universo. Così accadde agli Eleati; e però Aristotile scriveva di Xeno fane: « Contemplando egli il tutto del mondo, disse che l'unità è Dio. » Indi l'aforismo eleatico, uno è l'ente e il tutto (ey to y uzi có Tiv). Che si concludeva mai da questo? Poichè al tutto non manca nulla, e l'ente è il tutto, nulla può cominciare, perchè sarebbe aggiun gimento: quasichè, o signori, ciò che viene dall'efficienza creatrice aggiungasi all'infinità. E però vedete, che dove gli Eleati pareva negassero l ' indefinito pitago rico, van poi al medesimo vizio; perchè si piglia Dio com'un tutto generico, che viene simboleggiato con lo sfero. Resta da sapere che foss'egli per Xenofane l'ente o Dio. È ragione assoluta, intelletto essenziale. (Fragm. di Xenoph.) Che v'ha dunque più di pitagorico negli Eleati? Si lasciò la parte corporea ed ogni moto e restò la spirituale, divina ed immutabile; quindi è un pan teismo ideale. Il qual sistema si continuò in PARMENIDE, e ZENONE. Di PARMENIDE di VELIA dice Plutarco (Adv. Colot.) che détte alla patria leggi avute in grande amore. Zenone di VELIA, scolare di Parmenide, amo di cuore la patria, e poichè un tiranno lo condannò a morire, sostenne da uomo il supplizio: Melisso di Samo fiori verso l'84a Olimpiade, seguì PARMENIDE DI VELIA, fu uomo di Stato, e capitano gl'ITALIOTI contro Pericle. Questi gli Eleati (VELINI) più famosi. L'opinioni di PARMENIDE vi son date assai chiare ne' frammenti del suo poema. (Fragm. Phil. Græc. Didot. ) E che si trova in quelli fin da principio? I due aspetti, già separati da Xenofane: l'ente, che unico è; e il non ente o l'apparenza, che non è: non è, o signori, in modo assoluto e non già perchè semplice contingenza. Ci ha due vie, scrive PARMENIDE, di filosofare: 0 porre che l'ente è e che il non ente non è (70 ury; vedi anche il Parm. di Plat.), e questa è la via retta, perchè s'afferma l'ente e si nega il non ente o l'apparenza; o, al contrario, porre che l'ente non è c che sia di necessità il non ente, questa è via non retta. Si descrive così la via degli Eleati o VELINI da un lato, e la via degl'Ionj dall'altro, i quali si fermavano a considerare il moto delle cose. Ebbene, che concetti ha egli Parmenide allorchè e' mostra che l’ente è e il non ente non è? Gli stessi di Xenofane: l'ente è conosci bile con la sola ragione, ingenito, non mobile, tutto (cudow ) unigeno, eterno; non fu nè sarà, perchè ora è tutto insieme; non può esser nato, perch'è assurdo che l'ente non sia; non divisibile, somigliante a sè stesso intera mente, riempie ogni cosa; la dura necessità (dir.n ) lo stringe in vincoli (ossia egli è necessario; necessità di Dio trasferita da' panteisti al mondo ed alla volontà uma na ); egli non è infinito (atedrventov ), non bisogna di nulla, ed è lo stesso il pensare e ciò che si pensa. (Framm. e segnatamente v. 66-94.) In che PARMENIDE differì da Xenofane? Quegli ha forma più scientifica di speculare, perchè comincia dall'idea universale dell'essere, e la contrappone al non essere. (Ritter, Bertini.) Ma crede reste voi che Parmenide s'avvantaggi su Xenofane, come nella severità dialettica, così nella perfezione dell'idea ili Dio? Anzi, dove il maestro partì dall'idea di Dio, ragione pura, santità essenziale e provvidenza, lo sco lare poi con un vizio più rilevato d'induzione si fermò al concetto dell'essere generale, nè v'apparisce punto la personalità divina: sicchè Parmenide non avversa come Xenofane la mitologia, anzi l'accetta qual credenza po polare. In man di lui, perciò, il sistema eleatico si rese più ideale. E questa idealità condusse PARMENIDE (sembra un paradosso ), come anco Xenofane alla confusione lel senso e dell'intelletto. Quanto a Xenofane apparisce da un verso di lui in Sesto Empirico; e quanto a PARMENIDE, lo notò espresso Aristotile (ppovaly usy tér vistn512). Mentrechè il sensista dice: la sensazione è idea e tutto: l'idealista dice: l'idea è sensazione e tutto. Ma sorge contraddizione nuova: se intelligenza e senso son tut t'uno, come potrà egli il senso darci l'illusione? Ep pure, ZENONE DI VELIA non pare ch'altro volesse co’suoi strani sofismi fuorchè mostrare: com’abbandonandoci all'apparenze del moto e del moltiplice, cadiamo sem pre in contraddizioni. E la parte negativa di tal sistema s'accrebbe in Melisso che (notate, o signori) muove dal l'ente indeterminato come PARMENIDE, ma lo significa in modo più indeterminato ancora, chiamandolo un qual cosa. (V. Fragm. Phil. Græc. Didot; De Xenophau Melisso et Gorgia; Arist. de Soph. Elenchis, e Plat. Thecet.) Se non che, Melisso torna co’ Pitagorici a dire che Dio è infinito, negando a loro ch'e'sia finito, per chè l'ente non ha principio nè fine. (Fragm. 2. ) E ciò va bene; ma pare che qui terminasse l'infinità nel concetto di Melisso; egli non lo concepì come infinitu dine assoluta d'entità, e pero dotato d'efficienza crea trice e pensiero puro; anzi l' indeterminatezza di quel l'astrazione fece sì ch'egli non parla dell'intelletto e della bontà di Dio, e l'idea ne vacilla dinnanzi com'om bra informe e vana. (Ritter, Bertini.) Così da Xenofane in poi vi fu scadimento, come da ' Pitagorici di CROTONE agli Eleati o VELINI Questi bensì fecero progredire la dialettica tendendo a conciliare i contrari, e Aristotile fa inventore di quella ZENONE DI VELIA, che si sa da Diogene Laerzio aver composto dialoghi. Se la scuola pitagorica seguitò, ma con forme più filosofiche, il panteismo orfico nella sua totalità, gli Eleati ne presero la parte ideale; gl’Ionj la corporea e sensuale. Ell'è perciò la setta men filosofica. In che ci viltà? Tra'costumi voluttuosi della Ionia, e in quelle città che presto soggiacquero alla servitù de’Lidj e de Persiani. E se voi mi domandate, o signori: Que' sistemi da che gente vennero professati? Rispondo, che salvo i più antichi, cioè Talete e Anassimandro nati a Mileto nel l'Asia minore, delle virtù cittadine di tutti gli altri non si sa nulla; o sappiamo d' Eraclito ch'era superbo, duro e solitario. Di Talete stesso, bench’ Erodoto ricordi un consiglio di lui agl' Ionj, Platone (Teetete) dice ch' ei s'astenne da' pubblici negozj. Qual diversità dalla storia de Pitagorici ! non ci meravigli, pertanto, la diversità ne sistemi. (Fragm. Philos. Græc. Didot, 1860.) Il moto delle cose lo crederono gli Ionj nell'asso luto. E che cos'è l'assoluto? La materia del mondo. unica entità, eterna, divina, dotata di pensiero ch'è di vino attributo. Tutti gli Ionj. fuorchè Anassagora, ebber ciò di comune; e s'assomigliano alla scuola degli Eghe 286 PARTE PRIMA. liani materiali che succedettero agl' ideali. Ma gl' Ionj diversificarono tra loro nel concepire il moto dell'uni verso; chi, come Talete e Anassimene, Diogene d'Apollonia ed Eraclito, ebbe un sistema dinamico; chi, come Anassimandro e Archelao, un sistema meccanico. Ed ec cone il divario: cercaron tutti la prima cagione delle cose, ma pe' dinamici la produzione si fa con isvolgi mento di forze vive, come gli animali e le piante; pe’miec canici la produzione non ha se non forme apparenti. mutandosi solo le particelle inerti come ne’minerali. La dottrina vera comprende le due opinioni; perchè la cau salità modale trae sempre in atto le potenze, l'atto si produce (dinamica ); benchè quest'atto poi non ci dia sempre una specie o un individuo, come nella generazione degli animali, bensì talora un aggregamento come ne'mi nerali. A ogni modo, tal dottrina non s'applica punto alla causalità creatrice; e gl’lonj, negando che dal nulla si faccia nulla, negando qualunque causalità che non operi sopr'un soggetto preesistente, non s'avvidero, che tal cau salità non può dirsi assoluta, ma condizionata. Questo in genere; venendo poi a specificare la causa prima, gl’lonj la posero chi nell'una e chi nell'altra cosa che più parve trasmutabile in ogni altra o quasi un germe, secondo i dinamici, o quasi elemento univer sale, secondo i meccanici: Talete nell'acqua, Anassi mandro in una natura media (udtaču puçev ), e però lo chiama principio (apua), Anassimene nell'aria, Eraclito nel fuoco, Diogene altresì nell'aria. Ma, badate, o si gnori, nè quell'acqua, nè quell' aria, nè quel fuoco, son proprio ciò che ne vediamo; è un che più intimo e uni versale, simboleggiato in cose visibili secondochè queste parevano più acconce a figurare l'universalità, come l'acqua che tutto abbraccia, l' aria per cui si vive, il fuoco che tutto vivifica e distrugge. E con questo pensare la causa prima, s'andò di male in peggio. Talete serba confuso al materiale un < he di spirituale; però dice che tutto è pieno degli dèi e che in ogni cosa è la mente, e, secondo CICERONE (Quest. Tusc.), professa l'immortalità dell'anima. È un panteismo materiale, ma confuso ed implicato: vi si sente ancora le reliquie della filosofia teologica più antica, già comune (com' io dissi ) agl'Ioni, anzi a ogni gente ellenica ed agl' Italioti; e però i Padri citano di Talete molti detti sapienti sulla natura di Dio. Anassi mandro svolgeva la parte materiale dicendo che il prin cipio, in cui tutto ritorna è infinito, perchè l'origine o il cominciare non termina mai (tov © vo ) trn doury ENOL Ó žosipov. Fragm. Phil. Græc.; Didot); però gli dèi nascono e moiono, e son astri e mondi; e la specie umana venne da' pesci. Anassimene seguitò quella via; nè altrimenti Eraclito, benchè questi, che cita Pitagora e Xenofane (Diog. Laert. IX, e Clem. Alex. Strom. I ), désse alla dottrina del fuoco le apparenze d' una misti cità orientale. Non si discostò dalla teorica degl'Ionj circa la causa lità l'altra teorica sulla ragione prima. Qual è la ragione del conoscere? questa, che il principio conoscitore sia formato della materia universale, di cui si formano le cose conosciute, dacchè il simile si conosca pel simile. Sembra che di morale gl'Ionj ne parlassero poco; e ciò sta col materialismo loro; Eraclito bensì pone la legge nella ragione universale o divina, palese con le leggi della patria; Achelao nega ogni legge necessaria; e il giusto e l'ingiusto fa nascere dalle convenzioni umane. Tal panteismo ch ' è sempre a priori non détte, benchè materiale e salvo poche verità, una fisica buona. All'assurdità del panteismo volle rimediare Anassagora da Clazomene, nato verso il 500 avanti l'èra nostra, però distinse la mente dal mondo. Ma non la stimò creatrice; sicchè s'apprese al dualismo; anzi, (lacchè spiega poi la formazione del mondo come gli al tri Ionj meccanici, non si sa bene che ufficio e' désse alla mente divina in ordinare, il mondo. (Plat. Fodone.) Il suo libro cominciava: Tutte le cose erano insieme; l'intelligenza le divise e le dispose. (Diog. Laert.) E così distinse Dio, o la mente (vojv), dalla natura; e questa pose in particelle simili, omeomerie, che son semi delle cose o per la disposizione già ricevuta o che rice von poi di mano in mano (2.pay.tov otepusta.). Diogene di Apollonia in parte lo seguì, ma peggiorando; chè fece l'aria dotata di mente, e quindi ordinatrice. Archelao pure, ultimo fra gl' Ionj, alla confusione primitiva sta bili ordinatrice la mente; ma questa non va esente di materialità (Fragm. Phil. Didot); talchè il dualismo di Anassagora isterili. Che tenne dietro, o signori, alla confusione del pan teismo ed alla separazione del dualismo? La negazione degli scettici, particolare dapprima, universale poi. E di fatto, già svolte l'opinioni de' Pitagorici e di VELIA, ben chè non anco terminate (come va sempre), e già comin ciato il sistema d' Anassagora, sorsero pressochè ad un tempo le sette degl'idealisti e de' materialisti. L'idea lismo ateo venne da Protagora (di cui nel dialogo con tal nome ed in più luoghi scrive Platone ); colui, non si sa quando nato, fiorì verso il 444 avanti l'èra nostra. Il principio d’un suo libro cominciava: Degli dèi non so nulla; e Timone Fliasio scrive, che Protagora quantun que dicesse ignorarli, osservò la legge ossia le cerimo nie legali (Fragm. Phil. Græc.): nella osservanza della legge i sotisti posero moralità e religione. Diceva Pro tagora con gl' Ionj: tutto si muta; e con gli Eleati: tutto apparisce. Questa proposizione viene dall'altra; perchè se nulla r’ha di stabile, tutto è fenomeno od ap parenza. Vedete, o signori, come l'idealismo nascesse dall' opinioni anteriori. E sulle due proposizioni già dette si fonda il sistema di Protagora, che disse perciò: se tutto muta, nulla è in sè stesso; e se tutto apparisce, l'apparenza solo è vera; vere l'apparenze contrarie, veri i contradittorj, vero insomma tutto ciò che si pensa, e l'anima è la somma dei diversi pensieri (Condillac, Kant), e il fine del discorso sta nel produrre l'appa renza: qui è il sostanziale dell'arte sofistica. Che vi pare, o signori, non lo dicono anch ' oggi: tutto è vero quel che si pensa? Quasi contemporaneo, ma un po'dopo è Democrito d'Abdera, nato per Apollonio il 460, e per Trasillo il 470; talchè, se fiorito con Protagora il 444. ciò sarebbe avanti a' 16 od a'26 anni; impossibile il primo caso, non verosimile il secondo, perchè Democrito dettò le cose sue dopo lunghi viaggi. Sa degl'Ionj, perchè materialista, tiene bensì degli Eleati, perchè muove dal concetto dell'ente; e dice: unico ente il vuoto e lo spazio con gli atomi nel seno; dalle loro congiunzioni e dalle figure matematiche conseguenti nascono le qualità; e poiche il simile si conosce col simile (τα όμοια ομοιών είναι apestira ), v'ha conoscimento nell'anima, essendo ella un atomo a cui vengono le figurette o immaginette dei corpi; rozza fantasia che male s'attribui ad Aristotile. E Dio che cosa è per Democrito? Compiacendo alle plebi, egli finse dèi come immagini enormi, ma sotto posti a morte; vero ateismo. (Fragm. Phil. Græc. Di dot.) Vuol notarsi che Leucippo fiori con Eraclito il 500; ma poichè il materialismo giungeva non opportuno. mancò allora il successo, in tal maniera che di Leucippo non si sa pressochè nulla. Se Protagora s'accostò allo scetticismo universale, non mi pare che vi giungesse: affermò che tutto si muta, e ch' è solo quale apparisce, non si sa per altro ch'e' ne gasse l'entità delle cose in questa loro perpetua muta bilità ed apparenza; chi giunse a tal punto, risoluta mente, espressamente, e GORGIA DI LEONZIO (V. Dial. di Platone col nome di lui, e altri dialoghi); perchè scrisse un libro sul non ente, cioè sulla natura, e volle provare che o nulla è, o se è non può conoscersi o se si conosce non può significarsi. Con Protagora e GORGIA v ' ha una schiera che la Grecia infamò col nome di So tisti, Prodico, Eutidemo e simiglianti. Chi erano costo ro? L'antichità gli ebbe per uomini venali. In che ci viltà vennero? In età di corruzione. Che frutto recarono? Dicon gli antichi: pessimo nell'arte, nella scienza e nel l'educazione della gioventù; benchè, come si vedrà, fossero occasione di qualche miglioramento. Ma ecco fiorire verso que' tempi (V. Tavole del Storia della Filosofia. - I. 19 Krug) un uomo che vuol riparare a tanta dubbietà. Chi? Empedocle di GIRGENTI. Con che? col misticismo a cui s'ac compagna (come accade sulla fine dei sistemi) un fare d'ecclettico. (Fragm. Phil. Græc. Didot. ) Da'frammenti del suo poema (népe ouro ) e da' detti d' Aristotile e d'altri si raccoglie che il sistema d'Empedocle non è già fisico solamente; Dio per lui è mente santa incor porea: e nè un pretto dualismo, perchè il mondo è tutto, e c'è divinità mondane o fisiche: e nè un pretto pan teismo, perchè si distingue la mente divina e gli atomi: che cos'è dunque? Parmi ch'e' non avesse un concetto nitido, com'accade agli ecclettici; e così di lui pensa rono gli antichi: alcuno lo fa di Parmenide, altri pita gorico, Platone lo mette con Eraclito, e Aristotile con Leucippo, con Democrito e con Anassagora. Ma prevale il misticismo; perchè ne' frammenti del poema, Empe docle si dà com’uomo miracoloso, e si crede un Dio immortale; e veste da sacerdote. In lui sentite lo scet ticismo e l'estasi; egli pone la mente, umana in parte ed in parte divina; quella c' illude, questa (come dice il Ritter) dà un santo delirio e sorge alla contemplazione mistica di Dio nella natura. Tal è l'Yoga indiano, tali gli Alessandrini. E questi, di fatto, ebbero in grande stima Empedocle; ma Platone ed Aristotile, osservato ri, lo pregian poco. Tuttavia egli seppe dimolto, e valse in fisica, e fu ben altr'uomo dei sofisti; onorato dai suoi cittadini ed in tutta Sicilia. Così terminò quest'epoca, ed ebbe strascico lungo in due schiere d'uomini; atei la cui morale era il piacere, Evemero, Ippone, Nicanore, Pelleo, Teodoro, Egesia e Diagora; Pitagorici o dati anch'essi al materialismo, così Ecfante, o mistici la maggior parte. Questi atei com ' Evemero interpretarono storicamente la mitologia: gli dèi furono uomini indiati, non altro. La scuola fisica poi degl'Ionj, più tralignati, la interpretò fisicamente: gli dèi son le forze uniche della natura  EPOCA QUARTA DELL' ÈRA PAGANA. SISTEMI GRECOLATINI. CICERONE. Moltitudine di scuole tra la seconda metà del penultimo secolo avanti l'èra volgare fin al quarto secolo dell'era stessa, sullo spartimento delle quali non sono chiari gli storici. Criterio per la distinzione del. l'epoche, e quindi per l'assegnazione varia de ' sistemi. Con tal crite rio, le dette scuole si spartiscono in due classi. – La prima classe si sud distingue; 1º negli eruditi; 2 ' negli scettici; 3 ne ' sistemi grecoasiatici: tutti formano la fine dell'epoca terza, cioè sono la conseguenza de ' sistemi anteriori. La seconda classe, o de' sistemi grecolatini, fa un'epoca da sė, cioè l'epoca quarta. È un'epoca nuova, per la tentata riforma, e per l'efficacia grande cosi di Cicerone come de' Giureconsulti. — Cagione del sorgere tardi la letteratura e la filosofia in Roma. Elle sorsero, quando i Romani non furono più con tutta la mente in fatti gravi e giornalieri. Allora può la riflessione volgersi alla coscienza e contemplarvi l'uomo, – Il pensiero de ' Romani si distese all'Italia e al genere umano. — Naziona lità naturale e politica degl' Italiani merce i Romani. Affetti domestici nel buon tempo di Roma. Come si vedano in Virgilio le qualità prin cipali della civiltà italica. I germi antichi di questa erano in Roma; si svolsero per impulso di Grecia. Durò poco in Roma la filosofia pura mente speculativa, perchè già la filosofia greca, declinando, avea lasciato salve ben poche verità, e perché Roma cadde in servitù. Cicerone e i Giureconsulti romani costituiscono la vera filosofia grecolatina. Cice rone si proponeva di sceverare dal falso e dall'incerto le parti vere e certe ile' sistemi greci, di comporle in ordine chiaro, d'applicurle praticamente, e che se n' aiutasse l'eloquenza. - Sue virtù e suoi difetti. Si prova ch'egli non fu copiatore de ' Greci, ma pensò di suo. Non pare da distinguere i suoi libri (com ' alcuno pensa) in popolari e dottrinali. Libri logici, fisici e morali. Cicerone ripete il conosci te stesso come fondamento della filo sofia: la coscienza con tutte le due relazioni. Indi l'evidenza interio Uso degli altri criterj secondari, tenendo sempre in mente l'universi lità e dov'ella si manifesti. Cosi egli potė cansare gli eccessi de ' sistemi; e si prova quanto a ’ Platonici, a' Peripatetici, agli Stoici, agli Accademici: rigettato assolutamente l'Epicureismo. - Cicerone non elegyeva da ecclettico, ma per un ordine di principj; vide cioè che la filosofia è da studiarsi entro di noi; e da tale studio inferi tre verità, che gli furono regolatrici: 1º che l'uomo sta sopr' all ' altre cose; 20 che la ragione dell'uomo prevale al senso e al corpo; 3º che questa ragione con le sue leggi ci fa palese Dio. Talche delini la filosofia: scienza delle cose divine e umane e delle cagioni di queste (off.): l'altra definizione de' Tuscolani è come racconto dell'opinioni pitigori che. Va seguito i principj spontanei, naturali, universali della ragione: ecco l'assioma di Tullio. — Ma, per la moltitudine de ' sistemi, ei potè co gliere poche verità; queste affermò, nel resto sospende il giudizio. Esem pio, il finale de natura Deorum. Le dottrine certe di lui ne ' libri morali, o sulla legge e sulla libertà; le opinioni verosimili ne'fisici, o sulla natura divina e dell'anima; ne'ljbri logici l'une e l'altre; ossia, egli è certo su'prin cipj e sull' evidenza interiore, ha solo verosimiglianza sul criterio delle per cezioni esteriori. Dualismo. — Anche per la teorica del conoscimento. Teorica dell'operare bellissima; legge naturale, eterna; Dio n'è la fonte; re. -. chi non ammette Dio, non può ammettere la legge. — Il dovere. Gradi degli officj. Quel ch'è giusto in sè stesso. Utile apparente, e utile vero; questo è conseguenza della virtù. — Onestå. Le leggi positive nascono dalla naturale; Dio è il proemio di tutte le leggi. - Buoni eifetti della filosofia di Cicerone. Non anche terminata l' epoca terza cominciò la quarta, de' sistemi greco-latini – LATINO – ROMANO. Dalla seconda metà del penultimo secolo avanti l'èra volgare fino al quarto secolo dell' era stessa, troviamo una moltitudine di scuole, lo spartimento delle quali dà qualche impaccio agli storici. Taluno le piglia tutte insieme (e vi comprende gli Alessandrini) come una sequela de sistemi greci anteriori; e così non pone ad esse un'epoca distinta. E per fermo se tutte le dette scuole non fosser altro che discepoli, o raccoglitori eruditi, mancherebbe la ragione del porle da sè, o del farne più classi. La ragione d'un'epoca, quando si parla di scienze, è solamente una grande verità scoperta, da cui dipende l'ordine universale d'una scienza qualunque, o il risorgimento di essa dopo un tempo di scadimento, e quindi l'efficacia su ' tempi avvenire. Insomma, v'ha un principio d'epoca, quando v’ha un principio di moto nuovo e potente: la continuazione di moto, è continua zione d'epoca e nulla più. Applicando tal criterio all' età sovraccennata, par chiaro che i sistemi vi si distinguano in due parti; una sta nell'epoca terza precedente, ossia nella greca e come termine di essa; la seconda costituisce un'epoca da se per qualità sue proprie, o un'epoca quarta, benchè i siste mi dell'epoca terza la precedano, l'accompagnino ed an che le sopravvivano: tanto è vero che la sola divisione per tempi non segue la realtà. La prima parte che ter minò l'epoca greca, si suddivide in tre, gli eruditi, gli scettici, i grecoasiatici. Da un lato v'ha le scuole di pretta erudizione; le quali non iscopersero nulla, nè rinnovarono nulla; gli Stoici eruditi; i Platonici eruditi, com’Areio Didimo, Trasillo, Albino, Alcinoo, Massimo di Tiro; i Peripatetici eruditi o commentatori d'Aristotile, come Alessandro d'Afrodisio; i Medici, eruditi anch'essi, platonici e peripatetici, come Galeno. Poi da un altro lato v'ha lo scetticismo d'Enesidemo e di Sesto Empirico, i quali compivano, anzi riducevano a sistema il dubbio di Pirrone e di Timone, volgendosi specialmente contro la causalità, e negandola per la singolare ragione che il modo intimo del causare nol conosciamo; quasichè possa negarsi ciò ch'è ad evidenza, quando non si sa spiegarlo. Da un terzo lato ancora, mescolati i Greci con gli Asiatici per le conquiste d'Alessandro e poi per la vastità dell'impero di ROMA vediamo un congiungimento tra la sapienza orientale e i sistemi greci; onde si svolse la setta degl’Alessandrini, che non fecero altro se non ridurre a forme greche il panteismo asiatico, già cominciato in Filone ebreo, nella Kabbala, in Apollonio Tianeo e in Moderato, Nicomaco, Plutarco, Apuleio, Cronio, Numenio. Questi, benchè distinti dalla scuola d'Alessandria (e fa male chi li confonde), in sostanza cominciaron l'avvio di quella, che ne trasse i pensieri a compimento. Gl’Alessandrini e i loro antecessori fanno essi dunque un'epoca nuova? No, perchè i metodi sono affatto dell'età socratica, e i principj gli stessi. Lo scetticismo poi che li conduce al misticismo, appartiene a quel medesimo tempo. L'unione dell' orientalità con l'atticità pare un che nuovo, ma scientificamente non è. Proviene dalle tendenze mistiche succedenti al dubbio, non già da'me todi scienziali; piacque la misticità orientale, richiesta già dagli animi. Ebbi l'opinione anch'io che gl’alessandrini facciano un'età da sè; ma più attenta consi derazione m'hacondotto ad altro parere. La seconda parte sì che fa un'epoca da sè, l'epoca quarta o LATINA O ROMANA. Introdotte le scuole di Grecia in ROMA comincia ivi un ordine proprio di concetti per efficacia delle tradizioni ITALICHE e per la civiltà di ROMA. Talchè, ripeto, avvi un'epoca quarta, o de sistemi LATINI ROMANI; nuova per le riforme tentate da CICERONE e per la novità dei iureconsulti, che hanno efficacia sì viva e universale nella civiltà europea; e anco perchè CICERONE serve più che i greci alla filosofia cristiana de' padri latini e dei dottori, i quali per via di lui, piucchè in modo immediato, sanno l'antiche opinioni. Adunque in uno specchio generale di storia si dee lasciare i filosofi eruditi, che non aggiungono nulla; degli scettici dissi già nel passato. De'sistemi grecorientali poi si dee trattare nella prim'epoca del l'èra cristiana, perch' essi combatterono la sapienza de Padri e n'eccitarono la opposizione. Resta che noi parliamo qui de' sistemi LATINI ROMANI, che soli ci danno un'epoca nuova. Non fa meraviglia che in ROMA a nascesse tardi la filosofia. Nasce quando la riflessione si volge alla coscienza, e vi contempla l'uomo interiore per elevarsi all'ideale universalità. La filosofia vi s'eleva in modo astratto. Ma quando un popolo, come IL ROMANO, è tutto inteso a fatti gravi e giornalieri che lo attirano o a guerre esteriori od a contese interne; allora ti daranno bensì canti popolari di guerra e d'illustri memorie (come gli accenna LIVIO. Ma non si possono dare filosofia. In que' tempi guardasi al fine politico ed aʼmezzi, non alla natura dell'uomo qualità generali delle operazioni, come fa il filosofo. Indi la rozzezza de’ROMANI, talchè narra LIVIO, che lo storico più antico e FABIO PITTORE a' tempi d'Annibale. Ma quando ROMA ha esteso la dominazione a tutta Italia e oltre, allora IL ROMANO non vide più solo innanzi a sè le contese de' vicini, e le contese del foro tra nobili e plebei, sì un'intera e grande nazione e il genere umano. Così l'idea di ROMA si appresenta in relazione con tutta l'Italia e l’Italia in relazione col mondo. Il pensiero de' ROMANI si dilata. Si allarga fuori del cerchio de' fatti particolari. Il quirita si sente più chiaramente e figlio di ROMA, e italiano, e uomo, tanto più che a poco a poco LA CITTADINANZA ROMANA si estese a tutta Italia. A’tempi di Storia della Filosofia. – 1. e alle 24 2 as 2 CICERONE non rimane quasi più possedimento in ITALIA non assegnato a'cittadini per via di colonie; il qual fatto, unito all'altro che già notai de’ primitivi abitatori ricaccianti le colonie greche, spiega com’in Magna Grecia ed in Sicilia i dialetti sieno italici puri (chè i pochi Greci di PUGLIA non sono gl’antichi), non già ellenici come in Grecia moderna e in alcune parti del l'Asia minore. Le colonie di ROMA, aiutate dall'affinità primitiva delle schiatte italiche, formano così l'unità naturale, o la consanguinità della nostra nazione; nazionalità naturale determinata da'naturali confini del nostro paese, e che si manifesta nell'unità formale de dialetti, o già contemporanei al romano, o nati da esso. Indi allora nacque la politica nazionalità benchè dopo cinque secoli di guerre; ma lasciando a’municipj un'im magine di ROMA, consoli, senato e popolo com'a FIRENZE (Malespini e Villani), e concedendo a que municipj amministrazione lor propria; indi vennero i nostri comuni del medio evo. Roma e l'ITALIA, considerate in relazione col mondo, formarono nelle menti romane com'un archetipo di perfezione. Il vecchio PLINIO (giova ripeterlo qui) scrive dell' Italia. Omnium terrarum alumna et parens, omnium terrarum electa; una cunctarum gentium in toto orbe patria. E VIRGILIO, lodando magnificamente l'ITALIA nel secondo delle Georgiche, non si ristringe a Roma, e dice. Hæc genus acre virumi, Marsos pubemque Sabellam Adsuetumque malo Ligurem, Volcosque verutos Extulite.” E Virgilio finisce con quell'alte parole. “Salve, magna parens, Saturnia tellus Magna virum.” Giunto un popolo a questa larghezza di sentimento e di riflessione, possiede l'idealità necessaria per la filosofia. Non lo stringono più le necessità de'fatti speciali, stende il pensiero alle attinenze, considera la natura dell'uomo e delle cose. Questo svolgimento di coscienza per la riflessione venne promosso da una causa tutta particolare a Roma ed all'ITALIA. Qui, più ch'altrove nell'antichità, e sacro il connubio; e gli affetti di famiglia v’ebbero consistenza per molti secoli. La stessa mitologia nostra, come dice Polibio, rigetta le nefandezze de' simboli elleni. Or bene, gli affetti di famiglia tengono vivo il senso morale, che dipende dal l'idealità suprema della legge e del dovere. Non v'ha dunque da stupire, se VIRGILIO, benchè imiti Omero, si distingua tanto da lui ne' principali concetti che governano il poema; ossia, nel concetto che ordina il poema stesso e ch'è una disposizione di provvidenza rispetto a’ Romani; poi, nel concetto di patria ch' è Roma; in quello altresì di nazione (non di schiatta soltanto, come la Grecia ), cioè di tutte le genti italiane, non solo consanguinee (schiatta italica), ma dimoranti pure in unico paese (nazionalità naturale) e poi congiunte da ROMA (nazionalità politica): nell'altro di famiglia onde ri fulge l’Eneide dal principio alla fine; per ultimo, nel l'intima e soave descrizione degli affetti, con la quale il poeta mantovano prepara la poesia cristiana. Sicché, quand' io leggo in alcuni libri ch'a Virgilio manca un'idealità propria, prego da Dio la fine di certe passioni che impediscono la equità de' giudizj. Però, mentre allargavasi il dominio romano, cresce vano le ragioni d'intima civiltà; le quali, per altro, s'acchiudevano già in Roma ab antico. La prisca gente romana che ch'ella fosse e in qualunque modo si ragunasse da prima, certo è, che s'ella fu rozza per le necessità di continue guerre, sorse tuttavia tra popoli molto civili; ebbe accanto la Magna Grecia e l'ETRURIA, e le tante città de’ SABINI e del LAZIO. Ora chi non sa quanto valgano mai le tradizioni civili anco tra popoli rozzi? NUMA vien detto alunno di Pitagora; ' e l'anteriorità di quello è spiegata dall'antichità delle scuole pitagoriche, com'altrove narrai, Dice CICERONE. “Romuli autem ætatem jam inveteratis literis atque doctrinis fuisse cernimus.” (De rep.): e Agostino scrive nella “Città di Dio” che Romolo e venuto non “redibus atque indoctis temporibus, sed jam eruditis et expolitis.” Plinio cita le belle pitture d'Ardea più antiche di Roma. I Romani predarono dalla sola Volsinia 2,000 statue. Bolsena in Fenicio significa città degli Artisti (Cantù, St. Univ.) Se a ciò aggiungo la tradizione, che le leggi de cemvirali si prendessero di Grecia (tradizione falsa per le leggi che s'attengono a' costumi di Roma, vera probabilmente quant'al modo d'ordinarle ), e se aggiungo altresì la perfezione che graduatamente il gius positivo ha dal gius onorario, mi capacito che nel seno di ROMA cresce un germe di civiltà e però di filosofia, da venire a compimento, quando se ne offerisse la occasione. E questa occasione, testimonio la storia, è sempre qualcosa d' esterno. L'occasione a Romani venne da Greci conquistati. Ed ha il proprio segnale nell'ambasceria di Critolao, Carneade e Diogene babilonese. CATONE si sforza di cacciare le sette greche. Invano, il terreno era preparato. E la pianta fiorisce. Ben è vero che la speculazione puramente filosofica non dura a lungo, ma prosegue a fecondare il diritto. E la qual brevità ha due cagioni principali. I sistemi greci, che aveano menato tant' oltre la FORMA LOGICALE della filosofia, quant'alla MATERIA poi l'aveano lasciata in dubbiezze infinite, come vedemmo; talchè si richiede uno sforzo più che umano a rilevarla: poche verità si conservavano intatte da ordirvi la scienza. Quindi, o rimane solo a far opera d'eruditi e d'accozzatori, come gli ecclettici d'allora; o bisognara trar fuori quel poco di certo, che non da soggetto a copiose speculazioni. In secondo luogo, allorchè ROMA venn'a maturità di pensiero, cadde in servitù che isterili la letteratura e la scienza. Quindi, i sistemi latini ROMANI si riducono il più alla filosofia di CICERONE, e alle scuole de' Giureconsulti. I filosofi anteriori a CICERONE seguirono i Greci pressochè interamente. LUCREZIO ripette quasi le dottrine del Giardino; ma nondimeno LUCREZIO mostra la coscienza di romano, allorchè, facendo materiale l'anima, pur conta fra gl’elementi costitutivi di essa un elemento innominato, quasi animo dell'anima. “Nobilis illa vis, initum motus ab se que dividit ollis, Sensifer unde oritur primum per viscera motus.” (De Nat.). E, quando stabilì negl’elementi un moto spontaneo per ispiegare la libertà E quando celebra la divinità della natura con versi stupendi e la santità del matrimonio. SENECA non si parte dal PORTICO, benchè fa professione di non ispregiare nessuna scuola. ANTONINO, com’Epitetto, ha lasciato aurei precetti, ma senza ordinamento di scienza. CICERONE, al contrario, istitue speculazioni proprie, che certo hanno forza nell'universalità de' Romani culti e nella giurisprudenza. Io dunque parlo di CICERONE e de' Giureconsulti. Fin d'ora io dico che CICERONE si propone di sceverare (con un principio superiore) le parti vere e certe de sistemi greci dalle false od incerte, di comporle in ordine chiaro, d'applicarle alla vita privata, e ch'elle confere all'eloquenza. Questa filosofia di CICERONE suol chiamarsi ecclettica; e chi la intenda per metodo compositivo e logicamente ordinato, passi. Ma dice male chi la pigliasse per una scelta a caso, senz’un principio interiore e ordinatore. Nessuno puo negare che ciò distingua le speculazioni di Tullio dall' ecclettismo de' Greci mentovati poco fa, i quali ragunavano nella memoria, ma non componevano nel pensiero; e lè distingue pure da’migliori sistemi dell'epoca antecedente, perchè CICERONE li giudica con libertà e li trasceglie. Nè si può mettere in dubbio l'efficacia di CICERONE – non MARC’ANTONIO, chi lo assassina -- su'secoli avvenire. I Padri e i Dottori lo studiarono molto; e Agostino, da uomo grande che riconosce il vero ed il bene onde che venga, scrive nelle Confessioni. Hic liber -- cioè la lettura dell'Or tension --  mutuvit affectum meum, et ad te ipsum, Domine, mutavit preces meas, et vota ac desideria mea fecit alia.” Pare che CICERONE trade la schiatta da quel Tullo Azio, che regna gloriosamente su’ Volsci (Plut. in Cic.). E quegli se lo tene per certo, sicchè dice ne' libri Tuscolani, che Ferecide era antico -- fuit cnim meo regnante gentili: indi la smania di comparire tra gli otti mati. Lasciate le scuole, udì Filone accademico; ma insieme pratica Mucio, personaggio assai versato nella politica, e principale tra’senatori, imparando da lui scienza di leggi; e milita con SILLA tra’ Marsi (Plut.). Sente anche Fedro epicureo e Diodoro stoico. In Atene segue Antioco accademico, e non trascura Zenone all’Orto. Anda poi in Asia, e si ferma a Rodi, per esser ammaestrato dallo stoico Posidonio. Favella con tal passione e con voce si concitata, che gli reca danno alla salute. In Sicilia e pretore giusto, umano, amatissimo. Dopo la congiura di Catilina, CATONE stesso chiama Cicerone padre della patria dinanzi al popolo. Esiliato da Roma per le mene di CLODIO, vi rientra poi come in trionfo. Gli furon trionfo tutte le vie d'Italia, per le quali CICERONE passa. Stette fedele alla re pubblica contro la signoria di GIULIO CESARE e la tirannia di MARC’ANTONIO. MARC’ANTONIO lo manda a trucidare, e Cicerone porse il collo alla spada (Plut.) Ama la famiglia con tenerezza. Esule, scrive a Terenzia sua e alla figliuola lettere d'amore sconsolato. Come CICERONE intende la santità dei pubblici ufficj, lo mostra la famosa lettera a Quinto fratello. Le sue lettere, scritte da lui senz'intenzione di pubblicità, e che formano uno de' più bei libri del mondo, lo mostrano sempre d'animo schietto e buono. Scrive a PETO. “Sii persuaso, che giorno e notte non altro cerco, non altro penso, se non che i miei cittadini sien salvi e liberi. Non lascio opportunità d'ammonire, di fare, di provvedere. Infine io son fisso qui, che se in tanta cura e amministrazione ho da porre la vita, stimo di aver finito preclaramente. (Ad fam.) Non pecca d'orgoglio, ma di vanità; si lodava spesso, e questo aizza gl'invidiosi, e a lui diminusce rispetto. Faceto, morde non di rado altrui, e, senza volere, s'accatta nemici; ma in lodare i meriti veri abbonda con allegrezza e con liberalità d'uomo sincero e benevolo. Parve talora incerto ne' propositi, e troppo addolorato nelle sventure. Prende due mogli, ripudiando la prima. Volle dedicare un tempio alla figliuola morta. Loda e invidia gli uccisori di GIULIO CESARE. Loda prima GIULIO CESARE troppo, ma non l'opere mai. Dice Capponi (Archivio Storico ): Ma chi fosse più di me severo a Tullio, pensi com'egli animosamente comincia la sua vita d'oratore e la compiesse gloriosamente. Assalse nella difesa di Roscio d'Amelia un Crisogono liberto di Silla ch'era affrontare SILLA medesimo. Principe nella città e guida e anima del Senato, combatte MARC’ANTONIO e incontra la morte.Oratore, accusa sempre gli scellerati, difese qualche volta i non innocenti. FILOSOFO, stette per lo più dalla parte del vero. Bensì approvò il suicidio, l'assassinio de' tiranni, la vendetta, un certo sfogo di carnalità, e la schiavitù. Uomo di stato, cerca troppo la lode, ma insieme la grandezza e il bene della patria. Scrive d'eloquenza, ed e oratore sommo. Scrive di filosofia morale, ed e uomo dabbene. Scrive di cose civili, ed e gran cittadino. Ecco i fatti principali e virtù e difetti che spiegano LA FILOSOFIA DI CICERONE.  È impossibile non vedere in CICERONE tre forti amori, di gloria, di patria e di famiglia. E' reca in tutto ciò un'ardenza di cuore, la quale ha talvolta del molle, ma la tenerezza è temperata da un senso vivo d'onestà e di decoro. (V. le Lettere scritte in esilio.) Ude tutte le scuole, e però raccoglie il meglio; ma con iscelta libera e ordinata, perchè uomo libero ed T 11 tro operoso, e ingegno forte. Romano e uomo di stato, segue, più che non facessero le scuole greche, il precetto socratico di badare nella scienza al fine del bene; e tal qualità pratica non diminuisce il valore delle dottrine, anzi lo cresce, purchè la scienza si pregi anco per sè, come fa CICERONE. Badando al bene, odia la parte ipotetica e vana de sistemi anteriori, e ne prende il poco, ma certo e buono. Però, indulgente ad ogni setta, coll’Orto non volle mai pace. Un po' vano, pompeggia assai nelle parole; il che gli scema vigore qua e là. Ma nella filosofia va semplice e spedito. Uomo universale, senatore e console di Roma, cerca l'universalità negli; e questa filosofia da a 'Romani l'idea di tutto il sapere. Pieghevole alla opinione altrui per bontà di cuore e per bramosía di favori popolari, combatte nella “Divinazione” le falsità del culto, le rispetta in altri luoghi; ammira il suicidio dei filosofi del Portico, non se l'attenta per sè, timido, dicon taluni, rimorso da coscienza non confessata, dirò io, e lo credo. Taluno da quelle parole di CICERONE ad Attico: ATÓMp492 sunt; minore labore fiunt, verba tantum affero, quibus abundo” (Ad Att., XII, 52). Deduce ch'esso i libri filosofici traduce, non li facesse di suo. Ma quando poi sentiamo che Cicerone stesso, in tempi che gli autori greci erano familiari, e molti a Roma i maestri greci, e in opere dedicate a dotti di greco, quali ATTICO e BRUTO, o a studenti in Grecia, come il figliuolo, dice (De fin. 1, 3): Noi non facciamo ufficio d'interpreti, ma sosteniamo le dottrine di coloro che approviamo, e aggiungiamo ad essi il nostro giudizio e un ordine nostro di scrivere. E dice altrove (De off. I, 2): Ora seguiremo e in tal soggetto il PORTICO principalmente, non come interpreti (non ut interpretes); bensì, al solito nostro, berremo a’lor fonti quanto per giudizio e arbitrio nostro ci parrà.” Allora, io affermo che Cicerone non poteva dire una bugia così sfacciata ed inutile. Narra egregiamente Plutarco. Eragli studio comporre dialoghi di filosofia e tradurre dal greco  an 10 1:. bi lice. li 1 tes  377 (In Cic. ). E così un greco antico, più che i moderni non greci, distingue bene i libri tradotti come il Timeo da'propri di Cicerone. L ' opere di lui distingue Ritter in filosofiche o riposte ed in popolari. A me non sembra; sì scorgo chiara la distinzione del DIALOGO SPECULATIVO, come i libri accademici, dagli scritti che hanno un fine pratico, ad esempio gli Offici, dell'Amicizia, e simili. Negli Officj chi mai non vede un ordinamento scienziale? E se CICERONE rispetta gli dèi più qui che altrove, pensiamo che ciò s'usa da tutti i filosofi, quando essi non ispeculavano direttamente sulla divino. Mi pare, poi, manifesta la distinzione, e più principale: tra la FILOSOFIA NATURALE (De natura Deorum, De divinatione ), LA LOGICA -- Academicorum, Topica, De inventione, De oratore etc. – LA FILOSOFIA MORALE (Tusculanorum, De officiis, De finibus, De senectute, De amicitia, De legibus, De republica, De fato. Quantunque in ciascuna classe si trovino mescolate più o meno le dottrine, non già divise assolutamente. L' Ortensio poi è perduto, d'altri libri restano frammenti. Or dunque Cicerone, imitando Socrate, tornò a'principj e al fondamento del sapere. Quegli, come questi, si trova in mezzo a una confusione di sistemi, e, come Socrate, chiama i suoi al conosci te stesso, affinchè nella coscienza di noi prendiamo il rimedio alle superbie d'ipotesi vane e il principio della sapienza vera. Quand' io dico che CICERONE imito Socrate, già non lo paragono a lui, nè come filosofo glielo fo uguale, sì discepolo; dico bensì, che il tornare a'principj è in tutte le cose rinnovamento unico e condizione di nuovo cammino; e chi rinnova, è istitutore novello e cominciatore d'un'epoca propria. E se CICERONE non riuscì a tanto come Socrate, ne chiarii altrove le cagioni; e a lui non s'ha da imputare. La scienza e la civiltà del Paganesimo cadeno, e sempre più CICERONE le trova quasi in fondo, nè potè nè sperò ritirarle in cima. Fatto è, che CICERONE, come Socrate, capi la stranezza delle sette pagane. Ama con grand' amore la filosofia, 2  ! la pre 18 MA Tha U. >> TH e ne scrive lodi magnifiche in ogni suo libro; anzi l' Ortensio e composto da lui per esortazione a filosofare; e nondimeno quand' ei volgevasi attorno, e sente le strane opinioni di tante sette, esclama: Niente si può dire di tanto assurdo, che non sia stato detto da qualche filosofo. (De div.) Ammone per ciò a rientrare nella propria coscienza, a ripigliare il conoscimento di noi, a seguire così una filosofia meno sicura de' propri sistemi, non presuntuosa (minime arrogans: De div. II, 1 ). Ripeta il precetto che sta sul tempio d'Apollo, nosce te ipsum, e dice: Essendo tante e sì grandi cose che si scorgono nell’uomo interiore da quelli che voglion conoscere sè stessi, madre loro e educatrice è la Sapienza (De off.). CICERONE invita a fermar l'occhio in questa evidenza interiore, dove tante verità si veggono chiare -- quæ inesse in homine perspiciuntur. In questa coscienza di noi stessi, CICERONE come Socrate, più di Socrate forse perchè ROMANO, sente l'uni versalità del vero, distinta dalle opinioni particolari, e l'amore che tende al vero, e l'essere nostro sociale e religioso, relazioni universali anch'esse; e però CICERONE inculca sempre di fermar l'occhio in ciò ch'è proprio dell'uomo, ossia nella retta ragione (De off.); e contro L’ORTO fa valere gli affetti più generosi dell'animo (ivi, e negli Acc. e ne Tuscul. e quasi per tutto ); e chiama in sostegno il senso comune e le tradizioni umane e divine. Così ne' libri Tuscolani adopera l'autorità del senso comune a dimostrare l'esistenza di un divino e l'immortalità dell'anima umana; e dice ne'Paradossi contro gli Stoici Noi più adope riamo quella filosofia che partorisce copia di dire, e dove si dicono cose non molto discordi dal pensar della gente. (Proem.) – cf. Grice, “Philosopher’s Paradox” -. E nelle seguenti parole del Tuscolani si vede com'ei raccogliesse, di mezzo alle opinioni varie, le tradizioni universali de filosofi e le divine. Inoltre, d'ottime autorità intorno a tal sentenza --cioè l'immortalità dell'anima -- possiamo far uso; il che in tutte le que HIE ale Di D. 4 stioni e dee e suole valere moltissimo -- in omnibus causis et debet et solet valere plurimum. E prima, di tutta l'antichità (omni antiquitate ) -- la quale, quanto più era presso all'origine divina (ab ortu et divina progenie ), tanto più forse discerneva la verità. » (Tusc.) E tra filosofi, che CICERONE cita, preferisce appunto FERECIDE, come antico, antiquus sane; e indi ne conferma l'autorità con quella di Pitagora e de' Pitagorici; il nome de'quali, egli dice, ebbe per tanti secoli tanta virtù che niun al tro paresse dotto (S 16). E dice più oltre che, secondo Platone, la filosofia e un dono, ma quanto a sè, una invenzione degli dèi. Philosophia vero omnium mater artium, quid est aliud, nisi, ut Plato ait, donum, ut ego, inventio deorum? » ($ 26. ) Nel che s'accenna il principio divino della sapienza e della tradizione. Condotto da questo filo tra i ravvolgimenti delle sette cansa gli eccessi d'ogni maniera. IL PORTICO, per esempio, la cui morale severità CICERONE approva e segue, dice, che nessun uomo è buono fuorchè il sapiente. Ma di questo sapiente ne fa un'idea sì alta. che confessavano poi, e' non darsi quaggiù; e però IL PORTICO, se consentanei a sè, dovevan dire impossibile umanamente la loro superba virtù e disperarne come BRUTO morente. CICERONE al contrario riconosceva una più umile sapienza e virtù, che può essere di tutti, e che ci abbisogna nel vivere comune. (De amic.) IL PORTICO, crede CICERONE, indiando la natura, di poter trarre le superstizioni volgari a senso ragionevole (come tenta VARRONE per testimonianza d’Agostino – “Città di Dio”. Ma Cicerone le deride (De nat. Deor.). Mena buono all’ACCADEMIA, al LIZIO, e al PORTICO, che la più alta felicità dell'intellettuale natura sia la contemplazione (Hort. in Agost. De Trinit.). Ma in questa vita, ei dice, la contemplazione senza la pratica delle virtù è nulla (De off.); e quindi censura Platone che scrive: Il savio non essere obbligato a civili negozi. (De off.). IL PORTICO, per alterezza di ragione, spregia il corpo e i beni corporei. Ma Cicerone dice:  11 he COL iti be 111 15:-11 19 Poichè s'ha da seguire la natura. Noi siam anima e CORPO. Non possiamo spregiar il corpo, nè si dee imitare que'filosofi, che accorti d'un che superiore a'sensi ne spregiano la testimonianza. Con che l'accoccava pure agl’Accademici. (De fin.). IL PORTICO nega l'efficacia del dolore sull'uomo sapiente, e svile ogni piacere. CICERONE invece mostra che il dolore eccessivo è impedimento agli officj, e che le temperate giocondità son utili e buone. (De sen., De fin.). IL PORTICO, concependo la virtù con altezzosa rigidità, stimano uguali tutti i malvagi e tutti uguali i peccati, perchè tutti contrarj al bene. CICERONE confuta in più luoghi tale uguaglianza e mostra, per esempio, ch'altro è mancare a posta, altro è nell'impeto di passione. (De off.) Se nella morale ei tenne dal PORTICO, rigettate le loro esagerazioni, in logica, metodo filosofico e analisi di concetti stette per l’ACCADEMIA giacchè, come dissi altrove, la riforma del filosofare comincia sempre da un dubbio temperato. Ma qui è il divario, la temperanza; perchè, dove l’ACCADEMIA (a quello che ne sappiamo) nega ogni verità e CERTEZZA nel percepire le cose e ammetteno solo una verosimiglianza, uguale per tutte le opinioni. CICERONE invece ne' fondamentali principj e nelle verità più alte non poneva dubbio, e quanto a' casi particolari li stima probabili, non ugualmente, sì convarietà di gradi; e al probabile opponeva quel ch ' è improbabile affatto. Ecco le sue parole: Vorrei che fosse ben chiaro il nostro pensare; chè noi non siamo già di quelli il cui animo si crede aggirato sempre in errori, e senz' alcun che da tenere: che sarebbe mai questa mente, o questa vita piuttosto, negata ogni ragione, non solo del disputare, ma del vivere altresì? Noi invece, come dagli altri si dicono certe alcune cose e alcune incerte, così noi, dissenziendo da essi, diciamo probabili alcune e alcune improbabili. (De off.) Qui si scorge, che il dubbio di Cicerone non cade punto sulla ragione umana e sulla vita, o sull' essere proprio, ma sul domma fisico e morale del PORTICO. E nel libro delle Leggi dice” « Preghiamo poi, che questa Accademia nuova di Arcesilao e di Carneade, perturbatrice di tutto, si cheti; perchè se darà dentro a tali dottrine, che ci sembrano ordinate e composte con assai aggiustatezza, recherà troppo rovina. Io bensì desidero placarla, ma cacciarla non oso.La qual conclusione mostra, ch'ei non rigetta in tutto i dubbj, ma dov'essi erano cattivi. E più si discosta dagl’ACCADEMIA allor chè dice. Quasi in tutte le cose, ma nelle fisiche più che mai, saprei dire piuttosto quel che non è, che quel che è. (De nat. Deor.) Nel vivere nostro, e massime a quei tempi fra tanto diluvio d'opinioni non monta già poco il sapere quel ch’una cosa non è; significa sapere che il divino non è come noi, che il divino o l'animo nostro non sono CORPO, che il fine dell'uomo non è la voluttà; negazioni pregne d'affermazione, implicita si ma certa. E chi vuole stimare quanto merita il ritegno di CICERONE, anc' allora ch ' ei parla di probabilità negli officj particolari -- non mai nella legge suprema -- pensi l'assurdità del panteismo e del dualismo antichi, le finzioni rozze di quella fisica, l'incertezza della morale, anche in Platone e Aristotile; e s'accorgerà, che se Socrate meritò lode dicendo, contro l’arroganza de' sofisti. Io so di non sapere, merita pur lode il nostro CICERONE d'averlo imitato in tanta corruzione di filosofia e di costumi. E quindi ei non ha dubbiezze contro L’ORTO. Dice a loro: che la voluttà sia il nostro fine, voi non lo direste in Senato; nè la voluttà va messa tra le virtù com'una meretrice in un'assemblea di matrone. (De fin.) La natura ci ha fatti per qualcosa di meglio che non i piaceri del senso. Il piacere stesso non cato per sè, ma per noi (De fin.). Il dovere ha da cercarsi per sè stesso. E la dottrina dell’ORTO, se consentanea a sè, non lascia luogo al dorere. (De off. ) Ma questo sceverare il vero dal falso, con che 01. Jo (dine interno di principj si faceva? Già ho detto, che Cicerone ritorna al conosci te stesso di Socrate, cioè al fondamento della coscienza. E ho accennato, che ivi egli trova l'uomo non solitario, ma in relazione conl divino, con gli altri uomini e col mondo. Però esclama: « In questa magnificenza di cose, in questo cospetto e conoscimento della natura, o dèi immortali, oh quanto conoscerà sè stesso l’uomo; il che c'impose Apollo Pizio! (De off.) Per via della coscienza, s'accorse Cicerone in modo chiarissimo di tre verità: prima, che l'uomo sta sopra l'altre cose; poi, che la ragione dell'uomo prevale al senso e al corpo di lui; infine, che questa ragione ci mostra il divino con le sue leggi. Viene da ciò la definizione della sapienza o della filosofia nel II libro degli Officj (S2): scienza delle cose divine ed umane e delle cagioni di queste; definizione più determinata che non l'altra ne' libri Tuscolani (V. 3), dov'ei parla storicamente. E s'arguisce però, che Cicerone stringe la scienza prima, secondo la universalità di essa, nel conoscimento ragionato del divino e dell'uomo e de’sommi principj. CICERONE capisce, come nella scienza si désse un ordinamento necessario; e diceva: « È malagevole sapere alcun che in filosofia, chi non ne sappia o il più o il tutto. » (Tusc. II, 1. ) Cicerone, come Socrate, ebbe una profonda coscienza della ragione. Bisogna riflettere a noi stessi; in noi tro viamo la ragione, che ci distingue da' bruti e dalle al tre cose; nella ragione troviamo i giudizj spontanei, naturali, evidenti, universali. Questi fa d'uopo seguire. Ecco il principio ordinatore della scienza e della virtù. Il tempo, scrive Cicerone, cancella i capricci delle 110 stre opinioni, ma conferma i giudizj della natura. Opinionum enim commenta delet dies, naturæ judicia con firmat (De nat. Deor.). Ma questi giudizi erano avviluppati in una moltitudine di sistemi. Però, quanto alla teorica dell'essere, Cicerone sta contento a poco. Chi potrebbe mai condannarlo d'insipienza? Egli non si dà pensiero nella fisica nè de quattro elementi, nè del quinto d'Aristotile, nè della materia o della forma. Le sue indagini hanno per fine la esistenza e natura della divinità, le relazioni di questa col mondo e l'immortalità dell'anima umana (Ritter). Quanto alla divinità, egli non ne dubita punto, perchè sentiva nella ragione propria un che divino, la eterna legge della giustizia (De leg.). Ma intorno alla natura di Dio non afferma gran cosa. Del metodo di lui, su tali materie, porg' esempio il libro De natura Deorum. Ivi disputano insieme un epicureo, uno stoico e un accademico. L'accademico nega il dio animale degli Stoici, e termina dicendo: « Questo io diceva, non perchè voglia negare la natura divina, ma per mostrare quant'ella sia oscura e piena d'intrigate difficoltà. » Lo stoico poi combatte l ' epicureo. Cicerone, che si tiene da parte e non entra nel dialogo, che cosa conclude? E' dice: la disputazione di COTTA (Accademico) sembra a VELLEIO (Epicureo) più vera. A me l'altra di BALBO (Stoico), più verosimile. Cicerone, adunque, mostra con singolare finezza quanto i dubbj dell'Accademia piacessero agli Epicurei; e però com’egli, che s'allontana da questi, s'allontani pure da quella ragionando sul divino. Pur tuttavia non sa nulla giudicare assolutamente sulla natura del divino stesso e solo ammette verosimiglianze. Insomma, le dottrine certe di lui le abbiamo ne' libri morali, dove si afferma l'esistenza della divino (fonte ll'ogni giustizia e d'ogni diritto ), la legge morale e il libero arbitrio, e dove perciò s'approva il detto di Crisippo, ch'ogni proposizione è vera o falsa necessariamente (De fato); le opinioni verosimili si hanno ne' libri di FILOSOFIA NATURALE, dove apparisce dubbj sulla natura del divino e dell'anima, e sulle relazioni del divno con l'universo, e quindi sulla prova fisica della divinità provvidente; ne' libri logici, finalmente, su ' principj della ragione e sull'evi denza interiore non v'ha dubbio di sorta, beusì v'ha dubbio sul criterio per giudicare la natura delle cose esteriori percepite da ' sensi. Anche  Kant pose superiore la certezza dell'argomento morale ad ogni altra certezza. Ma Kant celebra quell'argomento dopo aver negata la validità della ragione pura o teorica o speculativa. Cicerone, al contrario, non la nega mai, anzi la magnifico, e solo crede ristretta di molto la possibilità de' giudizj accertati. Dunque Cicerone, quant'alle dottrine supreme, e ch'egli poteva conoscere fra l'ombre del Paganesimo sempre più fitte, ammette la verità e la certezza; ma nel determinare più specificamente quelle verità pone la verisimiglianza. In ciò solo fu accademico; e non pienamente nem men qui, come avvertii già innanzi. Pare ch'egli cadesse nel dualismo, opponendo la necessità della materia alla libertà divina; e che cadesse nel semi-panteismo, facendo divina la nostra ragione. Il qual ultimo punto si raccoglie da più luoghi; ma più da queste parole. Le altre parti, onde si compone l'uomo, fragili e caduche, le prese da generazione mortale. Ma l'animo è generato dal divino (De off.), e ammonisce di rammentare nel giuramento, che chiamiamo in testimone il divino, « cioè, com'io penso (dice Cicerone) la mente propria, di cui non détte il divino all ' uomo nulla di più divino. » Se non che, si vede la temperanza dell'affermare in quello ut opinor; tant'era l' ecclissamento delle principali verità sul finire del Paganesimo! Quant'alla teorica del conoscimento, CICERONE distingue l'intelletto dal SENSO. Lo distingue tanto, che come Platone e Aristotile, trovando un'immagine del divino nella mente nostra, la identifica con esso. Anzi nel testimonio del SENSO non pone più autorità ch ' una verisimiglianza, il che procedeva dal dualismo, secondo il quale il divino e la mente son divisi dal resto. E per la logica si valse d'Aristotile, come si ha dal libretto de' Topici. È stupenda la teorica dell'operare; perchè ivi reca Cicerone più che altrove le verità universali raccolte dal testimonio della coscienza; e vi reca quel suo modo di escludere l'esagerazioni e di comporre le spatse verità con un principio più alto. Qual principio? Il rispetto della ragione, che, in quanto conosce la verità, è retta ed è regola delle nostre operazioni. Bisogna seguire, ei dice con gli Stoici, la natura, non l ' arbitrio delle passioni. Ma la natura nostra è ragionevole; dunque ogni atto nostro dee farsi con ragione e sottomet terle l' appetito. (De off. I, 28, 29. ) E questa ragione ha potestà di comandare, perchè sta in essa una legge naturale ed eterna del bene. « La legge (così Cicerone) è la ragione somma, insita nella natura, e che comanda ciò ch'è da fare, proibisce il contrario. (De leg.) Questa legge è nata da tutti i secoli, primache fosse scritta legge alcuna, o che qualche città fosse istituita. Questa legge viene dal divino, perch' ell ' è divina; e chi non ammette il divino, non può ammettere la legge eterna e naturale.  La legge è la ragione divina partecipata a noi; e poich' è comune la retta ragione, e la comunanza di questa è società, però noi siamo primamente consociati coll divino. E poich' ell' è comune a tutti gli uomini, noi in secondo luogo formiamo la società del genere umano « e tutti obbediamo a que st' ordine celeste, e alla mente divina, e a Dio sovrap potente » (parent huic celesti descriptioni, mentique divinæ et præpotenti divino. . Avendo questa legge divina nell'anima « tutti gli uomini (soli essi fra gli altri animali) han qualche notizia del divino, nè v'ha gente sì fiera che, ignorando qual divino adorare, pur non sappia che ve n'è uno. Noi dunque siam nati alla giustizia; e il gius non è costituito per opinione, ma per natura. Sì, per natura, giacchè siam tutti simili per la ragione, e ciascun di noi si definisce com’uomo, e la mente di ciascuno « è diversa in dottrina, ma nella facoltà del sapere è uguale. Dalla legge si genera il dovere, che va quindi cer cato per sè stesso, come sudditi alla retta ragione, ne vi può essere alcuna virtù se non si cerchi per sè, ma per la voluttà o per l'utilità. (De off.) Come la ragione guida ogni atto umano, così la retta ragione reca in ogni atto un officio. Talchè, dice il grand’uomo, « nè in cose pubbliche, nè in private, nè in forensi, nè in domestiche, nè se tu operi teco stesso alcun che, nè Storia della Filosofia. 25 se pattuisci con altrui; non v ' ha momento di vita che possa mancare di qualch 'officio; e nell'adempirlo è tutta l'onestà, nel trascurarlo la turpitudine. » (De off.) Nell'adempire gli officj stanno le virtù, cioè la prudenza, la giustizia, la temperanza e la fortezza. La virtù, se guendo la retta ragione che ci fa conoscere l'ordinamento naturale delle cose, non è altro che l'osservanza dell'or dine stesso (De off. I, 4); sicchè « nella universale so cietà son varj i gradi degli officj; onde si può sapere ciò che si conviene a ciascuno; e quello che si dee prima agli dèi immortali, poi alla patria, poi a' congiunti, infine di grado in grado agli altri. » (De off.) Ma tant'è vero, che tutto ciò si vuol fare per l'autorità della legge eterna in sè, e per la bellezza del dovere, che certe cose turpi non le giustifica nemmeno l'amore di patria. (De off.) Egli distingueva poi l'utile apparente dalla virtù: ma l'utile vero, diceva star sempre insieme con l'onestà; e quand' apparisce che vi sia contrasto, è turpe eziandio di star a pensare sulla scelta. (De off..) L'utilità è l'effetto, non il fine della virtù. (De amicitia) E dalla virtù nasce l'onestà (che in latino ha senso d'onorabilità ), anche se niuno la conoscesse: « etiam si a nullo lauda retur, natura esset laudabile. » (De off.) Giacchè la virtù reca con sè il decoro, ch'è come la bellezza: « l'uno viene dall' animo onesto, l'altra dalla sanità del corpo (De off.); e come il decoro de' poeti è la convenienza delle parole col significato, così il decoro della onestà è la convenienza con la natura. » (Ib. 28. ) Però, come i Greci dicevano o" te uovoy (yóv to 2026, il solo buono è bello, così Cicerone (come romano) muta il bello nel concetto d'onorabile, e dice: quod honestum sit, id solum bonum esse: onorabile è solamente ciò ch ' è buono. (Paradox. I, Osservazione del Ritter. ) Dalla legge eterna, che genera il dovere e la virtù. nascono le leggi positive; talchè l'esistenza di Dio è il proemio di tutte le leggi (habes legis proemium, De leg.). « È stoltissima cosa (segue Cicerone contro l’Orto) che credasi giusto tutto ciò ch'è negl'istituti e nelle leggi de' popoli. E che? dunque, anco le leggi de'tiranni?... Ma v'ha un unico gius, da cui è unita la società degli uomini, e cui stabilì un'unica legge ch'è la retta ragione di comandare e di proibire: e chi la ignora, è ingiusto, o ch'ella sia scritta o no. Che se la giustizia è solo l'obbedienza a leggi scritte e agl'istituti de' popoli; e se, come dicono coloro, tutto è da misurare con la utilità, trascurerà le leggi e le infrangerà se può chi lo creda fruttuoso. Così non v'ha più giustizia se non v'ha legge naturale, e ciò che per utilità è stabilito, da un'altra utilità vien tolto via. Anzi, se da natura non si conferma il giure, cessano tutte le virtù. » (De leg. I, 15. ) La legge naturale ha da regolare il diritto pub blico, quello delle genti e il privato; e il filosofo nostro dà precetti santi sulle pene, sulla guerra, sui trattati. sui contratti e va' discorrendo. Così, dovrebb' essergli più mite il giudizio degli stranieri, a legger ciò ch'ei dice della Repubblica romana: dopo averne narrato l'umanità ne’secoli primi, aggiunge che questa diminuì a poco a poco, e dopo le vittorie Sillane cessò; e quindi esclama: jure igitur plectimur « a ragione dunque siamo puniti. » De off. II, 8. ) E quella pena noi abbiamo scontata per se coli. De' pubblici reggimenti loda il misto, per gli stessi argomenti d'Aristotile e con l'esempio di Roma. (De rep.) Che fa adunque la filosofia di Cicerone? Essa gli donò (com’ei ripete più volte) copia e splendore e, col crescere degli anni, efficace brevità d'eloquenza; gli dettò que' Dialoghi di metafisica, dov'hai il fiore de sistemi greci, eletti e temperati; que' libri rettorici, che sono un codice dell'arte per comune giudizio; e que' libri morali degli Officj, delle Leggi e della Repubblica, dove al me todo sperimentale dello Stagirita è unita la contempla zione platonica e la severità stoica, senza i loro eccessi. Però, quand' io sento uno storico illustre' scusarsi del l'aver troppo parlato di Cicerone perchè in lui non v'ha troppo di nuovo, prego Dio che la scienza ritorni alla natura, e, più che dell'insolito, sia desiderosa del vero. La giurisprudenza è scienza filosofica, perché riguarda gli alti umani o personali. La giurisprudenza positiva non altro fa se non appli care il diritto naturale. Si cerca, quindi, lo svolgimento della giurispru denza romana e quanto alle forme logiche, e quanto alla materia. Quattro età del gius romano. Prima età: consuetudini. È difficile determinare qual parte avesse la civiltà, e quindi la scienza, in que' primi germi del diritto. Ma vestigi di sapienza ve n'ba. Che cosa abbia di vero e di falso la tradizione sulle dodici tavole. La materia di esse certo è romana. Probabilmente la forma logica loro è di Ermodoro Efesio. Seconda età: si pubblica il segreto delle azioni. La giurisprudenza, perciò, viene alla gioventù dalla puerizia. Ma crebbe in modo segnalato allorché, sul cadere del sesto secolo di Roma, si propaga ivi la filosofia. Il settimo se colo è quello di Cicerone. Si prova con l'autorità di Cicerone, che allora si lero a grande stato la giurisprudenza per lo studio della filosofia. Allora si conceve l'idea d'un codice -- idea che vuol abito filosofico delle universalita. Terza età: la signoria de’ Romani, dilatandosi a tutta Italia, fa pos sibili le scienze. Cittadinanza romana a tutti gl 'I taliani. Gius italico che da il dominio quiritario, e il diritto de’ comizii anche per deputati ec. Colonie romane per tutta Italia. Si determina bene il concetto del paese italico. Gius equo e buono. Altra cagione della fiorente giurisprudenza; giureconsulti, per lo più, non sono causidici. Un'altra: l'emulazione in filosofia con gl’oratori. Cenno su’ principali giureconsul ti. Loro virtù. Com'apparisca dagl’autori, ch’essi citado ne' frammenti, lo studio loro ne’ poeti, negli oratori e ne ' filosofi. Si paragona que’ giure consulti a' matematici per tre ragioni. Vigore delle conseguenze. Cura nel l'evitare contraddizioni. Metodo induttivo e deduttivo. L'efficacia della filosofia non si ristringe alla forma logica. Passa alla materia. Tale influsso non apparisce solo da prove particolari, ma più ancora dalla universale conformità di quelle dottrine alle leggi del pensiero e (salvo qualch'errore di tempi ) alla natura umana. Nozioni della giurisprudenza, e perchè i giureconsulti la definissero come la filosofia morale. Distingueno la scienza del diritto dall'arte. Però s'elevano al concetto della filosofia vera, rigettando gli eccessi: la speculazione de’ giureconsulti è contenuta nel vero da' dettami di senso comune e dal fine pratico. Distinzione del diritto in jus naturale, ius gentium et  ius civi. Si mostra ch'a torto i giureconsulti vennero ripresi sul concetto de’ diritti naturali. Non accettabile, quanto alla servitù, la nozione del gius civile. Ma i giureconsulti ROMANI diceno la servitù non secondo il gius naturale, e riconosceno un fatto. Come la parola “ius” non esclude l'idea d'un diritto eterno. E si distingue dalla espressione “legge.” Poi, si ha ne’ giureconsulti ROMANI l'idea precisa del diritto eterno e del diritto naturale. L'efficacia della filosofia si mostra nella giurisprudenza per via del diritto onorario, per via del diritto ricevuto, e per l'interpretazione de ' giureconsulti. Molte novilà introdotte dal gius ricevuto. La virtù e la vera FILOSOFIA de' giureconsulti ROMANI si fa sentire per fino nel loro stile. Si reca un saggio della loro sapienza e brevità elegante. Dalla esposizione delle dottrine di Tullio e de' giureconsulti romani apparisce che l'epoca quarta cerca la comprensione finale. Parlato di Cicerone, è da parlare de' giureconsulti romani. La giurisprudenza è una scienza che e una parte della FILOSOFIA perchè risguarda gli atti umani o personali. La giurisprudenza procede dalla FILOSOFIA MORALE, che abbraccia la scienza de' doveri e quella de' diritti naturali. La giurisprudenza POSITIVA non altro fa che determi nare nella varietà de' casi particolari le immutabili generalità del diritto eterno. Però, se LA FILOSOFIA entra in tutte le scienze com'ordinamento di concetti e di giudizj, entra poi nella GIURISPRUDENZA ROMANA, non solo com'ordine logicale, ma eziandio come scienza dell'uomo e delle ragioni supreme. Avrò dunque a cercare lo svolgimento di LA GIURISRPUDENZA ROMANA, per l'impulso di LA FILOSOFIA ROMANA, nel doppio aspetto della FORMA LOGICA e della materia. La storia di quella e distinta bene dall' Hugo in quattro età nella sua “Histoire du Droit Romaine.” La prima va dall'origine di ROMA fino a le XII tavole, cioè fino alla repubblica. La seconda fino a CICERONE. La terza fino ad OTTAVIANO. Se vero, oltre i due secoli dell'èra volgare. La  quarta eta, fino a GIUSTINIANO. Età di fanciullezza, di gioventù, di virilità, e di vecchiaia. Il giureconsulto Pomponio c'insegna (Fr. 2. D. De Or. Juris) che Roma, ne' primi tempi, si regge SENZA LEGGE nè diritto stabile -- cioè per CONSUETUDINE. La CONSUDETUDINE forma, dice Forti (“Istituzioni Civili”), il diritto privato con l'autorità degli esempi, cioè de' fatti ripetuti, e forma con gli accordi de'potenti il diritto pubblico. Così il potere assoluto del padre, del marito e del padroni è da' giureconsulti risguardato sempre per CONSUETUDINARIO, ed anche l'uso delle clientele. Quanta parte ha la civiltà, e con la civiltà la scienza, in que'primi rudimenti del diritto romano è difficile a definire in antichità si remota e perduti dalle guerre i documenti etruschi. Della Magna Grecia restano scritti, perchè le serba con la lingua loro la stirpe greca. Ma de’ LATINI PRISCHI e dell'Etruria non abbiamo più se non epigrafi tuttora ignote. Ogni lingua e schiatta si confusero nell'unità romana. Certo è, tuttavia, che, almeno gl’etruschi sono molto civili. Sembra non si possa dubitare che il sangue loro si mescolasse nel popolo di Roma -- benchè l'Hugo lo nega. Ma LUCIO FLORO, parlando della guerra sociale, dice chiaro. Quantunque la chiamiamo guerra “sociale” a diminuirne l'odiosità. pure, se stiamo al vero, quella e guerra *civile* -- giacche il popolo romano, avendo mescolato insieme gl’etruschi, i latini e i sabini, e traendo da tutti un sangue solo – “unum ex omnibus sanguinem ducat” -- , è di più membri un corpo e di tutti è una unità (Rer. Rom.) Lerminier nella sua “Philosophie du Droit” riscontra con molto acume in VIRGILIO la prima origine de' tre popoli, in Virgilio studiosissimo delle memorie antiche. Lodando l'agricoltura, VIRGILIO dice cosi. Questa vita tennero i vecchi Sabini, questa Remo e il fratello. Così crebbe la forte Etruria. In tal modo si fa la bellissima di tutti gl'imperi, Roma; e una, si circonda d'un muro i sette colli (Georgiche). Fatto è che a taluno par vedere i *tre* popoli nelle tre tribù del primo popolo romano, rammentate da Livio – TRIBU I: i Rannesi o Latini, -- TRIBU II: i Tarsi o Sabini, e TRIBU III: i Luceri o Etruschi (Warnkoenig, “Histoire du Droit Romaine”). Momen (Storia Romana) nega tal mescolanza. Ma Momsen non da le prove. Probabile, a ogni modo, che quel nuovo comune di Roma. sorto fra ’comuni vicini, si mescolasse pure di genti vicine. O si conceda dunque con Niebuhr la preminenza agl’etruschi, o concedasi a’ latini con l’Hugo, un in dirizzo nelle cose romane lo dettero i primi – gl’etruschi. Ciò spiega, come in tanta rozzezza di popolo guerriero e racco gliticcio come il popolo latino LATINO DEL LAZIO si possede un gius pontificio, e formule sacerdotali e simboli segreti. Questo io dico per mostrare che le prime consuetudini ed istituzioni hanno qualche ragione di civiltà, e riuscirono buon fondamento alla giurisprudenza perfetta. Però, fin dalla prima età, si scorge in Roma la mirabile distinzione da’magistrati (magistratus populi romani) che stabilivano il diritto, da' giudici (judex, arbiter ) che giudicavano del fatto (Hugo) -- distinzione che a poco a poco détte occasione al gius onorario. È noto che il reggimento di Roma sott’i re e, più, ne' principj della repubblica, e degl’OTTIMATI, cioè, aristocratico. Indi la opposizione civile dei PATRIZI colla plebe per avere un gius equo -- opposizione che, divenuta incivile o violenta, rovina la repubblica, come la prima ne forma la grandezza. La PLEBE dimanda leggi scritte per contenere l'arbitrio de' PATRIZI, e si promulga la legge di le XII tavole. Narra il giureconsulto Pomponio, che queste si raccolsero in Grecia, interprete d'esse l'efesio Ermodoro (Fr. 4, D. De Orig. Juris.). Certamente, PLINIO il vecchio (“Hist. Nat.”) rammenta come serbata fino a lui la statua fatta per decreto a questo Ermodoro. Talchè la tradizione non pare favolosa in tutto. Ma è certo altresì che in le XII Tavole, per quanto ne conosciamo, non si ha traccia del diritto che non e romano. L’essenza – l’essenziale -- giudizj, patria potestà e connubio, eredità e tutele, dominio e possesso, diritto pubblico e diritto sacro -- e cosa tutta romana, come dice Vico, e ormai ripetono i più dotti stranieri come Warnkoenig. Ma io credo abbisognasse l'opera di quel greco erudito per meditare questa o quella vecchia CONSUETUDINE, e RIDURLA A CONCETTI determinati ed a’lor capi principali, ufficio di riflessione addestrata. Nè ciò avrebber saputo I ROMANI, dati all'armi  anzichè agli studj. Ecco il per chè quella primitiva sapienza, logicamente specificata e distinta d’Ermodoro, trae in ammirazione Tullio. CICERONE scrive ne' libri “De Oratore”. Se ne adirino pur tutti, io dirò quel che sento: a me, il solo libricciuolo di le XII tavole, par superi (se tu guardi a' fonti e a'capi delle leggi) le biblioteche de' filosofi tutti nel peso del l'autorità e nella copia dell'utilità. Quanto prevalessero in prudenza i nostri maggiori a ogni altra gente, intenderà facile chi le nostre leggi romane paragoni a quelle di Licurgo, di Dracone e di Solone. È incredibile, di fatto, quant'ogni altro diritto civile, salvo il nostro romano, sia in colto e quasi ridicolo. (De Or.) Le quali parole attestano tre cose: l'antichissima civiltà di quelle genti che formano Roma, e che vi recano le proprie tradizioni, benchè si dessero, poi, a vita agreste e guerriera; la falsità che il gius civile romano procede ài Grecia ne' suoi particolari; e come la perfezione della giurisprudenza si svolge da principj non rozzi ne poco pensati. I ROMANNO danno la sostanza, i Greci probabilmente  LA MERA FORMA LOGICA, per GENERE E SPECIE – cioè, ordinamento di codice. Da le XII tavole nasce la necessità d'interpretarle per disputare in giudizio, e di avere azioni utili a domandare la loro applicazione. Di qui, come dice Pomponio venne il diritto civile non scritto o l'autorità dei prudenti, e le azioni delle leggi (“legis actiones”). Ma tutto ciò e un SEGRETO de' pontefici. Pubblicato il segreto nella seconda età, la libera giurisprudenza passa dallo stato infantile alla gioventù. Ma quando mai accadde tal cosa in modo più segnalato? A Roma si propaga il filosofare. Il secolo posteriore è appunto il secolo di CICERONE. Or bene, la giurisprudenza, cresciuta lentamente crebbe rapidamente. Allora proprio noi riscontriamo i giureconsulti studiosi della filosofia e quant'alle leggi del pensiero e quanto alla natura degl’atti umani in sè e nell' esteriori attinenze. Scrive CICERONE la “Topica”, o logica inventrice degli argomenti a preghiera di TREBAZIO, come si ha dal proemio di quel saggio, ov'è scritto. “Non potrei, adunque, con te, che me ne pregavi spesso, benchè timoroso di noiarmi, come scorgevo facile, stare in debito più a lungo, senza parer d'offendere lo stesso interprete del diritto. Sicchè queste cose, non avendo libri con me, scrivo a memoria nella mia navigazione, e dopo il viaggio ti ho mandate.” Il qual saggio è notevole molto, perchè ogni precetto è confortato da esempi di giurisprudenza. E di SERVIO SULPIZIO, primo in autorità tra' giureconsulti di que' tempi e solo studiato da' giure consulti posteriori, ecco che scrive CICERONE, amico di lui. “Si stima, o BRUTO, che grand'uso del gius civile s'avesse da SCEVOLA e da molt' altri, ma l'arte da que st' unico, cioè da SULPIZIO --  al che non sarebbe giunta in lui la scienza del giure, s'e' non avesse imparato quell'arte che insegna spartire le materie composte, esplicare con le definizioni l'ascose, chiarire con le interpretazioni l'oscure; e così a veder prima ben chiaro le cose ambigue, poi a distinguerle, e ad avere in fine la regola per separare il vero dal falso, le conseguenze diritte dalle contrarie. Questi adunque reca tal arte (massima di tutte l'arti ), quasi luce in tutto ciò che dagli altri si rispondeva o si faceva confusamente. (De CI. Orat.) Con le quali parole mostra CICERONE la forma di scienza che si prese dal diritto in virtù della LOGICA. E la FORMA scientifica, ch'è abito di riflessione interiore, leva le menti alle generalità, senza cui, come non istà scienza nessuna, così nemmeno la scienza del diritto. E il segnale n'è questo; che al termine dell'età seconda, cioè sul fiorire della filosofia a Roma, GIULIO CESARE e POMPEO ebber disegno d'un codice; disegno, che mostra l’uso e la stima degli universali astratti da ogni caso particolare, ordinati poi secondo GENERI E SPECIE -- giacchè un codice val quanto in istoria naturale un ordinamento PER CLASSI. Pare che SERVIO SULPIZIO effettuasse un alcun che di somigliante a impulso di Cicerone, il quale alla sua volta ne' libri delle leggi mostra un saggio di codice pel diritto pubblico, e al trettanto promise pel diritto privato. Nè qui entro in disputa fra due scuole alemanne, l'una che, con Savigny, sostiene il danno de’codici. Laltra che ne difende l'utilità. Dico a ogni modo (nè si contrasta ) che un codice non si fa senz'abito di speculazioni filosofiche. L'averlo pensato in Roma e tentato a quel tempo, chia risce la efficacia loro nella giurisprudenza. Essa pervenne a compimento nella terza età, cioè ne' primi due secoli e mezzo dell'impero. Il dilatarsi del dominio romano a tutta Italia prepara il campo alla filosofia. I Romani, sentendosi non più solo romani, ma italiani e uomini, la loro coscienza si chiarì e s'arricchì, e l'intelletto loro medito le verità universali. Di questo fatto non v' ha dubbio di sorta. Dopo la guerra sociale, per LA LEGGE PLAUZIA e LA LEGGE GIULIA DE CIVITATE SOCIORUM e data, come nota Haubold nella sua “Tavola cronologica per servire alla St. del Diritto”, a tutte le città italiche CITTADINANZA ROMANA -- eccetto i Lucani e i Sanniti. Poi consegueno la cittadinanza i galli oltrepò, conseguíta prima da'Galli cispadani. La ottenne tutta perciò la Gallia cisalpina. (Framm. L. de Gallia Cisalpina). In tal modo, come scrive Savigny, dopo la guerra italica i cittadini d'Italia divennero parte del popolo sovrano (St. del Dir. rom). Questo gius italico da dominio quiritario, o dominio solennemente e pie namente assicurato, immunità da tutte l'imposte dirette, libero governo municipale delle città italiane (ivi), diritto d'intervenire a'comizj o di mandarvi deputati. Talchè l'Italia, a ' tempi romani, con l'unità politica suprema serbò le unità politiche secondarie, che si chiamavano socio confederati. E questo accadde perchè i romani hanno già fatto l'unità naturale della nazione col mescolamento de’ sangui, spargendo ovunque le colonie (com'osserva Forti), nè per sei secoli ne mandaron mai fuori d'Italia. (Ist. Civ.). L'Italia, dice Hugo, non si considera mai una provincia; chè le provincie furono soggette a magistrati non propri, non compagne ma suddite (Hist. du Dr. Rom..) I romani, allora, si levarono con la mente all'unità naturale del territorio, come vediamo ne' Digesti. Al Fr. 99, $ 1 de Verborum significatione è scritto. Dobbiam credere provincie continue le unite all'Italia, come la Gallia cisalpine. Ma e la provincia di Sicilia più si ha da tenere per continua, essendo separata d'Italia da piccolo stretto. “Continentes provincias accipere debemus eas, quæ Italiæ junctæ sunt, ut puta Galliam: sed et provinciam Siciliam magis inter continentes accipere eas oportet, quæ modico freto Italia dividitur” Ulpiano. E al Fr. 9, D. de Judiciis et ubi etc., si dice.Le isole d'Italia son parte d'Italia e di ciascuna provincia. “Insulæ Italiæ pars Italiæ sunt et cuiusque provincie.” A questo concetto sì pieno vennero i romani tra gli ultimi tempi della repubblica e i primi del PRINCIPATO, cioè tra la prima e la seconda età. Ecco il perchè la giurisprudenza romana, con l'aiuto della filosofia, potè sorgere a tant'altezza. Si aggiunga poi, che le sevizie de' principi cadevano in Roma su'patrizi più sospetti, ma quel reggimento temperavano istituti repubblicani e ordini civili equi. Se no, come dice Romagnosi, non si capirebbe il perchè in un governo da turchi uscissero mai tanto insigni se natusconsulti e le belle costituzioni de' principi; e come ALESSANDRO SEVERO ha un consiglio di XVI sapienti, tra cui i più chiari giureconsulti, FABIO cioè, Sabino, Ulpiano, Paolo, Pomponio, Modestino e altri. (Ind. e Fattori dell'incivilimento. P. 2, C. 1, § 1-5. ).  E tanto è vero, che la notizia del “gius equo” e buono splendesse viva nelle menti romane, che lo strapazzo delle provincie, finita la guerra civile, non e punto legale, anzi contr'alle leggi; perchè, secondo le costituzioni come dice Warnkoenig, le provincie stano bene, le imposte sono lievi, lo stato pacifico, molto dell'amministrazione in mano di quelle (il che scusa in parte il popolo romano); ma infierivano i governatori. Popolo e senato li minacciavano con le leggi repetundarum, tornate vane per corruzione de'giudizj. (Hist. du Dr. Rom.) Tali cagioni principalmente formarono la sapienza de' giureconsulti romani. Inoltre, essi per lo più non eran causidici, ma scioglievano questioni di diritto in generale. E ciò indica sempre più e la natura scientifica del ministero loro, e perchè la scienza, libera da interessi particolari, progredisse continuamente. (Cic., De CI. Orat.). Poi, l'emulazione degli oratori che piegavano il gius alla varietà de’lor fini, co' giureconsulti che ne volevano serbare la severità, incita questi a gareggiare in isplendore di filosofia, e ad interpretare il diritto co' placiti del senso comune. Così da una disputa tra l'oratore CRASSO -- contemporaneo al padre di Cicerone -- e MUZIO SCEVOLA giureconsulto sull'interpretare i testamenti o a rigore di parola, o secondo la probabile volontà del testatore, nacque la giurisprudenza in quest'ultimo senso, ripresa da Forti, ma e forse meglio approvata da Cuiacio. Infine, l'esercitarsi tale ufficio da’giureconsulti senz'ombra di lucro, la illustre loro condizione e l'affetto all'antiche leggi e consuetudini di Roma, indica il perchè tennero essi per lo più l'austerità della morale del Portico, che ci chiarisce alla sua volta il decoro, l’equità e sottilità della loro scienza; e tutto insieme poi spiega la nobiltà di vita de' più tra loro, e n'è spiegato. Le poche notizie che n’abbiamo ce li fanno apparire la più parte uomini onorandi. Nomino dapprima QUINTO MUZIO SCEVOLA, assassinato a’tempi di MARIO. Dice POMPONIO che Muzio costitue primo il decreto civile, disponendolo per capi di materie (“generatim”) in XVIII libri. SERVIO SULPIZIO riduce il diritto a stato di scienza. SULPIZIO e prima oratore grande, poi giureconsulto per un rim provero che gli fa MUZIO SCEVOLA d'ignorare le leggi del proprio paese, egli oratore e patrizio. Sostenne la repubblica. Avversa i Triumviri. La repubblica gli alza una statua. Abbiamo di que' tempi ALFENO VARO e OFELIO, ambidue discepoli di SERVIO, e TREBAZIO (a cui la Logica di Cicerone) e un altro MUZIO SCEVOLA – PONTIFICE -- e CASCELLIO. Muzio non accetta da Ottaviano il consolato. Cascellio non volle mai comporre una formola secondo le leggi de' Triumviri; e a chi lo consiglia si temperasse rispondeva, “Son vecchio e senza figliuoli.” LABEONE, il cui padre e morto a Filippi, rifiuta il consolato da OTTAVIANO anch'egli, e serba spiriti antichi. Dice Pomponio: Ageio Capitoni si détte moltissimo agli studj. Divide l'anno in modo che sta sei mesi a Roma co' discepoli (“cum studiosis”), e sei mesi lontano per iscrivere libri. Così lascia XL volumi, che i più s'usano ancora. Ateio CAPITONE (segue Pomponio) persevere nell'antico. Ma LABEONE, che molto medita nell'altre parti della sapienza (“qui et in cæteris sapientiæ operam dederat”), per valore d'ingegno e per fidanza di dottrina comincia innovare molto” (Fr., D. De Or. Jur. ). I cinque giureconsulti più celebri e più recenti (lasciando gli altri) sono: EMILIO PAPINIANO, PAOLO, GAIO, ULPIANO, E MODESTINO. PAPINIANO, familiare di SETTIMIO SEVERO e principale nel governo, stette per GETA contro il suo fratello CARACALLA, e volendo costui una difesa legale del fratricidio. PAPINAINO la nega e venne ucciso. Scrive “I fatti,” che le dono la pietà, il buon nome e il pudore nostro, e che, a dirlo in genere, son contro al costume, si dee tenere che noi uomini dabbene non possiamo farli (Fr. D. De servis exportandis etc.). Gl’altri quattro illustrano, come dice, il consiglio di ALESSANDRO SEVERO. I giureconsulti, massime della terza età, levano a stato di scienza le loro discipline. Ciò nacque dalla molta erudizione loro, non solo in filosofia, ma eziandio in lettere; e se n'ha prova ne' lor libri per le citazioni da' Greci; com'a dire Omero, Ippocrate, Platone, Demostene e Crisippo. E il primo effetto e, come notai de' tempi di CICERONE, che la giurisprudenza prende forma logica tanto sicura e stringente, ch'è una meraviglia. Si sa da molti e ab antico, dice Hugo, la filosofia de' giureconsulti, ma si sa da pochi, che nessuno più di quelli sta in confronto de’matematici per tre ragioni. Cioè per vigore di conseguenze da principj fissi, per diligenza nell'evitare contraddizioni -- che Gaio dimandava “inelegantia juris” -- , e pel metodo distintivo e compositivo, induttivo e deduttivo ad un tempo -- distintivo e induttivo salendo alle specie generali del diritto; compositivo e deduttivo traendone con brevità ed evidenza le illazioni. Il gran Leibnitz, insigne filosofo, scrive nell' Epist. “Io ammiro l'opera de Digesti, o, meglio, i lavori de' giureconsulti, ond' ell' è presa. Ne vidi mai nulla che più s'accosti al pregio de matematici. O che tu guardi all'acume degli argomenti, o a'nervi del dire. Ma questa efficacia della filosofia non potè fermarsi all'ordine de' pensieri, dovè penetrare nell'interno, giacchè, com'avvertii, materia della giurisprudenza son gl’atti umani o personali, soggetto filosofico. Tal efficacia non si creda particolare ma generale. Quindi, coloro che cercano ne'giureconsulti le traccie minute o del Portico o d'altri sistemi, errano forte se non passano inoltre a considerare l'opera generale della riflessione interna. È certissimo, com'avvertono gl’eruditi, che i più de'giureconsulti tolsero dal Portico l'argomentare per analogia, l'amore dell' etimologie, la spartizione delle materie, LA SOTTILE DIALETTICA che conviene al foro, e molte dottrine sulla ragione dell'onesto, applicate da essi egregiamente al gius civile. Ma l'essenziale sta in quel gran corpo, così disposto bene secondo le leggi del pensiero, e, salvo qualch'errore de' tempi, così con formato alla natura umana nelle regole eterne di lei e nelle relazioni esteriori. Sicchè il gius romano serve di lume al gius de’ popoli più civili, come si ha dal codice Napoleone: e gli Alemanni, dimenticata noi tanta gloria, vi fanno su studj esimj e perseveranti. E perchè si chiarisca il filosofare intimo de' giureconsulti, guardiamo la nozione, ch'e'si fanno della giurisprudenza e della filosofia. Ulpiano nel Tit. 1 dei Digesti scrive. Dand'opera al gius, occorre prima sapere onde ne venga il nome. “Gius” è chiamato da giustizia. Perchè, come Celso lo define elegantemente, il gius è l'arte del buono e dell'equo. Però siamo chiamati, con ragione, sacerdoti della giustizia. Di fatto, professiamo la giustizia e manifestiamo la scienza del buono e dell'equo; separando l'equo dall' iniquo, e discernendo le cose lecite dalle contrarie; desiderosi di far buoni gl’uomini, non per timore delle pene, ma eziandio per l'incitamento de'premj; ricercatori, se non m'inganno, di vera e non simulata filosofia. Se la definizione della giurisprudenza si prenda qui a rigore, ella non regge, perchè si stende a tutta la filosofia morale. Ma se badiamo al concetto che avevano di questa gl’antichi, e al generarsi la scienza del diritto dall'altra del dovere, ci formeremo idea chiara del come intimamente e FILOSOFICA LA GIURISPRUDENZA ROMANA. Secondo i sistemi filosofici, sommità di perfezione umana è LO STATO ROMANO. Talchè la morale s'ordina alla politica. Concetto vero per l'attinenze esteriori, falso e pagano quant' all'ultimo fine. Non faccia dunque meraviglia se i giureconsulti romani definino il gius civile come la morale. Lo definano così, perchè, a sentimento di tutti gl’antichi, le due scienze si mescolavano in una. Noi con più ragione le distinguiamo, ma s'erra da chi ne dimentica l'unità superiore, ch'è la scienza de' primi principj e dell' uomo -- dimenticanza ignota agl’antichi, che però svolgeno razionalmente il diritto e non lo maneggiano materialmente. Notate ancora che nel passo citato si distingue la scienza dall'arte. Se nelle Istituzioni poi la giustizia è definita: Costante e perpetua volontà di rendere a ciascuno il suo diritto: e se la giurisprudenza è definita; Notizia delle cose umane e divine e scienza del giusto e dell'ingiusto, pr. e S 1, Inst. De just. et jure, si vuol fare la stessa osservazione detta di sopra; e noto con Cuiacio, che in tal luogo la giurisprudenza è indicata bene com' abito dell'intelletto o scienza, e com’abito della VOLONTA, secondo l'antica filosofia. E la filosofia la pensano essi, non senz'alta speculazione, ma contenuta nel vero da' dettami del senso comune e dal fine pratico. Di fatto s' inalzarono all'eternità del diritto -- come osserva Vico nella “Scienza Nuova” -- allorchè dissero: Il tempo non muta nè scioglie i diritti: “Tempus non est modus costituendi vel dissolvendi juris.” E, quando discernano il diritto naturale dal positive, nello stesso tempo rigetteno gl’eccessi del Portico, come l'eguaglianza della imputazione; finalmente derisero le stranezze, l'ipocrisie, l'avarizia di quelle sette in età di scadimento. Così sente Ulpiano, che distingue filosofia schietta dalla mascherata; e nel Fr. 6, § 7, D. al Tit. De his quæ in testamento delentur, è schernito il suicidio de' filosofi per ostentazione, e nel Fr. 1, § 4, D. de extraordinariis cognitionibus etc., dove si stabilisce gl’onorarj delle professioni, li nega il giureconsulto a' filosofi che, vantando di spregiare le mercedi, n'andano a caccia. I giureconsulti poi mostrno tre specie di diritti: jus naturale, gentium, et civile; distinzione che non si vuol confondere con l'altra più pratica in jus gentium vel naturale e in jus civile; e chi non vi badi, tassa i giureconsulti d'errori, ch'e'non hanno. La distinzione praticamette divario tra leggi proprie di Roma (jus civile) e istituzioni comuni a ogni popolo non selvatico (jus gentium vel naturale). L’altra è distinzione più speculativa e fondamentale. Ulpiano nel Tit. De just. et jure, D. dal Fr. 2 al 6, distingue diritto pubblico da privato; e distingue il privato in diritto naturale, che natura insegna a tutti gl’animali, come la procreazione de’ figliuoli; in diritto delle genti, del quale, tra gl’animali, hann' uso gl’uomini soli, come la religione verso il divino, l’obbedire a' genitori e alla patria: in diritto civile ch'è proprio d'un popolo. Ora, s'accusa Ulpiano d'aver confuso il diritto naturale con gl' istinti del l'animalità; ' e sì che Piccolomini da qualche secolo fa, come Warnkoenig, nota che qui, secondo le dottrine vere d' Aristotile, son distinti nel l'uomo i diritti che vengono dalla natura animale, quelli che vengono dalla razionale, e gl’altri che pone la comunanza civile. Non s'intende già che una bestia -- detta da' giureconsulti cosa, non PERSONA – ha diritto, ma che le potenze animali dell'uomo, in quanto appartengono all'uomo, generan diritti, come li generano le potenze razionali. Talchè in Ulpiano si trova benissimo sceverata l'animalità dalla razionalità. È da confessare invece, che il diritto civile si define per quello che toglie o aggiunge al diritto naturale e delle genti; e s'allude alla servitù ch'è contro alla natura, come si dice nel Tit. De regulis juris. Ma tuttavia meritan lode i giureconsulti, che se non condannarono la servitù, la dissero contraria bensì al diritto naturale, migliori di Platone e di Aristotile. Anzi nelle Istituzioni è detto, che il gius naturale e istituito dalla divina provvidenza, come insegna il Portico (De Jur. Nat. Gen. et Cir.); nel qual testo il gius naturale abbraccia pur l'altro delle genti. Poi, essi definino il gius civile qual e in fatto allora. Osservo di passaggio che il chiarissimo Conforti nel l'annotazioni a Stahl (“Storia della Filosofia del Diritto”, Torino) opina con altri, che i romani non avessero idea del diritto eterno, perchè jus viene da “iubeo”, comandare; dove la parola diritto, e le simili del francese, tedesco e inglese, hanno il concetto di rettitudine, o di rittura alla legge eterna. Ma quel valentuomo non pensa forse al come definisce la parola Jus Forcellini (Voc. ad V.). Gius è tutto ciò che in generale vien costi tuito da leggi o naturali, o divine, o delle genti o civili -- Jus est autem universim id, quod legibus constitutum est etc. Si nomina con altro nome equità comune, equo universale, legittimo, cioè adequato alle leggi, quasi norma e regola degli atti umani. Sicchè I ROMANI chiamano “ius” un che costituito da una legge qua lunque. Così distingueno la legge da ciò che ne procede, e ch’è l'EFFETO DEL SUO COMMANDO. Cicerone (Rep. et De Leg.) adopera legge e gius in tal significato. Ma la risposta migliore si è in quell'assioma de romani già citato: Il tempo non muta nè scioglie i diritti; conobbero, dunque, i romani la santità del diritto fuori del tempo, cioè nell'eternità, o nel suo fondamento assoluto. Inoltre vedemmo che il gius civile si distingue dal naturale. Ma tornando a'giureconsulti, la loro scienza origina il diritto onorario, di cui parla Forti se non con molta novità, certo con più chiarezza di tutti gli altri da me esaminati. E io ritrarrò in breve la sentenza di lui, e n'usce la prova del quanto potè la scienza dell'uomo e la filosofia morale in tanta perfezione di gius. Ma prima dico che il gius onorario contene gli editti del urbano e del peregrino, e quelli degli edili e proconsoli e propretori delle provincie -- edictum provinciale. Pare che il gius predetto, almeno in modo segnalato, principiasse per chè Cicerone nella seconda Verrina dice. Postea quam jus prætorium constitutum est. Hugo dimostra, contro Heinneccio, che tal diritto ha forza di legge; poichè, tra gli altri argomenti, Cicerone non contrasta nelle Verrine che L’EDITTO DI VERRE SIA LEGGE da tenere, ma lo accusa di averlo infranto VERRE stesso, o conformato non secondo ragione (Hugo, Hist.). Or dunque, i pretori rendevano giustizia ne'civili negozi, gli edili per le convenzioni de' mercati e per LA POLIZIA DELLA CITTA. E tanto gli uni che gl’altri, quando pigliavano i magistrati, mandano fuori un editto, ove stabilivano le forme del giudizio e LE MASSIME -- ottimo istituto in repubblica popolare. Non mutano il gius, ne determinano l'applicazione. Eccone gli esempi. In primo luogo, salva LA FORMA LEGALE,, si supponga che i contraenti hanno pattuito o per inganno, o per errore, o per timore, o per forza. Mancando la moralità dell'atto, la legge non conservavasi uguale per tutti. Quindi i pretori statuiron una MASSIMA PER L’EFFICACIA CIVILE DELLA MORALITA NEGL’ATTI, scuse legittime per negare agl'ingiusti la sanzione della legge e i mezzi legali. Perchè QUESTA O QUELLA MASSIMA d'equità si recassero ad effetto. I codici moderni han composto di questa o quella MASSIMA le lor legge universale. Allora, dice Forti, gli editti de' magistrati sono uno de' principali modi, per cui la filosofia venne applicata gradatamente ai bisogni civili. Sicchè, quant'alla moralità degli atti, trovarono i magistrati l'ECCEZIONI perpetue contro le obbligazioni per dolo, per timore, per errore, per violenza; la restituzione in intero, i modi legali a sciogliere le dette obbligazioni, od a ripetere ciò che pel tenore loro fosse stato pagato. In secondo luogo, la legge, definito il diritto e ordinatane la sanzione, lascia a'magistrati il modo d'effettuarla. Per esempio, la legge stabilice i modi d'acquistare la proprietà, ma non i modi della sua difesa; che più torna necessaria, quanto più divise le possessioni, e distinta la varietà de'godimenti e diritti che si comprendono nella mozione del dominio -- onde nacquero nuovi contratti e bisogni di nuove difese. Quind'i pretori differenziano a capello il dominio e il possesso, e gl'interdetti che lo proteggono, e va' discorrendo (Ist. Civ., L. I. S. 1). Le dottrine de'giureconsulti poi vennero a formare un'altra maniera di gius -- ioè il diritto ricevuto -- “jus receptum”. Essi, introducendo ne'contratti clausule, con cui si stipulava l'osservanza della buona fede, costringeno i magistrati a giudicare di que'contratti, non secondo la nude parola della legge, sì a lume di naturale onestà; come le clausale, si lodate da CICERONE uti ne propter te, fidemre tuam captus, fraudatusne sim; e ut inter bonos bene agier oportet et sine fraudatione (De Off.). I giureconsulti si dano all'interpretazione; e poi chè questa o considera la legge in sè, o L’ATTO DELLA VOLONTA UMANA, così la filosofia di que'sapienti gl’aiuto all’un fine con le spiegazioni delle parole e con la definizione de'termini astratti, e col mirare alla ragione della legge stessa: gli aiutò all’altro fine co giudizi sulla moralità dell’ATTO, e con le regole per interpretare l'altrui volontà. Gravina così accenna le novità del gius ricevuto. Dalle interpretazioni de' giureconsulti passate in uso, e mitiganti a poco a poco e come di soppiatto l'asprezza della legge, sono venute le regole di diritto, temperate dalla ragione d'equità. Nacquero da essi, l'uso dei codicilli, l'azione del dolo, le azioni quasi tutte che chiamaron utili, perchè procedono dall’equa e utile interpretazione, le stipulazioni aquiliane, autore AQUILIO giureconsulto, le varie differenze delle successioni. la regola catoniana, la sostituzione pupillare, il divieto della donazione tra marito e moglie, e l'altro che i pupilli s'obblighino senza l'autorità del tutore. Da essi vernero i giudizi di buona fede, le azioni rei uxorie, la querela dell'inofficioso testamento, e infine tutto ciò che si trova citato sotto nome di costumi, di consuetudini e di gius ricevuto (De ortu et progr. I, Civ., C. ) Tale acume di riflessione disciplinata reca i giureconsulti per fino ad un computo di probabilità sulla vita umana quant'all' usufrutto ed agl’alimenti (come si vede Fr. D Ad Legem Falcidiam ). Cosa notabile molto, perchè fa supporre grand'abito d'osservazione e di giudizi astratti. La virtù e la vera filosofia de' giureconsulti le sentiamo pur anche nel loro stile, che in mezzo alle ampollosità di SENECA e degli altri si tien semplice e puro.. Nelle Pandette v' ha errori di lingua, per vizio de' compilatori greci e de' copisti. Ma specie i frammenti di Gaio e d'Ulpiano son gioielli, ammirati da' principali maestri di latinità. Termino recando un saggio di tal sapienza ed elegante brevità, in alcune regole di gius dall' ultimo titolo de' Digesti. I diritti del sangue non posson finire per niuna legge civile (Fr.). Sempre nelle cose oscure s' ha da tenere il meno. Sta in natura che le comodità d'una cosa seguan colui che ne sente gl' incomodi. Ciò che dapprima è vizioso non si può col tempo sanare. Nulla è più naturale che sciogliersi a quel modo ch' uno s ' è legato. Però l ' obbligazione di parole sciogliesi con parole, e quella di nudo consenso con altro consenso. Che si fa o si dice nel caldo dell'ira, non si stima. Vi sia consenso d'animo, se non v' ha perseveranza. Nessuno può trasferire altrui più diritti che non ha. Sempre nel dubbio son da preferire le sentenze più benigne. L'erede si stima di quelle facoltà e di que' diritti che il defunto. È proprio di quel sofisma che i Greci chiamano sorite, o ammucchiato sillogismo, di trar la disputa, con lievissime mutazioni, da cose evidentemente vere a evidentemente false. Quante volte l’espressione in un discorso PARE rendere DUE sensi, prendasi quello ch'E PIU ADDATO AL DA FARE. Non si dà benefizio per forza. Nes suno può mutare il proposito suo in altrui danno. In ogni cosa, ma più nel gius, è da guardare all’equità. Ne’discorsi AMBIGUI è il più da guardare all'INTENDIMENTO DI CHI LI FA. Nelle cose oscure si badi al più verosimile, e a ciò che accade più spesso. Il timore vano non è buona scusa. Per l'impossibile non c'è obbligo che tenga. Le cose proibite da natura non sono convalidate da legge nessuna. Per gius di natura nessuno dee farsi più ricco a danno altrui. Per gius civile i servi si stimano nulla. Non per diritto naturale, secondo cui tutti gli uomini sono uguali. Quando l'impero si foggia all'orientale, la giurisprudenza cadde in vano eccletticismo; come n'è segno “la indigesta mole de’ digesti” e ciò accadde alla quarta età, o di vecchiezza. Poichè abbiamo con qualche sufficienza esposto la filosofia latina di CICERONE e de' giureconsulti, e abbiam veduto come proposito di questi e di quello apparisca sempre l'armonia tra le speculazioni e la pratica, e, nelle speculazioni, fuggire tutti gl’eccessi delle sette, componendone, guidati dalla coscienza e dal senso comune, un'unità, siam chiari, mi sembra, che veramente dopo la dialettica distintiva de' greci, tendevano I ROMANI alla comprensione finale, e che tal è proprio la qualità prevalente in quest'epoca quarta della filosofia. Cicerone affronta e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti della sua produzione teorica: e opere di argomento retorico; (le opere che parlano dei segni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di questo ambito, possiamo osservare che l'interesse per i segni non è ugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De oratore, l'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una problematica a carattere so- cio-politico, volta a definire la figura dell'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut- to ciò che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con esso anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tanto trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi;:ura come un vasto campo di competenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il De inventione, le Partitio- nes oratoriae e i Topica, opere molto diverse tra loro, ma accomunate dalla caratteristica di prendere in considerazio- ne e di sistematizzare la gran massa delle nozioni che com- pongono l'apparato tecnico della retorica. Un limite di que- ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa- rossismo, come nel De inventione, e che spesso non trova un'adeguijta giustificazione teoretica. Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è dato rintracciare gli spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno. 9.2.1 Il "De inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di Cicerone e con- densa l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino a Ermagora: è quindi naturale che al suo interno si tro- vino riprodotti alcuni aspetti della concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In particolare è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an- tecedente che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata l'attenzione verso i segni involontari (l'im- pallidire, l'arrossire, il balbettare dell'imputato) come indi- zi di colpevolezza. Infine compare la classica divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il fatto crimi- noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei segni proposta da Cice- rone è in larga misura diversa da quelle precedenti. Essa ap- pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar- gomentazione), cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle prove per confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere qualche cosa che si esco- gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in maniera probabile (probabiliter ostendens), o la dimostra in"un mo- do necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44). Anche se non viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione è proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è stato trovato (un indizio che viene depositato nel dossier dell'avvocato) rinvia a qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione (già aristotelica) tra una forza argomentativa debole (probabili- ter ostendens) e un'inferenza necessaria (necessarie demon- strans). 9.2.1.1 Rinvio necessario e non necessario I segni necessari sono così definiti: "Viene dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi né essere pro- vato diversamente da come viene detto" (ibidem). Ne sono esempi: "Se ha partorito, è stata con un uomo" (ibidem); "Se respira, è vivo", "Se è giorno, c'è luce" (De inv., I, 86). Come Cicerone spiega in un altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il conseguente sono legati da una re- lazione inscindibile (cum priore necessario posterius cohae- rere videtur, De inv., I. 86). Il rapporto di rinvio non necessario viene poi cosi defini- to: "Probabile è poi ciò che suole generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" (De inv., I, 46). Con questa definizione Cicerone mette in evidenza due caratteri: (i) quello probabilistico e (ii) quello doxastico; il primo di questi era da Aristotele attribuito peculiarmente al1'eik6s (verisimile). E infatti i primi due esempi sono di un tipo che Aristotele avrebbe classificato come eik6s: "Se è madre, ama suo figlio", "Se è avido, non fa gran caso del giuramento" (De inv., I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto di generalizzazio- ne che per Aristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet., 1357a). C'è però un terzo esempio, "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio" (De inv., 9.2 CICERONE), che non sembra dello stesso tipo, ma è più vicino al semefon aristotelico. 9.2.1.2 L'indizio La categoria di signum, poi, compare come una sottopar- tizione dei segni non necessari, accanto al credibile (credibi- le), all'iudicatum (giudicato) e al comparabile (paragonabi- le). Se le ultime tre nozioni appaiono distinte in base a crite- ri estrinseci (e scompariranno nelle trattazioni successive), il signum corrisponde a una categoria di fenomeni abbastan- za particolare: "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no- stri sensi e indica (significat) un qualcosa che sembra deri- vato dal fatto stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più sicura" (De inv., I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "il pallore", "la fuga", "la polvere". Si tratta, come si vede, degli indizi, intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e generalmente non vo- lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio- nale; ma niente vieta che vengano sviluppati in proposizio- ni, come dimostra il caso dell'indizio "polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio". Gli indizi, infine, vengono suddivisi secondo la nota relazione temporale con il fatto criminoso. Possiamo quindi schematizzare la classificazione propo- sta nel De inventione (cfr. p. 212). 9.2.2 "Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae sono un'opera della tarda matu- rità di Cicerone, nella quale la classificazione della materia semiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto al trattato giovanile. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente da quella dei modelli greci e viene completa- mente latinizzata. In secondo luogo gli indizi (qui chiamati argumentatio~ Né questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L'orazione per l'uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli dei" (Lanza). Il verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli argomenti intrin- seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di cau- sa congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di segni: i verisimilia (verisimili) e le notae propriae rerum (segni caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che accade per lo più" (Pari. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri- sponde ali' eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili- stico e generalizzante. La nata propria rei viene definita come "una prova che non si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co- me il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi- dentemente, del segno necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman- da alla nozione di fdion semefon (segno proprio). Per Ari- stotele il segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva carat- tere di necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si- gnis, I, 12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali necessaria (•ea quae aliter ac discuntur nec fieri nec probari pos- sunt"I es.: ·se ha partorito, è stata con un uomo" probabilis (•quod !ere solet fieri aut quod in opi- nione μositum est") es.: ·se è madre, ama suo figlio" signum credibile indicatt.:m comparabile ("quod sub sensum aliquem cadit, et quiddam significat, quod ex ipso .!'rofectu.m .est"I. es.: sangue , fuga , "pallore", "polvere" vestigia facll) non compaiono più come sottopartizione di un'altra categoria, ma assumono ur.. ruolo autonomo. Infine viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo- ghi estrinseci" (corrispondenti alle "prove extratecniche", titechno1) e "luoghi intrinseci" (corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1), che veniva criticata nel De inventione (Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei Topica. È curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle testimonianze umane, anche quelle "divine": gli oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti onirici) (Part. or., 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una concezione orda- lica e antichissima dell'amministrazione della giustizia; tut- tavia è anche un indizio di un continuo riaffiorare del para- digma divinatorio all'interno dei fatti semiotici, anche quando ormai i segni si sono completamente laicizzati. Né questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L'orazione per l'uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli dei" (V, 81; Lanza 1979: 105). 9.2.2.1 Il verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli argomenti intrin- seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di cau- sa congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di segni: i verisimilia (verisimili) e le notae propriae rerum (segni caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che accade per lo più" (Pari. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri- sponde ali' eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili- stico e generalizzante. La nata propria rei viene definita come "una prova che non si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co- me il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi- dentemente, del segno necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman- da alla nozione di fdion semefon (segno proprio). Per Ari- stotele il segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva carat- tere di necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si- gnis, I, 12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali vengono dati questi esempi: "un'arma, macchie di sangue, grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor- so contraddittorio, tremore [...]. gli indizi materiali della premeditazione, le confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive, rivelate" (Part. or., 39). Cicerone non definisce qufsto tipo di segni, se non dicendo che si tratta di "fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem), caratte- ristica condivisa anche dai signa del De inventione (I, 48), in cui ricorrono esempi analoghi, e dagli argumenta di Cor- nificio (Rhet. ad Her., II, 8). I commentatori si sono chiesti se i vestigia f acti siano più in relazione con i segni necessari (notae propriae rerum) o con i verisimili (verisimile) (Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi- che degli ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate- goria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai tekméria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo delle Partitiones oratoriae (114), dove ricorrono esempi analoghi, i vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono definiti come consequentia, cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica che definiva appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma mentre Aristotele condannava i semefa da un punto di vista episte- mologico per la loro insicurezza, Cicerone è pronto a rico- noscerne l'efficacia qualora si presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi schematizzare la classificazione cicero- niana nelle Partitiones oratoriae (cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla divinazione Molte cose collegano la retorica giudiziaria alla divina- zione. Innanzitutto il fatto che entrambe si avvalgano dei segni per arrivare alla conoscenza di fatti non direttamente accessibili alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente- mente congetturali e altri aspetti che sono invece naturali o coniectura -- I --vestigia facti osigna verisimili& notae propriae rerum c•quod plerumque ita r11·1 es.: ·adolescenza- incllnazione alla libidine· c•quod numquam aliter fit certumque declarat•) es.: ·tumo-fuoco· 1•sensu percipi potest") es.: ·sangue-uccisione• dati: alla dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu- rali) e prove extratecniche corrisponde la distinzione tra di- vinazione artificiale (basata sull'interpretazione e sulla con- gettura) e divinazione naturale. Infine, come Cicerone pole- micamente rileva (De div., Il, 55), i segni della divinazione sono talvolta interpretati in maniera diametralmente oppo- sta, proprio come avviene nel processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due interpretazioni di- verse ed entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i metodi dell'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti della di- vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di intellet- tuali della sua epoca, educati ai metodi di indagine della fi- losofia greca, a fondamento razionalistico, e contempora- neamente impegnato in politica, sente l'esigenza di operare una distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la divinazione fa, per lui, parte. La religione appartiene alla più antica tradizione romana e, posta come è ai fondamenti dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione dello stato ste~so; la superstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi spuri che inquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere respinta, anche per- ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel suo impegno di gestione della repubblica. Cicerone affronta questi argomenti nel De natura deo- rum, nel De fato e, soprattutto, nel De divinatione. Que- st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi sulle teorie storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazioni di Cicerone contro la teoria soste- nuta da Quinto sono particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una concezione generale del segno. 9.2.3.1 La divinazione "artificiale" Secondo la teoria di Quinto, gli dei si pongono come fon- te dell'informazione e come emittenti nei processi di comu- nicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinata- ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di divinazione, il pro- cesso comunicativo si struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla divinatio artificialis, in cui l'interpretazione dei segni è legata a un'ars, ovvero a una tecnica professionale di decriptazione, demandata a specia- listi, ciascuno esperto in un settore: extispices (esaminatori delle viscere), interpretes monstrorum et fu/gurum (inter- preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures (interpreti del volo degli uccelli), astrologi (interpreti delle stelle), in- terpretes sortium (interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed estratte a caso). In tale divinazione l'informazione proveniente dalla divinità si materializza prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica, secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau- se ed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il /6gos divino e costituisce il fato (heimarméne), non è conoscibile per intero da parte degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola divinità (De div., l, 125-127). Tuttavia viene prevista l'esistenza di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo srotolarsi di una gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre quanto prima è accaduto" (De div., I, 127). Questo fa sì che gli uomini, attraverso l'osservazione attenta, colgano il mo- do in cui gli eventi si ripetono e, pur non potendo conoscere direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne gli indizi caratteristici (signa tame.1causarum et notas cernunt) (ibidem). Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con- nessioni passate, si crea un vero e proprio codice basato sul- la iteratività. Si può schematizzare così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla iter attività 9.2.3.2 La divinazione "naturale" Il secondo tipo di divinazione è quello definito naturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma derivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso la mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di preveggenza derivan- ti da invasamento profetico, cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri- patetiche (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente no- minati, De div., II, 100), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la legano al corpo, partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo del codice è in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema:   emittente divino - Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div., II, 83); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio- so, ma a ben diverse cause naturali (De div., II, 62); (iii) l'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni ne- cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div., II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivata da ra- gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div., II, 74).segno interno - evento futuro • ricevente umano  9.2.3.3 Critiche "semiologiche" contro i segni divinatori Le obiezioni che Cicerone muove ai sostenitori della divi- nazione si basano su argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la quale Cicerone nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente carattere semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se- gni non siano veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli antecedenti rispetto a dei conse- guenti. Per distinguere i segni veri rispetto a quelli presunti della divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le tecniche scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica previsionale del contadino e dell'astronomo) e la divinazione. In entrambi i casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi; ma, mentre le pratiche pro- fessionali adottano una vera e propria metodologia che comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e congettura (coniectura)" (De div., II, 14), le prati- che divinatorie si basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso farà accade- re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva, è il codice (anche se si tratta di legami naturali basati sulla frequenza statistica) 1 e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip- pocratici tendevano a distinguere la propria scienza profes- sionale dalla divinazione e dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi si sbarazza in termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso della divinazione tecnica si farebbe appello all'osservazione iterata delle coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28). Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div., II, 83); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio- so, ma a ben diverse cause naturali (De div., II, 62); (iii) l'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni ne- cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div., II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivata da ra- gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div., II, 74).  Nel suo libro Semiotica e filosofia de/linguaggio Eco osservava come la semiotica, proprio nel mo­ mento storico in cui esce dalla marginalità, affermandosi come disciplina e vedendosi riconosciuto addirittura il ruolo di scienza paradigma, proprio in questo volgere di seco­ lo, appunto, diventa anche il referente ultimo di una serie di dichiarazioni che proclamano la morte del segno o, almeno, la sua crisi. Situazione non nuova, osserva Eco: la storia del pensiero occidentale è anche leggibile come storia di una cancellazione e rimozione, quella della semiotica come scienza, al di là dei (e nonostante i) numerosi preannunci, progetti, ipotesi di una teoria dei segni che, a più riprese, hanno percorso la riflessione teorica degli ultimi duemila­ cinquecento anni. La proposta d i Eco è quella di pensare a un progetto attuale di semiotica che trovi giustificazione proprio nello spazio che intercorre tra le attuali negazioni e le reali presenze del passato. Ciò significa che la semiotica deve percorrere a ritroso il cammino della storia e divenire archeologia del sapere segnico: diverrebbe così possibile su­ perare i crampi linguistici che sono alla base delle attuali de­ finizioni del segno (che ne criticano il formato come troppo angusto o troppo ampio, che comunque non ne ritrovano il modello quando escono dai sistemi verbali). Il presente lavoro costituisce un tentativo di accogliere il suggerimento di Eco e si propone di indagare le pratiche se­ miotiche delle origini e la riflessione teorica sul segno, che sono state elaborate dal mondo antico e che ci sono state consegnate dalla tradizione letteraria, filosofica, medica, storiografica, retorica. Si propone cioè di ritrovare le tracce di un filo rosso che percorre il mondo antico, dalle origini fino almeno al IV se­ colo d.C. e che porta alla costituzione di una nozione di se­ gno abbastanza diversa da quella proposta dalle teorie del Novecento. La maggior parte, infatti, delle dottrine del segno che so­ no state elaborate in questo secolo - sia in ambito linguisti­ co, a partire dal Cours saussuriano, sia in ambito più gene­ ralmente semiologico - si fondano su due presupposti, che risultano del tutto assenti nella riflessione classica su questo soggetto: l. il modello di segno, sul quale l'intera indagine semiologica viene articolata, è quello del segno linguistico; 2. il tipo di rapporto postulato come instaurantesi tra le due facce del segno è quello dell'equivalenza (p=q). Da que­ st'ultima assunzione dipende il fatto che la nozione di signi­ ficato più diffusa fino a qualche anno fa nelle teorie seman­ tiche fosse quella che lo vedeva come sinonimia o come de­ finizione essenziale. A partire, infatti, dallo strutturalismo hjelmsleviano, fino ad arrivare alle teorie di semantica com­ ponenziale e interpretativa di impostazione generativista, il singolo termine linguistico - o se si preferisce, la forma del­ l'espressione di un segno- è sentito come equivalente a una serie di figure del contenuto, o marche semantiche, espresse a loro volta metalinguisticamente da altrettante forme lin­ guistiche (ad esempio luomol ="essere animato" + "uma­ no" + "maschio" + "adulto"). Una indagine sul modo in cui nasce e si articola nell'anti­ chità classica la riflessione sul segno ci permette di scoprire che, rispetto al primo punto, in origine, non solo non si ha omologazione dei vari tipi di segno sotto la specie di quello linguistico, ma che, anzi, le due teorie (quella semantica del linguaggio e quella del segno non linguistico) procedono in maniera parallela, senza interconnettersi. Ne è un esempio chiaro il fatto che Aristotele adoperi il termine symbolon per indicare il segno linguistico e le espressioni smefon o tekmrion per indicare quello non linguistico. La saldatura avverrà molto più tardi, in Agostino, ma, in questo caso, sarà l'espressione linguistica a essere sussunta sotto la categoria più generale e già costituita del segno non linguistico. Per quello che riguarda il secondo punto, le pratiche se­ gniche che la tradizione ci ha tramandato e le teorie classi­ che prevedono un funzionamento del segno non secondo lo schema deli'equivalenza, bensì secondo quello deli'implica­ zione (p:Jq); per citare un esempio celebre, che percorre l'intera tradizione antica da Aristotele a Quintiliano, pas­ sando per gli stoici, un caso paradigmatico di segno è: "Se una donna ha latte, allora ha partorito". A questo punto è già possibile un confronto. Il modello antico, implicaziona­ le, appare non solo molto più interessante rispetto a quello equazionale, ma certamente molto più, per così dire, attua­ le: infatti è in corso nella ricerca contemporanea una revi­ sione di paradigma, che tenta di superare le semantiche co­ siddette "a dizionario" (che funzionano secondo il modello dell'equivalenza) per passare alla proposta di semantiche "istruzionali" (che funzionano secondo il modello dell'im­ plicazione). Tuttavia, l'interesse di un lavoro di ricostruzione delle teorie semiotiche dell'antichità non è limitato soltanto al re­ perimento di materiale sommerso, finalizzato, magari, alla costituzione di un quadro da mettere in confronto con quel­ lo attuale. C'è un interesse intrinseco anche nell'osservare come i campi nozionali, e la terminologia associata a essi si siano venuti distinguendo lentamente e abbiamo preso for­ ma a partire da situazioni di usi linguistici originariamente molto più magmatici. Anche in questo caso bisogna citare Aristotele come il primo che impone dei confini netti a ter­ mini e concetti, che sono stati usati sino alla fine del V seco­ lo a.C. e oltre (a esempio nei testi del Corpus Hippocrati­ cum) con una oscillazione semantica considerevole. Prima della categorizzazione aristotelica, espressioni quali semefon, aitia, prophasis, tekmrion, eikos, non solo costituivano un campo di termini imparentati, ma anche di termini che ammettevano una parziale sovrapposizione e in­ tercambiabilità (Lioyd). Ugualmen­ te, il riferimento culturale di certe espressioni era stato, pri-ma di Aristotele, eterogeneo e diverso: smafno, a esempio, come ci mostra il frammento 93 (Diels-Kranz) di Eraclito era il verbo che indicava la rivelazione oscura del dio di Del­ fi; tekmairomai, poi, denotava in generale il procedere at­ traverso un ragionamento congetturale, ma nei tragici e nei lirici veniva usato in riferimento alla pratica dell'interpreta­ zione divinatoria; smefon, infine (o la sua variante omerica séma), era il termine più complesso di tutti, indicando, fin dalle origini, una molteplicità di cose, dall'indizio al segno di riconoscimento, al prodigio divino, fino a essere usato come termine generale per il segno divinatorio (Bloch 1963: tr. it. 19; Benveniste 1969: tr. it. 477). È innanzitutto alla divinazione, all'astronomia e, tramite queste, all'arte della navigazione, che la problematica del segno viene in origine connessa. Come testimonianza di tale connessione, si può ricordare la cosmogonia di Alcmane in cui all'origine del mondo compare la dea marina Teti, accompagnata da tre perso­ naggi divini: da una parte P6ros (''la via") e Tékmor ("il se­gnale", "il punto di riferimento"); dall'altra Sk6tos ("l'o­scurità"). Come sottolineano Detienne e Vernant, Tékmor svolge un ruolo fonda­ mentale: "Nell'oscurità [sk6tos] del cielo e delle acque in origine confuse, egli introduce vie [p6roll differenziate, che rendono visibili sulla volta celeste e sul mare le varie dire­ zioni dello spazio, orientando una distesa prima sprovvista di ogni tracciato, di ogni punto di riferimento, aporon kai atékmarton". I naviganti devono congetturare (tekmafre­ sthal), sulla distesa indifferenziata del mare, la loro rotta e gli dei e gli indovini la fanno loro intravedere, fissando in anticipo percorsi e punti di riferimento. In questo modo i naviganti gettano un ponte tra il visibile e l'invisibile. Con Aristotele, i termini del vocabolario semiotico, che avevano mantenuto fino ad allora il riferimento alla sfera del sacro (e che continueranno a essere usati in tal senso fuori dagli ambienti filosofici e razionalistici), vengono pie­ gati a un uso esclusivamente profano (Lanza 1979: 107). Tuttavia, se si perde il carattere sacro delle origini, qual­ che traccia rimane ed è leggibile in trasparenza, se è vero che Aristotele, nella sua delimitazione dei campi concettua­ li, riserva l'espressione smeion al segno che non dà certez­ za e che può risultare ingannevole (mentre riserva l'espres­ sione tekmrion al segno sicuro): qui, quello che era stato il segno ambiguo della rivelazione divina, diviene il segno am­ biguo del modello conoscitivo razionalistico. Se il paradigma semiotico affonda le sue radici nelle pra­ tiche "non scientifiche" della divinazione e della medicina magica (la "iatromantica"), tuttavia lentamente depura, nel corso dei secoli, queste origini da tutto ciò che in esse c'era di irrazionale e di non controllabile (anche se sempre, al di fuori delle teorizzazioni della filosofia, rimarranno usi magmatici e irrazionali di questo paradigma, come dimo­ strano, a esempio, le opere di Artemidoro di Daldis o di Elio Aristide sui segni onirici). Se si tiene presente quest'ottica, non è più sorprendente osservare che la forma proposizionale e implicazionale che gli stoici danno al segno ("Se c'è cicatrice, c'è stata piaga") si ritrova identica nelle tavolette divinatorie mesopotamiche a partire dal III millennio a.C. Anche gli antichi babilonesi esprimevano il segno attra­ verso un periodo ipotetico, formato da una protasi, intro­ dotta dalla congiunzione summa (equivalente alla ei greca, che introduce il condizionale stoico), e da una apodosi: es­ se, rispettivamente, traducono in proposizioni linguistiche il segno e la sua interpretazione ("Se il polmone è rossastro a destra e sinistra - vi sarà un incendio,) (Bottero 1974). In ambiente greco, una saldatura tra segno divinatorio e forma logica deli'implicazione la si trova testimoniata in uno dei dialoghi delfici di Plutarco, L 'E di Delfi. In que­ st'opera, alcuni prestigiosi personaggi discutono sul signifi­ cato di un oggetto, avente la forma di E, che si trova tra i doni votivi del tempio di Delfi. Tra essi, Teone propone un'interpretazione della E ricorrendo al nome che nella lin­ gua antica questa lettera riceveva, e cioè ei. Teone assimila poi questo nome alla congiunzione ipotetica ei (''se") e mo­ stra che tale c­ongiunzione svolge nella dialettica un ruolo essenziale, in quanto serve a esprimere il rapporto logico per eccellenza, quello che si ha nei condizionali del tipo "Se è giorno, c'è luce" (esempio, questo, che era tra i più classi­ ci della logica semiotica stoica). Teone sottolinea, infine, che il dio di Delfi, Apollo, è un dio "molto amante della dialettica", tanto è vero che i vaticini presuppongono la for­ ma del condizionale, p--: q, che è la forma stessa che assu­ mono i fenomeni dell'universo (e qui il richiamo è alla teo­ ria stoica della "simpatia universale"). Certo, quello che risulta dal testo di Plutarco (scritto pro­ babilmente all'inizio del II secolo d.C.) è al massimo che la teoria stoica del fato e della divinazione si fondava su base logica (il destino consisteva in una serie interconnessa di condizionali). Ma se l'ipotesi da porre fosse quella esatta­ mente contraria? Se, cioè, lo strumento così asettico e ra­ zionale della logica traesse in realtà le sue origini dall'ambi­ to divinatorio? Come dimostra la sua stretta connessione con i segni e la divinazione presso gli stoici (Goldschmidt; Verbeke). Un enorme cammino è tuttavia stato compiuto dai testi divinatori babilonesi alla logica stoica: la forma proposizio­ nale rimane la stessa, ma nel caso degli stoici è stata depura­ ta non solo di ogni carattere sacrale, ma anche di ogni ele­ mento contenutistico . È lì solo per il calcolo proposiziona­ le. Nel caso degli antichi mesopotamici, invece, il contenuto della protasi permetteva di inferire il contenuto dell'apodo­ si mediante più o meno complicati processi di analogia e giochi tropici (il "rossore" del polmone permetteva di infe­ rire "incendio" per un tratto semantico comune). Infine una disamina sulla riflessione semiotica antica per­ mette di scoprire come il dibattito sui segni, sulla loro natu­ ra e sulla loro classificazione si sia attestato a livelli sor­ prendentemente alti, come è il caso della discussione sui condizionali in seno alla stessa scuola stoica (tra Diodoro, Filone e Crisippo) o della disputa tra stoici ed epicurei sul rapporto tra antecedente e conseguente nei segni (di cui puntualmente ci informa il De signis di Filodemo). La discussione di carattere semiotico, insomma, si riferi­ sce sempre a (o si identifica decisamente con) il quadro più generale o più fondamentale del problema della cono­ scenza. Sarà poi nel mondo romano che queste problematiche di ordine conoscitivo generale verranno piegate alle esigenze più pragmatiche della conoscenza giudiziaria: il problema dei segni si identificherà con quello delle metodiche per as­ segnare un maggiore o minor valore di prova agli indizi pre­ sentati in un procedimento processuale. La semiotica verrà messa al servizio dell'arte del detective, in ciò prefigurando uno degli aspetti più singolari deIl'interesse contemporaneo nei confronti dei paradigmi indiziari (Eco e Sebeok 1983). Sarà, infine, con Agostino (nel IV secolo d.C.) che la teo­ ria del segno fornirà un paradigma anche per la teoria del linguaggio, permettendo di unificare in un'unica categoria anche i segni verbali. Desidero ringraziare i molti amici che hanno letto e di­ scusso con me parti di questo lavoro. Tra coloro che mi hanno offerto preziosi suggerimenti critici vorrei ricordare Bernardini , Borutti , Crevatin, Fabbri,Manuli, Marmo, Ta­barroni, Vegetti, e Violi. Per molte delle idee e per l'impostazione generale del libro sono debitore a Um­ berto Eco, che ha seguito e incoraggiato il lavoro fin dai suoi inizi. Un ringraziamento particolare va a Amedeo G. Conte, che ha rivisto una precedente versione del mano­ scritto, e dal quale ho ricevuto una infinità di preziosi con­ sigli. Quanto agli errori e alle imprecisioni, ne assumo inve­ ce totale responsabilità. C'è un campo specifico in relazione al quale tutte le cul­ ture antiche riconoscevano l'eccellenza e il magistero dei popoli mesopotamici: quello della divinazione. Non ci si può nascondere tuttavia, a questo proposito, che l'atteggiamento sviluppato dalla cultura moderna nei confronti delle pratiche che rientrano in questo campo è fortemente svalutativo: esse, infatti, rappresentano un pa­ radigma che si pone esattamente agli antipodi di quello che normalmente è assunto come il paradigma scientifico. Ma ci sono almeno due ragioni che ci inducono a guardare alla divinazione mesopotamica come a qualcosa che merita più di un interesse puramente occasionale o erudito. In primo luogo, infatti, è necessario ripensare, come sug­ gerisce Carlo Ginzburg (1979), ai rapporti tra paradigma "divinatorio" e paradigma "scientifico" come a qualcosa di molto più complesso di quello che si assume di solito e che non comporta affatto una svalutazione del primo termine. Infatti, per Ginzburg, il paradigma divinatorio (definito an­ che, a seconda dei contesti in cui si manifesta, come "indi­ ziario", "semeiotico", "venatorio"), costituisce un modello di sapere specifico, caratterizzato dali'aspetto qualitativo: e cioè basato sulla conoscenza dell'individuale, attraverso l'uso della congettura. Ciò gli permette di giungere a risul­ tati notevoli, in tutte quelle aree del sapere che lo utilizzano privilegiatamente (al di là della mantica, sicuramente, an-che la medicina, la filologia e cosi via, su su fino alla detec­ tion, la connoisseurship, la psicoanalisi), anche se per que­ sto deve pagare il prezzo di una ineliminabile dose di aleato­ rietà. Si tratta, in realtà, di un sapere del tipo che Peirce (1980; 1984) avrebbe definito "abduttivo", in contrapposi­ zione al modello del sapere quantitativo che fa uso della de­ duzione come metodo di ragionamento. In secondo luogo bisogna ricordare che in Mesopotamia la divinazione subisce un lungo processo evolutivo che dalla fondamentale e primaria tendenza a inferire le cause dagli effetti (procedimento tipico dell'abduzione) la porterà ad accentuare sempre di più i tratti generalizzanti e aprioristici, in modo da gettare le basi per una vera e propria scientifici­ tà di tipo astratto (Bottero 1974: tr. it. 211). Ciò che risulta di maggiore interesse, dal punto di vista della ricostruzione storica di una disciplina semiotica, è che al centro del pensiero divinatorio si pone proprio il segno in una accezione non banale. Quest'ultimo, infatti, costituisce anzitutto uno schema di ragionamento inferenziale, che permette di trarre alcune conclusioni a partire da certi dati. È interessante notare come il segno divenga centrale nel­ l'universo cognitivo mesopotamico, in quanto, partendo dal campo della divinazione, si estenderà in seguito anche alel altre pratiche culturali e discipline, come la medicina e la giurisprudenza, e arriverà ad articolare, unificandola sot­ to il suo modello, la totalità del sapere. Si raggiungerà dun­ que, in Mesopotamia, un punto in cui il sapere, a livello molecolare, funzionerà secondo lo schema, unificato e for­ male, del segno divinatorio, anche se contenuti di volta in volta differenziati verranno utilizzati per dargli corpo. Pos­ siamo già accennare (anche se vi torneremo su in seguito con maggiore ampiezza di dettagli) alal forma assunta nella cultura mesopotamica dal modello segnico: quella di un pe­ riodo ipotetico in cui una certa conclusione è data nella apodosi, come derivante direttamente dallo stato di cose presentate nella protasi: in cui, in altre parole, la protasi è "segno" deli'apodosi. Un modello segnico di questo tipo ("Se p, allora q") è molto vicino a quello tramandatoci dalla cultura greca nella fase della sua maggiore maturità semiotica: in particolare funziona secondo lo schema implicativo il modello di segno elaborato dalla scuola stoica. Ma qui, una volta rilevata l'affinità, devono subito essere messe in luce le differenze: nel segno della divinazione mesopotamica sono in genere gli elementi materiali (o contenutistici) che permettono il pas­ saggio dalla protasi all'apodosi; in quello della semiotica stoica, invece, le inferenze sono rese possibili unicamente grazie agli elementi formali. A ogni modo, nonostante queste profonde divergenze e al di là del problema, che pure si pone, degli eventuali debiti specifici della cultura greca nei confronti di quella mesopo­ tamica a questo proposito,1 è interessante verificare la pre­ senza dello stesso schema segnico p -:J q che attraversa due civiltà (quella greca e quella mesopotamica) e due ambiti culturali (la divinazione e la filosofia) per altri versi tanto distanti tra loro. 1. 1 Divinazione e scrittura Il fatto che quella mesopotamica sia essenzialmente una civiltà della scrittura costituisce senz'altro uno dei presup­ posti per capire il tipo di divinazione sviluppatosi in Meso­ potamia e le ragioni della sua ampia diffusione: è la scrittu­ ra, infatti, che in Mesopotamia fornisce la forma e il mo­ dello per tutta una serie di attività intellettuali, prima fra tutte quella deli'interpretazione dei segni inviati dagli dei. La lettura dell'avvenire e la conoscenza del nascosto non avvengono qui per diretta ispirazione divina, ma seguono lo stesso procedimento messo in atto neli'interpretazione dei segni della scrittura. 'l E proprio in relazione alla grande importanza assunta dalla scrittura nella cultura mesopotamica che il modello ri­ sultato egemone è quello della divinazione tecnica (Bouché­ Leclercq 1 879-82 : vol . l, 1 11 e 274), quello cioè basato sulla interpretazione di segni che si realizzano esternamente al­ l'uomo e che richiedono l'intervento esplicativo degli spe­ cialisti. Per comprendere il ruolo che la coppia scritturaloralità gioca negli orientamenti divinatori è sufficiente mettere in relazione la civiltà mesopotamica con quella greca. Que­ st'ultima, come noto, è una cultura essenzialmente orale, dove la scrittura si sviluppa in un periodo relativamente re­ cente e non costituisce un fenomeno autonomo rispetto al parlato, bensì, essenzialmente, una sua riproduzione in ca­ ratteri fonetici. In stretta connessione con il carattere orale della cultura, in Grecia risulta egemone proprio il modello della divina­ zione ispirata, in cui il dio parla ali'uomo attraverso un profeta, avvertito come suo portavoce, secondo il celebre esempio della divinazione oracolare della Pizia a Delfi. E non è poi un caso che la società greca non abbia favorito, come avviene invece in Mesopotamia, la nascita e la presen­ za stabile di una classe sacerdotale preposta ali'interpreta­ zione specialistica sia dei segni della scrittura sia di quelli della divinazione. Al contrario, nella cultura mesopotamica la scrittura, per un verso, è un fenomeno piuttosto antico, per l'altro è un dispositivo dotato di meccanismi in larga misura autonomi rispetto al parlato. Le prime attestazioni della scrittura cuneiforme, infatti, si hanno tra la fine del IV millennio e l'inizio del III.2 Nella sua forma primitiva la scrittura è pittografica, in quanto fatta di segni che intendono designare ciò che raffigurano: a esempio la rappresentazione di una testa di bovino, trac­ ciata nei suoi contorni, ma perfettamente identificabile, in­ dicava in prima istanza "il bue"; ma, per una sorta di am­ pliamento semantico del segno, esso indicava anche "la vac­ ca" e "il bestiame grosso". Ugualmente il disegno schemati­ co di un piede aveva anche il significato di "stare in piedi" e quindi quello di "immobile", di "camminare", di "parti­ re", fino ad arrivare addirittura a quello di "portare via''. Come si vede l'abbinamento tra significanti e significati non si presenta né univoco né banale: esso infatti comporta un lavoro interpretativo piuttosto complesso per controlla­ re i processi di ampliamento o di slittamento dei significati per uno stesso segno. Processi che si complicavano attraverso nuove associa­ zioni derivanti dalla giustapposizione di segni diversi: il se­ gno del pane messo accanto a quello della bocca dà il pro­ dotto semantico "mangiare"; quello dell'acqua accanto a quello deli'occhio significa "lacrime"; se invece è messo ac­ canto a quello del cielo significa "pioggia". Più curioso an­ cora è il caso del segno della montagna che, giustapposto al segno indicante la donna, produce il senso "la schiava", in quanto le montagne delimitavano a est e a nord la regione, e una donna portata da un paese situato oltre la montagna era una straniera destinata a tale condizione. Ci sono dunque complicati meccanismi enciclopedici che governano l'interpretazione. Ma si può osservare anche che, nella sua forma più anti­ ca, quella cuneiforme è una scrittura di cose (Bottero 1974: tr. it. 168), in quanto non ha bisogno di passare attraverso il linguaggio verbale per designare gli oggetti della realtà. La sua autonomia rispetto alla realizzazione verbale è tota­ le, tanto è vero che i segni possono essere compresi da per­ sone che parlano lingue diverse e, del resto, sono pronun­ ciati in modo diverso in ciascuna di queste lingue come av­ viene, a esempio, per i numeri arabi nel mondo moderno. I Mesopotamici si dimostrarono molto legati a questa "scrit­ tura di cose" e non l'abbandonarono neppure quando ven­ nero fatti notevoli passi avanti verso il fonetismo con l'in­ venzione della scrittura sillabica. In effetti, circa un secolo dopo la sua prima scoperta, i segni della scrittura pittografica avevano cominciato a subi­ re un processo di scollegamento dalle "cose" che designava­ no, per essere collegati più direttamente alle "parole" con cui il linguaggio verbale designava i medesimi oggetti. Il ca­ rattere monosillabico di molte parole e l'alta percentuale di omonimi, avevano favorito questo processo. Un esempio interessante del fenomeno, che è anche il più antico, è quel- lo del segno della fr H 1--- , che viene a in- dicare non più solo "la freccia" ma anche "la vita": la me­ diazione è stata dali'omonimia tra le parole designanti i due concetti, pronunciate entrambe ltil nella lingua sumerica.3 Possiamo così schematizzare il processo: pronuncia l ti l l"" significato ..freccia· ..vita• l ::rafico HH H'VA questo punto per arrivare a un alfabeto sillabico per­ fetto sarebbe stato sufficiente eliminare tutti gli ideogram­ mi indicanti parole per lasciare soltanto i segni di sillabe, sorta di unità minime infinitamente reimpiegabili. Invece i Mesopotamici lasciarono sopravvivere, accanto ai segni presi nel loro valore fonetico (indicanti una sillaba), i segni presi nel loro precedente valore pittografico. Ci sono almeno due importanti conseguenze che derivano da questa organizzazione della scrittura, per la divinazione. Anzitutto, come abbiamo visto da alcuni esempi, la scrit­ tura pittografica ha la caratteristica essenziale di tessere una rete sottile e complessa di rapporti tra le cose: abitua la mente a vedere nelle cose relazioni segrete e legami inso­ spettati. Essa suggerisce, altresi, un'attitudine mentale che porta a guardare anche alle cose del mondo reale come in­ nescanti un analogo processo semiosico: non solo, quindi, l'abbinamento pittografico del segno della montagna e di quello della donna indicheranno "schiava", ma anche lo stesso abbinamento osservato nella realtà, oppure in un so­ gno, porterà a trarre una inferenza analoga. È proprio un meccanismo inferenziale di questo tipo che si pone alla base della divinazione. La seconda conseguenza è connessa con il carattere spe­ cialistico delle conoscenze richieste per l'interpretazione della scrittura: i caratteri cuneiformi non sono accessibili a tutti, dato il sistema di cifrazione cosi complesso. Si crea al­ lora una sorta di aristocrazia di esperti capaci di interpretare i segni della scrittura. Allo stesso titolo si crea, per l'in­ terpretazione dei segni mandati dagli dei, la casta degli in­ dovini baro, i quali hanno come emblema della loro corpo­ razione proprio la tavoletta e il calamo. 1.2 La scrittura degli dei Come sottolinea Jeannie Carlier (1978: 1227), in Meso­ potamia "parlare di una scrittura degli dei non è una meta­ fora". Infatti quella cultura proietta nel campo teologico lo stesso modello di organizzazione che vede operante nel campo della burocrazia statale. Come ii re diffonde il suo potere dal centro alla periferia attraverso una capillare e sviluppatissima rete amministrativa che trasmette i suoi or­ dini scritti indirizzati ai sudditi, così gli dei si servono della scrittura per far conoscere agli uomini i destini che hanno fissato per ciascuno di loro; solo che "l'unica tavoletta a lo­ ro misura è l'universo intero" (ibidem). Sama e Adad, gli dei della divinazione, sono per un ver­ so come il sovrano che notifica la sua volontà ai sudditi per mezzo di messaggi scritti; per un altro sono come il giudice che, dopo aver preso una decisione, la ratifica sulla tavolet­ ta per darle validità e pubblicità. Il mondo, dunque, in questa concezione, è una immensa tavoletta, costituito da oggetti che sono il supporto materia­ le dei presagi da cui verranno ricavati gli oracoli, come vie­ ne testimoniato, tra l'altro, anche da un inno di Assurbani­ pal a Sama5: "Tu scruti alla luce (del) tuo (sguardo) la terra intera come (altrettanti) segni cuneiformi". Del resto i Babilonesi parlavano della disposizione degli astri come "scrittura del cielo" che veniva "letta" dagli astrologi. E d'altra parte non era raro il caso in cui un pre­ sagio consistesse letteralmente in un segno di scrittura trac­ ciato nelle pieghe del fegato di un animale o sulla fronte di un uomo. 1.3 Una semiologia "ante litteram" Una volta messo in luce il carattere di profonda affinità tra il sistema della scrittura cuneiforme e la divinazione concepita come scrittura degli dei, passiamo a esaminare la struttura interna del segno divinatorio. È possibile farsene un'idea abbastanza precisa attraverso i numerosi trattati di­ vinatori che ci sono pervenuti. Questi ultimi consistevano in lunghissimi elenchi di proposizioni complesse, ciascuna composta da una protasi e da un'apodosi. La protasi è in­ trodotta dall'espressione summa (equivalente alla congiun­ zione "se") e ha il verbo al presente o al passato: essa costi­ tuisce il "presagio", cioè il segno ominoso che deve essere interpretato; l'apodosi ha il verbo di solito al futuro e costi­ tuisce !'"oracolo", ciò che viene indicato o svelato dall'in­ terpretazione del segno. Vediamo alcuni esempi che, pur in relazione a differenti tecniche divinatorie, presentano tutti la stessa struttura:4 Astrologia Se nel giorno della sua scomparsa, la Luna si attarda nel cielo (invece di scomparire d'un tratto)- vi sarà siccità-e-arestia nel paese. Fisiognomonia Se un uomo ha il pelo delle spalle ricciuto - le donne lo ame­ ranno. Oniromanzia Se un uomo sogna che gli consegnano un sigillo - avrà un fi­ glio. Lecanomanzia Se, dal centro dell'olio (gettato sull'acqua), si staccano due "ponti", uno maggiore dell'aJtro - la sposa dell'interessato met­ terà aJ mondo un figlio maschio; quanto aJ malato, guarirà. Estispicina Se il polmone è rosso-vivo a destra e a sinistra - vi sarà un in­ cend io.  1.4 PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 17 Libanomanzia Se, quando versi (la sostanza aromatica) sulla brace, il fumo si sprigiona (solamente) verso destra, e non verso sinistra - avrai la meglio sul tuo avversario. Se si sprigiona (solamente) verso sinistra e non verso destra - il tuo avversario avrà la meglio su di te. Questi esempi permettono già di fare due osservazioni a proposito del meccanismo semiotico in essi instaurato. In primo luogo la struttura del segno è espressa in termini di rapporti tra proposizioni e non tra singole unità lessicali o tra un significante e un significato in senso saussuriano. Questo fa sì che i segni non verbali e gli eventi acquisiscano subito un'importanza predominante, in quanto trovano ap­ punto nella proposizione il modo migliore di essere espressi. In secondo luogo il rapporto che c'è, all'interno di cia­ scun segno, tra la protasi e l'apodosi è di tipo implicativo, intendendo però questo termine come designante un'infe­ renza ancora abbastanza generica: come vedremo, all'inter­ no della scuola stoica, invece, l'interesse si accentuerà pro­ prio sul tentativo di definire il nesso implicativo che caratte­ rizza il segno e a questo proposito si accenderanno diver­ genze che alimenteranno una lunga e complessa discus­ sione . 1.4 n passaggio dalla protasi all'apodosi Messi di fronte ali'enorme massa delle proposizioni divi­ natorie documentate dai trattati mesopotamici può sembra­ re che regni la più completa casualità nel movimento che re­ gola il passaggio delle protasi-presagio alle relative apodo­ si-oracolo. A ben guardare, però, è possibile rintracciare al­ cune linee generali che consentono di mettere un po' d'ordi­ ne in un coacervo altrimenti amorfo e di cogliere alcuni principi di regolazione. Sono rintracciabili in realtà tre casi teorici di passaggio non casuale dalla prima alla seconda proposizione: Il primo tipo di passaggio è connesso al principio del co­ siddetto empirismo divinatorio: protasi e apodosi regi­ strano eventi che si sono verificati effettivamente secon­ do una concomitanza temporale. Questo genere di mec­ canismo si trova nei cosiddetti "oracoli storici", caratte­ rizzati dal fatto di avere l'apodosi al passato, anziché al futuro; essi riproducono verisimilmente la forma del tipo originario di divinazione. 2. 3. Il secondo tipo di passaggio non arbitrario è connesso alla possibilità di un gioco di associazioni tra elementi della protasi ed elementi dell'apodosi: naturalmente sono possibili i due casi, tanto del gioco fonetico sui signifi­ canti, quanto di quello tropico sui significati. Il terzo tipo di passaggio tra le due proposizioni è con­ nesso alla presenza di codici che prevedono una serie esauriente e completamente specificabile di casi. In realtà, nella fase più recente della storia della divina­ zione mesopotamica, i trattati subiscono un'evoluzione nel­ la direzione della sistematicità e dell'astrazione. Il sistema astratto e, in un certo senso, totalmente deduttivo prende il sopravvento anche sulla verisimiglianza stessa dei presagi. La furia classificatoria dei Mesopotamici guarda più ali'e­ saurimento di tutti i casi astrattamente possibili che non al­ la loro concreta possibilità di verifica. Avviene così che l'abbinamento di un'apodosi con una certa protasi dipenda dallo schema astratto e, dunque, divenga prevedibile. 1.4. 1 Gli "oracoli storici" e l'empirismo divinato­ rio Sommersi, e quasi fossilizzati, nell'insieme delle decine di migliaia di oracoli che i trattati mesopotamici ci hanno con­ servato, gli oracoli "storici" costituiscono un numero non grande, ma significativo. Essi possono essere attribuiti, in base all'analisi interna, all'epoca delle origini, anche se compaiono in trattati più recenti.   1 . 4 PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 19 Essi presentano infatti quattro caratteristiche specifiche: l. hanno tutti la tipica apodosi al passato; 2. gli argomenti di cui trattano fanno riferimento ad avvenimenti storici che, nel caso in cui possano essere confrontati con altre fonti, risultano degni di fede; 3. i fatti e i personaggi che in essi sono menzionati sono collocabili, nella maggior parte dei casi, nell'epoca di Accad (ca. 2340-2160 a.C.); 4. fanno, quasi tutti, iniziare l'apodosi con la formula amat "(è il) presagio di", formula che è assolutamente inusuale negli al­ tri oracoli. Vediamone alcuni esempi: Se (nel Fegato) la Porta del Palazzo è doppia, se vi sono tre Ro­ gnoni e a destra della Vescichetta-biliare sono scavate (pa/Iu) due perforazioni (pilsu) ben nette - (è il) presagio degli abitanti di Apgal, che Naram-Sin (ca. 2260-23) per mezzo di scavi (pii­ fu) fece prigionieri. Se, a destra del Fegato, si trovano due Diti - (è il) presagio del­ l 'Epoca-dei-Competitori. In entrambi questi casi l'apodosi fa riferimento a fatti e personaggi storici reali deli'epoca di Accad. Si può ipotizza­ re che gli oracoli così formulati non siano stati molto di­ stanti cronologicamente dali'epoca dei fatti storici di cui parlano le apodosi. Anzi, il punto fondamentale è proprio che tali oracoli avrebbero registrato delle coincidenze "significative", a po­ steriori, tra un particolare stato di cose considerato ornino­ so e un evento della storia: tali coincidenze avrebbero as­ sunto in seguito valore di paradigma. A persuaderei di questa ipotesi, che risponde appunto al principio dell'empirismo divinatorio (Bouché-Leclercq 1879-82: vol. l, 298; Bottero 1974: tr. it. 161), c'è il fatto che spesso i Fegati di Mari contengono una formula che mostra come il gioco delle coincidenze si sia potuto stabi­ lire: Quando il mio paese si è rivoltato contro lbbi-Sin (2027-2003), questo (=il Fegato) si trovava così disposto.  20 l. LA DIVINAZIONE MESOPOTAMlCA Il plastico di Mari riproduce la forma assunta dal fegato reale esaminato durante un rito di estispicina: esso registra la coincidenza tra questa forma, assunta come ominosa, e un evento storico di importanza determinante, cioè la rivol­ ta contro l'ultimo re del periodo neosumerico, lbbi-S'ìn. L'ipotesi dell"'empirismo divinatorio" si spinge anche ol­ tre, ipotizzando che alla base stessa della scoperta della di­ vinazione si porrebbe la scoperta delle coincidenze tra la se­ rie di presagi e quella degli oracoli; ipotesi che può essere avvalorata dal fatto che tutti gli "oracoli storici" possono essere cronologicamente situati nel periodo delle origini del­ la divinazione mesopotamica. Nella istituzione stessa della pratica divinatoria si sarebbe vicini, così, a una forma del principio del post hoc, ergo propter hoc, per cui qualsiasi evento che fuoriesce in qual­ che maniera dal corso "normale" e che è seguìto da un altro evento, considerato a sua volta eccezionale, finirebbe per costituire con quest'ultimo una coppia inscindibile. Il colle­ gamento tra i due eventi, una volta stabilito, diventerebbe irresolubile; e il secondo evento, se non propriamente cau­ sato dal primo, risulterebbe almeno annunciato da quello. Ciò che di fatto viene qui elaborato è il metodo semiotico dell'inferenza delle cause dagli effetti, che è tipica dell'ab­ duzione. È vero che in questo caso si arriva a conclusioni che ci appaiono assurde, a causa di un errore fondamentale nell'applicazione del metodo: infatti quello che viene preso come risultato (o effetto) (una certa ben definita disposizio­ ne del fegato) che si presume essere il caso di una certa re­ gola (o causa) (rivoltarsi contro lbbi-Sin), in realtà non è affatto tale. Ma questo ha poca importanza: formalmente siamo di fronte a un'abduzione. Un tale principio è applicato costantemente. Non c'è nes­ sun interesse della divinazione a rivolgersi al passato: se le apodosi degli oracoli storici lo fanno è appunto perché la fi­ losofia che sta dietro a questo tipo di oracoli è che la storia può ripetersi. Nell'abduzione, infatti, una volta che sia sta­ ta inferita la regola che spiega un certo risultato, è possibile tenere a disposizione tale regola per successive applicazioni deduttive.  1 .4 PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 21 1.4.2 Oracoli con gioco associativo tra protasi e apodosi La seconda possibilità di un legame non casuale tra pro­ tasi e apodosi dipende dalla presenza di rapporti associativi tra elementi contenuti nella prima ed elementi contenuti nella seconda proposizione. È operante qui in maniera evidente il modello della scrit­ tura cuneiforme. Abbiamo infatti visto che essa tende a creare o suggerire una rete di relazioni tra cose non diretta­ mente in contatto. Sappiamo come l'interpretazione di un segno della scrittura cuneiforme apra la strada a una catena di veri e propri interpretanti: la rappresentazione ideografi­ ca dell'orecchio, a esempio, non solo significa "ascoltare", ma anche "obbedire", "apprendere'', "il sapere", "l'intelli­ genza". Ugualmente possono entrare in corto circuito se­ mantico due ideogrammi omografi o che differiscano per pochi tratti del significante. Cosi abbiamo due tipi di gioco associativo : l . quello sui significati; 2. quello sui significanti. 1 .4.2. 1 Il gioco sui significati Il rapporto che si instaura tra protasi e apodosi nel caso di un gioco associativo sui significati è quello che si ha tra un "cifrato" tropico, e una sorta di "chiaro" al grado zero. Vediamo alcuni esempi: Se il 29 del mese di Aiiar (aprile-maggio) si verifica un'eclisse di sole - il re morirà, duramente punito da Sam mortalità gene­ rale. Se un parto-anormale è doppio, con due teste, l'una saldata al­ l'altra, e otto zampe, ma una sola colonna-vertebrale - il paese sarà precipitato nella confusione per effetto delle dispute inte­ stine . Se un cavallo cerca di accoppiarsi con un bue - riduzione del­ l'incremento del bestiame. Nel primo esempio )'"eclisse di sole" può essere conside­ rata una metafora rispetto alla "morte del re"; del resto la metafora deli'eclisse come segno della morte di un sovrano si catacresizzerà ed entrerà in una lunga tradizione mantica anche greco-romana. Nel secondo esempio compare pure una metafora complessa: infatti la protasi parla del corpo di un unico animale (''una sola colonna-vertebrale"), che però ha organi doppi ("due teste", "otto zampe"); viene al­ lora istituito un parallelo con l'organismo statale (''il pae­ se"), unico, ma dilaniato e reso doppio dalle "dispute inte­ stine". Il terzo esempio presenta un caso di accoppiamento tra due animali di specie diverse, destinato dunque alla infe­ condità, il quale simbolizza una "riduzione dell'incremento del bestiame": la protasi ha la funzione (dal punto di vista della produzione segnica) deli 'esempio (Eco 1 975 : 296; Eco 1984: 47), che vale per l'intera classe. In generale, questi esempi mostrano come la logica che regola il rapporto tra protasi e apodosi è dell'ordine del simbolico. Naturalmente molto spesso la relazione tra il ci­ frato tropico e il chiaro ci sfugge, perché il linguaggio figu­ rato è dipendente dal contesto culturale: è verosimile che in molti casi operino associazioni che per la distanza spazio­ temporale tra le culture non possiamo più avvertire. 1 .4.2.2 Il gioco sui significanti Vediamo ora alcuni esempi di oracoli in cui nella protasi ci sono elementi che differiscono per pochi tratti del signifi­ cante da elementi correlati nell'apodosi: Se piove (zunnu iznun) nel giorno (della festa) del dio della città - quest'ultimo sarà adirato (zenl) contro di essa. Se la Vescichetta biliare è rientrante (na!Jsat) è inquietante (na!Jdat). - Se la Vescichetta biliare è presa dentro (kussti) il grasso - farà freddo (kU$$U).  1 .4 PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 23 Se il Diaframma è aderente (emid) - aiuto (imid) divino. La somiglianza tra i significanti fa sì che un fatto, indica­ to da una parola con un certo suono, sia considerato segno di un altro fatto, indicato da una parola con suono affine. 1 .4.3 I codici sistematici Il terzo tipo di abbinamento non casuale tra protasi e apodosi è quello legato alla presenza di codici sistematici. Come dicevamo, è possibile registrare nella divinazione mesopotamica un'evoluzione diacronica per cui, dall'epoca delle origini al periodo più recente, il modo di porre il rap­ porto tra protasi e apodosi si modifica nel senso dell'astra­ zione. Il culmine di tale processo porterà alla creazione di codici che prevedono una casistica generale ed esaustiva: in questo caso verrà totalmente abbandonato il principio del­ l'empirismo divinatorio per far spazio a una logica in un certo modo deduttiva, che fa dipendere dalla configurazio­ ne generale del codice l'inferenza del singolo caso. Infatti, a partire dal secondo quarto del II millennio, la documentazione storica non ci presenta più oracoli singoli, ma registra la presenza di un centinaio di "trattati", cioè di raccolte sistematiche e spesso molto dettagliate, di segni di­ vinatori.s La sistemazione in trattati, questo nuovo aspetto della di­ vinazione nel II millennio, ha come tratto saliente quello di risultare funzionale al raggruppamento di diversi segni ora­ colari in relazione a un unico oggetto, considerato ornino­ so. Quest'ultimo veniva scomposto nell'intera gamma delle sue parti o variazioni, ciascuna delle quali veniva a essere il tema di una singola protasi. Si registra, in effetti, una mi­ nuziosa opera di pertinentizzazione del reale: se un oggetto risulta esteso e divisibile, per ognuno dei singoli aspetti identificati, viene costruita una coppia presagio-oracolo. Ecco come, a esempio, in un trattato di estispicina, una sin­ gola porzione del fegato, la cosiddetta "Porta del Palazzo", viene esaminata: Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a destra, si trova una fessura - . . . Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a destra, una fessura è segnata per il lungo - . . . Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a sinistra, si trova una fessura - . . . Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a sinistra, una fessura è segnata per il lungo - Se, nel bel mezzo della Porta del Palazoz , si trova una fessura - ...  Come si può vedere, tutte queste protasi risultano co­ struite su un principio strutturale di opposizioni binarie tra Ila Soglia! e Iii bel mezzo! della Porta del Palazzo, tra jde­ stral e jsinistral , tra j fessuraj e l fessura segnata per il lungoj . È dunque proprio il sistema, inteso in un senso strutturali­ stico ante litteram, a prendere il sopravvento . Non vengono registrati più solo i casi che sono stati effettivamente osser­ vati, ma tutti i casi virtualmente possibili, in relazione a un sistema basato su opposizioni e regole astratte. Questo fatto diviene particolarmente evidente quando in­ contriamo in un trattato delle protasi che prendono in con­ siderazione fino a sette Vescichette biliari per uno stesso fe­ gato: la logica del sistema (basata in questo caso sulla rego­ la: n --+ n + l) prevale non solo sulla realtà, ma perfino sulla verisimiglianza. Una cosa analoa avviene quando, all'ini­ zio del trattato di teratomanzia Summa izbu, vengono pre­ viste, per un neonato perfettamente umano, circa quaranta possibilità di aspetto mostruoso: tra esse, che il neonato as­ somigli a un cavallo, a un leone, a un cane, a un maiale, a un bue, a un asino, oppure a una mano, a un piede e, addi­ rittura, a un corno di capra o a un mattone. Sotto la spinta della sistematizzazione, la divinazione cambia radicalmente: tutto l'impegno non è più dedicato al­ la ricerca di eventi ominosi, ma alla costruzione degli s-co­ dici (Eco 1975; 1984: 266) delle sequenze di protasi; a parti-   1.5 ESPLICITAZIONE DELLE REGOLE DI CODIFICA 25 re da queste sequenze verrà costruito il codice vero e pro­ prio di abbinamento con le serie di apodosi. In questo sen­ so, anche se non formulate, varranno regole generali del ti­ po: "ogni volta che trovi il numero x nella protasi, assegna la caratteristica y all'apodosi"; cosi, a esempio, se l'indovi­ no incontra in un evento-protasi il numero sette, che il siste­ ma abbina costantemente, poniamo, alle caratteristiche del­ la "perfezione" e della "totalità", può dare come oracolo "vi sarà Pimpero". Sono del resto molte le regole di codifica non espresse, ma costanti, come a esempio quella per cui tutto ciò che è a destra è connesso con un auspicio favorevole, mentre tutto ciò che è a sinistra, esprime un augurio contrario. Oppure quella per cui è possibile "cambiare di segno", come in alge­ bra, alla predizione in base al contesto: a esempio, un pre­ sagio di per sé sfavorevole, se messo in rapporto con la sini­ stra, diventa favorevole, o viceversa. In questo senso l'apodosi diviene deducibile dalla prata­ si, in quanto basta osservare le caratteristiche sistematiche che in essa sono contenute per inferirla: è il trattato che for­ nisce in realtà la regola (anche senza esplicitarla): di fronte a un nuovo caso sarà facile per l'indovino trovare il risulta­ to applicando la regola. 1.5 L'esplicitazione delle regole di codifica Se nei trattati del II millennio si assiste al superamento della fase empirica a favore di una ristrutturazione della di­ vinazione su base sistematica e deduttiva, tuttavia, le regole della deduzione, per quanto largamente operanti, rimango­ no implicite. Nei trattati del I millennio si assiste a un'ulteriore evolu­ zione della divinazione, che porta ali'esplicitazione delle re­ gole stesse della codifica. Ciò è testimoniato dal grande trattato di aruspicina del I millennio, che aveva un capitolo in cui erano formulati i va­ lori essenziali di certe caratteristiche espresse dalle protasi. Il testo era disposto non più su due, ma su tre colonne. La  26 l. LA DIVINAZIONE MESOPOTAMICA prima riguardava il presagio, o meglio la caratteristica che appariva ominosa nell'oggetto preso come segno. Di solito si trattava di una qualità, espressa o da un aggettivo ("gros­ so") o da un sostantivo astratto ("lunghezza") oppure, an­ cora, da un verbo all'infinito ("essere piegato verso il bas­ so"). Nella seconda colonna veniva registrato il valore fon­ damentale dell'oracolo, come a esempio "gloria", "poten­ za", "vittoria". La terza colonna, infine, proponeva una esemplificazione con un oracolo completo, tale che nella protasi comparisse la qualità registrata dalla prima colonna e neli'apodosi il valore risultante nella seconda colonna. Ec­ cone un esempio: Lunghezza Riuscita Se la Stazione è abbastanza lun­ ga da arrivare fino alla Strada il principe riuscirà nella campa­ gna che avrà intrapreso. È evidente qui l'ulteriore progresso compiuto nella dire­ zione dell'astrazione: abbiamo infatti la vera e propria pre­ sentazione della chiave del deciframento dei segni. Le leggi deli'esegesi sono messe in chiaro. Presentare il trattato sulle tre colonne equivale proprio a mettere in luce le leggi di cifratura. Ciò che vi è di arbitrario nell'abbina­ mento tra protasi e apodosi viene dichiarato fornendo i due termini della corrispondenza. Questo processo di astrazione non si arresterà qui, ma procederà fino alla completa riduzione dei valori alla dico­ tomia fondamentale: favorevole/sfavorevole. All'estrema complessità e particolarizzazione degli oraco­ li più antichi si contrapporrà l'estrema semplificazione di una logica binaria che prevede solo il sì o il no.  2. LA DIVINAZIONE GRECA 2.0 Divinazione e conoscenza Il campo delle pratiche divinatorie costituisce il primo ambito sufficientemente omogeneo in cui nella Grecia anti­ ca si parla di segni. Il termine semefon, che si incontra qui per la prima volta, è un nome di genere, che indica un segno divinatorio di tipo qualsiasi e comprende anche il responso oracolare, costituito in realtà da un testo verbale.1 Accanto a esso, come sue specificazioni relative ad ambiti particolari della divinazione (o, potremmo dire, a particola­ ri manifestazioni di sostanza dell'espressione), si trovano vari altri termini; tra essi oion6s che indica etimologicamen­ te il segno dato dal volo degli uccelli; phasma, che si riferi­ sce inizialmente ai presagi che si possono trarre dai fenome­ ni atmosferici, ma che si estende in seguito alle visioni in ge­ nere; téras, che costituisce l'equivalente deli 'espressione la­ tina prodigium e sta a indicare qualsiasi fenomeno o avve­ nimento insolito, e in qualche maniera mostruoso, che pos­ sa essere preso come base per una interpretazione divinato­ ria (Bioch 1963: tr. it. 19; Benveniste 1969: tr. it. 477). In tutti questi casi, qualcosa sta per qualcos'altro, o meglio è assunto come base per un procedimento di inferenza. Nonostante che in Grecia la divinazione come pratica ef­ fettiva abbia avuto un'importanza abbastanza marginale,2 tuttavia il segno divinatorio ha dato origine a una tradizio­ ne, letteraria e filosofica, che lo insedia nel punto di origine mitico del processo di conoscenza.  28 2. LA DIVINAZIONE GRECA Innanzitutto, infatti, l'indovino (mtintis), colui che è ca­ pace di interpretare il segno proveniente dagli dei, è preci­ puamente un sapiente, e il tipo di sapienza di cui il mantis è portatore non si identifica con un'accezione limitativa del termine, come la conoscenza di una tecnica. Al contrario, la sua è piuttosto una sapienza di ordine generale e sicura­ mente superiore a qualsiasi tipo di conoscenza umana, co­ me suggerisce anche l'etimologia del termine mantis, che è collegato alla radice •men, con cui viene indicato un movi­ mento di accrescimento e di potenziamento dell'animo (Crahay 1974: tr. it. 220). In Omero, per la prima volta, incontriamo l'espressione che identifica la divinazione con la conoscenza "delle cose che sono, di quelle che saranno e di quelle che sono state in passato": Calcante, figlio di Testore, di gran lunga il migliore tra gli scru­ tatori di uccelli l che conosceva ciò che è e ciò che sarà e ciò che è stato prima (hòs id ta t 'e6nta ta t 'ess6mena pr6 t 'e6nta) , l e aveva guidato verso Ilio le navi degli Achei l con la sua arte di­ vinatoria, che Febo Apollo gli aveva concesso. (Il., I, 69-72)3 Il passo omerico mette in risalto il carattere generale e to­ tale della conoscenza rappresentata dalla divinazione; è una conoscenza che trova un paragone solo con quella, molto più tarda, di ordine filosofico: l'espressione tà eonta ("le cose che sono"), che nel passo indica l'oggetto di conoscen­ za dell'indovino Calcante, rimarrà immutato nella tradizio­ ne filosofica, in Eraclito, Empedocle, Platone, Aristotele, come termine tecnico per indicare appunto gli oggetti della conoscenza filosofica in generale. In secondo luogo, il segno, che è lo strumento attraverso cui si attiva tale conoscenza, non proviene dalla sfera del­ l'umano, ma da quella più alta e numinosa del divino; esso è lo strumento di mediazione tra la conoscenza totale che ha il dio e quella limitata dell'uomo. Il segno è altresì, nella prospettiva aperta da Colli (1977: 379; 1975: 40), il luogo dell'irruzione della sapienza divina nella sfera dell'umano. Ma il dio parla un linguaggio che non è quello dell'uomo. La parola del responso oracolare, a esempio, è umana solo come suono, ma non produce alcun significato se le viene applicato il codice del linguaggio verbale degli uomini. C'è dunque una difformità nell'espressione dei contenuti della conoscenza che separa l'uomo dal dio; ma c'è anche una più radicale differenza nelle modalità stesse della conoscen­ za. Il dio padroneggia il tempo attraverso la "vista" simul­ tanea e del passato, e del presente, e del futuro: la sua anni­ scienza deriva appunto dal fatto di possedere una visione panoptica. Infatti Apollo, secondo l'espressione usata da Pindaro (Pyth., III, 29), possiede "l'occhiata che conosce ogni cosa". L'uomo, al contrario, può vedere solo il suo presente, mentre gli sono irrimediabilmente sottratte le altre dimen­ sioni del tempo. Solo il dio può permettergliene l'accesso; ma la visione deve essere tradotta in parole, in quanto l'uo­ mo accede alla conoscenza solo attraverso l'udito. Per il poeta, a esempio, la memoria del passato è garantita dal racconto che traduce la visione panoptica delle Muse (Horn., Il., Il, 484-486). Allo stesso titolo l'indovino è colui che rivela all'uomo il futuro traducendo in parole la "visio­ ne" che il dio gli comunica; ma proprio in questa traduzio­ ne il messaggio perde di perspicuità (Lanza 1979: 99-l00; Detienne 1967: tr. it. 1). Per questi motivi il segno divinatorio è enigmatico, oscu­ ro e per lo più incomprensibile. Per decifrarlo c'è bisogno di un interprete, qualcuno che sia diverso dal soggetto nel quale si è compiuto il processo di comunicazione e di tra­ sformazione della conoscenza. Platone individua due distinte figure, rispettivamente "l'uomo mantico" (colui che riceve la visione) e il "profeta" (colui che interpreta le parole pronunciate dal primo duran­ te l'estasi). Il celebre passo del Timeo, che propone tale di­ stinzione, in sé costituisce un piccolo trattato teorico della divinazione quale se la rappresentavano i Greci, e presenta con grande perspicuità la tradizione del segno divinatorio come segno non direttamente decodificabile: Vi è un segno sufficiente che il dio ha dato la divinazione alla dissennatezza umana: difatti nessuno che sia padrone dei suoi pensieri raggiunge una divinazione ispirata dal dio e veridica. Occorre piuttosto che la forza della sua intelligenza sia impedi­ ta dal sonno o dalla malattia, oppure che egli l'abbia deviata es­ sendo posseduto da un dio. Ma appartiene all'uomo assennato il ricordare le cose dette (tà rhthénta) nel sogno o nella veglia dalla natura divinatrice ed entusiastica, il riflettere su di esse, il discernere con il ragionamento tutte le visioni (tà phasmata) al­ lora contemplate, il vedere onde quelle cose ricevano un signifi­ cato e a chi indichino (smalnel) un male o un bene futuro o passato o presente. A chi invece è esaltato e persiste in questo stato non spetta giudicare le apparizioni e le parole da lui dette. Questa è una buona e vecchia massima: soltanto a chi è assen­ nato conviene fare e conoscere ciò che lo riguarda, e conoscere se stesso. Di qui deriva la legge di erigere il genere dei profeti a interprete delle divinazioni ispirate dal dio. Questi profeti, alcu­ ni li chiamano divinatori, ignorando del tutto che essi sono in­ terpreti delle parole pronunziate mediante enigmi e di quelle immagini, ma per nulla divinatori. La cosa più giusta è di chia­ marli profeti, cioè interpreti di ciò che è stato divinato. (Plat., Tim., 7le-72a) Al centro concettuale del passo si pone il verbo smafno, che indica appunto la rivelazione del dio; quest'ultimo si presenta come il vero enunciatore, attraverso l'uomo ispira­ to, del testo divinatorio. Il soggetto grammaticale di smal­ no è costituito dai due termini che indicano le due forme di segno divinatorio, cioè "le cose dette" e "le visioni contem­ plate", ma il responsabile della produzione di questi segni è "la natura divinatrice ed entusiastica", cioè il dio stesso che fa irruzione nell'uomo tramite l'invasamento (come indica anche l'etimologia del secondo termine, collegata a theos). L'uomo non è che un canale di trasmissione o un portavo­ ce. E perché il significato arrivi fino al destinatario c'è biso­ gno di un complesso procedimento di interpretazione. Cosi se prendiamo il verbo semalno come un predicato associato a un certo numero di ruoli (o casi logici) e lo mettiamo in relazione a un processo di comunicazione e a uno di inter­ pretazione, possiamo leggere il passo platonico secondo il seguente schema (molto semplificato in alcune sue parti): 30  soggeno •te cose dette'" "le visioni contemplate'" il dio l'uomo invasato significato - destinatario "'un male o un bene futuro o passato o presente'" trice ed entusia- stica· 2.0 DIVINAZIONE E CONOSCENZA 3 1  ---------------- - - - - - - - - - - - ,  '"la natura divina- l l'uomo  processo di interpretazione del segno , effe"uato da personaggi con un sapere specializzato, a favore del destinatario "'i profeti'"   Il verbo smafno, dunque, non ha il banale senso di "si­ gnificare", nel senso deli'instaurazione di un rapporto tra un piano dell'espressione e un piano del contenuto all'inter­ no di un segno. Esso sembra piuttosto riferirsi al processo di comunicazione stesso che il dio attiva nei confronti del­ l'uomo: in altre parole, nel passo platonico, il verbo sembra riferirsi alla situazione per cui il dio "indica attraverso segni (enigmatici)" all'uomo qualcosa, che a quest'ultimo è sco­ nosciuto . A confermare l'uso del verbo smafno con questo senso nei contesti divinatori si trova una lunga tradizione che risa­ le almeno a Eraclito, al noto frammento 93 dell'edizione Diels-Kranz (tr. it. 1974). È stato Romeo (1976) che, in una lucida e complessa analisi del frammento, ha messo in evi­ denza questo significato del verbo smafno, arrivando alla traduzione: (sorgente) (strumento) smafnei (oggetto) (scopo) enunciatore- segno -- canale --  l! 2. I.A DIVINAZIONE GRECA Il ··•Hno• c du: ha l'oracolo in Delfi, né dischiude, né nasconde il ,•.un pnJ.•,ac•o, rna lo indicaattraversosegni(smalner)4 rourro una lunga tradizione che rendeva la forma verbale sl'nuJinei con "significa" o con altre espressioni che avevano l'cffcllo di rendere contraddittorio o incomprensibile l'inte­ ro frammento. Si viene qui a profilare un'opposizione tra due tipi di lin­ guaggio, che hanno caratteristiche antitetiche. Da una parte c'è il linguaggio umano, caratterizzato dalla trasparenza e dall'immediata decifrabilità (e possiamo fare l'ipotesi che proprio questo tipo di linguaggio sia circoscritto da entram­ bi i termini della coppia oppositiva "dischiudo [/égO]"/"na­ scondo [krfptO]": l'uomo o svela completamente il suo pen­ siero, usando il linguaggio, oppure lo nasconde del tutto, non esternandolo in parole). Dall'altra parte c'è un diverso tipo di linguaggio, quello attribuito direttamente al dio nel frammento di Eraclito (e indirettamente nel passo platoni­ co), che è indicato dal verbo semafno e che ha le caratteristi­ che opposte dell'oscurità e della non immediata decodifica­ bilità. Il dio non concede all'uomo una rivelazione comple­ ta, né gli nega totalmente la conoscenza: gli fornisce piutto­ sto, attraverso il segno oracolare, una base di inferenza sul­ la quale l'uomo dovrà lavorare per giungere a una conclu­ sione, senza però dargli alcuna garanzia sulla via da seguire con il ragionamento. Ci sono due spiegazioni al fatto che la cultura letteraria e filosofica greca si sia rappresentata il segno divinatorio co­ me oscuro e ambiguo. La prima è quella che abbiamo visto inquadrarsi nell'otti­ ca di Colli, secondo cui il segno divinatorio può essere con­ siderato come "l'impronta del divino" nell'uomo, indizio di un punto di contatto (quello attraverso cui la conoscenza divina si comunica all'uomo), e contemporaneamente di un punto di fuga.s La seconda spiegazione è quella messa in luce da Vernant (1974: tr. it. 20-21), ed è inerente al tipo di razionalità speci­ fica messa in gioco dalla divinazione, come pratica effetti­ va, oltre che come teoria. Essa si connette al diverso ruolo  2.0 DIVINAZIONE E CONOSCENZA 33 che gioca il destino rispettivamente nella sfera divina e in quella umana. Infatti, a livello dell'esistenza umana, il de­ stino è concepibile come una successione lineare di avveni­ menti (rappresentato metaforicamente dal filo delle Par­ che), i quali si connettono tra loro apparentemente senza che possa essere attribuito loro un senso globale. Questa successione acquisisce un significato solo quando è arrivata al suo termine, quando cioè il destino "si compie". È solo a questo punto che esso diventa intelligibile e permette di spiegare, alla luce degli ulteriori sviluppi, anche gli avveni­ menti passati ai quali non si era saputo dare un senso. Fino a quel momento, tuttavia, l'uomo rimane in una fondamen­ tale ignoranza: anzi, è proprio questa ignoranza a caratte­ rizzare l'esistenza umana. A livello degli dei, al contrario, il destino di ciascun uo­ mo è presente e intelligibile in ogni momento nella sua tota­ lità. Esso infatti è stabilito in maniera irrevocabile e iscritto nell'eternità già prima della nascita di ogni uomo. La divi­ nazione trova il suo spazio proprio in questo scarto di cono­ scenza che si apre tra gli uomini e gli dei: l'oracolo (e in ulti­ ma analisi anche ogni altro tipo di segno divinatorio) si sup­ pone che riveli all'uomo, quando è ancora in vita, proprio il significato segreto del suo destino, mentre questo sarebbe accessibile, dal punto di vista umano, solo dopo la morte. Tuttavia, se la divinazione compisse la sua funzione pro­ fetica sino in fondo, se cioè abolisse totalmente lo scarto di conoscenza che esiste tra l'uomo e la divinità, risulterebbe con ciò cancellata anche la differenza che distingue l'uomo dal dio. Per questa ragione il dio non svela il destino più di quanto lo nasconda in effetti, secondo la formulazione di Eraclito. L'oracolo lo lascia intravedere, ma nello stesso tempo lo dissimula; lo dà a indovinare attraverso un segno oscuro ed enigmatico che per i consultanti non è più intelli­ gibile di quanto lo siano gli avvenimenti per i quali si sono rivolti all'oracolo. Così, la logica della divinazione fa in modo che con l'ambiguità del segno venga reintrodotta, a livello umano, quella "opacità" circa il destino che l'anni­ scienza divinatoria avrebbe il compito di attenuare, se non di eliminare del tutto.  14 2. LA DIVINAZIONE GRECA 2. 1 llue tipi di divinazione 2 . 1 . 1 La divinazione naturale Il passo platonico del Timeo, come pure il frammento di Eraclito, fanno riferimento a un tipo di divinazione che vie­ ne di solito definita "ispirata": essa rientra all'interno della categoria generale della mantik atechnos, della divinazione cioè che non richiede un apparato di mezzi tecnici per la sua messa in opera e per questo, talvolta, riceve anche il nome di "divinazione naturale" (Cic. , De divinatione). Il carattere specifico di questo tipo di divinazione è quel­ lo per cui il sapere del dio non passa attraverso mezzi di ma­ nifestazione esterni all'uomo: l'ispirazione divina raggiunge direttamente l'individuo attraverso i sogni (cioè un testo iconico) o si comunica a un profeta-portavoce che emette un responso (normalmente un testo verbale). Per usare l'e­ spressione di Romeo (1976: 84), si tratta di un tipo di divi­ nazione "endosemiotica". Secondo questo modello funzionava il più noto e presti­ gioso oracolo della Grecia antica, quello di Delfi6 in cui la Pizia, la sacerdotessa di Apollo, emetteva un responso co­ stituito da un testo verbale. Ma, come abbiamo visto, per quanto esso fosse formulato nei termini del linguaggio na­ turale, il suo senso non era decodificabile mediante la sem­ plice applicazione delle regole del codice linguistico a livello denotativo. Più avanti vedremo alcuni esempi di decodifica aberrante di responsi, fraintesi proprio per la pedissequa applicazione di questo codice senza far ricorso a regole più complesse (come quelle di tipo retorico-tropico). 2. 1 .2 La divinazione artificiale Il secondo tipo di divinazione è la mantik technik, defi­ nita, a seconda dei commentatori, come "congetturale", "induttiva", "deduttiva" o "artificiale". Era basata suli'a­ nalisi dei segni (visibili, acustici, sensibili) che si realizzava-no nell'ambiente esterno all'uomo e che potevano essere spontanei (come i fulmini o le eclissi) oppure provocati (co­ me il lancio dei dadi o l'estispicina).7 Questo secondo tipo di divinazione mette in gioco una lo­ gica particolare, basata sull'ipotesi che esistano rapporti di omologia e di corrispondenza tra il microcosmo, rappresen­ tato dal fenomeno preso come segno, e il macrocosmo, rap­ presentato dall'ordine generale dell'universo (J. Vernant 1948; J.-P. Vernant 1974). A questo proposito vengono isolate delle porzioni di spa­ zio - che possono essere, a esempio, le regioni del cielo per l'astrologia, come pure la superficie del fegato della vittima sacrificale per l'estispicina - che vengono caricate di valore simbolico e deputate a funzionare da specchio dell'ordine cosmico generale. Negli spazi così delimitati è possibile leg­ gere la configurazione futura degli eventi, sottratta a quella aleatorietà, a cui gli eventi reali sono invece sottoposti, e per sopprimere appunto la quale il consultante si rivolge al­ la divinazione. Si creano così due serie, quella delle configurazioni strut­ turali interne al testo segnico e quella degli eventi a cui tali configurazioni rimandano; tra le due si stabilisce un vero e proprio codice di corrispondenza, che permette di passare immediatamente dal segno al suo significato. Ne vediamo un esempio molto semplice nel seguente passo di Omero: Dico che un cenno ci dette il Cronide superbo l il giorno che sulle navi veloci in cammino salivano gli Argivi l a portare stra­ ge e morte ai Troiani l tuonando da destra, mostrando segni di buon augurio. (//., Il, 351-354) In questo caso la volta celeste viene costituita come spa­ zio significativo, come microcosmo in cui sia possibile leg­ gere i segni del destino. Questo spazio viene articolato in una struttura binaria che oppone due regioni, la destra e la sinistra: a ciascuna di esse viene abbinato un valore seman­ tico (ldestral--+"buon auspicio", !sinistra!-+"cattivo auspi­ cio"). Una più articolata configurazione del significato de-  36 2. LA DIVINAZIONE GRECA riva dalla circostanza di enunciazione, cioè dalla sua rela­ zione con la domanda esplicita (o implicita, come in questo caso) che l'interrogante pone alla divinità·. Nel passo omeri­ co la circostanza di enunciazione è la partenza della spedi­ zione per Troia, e la domanda implicita concerne la riuscita dell'impresa: dunque il tuono che proviene dalla regione de­ stra del cielo viene a significare "buona riuscita dell'impresa dei Greci contro Troia". Infatti, per quel che riguarda l'individuazione del signifi­ cato ultimo del segno, tutti i sistemi divinatori si basano su un equilibrio più o meno stabile tra le strutture formali del codice che permettono di cifrare in maniera completa l'av­ venimento prodigioso e insolito, e la molteplicità delle si­ tuazioni concrete a cui tale avvenimento-segno può riman­ dare nei contesti specifici. Nell'esempio omerico il codice è così semplice da essere diventato patrimonio comune, tanto che non si fa cenno della presenza di un indovino, per decifrare il segno. Di so­ lito non è così per la divinazione artificiale, il cui carattere "tecnico" risiedeva proprio nel fatto che per l'interpretazio­ ne dei segni era necessario fare ricorso alla conoscenza spe­ cializzata di personaggi depositari di un sapere che verte sulle regole di decodifica. L'indovino è infatti essenziale nel caso, appena più com­ plesso, riportato da Plutarco nella Vita di Dione (24). L'a­ neddoto riguarda la spedizione effettuata nel 357 a.C. da Diane contro Dionigi di Siracusa, durante la quale si verifi­ cò un'eclisse di luna. L'indovino Miltas, chiamato a inter­ pretare quel segno, dichiarò che esso annunciava che qual­ cosa che era stato splendente fino ad allora, si sarebbe oscu­ rato: non poteva, dunque, che trattarsi del regno tirannico di Dionigi, il quale era destinato a soccombere sotto l'attac­ co portatogli da Dione. Anche qui ci sono le due fasi: la prima determina il signi­ ficato degli abbinamenti del codice e la seconda quello deri­ vante dalla sua applicazione alla situazione concreta. Inol­ tre l'indovino Miltas si avvale di una tecnica più sofisticata, che fa ricorso anche alle trasformazioni retoriche: la rela­ zione tra il macrocosmo della luna che viene oscurata dal-  2. 1 DUE TIPI DI DIVINAZIONE 37 l'eclisse e il microcosmo del regno di Dionigi destinato a soccombere è mediata dall'elemento comune !splendore! con cui si designa in modo proprio una qualità della luna e in modo figurato una proprietà del regno di Dionigi. Esistevano poi codici notevolmente elaborati già al sem­ plice livello degli abbinamenti, come a esempio il codice dell'estispicina. In questa pratica venivano esaminate le vi­ scere degli animali, in particolare il fegato, del quale si os­ servavano l'aspetto e la posizione del lobo, della vescichetta e delle porte.8 Per quello che riguarda la cultura greca non abbiamo esempi del modo in cui venivano effettivamente realizzati gli abbinamenti tra gli elementi significanti e quel­ li a cui essi rinviavano. Tuttavia Luc Brisson (1974), in uno studio molto interessante e completo sulla divinazione in Platone, ha segnalato un passo del Timeo (71 a-d) in cui, nonostante non si parli direttamente di estispicina, si descri­ ve un fenomeno che con essa ha molti punti di contatto. Il passo illustra i processi che si determinan9 quando l'anima razionale, che ha sede nel cervello, lascia la sua impronta, "come in uno specchio", sul fegato che è la sede dell'anima appetitiva: questo permette di vedere riprodotte nel fegato (nei suoi aspetti via via diversificantisi) le impressioni la­ sciate dali'anima razionale. La specularità è, però, solo metaforica perché si verifica­ no in realtà dei processi di codificazione molto forte, che fanno pensare ai meccanismi della "comunicazione biochi­ mica" . In definitiva il fegato viene a costituire un testo segnico sul quale I 'anima appetitiva legge i contenuti intelligibili, di­ venuti sensibili attraverso un processo di codifica. Esso co­ stituisce altresì un microcosmo che rispecchia, anche se in modo molto particolare, l'assetto del macrocosmo costitui­ to dali'anima razionale. Si può presumere che i codici dell'estispicina funzionasse­ ro in un modo analogo a quello descritto per i processi di comunicazione "intrapsichica" illustrati dal Timeo. Tuttavia, proprio da Platone scaturisce una delle più reci­ se condanne che la Grecia classica abbia espresso nei con­ fronti della divinazione artificiale. Tale condanna si trova  38 2. LA DIVINAZIONE GRECA formulata nei due testi del Timeo (72 b) e del Fedro (244 c-d). Nel primo di questi, in particolare, è contenuta una condanna dell'epatoscopia: infatti Platone, che accetta la possibilità di leggere sul fegato molti segni quando questo è contenuto in un organismo vivente, sostiene che esso non può rivelare niente di sicuro agli uomini, quando è privato della vita e non è più sottoposto all'influsso luminoso del­ l'anima razionale. Più generale e radicale è la condanna della divinazione tecnica nel Fedro. In quel testo Platone fa l'elogio della fol­ lia, di cui considera la divinazione una specie, e separa la mantica ispirata ed entusiastica da tutte le altre forme di in­ vestigazione del futuro. In particolare la "mantica", nel senso ristretto, viene contrapposta alla "oionistica", cioè la divinazione mediante l'osservazione dei segni dati dal volo degli uccelli. La ragione della discriminazione è chiara: nella divina­ zione tecnica la ragione umana pretende di sostituirsi ali'i­ spirazione divina. Per indicare che in questo modo non si raggiunge che un grado molto pallido e incerto di conoscen­ za, Platone inventa addirittura una connessione etimologi­ ca tra "oionistica" e olsis (''opinione") ("L'investigazione del futuro [. . .] attraverso gli uccelli [. . .] fu chiamata 'oio­ noistica', che i moderni, rendendola solenne con un omega, dicono oionistica": Phaedr., 244 c). Nella divinazione ispi­ rata, invece, la conoscenza deriva all'uomo da una posses­ sione divina e questo è garan.zia di verità. Sembra profilarsi un'opposizione tra smafnein e tekmal­ resthai, il primo verbo indicando, come nel Timeo e in Era­ clito, il dono della conoscenza elargita dal dio, mentre il se­ condo indica la congettura puramente umana. Questa op­ posizione richiama il motto di Alcmeone: Delle cose invisibili e delle cose visibili gli dei hanno conoscenza certa; ma agli uomini tocca procedere per indizi (tekmafre­ sthal) . (Diels-Kranz, 24 b l) su cui avremo occasione di tornare.   2.2 DUE MODELLI DI DIVINAZIONE ORACOLARE 39 I passi platonici non esemplificano soltanto l'opinione del filosofo ateniese, ma si pongono altresì in linea con la scelta di fondo compiuta da tutta la civiltà greca nei con­ fronti della divinazione ispirata. Infatti, per quanto in Gre­ cia venissero praticate anche forme di divinazione tecnica, a esse è stata sempre riservata un'importanza secondaria, mentre l'attenzione si è concentrata soprattutto sulle forme della divinazione oracolare, che si esprimevano attraverso la parola. D'altra parte questo fenomeno deve essere messo in rela­ zione con il fatto che la civiltà greca è essenzialmente di tipo orale; in essa la scrittura è non soltanto un fenomeno recen­ te, ma del tutto dipendente dal parlato, che essa tende a ri­ produrre foneticamente. In altre civiltà, come quella meso­ potamica o quella cinese, la scrittura è molto più antica e funziona come un sistema autonomo rispetto alla lingua, presentando a suo modo, attraverso i segni grafici, quelle realtà che la lingua presenta in altra maniera: in queste ci­ viltà la scelta compiuta nei confronti del tipo di divinazione è opposta a quella greca. 2.2 Due modelli della divinazione oracolare Esistono tuttavia profonde differenze tra l'immagine che della divinazione oracolare propongono i testi letterari e il modo in cui essa veniva praticata effettivamente nei santua­ ri a essa adibiti. J.-P. Vernant (1974) parla di due distinti modelli. Nella Grecia dell'età classica, infatti, la divinazione come pratica effettiva ha una rilevanza marginale nel regime della polis. Infatti l'oracolo viene consultato non per ottenere una predizione sul destino, ma per prospettargli, in forma di alternativa, un certo corso di eventi che si ha intenzione di intraprendere e per domandargli se la via sia libera o pre­ clusa.9 Si instaura a questo proposito un vero e proprio dialogo tra il consultante e l'oracolo (Crahay 1974): quest'ultimo ri­ sponde innanzitutto alla domanda che è stata posta in for-  40 2. LA DIVlNAZIONE GRECA ma chiusa, predicendo al consultante se farà o non farà una determinata cosa. Il consultante pone poi all'oracolo una seconda domanda, in forma aperta, ma limitata a una con­ dizione rituale di successo: in sostanza, esso domanda al­ l'oracolo quali ostacoli debbono essere rimossi perché l'im­ presa prospettata giunga a buon fine. È interessante a que­ sto punto vedere come la formula usata di solito dall'oraco­ lo nell'emanare il consiglio di carattere rituale rispecchi quella che veniva usata per redigere le decisioni dell'assem­ blea sancite dal popolo. L'oracolo dice infatti loion kai ameinon éstai (''sarà più conveniente e preferibile"), pro­ prio come nei decreti deli'assemblea si usano formule che pongono l'accento sulla "preferenza" tra le opinioni, piut­ tosto che sull'intimatività della decisione. Ciò è indice del fatto che nella civiltà greca è il modello della discussione as­ sembleare che si proietta sulla divinazione, e non viceversa come avveniva nella civiltà mesopotamica. Ed è interessante che in questo modello di divinazione non si trovi alcuna traccia di risposta ambigua o oscura. Ambiguità e oscurità si trovano solo nel secondo model­ lo, quello "teorico,, della divinazione oracolare, presente in tutta la letteratura scritta, da Erodoto ai poeti tragici, ai fi­ losofi. Esso costituisce la rappresentazione che la cultura della città si dà della divinazione. Secondo·questo modello, l'oracolo viene consultato non per ottenere un consiglio, ma direttamente sul destino. Ciò determina la supposizione che l'oracolo sia onnisciente, in quanto deve conoscere sia lo sviluppo futuro degli eventi, sia, nel contempo, il passa­ to, in cui si situano le remote origini delle sorti attuali e fu­ ture deli'indi\iduo o del gruppo consultante. La logica a cui questo modello risponde non è più bina­ ria: l'oracolo deve qui impegnarsi a ridurre a una sola, spe­ cifica, opzione l'infinità dei possibili. Il responso oscuro e ambiguo reintroduce, del resto, l'in­ certezza che caratterizza la condizione umana che l'oracolo tende ad annullare. Così, nei racconti oracolari dei testi let­ terari, la profezia sembra sempre inadeguata rispetto al cor­ so preso dagli eventi. Il segno rimane oscuro fintantoché il "compiersi" della sorte si incarica di fare chiarezza e di de-  2.3 L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLARI 41 sambiguare, ormai troppo tardi, la polisemia del testo pro­ fetico. 2.3 Il problema interpretativo nei racconti oraco­ lari Naturalmente, per capire come la nozione di smefon si sia sedimentata nella cultura greca, per vedere quale sia il nucleo semantico con cui il termine indicante il segno è sta­ to consegnato alla tradizione filosofica, il riferimento ali'u­ so di smefon nei testi letterari è altrettanto importante quanto il suo significato nelle pratiche divinatorie effettive. Soprattutto nei testi di Erodoto e dei tragediografi è pos­ sibile vedere come costantemente venga tematizzato il pro­ blema interpretativo che il segno oracolare pone: l'oscurità del segno è in principio legata alla difficoltà, che diviene immancabilmente impossibilità, di risolvere tale problema. Si deve però dire che in primo luogo l'uomo è accecato dal­ la hjbris, e palesa la sua scarsa ricettività alla parola della profezia in vari modi: la dimentica, non ne segue le diretti­ ve, sbaglia la modalità di consultazione; alla fine, però, il suo errore fondamentale è quello di scegliere sempre il ter­ mine errato dell'alternativa posta dal segno ambiguo. Se la sua colpa è, dunque, un peccato di tracotanza, il suo errore è un errore di conoscenza, e ha un carattere squi­ sitamente semiotico. Ancora una volta compare l'opposizione "linguaggio umano"/"linguaggio divino": l'uomo infatti interpreta sempre la profezia secondo il proprio codice, non tentando mai di intendere la parola della rivelazione come cifrata in un altro linguaggio, quello appunto della divinità. In termini semiotici, in tutti i racconti sul tema della divi­ nazione oracolare, l'uomo interpreta invariabilmente il te­ sto in modo letterale, mentre questo dovrebbe ricevere una lettura secondo quello che potremmo definire modo enig­ matico.10 Infatti, l'idea fondamentale che i racconti oracolari sug­ geriscono è che esista sempre nella profezia un senso secon-  42 2. LA DIVINAZIONE GRECA do, che è nascosto e che costituisce il vero e unico significa­ to del segno: è la scoperta di questo secondo senso, scartan­ do il primo, che qui chiamiamo interpretazione secondo il modo enigmatico. Invece l'uomo coinvolto nell'interpreta­ zione, data la sua incapacità di attingere la sapienza divina, compie proprio il gesto contrario, scartando la possibilità di un senso non letterale. Vi sono tuttavia diverse forme dell'errore di interpreta­ zione. (i) La prima consiste nella incapacità di assegnare un senso al testo, o meglio, di adeguarlo a circostanze reali no­ te: non si trovano oggetti a cui le parole della profezia pos­ sano essere riferite e il testo appare totalmente assurdo. (ii) La seconda forma di errore consiste nel riferire la profezia a oggetti reali, ma erroneamente identificati; ve ne sono due sottospecie, a seconda che l'errore sia dovuto a una omoni­ mia o a un equivoco (e quest'ultimo è ulteriormente suddi­ visibile). Tutto ciò può essere illustrato mediante il seguente schema: Interpretazione  secondo il modo enigmatico ~l et t e r a l e n o n se n so sen~  so errato per omonlmia per equivoco errate scambio assunzioni di prospettiva di credenza  2.3 L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLAR.I 43 Vediamo ora alcuni racconti oracolari in cui sono esem­ plificate queste modalità di errore. L'incapacità di assegnare un senso al testo profetico si ha in vari racconti nei quali vengono utilizzati meccanismi re­ torici, tra cui alcuni di tipo metaforico. È naturale che, quando il veicolo metaforico viene interpretato "letteral­ mente", si ottenga una assurdità sul piano del senso, a me­ no che non si immagini un mondo possibile, diverso da quello reale, in cui i muli possano diventare re dei Medi e gli araldi siano dipinti di rosso. Il consultante, che prende in considerazione soltanto il mondo reale, si trova in difficoltà ad assegnare un senso e una denotazione a testi siffatti. Ma vediamo che cosa succede nel primo di questi racconti. È Erodoto a narrarci la storia degli abitanti deli'isola di Sifno, i quali, essendo giunti a un notevole grado di ricchez­ za con le loro miniere d'oro e d'argento, decisero di consul­ tare l'oracolo di Delfi per sapere se avrebbero potuto con­ servare a lungo la loro prosperità. La Pizia rispose: "Ma quando, a Sifno, il pritaneo sarà bianco e bianco il bordo della piazza pubblica, allora c'è bisogno di un uomo accor­ to per guardarsi dall'agguato di legno e dall'araldo rosso" (Herod., Hist. , III, 57). La storia continua narrando del­ l'arrivo di una nave dei Sami, della loro ambasceria per chiedere denaro e del saccheggio che questi ultimi fanno dell'isola dei Sifni. Erodoto sottolinea l'incapacità manifestata dai Sifni di dare un senso al testo ("l Sifni non furono capaci di com­ prendere l'oracolo"); per loro il testo, e in particolare, si presume, le espressioni "agguato di legno" e "araldo ros­ so", sono prive di senso, perché appunto essi si fermano a un livello letterale di interpretazione. In realtà il dio gioca con vari meccanismi tropici: innan­ zitutto con una doppia enallage1 1 (è il legno [ = nave] che anticamente è rosso, come spiega Erodoto, ed è l'araldo [ = gli ambasciatori] che organizza un agguato), complican­ do poi il testo con meccanismi metonimici (legno per nave, il singolare araldo per il plurale ambasciatori). Un secondo esempio di mancata comprensione si trova in un episodio di quel lungo e complesso "romanzo oracolare"  2 . LA DIVINAZIONE GRECA t·hc l·:rodotodedicaaCreso,quandoquest'ultimochiedeal­ l ' oracolo di Delfi se la sua monarchia sarebbe durata a lun­ o . La Pizia risponde: "Quando un mulo sarà re dei Medi, allora, Lidio dai piedi delicati, fuggi lungo l'Ermo sassoso, non indugiare e non temere di essere vile" (Herod., Hist., l, 55). Anche in questo caso, l'interpretazione che viene data alla profezia sceglie il senso letterale: Creso ritiene, di con­ seguenza, impossibile che venga a verificarsi uno stato di cose che soddisfi alla descrizione della frase "un mulo sarà re dei Medi"; la conclusione che egli trae da questa impossi­ bilità è che sia altrettanto impossibile che il suo regno abbia una fine. Sarà poi il dio stesso a spiegare al re il suo gioco metafo­ rico, quando ormai i fatti si saranno compiuti e Creso sarà caduto sotto la dominazione dei Persiani . Il "mulo" è, in ef­ fetti, Ciro, e il passaggio è mediato dalla proprietà "sangue misto", che è condivisa sia dal termine metaforizzante sia dal termine metaforizzato: ·sangue misto• / Tanto maggiore è la cecità di Creso se si pensa che l'ele­ mento comune è doppiamente esemplificato in Ciro, in quanto figlio "di madre nobile e di padre di oscuro lignag­ gio" e "di madre meda e di padre persiano", come il testo di Erodoto non manca di sottolineare. Vale la pena di rilevare che l'interpretazione del senso fi­ gurato è un'operazione realmente più difficile di quello che si potrebbe immaginare, fatto che giustifica in qualche ma­ niera gli insuccessi dei consultanti. Essa è legata a cono­ scenze enciclopediche locali, oltre che ai meccanismi retori­ ci che su quelle conoscenze si applicano. Ciò è tanto più ve­ ro se si considera che è impossibile anche per il lettore mo­ derno fornire l'interpretazione del testo profetico quando il testo letterario non ci informa sulle relative porzioni di enciclopedia. Ciò avviene, a esempio, nel racconto oracolare di Arcesilao (Herod., Hist., IV, 163-164) in cui, accanto a scambi metaforici tra "anfore" e "uomini", tra "torri" e "forni" che vengono spiegati dal prosieguo della narrazio­ ne, compare l'espressione "il tuo più bel toro" che rimane inspiegata ed è anche per noi incomprensibile. Vediamo ora il caso in cui il testo appare interpretabile secondo un percorso di senso letterale, in cui cioè sia rin­ tracciabile un corso di eventi corrispondente a esso, senza però essere quello inteso dalla profezia. Consideriamo in particolare il caso in cui l'errore interpretativo sia dovuto a omonimia. Questo meccanismo, accompagnato dal costante frain­ tendimento, caratterizza l'intero romanzo oracolare di Cambise. Si tratta di una storia in cui i vari segni si collega­ no tra di loro in una catena di rimandi interni. Questa storia ha inizio con un sogno: Smerdi (fratello di Cambise) era già tornato in patria (la Persia) quando Cambise ebbe in sogno questa visione: gli parve che un messo, giunto dalla Persia, gli annunciasse che Smerdi, seduto sul trono regale, toccava con la testa il cielo. Temendo perciò che il fratello meditasse di ucciderlo per impadronirsi del regno, mandò in Persia Prexaspe, che gli era fedelissimo fra tutti i Per­ siani, a uccidere Smerdi. (Herod., Hist., III, 30) Dopo parecchi paragrafi, in cui la storia continua narran­ do le stravaganze e le crudeltà di Cambise, ci viene raccon­ tata la ribellione in Persia dei due fratelli Magi, uno dei quali, che si chiamava anch'esso Smerdi, era stato collocato sul trono. Quando Cambise viene a conoscenza di questo fatto, comprende il vero senso del sogno. Ma la storia non finisce qui: Dopo che ebbe pianto e si fu afflitto di tanta sciagura, Cambise balzò a cavallo per muovere al più presto verso Susa contro il Mago; ma, mentre saliva in arcione, gli cadde il puntate del fo­ dero della spada, che rimasta nuda lo ferì alla coscia. Colpito così nello stesso punto in cui aveva trafitto il dio egizio Api, il  2. LA DIVINAZIONE GRECA fl\ iudicando mortale la sua ferita, domandò ancora come si chiarnassc la città dove si trovavano e gli risposero che si chia­ rnava Ecbatana. Ora, molto tempo addietro, a lui che l'aveva consultato, l'oracolo di Buto aveva risposto che sarebbe morto ad Ecbatana ed egli aveva interpretato che sarebbe morto, vec­ chio, ad Ecbatana di Media, dove aveva tutti i suoi beni, men­ tre l'oracolo aveva inteso di indicare Ecbatana di Siria. Pertan­ to Cambise, come ebbe saputo il nome della città, sotto il dupli­ ce colpo della rivolta del Mago e della ferita, rinsavì e, com­ prendendo finalmente il divino responso, esclamò: "Qui è desti­ no che muoia Cambise, figlio di Ciro". (Herod., Hist., III, 64) La rivolta del Mago e la ferita sono, più che avvenimenti, dei segni, in quanto permettono a Cambise di accedere alla conoscenza, di comprendere, finalmente senza più ambigui­ tà, l'oracolo, di non rimanere più prigioniero dei giochi di parole: la rivolta che gli fa capire la differenza tra Smerdi suo fratello e Smerdi Mago; la ferita mortale, la differenza tra Ecbatana in Media ed Ecbatana di Siria. Infine c'è l'ulteriore caso di errata interpretazione a cau­ sa di un equivoco, non strettamente linguistico, e che può essere di varia natura. L'equivoco più famoso di tutta la letteratura oracolare greca è senz'altro quello di cui cade vittima Edipo. Come noto, durante un banchetto Edipo viene insospettito dalle insinuazioni fatte da un convitato circa la sua paternità e decide allora di interrogare il dio della sapienza, il quale gli predice che ucciderà il padre e che si congiungerà con la ma­ dre (Soph., Oedipus tyrannus, 787-798). L'equivoco riguar­ da le assunzioni di crede...zza: Edipo non sa che i suoi veri genitori sono Laio, re di Tebe, e Giocasta, ma crede che sia­ no Polibo, re di Corinto, e Merope; per questo, al fine di stornare gli avvenimenti predetti dall'oracolo, si allontana da Corinto per andare in direzione di Tebe, e compie, così, inconsapevolmente, proprio il destino che gli è stato annun­ ciato. Altre volte l'equivoco riguarda lo sca1nbio diprospettiva. Il caso emblematico è quello di Creso che manda a consul­ tare congiuntamente l'oracolo di Delfi e quello di Anfiarao 46  2.3 L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLARJ 47 per sapere se dovesse fare guerra ai Persiani. I due oraco­ li, concordemente, predicono che "se avesse mosso contro i Persiani, avrebbe distrutto un grande impero" (Herod., Hist., l, 53). Creso interpreta il responso come facente rife­ rimento alla distruzione dell'impero dei Persiani, mentre, come si scopre in seguito, sarà proprio il suo impero a subi­ re tale destino. A sviare il re dalla giusta interpretazione in­ terviene un meccanismo semiotico implicito: l'assunzione di Creso che, dal momento che l'oracolo è rivolto a lui, anche il dio assuma la sua prospettiva. E, ovviamente, nella pro­ spettiva di Creso, il grande impero da distruggere non può che essere quello persiano. Si incomincia a intravedere in questo esempio, più che nei precedenti, una caratteristica che è tipica deli'enigma: una fortissima carica aggressiva, potenzialmente distrutti­ va, da parte del dio nei confronti dell'uomo quando gli po­ ne un problema interpretativo da risolvere. Una conferma si trova nel racconto analogo in cui l'ora­ colo di Delfi predice agli Spartani che misureranno la terra di Tegea con le funi (Herod., Hist., l, 66). Gli Spartani in­ terpretano il riferimento alle funi come indicante Patto di misurare le terre per distribuirle ai conquistatori e, di conse­ guenza, fanno una spedizione contro Tegea. In realtà esse sono inserite in un altroframe o sceneggiatura (Eco 1984), in quanto serviranno agli Spartani , ridotti in schiavitù dopo la sconfitta, per misurare le terre che dovranno lavorare. L'attributo con cui viene qualificato il responso è klbd­ los che, nel suo senso traslato, significa "ambiguo", "fal­ so", "ingannevole", ma nel suo senso base fa riferimento alla carica estranea che adultera il metallo prezioso. Ciò che ne risulta, come nei casi presi in considerazione, è la com­ mistione di due metalli, uno buono e uno non, che fa lucci­ care come oro ciò che oro non è. Analogo meccanismo, infine, si trova negli aneddoti, ri­ portati da Diodoro Siculo (Biblioteca, XVI, 91-92; XX, 29), nei quali viene annunciato a un generale che pranzerà o alloggerà nella città che sta assediando; queste cose si verifi­ cheranno, ma la prospettiva non sarà quella del vincitore bensì quella del prigioniero.  48 2. LA DIVINAZIONE GRECA 2.4 Il segno come sfida: divinazione ed enigma Abbiamo accennato alla carica di aggressività che si cela dietro al segno oscuro. Questo aspetto collega immediata­ mente il segno divinatorio all'enigma vero e proprio, an­ ch'esso oscuro e insolubile e, mitologicamente, espressione della sfida che la divinità lancia ali'uomo. È stato Colli ( 1 975 : 1 8) a mettere in luce il rapporto tra la divinazione, l'enigma e l'altra faccia di Apollo, quella mi­ nacciosa e distruttrice. 1 2 Apollo, infatti, non è soltanto di­ vinità benefica che dona agli uomini l'arte mantica e la me­ dicina: egli è anche il dio della freccia e dell'arco. Queste in­ dicazioni assumono un valore direttamente semiotico quan­ do si scopre che la freccia di Apollo e il segno oscuro sono non due cose diverse, ma due mezzi di espressione della me­ desima potenza del dio e che possono avere anche lo stesso funzionamento, come si può inferire da un passo di Pinda­ ro (0/ymp., II, 83-85). Il vero destinatario delle frecce di Apollo è l'uomo in quanto interprete. Fuori dal linguaggio figurato l'uomo-in­ terprete raccoglie una sfida che il dio, con intenzione ostile, gli lancia; e, dagli esempi stessi che abbiamo visto nei rac­ conti oracolari, si è potuto notare che il non riuscire a vin­ cere questa gara con il dio, cioè non riuscire a interpretare il segno oscuro, conduce alla rovina. Non sembrano esserci, a questo punto, più dubbi sulla relazione assolutamente stretta tra segno divinatorio ed enigma. Ciò viene confermato anche da un'analisi diacroni­ ca del "genere" enigma, che nasce proprio all'interno della sfera religiosa della divinazione con i due ben precisi carat­ teri dell'ostilità divina nei confronti dell'uomo e dell'aspet­ to di sfida a una gara. Lentamente l'enigma si staccherà dal contesto sacro per dare origine a una sua storia evolutiva, nel corso della quale attenuerà, pur conservandone traccia, i caratteri iniziali. La storia deli'enigma è la storia stessa dell'interpretazione intesa come gara, fino ad approdare al­ l'idea di interpretazione come confronto dialettico tra due opinioni opposte. Può essere interessante per il nostro discorso, inteso a  2.4 n SEGNO COME SFIDA 49 enucleare l'aspetto del segno divinatorio come dispositivo scatenatore di interpretazione, seguire alcune delle fasi più salienti dell'evoluzione deli'enigma. Come noto, il primo e più celebre esempio di apparizione dell'enigma in un contesto sacro è quello presente nel mito della Sfinge. La creatura mostruosa mandata da Apollo im­ pone agli abitanti di Tebe l'enigma sulle tre età dell'uomo. La posta in gara è la vita: chi non riesce a risolverlo è divo­ rato dalla Sfinge; chi invece lo risolve - e il solo Edipo ne è capace - fa precipitare la Sfinge nell'abisso. Ma nella prima evoluzione deli'enigma, già in età arcai­ ca, la lotta tra un personaggio divino e uno umano, si spo­ sta a quella tra due personaggi umani, che però conservano ancora un aggancio con la sfera del sacro in quanto sono due divinatori. Questa fase è illustrata dall'aneddoto di Strabone sulla gara tra Calcante e Mopso. Calcante propo­ ne a Mopso di "indovinare" quale è il numero di frutti che porta un fico selvatico che si trova sul loro cammino. Mop­ so dà una risposta estremamente dettagliata ("Sono dieci­ mila di numero, la loro misura è un medimno, ma uno di questi fichi è di troppo e non rientra nella misura") di fron­ te alla cui esattezza Calcante viene colpito da un "sonno di morte" (Geogr., VI, 232-235). Di fronte alla sapienza, ancora di origine divina, dei due personaggi, anche il contenuto dell'enigma passa in secon­ do piano, come dimostra la banalità deli'oggetto che deve essere scoperto. È, del resto, la stessa irrilevanza contenuti­ stica che si poteva notare nell'enigma della Sfinge, cosi sproporzionato rispetto ai rischi mortali che comportava. Tuttavia, nel passaggio ulteriore, quando l'enigma si umanizza completamente, anche il suo testo assume un as­ setto formale elaborato, basato sulla formulazione di una contraddizione che, anziché non designare niente (come av­ viene di norma in un caso del genere), designa altresì qual­ cosa di reale. Questa forma la si trova nella leggenda ri­ guardante la morte di Omero: Omero interrogò il dio per sapere chi fossero i suoi genitori e quale la sua patria; e il dio così rispose: "L'isola di lo è patria di  2. LA DIVINAZIONE GRECA tua madre, ed essa ti accoglierà morto; ma tu guardati dall'e­ nigma di giovani uomini [. . . ]" . Giunse ad Io. Qui, seduto su uno scoglio, vide dei pescatori che si avvicinavano alla riva e chiese loro se avessero qualcosa. Quelli, poiché non avevano pescato nulla, ma si spidocchiavano, per la mancanza di pesca, cosi risposero: "Quanto abbiamo preso l'abbiamo lasciato, quanto non abbiamo preso lo portiamo", alludendo con un enigma al fatto che i pidocchi che avevano preso li avevano uc­ cisi e lasciati cadere, e quelli che non avevano preso li portava­ no nelle vesti. Omero, non essendo capace di risolvere l'enig­ ma, morì per lo scoramento. (Arist., Dept., fr. 8) Nel frammento compaiono ancora gli elementi dell'enig­ ma che abbiamo già incontrato: la sfida circa un oggetto di conoscenza e il rischio mortale per il sapiente che non si di­ mostra in grado di risolvere l'enigma; ma in più compare la forma elaborata di una contraddizione, che da allora sarà tipica di questo genere. Più precisamente compaiono due coppie di determinazioni contraddittorie "abbiamo preso - non abbiamo preso" e "abbiamo lasciato - portiamo", che possono essere così disposte sul quadrato logico: 50 ·abbiamo preso· CONTRARI {non abbiamo fasciato = ) ·portiamo· ·non abbiamo preso'" SUB CONTRARI ·abbiamo fasciato•   2.5 AGONISMO, DIALETTICA, RETORICA 51 Ciascun singolo termine della prima coppia di contrad­ dittori ("abbiamo preso"/"non abbiamo preso") entra in relazione di congiunzione con un singolo termine della se­ conda coppia ("abbiamo lasciato"/"portiamo"), ma in mo­ do diverso da quello che ci si attenderebbe intuitivamente (cioè "quanto abbiamo preso, lo portiamo" e "quanto non abbiamo preso, l'abbiamo lasciato"). Invece nell'enigma ri­ sultano congiunti termini che logicamente sono in opposi­ zione contraria: "quanto abbiamo preso, l'abbiamo lascia­ to" e "quanto non abbiamo preso, lo portiamo". Eppure l'enigma non è, come sappiamo, assurdo. Il sapiente, che domina la ragione, deve essere in grado di sciogliere questo groviglio problematico. Umanizzandosi completamente, l'enigma mette in evi­ denza l'aspetto competitivo, di gara per la sapienza, e si sta­ bilizza sulla forma della contraddizione apparentemente in­ solubile. L'ulteriore e ultima tappa di questa evoluzione conduce, secondo l'ipotesi di Colli (1975), alla nascita della dialet­ tica. 2.5 Agonismo , dialettica, retorica La dialettica, nel senso antico del termine, nasce infatti sul terreno stesso dell'agonismo: essa si presenta come di­ scussione tra due persone su un qualsiasi argomento cono­ scitivo; su questo campo comune si instaura una gara desti­ nata a far emergere un vincitore. L'andamento generale della discussione segue questo schema (Arist., Top.): inizialmente, lo sfidante propone una domanda in forma alternativa, presentando i due corni di una contraddizione. L'avversario sceglie uno dei due cor· ni e ne sostiene la verità. A questo punto lo sfidante deve dimostrare come vera l'altra alternativa e cosi confutare l'affermazione dell'avversario. Naturalmente il procedi­ mento può richiedere anche una serie molto lunga e artico­ lata di successive domande e risposte, miranti, in maniera diretta o, per lo più, indiretta, alla dimostrazione.  52 2. LA DIVINAZIONE GRECA Al suo nascere, però, il linguaggio dialettico è limitato a un ambiente ristretto e in qualche modo elitario. l)ccisi vi cambiamenti sono, tuttavia, destinati a verificar­ si con l'accrescersi della cultura ad Atene e con il definitivo affermarsi del regime democratico; infatti le forme della dialettica entrano nella sfera pubblica e si connettono con il mondo politico. Così la discussione si allarga indefinita­ mente e la dialettica, in una sua forma in qualche modo adulterata, si trasforma in retorica. Dialettica e retorica sono basate entrambe su un forte spirito di competizione. Tuttavia ciò che le distingue è che, nella prima, non c'è bisogno di un giudice per assegnare la palma della vittoria a uno dei due contendenti: la vittoria di uno dei partecipanti risulta dalla discussione stessa, in quanto, durante lo sviluppo del dibattito, l'avversario ha contraddetto la tesi che prima affermava. Nel caso della re­ torica, invece, l'agonismo è molto più diretto e acceso, in quanto saranno gli ascoltatori a giudicare quale è stato il migliore discorso; manca nella retorica una sanzione intrin­ seca (come c'è nella dialettica) e per questo deve aggiungere un elemento emozionale, legato all'intento persuasivo. 2.6 Divinazione e interpretazione persuasiva Il processo evolutivo che abbiamo descritto è iniziato con il segno divinatorio come sfida conoscitiva posta dal dio al­ l'uomo ed è approdato, nel punto del suo massimo allonta­ namento, alla competizione conoscitiva della dialettica e della retorica. Ma proprio a questo punto il cerchio sembra chiudersi tornando al punto iniziale, con l'introduzione, ali'interno della divinazione stessa, dei metodi della discussione dialet­ tico-retorica. È molto indicativo , a questo proposito , un passo di Ero­ doto, in cui assistiamo a una sorta di conciliazione appunto tra la divinazione, con la sua tipica concezione deterministi­ ca del mondo, e l'eloquenza politica, legata a una visione mobile della vita, che sottopone ogni cosa a una incessante  2.6 DIVINAZIONE E INTERPRETAZIONE PERSUASIVA 53 discussione. Egli infatti narra che gli Ateniesi, trovandosi di fronte alla minaccia di una invasione persiana, mandarono a Delfi degli ambasciatori per consultare l'oracolo. Ma, in un primo momento, la Pizia li affrontò con l'annuncio di gravissime sciagure. Costernati, senza però darsi per vinti, gli Ateniesi sollecitarono una seconda consultazione, im­ plorando un responso più favorevole e stabilendo di non muoversi più dall'oracolo fino a che non l'avessero ottenu­ to. La Pizia accettò di emettere un secondo responso: Zeus concede a Tritogenia (Atena) che solo un muro di legno sia inespugnabile, il quale salverà te e i tuoi figli. Non aspettare, inerte, la cavalleria e le forze di terra che arrivano in massa dal continente, ma ritìrati, volgi le spalle; verrà il giorno in cui po­ trai tenere testa. O divina Salamina, farai perire figli di donne, o quando si semina o quando si raccoglie il frutto di Demetra. (Herod., Hist., VII, 141) Il racconto d i Erodoto mostra chiaramente come i l segno divinatorio, il responso oracolare, innanzitutto non venga accolto con atteggiamento fatalistico. l messaggeri non si accontentano del primo responso, ma sfidano a loro volta il dio, minacciando di non muoversi dal santuario fintanto­ ché non abbiano indotto il dio a mitigare il suo atteggia­ mento ostile. Ma, ciò che è più interessante, il testo erodo­ teo mostra bene come il segno oracolare sia sottoposto a una discussione. Infatti i messaggeri, una volta ottenuta la risposta, la trascrivono e ripartono alla volta di Atene per riferire il responso all'Assemblea. La forma della discussione che si svolge davanti aiPAs­ semblea è quella tipica della dialettica. Il segno oscuro sca­ tena un processo interpretativo che prevede varie possibilità di percorso. Ma, anzitutto, dialetticamente, si presenta co­ me una dicotomia tra due soluzioni opposte e mutualmente escludentisi: (i) ritirarsi sull'acropoli, anticamente fortifica­ ta con una palizzata, perché a essa alludeva il dio con l'e­ spressione "muro di legno"; (ii) allestire una flotta, perché il dio intende riferirsi (sma(nein), con quella espressione enigmatica, a una barriera di navi.  54 2. LA DIVINAZIONE GRECA Ciascun corno della contraddizione è fatto proprio da un gruppo: (i) "alcuni anziani" (affiancati dai cresmologi) so­ stengono il primo termine; (ii) "altri" (tra i quali compare Temistocle) assumono il secondo. Per ora siamo solo alla presentazione del problema: è poi necessario sviluppare una dimostrazione che porti a contraddire una delle due tesi. La discussione segue il secondo corno del dilemma; è co­ me se si dicesse: "Ammettiamo che l'interpretazione giusta sia quella che consiglia di allestire una flotta. Quale con­ traddizione comporta questa interpretazione?". I cresmologi fanno notare, a questo punto, che accettare il secondo corno del dilemma comporta una contraddizione con quella parte del testo che predice a Salamina di divenire causa della morte di molti uomini. Accettare la giustezza di questo sottoproblema posto dai cresmologi comporterebbe l'autoconfutazione della tesi principale. Si è però nel frattempo verificato uno spostamento del li­ vello tematico della discussione: a questo punto, per avere ragione sulla tesi dei cresmologi, è sufficiente dimostrare in.. fondata la loro obiezione. È appunto quello che fa Temistocle, negando che l'obie­ zione dei cresmologi comporti una reale contraddizione. E anche in questo caso il ragionamento procede per assurdo e prende in considerazione una questione di prospettiva: se infatti avessero ragione gli avversari con il dire che Salami­ na (metonimia per "battaglia con la flotta") avrebbe causa­ to morte agli Ateniesi, e se anche questa seconda parte della profezia fosse rivolta, come la prima, ancora agli Ateniesi, il dio non avrebbe attribuito all'isola l'epiteto di "divina", ma di "sventurata". In altre parole, c'è contraddizione tra l'epiteto "divina" usato per Salamina e la morte degli Ate­ niesi. Dunque questa seconda parte del responso, contenen­ te una predizione di morte, deve essere intesa come rivolta ai nemici. Non sfuggirà che in questa seconda fase della discussione il metodo dialettico va impercettibilmente sfumando in quello più propriamente retorico. Conclusivamente Temistocle propone una interpretazio­ ne che tende più a persuadere in positivo della validità del  2.6 DIVINAZIONE E INTERPRETAZIONE PERSUASIVA 55 proprio ragionamento che non a dimostrare la falsità della tesi fondamentale degli avversari. Infine interviene il giudi­ zio dell'uditorio, elemento fondamentale appunto del di­ scorso retorico, per sancire la vittoria di uno dei due con­ tendenti. Il testo dice che gli Ateniesi "giudicarono preferì­ bile (hairetbtera)" la spiegazione di Temistocle rispetto a quella dei cresmologi. Al discreto della logica binaria del­ l'alternativa dialettica, succede il continuo della logica gra­ duata del preferibile. La discussione può aver fatto perdere di vista che oggetto di dibattito è un vaticinio del dio di Delfi. Ma non a caso. La logica, appunto, che viene fatta intervenire neli'interpre­ tazione del responso divinatorio è esattamente la stessa che guida le assemblee politiche. E del resto non è senza significato il fatto che in questo contesto gli avversari di Temistocle siano dei "cresmologi", cioè interpreti specializzati dei responsi divini, ed è notevole che essi risultino sconfitti: è la conferma paradigmatica di come nella Grecia della polis sia la razionalità politica a im­ porre i suoi metodi alla divinazione e non viceversa. In definitiva, il carattere di oscurità attribuito al segno divinatorio rende un ottimo servigio ali'orientamento fon­ damentalmente orale e dialettico della cultura greca: con­ ferma il segno stesso come dispositivo scatenatore di inter­ pretazioni, da sondare con la procedura del confronto tra discorsi contrapposti. Il segno rinvia a una realtà altra da sé, nascosta e ambi­ gua, ma alla quale si può arrivare se ci si impegna in un confronto tra interpretazioni contrastanti: procedura che, lungi dali'essere paralizzante, è invece stimolante e produt­ tiva. In questa prospettiva il segno divinatorio si allontana da quelle che erano due sue caratteristiche fondamentali, cioè il primato della visione e la concezione della verità come ri­ velazione: la verità come a-ltheia, intesa come caduta dei veli che la tenevano nascosta (lanthano). 1 3 Nel passo di Erodoto non sono gli indovini con la loro vi­ sione panoptica a rivelare il senso nascosto del segno: esso prende qui luce dalla congettura (che in Erodoto è sempre  56 2. LA DIVINAZIONE GRECA espressa dal verbo symba/10 e dai suoi derivati, equivalente al più diffuso tekmafroma1). E saranno proprio la congettura e l'abbandono della vi­ sione che permetteranno di far evolvere il segno dal campo della divinazione a quello della scienza vera e propria. SEGNI E PROCESSI SEMIOSICI NELLA MEDICINA GRECA 3.0 Introduzione Ci siamo finora interessati dell'ampio e magmatico cam­ po della divinazione, dove abbiamo visto emergere le prime pratiche semiosiche, connesse, nella cultura greca, con la nascita stessa di un pensiero sapienziale. Ci occuperemo ora dell'altra grande area di manifestazione di un pensiero se­ mioticamente orientato, che sorge prima e in maniera indi­ pendente dalla ricerca filosofica in senso stretto: la medici­ na greca. In quest'area, accanto alla presenza fondamentale dei processi semiosici, si possono registrare anche le prime vere e proprie elaborazioni teoriche intorno al segno e all'infe­ renza (Vegetti 1976: 49 ss.). In seguito, la riflessione semio­ tica sarà consegnata direttamente alla filosofia e alla retori­ ca; ma ampie tracce delle origini rimarranno sia negli esempi che filosofi e trattatisti di retorica sceglieranno per illustrare il segno (esempi spesso di carattere medico, talvol­ ta fisiognomico) sia nella scelta di un modello di funziona­ mento logico del segno secondo lo schema "Se p, allora q", che abbiamo visto operante nella divinazione e che vedremo trasposto nella medicina con diversi contenuti, ma con eguale forma. A differenza della divinazione, per la quale disponiamo di testimonianze per lo più indirette e disorganiche, la medi­ cina greca può contare su una ricca documentazione, rap­ presentata in particolare dal Corpus Hippocraticum, 1 un  58 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA insieme abbastanza ampio e vario di testi (circa un centi­ naio) in cui si trovano illustrate le pratiche e le teorie medi­ che del V e IV secolo a.C. Tali testi non appartengono a un unico autore, come la tradizione aveva indotto a credere, attribuendoli a Ippocrate,2 né a un'epoca circoscrivibile con la vita di un uomo. Sono invece presenti all'interno del C.H. opere con diverse finalità ed3esprimenti indirizzi di­ versi nel campo del sapere medico. Tuttavia, nonostante la disomogeneità che è dato riscon­ trare all'interno del C.H., è possibile vedere nello studio della medicina del V e IV secolo uno dei più importanti campi di indagine del pensiero greco, che si affianca sen­ z'altro alla ricerca filosofica e alla storiografia coeve e che intrattiene con esse dei rapporti fecondissimi di interscam­ bio. È noto il giudizio di Werner Jaeger, secondo cui il pen­ siero socratico non sarebbe stato possibile senza le opere ip­ pocratiche,4 ed è stato sottolineato il debito che la storio­ grafia scientifica, inaugurata da Tucidide nell'ultimo scor­ cio del V secolo, ha contratto nei confronti della téchn ip­ pocratica. Ciò che la medicina aveva da offrire tanto alla filosofia quanto alla storiografia era un modello di sapere specifica­ mente semiotico, articolato sul doppio livello rappresenta­ to, da una parte, da una solida struttura formale (il loghi­ smos, cioè il ragionamento inferenziale, nei suoi due mo­ menti abduttivo e deduttivo) e, dall'altra, da un orienta­ mento di base empirico.6 Come vedremo meglio in seguito, il segno medico costi­ tuisce proprio il prodotto del ragionamento inferenziale ap­ plicato alla ricorrenza dei fenomeni, i quali in tanto acquisi­ scono senso, divenendo segni, in quanto sono riconducibili appunto al loghismos. 3.1 Ambiguità della prognosi A differenza del medico moderno, che legge i segni in funzione della diagnosi, il medico antico elaborava il suo ragionamento in funzione della prognosi. Un intero trattato  3. l AMBIGmTÀ DELLA PROONOSI 59 del C.H. , Ilprognostico, è specificamente dedicato a questo problema. Eccone il passo iniziale e programmatico: Quanto al medico, mi sembra che la cosa migliore sia che egli pratichi la previsione; infatti, con una conoscenza e dichiara­ zione preventiva, di fronte ai malati, dei loro casi presenti, pas­ sati e futuri, e con una puntuale esposizione di quanto gli infer­ mi tralasciano di dire, egli conquisterà maggiore fiducia di po­ ter conoscere le condizioni dei malati, così che gli uomini si ri­ solvano ad affidare se stessi al medico. (cap. 1)7 Dal passo si può osservare che la prognosi non è concepi­ ta come previsione di eventi soltanto futuri, ma coinvolge anche elementi di conoscenza che riguardano sia il presente sia il passato:8 il medico deve avere la capacità di descrivere anche quei sintomi, o quei fatti in generale, che gli ammala­ ti tralasciano di esporre. Dal procedimento descritto nel Prognostico non sono assenti scopi chiaramente manipola­ tori: dicendo ciò che sfugge ai malati, il medico mira ad ac­ quistare maggiore credito presso di loro per persuaderli ad affidarsi alle sue cure. È interessante che una procedura che vuole presentarsi con i crismi della scientificità e dell'obiet­ tività, si ponga non tanto lo scopo del rispecchiamento del­ la realtà (nosologica in questo caso), ma quello della sua manipolazione. II discorso del medico è fatto, in questo ca­ so, anche di "segni efficaci" come uello della retorica in­ cantatoria di Gorgia o della magia. Del resto, la formula con il triplice riferimento al passa­ to, al presente e al futuro, che non costituisce un caso isola­ to, ma ricorre a esempio anche in Epidemie l (come pure, per definire la medicina, nel Lachete platonico, 198 d), spinge a istituire un parallelo con l'analoga formula usata per individuare il procedimento divinatorio (Brtescu 1 975: 46) . 1 0 D'altra parte, se per un verso si possono riscontrare ele­ menti comuni tra la medicina e la divinazione, per un altro molti degli scritti medici del C.H. sottolineano esplicita­ mente e con forza la distanza e i punti di divergenza. A  60 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA esempio l'autore del libro Il regime nelle malattie acute (cap. 8) polemizza contro le pratiche discordanti dei cattivi medici, paragonandole alle pratiche di interpretazione divi­ natoria. L'attacco sferrato alla divinazione è su base semiotica: il segno divinatorio è ambiguo, può significare due cose dia­ metralmente opposte, e perciò è lontano da quel piano di oggettività al quale aspira la scienza medica. Anche l'autore del Prorretico II si scaglia contro i cattivi medici criticando le loro predizioni miracolose, che li rendono simili agli in­ dovini, e contrappone orgogliosamente il proprio metodo basato sui segni umani e sulla congettura: Per parte mia non farò affatto delle divinazioni del genere (ou manteU.somat), ma scriverò i segni (smeia) attraverso i quali si deve congetturare (tekmafresthat), tra i malati, quali guariran­ no e quali moriranno, quali guariranno e quali moriranno in poco o in molto tempo. (cap. l) L'inferenza divinatoria (manteuein) è direttamente con­ trapposta alla congettura (tekmairesthaz). La violenza con cui i medici polemizzano contro la divinazione e la netta presa di distanza rispetto a essa è sicuramente indizio del fatto che essi tentavano di imporre un nuovo e autonomo paradigma epistemologico, una "semiotica profana"; ma è indizio, anche, del fatto che il rischio di confusione o di fraintendimento era ancora presente. Sotto certi aspetti la medicina ippocratica appare effetti­ vamente come la continuazione di una medicina preceden­ te, popolare e antichissima, impostata su basi magiche (Parker 1983: 213 ss.). Certi settori della terminologia de­ nunciano chiaramente questa situazione: Pimportanza cen­ trale, nel C.H., della katharsis ("purificazione") rimanda alle purificazioni magiche dello iatr6mantis "medico-indo­ vino" e dei purificatori apollinei come Epimenide e Bacide; lo stesso termine che indica il medicamento, pharmakon, era in origine impiegato per indicare ciascuno dei due citta­ dini di Atene che regolarmente il 6 di Targelione, o anche in  3.2 MEDICINA E SEMIOTICA MAGICHE 61 caso di pestilenze, erano sottoposti a osservanze rituali, fla­ gellati e scacciati dalla città e forse uccisi, per adempiere a una cerimonia di purificazione (Lanata 1967: 45). Proprio per questi motivi il tentativo di autodifferenzia­ zione dei medici ippocratici rispetto al paradigma magico doveva assumere toni molto accesi, come ci mostra uno dei trattati più interessanti del corpus, il Male sacro. Poiché, dal punto di vista della storia della semiotica, la medicina magica non è meno importante di quella laica, dedicheremo il prossimo paragrafo a illustrare il suo paradigma. Dopodi­ ché esporremo la critica di questo stesso paradigma quale ci viene presentata dall'autorè del Male sacro. 3.2 Medicina e semiotica magiche Molte fonti letterarie suggeriscono l'idea di un'origine mitica comune per la divinazione e per la medicina: entram­ be le pratiche, infatti, figurano come doni di Apollo e sono a lui variamente collegate. Così, per esempio, Platone nel Simposio (197 a): "In verità Apollo scoprì l'arte del tiro con l'arco e la medicina e la divinazione". È molto suggestivo, dal punto di vista semiotico, che le due pratiche primordiali che inaugurano un sapere basato sui segni, siano avvertite come originariamente collegate. E un effettivo stretto colle­ gamento esse lo trovano nella figura antichissima dello ia­ tr6mantis, il medico-indovino, che unisce in sé le facoltà di un veggente e la capacità di curare le malattie. L'appellati­ vo iatr6mantis è riferito in prima istanza allo stesso Apollo; ma passa poi a una serie di personaggi in vario modo legati al dio, che uniscono al dono della mantica e della medicina, anche quello di effettuare delle purificazioni. Un elemento fondamentale che caratterizza la figura del­ lo iatr6mantis è la sua capacità di usare una procedura dia­ gnostica: trattandosi di un veggente, egli è in grado di indi­ viduare la causa nascosta di una malattia, causa che è da at­ tribuirsi sempre a un intervento soprannaturale. In epoca antichissima la malattia è concepita infatti come miasma, come contaminazione, dovuta a un contatto con un'entità  62 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA divina o demonica. 1 1 Per questa ragione c'è bisogno di un medico-indovino, in grado di leggere i segni che gli rendono accessibile il mondo delle forze oscure e soprannaturali alle quali è imputato il presente stato di contaminazione; in se­ guito alla sua diagnosi, lo iatr6mantis può indicare gli stru­ menti magici atti a purificare il miasma. Questa concezione è ben iliustrata da una notizia di un autore di scuola pitagorica, Alessandro Poliistore, che cita le Memorie pitagoriche: L'aria (secondo i Pitagorici) è piena di anime; ed essi le conside­ rano demoni ed eroi e pensano che siano essi a inviare agli uo­ mini i sogni e i segni premonitori (smefa) e le malattie, e non solo agli uomini, ma anche alle greggi e agli altri animali da pa­ scolo; e a questi (demoni ed eroi) sono dirette le cerimonie ca­ tartiche e apotropaiche e tutta la mantica e i vaticini e tutto ciò che è di tal genere.12 Sono presenti in questo passo tutti gli elementi di una se­ miologia sacra abbinata a una medicina magica. I demoni sono la fonte delle malattie che affliggono gli uomini; ma, contemporaneamente, sono anche la fonte dell'informazio­ ne che concerne il mondo invisibile, inviando agli uomini i segni (compreso quel particolare tipo di segno che sono i so­ gni) dai quali si rende riconoscibile l'origine della malattia. Del resto il circolo comunicativo si chiude attraverso gli speciali segni che gli uomini sono chiamati a produrre: i riti catartici e apotropaici. In particolare le cerimonie apotro­ paiche sono costituite dalla recita di epOidal, cioè di formu­ le verbali incantatorie, ritenute idonee a scongiurare il ma­ le: si tratta di segni linguistici che da una parte chiudono il circuito comunicativo con il soprannaturale, dall'altra sono "efficaci", nel senso che intendono agire sul mondo e non rispecchiarlo. 3.3 La critica alla magia e alla semiotica sacra Prenderemo ora in considerazione le critiche rivolte alla  3.3 LA CRITICA ALLA SEMIOTICA SACRA 63 magia sul piano specificamente semiotico ed epistemologi­ co. L'autore del Male sacro si muove sostanzialmente in due direzioni: l . contrapporre alla nozione di "sacro" quel­ la di struttura naturale (phjsis) e di causa razionale (pro­ phasis); 2. mostrare l'inconsistenza sul piano logico del ra­ gionamento sotteso dalle procedure della medicina magica, apponendovi un tipo di ragionamento inferenziale basato sul tekmérion (che qui compare già con il senso di "prova", di "segno sicuro") (cap. l). Ciò che l'autore del trattato vuole contestare è la conce­ zione di un'origine divina della malattia; e questo vale tanto per il "male sacro", cioè l'epilessia, quanto per qualunque altro tipo di morbo. Sotto accusa è la nozione di "sacro'', come qualcosa che si riconduce all'intervento divino. In ef­ fetti, il termine hier6s, anche se in greco si specializzò molto presto in senso religioso, in origine non apparteneva alla sfera olimpica, ma era legato a una concezione animistica: hier6s è tutto quello in cui si rivela una vitalità prodigiosa e magica, e una malattia è sacra in quanto inviata da una for­ za soprannaturale. Lo stesso termine iasthai, "curare" (da cui iatr6s "medico"), originariamente doveva indicare un curare come "un ristorare, un ridonare le forze attraverso appropriate operazioni magico-mediche" (Ramat 1962: 20). In effetti, l'idea della malattia come riconducibile a un intervento diretto "del piano verticale della trascendenza su taluni punti di quello orizzontale della causalità naturale" (Vegetti 1976: 291) appare mettere fuori gioco ogni idea di regolarità dei fenomeni ed escludere, contemporaneamente, la possibilità di controllo su di essi e di previsione. La no­ zione di "natura", che l'autore del trattato contrappone a quella di "sacro", viene a reintrodurre proprio la regolarità nel movimento di cause ed effetti, rendendo possibile l'im­ postazione della medicina su basi scientifiche. Inoltre, se la nozione di phjsis individua la struttura oggettiva e omoge­ nea di ricorrenze tra cause ed effetti, quella, correlata, di pr6phasis (in altri casi aftion, aitle) rimanda al momento della spiegazione del singolo fenomeno.  64 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA 3.4 Le forme di argomentazione logica e il "tekmérion" Tuttavia il punto di maggior forza dell'autore del Male sacro rispetto ai suoi avversari consiste nelle modalità di ar­ gomentazione logica che adotta: facendo un esplicito ricor­ so al tekmrion (''prova", "segno sicuro") egli riesce a indi­ viduare delle contraddizioni interne al sistema della medici­ na magica e a confutarla. Vediamone subito un esempio: E v'è un 'altra grande prova (méga tekmrion) che questa non è più divina delle altre malattie; insorge ai flegmatici per natura, ma non colpisce i biliosi: mentre, se fosse più divina delle altre, in tutti ugualmente dovrebbe prodursi questa malattia, senza distinguere tra biliosi e flegmatici. (cap. 2)13 L'argomentazione assume la forma rigorosa di quello che in seguito sarà chiamato nzodus tollens, cioè "Se p, allora q; ma non-q; di conseguenza non-p''. In altre parole l'autore del A-lale sacro ragiona così: "Se questa malattia fosse più divina delle altre (p}, essa dovrebbe colpire indistintamente tutti (q); ma questo non si verifica (perché colpisce i flegma­ tici, ma non i biliosi) (non-q); ne consegue che essa non è più divina delle altre (non-p)". Si deve rilevare che l'autore utilizza la non verità del conseguente nel modus tollens (''che la malattia non colpisce indiscriminatamente tutti") come segno (teknzérion "segno sicuro", "prova") della non verità dell'antecedente (''che l'epilessia non è più divina del­ le altre malattie"). Naturalmente bisognerà aspettare Aristotele prima che il nzodus tollens come schema ragionativo venga teorizzato e che venga fornita una definizione rigorosa di teknzérion. Del resto, spetterà poi agli stoici di dare un'analisi formale di questo schema argomentativo e di dire che ogni schema argomentativo deve essere considerato come un segno. È in­ teressante, tuttavia, che già l'autore ippocratico leghi l'e­ spressione tekmrion (che da Aristotele in poi assumerà ine­ quivocabilmente il significato di "segno inconfutabile") con  3.5 LA VISTA E OLI ALTRI SENSI 65 lo schema inferenziale del modus tollens: logica e semiotica vengono già a trovare un punto di convergenza e di saldatu­ ra. Saldatura che con gli stoici sarà totale. 3.5 La vista e gli altri sensi Tuttavia la contrapposizione tra una semiologia sacra e una profana non si basa soltanto sulla capacità, che la se­ conda possiede, di utilizzare un ragionamento rigoroso e di fare ricorso a segni che si inquadrino in uno schema logico­ inferenziale. Come ha mostrato Lanza (1979: 103), un altro importante elemento di divergenza tra il paradigma divina­ torio e quello della medicina ippocratica è dato dal diverso ruolo che la vista gioca nei processi di conoscenza. Nella divinazione e nella medicina magica la vista ha una parte fondamentale, in quanto è fonte primaria, e in qual­ che modo unica, dell'attività conoscitiva. Non per niente Apollo, dio della divinazione, è nelle parole di Pindaro co­ lui che possiede "l'occhiata che conosce ogni cosa" (Pyth., III, 29): niente infatti è sottratto alla sua vista nel passato, nel presente e nel futuro; a lui appartiene il "dominio del tempo". L'uomo può conoscere solo ciò che contingente­ mente capita sotto il suo sguardo. Solo l'indovino e il poeta possiedono una seconda vista, che permette loro di vedere anche ciò che è al di là delle limitazioni cui sono sottoposti i comuni mortali; per questo spesso i primi sono ciechi, per essere ricettivi a questa vista; e un'analoga limitazione delle facoltà percettive si verifica anche nell'attività onirica, du­ rante la quale la raccolta di stimoli esterni si attenua fin quasi a scomparire.14 Tanto nel poeta quanto nell'indovi­ no, poi, la visione si tramuta in parola, diventando il segno che supplisce alla mancanza di presenza. Questa concezione comporta una dipendenza del segno dalla divinità e una di­ cotomia tra ciò che è percepibile con la vista e ciò che non lo è. Ma un primo superamento della dipendenza dalla divi­ nità per la conoscenza dell'invisibile si ha nel famoso motto di Anassagora "Vista dell'invisibile è ciò che appare" (6psis ad/On tà phainomena) (D-K, 59 B 21a). Il fenomeno viene  66 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA qui a sostituirsi alla divinità. La vista tuttavia rimane cen­ trale. Caratteristicamente in un trattato medico arcaico. Malattie delle donne, al cap. 60, si dice che attraverso il dito il medico "vedrà" il modo di presentarsi del collo dell'u­ tero. Certamente le opere del C.H. procedono sul cammino aperto da Anassagora, ma contemporaneamente in esse il ruolo della vista perde di importanza nel processo di cono­ scenza. Ci sono ragioni specificamente inerenti alla téchn ippocratica che portano a una svalutazione, o almeno a un ridimensionamento, del ruolo della vista. Nel trattato L 'ar­ te si dice esplicitamente che "delle malattie alcune hanno se­ de in luoghi non celati alla vista, e non sono molte, altre in luoghi non aperti alla vista, e sono molte" (cap. 9). Per giungere alla conoscenza di queste ultime, il medico trae congetture da segni tattili, uditivi, olfattivi e talvolta persi­ no gustativi: è attraverso l'intera gamma della tipologia se­ gnica che il medico può elaborare la sua previsione, percor­ rendo il tempo anche nella dimensione di un passato e di un futuro che sono nascosti. Non solo, ma avviene che, quan­ do i segni non si presentano spontaneamente, il medico giunga a "forzare la natura" per costringerla a fornire degli indizi (cap. 13). A questo punto è possibile tentare un riesame dell'oppo­ sizione visibile/invisibile nel momento in cui essa passa dal­ la divinazione, che l'aveva inventata, agli altri ambiti del sapere. La ritroviamo, a esempio, in ambito giuridico, con l'anti­ tesi tra "beni apparenti" e "beni non apparenti" che, secon­ do la penetrante analisi di Gernet (1968: tr. it. 399 sgg.), si configura come opposizione tra i beni materiali (fondiari e patrimoniali soprattutto) che si possono percepire, e i credi­ ti in genere, "invisibili" (a esempio, i crediti nei confronti di un banchiere presso cui si è depositato del denaro). Poi, nell'ambito strettamente filosofico, l'opposizione assume un carattere squisitamente antologico, dando vita a una duplicazione dei livelli di realtà. In Eraclito, a esempio, il "nascosto" costituisce la realtà vera in contrapposizione all'"apparente", dicotomia di cui si trova chiara traccia nei  3.6 L'ANALOGIAE LACONGETTURA 67 due frammenti: "L'armonia che non si vede è superiore a quella manifesta" (D-K, 22 B 54) e "La natura ama nascon­ dersi" (D-K, 22 B 123). Come si può osservare, mentre nella divinazione il "visibile" richiamava apertamente la funzio­ ne, tutta fisiologica, svolta dali'organo della vista, una vol­ ta avvenuta la trasposizione in altri campi questo legame si attenua. Di fatto scompare quasi del tutto nella scienza, do­ ve visibile e invisibile vengono concepiti come due mondi, la cui comunicazione è garantita non dalla vista, ma dalla congettura. 3.6 L'analogia e la congettura Il carattere semiotico della rivoluzione effettuata dal pen­ siero ippocratico è stato messo in luce da Vegetti (1976), il quale, ponendo in relazione gli scritti dei medici ippocratici con la cultura scientifica e filosofica del loro tempo, ha mo­ strato come essi fossero impegnati in una lotta a favore di un "metodo semiotico", contro il cosiddetto "procedimento analogico", tipico della filosofia ionica e di quei medici e intellettuali che a essa in qualche maniera si richiamavano. In effetti, quella ionica, più che come una filosofia vera e propria, si caratterizzava come una physiologhla, cioè una indagine sulla natura (phjsis), e come ricerca di un suo principio (arch). La natura dei filosofi ionici è in sostanza il mondo quale si manifesta all'osservatore, ma presenta un duplice aspet­ to: esso è, contemporaneamente, molteplice, perché si com­ pone di una infinità di fenomeni, e unitario, in quanto cia­ scun fenomeno manifesta lo stesso principio rintracciabile in ogni altro frammento del reale. L'unico procedimento conoscitivo, in questo quadro, è l'analogia: di fronte a qualsiasi fenomeno, si tratta di riper­ correre il cammino della phjsis che porta, per via analogi­ ca, dal singolo fenomeno all'arch. Dal punto di vista se- miotico, la filosofia ionica ragiona come se qualsiasi tipo di modalità di produzione segnica fosse ridotto al solo metodo del riconoscimento di campioni: un frammento sta costan-  68 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA temente per una totalità che è a esso completamente omoge­ nea (Eco 1975: 296; 1984: 48). Un paradigma diverso è quello che si impone a partire da Alcmeone di Crotone proprio con la proposta del principio semiotico della congettura: Delle cose invisibili e delle cose visibili solo gli dci hanno cono­ scenza certa; gli uomini possono soltanto congetturare (lekmaf­ resthal). (Diog.Lart.,VIII,83== D-K,24Bl) Mentre per i filosofi ionici e per la medicina dei postulati c'era continuità tra i principi della natura, i suoi fenomeni e l'osservatore stesso di quei fenomeni, con lcmeone nasce una frattura profonda tra l'uomo e la realtà. Il mondo del­ l'esperienza non si dà a conoscere spontaneamente, non è più trasparente. Proprio sulla frattura inaugurata da Alc­ meone si impernia il metodo semiotico. Essa conduce alla necessità di sostituire il procedimento dell'analogia con uno basato sull'indizio: la conoscenza umana assume per princi­ pio il tekmafresthai, il procedere per indizi e congetture. Ciò che la medicina ippocratica svilupperà, e che è ancora assente in Alcmeone, è l'inquadramento del metodo conget­ turale in una struttura logica compiuta. 3.7 Metodo analogico e metodo semiotico A questo punto è possibile domandarsi quale forma assu­ ma la metodologia della ricerca congetturale nei trattati ip­ pocratici. Una prima risposta a questa domanda può essere cercata attraverso un'analisi della polen1ica che, a questo proposito, ha opposto Regenbogen (1930) a Diller (1932) nella prima metà di questo secolo. In questa polemica ritro­ viamo una contrapposizione tra "metodo semiotico" e "me­ todo analogico"; ma in un senso sensibilmente diverso da quello esaminato finora, in quanto la nozione di "analogia" era assunta in un senso lato, molto vicino alla nozione se­ miotica di "omomatericità".15  3 .7 METODO ANALOGICO E METODO SEMIOTICO 69 In questo secondo caso la nozione di "analogico" viene assunta in un senso strettamente tecnico, come istituzione di un parallelismo tra un fenomeno da spiegare e un altro fenomeno noto, con conseguente possibilità di inferenza dal secondo al primo. L'inferenza analogica del tipo de­ scritto costituisce, secondo Regenbogen, il carattere specifi­ co della metodologia di ricerca utilizzata dali'autore del gruppo di trattati Sulla procreazione, Sulla natura del bam­ bino, Sulle malattie I V: in questi testi vengono spesso messi a confronto processi di tipo non osservabile con processi osservabili e i primi vengono chiariti mediante un'analogia con i secondi, come si verifica a esempio quando viene isti­ tuito un parallelo tra lo sviluppo del feto e quello delle pian­ te (Littré 1839, VII 528, 22 e sgg.) o quello di un uccello (Littré 1839, VII 530, 14 e sgg.). L'autore dei trattati si at­ tiene di fatto al principio di Anassagora secondo cui ciò che appare permette di avere una visione anche di ciò che è invi­ sibile, e applica questo principio sistematicamente. Il para­ gone con l'oggetto visibile, su cui si basa l'analogia, viene visto come una prova deli'oggetto di partenza. Il procedimento analogico non è limitato ali'ambito me­ dico-biologico, ma se ne possono rintracciare esempi chia­ rissimi in ambito storico. A esempio Erodoto (Hist., II, 33), quando parla del Nilo, il cui corso, le cui sorgenti e la cui lunghezza gli sono sconosciuti, sostiene: "a quanto io ri­ tengo, congetturando (tekmair6menos) dalle cose note quelle ignote, (il Nilo) muove da una longitudine eguale a quella da cui muove il Danubio". Il ragionamento è il se­ guente: il corso del Danubio è conosciuto dalle sorgenti alla foce, e, posto sullo stesso meridiano, nella concezione di Erodoto, scorre nella direzione opposta a quella del Nilo, cioè da nord a sud verso il mar Nero, così come il Nilo scor­ re da sud a nord verso il mar Mediterraneo; il Danubio, in­ fine, è il fiume maggiore dell'Europa, come pure il Nilo lo è dell'Africa. Dati questi elementi, si può immaginare il corso del Nilo in analogia con quello del Danubio. Secondo Diller (1932: 17), tuttavia, l'analogia non riesce a coprire tutti i casi di inferenza dal visibile all'invisibile, e porta a questo proposito un certo numero di esempi, tra i  70 3 . I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA quali l'inferenza sperimentale contenuta al cap. 8 del tratta­ to Le arie, le acque, i luoghi. L'esperimento vuole dimo­ strare che le acque che provengono dalla neve e dai ghiacci, perdono le qualità di leggerezza, di limpidezza e di dolcez­ za, mentre conservano quelle di pesantezza e di torbidezza. L'autore del trattato suggerisce a questo proposito di versa­ re, durante l'inverno, dell'acqua in un recipiente e, dopo averla misurata, di esporla all'aperto per lasciarla gelare. Il giorno seguente va messa di nuovo al caldo e fatta scioglie­ re: misurandola, ci si accorgerà che la sua quantità è molto diminuita. Questa è una prova (tekmrion) del fatto che, gelando, l'acqua ha lasciato andar via la parte più leggera e delicata e dimostra, contemporaneamente, la scadente qua· lità dell'acqua proveniente dalla neve e dai ghiacci. Questo esperimento viene definito tekmrion e si basa sulla istitu­ zione di un parallelismo tra due serie di dati di realtà. Ma, giustamente, Diller mette in dubbio che si tratti an­ che di un procedimento analogico: in effetti l'unica analo­ gia che vi si può istituire è che per una piccola quantità di una materia (acqua: ghiaccio) valgono le stesse leggi che valgono per l'elemento nella sua totalità. Si può esprimere quello che avviene nell'esperimento attraverso la formula "parte : parte = tutto : tutto"; la vera inferenza consiste nel trarre conclusioni dalla parte sul tutto. Comunque, per Dil­ ler, qui siamo di fronte a un tipo di inferenza che non è ana­ logica nello stesso senso in cui è analogica l'inferenza che abbiamo visto in Erodoto, in quanto qui "tutto si svolge al­ l'interno del processo che dovrebbe essere spiegato, senza che un processo analogo sia chiamato in causa" (ibidem, 19). Con un ragionamento non diverso, secondo Diller, l'au­ tore del trattato Le arie, le acque, i luoghi sostiene che la parte più fine e più pura deli'acqua ingerita viene espulsa dall'organismo, quella che è più densa e più torbida sedi­ menta: la prova (tekmrion) è data dall'osservazione di co­ loro che soffrono di calcoli alla vescica, i quali espellono un'urina limpidissima, in quanto la parte più densa e torbi­ da si condensa appunto in calcoli. Ciò che questi esempi hanno in comune è che qualcosa di  3 .7 METODO ANALOGICO E METODO SEMIOTICO 7 1 non percepibile viene spiegato attraverso dei fenomeni per­ cepibili. Però questi fenomeni non sono degli analoga di ciò che deve essere spiegato, bensì dei segni: essi stabiliscono, rispetto al processo che deve essere spiegato, lo stesso rap­ porto che c'è tra l'effetto e la causa. Quindi, per Diller, l'in­ ferenza semiotica (propriamente: semeiotisch, ibidem, 20, da lui collegata strettamente al procedimento medico) deve intendersi nel preciso senso (che sarebbe stato poi quello aristotelico) di inferenza dal conseguente. Ulteriormente per Diller, mentre l'inferenza analogica rende chiaro il "So­ sein" di un processo o di uno stato sconosciuto quella se­ miotica indizia del suo "Dasein". Recentemente la problematica è stata ripresa da Lonie (1981: 79 ss.),16 che ha sottolineato come nei trattati presi in considerazione dal Regenbogen, ma anche in altri testi del C.H. in generale (a esempio in Le arie, le acque, i luoghi, cap. 8), sono rintracciabili degli esempi di processi esplicati­ vi complessi, che comportano sia una inferenza semiotica (inferire le cause da fenomeni osservabili), sia una induzio­ ne analogica. Molto interessante a questo proposito è il capitolo 12 (= Littré 1839, VII 486, 3 ss.) del trattato Sulla natura del bambino: l'autore stabilisce anzitutto la teoria (elemento non osservabile) per cui lo sperma, trovandosi nell'ambien­ te umido e caldo dell'utero materno, acquisisce una capaci­ tà di respiro (pneuma) che si apre una breccia verso l'ester­ no: esso emette un soffio e, in una seconda fase, inspira aria fresca attraverso la breccia. Per provare questa teoria, l'autore ricorre a un'analogia con tre diverse classi di ogget­ ti, in cui si verificherebbe lo stesso fenomeno: il legno, le foglie, le sostanze commestibili. Viene poi descritto il com­ portamento del legno quando brucia: esso espelle aria cal­ da, in corrispondenza del punto in cui è stato tagliato e, contemporaneamente, attira a sé un altro soffio freddo. L'azione dei due movimenti contrapposti fa sì che il fumo e il vapore si avvolgano intorno al legno. Questo fatto viene descritto come un fenomeno osservabile ("noi vediamo che accade questo"), dal quale viene tratta un'inferenza (eklo­ ghismos) circa la causa del fenomeno stesso. Tale inferenza  72 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA assume la forma di un modus tollens "Se non-p, allora non-q; ma q; perciòp": "Se non ci fosse questo duplice mo­ vimento contrapposto, allora il soffio (fumo e vapore) non si avvolgerebbe intorno al legno, fuoriuscendo" (Littré 1839, VII, 486, 20-21). L'autore passa poi a illustrare lo stesso tipo di comporta­ mento negli altri esempi di analoga e procede quindi alla formulazione di una legge generale per induzione: "tutte le cose che sono riscaldate emettono un soffio (pneuma) e fanno entrare un soffio freddo per rimpiazzarlo". Alla fine l'autore sostiene che i fenomeni descritti devono essere con­ siderati come "prove necessarie" della sua affermazione teorica intorno allo sperma. Nel procedimento conoscitivo messo in scena nell'esem­ pio precedente possono essere messi in luce tre diversi ele­ menti . Anzitutto si ha l'istituzione di un'analogia tra un fatto non osservabile (il comportamento dello sperma neli'utero materno) e alcuni fenomeni osservabili. In secondo luogo, c'è una inferenza semiotica (che è pro­ priamente quella di cui parlava Diller, chiamandola "infe­ renza semeiotica'' e che Lonie chiama "inferenza causale") consistente nel risalire dal fenomeno osservabile (a esempio l'emissione di fumo e vapore durante la combustione del le­ gno) alla sua causa ovvero alla natura del processo. È inte­ ressante notare che inferenze di questo tipo sono molto fre­ quenti nei trattati considerati e che l'espressione che designa il fenomeno da cui l'inferenza è tratta è smefon. In terzo luogo, si ha la formulazione, per induzione, di una legge generale, che è intesa come valida anche per il pri­ mo termine (quello da dimostrare) dell'analogia. In com­ plesso si può dire che il valore probante dell'analogia consi­ ste nel fatto che essa permette di convalidare una proposi­ zione di partenza (relativa a fatti non osservabili) mediante il ricorso a proposizioni concernenti fatti analoghi, ma os­ servabili, che sono considerati come esempi di una legge va­ lida generalmente. Lonie (1981: 85) iliustra i rapporti tra analogia, principio generale ed enunciazione di partenza con il seguente diagramma:  3.8 LA SEMIOTICA NEI TRATTATI METODOLOGICI 73 principio generale esemplifica/ tt(" , , conferma /// '' /' > analogo illustra asserzione di pertenza 3.8 Il metodo semiotico nei trattati metodologici Nel gruppo di opere del C.H. dove vengono maggior­ mente approfonditi gli aspetti teorici della medicina (Antica medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Ilprognostico, Il regi­ me nelle malattie acute, Male sacro, Le epidemie l e III e le maggiori opere chirurgiche) è possibile rintracciare, nel mo­ do più chiaro, la formulazione della metodologia/semioti­ ca, quella appunto a cui si riferiva Diller (1932) e che Lonie (1981) individua come procedimento di "inferenza causa­ le". In questo paragrafo cercherò di approfondire in che co­ sa consiste tale metodologia, indipendentemente dagli altri procedimenti che possono esserle associati, come abbiamo visto che avveniva con l'analogia.  Nelle opere che abbiamo sopra menzionato viene innan­ zitutto aperto il problema del significato dei dati di osserva­ zione.17 Il singolo fenomeno (hékaston), non essendo più collegato con (né riconducibile a) una presunta unità della natura, come nella physiologhla, ha bisogno di essere inter­ pretato, cioè riconnesso a un sistema di riferimento. È a questo punto che inizia il procedimento inferenziale, o loghism6s, che è in un primo momento essenzialmente abduttivo: 18 si comincia a ipotizzare che il fenomeno singo­ lo, che si presenta ali'osservazione del medico, sia un caso di una qualche regola generale. Si prova, cioè, a pensare che lo hékaston, di per sé insignificante, possa essere consi­ derato come un smeion, un segno che rimanda a un siste-  3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA ma, e dal quale riceve senso. Questo primo momento ascen­ dente, di costruzione del sistema di riferimento, viene segui­ to da un secondo movimento, discendente, di verifica. Se il sistema ipotizzato sia valido e funzionante, può essere pro­ vato applicandolo a nuovi e diversi casi: il segno si trasfor­ ma così in tekmirion e il metodo diviene deduttivo. Usando lo schema proposto da Eco (1984: 41) per l'abduzione si po­ trebbe cosi illustrare il processo: codice eziologico e/o prognostico: r------------, son: h,jksston (singolo fenomeno) : l risultato l -- 1 r - - - - - - - - - - -, l l regola 1  l ------------_j l  l  lL - - - - - - - - - - - - - 1 .------------l L Vegetti (1976: 49) mette molto bene in luce questo dupli­ ce movimento abduttivo-deduttivo della téchnippocratica: "Ciò d'altro canto conferiva alla funzione dello hékaston, spogliato dai privilegi 'metafisici', una dignità nuova. Esso infatti era, da un lato, chiamato ad essere segno, smeion, sull'altro da sé, sul sistema cui, per via di inferenza, era supposto appartenesse; e dall'altro lato, acquistava il ruolo di 'prova', tekmirion, sulla validità dell'inferenza stessa, che si misura appunto sulla possibilità di trovare conferma ___________..J 1 l 74  3.9 LA STRUITURA FORMALE DEL SEGNO 75 negli hékasta. Il metodo semeiotico si configurava cosi, per la téchn ippocratica, come un movimento - 'dialettico' - che procedendo dallo hékaston posto dall'osservazione (ma è il caso ormai di parlare di 'esperienza' scientifica), lo tra­ sforma in smefon, mediante un'inferenza logico-concet­ tuale (loghism6s) e poi in prova o tekmrion, per conclude­ re, se il circolo si fosse saldato, nella capacità di compren­ sione e di intervento pratico su sempre nuovi hékasta". Sicuramente lo schema di riferimento che il medico deve costruire è un codice, ma di tipo particolare: è infatti pro­ babilistico. Come ha messo in evidenza Di Benedetto (1966 e 1986: 132), i testi del C.H. sono disseminati di espressioni che indicano una tendenza o una probabilità quali "la mag­ gior parte", "i più", "molti", "soprattutto", "spesso", "tal­ volta" ecc. Questo non significa che i medici della collezio­ ne ippocratica non siano impegnati nella costruzione di si­ stemi di riferimento costanti e funzionanti generalmente. Semplicemente la logica del hoi pleistoi ("la maggior par­ te") si sostituiva alla logica del ptintes ("tutti"). Del resto, proprio il carattere probabilistico contraddistingue l'infe­ renza abduttiva o ipotetica rispetto a quella strettamente deduttiva. 3.9 La struttura formale del segno La nozione di smeion ("segno", "sintomo") è una delle nozioni centrali nei testi del C.H. La struttura formale at­ traverso la quale il segno è introdotto è relativamente co­ stante, in quanto prevede l'inquadramento in uno schema implicativo del tipo: p-:Jq Dal punto di vista linguistico, molto spesso p e q sono rap­ presentate da proposizioni (o da sequenze di proposizioni), il cui collegamento costituisce un periodo ipotetico, come possiamo vedere da un brano tratto dal cap. 9 del Progno­ stico :  76 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA Ma bisogna osservare anche gli altri sintomi (smefa): se (n) in­ fatti il malato sembra sopportare favorevolmente il male, oppu­ re, oltre a questi, mostra qualche altro dei sintomi salutari, c'è speranza che il male si risolva in ascesso, sicché l'uomo soprav­ viva, pur perdendo le parti annerite del corpo. In questo esempio la prima parte dell'implicazione è co­ stituita da una sequenza di due proposizioni condizionali introdotte da n ("se"), che si riferiscono a dati di osserva­ zione (protasi), mentre la seconda parte presenta un perio­ do complesso (apodosi) relativo a una previsione medica. Se il riempimento semantico della protasi con dati di osser­ vazione, ovvero elenchi di sintomi, è relativamente costan­ te, l'apodosi può contenere anche una enunciazione diagno­ stica, sebbene ciò avvenga meno frequentemente, data la centralità della prognosi nella medicina antica.. Inoltre l'a­ podosi può contenere anche (e talvolta essere sostituita da) una indicazione terapeutica. 3. 10 Moduli espressivi arcaici Il modello "Se p, allora q", che serve molto spesso (a esempio nei trattati tecnico-terapeutici) a introdurre la ma­ lattia stessa, è molto antico e può essere messo in relazione agli analoghi moduli di presentazione della malattia nei trattati medici assiro-babilonesi e in quelli egiziani.19 Il mo­ dello implicativo nei testi assiro-babilonesi prevede la pre­ senza di una protasi, introdotta da §umma ("se", "nel caso che"), contenente l'indicazione dei sintomi, seguita da un'a­ podosi contenente un'indicazione terapeutica. A esempio: Se il cranio di un uomo ha una infiammazione, le sue tempie so­ no afflitte da SA.ZI (?) con turbamento dei suoi occhi, essendo i suoi occhi affetti da offuscamento, obnubilamento, disturbo, arrossamento (?), con le vene infiammate (?), e molto pianto, tu devi tritare in una macina l/3 di ka di lolium (e) spelta mon­ data, setacciare, quanto più puoi, e quindi prendere l/3 di kq, impastare in acqua di rose, radere a sua testa), applicare legando, e non toglierlo per tre giorni.2  3 . l 0 MODULI ESPRESSIVI ARCAICI 77 La struttura implicativa del modulo assiro-babilonese può essere considerata struttura segnica (anche se non si parla esplicitamente di segno), con la particolarità che al li­ vello semantico è sostituito direttamente il livello praxeolo­ gico:21 il segno (propriamente, l'antecedente del condizio­ nale) suggerisce, senza mediazione, un comportamento. Questo modulo, comunque, estremamente arcaico, è tal­ volta rappresentato anche in alcuni dei trattati tecnico-tera­ peutici, che sono anche i più antichi del C.H. : in Malattie II A e nello stato arcaico (A) del trattato ginecologico Su/le malattie delle donne. Si tratta tuttavia di attestazioni spora­ diche, che sono presenti accanto a moduli diversi, centrati sulla relazione tra sintomatologia e malattia. Un discorso a parte merita il trattato Sulle affezioni in­ terne, dove il modulo espressivo di presentazione della ma­ lattia assume un carattere del tutto particolare. Esso è infat­ ti composto di tre elementi strutturali: (A) una prima pro­ posizione (o serie di proposizioni) introdotte da "se", dove è presentato un fenomeno interno, non visibile, da conside­ rarsi come "la causa" della malattia; (B) una seconda serie di proposizioni, introdotte dall'espressione tade paschei ("tali cose soffre il malato"), nella quale è presentata la sin­ tomatologia (i fenomeni rilevabili esternamente); (C) una terza serie di proposizioni che sono relative alle indicazioni terapeutiche. Avviene molto spesso che la parte A sia sdop­ piata in due: At (le cause dirette dei sintomi); A2 (le cause che hanno prodotto la malattia stessa). Ecco un esempio, tratto dal cap. 8, dove distinguiamo gli elementi strutturali: (At) Se (in) nel petto e nelle spalle si produce una rottura, (A2) fatto che si verifica soprattutto a causa di uno sforzo, (B) ecco i sintomi (tade [...] ptischez): tosse vivace, espettorazione talvolta sanguinolenta; di solito brividi e febbre; dolore acuto nel petto e nelle spalle. Il malato ha l'impressione che una pietra gli pesi sul fianco; i dolori lo trapassano come se lo si bucasse con un ago. (C) Stando così le cose, lo si farà ingrassare con il latte e subito si cauterizzeranno il petto e le spalle. (Littré 1839, VII, 186, 3-10)  78 3. l SEGNI NELLA MEDICINA GRECA Ciò che è interessante di questo modulo dal punto di vista semiotico è che l'inferenza tra i primi due elementi ("Se A, allora B") è non abduttiva (cioè dagli effetti alle cause), ma deduttiva. Ciò significa che l'accento è posto sul sistema, già preliminarmente ricostruito, delle cause che possono produrre determinati sintomi. Questo è il punto di vista del trattatista: nella pratica il medico risalirà invece dai sintomi alle cause. Si deve inoltre notare che Sulle affezioni interne presenta anche una sezione prognostica (D), collocata tra B e C oppure dopo C: il testo citato continuava con "In que­ sto modo il malato sarà molto presto guarito". Un altro termine di confronto per i moduli della medici­ na greca è quello rintracciabile nei testi egiziani. Le formule che questi ultimi adoperano sono diverse da quelle della medicina assiro-babilonese in quanto hanno anche una se­ zione dedicata alla diagnosi. Come Vincenzo Di Benedetto (1986: 91) ha mostrato, esse potevano essere divise in tre elementi strutturali: una prima sezione (A), introdotta dalla congiunzione "se", presenta la sintomatologia come il risul­ tato di un esame/visita del medico; una seconda sezione (B), sempre attraverso la messa in rilievo della parola del medico che fa la diagnosi, enuncia la causa; una terza sezio­ ne (C) presenta l'intervento terapeutico del medico. Vedia­ mo un esempio tratto dal papiro Ebers (scritto intorno al 1550 a.C.): (A) Se tu esamini un uomo che soffre al suo stomaco, tutte le parti del suo corpo sono appesantite come per l'insorgere della stanchezza: tu devi allora mettere la mano sul suo stomaco e lo trovi a mo' di timpano, in quanto va e viene sotto le tue mani. (B) Allora tu devi dire "è un'inerzia nel mangiare che non per­ mette che egli mangi dell'altro". (C) Allora tu devi preparargli un rimedio che svuoti (seguono le indicazioni degli ingredienti della ricetta). In questo caso si ha un andamento abduttivo: la sintoma­ tologia costituisce il punto di partenza per ricostruire il qua­ dro eziologico, cioè una realtà nascosta che deve essere in­ terpretata a partire dai dati esterni disponibili.  3 . l 0 MODULI ESPRESSIVI ARCAICI 79 Tutti questi moduli, attraverso i quali si definisce la pre­ sentazione della sintomatologia medica, costituiranno una base di riflessione, rimanendo talvolta sullo sfondo, ma più spesso affiorando negli esempi, quando la filosofia cerche­ rà di definire la struttura formale del segno. PLATONE 4.0 Introduzione Platone è il primo compiuto erede della grande tradizione culturale che lo precede. Nelle sue opere tale tradizione dà luogo a un'ampia e articolata teoria del linguaggio, ma non produce, allo stesso tempo, una separata teorìa del segno, come invece avverrà in Aristotele e in genere nelle scuole fi­ losofiche successive. Si possono, però, osservare due fatti: da una parte l'ana­ lisi dei contesti in cui Platone usa termini scmiotici permette di ricostruire un can1po teorico di sfondo abbastanza omo­ geneo, i cui contorni definiscono il segno; dall'altra certi aspetti della stessa teoria platonica del linguaggio presenta­ no un carattere intrinsecamente semiotico, fatto che non si verificherà nelle teorie Enguistichc dei filosofi successivi. Esaminiamo separatamentc i due problemi. 4.1 I segni 4. 1 . 1 La comunicazione divina Raccogliendo la tradizione divinatoria, Platone parla di "segni" in tutti quei contesti in cui si instaura una comuni­ cazione tra dei e uomini (Repubblica, 382 e; Timeo, 71 a -  4.1 I SEGNI 81 72 b; Fedro, 244 b-e). In questi casi viene anche usato il ver­ bo smafno che, come abbiamo già visto, nell'ambito divi­ natorio non indica tanto il "significare", quanto l"'inviare un segno", vero tramite della comunicazione divina. Tale segno può essere un testo verbale, come il responso della Pi­ zia di Delfi, o anche un testo visivo, come lo sono le imma­ gini del sogno (Timeo, 71 e), o quelle impresse nel fegato che funziona come uno specchio (Timeo, 10 b). Il segno può anche essere rappresentato da un evento na­ turale, come il volo degli uccelli; ma in questo caso (che è quello più classico della divinazione tecnica) la comunica­ zione è troppo mediata per avere davvero alore e produce più opinione che conoscenza (Fedro, 244 c). In effetti, il ca­ so della comunicazione più efficace con il soprannaturale è quello del "segno demonico" di Socrate, che si manifesta come una "voce" interna (Fedro, 242 b-e; Apologia, 31 d) che parla direttamente al destinatario. 4. 1 .2 Il segno come "impronta nell'anima" In una seconda serie di contesti il segno appare come im­ pronta (tjpos), nel preciso senso in cui è un segno l'impron­ ta lasciata da un sigillo. Questa accezione è presente nel Teeteto (191 a - 195 b), dove, per la soluzione di problemi epistemologici, viene sviluppata la metafora dell'anima co­ me blocco di cera, su cui vanno a imprimersi i segni prodot­ ti dalle sensazioni (tOn aisthseon smefa). Questi segni, quando sono incisi profondamente, costituiscono la base per le elaborazioni della memoria e per la formazione della retta opinione. In effetti si crea falsa opinione in tutti quei casi in cui gli uomini si dimostrano incapaci di "assegnare ciascuna cosa al proprio segno'' (195 a), cioè di far combaciare il segno impresso nell'anima con la nuova sensazione, in quanto il rapporto che si viene a stabilire nel rinnovato processo per­ cettivo è lo stesso che si instaura tra "copie e originali" (apotypOmata kaì tjpous) (194 b).  82 4. PLATONE 4.1.3 I segni della scrittura Il tema della memoria, che abbiamo trovato accennato a proposito dei segni impressi nell'anima nel Teeteto, ritorna in maniera centrale nel Fedro (274 c - 276 a), quando l'at­ tenzione di Platone si focalizza sui segni della scrittura. Nel mito che Socrate racconta, infatti, i segni alfabetici sono un dono che il dio egizio Theuth offre al re di Tebe Thamus, invitandolo a diffonderli in tutto l'Egitto perché, secondo il dio, essi sarebbero stati "una medicina per la sapienza e la memoria" (Fedro, 274 e). Thamus però non accoglie senza riserve il dono di Theuth, convinto che i segni della scrittura abbiano un effetto contrario rispetto a quello previsto dal dio, indebolendo la memoria: gli uomini "fidandosi dello scritto richiamerebbero le cose alla mente non più dalPin­ terno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni (tjpol) estranei" (Fedro, 275 a). Sviluppando questo concetto, Socrate giunge a una con­ trapposizione tra "le parole scritte" e "il discorso scritto nell'anima": quest'ultimo è "vivente e animato", è scritto con la scienza ed è capace di selezionare i buoni destinatari; le parole scritte, invece, hanno solo l'apparenza della vita, ma in realtà sono capaci di dire una sola cosa e sempre la stessa, al pari delle immagini pittoriche che, se interrogate, "mantengono un maestoso silenzio"; inoltre si rivolgono in­ discriminatamente a tutti. Ma, posto il primato del discorso scritto nell'anima, si istaura tuttavia una relazione semiotica tra i due termini: come propone Fedro, le parole scritte possono essere consi­ derate "un'immagine (eldolon)" del discorso scritto nell'a­ nima (276 a); ciò nonostante esse rimangono segni estrinse­ ci, capaci solo di "rinfrescare la memoria di coloro che già sanno" (277 e). Si possono rappresentare questi rapporti se­ miotici con un triangolo (cfr. p. 83). La linea tratteggiata indica il fatto che per Platone le pa­ role scritte, di per sé, non permettono la vera conoscenza, che deve essere mediata dal discorso interiore, ma produco­ no solo opinione (275 b).  4.1.4 Il segno come inferenza 4.1 I SEGNI discorso scritto nell'anima 83  immagini { 8 /d lJI B ) parole scrrtte oggetti della conoscenza Infine, una serie di contesti ci presenta un uso del termine "segno" (stmeion, in alternanza con tekmrion) come indi­ cante un fatto, un evento, uno stato dal quale si può inferi­ re un altro fatto, evento o stato secondo il modello già in­ contrato nella divinazione mesopotamica e nella medicina greca (p::)q). Nel Teeteto (153 a), a esempio, si dice che il fatto per cui il movimento e lo sfregamento producono il calore e il fuo­ co, i quali a loro volta producono tutte le altre cose, è un se­ gno sufficiente (hikanòn stmeion) per argomentare che il moto produce l'essere e il divenire, mentre la quiete produ­ ce il non essere e il perire. Negli stessi termini si parla di se­ gno nell'Epistola VII (332 c), dove il fatto di avere o meno degli amici viene presentato come il più grande segno del carattere virtuoso o vizioso di una persona. Ancora, nel Gorgia (520 d-e) si definisce un bel segno (ka/òn stmeion) del successo ottenuto il fatto che chi ha reso un servigio ri­ ceva un adeguato contraccambio. In tutti questi casi il se­ gno è espresso da una proposizione legata da un rapporto implicativo con un'altra proposizione. Ma, su questa accezione basilare, si innesta l'idea del st-  84 4. PLATONE mefon come segno che serve a distinguere una certa cosa da tutte le altre. In un passo del Teeteto (208 c - 209 c) si dice che il segno distintivo del sole, sufficiente (hikan6n) per co­ noscerlo, è dato dal fatto che esso è il più risplendente tra tutti i corpi celesti che girano intorno alla terra. Natural­ mente la forma logica sottesa a questa formulazione super­ ficiale è quella implicativa ("Se un corpo celeste che gira in­ torno alla terra è il più risplendente di tutti, allora esso è il sole"). Ma a questo punto Platone si interroga sul valore episte­ mologico della conoscenza attraverso i segni, chiedendosi se cogliere il segno distintivo di una data cosa (''il segno onde la cosa di cui si domanda differisce da tutte le altre", 208 c), significhi cogliere anche la ragione (/6gos) di quella stessa cosa. L'interrogativo non è di piccola importanza e si può notare che esso riapparirà in Aristotele sotto forma di ricer­ ca dei rapporti tra il "segno" e la "causa" di un fenomeno. E, come farà Aristotele, anche Platone qui distingue il se­ gno dalla ragione di conoscenza (/6gos epistms), soste­ nendo che il segno contribuisce al formarsi della retta opi­ nione, ma non della conoscenza. 4.2 La teoria del linguaggio 4.2. 1 Carattere semiotico della concezione lingui­ stica di Platone Nella speculazione successiva a Platone, la teoria del se­ gno e quella del linguaggio verranno a costituire due ambiti completamente separati, che considereranno diversi gli og­ getti delle rispettive indagini, chiamandoli con nomi diversi (in Aristotele, a esempio, il segno linguistico sarà sjmbo­ lon, e non smefon). Nella filosofia platonica, invece, que­ sta divaricazione non si è ancora affermata, ma, al contra­ rio, si può notare che la sua teoria linguistica ha un caratte­ re spiccatamente semiotico.  4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 85 In generale, nella cultura greca, il segno è concepito come un elemento percepibile che rimanda a (o permette di giun­ gere alla conoscenza di) un elemento che non è manifesto (adlon, aphanés ecc.); come abbiamo visto, del resto, nel caso della medicina e, prima ancora, della divinazione, il segno costituisce la mediazione tra il piano delle cose acces­ sibili ai sensi e il piano delle cose non accessibili. Proprio con questi caratteri si presenta il segno linguisti­ co nei dialoghi platonici (soprattutto nel Crati/o e nel So/i­ sta): esso è d/Oma ("rivelazione") di un oggetto non perce­ pibile (sia esso un "significato", sia esso l"'essenza" della cosa nominata). Costantemente il verbo smafno ("signifi­ co", "manifesto attraverso segni") si alterna al verbo d/60 (''rivelo", "manifesto") quando si parla di una forma espressiva che rimanda a un contenuto che non viene colto con i sensi. Ciò avviene a esempio in un passo del Crati/o (422 e), nel quale Socrate indaga la capacità che hanno i prO/a on6mata (gli elementi primi e irriducibili del linguag­ gio) di rendere evidenti (phanera) ciascuno degli enti: a que­ sto proposito li paragona ai segni gestuali dei muti, che so­ no capaci di indicare (smalnein) le cose con le mani, con il capo e con il resto del corpo, pur essendo impossibilitati a manifestarle (dlot2n) con il linguaggio verbale. A più riprese nel corso del Crati/o viene affermato il compito semiotico di "rivelazione" (d/Oma) che hanno gli elementi del linguaggio. Ma Platone distingue la rivelazione effettuata dai nomi da QUella effettuata dagli enunciati (Lo­ renz e Mittelstrass 1967: 8): questi ultimi, infatti, rivelano sempre qualcosa intorno agli oggetti (Sofista, 262 d), men­ tre soltanto i nomi "corretti" rivelano gli oggetti come sono (Crati/o, 422 d). Anzi, è proprio il carattere di rivelazione che riveste il nome a costituire il suo criterio di correttezza. Nel Sojzsta (262 a) il nome è definito espressamente "se­ gno vocale" (smefon tis phonis), espressione che è usata come equivalente a d/Oma e la cui funzione è quella di ma­ nifestare l'"essenza" della cosa nominata: "lo direi infatti che c'è un duplice genere dei nostri segni fonici (tii phonii [.. .] dlomaton) che indicano l'essere di qualche cosa" (So- fista, 261 e).  86 4. PLATONE Particolari combinazioni di questi "segni vocali" danno luogo agli enunciati (/6go1), facendo scattare un livello su­ periore. In effetti, nel Sofista viene preso in considerazione il problema che, in termini aristotelici, sarà descrivibile co­ me opposizione tra "semantico" e "apofantico". In Plato­ ne, questa si presenta come opposizione tra il livello ono­ mazein ("nominare") e il livello légein ("enunciare") (262 d). I singoli segni vocali, siano essi on6mata ("nomi") o rhimata ("verbi"), manifestano un contenuto nel momento in cui nominano qualcosa. Le corrette combinazioni di que­ sti segni vocali si situano a un diverso livello, perché, oltre a manifestare un contenuto, lo presentano come "essere il ca­ so" o "non essere il caso" di un determinato evento, stato o processo, cioè ne costituiscono un'asserzione (De Rijk 1986: 199-200). 4.2.2 La teoria linguistica del "Cratilo" Il problema fondamentale che viene affrontato nel Crati­ lo è quello della "correttezza dei nomi". Esso è posto fin dali'inizio del dialogo al centro di una disputa che oppone Cratilo a Ermogene e per la quale Socrate è scelto come giu­ dice. Complessivamente, nella discussione, Cratilo sostiene una tesi che possiamo definire "naturalista", mentre Ermo­ gene una tesi "convenzionalista"; ma le rispettive posizioni sono più stratificate e presuppongono alcune distinzioni. Innanzitutto c'è un primo livello di discorso che riguarda l'atto della nominazione in un momento del linguaggio che possiamo considerare aurorale. Per Ermogene tale atto è frutto di convenzione e nasce dali'accordo degli uomini, che già hanno una conoscenza preliminare delle cose. Per Cratilo, al contrario, l'atto della nominazione non presup­ pone alcun accordo tra gli uomini, ma avviene in maniera naturale. Un secondo livello di discorso è rappresentato dall'analisi dello stesso fenomeno trascurando il momento diacronico della formazione del linguaggio e focalizzando il rapporto di correttezza rintracciabile tra il nome e la cosa a cui esso è  4.2 LA TEORIA DEL LINOUAOOIO 87 applicato sincronicamente. In questo caso tanto Ermogene quanto Cratilo propongono la stessa soluzione, sostenendo che i nomi sono sempre correttamente riferiti alle cose. L'u­ nica differenza tra le due posizioni consiste nel fatto che per Cratilo la correttezza dei nomi segue una legge naturale, mentre Ermogene sostiene il carattere convenzionale delle regole che stabiliscono la correttezza, e adduce come prova il fatto che i nomi possono essere cambiati a piacere, senza disturbare tale rapporto. Un terzo livello di discorso, che scaturisce direttamente dal precedente, è quello che riguarda l'estensione della vali­ dità del rapporto di correttezza. Per Cratilo la correttezza del nome è "universale", vale tanto per i Greci, quanto per i barbari. Per Ermogene, invece, sembra che tale correttezza debba essere limitata alla comunità linguistica particolare che ha adottato la convenzione. Si possono distribuire questi dati su una matrice:        Ermogene Cratilo atto della nomina- zione primordiale frutto di accordo n aturale sempre presente sempre presente correnezza basata su leggi con- venzionali basata su leggi naturali validità del rap- porto di correnezza limitata alla comu- nitè inguistica particolare universale    Come abbiamo visto, entrambi i contendenti danno per scontato il carattere di correttezza dei nomi rispetto alle co­ se. Tuttavia ciascuno fornisce una risposta diversa alla do­ manda su chi garantisce la correttezza. La legge naturale,  88 4. PLATONE che ne è responsabile per Cratilo, focalizza il rapporto che si stabilisce tra il nome e gli oggetti che lo portano, senza che abbia alcuna importanza ciò che gli utenti del nome ne pensano. Al contrario, la convenzione, che per Ermogene è garanzia di correttezza del nome, è una regola che riguarda gli utenti del nome, senza che venga presa in alcuna consi­ derazione la natura dei portatori del nome stesso (Kretz­ mann 1971: 127). 4.2.3 Il problema linguistico e la dialettica Accanto a quelle di Ermogene e di Cratilo, nel dialogo è presente anche una terza teoria, sviluppata dallo stesso So­ crate attraverso la confutazione delle posizioni dei due con­ tendenti. Socrate, come al solito, è portavoce delle opinioni di Platone e le ragioni per cui egli rifiuta entrambe le altre posizioni sono da connettersi con la concezione generale del metodo della filosofia che propugna Platone. Infatti, se Cratilo o Ermogene avessero ragione, la via della dialettica, come mezzo per raggiungere la conoscenza, risulterebbe impercorribile (Weingartner 1969: 6). Platone prevede il linguaggio come mezzo necessario nella ricerca fi­ losofica, ma pensa anche che la verità vada cercata nelle co­ se e non nel linguaggio stesso, come suona appunto la con­ clusione del dialogo. Le teorie di Ermogene e di Cratilo mettono entrambe in pericolo questo principio. Vediamo brevemente in quale modo. La teoria di Ermogene si presenta all'inizio come una teoria "convenzionalista classica", sostenendo il principio secondo cui la convenzione e l'accordo costituiscono il cri­ terio di correttezza dei nomi (384 c-d). Tuttavia questa non è l'unica posizione che Ermogene sostiene e non è quella che è effettivamente attaccata da Socrate. Subito dopo Er­ mogene sostiene anche che, "qualsiasi nome uno imponga a una cosa, questo è quello corretto", precisando che, "se uno sostituisce quel nome con un altro, non usando più il precedente, il secondo nome non è affatto meno giusto del primo" (384 d). A questo punto Socrate costringe Ermoge-  4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 89 ne a effettuare un cambiamento di focalizzazione e a preci­ sare che chiunque può operare questo cambiamento di no­ mi, non solo una comunità, ma anche un singolo individuo. Ne risulta una dottrina degli idioletti autonomi, tanto parcellizzati da coincidere con la parlata di un solo uomo, che fa scoppiare il convenzionalismo di Ermogene in un soggettivismo totale; tanto che Socrate non manca di met­ terlo in parallelo con il relativismo di Protagora (386 a). Questa "Humpty Dumpty position", come è stata arguta­ mente chiamata (Weingartner 1969: 7), fa perdere al lin­ guaggio la funzione comunicativa e rende impossibile la dialettica, in quanto non permette di distinguere tra enun­ ciati veri ed enunciati falsi. Tuttavia anche la posizione di Cratilo conduce, altrettan­ to perentoriamente, a una impossibilità della dialettica. Egli infatti elabora una teoria che ha le caratteristiche di un "iconismo assoluto": il nome rivela la natura della cosa che nomina, imitandola; ma questa imitazione è totale o è un nonsenso. La configurazione sonora, che si distaccasse an­ che per una piccola parte dalla perfezione deli'imitazione, verrebbe a essere niente di più che "il rumore che fa uno che agita un vaso di bronzo percuotendolo" (430 a). Poiché per Cratilo la produzione linguistica sembra dare luogo in certi casi a imitazioni corrette, in certi altri a dei nonsensi, in entrambe le evenienze la dialettica verrebbe ri­ dotta a uno strumento sprovvisto di senso. Se, a esempio, la ricerca dialettica cominciasse con il chiedersi "Che cos'è la giustizia?" e sperasse di raggiungere, nel corso del dibattito, la conoscenza dell'entità sotto indagine. Si presenterebbero allora due possibilità: (i) se l'espressione !giustiziai rivelasse naturalmente l'oggetto, che nomina, la ricerca finirebbe prima di cominciare; (ii) se invece essa fosse analoga al "ru­ more prodotto da un vaso di bronzo percosso", la domanda stessa non avrebbe senso. La dialettica, per quanto debba giungere a giudizi veri, deve avere la possibilità di enunciare giudi.zi falsi, che devono essere corretti nel corso del dibatti­ to. Ed è appunto questa possibilità che viene eliminata dalla teoria di Cratilo.  90 4. PLATONE 4 . 2 . 4 Il nome come strumento Uno dei punti fondamentali del dialogo platonico è costi­ tuito dalla ricerca di un criterio oggettivo che permetta di assegnare un valore di verità tanto agli enunciati quanto ai nomi. Per raggiungere adeguatamente questo scopo, Socra­ te sposta temporaneamente il discorso dal piano linguistico a quello ontologico, affermando che le cose (pragmata) hanno in loro stesse una stabile essenza e non dipendono dal giudizio soggettivo (386 e). Una tale caratteristica di oggettività è attribuita da Socra­ te anche alle azioni (praxeis), che al pari delle cose (pragma­ ta) sono delle specie di enti (onta). Infatti, dal momento che ci aspettiamo che le azioni abbiano certi effetti, esse non possono essere compiute arbitrariamente. Ma, per Socrate, anche il dire (légein) e il denominare (onomazein, che è una parte del dire), costituiscono delle forme di azione e, di con­ seguenza, devono essere compiute in maniera non arbitra­ ria. Possiamo illustrare questa serie di divisioni attraverso il seguente schema: enti (6nts) cose (pr8gmsta) l ""azioni (prAxtJis) /\ dire (/(lgein) /\  Nel resto del dialogo l'intuizione che il dire e il denomi­ nare costituiscono delle specie di azioni non verrà ulterior­ mente sviluppata, ma rimane comunque una importante in­ dicazione di una possibilità di sviiuppo in senso pragmatico che avrebbe potuto avere la linguistica greca. In questo contesto, lo scopo di mostrare che il linguaggio ha un legame oggettivo con la realtà, commisurato con il fi- denominare (onomAzein)  4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 91 ne di raggiungere una comunicazione efficace, è perseguito attraverso il paragone del nome con uno strumento (orga­ non): proprio come la spola serve a sceverare la trama del tessuto, così il nome è "uno strumento didascalico e sceve­ rativo dell'essenza" (388 c). In altre parole, in primo luogo, i nomi operano una tassonomia della realtà, separando gli oggetti del reale, in maniera tale da rispettare le loro nature (Kretzmann 1971: 128); in secondo luogo i nomi permetto­ no di comunicare questa tassonomia. 4.2.5 Forma ("eldos") e materia del nome Se lo scopo dei nomi è quello di far acquisire la conoscen­ za delle cose e di comunicarla agli altri, è necessario che chi ha denominato la realtà (il "nomoteta", personificazione di un'autorità linguistica accettata), categorizzandola in una certa maniera, già ne possedesse una conoscenza prelimi­ nare. In effetti, per garantire la correttezza dei nomi, il nomo­ teta ha agito come il costruttore di spole. Come quest'ulti­ mo guarda ali'eidos ("forma", "idea") della spola, così il nomoteta, per costruire il nome, guarda al "nome in sé", cioè alla forma ideale del nome (389 b; 390 a). Allo stesso titolo, come non ogni materiale è adatto alla costruzione di uno strumento, ma è necessario usare la ma­ teria che meglio si adatta alla forma (a esempio il ferro per il trapano e il legno per la spola, e non viceversa), ugual­ mente sarà necessario che i nomi siano costruiti con suoni e sillabe, piuttosto che con altro materiale, se devono com­ piere bene la loro funzione. Tuttavia non sarà necessario che la forma fonica (direm­ mo: di superficie) dei nomi sia identica per tutte le lingue, ma ciascuna lingua suddividerà in modo diverso il conti­ nuum sonoro (nello stesso modo in cui non ogni fabbro adopera lo stesso ferro per lo stesso strumento atto allo stesso scopo) (389 e). In questo modo Platone spiega la di­ versità delle lingue, le quali pure, indistintamente, sono or­ ganizzate in maniera da rispettare i medesimi modelli. Ciò  92 4. PLATONE che varia da lingua a lingua è la materia, da interpretarsi co­ me la configurazione superficiale di nomi e di sillabe che as­ sume ciascun nome. Ciò che rimane costante è laforma (eidos, idéa) del nome che conviene a ciascuna cosa (390 a). Un modo di pensare a questa forma è quello proposto dali'interpretazione di Kretzmann (1971: 129-130), che la identifica con la funzio­ ne e lo scopo essenziali a ciascun nome, di separare le cose e di separarle in maniera da rispettare le loro giunture natura­ li. In questo modo, a esempio, il nome greco l hippos l o quelli barbari lchevall, lcavallol, lborsel, lPferdl ecc. saranno tutti corretti se riusciranno a ritagliare la realtà se­ condo le "naturali" giunture; e sembrerebbe esserci il pre­ supposto che tali giunture debbano essere le stesse per tutte le culture. Come si vede, Platone qui sta affrontando una questione che potremmo definire "hjelmsleviana",1 e così potremmo parlare, più che di funzione, come fa Kretzmann, di forma e sostanza, di espressione e contenuto, come fa Hjelmslev: la forma espressiva (la materia di Platone) può variare da lingua a lingua; ma, affinché il nome sia quello giusto, è ne­ cessario che la forma del contenuto (l'eidos o idéa di Plato­ ne) ritagli la materia del contenuto secondo le medesime ar­ ticolazioni. Cosi l hippos l , l cheval l , l cavallo l , l borse l , l Pferd l saranno tutti nomi giusti se ritaglieranno il conti­ nuum materiale del contenuto ("la cavallinità, all'interno dello spettro relativo agli animali) esattamente secondo le stesse giunture. Che poi l'elaborazione dei nomi debba essere messa in corrispondenza con una corretta tassonomia del continuum della realtà, da effettuarsi verosimilmente con il metodo della divisione (diairesis), è dimostrato dal fatto che spetta al dialettico, personificazione dell'autorità scientifica e filo­ sofica, giudicare se il lavoro dei vari nomoteti è stato fatto bene (390 d).  4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 93 4.2.6 La prima teoria semantica Seguendo l'interpretazione di Donatella Di Cesare (1981) si possono rintracciare nel Crati/o due diverse teorie seman­ tiche, che si riferiscono, la prima a una situazione di lin­ guaggio ideale, e la seconda a una situazione di linguaggio come realtà storicamente data. Esaminiamo brevemente la prima. A un certo punto del dialogo (393 d), infatti, Socrate so­ stiene che ciò che è veramente importante per il nome è di significare (smalnein) l'essenza della cosa (ousfa tofl prag­ matos), la quale viene chiaramente espressa (dJoumén) dal nome. Una volta che il nome esprime l'essenza della co­ sa, non ha nessuna importanza se vengono aggiunte o tolte delle lettere al nome. L'esempio che viene portato è quello del nome di una let­ tera dell'alfabeto, il bita: esso nomina la lettera l b l , ma a essa aggiunge ita (lel), tau (ltl) e alpha (lal); nonostante queste aggiunte, esso nomina correttamente il l b l , in quan­ to fa comparire il "valore" della lettera che doveva essere nominata. Un analogo ragionamento vale per tutti i nomi: essi sono corretti se nominano l'essenza della cosa di cui so­ no nomi. Il significato è, dunque, identificato con questa essenza della cosa. Più avanti (394 b-e) Socrate introduce un altro concetto, quello di djnamis ("valore"), che sembra anch'esso identifi­ carsi con il significato. Infatti egli sostiene che chi è vera­ mente pratico di nomi guarda al loro valore (djnamis), non lasciandosi sviare né da aggiunte né da trasposizioni di let­ tere. Cosi i nomi Astyanax ("Astianatte" = "signore della città") e Héktor (''Ettore" = "che tiene saldo"), pur avendo in comune solo la lettera l t l , significano la stessa cosa (tau­ tòn smalne1). Dunque il significato del nome è dato da entrambi gli ele­ menti, l'essenza della cosa nominata e la djnamis del nome: essi di fatto coincidono, in quanto il nome, attraverso il suo significato, deve esprimere la cosa che nomina. Si possono illustrare i rapporti tra nome, significato e cosa con il se­ guente triangolo:  4. PLATONE essenza della cosa = In effetti , come l03), per Platone il nome non "rispecchia" la cosa, ma solo la sua essenza, ed è questa la ragione per cui possono esserci nomi diversi per lo stesso oggetto. Del resto, per rispecchia­ re l'essenza della cosa, il nome deve "associare l'individuo al genere cui appartiene" (ibidem); fatto che corrisponde a quanto avevano sottolineato Lorenz e Mittelstrass (1967: 6- 8), con la loro attribuzione di una funzione predicativa al nome. Il significato specifico del nome, la sua dynamis, consiste allora neli'assegnare ciascuno degli oggetti al con­ cetto appropriato, o al genere che gli compete. Ed è rispetto a questa operazione che si può valutare oggettivamente la correttezza o meno del nome. Se ci soffermiamo a considerare i risultati della teoria del significato esposta nella prima parte del dialogo, vediamo che tutta la dimostrazione di Socrate è rivolta a mostrare la coincidenza della struttura linguistica con quella logico-on­ tologica: il linguaggio, attraverso i nomi, ritaglia il reale se­ condo le stesse giunture che quest'ultimo naturalmente pre­ senta. Così, imitando e rappresentando la struttura della realtà, il linguaggio costituisce una mediazione tra il mondo delle idee e quello sensibile. Del resto il nome rappresenta il genere stesso che può essere predicato di ciascuna cosa e che, inafferrabile in natura, si concretizza nella materia fo­ nica. dynamis  nome cosa sottolinea Donatella Di Cesare ( 1 98 1 : 94  4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 95 Tuttavia, come dicevamo, l'identità descritta nella prima parte del dialogo non costituisce per Platone un dato di fat­ to, ma un obiettivo ideale. Infatti dalla parte finale del dia­ logo, che segue la digressione etimologica scaturirà una se­ conda e ben diversa teoria semantica. 4.2.7 La seconda teoria semantica In effetti, l'analisi etimologica svolta da Socrate nella parte centrale del dialogo, e la congiunta riflessione sull'ori­ gine del linguaggio, erano state intraprese per dimostrare la sostanziale identità tra la struttura linguistica e quella anto­ logica, in generale, e tra l'essenza dell'oggetto e la djnamis, in particolare. Ma il risultato a cui esse approdano è esatta­ mente l'op,posto: il linguaggio non rispecchia la struttura oggettiva del reale , ma piuttosto è espressione dell'idea che del reale si è formato il nomoteta. Il significato, dunque, viene a essere identificato con la rappresentazione del reale che si forma nel soggetto (Di Ce­ sare 1981 : 131), rappresentazione che è il risultato delle opi­ nioni, sensazioni, impressioni che vengono esercitate sul soggetto dagli oggetti della realtà. Pagliara (1956 a: 73) ave­ va del resto individuato questo passaggio da una prima a una seconda teoria semantica come analisi di due aspetti di­ stinti del fatto linguistico: (i) il rapporto tra il significante e l'oggetto, nella prima parte del dialogo; (ii) il rapporto tra il significante e il significato, nella seconda. In base alla seconda teoria, il triangolo che illustra i rap­ porti tra nome, significato e cosa dovrebbe avere una parti­ colare struttura (cfr. p. 96). Il linguaggio, dunque, non rispecchia il mondo delleidee, cioè l'essenza delle cose, ma piuttosto il mondo empirico: esso costituisce una realtà storica, che contiene la visione del mondo che avevano i primi nomoteti, quando tentarono di dare un ordine al reale, classificandolo e categorizzando­ lo, proprio servendosi dei nomi come "strumenti sceverati­ vi". Ciò non esclude, tuttavia, che si potrebbe arrivare a un adeguato rispecchiamento della realtà mediante il linguag-  96 4. PLATONE rappresentazione soggettiva = significato nome gio, qualora si raggiungesse una completa conoscenza delle cose. Di particolare interesse risulta poi il fatto che è prevista una precisa funzione mediatrice dell'anima, grazie alla qua­ le la teoria platonica si avvicina a quelle moderne, in cui il linguaggio viene riconosciuto come fatto psichico. Platone raccoglie qui l'eredità dei sofisti, che unici tra i filosofi pre­ cedenti avevano insistito sulla dimensione psichica del lin­ guaggio, in contrapposizione a quanti prevedevano la possi­ bilità per il reale di essere rispecchiato nel linguaggio in ma­ niera diretta e senza mediazione. 4.2.8 La mimesi La prima parte del dialogo era stata dedicata alla confu­ tazione della teoria convenzionalista. L'ultima parte è inve­ ce dedicata alla confutazione della teoria del rispecchiamen­ to sostenuta da Cratilo. Già la sezione centrale, dedicata al­ l'etimologia, ha portato alla conclusione che il linguaggio costituisce una rappresentazione soggettiva, fatto che, di per sé, contraddice la tesi di Cratilo. Tuttavia Socrate, per condurre ancora di più all'assurdo la tesi di quest'ultimo, solleva il problema della mimesi, proponendo provvisoria­ mente una definizione del nome come "imitazione con voce   cosa  4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 97 di cosa che si imita; e colui che imita nomina con la voce ciò che imita" (423 b-e). Quel che è interessante è che anche l'imitazione sembra avere, in linea generale, un carattere semiotico: infatti l'imi­ tazione "svela" (dloi) l'essenza della cosa. Ma quello di imitazione non è un concetto pacifico e So­ crate lo indaga in tre diversi ambiti: (i) nel ritratto; (ii) nel caso dei doppi; (iii) nel caso del rispecchiamento "metafisi­ ca". Esaminiamo il primo caso. Tanto il ritratto quanto il nome possono essere messi a confronto con l'oggetto che imitano. Per Socrate si verifica allora il fenomeno per cui certi elementi presenti nell'origi­ nale possono risultare trascurati, come pure elementi assen­ ti possono risultare aggiunti. La copia ha dunque un carat­ tere di iconicità, ma presenta variazioni all'interno di un continuum. Questo, per Socrate, è lo stesso fenomeno che presentano i nomi, fatto che equivale a sottolineare il loro carattere segnico. Ma Cratilo non è della stessa opinione, in quanto pensa che i nomi debbano avere un carattere di so­ miglianza assoluta, in mancanza della quale non sono affat­ to tali. Ecco in schema le due posizioni:       Socrate Cratilo rapporto ..nome/oggetto• iconico icon ico carattere della mimesi continuo discreto    A questo punto Socrate introduce l'argomento del dop­ pio: se nella mimesi tutti i caratteri deli'originale venissero riprodotti, non si avrebbe una imitazione, ma una occor-  98 4. PLATONE renza identica dello stesso oggetto. Non si sarebbe dunque in presenza di un rapporto di rappresentazione, ma di un vero e proprio doppio, in una situazione in cui è impossibile stabilire quale è il rappresentante e quale il rappresentato. In altre parole, il nome possiede un carattere segnico pro­ prio in virtù di questa sua dissimiglianza rispetto all'oggetto cui rimanda. Il terzo caso considerato, che abbiamo definito come "ri­ specchiamento metafisico", pone in primo piano il tema dell'imitazione che il singolo suono compie di un singolo frammento della struttura del reale. La parola sklrots, che significa "durezza",ontrariamente a quanto ci aspette­ remmo se i suoni rispecchiassero in tutto le essenze delle co­ se, contiene al suo interno un /ambda ( I I I ), che esprime "mollezza" e "scivolosità". Dunque la parola imita la "du­ rezza" solo in parte, mentre in parte se ne discosta. Con ul­ teriori esempi, poi, Socrate mira a negare anche un'altra ipotesi, più fondamentale filosoficamente: quella secondo cui nel linguaggio venga rispecchiata la veduta eraclitea del­ la realtà come eterno flusso e movimento (41 1 c; 436 e); ciò infatti non si verifica perché, come sottolinea Socrate, nel linguaggio molte voci lessicali presentano la realtà come perfettamente immobile (437 c). 4.2.9 L'uso e la convenzione Dalle critiche che Socrate muove, soprattutto a Cratilo, scaturisce una proposta positiva. Avendo infatti osservato che il nome sklrots (''durezza") è inesatto, in quanto con­ tiene nel suo significante elementi che non corrispondono alla qualità della cosa designata, Socrate osserva anche che, nonostante ciò, esso adempie perfettamente alla sua funzio­ ne comunicativa: infatti i Greci si intendono quando tale nome viene usato. La responsabilità di questa comprensione è attribuita da Socrate ai due fenomeni dell'uso (éthos) e della convenzio­ ne (xynthk): questi fenomeni non circoscrivono soltanto un rapporto tra i due utenti del nome, ma si rintracciano  4.3 TEORIA LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA Vll» 99 anche a livello delle relazioni tra il nome e l'oggetto, cioè al livello denotativo (Kretzmann 1971: 138). L'idea che il no­ me sia "rivelazione" (d/Oma) dell'oggetto denotato non viene abbandonata, ma viene solo spostata la responsabilità di questa rivelazione dal rapporto di somiglianza tra i due termini, alla convenzione che li associa (435 a-b). Platone, tuttavia, non sostituisce semplicemente una con­ cezione convenzionalista a una in cui la semiosi avviene per somiglianza. Per lui la situazione ideale rimane quella in cui i nomi sono immagini che riproducono l'essenza degli og­ getti nominati; ma sono i limiti del linguaggio naturale che rendono necessario il ricorso all'accordo (435 b-e). Questo è del resto il punto in cui i commentatori hanno scorto un compromesso tra il convenzionalismo di Ermogene e il na­ turalismo di Cratilo. Nella chiusura del dialogo si deve rilevare anche uno spo­ stamento nella funzione assegnata al segno linguistico: c'è una accentuazione della funzione comunicativa a scapito di quella cognitiva. Il linguaggio non è uno strumento abba­ stanza valido per la conoscenza della realtà, per raggiungere la quale sarà necessario percorrere una via più diretta: quel­ la del ricorso alle cose stesse (439 b). Esso però si configura come un ottimo strumento per il buono svolgersi della co­ municazione interoggettiva. 4.3 La teoria linguistica deii'"Epistola VII" Un'interessante trattazione degli elementi coinvolti in una teoria del significato la si può trovare nell'Epistola VII, un testo attribuito a Platone, ma la cui autenticità è stata più volte messa in dubbio (Edelstein 1966). A molti è sem­ brato che essa non contenesse niente di veramente non pla­ tonico, e a ogni modo presenta un interesse intrinseco che induce a farne oggetto di un'analisi particolare. Nella sua parte centrale, la lettera contiene un passo teo­ rico (342 a - 344 d), in cui vengono indagati gli elementi che permettono di raggiungere e trasmettere la conoscenza. Si tratta anche, allo stesso tempo, di elementi che intervengo-  100 4. PLATONE no nel processo di semiosi. Il primo di questi è il nome (onoma); il secondo la definizione (/ogos); il terzo l'imma­ gine (efdo/on); il quarto la conoscenza (epistm); il quinto, infine, l'oggetto conoscibile (gnost6n) e veramente reale (althos 6n) (342 a-b). Questi elementi , secondo P interpretazione di Morrow (1935: 68), sono organizzabili secondo un ordine interno. Infatti, da una parte si possono collocare i fattori che costi­ tuiscono gli strumenti di conoscenza: i nomi, le definizioni, le immagini o diagrammi; dall'altra, in opposizione diame­ trale, si trovano gli oggetti conoscibili e reali. A mediare tra gli strumenti e l'oggetto della conoscenza si trova l'epist­ mt, che Morrow interpreta come "apprensione soggettiva", e che è ulteriormente suddivisa, come Platone dice più avanti (242 c), in retta opinione (a/ths doxa), conoscenza (epistm) (ritorna curiosamente come nome di una specie, quello che è il nome dell'intero genere) e ragione o intuizio­ ne (noas), del quale ultimo Platone precisa che è il più vici­ no al quinto fattore. Nella lettera si dice che questi tre elementi, che compon­ gono complessivamente l'epistémt e che devono essere con­ siderati come un unico grado, non risiedono "né nelle voci, né nelle figure corporee, ma nelle anime (en psychais)", fat­ to che, come Platone sottolinea, li distingue sia dall'oggetto reale, sia dagli strumenti di conoscenza. Il richiamo ali'ani­ ma, che può essere messo in parallelo con il ruolo assegnato all'anima nella seconda teoria semantica del Crati/o, induce ad accostare questa nozione di epistm alla nozione di si­ gnificato; fatto che del resto può venir confermato se leg­ giamo il passo con l'ottica della tradizione posteriore, so­ prattutto aristotelica, che colloca il significato esattamente nell'anima (tà en tii psychr) (De interpreta/ione, 16 a). Possiamo distribuire i cinque elementi sul triangolo se­ miotico nel modo illustrato alla p. 1 0 1 . Tutto l'interesse del passo è orientato a mostrare il carat· tere difettoso degli strumenti di conoscenza. E, per suggeri­ re come si può ovviare a questo inconveniente, Platone ela­ bora una dottrina che è molto vicina alla teoria di Peirce della semiosi come "fuga di interpretanti". Vediamola at-  4.3 TEORIA LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA Vll» 101 4. apprensione soggettiva ( epistml)   3. immagine- (efdDion) 2. definizione (/6gos) l intuizione (noùs) l conoscenza (epistmlJ} l retta opinione (allfths d6xa) 6. oggetto conoscibile (gnst6n) e veramente reale (sleth;;s 6n) 1 . nome (6noms) traverso l'esempio stesso che fa da filo conduttore al discor­ so platonico. Si tratta deli'esempio del "cerchio", non a caso di carat­ tere matematico. Non è difficile per Platone mostrare che il referente dell'espressione l cerchio l non è un oggetto del mondo reale, sottoposto al divenire e alla corruzione, ma è un'entità di altro tipo. A essa non si può arrivare se non passando attraverso l'intera serie dei gradi preliminari e, so­ prattutto attraverso un processo di continua sostituzione dell'uno con l'altro: "trascorrendo continuamente fra tutti questi, salendo e discendendo per ciascuno di essi, si può, quando si ha buona natura, generare a gran fatica la cono­ scenza" (343 e). Ciascun elemento, di per sé incompleto (co­ me lo sono gli interpretanti di Peirce), contribuisce al rag­ giungimento della conoscenza se inserito in questo processo instancabile di sostituzione e di confronto. Questo processo di continua sostituzione permette di ovviare all'imperfezio­ ne degli strumenti.  102 4. PLATONE In effetti il carattere di imperfezione del nome è dovuto al fatto che, come sappiamo dal Crati/o, nel linguaggio sto­ ricamente dato esso non è l'immagine della cosa che nomi­ na, ma è legato alla convenzione. Questo, secondo l'autore ' Epistola VII, gli toglie stabilità, in quanto potremmo dell usare l'espressione l linea retta l per riferirei alle cose circo­ lari e l'espressione l cerchio l per designare la linea retta, senza provocare cambiamenti nelle cose stesse (343 a-b). Si può ricorrere allora alla definizione del cerchio come "quella figura che ha tutti i punti distanti dal centro" (342 b); ma anch'essa, per quanto aggiunga qualcosa, risulta composta di nomi e di verbi e dunque presenta difetti ana­ loghi a quelli incontrati a proposito dei nomi. Tra l'altro, sottolineare che la definizione è "formata di nomi e di ver­ bi" significa accentuarne il carattere di significante, piutto­ sto che quello di significato. Essa è semplicemente un'altra espressione, che può essere sostituita, nel processo conosci­ tivo e/o semiosico, al nome. Del resto, alla possibilità di una sostituzione tra nomi, Platone aveva già accennato, presupponendo l'intercambiabilità di l cerchio l (kyklos), l rotondo l (strongylon), l circolare l (peripherés) (242 b-e). Qualcosa ancora viene aggiunto dal terzo livello, quello rappresentato dagli eldola ("immagini"). Qui il cerchio è conosciuto come "quello che si disegna e si cancella, che si costruisce al tornio e che perisce" (242 c). Si tratta della so­ stituzione di un interpretante iconico ai precedenti interpre­ tanti verbali: per capire che cosa è il cerchio in sé, non sono necessarie solo le spiegazioni verbali, ma anche le illustra­ zioni e le astensioni. Anche a questo livello la conoscenza presenta un carattere incerto, in quanto incontra oggetti in cui l'essenza (tò 6n) risulta inquinata dalla qualità (tò poi6n 11), cioè da proprietà accidentali e contrarie, talvolta, alla vera natura del suo referente metafisica: infatti per ogni punto del cerchio può essere costruita una tangente (343 a), tale che, isolando quel brevissimo tratto, non si saprebbe se esso fa parte di un cerchio o di una retta (Taylor 1912: 361). Il passo teorico deli'Epistola VIl si chiude ritornando su un concetto assai vicino a quello della semiosi illimitata, an­ che se ovviamente modulata in chiave platonica: "mentre  4.3 TEORIA LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA Vll» 103 ciascun elemento (nomi , definizioni , immagini visive e per­ cezioni), in dispute benevole e in discussioni fatte senza ostilità, viene sfregato con gli altri, avviene che l'intuizione e l'intellezione di ciascuno brillino a chi compie tutti gli sforzi che può fare un uomo" (344 b-e). La metafora dello "sfregamento", con cui il passo si av­ via alla conclusione, è funzionale sia all'idea epistemologica dell'improvviso accendersi e brillare deli'intuizione, sia an­ che all'idea semiotica che il senso finale non lo si ottiene at­ traverso l'immediata e semplicistica sostituzione di un signi­ ficante con un significato, ma attraverso una strategia di mosse successive e ripetute, come sono quelle appunto del processo di semiosi illimitata. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE 5.0 Introduzione Con Aristotele vengono a inaugurarsi nella storia del se­ gno alcuni fatti nuovi, destinati ad avere una notevole du­ revolezza. Il primo di questi riguarda l'ampia e profonda opera di normalizzazione teorica che Aristotele compie nei confronti del lessico delle scienze e delle pratiche professio­ nali che avevano fatto riferimento ai segni e al sapere con­ getturale in genere. Il vasto alone semantico, l'alternanza di usi forti, o pregnanti, e di usi deboli che aveva caratteriz­ zato per tutto il V secolo termini quali smefon, tekmirion, aitia, pr6phasis, eik6s negli scritti medici, nella storiogra­ fia, nella stessa letteratura filosofica, viene piegato alle esi­ genze di una definizione categoriale, che fissa gli usi esatti dei termini e ne delimita e separa i campi nozionali. L'operazione, come rileva Lanza (1979: 107), non ha che un successo parziale nella pratica linguistica, in quanto è solo sul piano teorico che Aristotele riesce a rendere rigoro­ se e rigide le distinzioni, proposte in due passi paralleli dei Primi analitici e della Retorica; 1 ma, nella stessa prosa del­ la Retorica e in generale nelle opere che trattano di argo­ mento scientifico, come ha fatto rilevare Le Blond (1939, ried. 1973: 241), l'uso dei vari termini del lessico semiotico­ gnoseologico resta fluido e i termini spesso vengono impie­ gati senza speciali sfumature di significato. Ciò non con­ traddice, tuttavia, il fatto che la revisione terminologica, da un punto di vista teorico, sia stata profonda e abbia inau-  5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 105 gurato una solida tradizione, che continuerà nella trattati­ stica successiva, fin nella retorica romana del I secolo d.C. Del resto le esigenze di distinzione teorica non si limite­ ranno a intervenire con un'operazione normalizzatrice sul lessico, ma entreranno anche nel vivo delle concezioni pro­ fonde coinvolte dal sapere congetturale. Abbiamo infatti visto come il dominio del tempo fosse centrale tanto nel sapere ascientifico della mantica quanto in quello protoscientifico della medicina. La conoscenza contemporanea del passato, del presente e del futuro era un elemento essenziale, sebbene secondo modalità diverse, in entrambi questi ambiti di sapere. Aristotele riprende, concettualizza e piega alle esigenze della classificazione teorica anche tale aspetto. Infatti, nella classificazione dei tipi di discorso proposta nella Retorica, Aristotele individua in primo luogo due ca­ tegorie di destinatari dei discorsi: colui che osserva (theo­ ros) e colui che decide (krits). Il primo agisce nella dimen­ sione del presente ed è il tipo di pubblico che assiste al di­ scorso epidittico o celebrativo. Il secondo, invece, può agi­ re nelle altre due dimensioni del tempo proprie degli altri due generi di discorso: il giudice (dikasts) decide sul passa­ to; il membro dell'assemblea (ekklsiasts) sul futuro.2 Co­ me osserva giustamente Lanza (1979: 102), la classificazio­ ne è totalmente estrinseca ali'oggetto considerato, ma è chiaro l'intento aristotelico di congiungere la ripartizione canonica dei tipi di discorso con le tre dimensioni del tem­ po che fin dall'epoca di Omero appaiono associate agli am­ biti di manifestazione, esoterico o tecnico, del sapere. 5.1 Teoria del linguaggio e teoria del segno 5 . 1 . 1 Il triangolo serniotico Il secondo fatto importante, inaugurato dalla riflessione aristotelica, è quello che riguarda la disarticolazione, e la conseguente trattazione separata, della teoria del linguag-  }()6 5. UNGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE gio e della teoria del segno. Si tratta di un fatto che desta sorpresa e che appare molto rilevante proprio perché nelle teorie semiologiche moderne è assolutamente dato per scontato che i termini del linguaggio verbale sono dei "se­ gni": anzi, secondo un certo strutturalismo, sono i segni per eccellenza, e non sono stati pochi coloro che sono arri­ vati ali'eccesso di pensare che essi potessero fornire il mo­ dello anche per gli altri tipi di segno. In Aristotele, invece, gli elementi su cui si costruisce una teoria del linguaggio ricevono il nome di sjmbola, mentre gli altri elementi di una teoria del segno vengono denomi­ nati smeia o tekmiria.3 In realtà, come vedremo, la teoria del segno propriamen­ te detto è articolata alla teoria del sillogismo e riveste un in­ teresse sia logico sia epistemologico. Il segno è, infatti, al centro del problema delle modalità di acquisizione della co­ noscenza, mentre il simbolo linguistico è connesso princi­ palmente al problema dei rapporti che si instaurano tra le espressioni linguistiche, le astrazioni concettuali e gli stati del mondo. È nel De interpreta/ione che Aristotele espone la sua teo­ ria del simbolo linguistico, articolandola secondo uno sche­ ma a tre termini: i suoni della voce, che sono i "simboli" delle affezioni dell'anima, le quali, a loro volta, sono le im­ magini degli oggetti esterni: Ordunque, i suoni della voce (tà en tii phoniz) sono simboli (symbola) delle affezioni che hanno luogo nell'anima (tOn en tii psychii pathmatOn), e le lettere scritte (graphtJmena), sono simboli dei suoni della voce. Allo stesso modo poi che le lettere non sono le medesime per tutti, così neppure i suoni sono i me­ desimi; tuttavia, suoni e lettere risultano segni (smela), anzi­ tutto, delle affezioni dell'anima, che sono le medesime per tutti e costituiscono le immagini (homoi6mata) di oggetti (pragma­ ta), già identici per tutti. (Arist., De int., 16 a, 3-8) Bisogna innanzitutto dire che il fatto di incontrare il ter­ mine smeia come apparente sinonimo di sjmbola non si­ gnifica affatto che le due espressioni siano intercambiabili:  5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 107 in realtà in questo passo Aristotele usa il termine smefon in un'accezione debole, che ci conferma appunto la tenden­ za a un uso sfumato delle espressioni del lessico semiotico, quando non sia in questione la costruzione del sistema di demarcazioni teoriche. In secondo luogo qui Aristotele usa smeia per dire che l'esistenza di suoni e lettere può essere considerata come indizio deli'esistenza parallela di affezio­ ni dell'anima. A ogni modo, è possibile costruire, trascurando il livello grafematico, un triangolo semiotico di questo tipo: 1 ) affezioni dell'anima (psthlimsts sn tlii psychliil 2) pensteri (nomat8)  rapporto convenzionale motivato ra ppo rto ( sn ti phntl (prSgmsta) suoni della voce oggetti esterni Come si può osservare, diverso è il rapporto tra le coppie di termini appartenenti alla triade: tra suoni e stati d'animo c'è un rapporto immotivato e convenzionale, in quanto gli stati d'animo sono uguali, secondo Aristotele, per tutti gli uomini, ma essi vengono espressi in maniera diversa a se­ conda delle varie lingue e culture, esattamente come avvie­ ne per le forme scritte;4 invece tra gli stati d'animo e gli og­ getti c'è un rapporto di motivazione, che appare addirittura iconico, in quanto i primi sono le immagini dei secondi. Bi­ sogna precisare che sarebbe scorretto identificare in manie­ ra diretta la tesi della convenzionalità degli elementi del lin­ guaggio, cui aderisce Aristotele, con la tesi deli'arbitrarietà  108 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE del segno linguistico sviluppata da Saussure. In realtà nella teoria saussuriana esiste un rapporto arbitrario tra due en­ tità strettamente interne al linguaggio: il significante e il si­ gnificato sono le due facce del segno, in quanto unità lin­ guistica. In Aristotele troviamo invece un rapporto conven­ zionale tra elementi del linguaggio (il nome, il verbo, il 16- gos) ed elementi che propriamente non appartengono al lin­ guaggio, in quanto sono entità psichiche. Si deve inoltre ri­ levare che la teoria linguistica elaborata da Aristotele non si esaurisce nei testi di prevalente interesse logico, quali il De interpreta/ione, ma continua anche nei testi di interesse estetico: in questi ultimi, dove prevale la funzione poetica del linguaggio, il principio della convenzionalità viene in parte attenuato (Belardi 1975: 75 e passim). 5.1.2 I "suoni della voce" Ciascuno dei termini posti ai vertici del triangolo presen­ ta aspetti degni di nota e spesso non privi di problematicità. Per cominciare, che cosa intende Aristotele con l'espressio­ ne tà en tii phonii? A questa domanda vi sono risposte di­ verse. Donatella Di Cesare (1981: 161) sostiene che Aristotele attribuisce a questa espressione lo stesso valore che Saussu­ re dà al termine "significante" quando spiega la natura del segno linguistico. Belardi (1975: 198), invece, aveva sostenuto che tà en tii phonii doveva riferirsi non ai significanti, ma alle "espres­ sioni linguistiche" intese nella loro forma compiuta di 6no­ ma (nome), rhima (verbo), /6gos (discorso), come pure di kataphasis (affermazione) e ap6phasis (negazione); le ra­ gioni di questa scelta si basano sul fatto che questi elemen­ ti, facenti parte del programma di analisi di Aristotele, ven­ gono definiti "simboli" delle affezioni dell'anima (An. Pr. , 16 a, 25; 24 b, 2). Ora è indubbio che Aristotele intenda con l'espressione "suoni della voce" qualcosa che sottolinea molto chiara­ mente la veste fonica e il carattere di "significante". Tutta-  5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 109 via si deve anche sottolineare che l'ottica con cui Aristote­ le, almeno neli'Organon, guarda ai fatti di linguaggio sem­ bra diversa da quella saussuriana. Infatti Aristotele è qui interessato a saggiare le possibilità e le garanzie deli'uso del linguaggio neli'analisi della realtà. Tali garanzie sembrano esserci quando si dia una reciproca­ bilità tra i due ambiti del linguaggio e del reale. Ora, posto che per Aristotele la simbolicità del linguaggio nei confron­ ti del reale è sempre di secondo grado, in quanto il nome sta per un'immagine, la quale è appunto immagine di una cosa, sul vertice sinistro del triangolo deve stare qualcosa che (per gli scopi logici perseguiti nel De interpreta/ione) sia intercambiabile con ciò che si trova al vertice superiore. Da qui deriva l'uso della nozione di sjmbolon, che Ari­ stotele riprende da una tradizione risalente fino a Democri­ to (D-K, 68, B 5, 1). Le ragioni che permettono la specializ­ zazione di questo termine nel senso di indicare le espressio­ ni linguistiche convenzionali, sono connesse alla sua etimo· logia. Nella lingua greca, infatti, il termine sjmbolon indica ciascuna delle due metà in cui viene spezzato un oggetto (a esempio un astragalo, una medaglia, una moneta) in ma­ niera intenzionale, affinché possano servire, in un momen­ to successivo, come segno di riconoscimento, o come prova di una certa cosa (Belardi 1975: 198; Eco 1984: 199): il fat­ to che le due metà riescano a combaciare perfettamente vie­ ne a indicare la presenza di un rapporto precedentemente istituito (a esempio un rapporto di ospitalità, di amicizia, di paternità), la cui documentazione è affidata appunto alla congruenza perfetta dei due sjmbola. Si viene in effetti a realizzare una situazione in cui ciascuna delle due parti può scambiarsi di posto con l'altra, senza che venga a perdersi il valore di prova. Così dal momento che ciascuna parte pre­ suppone l'altra, o stabilisce con l'altra una stretta corri­ spondenza, l'espressione sjmbolon viene ad acquisire il si­ gnificato di "ciò che sta per qualcos'altro". Ma il fatto che venga preferita nel contesto della teoria linguistica aristote­ lica la parola sjmbolon all'espressione smefon (che pure indica uno "stare per") induce a indagare su una possibile  1 10 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE specificità del rinvio istituito dal simbolo. In effetti, nel ca­ so del segno, i due termini del rinvio (che, come vedremo, è una implicazione) non sono sempre reciprocabili: un primo termine può rimandare a un secondo, senza che necessaria­ mente il secondo rimandi al primo. Nel caso del simbolo, invece, i due termini sono perfettamente reciprocabili; non è un caso che sjmbo/on dal III secolo a.C. al III d.C. sia attestato anche nel senso di "ricevuta", talvolta redatta in duplice copia: le due parti hanno, per cosi dire, lo stesso valore. Questo aspetto etimologico è presente neli'uso che in particolare Aristotele fa dell'espressione sjmbolon nel De interpreta/ione: i nomi ono simboli degli stati d'animo nel preciso senso che si realizza, previo un accordo (synthk), un combaciare perfetto tra di loro e una perfetta intercam­ biabilità, che garantisce la correttezza del nome stesso (Be­ lardi 1975: 199). In quanto sjmbolon, il nome non è più dloma ("rivela­ zione"), come lo era per Platone: in Aristotele il nome è "suono della voce significativo per convenzione" (phon s­ mantik katà synthkn) (De int., 16 a, 19). Questo marca il passaggio da una linguistica che conservava un carattere semiotico, come quella platonica, a una linguistica che non parla più di segni e che è intrinsecamente non semiotica. Mentre per Platone le espressioni linguistiche erano segni che "rivelano" qualcosa di non percepibile (l'essenza del­ l'oggetto o la djnamis), per Aristotele esse sono simboli che stabiliscono convenzionalmente una pura relazione di equivalenztr tra i due correlati, senza alcuna preoccupazio­ ne che l'un termine "riveli" l'altro. 5 . l . 3 Il linguaggio degli animali Del resto, l'opposizione convenzionalelnaturale6 permet­ te di distinguere anche tra il linguaggio umano e i suoni emessi dagli animali,7 questi ultimi essendo, per altro, ugualmente (i) vocali e (ii) interpretabili. Già la nozione di "voce" (phon) presenta alcune interes-  5. 1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 1 1 1 santi particolarità. Nel De anima si dice che un suono può essere definito una "voce" quando: (i) sia emesso da un es­ sere animato (II, 420 b, 5); (ii) sia dotato di significato (s­ mantik6s) (Il, 420 b, 29-33). Ora, i suoni emessi dagli ani­ mali, per quanto definiti ps6phoi (''rumori"), hanno tutta­ via le due precedenti caratteristiche. Ciò che li distingue dalle voci emesse dagli uomini sono due fattori: (i) non sono convenzionali (e di conseguenza non possono essere né simboli né nomi), ma sono "per na­ tura" (De int., 16 a, 26-30); (ii) sono agrammatoi, cioè "inarticolabili" o "non combinabili" (ibidem, e Pot., 1456 b, 22-24). La nozione di "combinabilità", del resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue (1967: 33 e sgg.), è al centro stesso del carattere di semanticità del linguaggio umano, i cui suoni semplici (adiafretoi, "invisibili") possono articolarsi in uni­ tà più grandi dotate di significato.8 Gli animali, invece, emettono solo suoni indivisibili, ma non combinabili (Pot., 1465 b, 22-24). Si possono illustrare riassuntivamente i caratteri del lin­ guaggio umano in contrapposizione ai suoni emessi dagli animali, attraverso il seguente schema: linguaggio umano - per convenzione - elementi indivisibili combi- nabili e elementi divisibili - lettere - elementi dotati di signifi- cato - simboli - nomi suoni degli animali - per natura - elementi indivisibili non combinabili - non lettere - elementi che rivelano (d- loflsl) qualcosa - non simboli - non nomi Si deve rilevare, tra l'altro, che la semanticità dei suoni emessi dagli animali è espressa dal verbo dlofìsi (''rivela­ no", De int., 16 a, 28), fatto che conferma l'idea che per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione, come nel caso del linguaggio degli animali, torna di nuovo in pri­ mo piano il carattere semiotico d'una espressione. I suoni degli animali sono sintomi che rivelano la loro causa.  1 12 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE 5. 1 .4 Le "affezioni dell'anima" Ritornando poi al triangolo aristotelico della significa­ zione, la seconda nozione degna di rilievo è quella di pathmata en tii psychi. Si noterà che, dove ci si aspetterebbe la nozione di "significato", troviamo invece un'entità psichi­ ca, qualcosa che non è posto all'interno del linguaggio, ma nella mente stessa degli utenti del linguaggio. Per di più le affezioni dell'anima concepite da Aristotele, pur configu­ randosi come eventi psichici, non sono affatto individuali: si tratta piuttosto di elementi che, come dice Aristotele, so­ no identici per tutti, fatto che connette la teoria del lin­ guaggio con una sorta di psicologia sociale, se non addirit­ tura universale, piuttosto che individuale (Todorov 1977: 16). In secondo luogo è necessario rilevare una sorta di ambi­ guità che si trova nella nozione posta al vertice superiore del triangolo. Infatti Aristotele dice che i pathimata en tii psychii sono le immagini (homoiomata) degli oggetti esterni: con ciò in­ tende che tra gli oggetti e le entità psichiche c'è lo stesso rapporto che esiste tra l'originale e la copia. Tuttavia, poi, per indicare la rappresentazione mentale usa anche, più avanti, l'espressione noma ("pensiero", "nozione", 16 a, 10): ma, in questo secondo caso, precisa che i pensieri, sot­ to certe condizioni, possono essere veri o falsi. Da ciò con­ segue che i nomata vengono concepiti come forme di giu­ dizio . Si tratta di due nozioni completamente diverse, e il fatto che venissero entrambe messe in rapporto con le medesime espressioni linguistiche aveva fatto pensare a un loro uso si­ nonimico, che risultava aporetico. In realtà, come ha messo in evidenza Belardi (1975: 109), nessuna delle due nozioni esaurisce da sola il livello della rappresentazione psichica, ma esse rimandano a due facoltà differenti dell'anima: i pathtnata rimandano a una facoltà passiva dell'anima, quella di subire impressioni dagli oggetti del mondo ester­ no; i nomata rimandano a una facoltà attiva, quella di ela­ borare giudizi. Questa relazione è del resto confermata dal  5.l TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 113 rinvio che Aristotele fa al De anima, trattato nel quale non vengono discussi solo i pathimata, ma anche le altre fa­ coltà. 5.1.5 Semantico e apofantico Non si può, a questo punto, non fare un cenno (anche se, di necessità, breve) a una distinzione che si affaccia, nel pensiero linguistico di Aristotele, tra la categoria del "se­ mantico" e quella dell'"apofantico". Nel De interpretatione (16 a, 9 e sgg.) viene aperta la problematica circa la diffe­ renza tra phasis (il semplice "detto") e kataphasis (!'"affer­ mazione"). I nomi (ma così anche i verbi) in sé costituisco­ no un "detto", ma non possono da soli costituire un'affer­ mazione o una negazione. Correlatamente, vengono distin­ ti due tipi di rappresentazioni mentali (noimata): l . quella "che prescinde dal vero e dal falso"; 2. quella "cui spetta necessariamente o di essere vera o di essere falsa". Ciò che in realtà viene a essere contrapposto è la nozione di significato rispetto a quella di condizioni di verità. Al primo tipo di rappresentazione, infatti, corrispondo­ no i nomi (e anche i verbi) presi da soli, i quali possono avere un significato, ma non hanno condizioni di verità. Ciò è provato da Aristotele mediante la scelta di un caso particolare: il termine "ircocervo" (traghélaphos). Esso "si­ gnifica bensì qualcosa" (cioè una commistione mostruosa tra un caprone e un cervo), ma non può essere detto vero o falso. Il "qualcosa" a cui si riferisce qui Aristotele indivi­ dua appunto la dimensione della semanticità pura, regolata da leggi diverse da quelle della referenzialità. Al secondo tipo corrispondono, invece, quelle entità che hanno la dimensione linguistica della proposizione: è quan­ do si passa agli enunciati affermativi e negativi che diviene possibile parlare di verità o di falsità. È solo in questo caso che diviene possibile parlare di apofanticità come dimensio­ ne aggiuntiva (non contrappositiva) rispetto a quella se­ mantica. Ma qual è il mezzo specifico per passare dalla dimensio-  1 14 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE ne semplicemente semantica a quella apofantica? Non ci sono dubbi che esso consiste nell'uso del verbo come predi­ cato. Del verbo Aristotele valorizza essenzialmente la fun­ zione predicativa, quando, parlando del giudizio, riduce il verbo a !copula + predicatol: "non c'è differenza", sostiene egli infatti, "tra dire: l'uomo cammina, e dire: l'uomo è camminante" (De int. , 21 b, 9-10). In effetti il verbo viene qui concepito come nome assunto in funzione predicativa (Morpurgo-Tagliabue 1967: 62). Tuttavia, affinché il verbo possa esplicare questa sua funzione occorre che esso sia congiunto a qualcos'altro (cioè a un nome); preso da solo, cioè quando la sua funzio­ ne predicativa non può dispiegarsi, esso non può affermare alcunché (De int., 16 b, 19-25). L'incapacità del verbo preso da solo, ad affermare l'esi­ stenza di una certa cosa (cioè a fare asserzioni) è dimostrata da Aristotele con il ricorso all'esempio del verbo "essere": nemmeno esso preso da solo è capace di affermare che una cosa è. Così commenta Eco (1984: 25): "Pertanto, quando Aristotele dice che neppure il verbo essere da solo è segno dell'esistenza della cosa, vuoi dire che l'enunciazione isola­ ta del verbo non è indizio che si stia affermando l'esistenza di qualcosa: perché il verbo possa avere tale valore indiziale occorre che sia congiunto gli altri termini dell'enunciato, il soggetto e il predicato (e quindi il verbo l essere l è indizio di asserzione di esistenza, o di predicazione deli'inerenza attuale di un predicato a un soggetto, quando appaia in contesti come lx è yl oppure lx èl , nel senso di "x esiste di fatto)". 5.2 La teoria del segno 5.2.1 La definizione Completamente irrelata rispetto alla teoria del linguag­ gio, in Aristotele la dottrina del segno si pone nel punto di intersezione tra logica e retorica e i segni sono trattati tanto nei Primi analitici quanto nella Retorica.  5.2 LA TEORIA DEL SEGNO 115 Allo stesso tempo, la nozione di segno presenta due aspetti fondamentali: da una parte infatti ha un interesse epistemologico e antologico, in quanto si configura come strumento di conoscenza, che deve servire a condurre l'at­ tenzione dei soggetti conoscenti a operare un passaggio da un fatto a un altro (Todorov 1977: 19; Simone 1969: 91); dall'altra ha un carattere prettamente logico, in quanto è dotato di un meccanismo formale che presiede al suo fun­ zionamento. La definizione generale del segno (smeion) è data nei Primi analitici (II, 70 a, 7-9). Di questo passo esistono di­ verse traduzioni (Colli 1982: 252; Todorov 1977: 19 ecc.); ma quella che sembra individuare nel modo più soddisfa­ cente il significato del passo è quella di Preti (1956: 5): Quando, una cosa essendo, un'altra è, oppure quando una cosa divenendo, un'altra diviene anteriormente o posteriormente, queste ultime sono segni del divenire o dell'essere. La sottolineatura che abbiamo effettuato intende mettere in risalto appunto la specificità deIl'interpretazione di Pre­ ti, che restituisce al passo aristotelico tutta la sua carica di problematicità e la complessità, che appunto gli ulteriori sviluppi, a opera delle scuole successive, della dottrina del segno metteranno in luce. Prima di tutto vediamo però ciò su cui tutte le interpreta­ zioni del passo concordano, cioè che la nozione di segno proposta da Aristotele prevede l'instaurarsi di un rapporto di tipo implicativo: il segno coincide press'a poco con il rapporto di implicazione "p implica q", accezione, questa, abbastanza comune della nozione di segno e che abbiamo già trovato operante in altri ambiti, diversi dalla filosofia. Ma più precisamente, e particolarmente in questa defini­ zione, il segno coincide con uno dei termini dell'implicazio­ ne. L'interpretazione di Preti suggerisce che esso coincida in particolare con il secondo termine, cioè suggerisce che la definizione aristotelica vada letta nel senso che "q è segno di p": ora questa definizione, che viene a configurare il rap­ porto segnico come "Se q, allora p", comporta, ai fini della  116 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE sua applicazione ad argomentazioni inferenziali, un'inver­ sione da "p implica q" a "q implica p". È proprio questo fatto che conferisce alla nozione di se­ gno il carattere di problematicità e che conduce all'instau­ razione di un dibattito serrato e complesso in seno alle scuole filosofiche postaristoteliche, anche se esse non fa­ ranno esplicitamente riferimento ad Aristotele. D'alta parte, questo tipo di inversione sembra porsi an­ che alla base della richiesta, ai fini della validità del segno, di un'implicazione tra p e q più stretta di quanto non sia, a esempio, l'implicazione materiale. Sembra, in sostanza, che già nella definizione aristotelica venga richiesta la con­ dizione "Se non-q, non-p" ("q, o non-p"), cioè esattamente quel tipo di implicazione stretta che verrà dagli stoici consi­ derata necessaria per la validità del segno. Al di là di questo si deve anche notare che nella defini­ zione (e in genere nell'intera trattazione) del segno condot­ ta da Aristotele è riscontrabile un'ambiguità di fondo nel modo di concepire i due termini del rapporto implicativo. Per un verso, infatti, essi costituiscono dei fatti (o delle proprietà) (e non a caso una parola centrale della definizio­ ne è tò pragma "il fatto"). Aristotele del resto dà esempi di questo genere: "il mostrare che una certa donna è gravida attraverso il fatto che essa ha il latte"; il segno è "l'aver lat­ te", che appare appunto essere l'espressione di un fatto o di una proprietà. Per un altro verso il segno è concepito come una proposi­ zione, in quanto un segno può costituire la premessa da cui si sviluppa un sillogismo: "Un segno, invece, vuole essere una premessa dimostrativa, o necessaria o fondata sulla opinione" (An. Pr., II, 70 a, 6-7). In realtà, la definizione di segno come proposizione, che può costituire una premes­ sa in un ragionamento infcrenziale, è abbastanza centrale in Aristotele. Infatti il ruolo fondamentale che egli attribui­ sce al smefon è proprio quello di essere uno degli elementi che forniscono premesse a quel particolare tipo di siilogi­ smo che è I'entimema.  5.2 LA TEORIA DEL SEGNO 1 17 5.2.2 L'entimema e i segni Nella nozione di entimema coesistono due aspetti com­ plementari, che la tradizione successiva svilupperà talvolta separatamente. Da una parte l'entimema può essere consi­ derato un sillogismo tronco, in cui una delle premesse è mancante, perché ritenuta nota o ovvia.9 DalPaltra, l'enti­ mema viene considerato un sillogismo che tende alla per­ suasione, e non alla dimostrazione; in quanto tale non è ne­ cessario che le sue premesse siano vere, ma soltanto che sia­ no probabili (hos epì tò poly). Aristotele sviluppa esplicita­ mente il secondo aspetto delle definizioni parallele dei Pri­ mi analitici (II, 70 a, 9-10) e della Retorica (1, 1357 a, 30- 32) . Dunque il segno trova la sua principale applicazione nel­ l'ambito del discorso persuasivo, ovvero retorico, dove, sotto forma di proposizione, entra nel meccanismo dell'en­ timema e vi svolge il ruolo di "protasi", di premessa. Ma, in quell'ambito, si profila una prima distinzione tra la no­ zione di smeion e quella di eikos "verosimile" o "probabi­ le"), pur imparentate per il fatto di poter figurare entrambe come premesse negli entimemi. Ciò che contraddistingue la nozione di eikos è essenzial­ mente il suo carattere probabilistico, che lo lega irrevoca­ bilmente all'opinione, rimuovendolo in una zona del sapere piuttosto insicura, lontano dalla possibilità di una dimo­ strazione scientifica. 5.2.3 L'inferenza dal conseguente Per quello che riguarda la nozione di segno, la situazione è diversa e senz'altro molto più complessa. In effetti il s meion non costituisce una categoria semplice, bensì una classe composita che prevede al suo interno tipi con carat­ teristiche molto differenziate tra loro. Ma, prima di porre l'accento sulle differenze interne, è forse possibile osservare che qualcosa unisce i vari tipi di segni rispetto alla nozione di eikos: invece che sulla probabilità, nel caso del segno  118 5. LINGUAGGIO ESEGNI IN ARISTOTELE l'attenzione è concentrata sul carattere di "consequenziali­ tà". Il ragionamento inferenziale, basato sui segni, procede tipicamente ek ton hepomén{Jn, "per conseguenze", tende cioè a inferire la causa dall'effetto. Per questa ragione sono possibili sia applicazioni corrette sia applicazioni inganne­ voli. ÈinparticolarenelleConfutazionisofistiche(167b, 1-5) che Aristotele sviluppa chiaramente la teoria del ragiona­ mento per conseguenze: quest'ultimo porta a conclusioni ingannevoli come, a esempio, nel caso in cui qualcuno, avendo osservato una volta che la terra è bagnata dopo la pioggia, volesse concludere in generale che, se la terra è ba­ gnata, allora è piovuto. Un secondo esempio di ragiona­ mento per conseguenze dato da Aristotele concerne le pro­ prietà, anziché gli eventi, come avveniva in quello prece­ dente: se qualcuno, avesse sperimentato che il miele ha la proprietà di essere giallo e volesse conciudere che qualcosa è miele partendo dalla proprietà che ha il colore giallo, cor­ rerebbe il rischio di scambiare per miele il fiele (ibidem, 167 b, 6-8). In tale contesto Aristotele giunge a identificare de­ cisamente questo tipo di inferenza con quello specifico del segno: "Nei discorsi retorici, del pari, le dimostrazioni trat­ te da segni si fondano sulle conseguenze" (ibidem, 167 b, 8- 9). È possibile a questo punto tornare agli Analitici e com­ prendere meglio perché Aristotele proceda innanzitutto alla distinzione fondamentale tra due tipi di segni: il tekmrion, segno "necessario" o "inconfutabile",10 e il generico s­ meion, che ha le caratteristiche opposte. In realtà quest'ultima distinzione (che, come vedremo, comporta non solo due, ma tre tipi di entità, poiché vi sono due specie di segni non necessari) corrisponde a un tentati­ vo di Aristotele di articolare una tipologia dei segni alle modalità di sviluppo possibile del sillogismo. Sono infatti tre i modi in cui il sillogismo può utilizzare la premessa che esprime un segno, corrispondenti alle posizioni possibili del medio nelle varie figure. In questo modo si possono avere inferenze che partono da un segno sulla prima, sulla secon­ da o sulla terza figura.  5.3 n. MECCANISMO LOGICO 1 19 5.3 D meccanismo logico 5 . 3 . l Il tekmérion come segno nella prima figura del sillogismo Prima però di entrare nei dettagli tecnici di questa distin­ zione, vale la pena di rilevare preliminarmente che ben di­ verso è il valore epistemologico che Aristotele attribuisce al segno che si sviluppa in un sillogismo di prima figura, cioè il tekmrion, rispetto a quelli che si sviluppano in seconda e in terza figura, cioè i generici smefa. In realtà, nei due ultimi casi si verifica la tipica illusione segnalatanelleConfutazionisofistiche(167b, 1-5),cioèav­ viene di credere che ci sia possibilità di conversione tra ra­ gione e conseguenza, senza che questo sia di fatto giustifi­ cato: dunque, in questi casi, l'inferenza dalle conseguenze alle cause è estremamente ipotetica e insicura. Nel primo caso, invece, cioè con il tekmrion, si ha un ti­ po di inferenza che parte anch'essa dalle conseguenze, co­ me dimostra l'esempio "se una donna ha latte, allora essa è gravida", in quanto l'"avere latte" costituisce sia una con­ seguenza dell'essere gravida, sia un segno di tale fatto; tut­ tavia, al contrario che nei casi precedenti, sembra esserci possibilità di conversione tra causa ed effetto; o, come sug­ gerivano le osservazioni di Preti (1956: 6) riportate prima, sembra essere previsto da Aristotele, in questo caso, un ti­ po di implicazione più stretta che non l'implicazione mate­ riale. Possiamo vedere ora come Aristotele sviluppa l'aspetto tecnico dei tre tipi di segno, partendo da quello in prima fi­ gura: Ad esempio, il provare che una donna è gravida, in quanto essa ha latte, si fonda sulla prima figura: il medio è infatti l'aver lat­ te. Poniamo che A indichi "esser gravida", che B indichi "aver latte", che C indichi "donna". (An. Pr., Il, 70 a, 12-16)11  120 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE Traducendo il ragionamento di Aristotele nel comune schema illustrativo del sillogismo, si otterrà: 8 "chi ha latte" c "donna" c "donna" In questo esempio il segno "avere nello schema sillogistico come noi ma è anche il termine intermedio dal punto di vista esten­ sionale, tanto che potrebbe essere costruita la seguente fi­ gura per illustrare i rapporti tra i termini del sillogismo: A essere gravida l . A "essere gravida" 2. 8 "avere latte" si predica di si predica di 3. A sipredicadi "essere gravida" latte" non solo è medio lo abbiamo riportato,   5.3 n MECCANISMO LOGICO 121 5.3.2 La seconda e la terza figura del sillogismo e i "semeia" Nella seconda e nella terza figura il termine medio è il le­ game che consente Pinferenza, ma non occupa, né nella formula né estensionalmente, la posizione centrale. Questo fa sì che l'etichetta di "maggiore" e "minore" sia "arbitra­ ria nella seconda o nella terza figura, a qualunque dei due termini si voglia dare il nome di maggiore o minore" (Allan 1970: tr. it. 1973, 123). Del resto è indubbio che il punto di vista adottato da Aristotele nella trattazione che egli fa delle premesse sia quello estensionale. Legata a questo punto di vista è di cer­ to la svalutazione della seconda e della terza figura. Passiamo ora ad analizzare il tipo di segno che si svilup­ pa in un sillogismo basato sulla seconda figura: "Se una donna è pallida, allora essa è gravida". Questa è l'analisi di Aristotele: Infine, la presunta prova che una donna risulta gravida, in quanto è pallida, si sviluppa attraverso la seconda figura. In realtà, dato che il pallore è una determinazione conseguente delle donne gravide, e che tale determinazione appartiene altre­ si a una certa donna, si crede allora provato che questa donna sia gravida. Indichiamo con A "la nozione di pallore", con B "l'essere gravida" e con C "donna". (An. Pr., Il, 70 a, 20-24) Lo schema che può essere costruito in corrispondenza di questo sillogismo è il seguente: l . 2. 3. A "essere pallida" A "essere pallida" 8 si predica di si predica di si predica di 8 "chi è gravida" C "questa donna" C "essere gravida" "questa donna"  122 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE In questo caso il segno "essere pallida", che è anche il medio, ha la posizione di un estremo e si predica contem­ poraneamente dei due termini "essere gravida" e di "donna". 12 Aristotele condanna questa inferenza come non valida. Come si può osservare, ci ritroviamo qui di fronte al ca­ so più emblematico di inferenza tratta dalle conseguenze. Una conferma di questa condanna la si trova anche nel pas­ so corrispondente della Retorica (1, 1357 b, 17-21): "Se uno respira rapidamente è segno che ha la febbre". Anche que­ sto esempio di segno dà origine a un sillogismo sulla secon­ da figura, in cui il medio, "respirare rapidamente", ha la posizione dell'estremo maggiore e si predica di entrambi i termini "avere la febbre" e "uomo". Nella definizione di questo tipo di segno data nella Reto­ rica vengono aggiunte due particolarità interessanti rispetto a quella presentata negli Analitici: (i) la prima è che il se­ gno è confutabile anche se esso risultasse vero (kàn althès i1): viene dunque prevista la possibilità di costruire un'infe­ renza che risulti conforme alla verità, anche se questo è so­ lo un caso, si direbbe, accidentale; ciò deriva dal fatto che il sillogismo èformalmente scorretto, ma ci sono casi in cui esso porta, nonostante tutto, a conclusioni materialmente vere (Plebe 1966); (ii) la seconda particolarità consiste nel­ l'accennare al fatto che questo tipo di segno instaura una relazione "dall'universale al particolare": ciò è probabil- mente da mettersi in relazione al fatto che è proprio il ter­ mine estensionalmente maggiore a svolgere la funzione di medio, e che si predica prima di una classe, poi di un indi­ viduo . Vediamo ora un segno dal quale si sviluppa un sillogismo basato sulla terza figura. Ecco la definizione che ne viene data negli Analitici: D'altro canto la presunta prova che i sapienti sono eccellenti - poiché Pittaco è eccellente - si costruisce attraverso l'ultima fi­ gura. Poniamo che A indichi "la nozione di eccellente", che B indichi "i sapienti", che C indichi "Pittaco". Risponde in tal ca­ so a verità il predicare di C tanto A quanto B; senonché la pre-  5.3 IL MECCANISMO LOGICO 123 messa BC non viene enunciata, perché risaputa, mentre Paltra è assunta espressamente. (An. Pr., II, 70 a, 16-20) Il segno, più precisamente, è la protasi del condizionale "Se Pittaco è eccellente, i sapienti sono eccellenti " . Su di es­ so si sviluppa un sillogismo che può essere rappresentato dalla formula: l . 2. 3. A si predica di "essere eccellente" c "Pittaco" c "Pittaco" 8 "chi è sapiente" 8 "essere sapiente" si predica di A si predica di "essere eccellente" In questo caso il medio è "Pittaco", che ha la posizione del termine minore estensionalmente. Anche il sillogismo costruito su questo tipo di segno vie­ ne condannato in quanto confutabile (/jsimos). Del resto Aristotele aggiunge che esso rimane confutabile (come quello in seconda figura) anche nell'evenienza in cui esso conduca a una conclusione accidentalmente vera. Inoltre, nel passo parallelo della Retorica (I, 1357 b, 10-11), viene precisato che esso instaura un rapporto che va "dal partico­ lare all'universale"; anche in questo caso è la posizione del medio, che qui è il termine estensionalmente minore, a sug­ gerire questa determinazione ad Aristotele; in effetti si par­ te dalla proprietà di un individuo particolare per conclude­ re che tale proprietà appartiene a un'intera classe di cui l'individuo fa parte. 5.3.3 La classificazione Una volta stabilita una distinzione fra i tre tipi di segno sulla base della posizione che prende il medio in ciascuna  124 5. LINGUAOOIO E SEGNI IN ARISTOTELE delle figure, Aristotele procede a una ricapitolazione gene­ rale, dove consolida le distinzioni terminologiche e ribadi­ sce la diversità della potenza conoscitiva in relazione a cia­ scun tipo: il nome tekmirion ("indizio sicuro", "prova") viene riservato a quei segni che prendono realmente la posi­ zione del termine intermedio (cioè in cui il termine è medio anche dal punto di vista estensionale, sul quale si sviluppa un sillogismo in prima figura); invece il nome generico s­ meion viene lasciato a quei segni che all'intero sillogismo hanno la posizione di un estremo (sui quali cioè si svilup­ pano delle inferenze in seconda e terza figura) (An. Pr. , Il, 70b, 1-6). Rispetto a quanto abbiamo già detto, è necessario ag­ giungere una precisazione sulla nozione di éndoxon, che ca­ ratterizza nel massimo grado il sillogismo basato sul· tekmi­ rion. In effetti nei Topici Aristotele precisa che i sillogismi dia­ lettici che danno il massimo di garanzia sono i sillogismi che derivano da premesse che sono degli éndoxa. Vengono poi definite éndoxa quelle proposizioni che sono "condivise da tutti o dai più o dai sapienti, e tra questi da tutti, dai più o dai più noti e famosi" (Top., l, 100 b, 21-23). Sono queste, del resto, le condizioni che permettono di confermare dialetticamente una tesi (Viano 1958 a). Il passo parallelo della Retorica propone un'analoga classificazione che distingue tra il segno necessario (anan­ kaion), corrispondente al tekmjrion, e il segno non neces­ sario m anankaion), corrispondente al generico s­ meion, 3 e ulteriormente suddivisi in "segno che si trova in rapporto dali'universale al particolare" (da mettersi in rela­ zione ai segni in seconda figura del sillogismo) e "segno che si trova nel rapporto del particolare ali'universale" (da met­ tersi in relazione ai segni in terza figura). La classificazione aristotelica può allora essere disposta sullo schema della pagina seguente:  premesse da cui derivano gli entimemi /  eik6s smelon (segno) ("probabile", "verisimile") - è tmdoxon ("fondato sulla opinione") es.: "è amato -ama" ·è invidioso -detesta•  m'S snsnkslon ("'non necessario") - è éndoxon ("fondato sulla opinione") snsnkslon (..necessario") tekm"érion ("prova") - è IJ/yton (..inconfutabile·) - è il medio di un sillo- gismo in 1 • figura es.: ..essa ha latte-è gravide" "ha la febbre -è malata"  t6 ksth ' kéksston pr6s t6 ksth61on ("dal particolare all'universale") rl) ksth6/on pr6s rl) kstll méros ( ·dall'universale al particolare") - è lyron (..confutabile") - è medio in un sillogismo - è lyton (..confutabile") - è medio in un sillogismo in 3• figura es.: "Pittacco è giusto-i sapienti sono giusti" in 2• figura es.: ..respira rapidamente-ha la febbre" "è pallida -è gravido"  126 5 . LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE 5.4 Un sistema particolare di segni non linguisti­ ci: la fisiognomica La particolare concezione che Aristotele ha del segno, come cosa o fatto che serve a condurre l'attenzione del sog­ getto conoscente su un'altra cosa o fatto, permette di por­ tare in primo piano un tipo di conoscenza che si ottiene in modo indipendente dal linguaggio verbale. Ciò conduce a un'evidente valorizzazione dei sistemi di segni non lingui­ stici . Aristotele, infatti, nei Primi analitici, dopo aver esposto la teoria del segno, propone un'interessante, quanto curio­ sa applicazione a un tipo di segni molto speciali: quelli del­ la fisiognomica. Neli'esempio dato si tratta di risalire da un segno visivo a un tratto del carattere: le grandi estremità del leone vengo­ no assunte come segno del suo coraggio. Tutto l'interesse di Aristotele è concentrato su due punti: da una parte egli tende ad acquisire una conoscenza circa l'ordine psichico partendo da un fatto rilevabile attraverso i sensi; dall'altra tende a stabilire il legame più stretto pos­ sibile tra due fatti che l'esperienza gli mostra associati (in questo caso: grandi estremità e coraggio), come presuppo­ sto dell'affidabilità stessa della conoscenza. Per dare validi­ tà al suo esempio di fisiognomica Aristotele propone di fa­ re tre assunzioni: 1 4 (i) che "le affezioni naturali trasformino simultaneamente il corpo e l'anima"; (ii) che vi sia un solo segno di un unico fatto, cioè dell'affezione dell'anima che deve essere scoperta; (iii) che ogni genere abbia un'affezio­ ne propria e un proprio segno (fdion [... ] semefon). Come si può osservare, Aristotele, con queste assunzio­ ni, tenta di razionalizzare e di dare dignità filosofica a una materia che era eminentemente mantica. Qui non c'è più la divinità che garantisce la corrispondenza fra un tratto per­ cepibile dell'aspetto fisico e qualcosa che si inscrive nell'or­ dine dell'invisibile (sia esso il carattere di un uomo o più generalmente il destino legato a quel carattere). Per Aristo­ tele vi può essere corrispondenza fra un tratto fisico e un  5.4 LA FISIOGNOMICA 127 aspetto interiore perché qualsiasi affezione trasforma con­ temporaneamente corpo e anima, proprio come avviene nel caso di chi ha imparato la musica, che si è trasformato non solo nell'abilità fisica di suonare, ma anche nella sua sensi­ bilità interna. Ma come avveniva per la mantica, in questa materia si può correre il rischio deli'ambiguità. È proprio per elimina­ re quest'ultima evenienza che Aristotele propone le sue ul­ teriori assunzioni. Infatti l'ambiguità si può verificare in due casi distinti: (i) quando si hanno molti segni che riman­ dano a un'unica affezione (fenomeno che potremmo avvi­ cinare alla sinonimia): l'unico rimedio epistemologico è, in questo caso, assumere che i segni siano univoci, cioè che un unico fatto sia significato da un solo segno; (ii) quando un genere abbia più affezioni, in maniera tale che si rimane in­ decisi su quale sia quella a cui rimanda il segno (fenomeno che potremmo avvicinare all'omonimia): la soluzione pro­ posta da Aristotele è quella di stabilire per ogni genere qua­ le sia l'affezione che gli è propria e quale il segno proprio, in maniera da riferire quest'ultimo univocamente alla prima. Stabilendo preliminarmente le tre precedenti assunzioni è possibile per Aristotele fare della fisiognomica una scienza. E, rispettando appunto queste assunzioni, è possibile stabi­ lire che per il leone le grandi estremità sono il segno del co­ raggio (An. Pr., II, 70 b, 16-17). Fin qui abbiamo seguito Aristotele nel suo ragionamento che si svolge su un piano, per così dire, deduttivistico. È possibile ricostruire, però, anche un altro versante dell'ar­ gomentazione che si colloca geneticamente in un momento in cui la regola deduttiva non è ancora stata posta. In effet­ ti è possibile pensare a un momento in cui si osserva che una certa affezione, il coraggio, è associata al genere dei leoni; contemporaneamente si osserva che ai leoni è asso­ ciata la caratteristica di are grandi estremità. A questo punto viene formulata l'ipotesi che il segno del coraggio sia rappresentato dal possesso di grandi estremità. Il processo logico che verrebbe qui a configurarsi segui­ rebbe lo schema:  128 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE l. "essere coraggiosi" 2. "avere grandi estremità" 3. "essere coraggiosi" (probabilmente) si predica di si predica di si predica di "leoni, "leoni" "chi ha grandi estremità" Un sillogismo in 3a figura, come è questo, secondo Peir­ ce costituirebbe una induzione, ma di un tipo talmente "ti­ mido da perdere totalmente la caratteristica ampliativa pro­ pria dell'induzione genuina" (1984: 210). Esso avrebbe un forte carattere ipotetico. Tuttavia Aristotele non segue in effetti questo ragiona­ mento perché non riesce ad accettare come valido dal pun­ to di vista logico un procedimento che risulta privo di ga­ ranzie. Così è costretto a inquadrare questo, si noti bene, quanto mai aleatorio segno del coraggio in uno schema an­ cora una volta deduttivo. In altre parole, l'osservazi,"ne deli'associazione tra coraggio e grandi estremità deve tra­ mutarsi in un legame stretto e costante. Lo sforzo di Ari­ stotele è tutto rivolto a dimostrare che ogni volta che ci sia coraggio, questo venga manifestato dalla presenza di gran­ di estremità, e viceversa. In termini tecnìci, la situazione ideale, cioè il massimo della certezza, si ottiene quando si verifica conversione (antistréphein) tra ciò che funge da se­ gno e ciò a cui esso rimanda, ovverosia quando l'estensione del primo termine è esattamente uguale a quella del secon­ do. Da qui la necessità (puramente logica, e non semiotica) che un unico segno si riferisca a un'unica affezione: solo in questo modo è possibile la conversione tra i due termini. A questo punto il problema di fare un'ipotesi su quale sia il segno del coraggio si trasforma in quello di trovare un elemento di mediazione tra il "coraggio" e il "genere dei leoni", che ne appaiono costantemente provvisti. Tale elemento di mediazioneJ che sembra appunto giusti­ ficare l'associazione, è "avere grandi estremità", che divie­ ne così il segno, sul quale viene costruito il seguente schema sillogistico deduttivo (An. Pr., II, 70 a, 32-38):  l . 5.5 SVALUTAZIONE DEL SAPERE SEONICO 129 A si predica di B "essere coraggioso" "chi ha grandi estremità" B si predica di c 2. 3. A si predica di c "avere grandi estremità'' "leone" "essere coraggioso" "leone" Ma ciò che Aristotele trascura di mettere in luce è che, come abbiamo visto, i dati di partenza della deduzione stes­ sa poggiano su una precedente inferenza a carattere più ipotetico. L'esempio proposto è interessante perché, prima della presentazione dello schema formale, tutto il ragiona­ mento è rivolto a stabilire i criteri che permettano di dire che qualcosa è segno di qualcos'altro. Ma ciò è possibile solo formulando un'ipotesi, che solo in seguito può essere verificata deduttivamente. 5.5 La svalutazione del sapere segnico In effetti la diffidenza di Aristotele nei confronti della conoscenza che si può ricavare dai segni è molto marcata. Infatti, nella concezione aristotelica, anche quando tra i due termini del segno vi sia un legame necessario, la cono­ scenza del termine non noto sembra imporcisi dall'esterno, senza che si riesca a comprenderne la causa. Aristotele nei Secondi analitici (1, 75 a, 28-36) oppone il ragionamento basato sull'essenza a quello basato sulsegno; quest'ultimo infatti viene definito come ragionamento che si fonda sulle determinazioni accidentali. Ne consegue, peraltro, che soltanto con il primo tipo è possibile arrivare a conoscere la causa. Ciò non significa che la conoscenza attraverso il segno sia totalmente esterio­ re. In certi casi, che sono quelli dei segni necessari, il segno permette di risalire alla causa: così la constatazione del fat­ to che una donna ha latte permette di risalire alla causa, cioè al suo essere gravida, come pure l'accertamento della  130 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARlSTOTELE presenza della febbre permette di risalire allo stato di ma­ lattia che la determina. Tuttavia questo tipo di ragionamento non arriva a forni­ re una vera e propria scienza dei fatti, in quanto quest'ulti­ ma si ottiene solo a partire dalla causa. Il ragionamento at­ traverso il segno parte invece dall'effetto e permette soltan­ to l'affermazione del fatto, cioè dello h6ti ("che"), senza condurre alla comprensione delle cause, cioè del di6ti ("perché"). Nel capitolo 13 dei Secondi analitici Aristotele insiste sul fatto che la dimostrazione veramente scientifica non consi­ ste nella scoperta o nella conclusione della causa, ma essa è scientifica proprio in quanto parte dalla causa; in quel con­ testo viene infatti fondata la distinzione tra "il sapere che qualcosa è" e "il sapere perché qualcosa è". In effetti alle scienze dello h6ti viene riconosciuto un cer­ to diritto di esistenza; tuttavia esse vengono considerate in­ feriori in quanto portano sui fatti, senza raggiungere la co­ noscenza del necessario e a malapena quella dell'universale. Ma quali sono queste scienze dello hoti? Dagli esempi che Aristotele fornisce si direbbe che si tratta eminentemente di scienze indiziarie, basate sui segni e fornite di un carattere fortemente ipotetico in contrapposizione ad altre che invece hanno carattere deduttivo. Tra questi esempi Aristotele cita il caso dell'astronomia (astrologhfa), nome condiviso sia da una certa scienza nau­ tica (nautik) sia da una scienza basata su fondamenti ma­ tematici (mathmatik). Solo la seconda è scienza delle cau­ se. Ugualmente Aristotele contrappone la medicina alla geometria: infatti, nel caso delle ferite circolari, spetta al medico di sapere che esse guariscono più lentamente, men­ tre spetta all'esperto di geometria conoscere il perché di questo fatto. Dunque abbiamo medicina e scienza della navigazione contro matematica e geometria: il senso della scelta aristo­ telica contro il segno non potrebbe essere più chiaro. È interessante osservare come per Aristotele sia possibile anche sviluppare un ragionamento dello hoti oppure uno del dioti all'interno di una stessa scienza. La differenza che  5.5 SVALUTAZIONE DEL SAPERE SEGNICO 131 contraddistingue i due tipi è duplice. Infatti si fa un ragio­ namento dello h6ti, in primo luogo, quando il sillogismo non si basa su premesse immediate (che, nell'epistemologia aristotelica, significa assumere la causa prima e prossima); in secondo luogo, quando, pur basandosi su premesse im­ mediate, la deduzione non discende dal termine che indica la causa di un fatto, ma dal più noto di due termini, en­ trambi riferiti al fatto. In altre parole, la differenza specifi­ ca del sillogismo del dioti è ancora che esso va dalla causa ali'effetto e non dali'effetto alla causa. L'esempio che Aristotele fornisce è molto interessante. Posto, infatti, che c'è una certa relazione tra il non sfavilla­ re dei pianeti e la loro vicinanza alla terra, Aristotele mo­ stra come attraverso questi due termini sia possibile svilup­ pare due tipi di ragionamento di diverso valore epistemolo­ gico . Da una parte è infatti possibile dedurre la vicinanza dei pianeti dal fatto che non sfavillano (''Se non sfavillano, so­ no vicini"). Si ha in questo caso un ragionamento dello hoti e si può osservare che in questo contesto il "non sfavillare" è tipicamente un segno del fatto che risulta come conclusio­ ne, cioè la loro "vicinanza" alla terra. Il sillogismo costruito sul segno non parte dalla causa del non sfavillamento dei pianeti (che è costituita dalla loro vi­ cinanza), ma parte dell'effetto, che viene assunto come ter­ mine medio, per arrivare alla causa. È possibile anche che la causa non venga mai realmente conosciuta. Aristotele contrappone a questo tipo di ragionamento quello che deduce il non sfavillamento dei pianeti dalla loro vicinanza. Si ha in questo caso un ragionamento del dioti, che mostra il perché qualcosa sia, dal momento che coglie la causa precisamente in quanto causatrice dell'effetto; for­ malmente ciò avviene in quanto viene assunto come medio proprio il termine che indica la causa. Dunque tra il sillogismo del dioti e quello dello hoti c'è un rapporto di simmetria inversa. È sufficiente infatti in­ vertire i termini del secondo per ottenere il primo. Tuttavia ciò non è sempre possibile, come precisa il com­ mentatore del testo aristotelico Filopono:  132 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE Spesso è necessario che, quando viene posta la causa, anche l'effetto sia posto, mentre non è affatto necessario che, quando si dà l'effetto, anche la causa si dia: così il fatto di avere il co­ lorito pallido non si accompagna necessariamente al parto, ma se una donna ha partorito, essa ha sempre il colorito pallido: infatti possono esserci varie cause del medesimo fatto. (Philop., in Anal. Post., Wallies, 169-9) L'aleatorietà del procedimento inferenziale tipico del se­ gno (dal pallore al parto) viene qui messa in risalto preve­ dendo il caso che un effetto possa avere molteplici cause, situazione nella quale, secondo Filopono, non potrà essere costruito un vero sillogismo dello h6ti, ma soltanto un sil­ logismo del di6ti. Del resto, Aristotele stesso aveva previsto il caso che un effetto potesse avere cause differenti,15 che rendono difficile e aleatorio il percorso di risalita dali'effet­ to alla causa. D'altra parte, però, secondo il con1mentatore Filopono, si può verificare anche il caso opposto, quello cioè in cui sia possibile soltanto un ragionamento dello h6ti. Infatti è possibile risalire dal fatto che una donna ha partorito (co­ me effetto e segno) al fatto che essa si è unita a un uomo (come causa): ma la reciproca non è necessaria, poiché il parto non segue necessariamente all'accoppiamento (Phi­ lop., in Ana/. Post., Wallies, 169-21). C'è infine un'ultima caratteristica che contraddistingue il ragionamento dello h6ti da quello del di6ti, consistente nel fatto che il primo è tipico del emplice osservatore dei feno­ meni, non specialista, mentre il secoildo spetta all'uomo di scienza (An. Post. , I l , 79 a, 2-3). In Aristotele, in definitiva, le scienze indiziarie e il segno in generale sono oggetto di una svalutazione epistemologi­ ca, in quanto nella sua concezione teorica della scienza non viene fatto alcuno spazio alla ricerca e all'ipotesi, quale è presupposta invece da una concezione semiotica del sapere. Come sottolinea Le Blond (1939, tr. it. 1973: l 05), per Ari­ stotele la scienza "n'est elle pas principalement recherche, mais possession; les Analytiques n'apportent guère d'indi­ cations sur la recherche: il décrivent la science achevée, qui  5.6 DEDUZIONE E ABDUZIONE 133 descend des causes aux effets et coincide absolument avec le dynamisme des choses - conception singulièrement con­ fiante, on le voit, qui pose en principe la connaissance par­ faite de la réalité". 5.6 Deduzione e abduzione Non si deve tuttavia pensare che questa posizione teorica corrisponda esattamente alla pratica di ricerca adottata di fatto da Aristotele, a esempio nelle opere scientifiche. Né, d'altra parte, si deve accettare enza riserve l'asserzione ari­ stotelica circa il carattere assolutamente deduttivo delle scienze del di6ti. Come ha mostrato Eco (1983: 242), per Aristotele trovare il perché di un certo fenomeno significa trovare un buon termine medio che spieghi quel fenomeno: ma questo termine medio può essere, in certi casi, anche molto ardito e sofisticato, e non corrispondere a nessuna conoscenza già accertata. Esso può essere, cioè, una "ipote­ si" nel senso peirceano. È illuminante, a questo riguardo , il ragionamento svilup­ pato da Aristotele nel trattato Parti degli animali, in cui, a proposito degli animali provvisti di corna, vengono regi­ strati alcuni "fatti sorprendenti" bisognosi di spiegazione. A esempio: (i) che tutti gli animali con le corna hanno una sola fila di denti, cioè mancano degli incisivi superiori (663 b - 664 a); (ii) che tutti gli animali con le corna hanno quat­ tro stomaci (674 a-b); (iii) che tutti gli animali con quattro stomaci mancano degli incisivi superiori (674 a) ecc. Il problema che ha di fronte Aristotele, in questo caso, è quello di spiegare la ragione per cui, innanzitutto, agli ani­ mali con le corna mancano gli incisivi superiori. Come sot­ tolinea Eco, Aristotele "deve porre una Regola tale che, se il Risultato che vuole spiegare fosse un Caso di questa Re­ gola, tale Risultato non sarebbe più sorprendente'' (1983: 239). E del resto, secondo Peirce, quando una circostanza "strana" si spiega supponendo che essa sia il caso di una certa regola 0enerale, siamo di fronte a un'ipotesi o abdu­ zione .  134 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE Proprio in questi termini procede Aristotele, supponen­ do che, nel caso considerato, probabilmente, la materia du­ ra è stata deviata dagli incisivi superiori alla testa con lo scopo di formare le corna. A sua volta, la mancanza di in­ cisivi superiori è causa dello sviluppo di un quarto stomaco ed è il medio dal quale si sviluppa un ulteriore sillogismo. Espresso nei termini del sillogismo (nella formalizzazione peirceana adottata da Eco) il primo ragionamento si rico­ struisce così: Regola = Tutti gli animali devianti (cioè che hanno deviato la materia dura dalla bocca alla testa) mancano degli in­ cisivi superiori. Caso=Tutti gli animali con le corna hanno deviato. Risultato = Tutti gli animali con le corna mancano degli in­ cisivi superiori. La "deviazione deUa materia dura" costituisce contem­ poraneamente il medio del sillogismo e la spiegazione del fenomeno. Quello che Eco mette giustamente in risalto è che lo sforzo di spiegare a titolo ipotetico perché un feno­ meno è così come è, costruendo una forma rigorosamente deduttiva, non differisce in niente da ciò che Peirce chiama abduzione: in ciascuno dei due casi c'è un lavoro su ipotesi che permettono di spiegare fenomeni che appaiono "sor­ prendenti " . L'idea di Eco, in sostanza, è che al di sotto e prima del li­ vello deduttivo preso in considerazione da Aristotele esista un livello abduttivo che Aristotele rifiuta di riconoscere, ma al quale ricorre nel caso che debba costruire delle defi­ nizioni scientifiche: definire il perché di un fatto sorpren­ dente "significa stabilire una gerarchia di collegamenti cau­ sali per via di una sorta di ipotesi che può essere convalida­ ta solo quando dà luogo a un sillogismo deduttivo che agi­ sce come previsione di successive modifiche" (ibidem, 241). Ed è in definitiva proprio il mancato riconoscimento di questo movimento inferenziale preliminare che vieta ad Aristotele di riconoscere il carattere ipotetico della scienza e, nel contempo, la produttività dello stesso sapere segnico.  6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO E LA SEMIOTICA DEGLI STOICI 6.0 Introduzione La scuola stoica è quella che nell'antichità ha sviluppato con maggior rigore e profondità una riflessione semiotica. Tuttavia l'indagine degli stoici si polarizza, com'era già av­ venuto per Aristotele, su due ambiti fondamentalmente di­ stinti tra di loro: da una parte, una teoria del linguaggio in senso stretto, che comporta anche un'analisi dei rapporti tra linguaggio, pensiero e realtà (in corrispondenza della terna "significante", "significato", "oggetto esterno"); dal­ l'altra, una teoria del "segno" proposizionale, connessa con la teoria dell'inferenza. Questi aspetti della filosofia stoica trovano però un pun­ to di convergenza, come vedremo, nel loro comune legame con il lekt6n, un'entità che ha uno statuto eccezionale nella metafisica stoica. In effetti, a fondamento di quest'ultima, si pone la speciale dialettica tra le entità che condividono la proprietà di essere "corpi" (sOmata) e quelle entità che sono invece corporee (asOmata). Più in dettaglio si può dire che di solito l'ontologia stoica prende in considerazione solo quegli individui che hanno la caratteristica di essere oggetti tridimensionali e di possedere altresì una resistenza nel tem­ po. Questi, appunto, sono i corpi e solo essi vengono consi­ derati esistenti. Ora, tanto nella teoria del linguaggio, quan­ to in quella del segno proposizionale, accanto alle entità corporee vengono prese in considerazione anche delle entità incorporee, quali i lekta.  136 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI Per il momento è invece necessario sgombrare il campo da due equivoci. Il primo concerne il destino che tocca alle entità incorporee: esse non vengono relegate semplicemente nell'ambito del non-esistente, ma vengono investite di una "esistenza derivativa'' (Long 197I a: 89-90). Il secondo pos­ sibile equivoco concerne la nozione stessa di corpo. Contra­ riamente a quello che ci attenderemmo in relazione a una nozione moderna di corpo, per gli stoici erano "corpi" an­ che le qualità, in quanto venivano considerate come materia in un certo stato. Le proprietà di un certo individuo costi­ tuiscono stati o modi del suo essere e, per la loro esistenza, dipendono dall'esistenza di questo individuo. Se l'individuo esiste, le sue proprietà sono appunto disposizioni esistenti di materia (Rist I969: 52-55). Si profila, a questo punto, una ontologia che pone al suo centro la nozione di "particolare": quest'ultimo viene carat­ terizzato come un oggetto materiale, che ha una forma defi­ nita come condizione necessaria e sufficiente della sua esi­ stenza. La forma, del resto, è l'elemento caratteristico di un oggetto, che lo rende identificabile come tale (Long I97I a: 76). È proprio su questi presupposti antologici che si innesta e si sviluppa la teoria semiolinguistica degli stoici: il bisogno di una teoria del significato e della verità nasce appunto a proposito deIl'identificazione dei "particolari", ed è con­ nesso a una teoria della percezione. Così, si terrà presente innanzitutto che per gli stoici le im­ magini (phantasfa1) prodotte nella mente dagli oggetti ester­ ni danno luogo a una percezione vera se esse riproducono esattamente la configurazione di tali oggetti.1 Del resto, le immagini giocano un ruolo importante nella teoria del si­ gnificato degli stoici, come si sa che avevano una parte im­ portante anche nella teoria del significato di Aristotele. In secondo luogo si può considerare come fondamentale il fatto che uno dei modi di identificare un "particolare" è quello di identificarlo linguisticamente. In questo caso è fondamentale l'abilità di A nel comunicare a B che sta par­ lando intorno a X, come pure l'abilità di B di indicare ad A che egli ha compreso il suo riferimento.  6.1 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 137 6.1 La teoria del linguaggio 6 . 1 . 1 Il triangolo semiotico Il passo di Sesto Empirico che contiene i lineamenti fon­ damentali della teoria linguistica stoica si trova proprio in un contesto che concerne un conflitto di opinioni intorno alla verità. È importante sottolineare che per gli stoici una teoria del­ la verità, cioè la ricerca delle basi per una verifica delle pro­ posizioni, non può essere elaborata in maniera indipenden­ te da una concezione della struttura del mondo e da ciò che può essere detto intorno a esso. Ecco il passo di Sesto. Alcuni hanno riposto il vero e il falso nella cosa "significata" (tò smainomenon), altri nella voce (phon), altri infine nel mo­ vimento del pensiero. Della prima opinione sono stati i porta­ bandiera gli stoici col sostenere che sono tra loro congiunte tre cose, ossia la cosa significata (tò smainomenon), quella signi­ ficante (tò smafnon), e quella-che-si-trova-ad-esistere (tò tyn­ chanon), e che, tra queste, la cosa significante è la voce (ad esempio la parola "Dione"); quella significata è lo stesso stato di cose (autò tò pragma) indicato dalla voce pronunciata (tò hyp'autis dloumenon), che noi percepiamo come coesistente (paryphistamenon) con il nostro pensiero (dianoia1), mentre i barbari, pur ascoltando la voce che lo indica, non lo compren­ dono; infine, ciò-che-si-trova-ad-esistere è quello che sta fuori di noi (ad esempio, Dione in persona). Di queste cose due sono corpi, cioè la voce e ciò-che-si-trova-ad-esistere, ed una è incor­ porea, cioè l'oggetto significato o "detto" (lekton), e proprio quest'ultimo è vero o falso. 2 (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 11-12) A partire dalle notizie di Sesto, anche per gli stoici il fe­ nomeno della significazione linguistica può essere ricostrui­ to nei termini di un triangolo (cfr. p. 138). Si può osservare che compaiono i termini "significante" e "significato" (come è dato trovare anche nella teoria mo­ derna di Saussure), ma non quello di "segno": come anche  138 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI slmsin6menon (significato) lekt6n ( detto)  tmsm lnon (aignificente) tynchAnon  in Aristotele, la nozione di smeion appartiene a un altro ambito della teoria, che non è quello strettamente linguisti­ co. Si può notare anche che l'esempio che viene dato qui è abbastanza particolare, in quanto si tratta di un nome pro­ prio. In secondo luogo, se da una parte, come per Aristotele, i termini che individuano la significazione sono tre e com­ prendono anche l'oggetto, che propriamente è esterno al linguaggio, tuttavia la coincidenza tra i due modelli è solo parziale: soltanto il primo e il terzo termine, cioè la voce si­ gnificante e l'oggetto, possono essere assimilati nei due triangoli. 6. 1 .2 Il "lekt6n" come "asserzione" Un caso assolutamente a sé costituisce il termine che si trova al vertice superiore del triangolo, chiamato prima ù·lJ_ main6menon, poi anche lekt6n. Soprattutto nella sua se­ conda denominazione costituisce un termine peculiare della filosofia del linguaggio degli stoici e rimanda a un concetto complesso e di grande interesse. Un primo aspetto della sua peculiarità lo si può rilevare in un confronto con Aristotele. (oggetto esterno, referente)   6.1 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 139 Nella stessa posizione del triangolo della significazione Ari­ stotele poneva delle entità psicologiche, che venivano consi­ derate le medesime per tutti gli uomini. Il lekt6n degli stoici, come ci dice Sesto nel passo riporta­ to, ha caratteri completamente diversi, in quanto i barbari, pur udendo i suoni e vedendo l'oggetto, non lo compren­ dono . Come rileva Todorov (1977: 17-18), la differenza tra le due nozioni consiste innanzitutto nel fatto che, mentre l'en­ tità presa in considerazione da Aristotele si situa a livello della mente dei locutori, quella considerata dagli stoici si si- tua direttamente al livello del linguaggio: Todorov interpreta il lekt6n come la capacità del primo elementodi designare il terzo. Tale interpretazione poggia anche sul fatto che l'e­ sempio dato è un nome proprio, che ha una capacità di de­ signazione come gli altri nomi, ma è molto controverso se abbia un senso; la risposta che di solito si dà a questo inter­ rogativo è negativa. I barbari odono sicuramente la sequenza di suoni l Dio­ ne l e vedono l l Dione l l , ma sono incapaci di connettere il suono con il suo oggetto di riferimento. Comprendere, dun­ que, come avviene appunto nel caso dei Greci, consiste pro­ prio nel percepire la connessione tra la parola che viene pro­ nunciata e l'oggetto cui si riferisce. Anche Long (1971 a: 77) identifica il lekt6n con tale connessione, ma nel senso che esso si configura come l'affermazione che un enunciato fa nei confronti di qualche oggetto; in questo caso, la tra­ duzione più propria di lekt6n è "ciò che è detto", in quanto tale espressione copre sia la nozione di "giudizio" che quella di "stato di cose significato da una parola o da una serie di parole".3 L'idea che i lekta si potessero configurare come "affer­ mazioni intorno agli oggetti" emerge da una testimonianza di Seneca (Epistulae mora/es, 1 17, 13), in cui viene delinea­ to uno schema triadico della significazione analogo a quello di Sesto, ma con una proposizione ( l Catone cammina l ), laddove Sesto proponeva solo un nome ( l Diane l ). Seneca invita a distinguere tra l'oggetto di riferimento, cioè Cato­ ne, che è un oggetto materiale, e l'asserzione intorno a esso  140 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI ( l Cato ambulat l ), che è un "incorporale". Tale asserzione è propriamente il lekton, del quale termine Seneca propone tre diverse traduzioni latine: enuntiatum ("enunciazione"), effatum ("affermazione"), dictum ("asserzione"). Dato che l'esempio proposto da Seneca è una proposizio­ ne, risulta più agevole, rispetto ali'esempio di Sesto, capire come possa essergli applicato il predicato "vero" o "falso".4 Infatti solo i lekta che costituiscono una proposizione com­ pleta possono essere veri o falsi.5 6. 1 .3 I rapporti tra il "lekt6n" e il pensiero Nel modello aristotelico della significazione le espressioni linguistiche sono i simboli degli stati psichici (pathmata en tiipsychi1) elo dei pensieri (noimata). In questo modo non viene operata una chiara distinzione tra la nozione di "si­ gnificato" e quella di "pensiero". Tale concezione ricompa­ re del resto nella nota teoria novecentesca di Ogden e Ri­ chards (1936: tr. it. 37), i quali disegnano un triangolo se­ miotico in cui figura al vertice superiore la nozione di "thought" ("pensiero"). Diversa è la concezione proposta dagli stoici. In effetti, dalla testimonianza concorde di Sesto e di Diogene si ricava una nozione di significato nettamente distinto dal pensiero, anche se intrattenente con questo un certo tipo di rapporto. Dice infatti Sesto: [Gli stoici] affermano che il /ekton è ciò che sussiste in confor­ mità con una rappresentazione razionale (loghik phantasia) e che una rappresentazione razionale è quella secondo cui il rap· presentato (phantasthén) può essere espresso in parole. (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 70) In termini del tutto analoghi si esprime Diogene (Vitae, VII, 63), usando anche le stesse espressioni. Cosi, da en­ trambi i passi si può ricavare l'idea che gli stoici operassero una distinzione netta tra i lekta, che rappresentano il livello del "significato", e le "rappresentazioni razionali" (loghikaì  6.1 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 141 phantasfa1), che possiamo definire come delle forme di atti­ vità intellettiva o dei pensieri; quest'ultime entità sono pe­ culiari della specie umana6 e possono, ali'occorrenza, essere espresse in parole (a questo infatti si riferisce l'aggettivo lo ghikaf). Ma, sempre dai due passi, si può ricavare anche che i due termini, il lekton e l'attività di pensiero, vengono messi in relazione. Long (1971 a: 82) cosi commenta il passo di Se­ sto: "I take this difficult passage to mean that the /ekton is defined as the objective content of acts of thinking (no sis)" e aggiunge anche "or, what comes to the same thing in Stoicism, the sense of significant discourse". Prima di ap­ profondire il senso di questa seconda asserzione di Long, soffermiamoci sulla prima. Dunque la relazione che il lekton instaura con l'attività di pensiero è tale per cui esso si configura come contenuto o risultato di tale attività. Ma questa nuova relazione, che ve­ niamo scoprendo attraverso le testimonianze di Diogene e Sesto, comporta un elemento nuovo rispetto a quanto lo stessoSestoavevadettoaltrove(Adv.Math.,VIII, 11-12), quando aveva messo in relazione il lekton con l'espressione significante (cioè con il smainon). In effetti, se il lekton viene ora definito come qualcosa che sussiste in conformità con una rappresentazione razionale, è evidente che l'accen­ to appare spostato dal precedente rapporto con il suono della voce, a un rapporto con l'attività del pensiero. Questa, prima di dimostrarsi un'apparente contraddizio­ ne o un falso dilemma, ha diviso sia le testimonianze degli esegeti antichi sia le interpretazioni degli studiosi moderni degli stoici. Come mette bene in evidenza Mignucci (1965: 92-93), i lekta, essendo incorporei, "non possono essere disgiunti da qualcosa di corporeo che faccia in qualche modo da sup­ porto ad essi e che permetta la loro esprimibilità". Il proble­ ma diviene allora quello di stabilire se a fare da supporto ai lekta siano: (i) i suoni della voce; o (ii) l'attività della mente che li pensa. La prima definizione di Sesto7 opta per la solu­ zione (i),9mentre la seconda,8 come pure la definizione di Diogene, optano per la soluzione (ii). Ugualmente, tra gli ­  1 42 6 . LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI interpreti moderni, Mates10 risponde che sono le parole a fare da supporto ai lekta; Zeller11 e Bréhier12 assumono l'altro punto di vista. Come dicevamo, questo è un falso dilemma, non resolu­ bile tuttavia filologicamente, in quanto nei testi antichi c'è un'uguale quantità di elementi di convalida per ciascuno dei due punti di vista. Piuttosto è necessario considerare un du­ plice presupposto che sembra agire nella teoria stoica: da un lato il verificarsi di discorsi significativi rimanda a un'at­ tività intellettuale, in assenza della quale non è possibile che si diano i significati; dall'altra il risultato dell'attività intel­ lettuale ha bisogno dei suoni della voce significativi per esplicitarsi oggettivamente. È possibile, anzi, trarre le con­ seguenze dal fatto che i lekta siano definiti da una parte co­ me contenuti delle rappresentazioni razionali e dali'altra come significati delle parole: conseguenze che indicano la necessità di postulare una stretta connessione tra i contenuti dell'attività rappresentativa della mente e il loro essere si­ gnificati attraverso le parole. I due termini, in realtà, non possono essere disgiunti l'uno dall'altro.13 A questo punto possiamo comprendere la seconda asserzione di Long che abbiamo anticipato: il senso del discorso significante e il contenuto oggettivo degli atti di pensiero devono essere considerati come la stessa cosa.. La precedente conclusione viene del resto appoggiata da tà14 è dato dalla "rappresentazione" (phantasia) passo Diogene spiega che la phantasia ha un ruolo assoluta­ mente primario, in quanto non è possibile, senza di essa, rendere conto di alcuni processi fondamentali della cono­ scenza, quali l'assenso (synkatathesis), la comprensione (kata/psis) e l'attività di pensiero (n6sis): "infatti la rap­ presentazione viene per prima, poi il pensiero (dianoia) che è capace di parlare (eklalètik), esprime in parole (/6g01) ciò che esperimenta come il risultato della rappresentazione". Il passo di Diogene è importante perché ripropone la no­ zione, già platonica,15 del pensiero come "discorso inter­ no".16 Tutto ciò porta a concludere che per gli stoici esiste Long sulla considerazione di un passo di Diogene Laerzio (Vitae, VII, 49-50) in cui viene detto che il criterio di veri- .. In questo  6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 143 una sostanziale identità tra i processi del pensiero e quelli della comunicazione linguistica. Il fatto poi che i processi cognitivi siano basati sulla phantasia getta luce sul ruolo che le immagini mentali hanno nella teoria linguistica del si­ gnificato. 6.2 La teoria del segno 6.2. 1 Il "lekt6n" e la teoria del segno Il lekton, che abbiamo finora incontrato come elemento centrale della teoria del linguaggio, costituisce una nozione fondamentale anche della teoria del segno e, in un certo f110do, è un fattore di mediazione tra le due teorie. Infatti i 5egni (smefa) per gli stoici sono anzitutto dei lekta, in auanto sono costituiti da proposizioni. Questo fa sì che, come sottolinea Eco (1984: 30), nella se­ fllÌOtica stoica si verifichi una saldatura "di diritto" tra la 0ottrina del linguaggio e la dottrina dei segni. Infatti, "per­ ché ci siano segni occorre che siano formulate proposizioni e le proposizioni debbono organizzarsi secondo una sintassi Jogica che è rispecchiata e resa possibile dalla sintassi lingui­ stica" (ibidem). Occorre tener presente che gli stoici non di­ cono ancora che le parole sono segni (sarà Agostino il pri­ (110 a fare una simile asserzione) e rimane, del resto, una òifferenza lessicale tra la coppia smafnonlsmain6menon e sl!mefon. Tuttavia il fatto che i segni siano dei lekta ci illumina sul­ ra necessità, avvertita dagli stoici, di tradurre il segno non verbale in termini linguistici e di legare, dunque, per quanto jfl maniera implicita e indiretta, le due teorie. Ecco la definizione di segno che ci viene data da Sesto: Gli stoici, volendo presentare la nozione di segno, dicono che è una proposizione (axloma) che è l'antecedente (prokathegou­ menon) in un condizionale vero (en hyghiei synemménOl), e che è rivelatore del conseguente (ekkalyptikòn tou ligontos). E di-  144 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI cono che la proposizione è un lekt6n completo in se stesso; e il condizionale vero è quello che non comincia dal vero e finisce ] Riprenderemo più avanti le varie problematiche che ven­ gono presentate in questo passo. Per il momento ci preme sottolineare che in esso si definisce il segno come un lekt6n completo, cioè come una proposizione che si pone in rap­ porto di implicazione con un altro lekt6n, cioè con un'altra proposizione, secondo lo schema: p -:J q. Si deve notare che, come per Aristotele, l'attenzione per il segno è esercitata in funzione della conoscenza che esso pe_rmette di raggiungere: l'ottica, in altre parole, è ancora quella epistemica, e il segno appartiene a un campo che è di­ stinto sia da quello logico sia da quello semantico in senso stretto. Il segno, infatti, non è una proposizione qualsiasi che figuri come antecedente in un condizionale vero, ma so­ lo quella proposizione che permette di scoprire il conse­ guente (cioè che permette l'accesso a una nuova conoscen­ za). Su questo torneremo tuttavia più avanti. Va comunque notato che, se l'ottica con cui gli stoici guardano al segno è la stessa di quella di Aristotele, assolu­ tamente diverso è il tipo di inquadramento logico. È nor­ mallnente accettato che Aristotele pratichi la logica delle classi, mentre gli stoici introducono quella proposizionale. Ciò comporta che l'attenzione venga spostata: (i) dalla so­ stanza degli eventi (Todorov 1 977 : 21), per quanto concerne il punto di vista antologico; (ii) dal nome/aggettivo, che funge da predicato, alla proposizione, per quanto concerne l'espressione linguistica. In effetti, in Aristotele si poteva notare un certo disagio a trattare le sostanze e le proprietà come segni. Ciò che, invece, può essere trattato come segno sono i fatti e gli avvenimenti espressi da proposizioni. E del resto Aristotele, pur senza denunciare la differenza, tutta- nel falso [ di un condizionale che comincia con il vero e finisce nel vero. Essa fa scoprire il conseguente poiché la proposizione "essa ha latte" sembra essere rivelatrice (de/Otik6n) di quest'altra "essa concepito". 17 (Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., II, 104-106) ... . Essi chiamano antecedente la prima proposizione  6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 145 via fornisce alcuni esempi di segno (come quello della Reto­ rica, I, 1357 b, 16-18: "Se essa ha latte, essa ha partorito"), in cui vengono presi in considerazione eventi e non sostan­ ze. Ma nella filosofia aristotelica la teoria del segno ha una parte marginale: il segno viene fatto rientrare nel procedi­ mento sillogistico (costituisce una premessa del sillogismo) e viene confinato nel campo dei procedimenti retorico-dia­ lettici, se non è un tekmirion, cioè un segno necessario. Nella scienza vera e propria, fondata sul sillogismo perfet­ to, il smeion non trova f>osto. Al contrario, nelle scuole postaristoteliche, l'inferenza da segni acquista un ruolo centrale: dalla retorica e dialettica, suoi punti di partenza, il segno viene esteso alla scienza in generale e alla filosofia nel suo grado più alto. Gli stoici e gli epicurei vedono nel segno il procedimento canonico del passaggio da ciò che è noto a ciò che è ignoto. Preti (1956: 7-8) sostiene che, a proposito della teoria del segno, tra Aristotele e le scuole posteriori si può individuare un anello di congiunzione, rappresentato dalla teoria di Nausifane, un seguace di Democrito e uno dei maestri di Epicuro. Da quanto ci è rimasto della sua opera, il Tripo­ de, 1 8 è possibile cogliere i punti essenziali di questo passag­ gio . Per Nausi fane, infatti , il discorso filosofico (basato per Aristotele sul sillogismo) e quello retorico (basato sull'enti­ mema) presentano in realtà la stessa struttura logica. In en­ trambi i casi è necessario distinguere tra la "conseguenza" (ak6/outhon), la "premessa" (homologoumenon) e "ciò che deriva dalle premesse" (tlnon lphthénton ti symbafnei: il sillogismo?). In ognuno dei due tipi di discorso il problema è quello di partire da cose presenti (hyparchonta) per giun­ gere in maniera metodica alle cose invisibili. Il metodo del passaggio è la akolouthia, "la relazione di consequenziali­ tà", di implicazione o implicitazione,19 comune appunto a filosofia e retorica. 20 Ora, come testimonia Sesto, dalle cose evidenti (apò ton enargOn) alla comprensione del­ le cose oscure (adla) per mezzo del segno come relazione di akolouthia costituisce proprio il nocciolo della dottrina de­ gli stoici (come pure di tutti coloro che Sesto riunisce sotto la possibilità di passaggio  146 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI il nome di "dogmatici"). Non solo, ma come prova della centralità della semiotica, anche la dimostrazione viene considerata un segno:21 fatto che testimonia la riduzione della filosofia della scienza a semiotica e che conferma la tendenza delle scuole postaristoteliche a ridurre o trasfor­ mare il sillogismo nell'inferenza implicativa. 6.2.2. 1 I tipi di segno: A) "comune" e "proprio" Nella semiotica stoica si registra la scomparsa della di­ stinzione terminologica tra tekmrion e smeion: il primo termine non viene più usato e i segni vengono tutti denomi­ nati smeia. Un'ipotesi plausibile è che ciò sia legato all'ab­ bandono del sillogismo e della sua distinzione in figure la quale sorreggeva tale opposizione. Tuttavia, al suo posto, sembra comparire un'opposizione tra "segno comune" (koinòn smeion) e "segno proprio" (fdion). Tale distinzione non era specificamente stoica, ma appartenente a una koini filosofica ellenistica, sulla quale c'era accordo anche tra scuole per altro verso in contrasto. Una definizione sufficientemente chiara dei due tipi di se­ gno si trova nel trattato semiotico di Filodemo (l secolo a.C.): Un segno è comune (koin6n) per nessuna altra ragione che quella per cui può esistere, sia che l'oggetto non percepito (tò adlon) esista, sia che non esista. Noi diciamo che la persona che crede che questo particolare uomo sia buono a causa del fatto che è ricco, sta usando un segno non valido e comune dal momento che molti che sono ricchi risultano malvagi e molti buoni. Perciò il segno proprio (idion), se è necessario (ananka­ stik6n), non può esistere altrimenti che con la cosa che noi di­ ciamo appartenere di necessità ad esso, (cioè) l'oggetto non evi­ dente di cui è segno. 22 (Philodemus, De signis, I, 1-17) C'è una convergenza nelle scuole postaristoteliche nel ri­ tenere il segno comune come non valido e nell'accettare in­ vece unicamente il segno proprio. Dalla definizione di Filo-  6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 147 demo si ricava che una differenza peculiare consiste nel ca­ rattere di necessità del segno proprio, che viene definito co­ me "necessario" (anankastik6n), carattere non posseduto da quello comune. Viene dunque da mettere in parallelo il segno proprio con il segno necessario di Aristotele che ri­ chiedeva una connessione necessaria con l'oggetto a cui rin­ viava. D'altra parte, il segno comune è definito come quel segno che può rimandare a qualcosa di esistente, di cui sa­ rebbe segno, ma può anche non rimandare a niente. Dato l'esempio, cioè l'inferire dalla ricchezza di un uomo la sua bontà (inferenza che in certi casi funziona e in certi altri no), sembra plausibile porre in relazione il segno comune e i segni in seconda e terza figura di Aristotele. Infatti per Ari­ stotele si poteva inferire dal pallore di una donna il suo es­ sere gravida (segno in 2a figura) oppure dalla bontà di Pit­ taco la bontà dei sapienti (segno in 3a figura): ma questi se­ gni non in ogni caso risultavano verificati. Si può così giungere a una conclusione interessante: men­ tre Aristotele, pur negando validità scientifica ai segni non necessari, ne prevedeva comunque un uso in un ambito epi­ stemologicamente più basso, come quello della retorica, do­ minio delPopinione, la scuole postaristoteliche sembrano aver fatto definitivamente piazza pulita delle inferenze del tipo non necessario. 6.2.2.2 I tipi di segno: B) "rammemorativo" e "indicativo" Filodemo aveva scritto il suo trattato intorno alla metà del I secolo a.C. Circa due secoli dopo, Sesto riprende la di­ stinzione tra segno preso in senso proprio (idlos) e segno preso in senso comune (koinOs), mettendola in esergo alla sua trattazione del segno; ma, stranamente, assimila questa a un'altra opposizione, quella tra segno rammemorativo e segno indicativo: Il segno [. . .] si dice in due maniere, comune (koinOs) e proprio (idt'Os). In maniera comune si dice segno quello che sembra rive­ lare qualche cosa: in questo senso sogliono chiamare segno an-   148 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI che ciò che serve a richiamare alla memoria la cosa osservata in­ sieme con esso. In maniera propria si dice segno quello che è in­ dicativo di una cosa avvolta nell'oscurità. (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 143) Apparentemente, e in maniera contraddittoria, tuttavia Sesto sembra voler mantenere la duplice distinzione, in quanto, dopo aver introdotto l'opposizione tra segno co­ mune e segno proprio, dichiara di voler trattare solo di que­ st'ultimo (ibidem, 143); e poiché il segno proprio è quello che permette di scoprire le cose che sono oscure, egli propo­ ne di distinguere preliminarmente le cose in "manifeste" e "oscure", e di suddividere ulteriormente quest'ultime in tre categorie. Ne risulta una quadruplice tipologia: (i) Le cose manifeste o immediatamente evidenti: sono quelle che giungono alla conoscenza in maniera diretta; co­ me esempio Sesto porta "il fatto che è giorno e che io sto di­ scorrendo"23 quando io faccio realmente queste cose. (ii) Le cose oscure in senso assoluto: sono quelle che han­ no una natura tale da non arrivare alla nostra comprensio­ ne (kata/psis), come a esempio "se le stelle siano di numero pari o dispari" o "se i granelli di sabbia della Libia siano di un determinato numero".24 (iii) Le cose oscure temporaneamente: sono quelle che pur avendo una natura manifesta divengono, per certe cir­ costanze, non evidenti per un certo tempo: l'esempio è il fatto che, chi si trova a una certa distanza, non vede la città di Atene. Atene, visibile per sua natura, diviene tempora­ neamente invisibile a causa della distanza.2 (iv) Le cose oscure per natura: sono quelle che hanno una natura tale da non essere percepite, ma sono soltanto pen­ sabili (noto1).26 Gli esempi sono "i pori intelligibili" e "il vuoto". Non si pone un problema di segni a proposito della prima e della seconda categoria, in quanto le cose manifeste ven­ gono comprese in maniera non mediata e le cose oscure in senso assoluto non possono essere comprese affatto. Invece è proprio attraverso i segni che possono essere comprese le cose che appartengono alle ultime due categorie. Ma i tipi  6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 149 di segno sono diversi per ciascuna di esse. Le cose tempora­ neamente oscure si colgono attraverso i segni rammemora­ tivi, quelle oscure per natura attraverso i segni indicativi. Ecco la definizione che ne dà Sesto: Dei segni [...], secondo costoro [i dogmatici], alcuni sono ram· memorativi (hypomnstika), altri indicativi (endeiktika). Chia­ mano segno rammemorativo quello che, osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, appena esso si presenta, se quella è avvolta nell'oscurità, ci conduce a ricordare la cosa che è stata osservata insieme a tal segno e che non si presenta ora in maniera evidente, come avviene per il fumo e il fuoco. È invece indicativo, come dicono, quel segno che, non osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, pure, per la propria natura e costituzione, segnala ciò di cui è segno; così, per esempio, i movimenti del corpo sono segni dell'anima. (Sext. Empyr., Hyp. Pyrrh., II, l00-1Ol)27 Il segno rammemorativo è, in sostanza, frutto di un'asso­ ciazione costante tra cose comunemente osservate in con­ nessione empirica. Sembra, tra l'altro, che gli esempi che Sesto sceglie per illustrare questo tipo si distribuiscano se­ condo la tripartizione28 contemporaneità/anteriorità/po­ steriorità tra il segno e la cosa indicata: nel caso di "fu­ mo-+fuoco" vi è contemporaneità; in "cicatrice-+piaga" o in "fascia-unzione degli atleti" il fatto indicato è anterio­ re; in "ferita al cuore-morte", il segno rimanda a qualcosa di posteriore.29 Il segno indicativo, a differenza del precedente, non è su­ scettibile di essere osservato insieme alla cosa di cui è segno, in quanto quest'ultima non è mai stata manifesta e spesso non è nemmeno sospettabile. Ne sono esempi "i movimenti del corpo" che permettono di risalire all'"anima", o "il su­ dore" che rimanda ai "pori della pelle".30 Sesto accetta la validità epistemologica dei segni rammemorativi, mentre nega validità epistemologica ai segni indicativi, che sono, secondo lui, un'invenzione dei "filosofi dogmatici" e dei "medici razionalisti".3 1 Possiamo ricapitolare con il seguente schema la classifi­ cazione di Sesto: cose manifeste oscure   non danno luogo a segni danno luogo a un segno in senso assoluto per natura danno luogo a un segno indicativo rammemorativo Si deve però osservare che la distinzione riportata da Se­ sto tra segno rammemorativo e segno indicativo solleva molti dubbi circa la sua provenienza stoica. In effetti, non se ne trova traccia in altre fonti e neppure nel resto della trattazione dello stesso Sesto. Inoltre, tale distinzione appa­ re addirittura in contrasto con l'indirizzo complessivo della filosofia stoica e soprattutto con l'orientamento logico-for­ male della teoria del segno. Questa distinzione, per quanto importante dal punto di vista epistemologico, appare irrile­ vante dal punto di vista logico. Invece, sembra essere genuinamente stoica la distinzione tra segno comune e segno proprio, secondo la testimonian­ za di Filodemo. È, tra l'altro, il carattere necessario del se­ gno proprio che dimostra la coerenza di essa con il pensiero stoico. Infatti, il segno degli stoici è sempre un segno "ne­ cessario", come un'analisi più dettagliata della sua struttura ci permetterà di vedere. 6.2.3 La struttura del segno nel "condizionale" Ritornando alla definizione stoìca di segno che abbiamo visto, si devono prendere in considerazione almeno tre cose. Prima di tutto la nozione di synemménon, che letteralmente significa "connesso" o "connessione". Il suo significato lo­ gico ci viene chiarito da Diogene:32 si tratta dell'asserto temporanea­ mente  6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 151 condizionale del tipo "Se p, allora q", in cui a una prima proposizione consegue una seconda come nell'esempio "Se è giorno, c'è luce". La seconda cosa da prendere in considerazione è la no­ zione di condizionale valido (hyghiés, "sano"). Da un passo di Sesto, dove se ne trova la definizione, è possibile ricavare che questa nozione è affine alla moderna interpretazione vero-funzionale di "Se p, allora q"; infatti la validità o in­ validità dell'asserto condizionale "Se p, allora q" dipende dal valore di verità deli'antecedente e del conseguente di esso. 33 Sesto, in due passi paralleli, camente "quel condizionale che non comincia dal vero e fi­ nisce nel falso" e fcrnisce una tavola dei valori di verità del tutto conforme a quella che la logica contemporanea preve­ de per l'implicazione materiale:  p q ·se p, allora q• valido vero vero falso falso vero falso invalido falso vero valido Sesto accenna anche a un disaccordo tra i logici stoici a pro­ posito del criterio per giudicare un condizionale valido:34 esso corrisponde a ciò che è stato definito dai Kneale ( 1 962: tr. it. 154 e sgg.) "il dibattito sulla natura dei condizionali", che animò le discussioni di logica ali'epoca degli stoici. Il terzo elemento da rilevare è legato alla nozione di se- definisce come valido uni­ valido  152 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI gno come antecedente (prokathegoumenon) in un condizio­ nale valido. In effetti, come fa rilevare lo stesso Sesto,3s i ti­ pi di condizionale valido sono tre nella tavola dei valori di verità corrispondente all'implicazione materiale (V V; F F; F V); il problema diviene dunque quello di vedere se la struttura del segno sia da ricercare in ciascuno dei tre tipi di condizionale valido, o solo in casi particolari. Ora, in effet­ ti, un segno non può non essere espresso da una proposizio­ ne vera, come pure deve essere vera la proposizione a cui es­ so rimanda. Così sono esclusi il secondo e il terzo caso (F F; F V), in quanto hanno un antecedente falso. Dunque l'uni­ ca possibilità è relativa al primo tipo di condizionale, cioè quello che comincia dal vero e finisce nel vero.36 Ma c'è un'ultima osservazione da fare, ed è relativa al ca· rattere che il segno deve avere di essere rivelatore (enkalyp­ tik6n) del conseguente. In effetti un condizionale del tipo "Se è giorno, c'è luce", nel momento in cui si verifichino le due condizioni che sia giorno e che vi sia luce, è formato da due proposizioni entrambe vere. Tuttavia, secondo Sesto,37 non si realizzano in questo caso le condizioni perché vi sia un segno, in quanto entrambe le proposizioni rimand?no a fatti di per sé evidenti. Il primo termine del condizionale non è rivelatore del secondo. In effetti, per comprendere la vera natura del segno bisogna passare dal piano strettamen­ te logico a uno più generalmente epistemologico. Il segno, per gli stoici, non solo deve avere una corretta costruzione dal punto di vista logico, individuabile nella implicazione tra due proposizioni vere, ma deve anche possedere il carat­ tere di dispositivo che permette di accrescere la cono­ scenza.38 Come già in Aristotele, anche per gli stoici il segno si ap· poggia su un livello logico, ma si inquadra in un'ottica co­ noscitiva. Gli esempi di carattere medico denunciano l'ori­ gine di quest'ottica. In generale il segno deve permettere il passaggio inferenziale da una conoscenza di facile accesso, come "egli ha sputato cartilagine bronchiale", a una cono­ scenza di molto più difficile accesso, come "egli ha una pia­ ga nel polmone". Tuttavia, ciò che la teoria del segno ac­ quisisce, passando dalle mani dei medici a quella dei filoso..  6.2 LA TEORIA DEL SEGNO fi, è una solida struttura dal punto di vista logico-formale, tale da escludere la possibilità di inferenze scorrette. 6.2.4. 1 Il dibattito sulla natura dei condizionali Quanto ampio e difficoltoso fosse il lavoro che i filosofi dovevano svolgere, sul piano logico, per stabilire un criterio atto a escludere le inferenze scorrette, lo dimostra l'acceso dibattito che si sviluppò sulla "natura dei condizionali" (Kneale 1962). Scrive infatti Sesto Empirico: "Tutti quanti i dialettici sono generalmente d'accordo neli'affermare che un condizionale è valido quando il suo conseguente segue (akolouthei) dal suo antecedente, ma disputano sul come e quando esso segua, e propongono criteri rivali" (Adv. Math., VIII, 12). Riferendosi a questo dibattito, Sesto elenca quattro crite­ ri che erano stati proposti per stabilire la validità di un as­ serto condizionale: (i) quello di Filone Megarico; (ii) quello di Diodoro Crono; (iii) quello della srsnartsis attribuibile a Crisippo; (iv) quello della émphasis. 9 Sulla disputa si può tuttavia fare un'osservazione genera­ le preliminare. Il punto di partenza, infatti, come fa notare Martha Hurst (1935: 492), è una relazione già conosciuta, nel senso che essa è riconoscibile nei suoi esempi. Ciò che invece costituisce lo scopo è una definizione di questa rela­ zione di consequenzialità (akolouthla) in termini formali. Nel corso dell'intero dibattito sulla natura dei condizionali i logici antichi si sono concentrati sul definiendum e non sul definiens. Quest'ultimo, che può possedere proprietà auto­ nome, essendo dotato di significato, non è stato preso in considerazione se non nella misura in cui poteva essere pro­ vato che esso coincideva con il definiendum. Si è cosi spesso creata una confusione tra i due livelli e spesso sono stati scelti esempi che ambiguamente erano in grado di elucidare sia la relazione riconosciuta, sia le proprietà della relazione logica che essi tentavano di identificare con la prima. Può aiutarci a comprendere meglio questo modo di pro­ cedere un paragone con i metodi della logica contempora- 153  154 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI nea. I logici contemporanei, infatti, sono in genere interes­ sati unicamente al definiens, cioè alla relazione che essi pos­ sono stabilire in simboli, senza riguardo alla questione se tale relazione sia identica a quella che è ampiamente cono­ sciuta, facilmente riconosciuta, e poco compresa come quella di una espressione di implicitazione ("fol/owing", Hurst 1935: 492). A esempio Peirce e Russell erano interes­ sati alle proprietà della implicazione materiale indipenden­ temente dal fatto che essa riproducesse il significato "usua­ le" di "implica" ("implies"). Così pure Lewis era interessato al sistema della implicazione rigida senza sostenere che l ' im­ plicazione rigida rappresenti il significato di "implica". Questa differenza nel modo di procedere tra antichi e moderni comporta un'ulteriore differenza formale: mentre i logici antichi erano interessati a dare un'unica definizione, i moderni lo sono a fornire due definizioni: quella di "im­ plicazione materiale" e quella di "implicazione rigida". 6.2.4.2 L'implicazione filoniana Filone è il primo esponente della scuola megarico-stoica citato da Sesto ed è il primo che dà un'interpretazione vero­ funzionale dell'espressione "Se p, allora q": secondo lui, un'espressione condizionale è valida se, e solo se, non co­ mincia con il vero e finisce con il falso. Come abbiamo già visto, la definizione che Filone dà del criterio di consequen­ zialità (ako/outhfas kritrion) corrisponde al quadro del­ l'implicazione materiale. Infatti sono tre i casi in cui il con­ dizionale è valido, corrispondente ai tre esempi seguenti: (i) "Se è giorno, c'è luce" (VV); (ii) "Se la terra vola, la terra ha le ali" (FF); (iii) "Se la terra vola, la terra esiste" (FV). Come sottolineano i Kneale (1962: tr. it. 157), è probabi­ le che Filone avesse in mente l'uso dell'espressione "Se p, allora q" nei ragionamenti e che volesse attirare l'attenzione sul fatto che la congiunzione dell'asserto condizionale con il suo antecedente implicita sempre il conseguente. L'inter­ pretazione proposta da Filone è la più debole che soddisfi tale requisito.  6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 155 6.2.4.3 L'implicazione diodorea Diodoro Crono era il maestro di Filone, e la ragione per cui Sesto lo cita per secondo può essere forse attribuita al fatto che, mentre Diodoro riuscì a confutare Filone, que­ st'ultimo non riuscì a fare altrettanto con il primo (Hurst 1935: 435 n.). La critica che Diodoro muove all'interpretazione filonia­ na insiste proprio sul carattere di debolezza di quest'ultima. Egli individua infatti degli esempi di condizionale che, pur potendo soddisfare il requisito filoniano in un tempo tt , possono tuttavia mancare di soddisfarlo in un altro tempo t2. A esempio, l'asserto "Se è giorno, io sto conversando" sarebbe considerato vero da Filone se si dessero le condizio­ ni , in un tempo t  , per cui fosse giorno e io stessi conversan­ do. Diodoro invece dimostra che esso è falso, sostenendo che non c'è niente nella sua natura che permetta di dire se esso cada o no sotto la definizione di Filone. Infatti esso potrebbe essere pronunciato anche in un tempo t2, quando fosse giorno, ma io rimanessi silenzioso. In questo caso es­ so avrebbe la forma invalida VF. Per ovviare a questo inconveniente, Diodoro elabora una concezione secondo la quale un condizionale è valido quan­ do "non ammise, né ammette di cominciare con il vero e fi­ nire con il falso".40 L'esempio che egli dà è "Se non esisto­ no gli elementi atomici delle cose, allora esistono gli ele­ menti atomici delle cose", che, secondo Diodoro, ha l'ante­ cedente sempre falso e il conseguente sempre vero: ciò ba­ sterà a escludere l'evenienza di un antecedente vero con un conseguente falso, unico caso in cui il condizionale sarebbe non valido.41 6.2.4.4 L'"implicazione connessiva" ("synartesis") di Cri­ sippo La terza concezione di condizionale valido riportata da Sesto è quella che, secondo diversi studiosi moderni (Mates  1 56 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI 1949 a; Bochenski 1951 e 1956), corrisponde alla implica­ zione rigida di Lewis o comunque a una forma di implica­ zione necessaria (Kneale 1962; Preti 1956). In maniera con­ corde con il passo di Sesto, che abbiamo visto, questa con­ c e z i o n e v i e n e r i p o rt a t a d a D i o g e n e ( Vi t a e , V I I , 7 3 ) : " È v e r o un condizionale nel quale il contraddittorio (antikefmenon) del conseguente è incompatibile (macheta1) con l'anteceden­ te, come a esempio 'se è giorno, c'è luce' ". Il nome del sostenitore di questa concezione non ci è sta­ to lasciato da chi la riferisce; ma vi sono prove che essa ap­ partenesse a Crisippo (cfr. anche Miiller 1978: 18-19). La nozione di "incompatibilità", messa in scena da que­ sta definizione, è molto interessante, ma problematica in quanto non viene chiaramente definita. Martha Hurst (1935: 495), commentando il passo, tende a mostrare che la relazione di incompatibilità e anche, più in generale, quella di "consequenzialità" (jollowing), non possono essere espresse in termini estensionali, cioè mediante relazioni esterne, che sussistono tra le proposizioni in virtù di pro­ prietà che esse avrebbero al di fuori della relazione: al con­ trario, è necessario ricorrere alle relazioni interne che sussi­ stono in virtù del loro significato. Può essere interessante confrontare questa conclusione di M. Hurst con le osservazioni di Preti (1956: 13), il quale so­ stiene che l'esempio di Sesto, dato a proposito della synar­ tsis "sembra alludere a qualcosa di ancora più forte (della strict implication di Lewis): alla vera e propria tautologia". Preti basa la sua osservazione sulle notizie circa la dottrina stoica che vengono riportate da Filodemo nel De signis. In effetti in quel testo (come vedremo meglio nel capitolo spe- cificamente dedicatogli) è presentato come genuinamente stoico il metodo inferenziale della "contrapposizione" (ana­ skeu), che appare analogo a quello della synartsis. Infatti, l'inferenza per "contrapposizione" è quella in cui la negazione del conseguente comporta la negazione del­ l'antecedente. Essa si configura in maniera tale che la verità del condizionale "Se il primo, allora il secondo" è garantita dalla verità del corrispondente condizionale "Se non il se­ condo, non il primo".42  6.3 CONCLUSIONI 157 Preti sottolinea le affinità tra la synartsis (secondo cui la negazione del conseguente è incompatibile con l'anteceden­ te) e il metodo di contrapposizione (anaskeu) (in cui la ne­ gazione del conseguente comporta la negazione dell'antece­ dente), e in entrambi i casi chiama in causa la implicazione rigida di Lewis, con la precisazione che gli esempi forniti da Filodemo sembrano indicare un rapporto più forte, che ten­ de a risolvere l'inferenza o in una forma di tautologia o in una forma di L-implicazione. 6.3 Conclusioni Nel passaggio dalla teoria aristotelica del segno a quella stoica c'è, come abbiamo visto, uno spostamento di accento dai termini su cui si costruiscono le proposizioni categori­ che nel sillogismo, alle relazioni tra le proposizioni nell'as­ serto condizionale. Contemporaneamente si registra un'ac­ centuazione del carattere, già presente in Aristotele, di con­ sequenzialità necessaria che la relazione segnica è chiamata a istituire: l'inferenza dal termine noto a quello non noto deve presentare un carattere cogente. Ci sono due ragioni di questo aspetto necessaristico della semiotica stoica, una legata ali'analisi della natura della ra­ gione e dei suoi processi, l'altra riferibile alla configurazio­ ne della metafisica stoica (De Lacy 1978: 208). Per il primo punto è Sesto43 stesso a informarci che gli stoici ritenevano che l'uomo si differenzia dagli animali per la sua capacità di "discorso interno " (16gos endiathetos) e in virtù della sua abilità di combinare i concetti e di passare dall'uno all'altro. L'uomo possiede infatti la nozione di consequenzialità (akolouthfa) e con ciò egli possiede anche la nozione di segno, che ha appunto la forma: "Se questo, allora quest'altro". Così l'esistenza del segno si pone in stretta dipendenza dalla natura del pensiero umano. Quanto al secondo punto, la metafisica stoica poggiava sull'idea che il reale fosse costituito da una catena ininter­ rotta di eventi, legati tra loro da rapporti di causa-effetto. Tali relazioni erano .:oncepite come necessarie in quanto di-  158 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI pendenti daiPordine razionale istituito dalla divinità. In questo modo, la consequenzialità necessaria nella relazione segnica valida riproduce quella stessa consequenzialità che si rintraccia a livello della concatenazione degli eventi.44 L'insistenza che gli stoici pongono sull'asserto condizionale e sull'inferenza da segni indica proprio l'enfasi da loro col­ locata sulla relazione necessaria tra concetti e proposizioni a livello logico e tra cause ed effetti a livello metafisica. Su queste basi, del resto, riposa la stessa accettazione, con riserva, della divinazione da parte degli stoici. La divi­ nazione consiste, infatti, nel cogliere la relazione che colle­ ga certi avvenimenti presenti e altri che avverranno.4Ora, per quanto la razionalità degli uomini sia sostanzialmente dello stesso tipo di quella che hanno gli dei, tuttavia questi ultimi possiedono la conoscenza dell'intera catena causale che lega gli eventi ("conligatio causarum omnium"),46 men­ tre ai primi è preclusa. Gli uomini non possono conoscere dunque le cause ma solo gli indizi caratteristici delle cause ("signa [.. . ] causarum et notas") degli eventi e su questi si basano per predire il futuro. Ma, a differenza di quanto av­ verrebbe per gli dei, i condizionali degli uomini intorno al futuro mancano di necessità. Nel caso della scienza umana (che per gli stoici equivale a quello della dialettica) il segno deve basarsi su un'impli­ cazione necessaria. Ma questa, che è una caratteristica irri­ nunciabile, non è tuttavia sufficiente a definire un segno. Infatti, in un condizionale come: "Se è giorno, c'è luce»47 il giorno non potrebbe essere considerato un segno della luce in quanto entrambe le cose sono evidenti e quindi l'in­ ferenza non può provare nulla. La verità su cui si basa è certamente a priori e analitica, come sembra richiesto nel caso delle verità necessarie, ma tale condizionale è privo della caratteristica di permettere di scoprire una nuova co­ noscenza. Il segno stoico, in conclusione, si deve inquadrare in uno schema logico (che è quello deli'implicazione necessaria), ma deve contemporaneamente superarlo per collocarsi in un'ottica epistemologica, nella quale esso diventa fattore dell'accrescimento del sapere: bisogna sempre tener presen-  6.3 CONCLUSIONI 1 59 te che l'essenza del segno è l'inferenza che va dalle cose ma­ nifeste a quelle non percepite. Ma a questo punto sembra delinearsi nella semiotica stoi­ ca un problema difficilmente resolubile: come è possibile che l'inferenza segnica sia analitica (se si pensa alla L-impli.. cazione di cui parla Preti) e contemporaneamente fornisca una nuova conoscenza (la scoperta di un fatto nascosto)? Prendiamo come esempio di segno una dimostrazione (infatti anche la dimostrazione viene considerata, secondo la testimonianza di Sesto, un segno):48 - sono pori intellegibili nella pelle. - Il primo. - Dunque , il secondo . Qui l'inferenza è condotta dal fatto percepibile rappre­ sentato dallo scorrere del sudore al fatto nascosto che esi­ stano pori nella pelle. La presenza dei pori è un fatto oscuro per natura: infatti essi possono soltanto essere conosciuti dalla mente (noto1), ma non dai sensi in un'epoca in cui il microscopio non era ancora stato inventato. Sesto aggiun­ ge, come argomento rafforzativo delle premesse nel ragio­ namento precedente, un'ulteriore argomentazione:49 - compatto e non poroso. - Il sudore scorre attraverso il corpo. - Pertanto non è possibile che il corpo sia compatto, ma esso è poroso. La premessa maggiore di questa argomentazione sembra essere basata sul test di contrapposizione (Q::jJ) applicato alla premessa maggiore del precedente. Infatti se al condi­ zionale: p (se il sudore scorre attraverso la superficie del corpo) ::q (ci sono pori intellegibili nella pelle) Se il sudore scorre attraverso la superficie del corpo, ci È impossibile che un liquido scorra attraverso un corpo  160 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI applichiamo il test di contrapposizione, otteniamo l} (se la pelle è un corpo compatto e non poroso) :>p (un li­ quido non vi può scorrere attraverso), espressione che è alla base della premessa del secondo ra­ gionamento di Sesto. Essa permette di sviluppare un ragio­ namento corrispondente al modus tollens, che convalida la conclusione del primo ragionamento. Non si saprebbe dire se gli stoici riescano a evitare, con il ricorso alla contrapposizione, la contraddizione che esiste tra la richiesta di una relazione necessaria e a priori tra le due proposizioni del condizionale e la necessità che il segno produca nuova conoscenza. Di fatto la contrapposizione rende necessaria la relazione anche nel caso di verità fattua­ li, poiché parte dall'assunzione che il fatto oscuro per natu­ ra sia legato a quello evidente in modo tale che ciò che è evi­ dente non potrebbe esistere se il fatto non percepito non fosse quale viene rivelato essere. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO 7.O Introduzione Contemporaneo allo sviluppo della riflessione stoica sul segno è il capitolo della semiotica antica scritto dalla scuola epicurea. Uno dei cardini dell'epistemologia epicurea, in­ fatti, è il principio semiotico del congetturare dai fenomeni visibili fatti che sono per natura non percepibili con i sensi. Gli stessi elementi fondamentali della metafisica epicurea (cioè l'esistenza degli atomi e del vuoto, le configurazioni e le ragioni dei fenomeni celesti) vengono stabiliti attraverso inferenze semiotiche che partono dai fenomeni percepibili: Gli indizi (semeia) dei fenomeni celesti ce li forniscono alcuni fenomeni che accadono presso di noi, e che si vede dove e come avvengono, e non i fenomeni celesti stessi, che possono avvenire in molte maniere. (Epic., Epistula ad Pythoclem, 87) Epicuro rifiutava il ragionamento deduttivo, tipico di Aristotele e degli stoici, giudicandolo vuoto e privo di utili­ tà, ma accettava e valorizzava l'inferenza analogica che si sviluppa a partire dai segni. Nel periodo ellenistico, anzi, gli epicurei divennero i portabandiera di un metodo di ragiona­ mento qualificabile come "induzione semiotica", e proprio sul metodo deli ' in ferenza si posero in polemica con gli esponenti della scuola stoica. Un intero trattato del I secolo a.C. , il Perì smelon kaì smeioseon (Sui segni e sulle infe-  162 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO renze), redatto dall'epicureo Filodemo di Gadara, è dedica­ to, del resto, al dibattito intercorso fra stoici ed epicurei sul tema dell'inferenza semiotica.1 Epicuro, così, e la scuola epicurea nel suo insieme, pro­ pugnano la possibilità di elaborare giudizi che siano oggetti­ vamente validi su fenomeni non direttamente conosciuti at­ traverso l'esperienza, sulla base di inferenze elaborate a partire dai segni. Il problema centrale diviene, allora, quello di stabilire il criterio per verificare se ed entro quali limiti tali giudizi pos­ sano essere considerati attendibili o non attendibili (cioè ve­ ri o falsi) e di fornire le basi per poter dire se certe asserzio­ ni corrispondano effettivamente ai fatti che esse descrivo­ no. Si fa strada quindi la nozione di "criterio di verità", che costituisce la cornice di sfondo all'interno della quale si col­ locano tanto la teoria deli'inferenza semiotica quanto la teoria del linguaggio. In effetti il criterio di verità è non uni­ co, ma molteplice: secondo la testimonianza di Diogene Laerzio,2 esso comprende le sensazioni (aisthseis), le affe­ zioni (path), le preconcezioni (prolpseis), a cui può essere aggiunta, per motivi che vedremo, l'evidenza immediata (enargheia). I criteri di verità, e tra essi la pro/essi ("antici­ pazione", "preconcezione") in particolare, giocano un ruo­ lo fondamentale in entrambe le teorie sia nella teoria del­ l'inferenza3 sia nella teoria del linguaggio;4 in questo modo essi costituiscono un elemento di connessione tra le due teo­ rie. Tuttavia ciò non è ancora sufficiente a permettere un'articolazione comune tra segno inferenziale e segno lin­ guistico, che rimangono ancora una volta oggetti di due in­ dagini separate. Si ricorderà che anche per gli stoici la teoria del segno lin­ guistico, chiamato smafnon, nasceva ali'interno di una di­ scussione sul criterio di verità e sul "vero"; e anche in quel caso il segno inferenziale, chiamato smefon, non aveva al­ cun punto di contatto con il precedente se non per il ruolo giocato dalla nozione di lekt6n, a cui spettava il carico di essere vero o falso. Si deve però notare una peculiarità della semiotica epicurea: essa si arricchisce anche di una teoria deli'immagine percettiva, che si collega al criterio di verità,  7 . l CRITERIO DI VERITÀ ED EPISTEMOLOGIA EPICUREA 1 63 ma che anticipa anche alcuni problemi interessanti per una teoria semiotica deli'iconismo. Così, nei paragrafi seguenti esamineremo le questioni del criterio di verità, della prolessi e deli'immagine percettiva in Epicuro, che collegheremo con la teoria deli'inferenza se­ miotica, da una parte, e con la teoria del linguaggio, dall'al­ tra. Gli sviluppi che la teoria semiotica epicurea avrà nel trattato De signis di Filodemo saranno esposti , data la loro ampiezza, a parte nel prossimo capitolo. 7.1 ll criterio di verità e l'epistemologia epicurea L'impostazione generale della filosofia di Epicuro, dal punto di vista epistemologico, è un tentativo di fondare la conoscenza su basi puramente empiriche. In primo piano vengono posti i fatti o gli oggetti; ma anche le parole essen­ zialmente costituiscono una via per giungere alle cose. In questo modo si presentano per la filosofia due metodi di ri­ cerca: (i) uno orientato alla conoscenza che proviene dalle parole; (ii) l'altro a quella che proviene direttamente dalle cose.s Tuttavia il primo è considerato un processo prelimi­ nare rispetto al secondo, e spesso la conoscenza che si ottie­ ne attraverso gli strumenti del linguaggio, come quella che si produce attraverso le proposizioni, è vuota e inganne­ vole.6 Il fondamento ultimo della conoscenza sono i criteri di verità, i quali sono in grado di procurare all'uomo niente­ meno che l'imperturbabilità.7 Essi sono dunque posti alla base stessa della filosofia generale di Epicuro; del resto essi erano trattati in un'opera perduta, intitolata Canone, in cui era contenuta la materia propedeutica rispetto all'intero si­ stema dottrinario.8 Se noi pensiamo alla verità in termini moderni , cioè come una funzione delle proposizioni, corriamo il rischio di non comprendere il pensiero di Epicuro. In effetti, nella lingua greca in generale, l'aggettivo althés ("vero") può servire tanto a qualificare la verità di una proposizione, quanto a indicare ciò che sussiste di fatto o che è reale. In Epicuro, in  164 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO particolare, l'aggettivo "vero" implica un'effettiva consape­ volezza di qualcosa. Si giustifica così la sua applicazione al­ le sensazioni e alle affezioni, in quanto dire che una certa sensazione (o una certa affezione) è vera equivale a dire che essa fornisce un indizio effettivo su un fatto reale, renden­ docene consapevoli.9 Prima di passare in rassegna le varie forme del criterio di verità, è necessario sottolineare fin d'ora come esso sia fun­ zionale a una teoria dell'inferenza semiotica. Infatti esso tende a stabilire delle verità basilari riguardanti le cose per­ cepibili, che servono a loro volta come punto di partenza per fare inferenze intorno alle cose non direttamente rag­ giungibili con i sensi.10 7.2 Le forme del criterio di verità Epicuro, dunque, considerava come criteri di verità le sensazioni, le p[econcezioni (o prolessi), le affezioni (o sen­ timenti). 1 1 Nel paragrafo 82 della Lettera ad Erodoto veni­ va fatto cenno anche alla enargheia ("evidenza immediata, o "chiara visione"). Riferendosi a questi passi, Long (1971 b: 116) fa una interessante proposta circa l'organizzazione interna delle forme del criterio di verità. Suggerisce infatti di ordinarie in modo gerarchizzato: in primo luogo ci sono le affezioni e le sensazioni; poi l'evidenza immediata; infine le preconcezioni. Secondo Long, le prime due hanno un va­ lore di verità puramente soggettivo, se prese da sole, e devo­ no essere coordinate all'evidenza immediata e alle prolessi, per giungere a costituire un criterio oggettivo. Le affezioni e le sensazioni comportano la consapevolez­ za di qualcosa, e la loro "verità" consiste proprio in questa consapevolezza, anche se, appunto, soggettiva. Si possono riprodurre le relazioni tra le forme del criterio di verità se­ condo il seguente schema:  7.3 TEORIA DEI SIMULACRI 165 criteri di veritè  consapevolezza consapevolezza soggettiva oggettiva ll affezioni sensazioni evidenza 7.3 Teoria dei simulacri prolessi   Finora abbiamo considerato il processo conoscitivo dalla parte del soggetto che prova una sensazione o ha una affe­ zione in relazione agli stimoli esterni. Se consideriamo lo stesso processo dalla parte opposta, cioè partendo dall'oggetto, possiamo constatare che Epicu­ ro aveva elaborato una vera e propria teoria dell'immagine che ha molti elementi di interesse per una semiotica dell'ico­ nismo. Dal paragrafo 46 della Lettera ad Erodoto Epicuro inizia a parlare del modo in cui si rende possibile la perce­ zione degli oggetti. Questi ultimi, infatti, emettono in conti­ nuazione degli efflussi di atomi estremamente fini, che compongono configurazioni in tutto e per tutto identiche alla forma esterna dei corpi solidi.12 Queste configurazioni prendono il nome di simulacri (eldO!a). Essi viaggiano a una velocità estremamente alta e possono penetrare nei no­ stri organi di senso o nella nostra mente, e lì produrre un ' immagine (phantasfa) più o meno esatta del corpo da cui i simulacri sono stati emanati. Il processo può essere sche­ matizzato così: oggetti - - - - - - - -  simuh1cri - - - - - - - - .-.. immsgini mentali (stertJmnia) (sfd"lJfs) (phsntssfst)  166 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO Quella di Epicuro può essere definita una teoria "causa­ le" (Long 1 97 1 b: 1 1 7) della percezione, in quanto gli ogget­ ti sono responsabili dell'esistenza dei simulacri e questi ulti­ mi causano direttamente il formarsi delle immagini nella mente. Si deve però dire che le immagini sono una diretta conseguenza dei simulacri, ma solo secondariamente una conseguenza degli oggetti, dai quali possono anche essere difformi. In effetti la continuità del processo può essere interrotta al livello del passaggio dell'efflusso dagli oggetti esterni ai simulacri . Questi ultimi , sebbene di solito risultino delle co­ pie esatte degli oggetti, talvolta possono subire delle modifi­ cazioni per il fatto di entrare in collisione con altri atomi nel passaggio attraverso l'aria e possono anche ridursi in di­ mensione nel momento in cui entrano in una persona (in quanto, anche in questo caso, entrano in collisione con altri atomi). 1 3 Epicuro è, con questa teoria, impegnato a rendere conto del fatto che gli oggetti, visti da vicino, presentano certe di­ mensioni, mentre ne presentano altre, molto minori, se visti da lontano, senza entrare in contraddizione con il principio che la sensazione è garanzia di verità in ogni caso, e ci si troverebbe di fronte veramente a una contraddizione se la phantasfa fosse un'immagine dell'oggetto, mentre in realtà è un'immagine del simulacro (ekiOion). Sesto Empirico sembra riportare correttamente il pensie­ ro di Epicuro quando cita, a questo proposito, l'esempio della "torre": Così io non oserei dire che la vista suggerisca il falso per il fatto che a grande distanza essa vede la torre piccola e rotonda e a di­ stanza accorciata la vede più grande e quadrata, ma direi piut­ tosto che la vista suggerisca il vero, perché l'immagine ricevuta dai sensi, quando le appare piccola e di una certa forma, è real­ mente piccola e di quella determinata forma, per il fatto che i li­ miti appartenenti ai simulacri (eldola) vengono cancellati dal passaggio attraverso l'aria. (Sext. Emp., Adv. Math., VII, 208-209)  7.4 TEORIA DELL'ERRORE E DELL'OPINIONE 167 In effetti, ciò che i sensi recepiscono è il flusso di atomi che si stacca dall'oggetto e che costituisce il suo simulacro e non l'oggetto stesso. Tale flusso, passando attraverso l'a­ ria, si altera nella sua configurazione, producendo la diver­ sità delle immagini che si hanno dello stesso oggetto. Cosi ogni immagine mentale (phantasfa) è effettivamente vera perché è relativa non all'oggetto, ma a ciascuno dei simula­ cri dell'oggetto, che sono diversi in relazione alla distanza percorsa per raggiungere il soggetto che percepisce. L'importante è non identificare il simulacro che si produ­ ce nelle vicinanze dell'oggetto con quello che si ha in una vi­ sione a distanza. 7.4 Teoria dell'errore e dell'opinione Il tema deli'inferenza semiotica diventa sempre più cen­ trale nel campo dei processi percettivi quando si abbandona il terreno sicuro della sensazione per esplorare quello insi­ dioso delle opinioni, in cui si può verificare l'evenienza del­ l'errore. Se gli uomini si attenessero soltanto alle loro sen­ sazioni e si limitassero a descrivere le loro immagini mentali (phantasfa1), non ci sarebbe possibilità di errore. Ma ciò non avviene, e l'errore sorge quando viene ad aggiungersi alla sensazione qualche processo mentale che Epicuro, nella Lettera ad Erodoto (5 1), chiama "secondo movimento" (al­ l klnèsis). Long (1971 b: 1 18) identifica questo "secondo movimen­ to" proprio con il processo di elaborazione deli'opinione. Infatti Epicuro dice che esso è "connesso" con il primo mo­ vimento (cioè la semplice apprensione di immagini), ma, a differenza di questo, "ammette una distinzione": quella tra il falso e il vero. Il primo movimento, cioè l'apprensione di immagini, non ammette alcuna distinzione di questo gene­ re, perché è prodotto da cause esterne, ovvero dai simula­ cri; il secondo movimento, invece, consistendo nell'aggiun­ ta di un giudizio che noi facciamo su queste immagini, può ricevere conferma o attestazione contraria. Si può così sche­ matizzare il processo:  168 7. INFERENZA E LINOUAOQIO IN EPICURO processo conoscitivo / apprensione di immagmi lphsntsstik epiboli'J sempre vera opinione (d6xs)   conferma e non attestazione contraria vera attestazione contraria e non conferma falsa  In effetti, se, sulla scorta di una visione distante e oscura, io dico, traducendo in parole le mie sensazioni: "Quella ha le apparenze di una torre rotonda" , io parlo in maniera veri­ tiera; ma se dico: "Quella è una torre rotonda", il mio giu­ dizio è disconfermato nel caso che, avvicinandomi, riceva l'immagine di una torre quadrata. In definitiva, le immagi­ ni sono tutte vere mentre le opinioni sono alcune vere e altre false. 14 Quello che comunque risulta è il carattere congettu­ rale dell'opinione. 7.5 La congettura È naturale che all'interno di una teoria dell'opinione uno spazio privilegiato venga dedicato alla congettura. Infatti, in generale, la congettura consiste proprio in un'ipotesi co­ noscitiva su una dimensione che va oltre ciò che può essere colto attraverso i sensi. L'opinione, come la concepisce Epi­ curo, è associata esattamente a queste caratteristiche, consi­ stendo appunto in un giudizio che prevede l'impegno del soggetto su qualcosa che attende conferma. Ci sono alcune parole chiave che definiscono il processo conoscitivo attuato attraverso l'opinione. La prima è pro-  7.5 LA CONGETTURA 169 sménon, "ciò che attende conferma", 1 5 che è appunto l'og­ getto sul quale si esercita il giudizio. Una seconda e una terza parole chiave, collegate tra loro da una relazione di antonimia, sono epimartjrsis "attesta­ zione" e antimartjrsis "attestazione contraria" o "conte­ stazione". Tuttavia, il sistema di Epicuro per la conferma o la disconferma di una certa opinione non gioca su due, ben­ si su quattro termini: c'è infatti conferma quando si ha "at­ testazione" o "non contestazione"; c'è disconferma quando c'è "contestazione" o "non attestazione". Si viene cosi a creare un vero quadrato semiotico: attestazione contestazione ( epimsrtyrlJsis) non contestazione (ouk sntimsrtyrsis) ( sntimsrtyrlJsis) non attestazione (ouk epimsrf'jrlJsis)  in cui, per Epicuro, due termini (o quelli della deissi positi­ va, o quelli della deissi negativa) congiuntamente sono ne­ cessari per decidere di un'opinione. 1 6 Tuttavia ciascuno dei quattro termini è idoneo a stabilire la validità di un'opinione. Infatti nella teoria semiotica ri­ portata nel De signis da Filodemo, il criterio per decidere sulla validità di un'inferenza induttiva sarà rappresentato dalla sola non contestazione, ovvero dal non conflitto del­ l'espressione segnica con i fenomeni percepibili. Nel quadrato di Epicuro sorge il problema di stabilire un criterio per definire in che cosa consista il termine base, cioè l'attestazione. Questo criterio è rintracciabile nella enargheia ("l'eviden­ za", "la chiara visione"), come ci dice Sesto:  170 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO Ed è attestazione (epimartjris) una apprensione, conseguita mediante evidenza (di' enarghefas), del fatto che l'oggetto opi­ nato è appunto quello che precedentemente veniva opinato, co­ me, ad esempio, se Platone da lontano incede verso di me, io congetturo ed opino, a causa della distanza, che si tratti di Pla­ tone, e, quando egli mi si è accostato, viene attestato che si trat­ ti eli Platone, mercé la soppressione della distanza, e la confer­ ma si è avuta in virtù della stessa evidenza. (Sext. Emp., Adv. Math., VII, 212) In effetti Epicuro era ben consapevole del fatto che si possono commettere degli errori neli'identificazione o nel riconoscimento degli oggetti della percezione e, probabil­ mente, egli pensava che in ogni atto percettivo, accanto alla pura e semplice sensazione, anche la d6xa gioca sempre un ruolo. In questo modo la congettura diviene onnipresente, in quanto è coinvolta in ogni atto percettivo. Di conseguen­ za, la funzione che vengono ad assumere le sensazioni e le immagini mentali è quella di fornire i dati sulla base dei quali elaborare le congetture. 1 7 Nella Lettera ad Erodoto (38) sembrano essere presi in considerazione due tipi di oggetti sui quali l'inferenza se­ miotica si esercita: (l) ciò che attende conferma (prosménon) (2) ciò che non cade sotto i sensi (adlon) che danno luogo a due tipi di processi inferenziali. Il primo è relativo al genere di congettura che si instaura all'interno degli stessi processi percettivi ed è illustrato dal­ l'esempio, riportato da Sesto, del vedere in lontananza Pla­ tone che si avvicina, e poter solo congetturare che si tratti proprio di lui. In questo caso l'oggetto su cui si esercita la congettura è qualcosa che viene colto dai sensi, ma non di­ stintamente. Tuttavia, questo processo si conclude con una verifica: in questo caso, la conferma del dato congetturato, attraverso una visione chiara. Chiameremo questo tipo in­ ferenza percettiva. Il secondo è relativo all'inferenza su cose assolutamente escluse dal processo percettivo: è il caso della congettura nel senso fliù classico. Anche di questo ci fornisce un esempio Sesto. 8 Si tratta di risalire dali'esistenza del moto (cioè di  7.6 L'INFERENZA DA SEGNI 171 un elemento percepibile, un phain6menon) all'esistenza del vuoto (cioè di un elemento non percepibile, adlon). È la ti­ pica relazione logica di implicazione (chiamata da Sesto akolouthfa) tra un antecedente e un conseguente. Chiame­ remo questo secondo tipo di processo inferenza al non per­ cepibile. 7.6 L'inferenza da segni L'inferenza al non percepibile è una tipica inferenza da segni. Infatti in molti casi, come quello che abbiamo visto, "Se c'è moto-+c'è vuoto", non è possibile conoscere diret­ tamente l'oggetto sul quale viene fatta l'inferenza ("il vuo­ to"), ma lo si deve attingere attraverso un segno ("il mo­ to"). In effetti, anche per Epicuro, l'inferenza da segni è connessa con la possibilità di ampliare i limiti della cono­ scenza oltre la sfera degli oggetti sensibili. È proprio grazie a una teoria dell'inferenza segnica che la scuola epicurea riesce a superare i limiti del proprio radicale empirismo, aprendo la via anche alla conoscenza di fenomeni non per­ cepibili direttamente dai sensi. Anzi, nel De signis di Filode­ mo (fr. 2), c'è un esplicito invito a considerare le conoscen­ ze ottenute tramite inferenza, altrettanto sicure di quelle di­ rette. Un programma conoscitivo di questo tipo presuppone un'epistemologia che divide gli oggetti in quattro categorie, in maniera del resto non molto diversa da quanto avveniva nella semiotica stoica: ( l ) Oggetti o fatti evidenti (enarghi): "quegli oggetti che vengono recepiti involontariamente per mezzo di una rappresentazione o di una affezione" (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 316). Come esempi vengono dati il fatto che sia giorno o il riconoscimento che una certa persona è un uomo. (2) Oggetti oscuri in modo assoluto (phjsei adla): "quegli oggetti che né furono conosciuti nel passato, né sono conosciuti nel presente, né saranno conosciuti nel futu-  172 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO ro, ma sono inconoscibili in eterno" (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 317-318). Come esempio viene data l'im­ possibilità di conoscere se il numero delle stelle sia pari o dispari. Fatti di questo genere sono inconoscibili, co­ me spiega Sesto, non per la loro natura, ma per la no­ stra natura, dato il tipo di limitazioni a cui è sottoposta la conoscenza umana. (3) Oggetti oscuri di per sé (ghénei adla): "quegli oggetti che sono oscuri per la propria natura, ma che si stima vengano conosciuti per mezzo di segni e di dimostrazio­ ni" (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 319). Gli esempi so­ no gli atomi e il vuoto infinito. L'esistenza degli atomi e del vuoto era postulata da Leucippo e da Democrito su basi puramente razionali, ma Epicuro insisterà, in con­ formità con il suo empirismo, che possono essere cono­ sciuti attraverso l'inferenza analogica. (4) Oggetti che attendono conferma (prosménonta): sono quegli oggetti posti immediatamente oltre la nostra esperienza (Ep. Hdt. , 38), la cui conoscibilità è limitata da fattori, quali la distanza nello spazio o il loro essere situati nel futuro. Come si può vedere, gli unici oggetti che possono essere conosciuti attraverso l'inferenza sono quelli che apparten­ gono alla terza e alla quarta classe. Essi sono da porre in corrispondenza con i due tipi di inferenza di cui abbiamo già parlato. L'inferenza percettiva, infatti, verte intorno agli oggetti appartenenti alla quarta classe, quelli "che attendono con­ ferma". L'inferenza al non percepìbile, invece, verte intorno agli oggetti appartenenti alla terza classe, cioè è rivolta alla co­ noscenza di quegli oggetti che sono "oscuri di per sé" e che non arrivano mai a essere esperiti dai sensi . In questo caso il metodo di verifica assume una forma indiretta: la "non at­ testazione contraria" (ouk antimartjresis). Il vuoto, come abbiamo visto, non è verificabile per esperienza diretta, ma gli epicurei sostengono che la sua esistenza non è in contra­ sto con nessun fatto conosciuto, 1 9 mentre la sua negazione  7.7 LA PROLESSI 173 entra in conflitto con l'esperienza empirica del movimento, che richiede il vuoto per attuarsi. Il cuore del ragionamento basato sulla non attestazione contraria consiste nel fatto che, quando si hanno due proposizioni contraddittorie in­ torno a qualcosa che non è percepibile, e una di esse risulta falsa in base a una prova empirica (nell'esempio preceden­ te, la non esistenza del vuoto, in quanto entra in conflitto con l'esistenza del moto), allora l'altra può essere conside­ rata vera (De Lacy 1978: 188). 7.7 La prolessi La prolessi (o "anticipazione" o "preconcezione") costi­ tuisce il secondo dei due criteri di verità che abbiamo defini­ to "oggettivi". Essa ha un ruolo determinante nell'inferenza percettiva, come mostra Diogene: Per esempio, per poter affermare: "Ciò che sta lontano è un ca­ vallo o un bue", dobbiamo per prolessi (o anticipazione) già aver conosciuto una volta la figura di un cavallo e di un bue. (Diog. Lai!rt.. Vitae, X, 33) In effetti la protessi è necessaria perché si abbia percezio­ ne in senso proprio, cioè affinché si passi dalla semplice consapevolezza del fatto che si sta vedendo un'immagine, al giudizio oggettivo che questa è immagine di un oggetto pre­ ciso. In altre parole, secondo Epicuro, per poter effettiva­ mente percepire un cavallo o un bue, si deve: l . avere avuto precedentemente un'immagine di questi animali; 2. averla immagazzinata nella mente; 3. effettuare un confronto con i dati che vengono forniti dalla propria attuale sensazione. Le prolessi sono in realtà delle immagini mentali o dei concetti che si sono formati in seguito a numerose esperien­ ze relative agli oggetti esterni. Esse hanno due caratteri fon­ damentali: (i) sono strettamente legate alla memoria di esperienze precedenti; (ii) sono evidenti (enargeis). Come concetti, le prolessi non necessariamente corri­ spondono a singoli oggetti esterni, ma costituiscono piutto-  174 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO sto il tipo, di cui le singole esperienze percettive sono le oc­ correnze. Ciò, del resto, è strettamente collegato al fatto che esse rappresentano un test di verità: solo possedendo il concetto generale di "uomo", si può decidere se ciò che si ha di fronte sia o non sia un'occorrenza particolare di esso. 7.8 La teoria del linguaggio Le protessi costituiscono anche una condizione necessaria del linguaggio e agiscono tanto al livello della decodifica quanto a quello della codifica. Infatti, da una parte, l'atto di pronunciare un nome (a esempio juomol) richiama nella mente dell'ascoltatore un'immagine o un concetto, cioè un'entità che è soggiacente, hyfootetagménon, a quel nome e che è derivata dalla protessi; 0 potremmo dire che la pre­ senza di un significante fa scattare nell'ascoltatore I'abbina­ mento con un significato. Dall'altra, il Iocutore deve posse­ dere una preconcezione di ciò che intende esprimere, altri­ menti non gli sarebbe possibile dire niente: in questo caso, il locutore codifica un significato presente nella sua mente per mezzo di un artificio espressivo (un "nome"). Nella teoria epicurea la prolessi sembra coinvolta in ogni caso nella formazione dei concetti. Infatti Diogene dice che "tutti i concetti (epfnoia1) sorgono dalle sensazioni, o per diretta esperienza, o per analogia, o per somiglianza, o per combinazione, con una certa collaborazione anche da parte del ragionamento" ( Vitae, X, 32). Long (1971 b: 1 19) sug­ gerisce di identificare con le prolessi la prima classe di con­ cetti, cioè quelli che sorgono per diretta esperienza dalle sensazioni. Se dunque le prolessi sono alla base di ogni concetto, si viene a configurare una teoria del segno linguistico sensibil­ mente diversa da quella che è normalmente attribuita agli epicurei sulla scorta delle testimonianze di Sesto e di PIutar­ co.21 Questi ultimi, infatti, sostenevano che nella teoria lin­ guistica di Epicuro solo due fattori erano implicati: la cosa significante (sèmainon, o voce, ph(Jn) e la cosa designata (tynchanon). In effetti, la ragione per cui Plutarco e Sesto  7.8 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 175 trascurano le protessi nella teoria del significato linguistico è imputabile al fatto che essi non vedono nella teoria epicu­ rea niente di simile al lekt6n stoico, che è contemporanea­ mente incorporeo e completamente diverso da un'immagine mentale. Ciò non impedisce, tuttavia, alle protessi di avere la stes­ sa funzione dei lekta stoici, cioè di costituire un elemento di mediazione tra le parole e le cose. Di conseguenza, la teoria epicurea del segno linguistico dovrebbe essere così rico­ struita: prolessi  nomi cose Del resto, se a Epicuro fosse attribuita una teoria lingui­ stica secondo cui le parole si riferiscono direttamente alle cose, senza la mediazione delle protessi, entrerebbe in con­ traddizione tutta la sua dottrina della falsa credenza. A esempio, poiché gli uomini credono erroneamente che gli dei siano malevoli nei loro confronti ed esprimono verbal­ mente questa credenza, se non esistesse il livello concettuale delle prolessi, non ci sarebbe niente che corrisponde alla proposizione "Gli dei sono malevoli nei confronti degli uo­ mini". La presenza della prolessi come elemento mediatore tra le parole e le cose può rendere conto di molte asserzioni false e di asserzioni su cose che non esistono. Ciò che gli uo­ mini fanno, pensando agli dei come malevoli, è una falsa supposizione, ovvero un concetto non derivato dali'ogget­ to, cioè dagli dei stessi. La centralità della protessi nella teoria linguistica epicu­ rea è dimostrata anche dal fatto che essa deve essere identi­ ficata anche con quel particolare significato che è il "signifi-  176 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO cato basico" o "primario" (proton ennoma), di cui si parla nella Lettera ad Erodoto (37-38) e che si oppone a tutti gli altri significati che possono essere considerati derivati da esso.22 7.9 L'origine del linguaggio La teoria linguistica in Epicuro è connessa con quella del­ l'origine stessa del linguaggio, che è discussa principalmen­ te nella Lettera ad Erodoto (75-76).23 Per Epicuro il linguaggio è un'attività che gli uomini han­ no sviluppato nel corso della loro evoluzione, passando at­ traverso due stadi distinti. Nel primo stadio il linguaggio esprime una relazione con la realtà che potrebbe essere defi­ nita naturale, mentre nel secondo una relazione che potreb­ be essere definita convenzionale. In effetti Epicuro, nella polemica phjsisln6mos, assume una posizione mediana e molto particolare, rifiutando sia l'idea che ci sia stato un unico datore di nomi, sia l'idea (per altro sostenuta dagli stoici) che le parole si accordino in maniera naturale alle co­ se. Esaminiamo più in particolare come è descritto il pro­ cesso di nascita e sviluppo del linguaggio nella Lettera ad Erodoto . In una prima fase l'attività linguistica degli uomini non è affatto diversa dai processi naturali quali tossire, starnuti­ re, gemere ecc.: infatti gli uomini emettono suoni, simili a parole, sotto lo stimolo involontario e naturale delle affe­ zioni (path) che provano e delle immagini (phantasmata) che si formano in loro. Il linguaggio primitivo costituisce una reazione istintiva all'arnbiente, e la tesi di Epicuro sem­ bra essere, in relazione a questo stadio, a pieno titolo quella naturalista. Ma, a ben guardare, essa presenta qualcosa di più. Infatti ha sempre costituito un problema, per i sosteni­ tori della tesi del naturale accordo tra le parole e le cose, spiegare la diversità delle lingue: qui Epicuro non evita que­ sto aspetto del problema,24 ma lo integra nella sua teoria. La diversità delle lingue è diretta conseguenza della diver­ sità degli ambienti in cui i vari popoli si trovano e in relazio-  7. l0 EPICURO E TRADIZIONE «PHYSIS/N6MOS» 177 ne ai quali emettono suoni diversi. Insomma, le lingue va­ riano perché le cose variano da regione a regione. Inoltre gli uomini, accorgendosi che si producono suoni diversi in re­ lazione alle affezioni e alle immagini prodotte dagli oggetti, trovano utile usare questi suoni come nomi-etichette degli oggetti. A questo punto interviene il secondo stadio nel processo evolutivo del linguaggio, in cui vengono introdotti degli ele­ menti di convenzione. Questi ultimi si instaurano sotto una duplice spinta: da una parte c'è un movimento che tende a razionalizzare il linguaggio, rendendo le espressioni ambi­ gue, createsi naturalmente "più chiare" e "più concise"; dal­ l'altra c'è l'operato degli "uomini colti", i quali tendono a introdurre concetti relativi a cose che vanno oltre la perce­ zione e che dunque non hanno potuto essere nominate at­ traverso il processo naturale. Come sottolinea Sedley (1973: 19), il tentativo deliberato di introdurre processi di semplifi­ cazione nell'evoluzione del linguaggio corrisponde al desi­ derio di rendere conto dei processi astratti, come quelli in cui la relazione uno e uno tra parole e cose non è più soste­ nibile. Ciò avviene sostanzialmente in due casi, che sono le­ gati all'intera problematica linguistica di Epicuro, cioè (i) nella formazione dei termini generali e (ii) nei processi di metaforizzazione. 7.lO Epicuro e la tradizione "physis/nomos" Dopo aver esaminato la teoria epicurea dell'origine del linguaggio, è possibile ritornare al triangolo semiotico e analizzare quali relazioni siano implicate tra i vari termini, in rapporto con altre posizioni della tradizione linguistica. Un primo confronto può essere stabilito con Aristotele. Spesso gli studiosi hanno suggerito una dipendenza della teoria linguistica di Epicuro da quella di Aristotele (tra gli altri, Arrighetti 1960: 476), o almeno una stretta somiglian­ za (Long 1971 b: 121). In effetti nel De interpreta/ione (16 a) Aristotele pensa alle affezioni dell'anima come a immagi­ ni provenienti dalle espressioni sensoriali derivate dalle cose  178 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO esterne, in un modo non molto diverso da come le protessi di Epicuro derivano dagli oggetti. Se questo è un punto di contatto tra le due teorie, tuttavia maggiori sono, secondo Sedley (1973: 20), le divergenze. Anzitutto, per Aristotele i diversi popoli hanno esattamente le stesse affezioni mentali, ma le rappresentano attraverso espressioni linguistiche diverse. Per Epicuro, invece (come abbiamo visto a proposito dell'origine del linguaggio), le forme linguistiche sono diverse perché le affezioni mentali (path e phantasmata, ambedue inclusi negli aristotelici pathmata) sono diverse da popolo a popolo, in relazione ai diversi ambienti naturali. Ma ci sono anche altri elementi di divergenza tra Aristotele ed Epicuro. Per il primo, infatti, nessun nome preso di per sé ha funzione apofantica, cioè nessun nome può essere detto vero o falso; inoltre nessuna espressione diviene un simbolo se non in seguito a conven­ zione. Per Epicuro, invece, i nomi di oggetti individuali comportano verità o falsità, come avveniva, del resto, an­ che nel Crati/o platonico; inoltre, una certa espressione, che può essere anche un semplice rumore, può essere usata co­ me un simbolo, per quanto in assenza di elementi conven­ zionali, come avviene negli stadi primitivi della comunica­ zione. Un secondo confronto può essere stabilito poi anche con la posizione platonica. Sicuramente in Epicuro non è pre­ sente alcuna posizione simile a quella della prima teoria se­ mantica di Platone,25 adottata in seguito anche dagli stoici, secondo la quale il nome è una lista abbreviata delle pro­ prietà dell'oggetto a cui si riferisce. Platone, infatti, vede le parole primitive come una rappresentazione fedele delle proprietà dell'oggetto, quasi che tutto il vocabolario fosse deliberatamente costituito da onomatopee. La posizione naturalistica di Epicuro si limita a sostenere che, ali'interno di ciascun linguaggio, ogni nome ha un uso corretto quando viene impiegato per denotare l'oggetto, o la classe di oggetti, a cui è stato associato nel momento del­ la sua origine naturale. Tuttavia, nonostante questa distin­ zione, ci sono forti elementi di convergenza tra la posizione platonica e quella epicurea, in quanto in entrambe i nomi  7.l0 EPICURO E TRADIZIONE «PHYSIS/N6MOS» 179 hanno alla loro origine un valore cognitivo, che viene par­ zialmente obliterato attraverso i cambiamenti del linguag­ gio nel corso del tempo.26 Per Platone il recupero del senso originario delle parole avviene attraverso l'etimologia, stra­ da sulla quale lo seguiranno anche gli stoici. Epicuro ritie­ ne, invece, che la relazione originaria del linguaggio con gli oggetti percepibili sia stata oscurata soprattutto da processi metaforici e, per recuperare il valore epistemologico origi­ nario dei nomi, suggerisce di ricercare "la prima immagine" (prOton enn6ema: Ep. Hdt., 38). Questa prima immagine è da identificarsi con la prolessi, cioè con il concetto che si è formato alla prima percezione dell'oggetto e che è stato as­ sociato al nome. In conclusione, rispetto alla teoria di Aristotele e alla pri­ ma teoria semantica di Platone, si può dire che Epicuro as­ sume una posizione intermedia. Per Aristotele i nomi sono simboli e sono convenzionali. Per Platone, invece, i nomi sono delle icone degli oggetti e sono naturali. Per Epicuro i nomi sono simboli, come per Aristotele, in quanto non riproducono le proprietà degli og­ getti, ma sono naturali, come per Platone, nella loro origi­ ne, coincidente con il primo dei due stadi evolutivi del lin­ guaggio . Gli elementi di convenzionalità si sviluppano soltanto in seguito, nel secondo stadio. Questa posizione intermedia di Epicuro spiega perché non venga fatto ricorso all'etimolo­ gia, come invece avviene in Platone e negli stoici, e, pur tut­ tavia, si chieda di tenere presente "la prima immagine": in realtà, la corrispondenza biunivoca tra il nome e "la prima immagi ne" si fonda non sulla forma, ma sulla origine natu­ rale .  8. IL ''DE SIGNIS'' DI FILODEMO 8.0 Introduzione Dopo Epicuro la teoria del segno trovò un ampio svilup­ po negli scritti dei suoi seguaci. Un trattato del I secolo a.C.,1 ilPerìsmet'Onkaìsmei8seon(Suisegniesulleinfe­ renze)2 di Filodemo, testimonia ampiamente del grado di raffinatezza e di complessità che la teoria del segno aveva raggiunto in seno alla scuola epicurea. Si tratta di un'opera composta probabilmente a uso della scuola epicurea di Er­ colano, della quale Filodemo fu uno dei più importanti esponenti. Il De signis non costituisce un vero e proprio trattato metodologico, né un'esposizione sistematica della teoria epicurea del segno, ma riporta la polemica allora in corso fra stoici ed epicurei sull'inferenza da segni e su varie tematiche semiotiche a essa connesse. Il trattato è diviso in quattro sezioni, nelle quali sono esposte le argomentazioni di tre maestri epicurei, Zenone di Sidone, Bromio e Deme­ trio di Laconia,3 a favore della teoria epicurea del segno e contro le critiche a essa mosse dagli esponenti della scuola stoica. Il trattato è di grandissima importanza semiotica, perché tanto gli stoici quanto gli epicurei costruivano la loro teoria logica sull'inferenza da segni. Nel confronto le due teorie si illuminano a vicenda. Inoltre il De signis dibatte una serie di problemi che ancora oggi sono al centro della discussione semiotica. Del resto, per la sua pertinenza semiotica, que­ st'opera aveva attirato anche l'interesse di Charles Sanders  8.l RELAZIONE SEGNICA «A PRIORI» E «A POSTERIORI» 181 Peirce, che ne aveva affidato l'approfondimento e l'analisi all'allievo Allan Marquand; di quest'ultimo ci rimane un saggio sulla logica semiotica degli epicurei.4 8.1 La relazione segnica è "a priori" o "a poste­ riori"? Al centro del trattato di Filodemo si colloca il contrasto fondamentale tra le due scuole circa il modo di concepire il rapporto che si instaura tra i due termini della relazione se­ gnica: gli stoici sono sostenitori di una posizione che vede tale relazione come a priori, formale e di natura razionale; gli epicurei, invece, sostengono che tale relazione è a poste­ riori e interamente fondata su basi empiriche. Il punto di vi­ sta epicureo, in effetti, è che per poter stabilire una relazio­ ne tra un segno e ciò a cui esso rinvia, è necessario aver os­ servato più volte i due termini in un qualche tipo di con­ giunzione (sia essa spaziale, temporale, causale ecc.). Così la relazione si stabilisce in seguito ali'esperienza, e non a priori, come sostenevano gli stoici. Di conseguenza, il me­ todo semiotico proposto dagli epicurei è quello deH'analo­ gia (ho katà tn homoi6tta tr6pos), cioè un "metodo stret­ tamente empirico e basato sull'osservazione delle similarità nella nostra esperienza e su certe congiunzioni costanti, dal­ le quali noi inferiamo ugualmente delle similarità e delle congiunzioni nella sfera di ciò che è oscuro" (De Lacy 1938: 398). In corrispondenza con i due modi di concepire la relazio­ ne segnica, stoici ed epicurei sviluppano anche due differen­ ti teorie sulla verifica della validità logica della relazione. Gli stoici consideravano valida la relazione segnica basata sulla contrapposizione (anaskeu), secondo cui la negazione del conseguente comporta la contemporanea negazione del­ l'antecedente. A esempio, nell'inferenza "Se c'è moto, c'è vuoto", gli stoici sostenevano che la negazione della cosa si­ gnificata ("c'è vuoto") implicherebbe anche la negazione del segno (''c'è moto"). Si tratta di un metodo di verifica as­ solutamente a priori e astratto, al quale gli epicurei con-  182 8. IL «DE SIGNIS)) DI FILODEMO trappongono un metodo completamente empirico. Anzi, gli epicurei sostengono che nessun metodo a priori è possibile fino a che non sia stata costruita un'inferenza su base empi­ rica: l'esistenza del vuoto, nell'esempio precedente, è inferi­ ta a partire dalla osservazione empirica che non si verifica il moto senza l'esistenza congiunta del vuoto, e da una conse­ guente generalizzazione.5 Ciò significa che il principio astratto degli stoici può esse­ re formulato soltanto dopo che l'inferenza è stata costruita su base empirica e con il ricorso a un ragionamento analogi­ co. Così gli epicurei sostengono che il metodo della con­ trapposizione poggia, inconsapevolmente, sul fondamento ultimo dell'analogia epicurea. In questo modo le verità ne­ cessarie, che gli stoici consideravano analitiche e a priori, sono in realtà stabilite attraverso l'induzione. Gli epicurei prospettano un punto di vista secondo cui la logica dedutti­ va è susseguente a una logica induttiva in ordine di svilup­ po: la prima dipende infatti dalla seconda (De Lacy 1978: 221). Se questa idea è chiaramente espressa nel trattato di Filodemo, non ci si deve tuttavia aspettare una discussione articolata sulle relazioni tra la logica formale e deduttiva da una parte, e logica induttiva e metodo empirico dall'altra. Anzi, a ben vedere, nel corso del trattato, entrambi i prota­ gonisti della discussione tendono a confondere due cose che la logica moderna avrebbe piuttosto tendenza a tenere di­ stinte: da una parte, il metodo per la costruzione di un'infe­ renza segnica; dall'altra, il criterio per la verifica della sua validità (Martinelli 1 986) . Così , il metodo di costruzione deli'inferenza per gli epicurei è l'analogia, mentre il criterio è più precisamente quello della inconcepibilità (adianosfa). Tuttavia la distinzione non è così forte, in quanto sia il me­ todo sia il criterio sono su base empirica: in effetti, nel di­ battito, gli stoici tenderanno ad attaccare il metodo per in­ validare il criterio e viceversa. 8.2 Contrapposizione vs inconcepibilità Vediamo di analizzare, in termini formali, l'opposizione  8.2 CONTRAPPOSIZIONE VS INCONCEPmiLITÀ · 1 83 che si stabilisce tra il criterio stoico della contrapposizione e quello epicureo della inconcepibililà. Data l'inferenza p-:Jq il criterio della sua verifica secondo la contrapposizione stoica è esprimibile come il che equivale a dire che, negando per ipotesi il conseguen­ te, anche l'antecedente risulta negato. La prova dell'infe­ renza, dunque, avviene su base formale e non empirica. Il criterio della inconcepibilità epicurea, invece, prescinde da considerazioni formali ed è basato sull'analogia empiri­ ca. Esso viene così illustrato nelle parole di Filodemo: Ma talvolta l'inferenza non è provata essere vera in questo mo­ do ( = per contrapposizione), ma proprio per l'impossibilità di concepire che il primo sia, o abbia una certa proprietà, mentre il secondo non sia, o non abbia tale proprietà, come per esem­ pio: "Se Platone è un uomo, anche Socrate è un uomo". Se è vera questa inferenza, diviene vero anche che "Se Socrate non è un uomo, nemmeno Platone è un uomo", non perché, attraver­ so la negazione di Socrate, Platone sia negato insieme ad esso, ma perché non è possibile che Socrate non sia un uomo e Plato­ ne sia un uomo; e questa inferenza appartiene al metodo dell'a­ nalogia . (col. XII, 14-31=cap. 17) Dal punto di vista formale il criterio della inconcepibilità è esprimibile come impossibile (pl\q) In effetti le due formule che corrispondono rispettiva­ mente al criterio di verifica stoico e a quello epicureo non esprimono un contenuto logico molto diverso l'una rispetto all'altra. La stessa presenza di un operatore modale nella   184 8. n «DE SIGNIS» DI FnODEMO formula del criterio di inconcepibilità è controbilanciata dal carattere, ugualmente modale, di necessità, che sappiamo essere richiesta dali'implicazione come la concepivano gli stoici . Tuttavia, in Filodemo i due metodi sono presentati come contrapposti, e anzi, nel passo citato, sembra che trovino applicazione in casi diversi. Se non è dunque sul piano del contenuto logico che si dif­ ferenziano, che cosa è allora che li rende diversi? È possibi­ le cercare una risposta a questo interrogativo soffermando­ ci sull'esempio che viene riportato da Filodemo di inferenza verificata con il metodo dell'inconcepibilità: "Se Platone è un uomo, anche Socrate è un uomo" Questa inferenza, ci dice Filodemo, appartiene al metodo dell'analogia. Infatti, entrambi i membri dell'inferenza condividono un elemento, cioè la proprietà attribuita ai soggetti rispettivi delle due proposizioni, fatto che potrem­ mo esprimere come: u {P)  u {S) in cui "u" è la proprietà di "essere un uomo", "P" è "Plato­ ne" e "S" è "Socrate". Questo aiuta a capire che cosa intendano esattamente con "analogia" e con "inferenza segnica basata sull'analogia" gli epicurei. In effetti, mentre per gli stoici non è necessario alcun elemt.nto in comune tra i due membri dell'inferenza segnica, una tale caratteristica diviene essenziale per gli epi­ curei.6 Il fatto, però, che l'analogia, da un punto di vista logico, si venga precisando come situazione in cui c'è una proprietà condivisa dai soggetti delle due proposizioni membri del­ l'inferenza, ci permette di dire che la logica usata dagli epi­ curei non è la stessa di quella usata dagli stoici: mentre que­ sti ultimi si servono della logica delle proposizioni, gli epi­ curei ritornano a una logica dei predicati, sotto un certo punto di vista più simile a quella aristotelica.  8.2 CONTRAPPOSIZIONE VS INCONCEPIBILITÀ 185 A distinguere il metodo della contrapposizione da quello dell'inconcepibilità è dunque l'ambito di applicazione: le proposizioni nel primo caso, le proprietà nel secondo. Lo scopo è tuttavia lo stesso: dimostrare che l'inferenza ha un carattere di necessità. Ora non c'è nessun problema a considerare necessaria la relazione stoica verificata dalla contrapposizione, in quanto il metodo adottato è aprioristi­ co. Ci sono maggiori problemi, invece, come gli stoici sot­ tolineano, a considerare necessaria l'inferenza analogica. A ogni modo, per gli epicurei le relazioni segniche vengo­ no scoperte empiricamente e, se la ricerca è ben condotta, la relazione tra il segno e l'oggetto a cui il segno rimanda' è necessaria. Tuttavia, il metodo stesso dell'inconcepibilità è un metodo empirico, in quanto una certa cosa è inconcepi­ bile solo nei termini della nostra esperienza. Le inferenze verificate dall'inconcepibilità sono basate sull'analogia tra il segno e ciò a cui esso rimanda: "Un oggetto che non ab­ bia niente in comune con ciò che appare è inconcepibile" (col. XXI, 27.;.29 = cap. 36). Anche le inferenze su ciò che va di là dell'esperienza sono basate sull'analogia con le proprietà che presentano le cose ali'interno deli'esperienza. Se non è possibile verificare di­ rettamente la presenza di quelle proprietà negli oggetti non percepiti, si ricorre alla prova indiretta della non incompati­ bilità (ouk antimartjrsis) con i dati empirici.7 L'inferenza che viene presa in considerazione è la seguente: Se gli uomini che noi conosciamo direttamente, una volta deca­ pitati muoiono, senza che ricrescano nuove teste, allora tutti gli uomini, dovunque, una volta decapitati muoiono e non ricre­ scono nuove teste. Il primo membro del condizionale è considerato segno del secondo. Tra i due membri si stabilisce un elemento co­ mune, e l'inferenza è propriamente un'induzione: l'espe­ rienza ripetuta dell'associazione tra decapitazione da una parte e morte congiunta alla non ricrescita della testa dal­ l'altra, porta alla generalizzazione di questa associazione, in modo da poter fare inferenze e previsioni anche in casi  186 8. IL «DE SIONIS» DI FnODEMO non precedentemente osservati, o non osservabili in asso­ luto. Inoltre, poiché è impossibile verificare l'inferenza sui casi non osservabili , gli epicurei la ritengono veri ficata basando­ si sulla non incompatibilità con i casi che cadono nel domi­ nio deli'esperienza. La condizione è tuttavia quella di sce­ gliere i casi giusti, che sono quelli che appartengono allo stesso genere: a esempio, per inferire la non ricrescita delle teste, è necessario non basarsi sulla ricrescita dei capelli o delle unghie (coli. XIII, 20 - XIV, 2 = cap. 18). 8.3 Segni comuni e segni propri La disputa sui metodi di verifica dell'inferenza si lega alla discussione sui tipi possibili di segno. Tanto gli stoici quan­ to gli epicurei distinguevano tra segno comune (koinòn s­ mefon) e segno proprio (fdion smefon). Definivano il segno comune come quella entità che può esistere anche in assen­ za di un'entità cui dovrebbe rinviare (a esempio, nell'infe­ renza "Se quest'uomo particolare è ricco, allora è buono"! la ricchezza può sussistere anche se non sussiste la bontà). Definivano poi il segno proprio come quell'entità che può esistere solo se esiste un oggetto non percepibile a cui essa rinvia (a esempio, nell'inferenza "Se c'è moto, c'è9vuoto", il moto può esistere solo se esiste anche il vuoto). Gli epicurei erano d'accordo con gli stoici nel rifiutare i segni comuni come basi inaffidabili di inferenze, ma non concordavano sul fatto che ogni caso di segno proprio fosse anche un caso (come sostenevano gli stoici) di segno stabili­ to per contrapposizione, cioè stabilito aprioristicamente. Per essi era possibile stabilire dei segni propri usando un criterio empirico, come è quello dell'inconcepibilità.10 Se consideriamo l'inferenza: "Se Epicuro è un uomo, allora anche Metrodoro è un uomo " ci troviamo di fronte a un segno proprio costruito per ana-  8.3 SEGNI COMUNI E SEGNI PROPRI 187 logia, cioè sull'osservazione di una proprietà in Epicuro che è inconcepibile pensare che Metrodoro non abbia esatta­ mente negli stessi termini. In altre parole si può dire che, posto l'accordo tra le due scuole sulla validità dei soli segni propri, gli stoici costituivano un oggetto come segno a par­ tire dal conseguente (ovvero dal rinviato), mentre gli epicu­ rei lo costituivano a partire dall'antecedente. È l'oggetto che compare nell'antecedente, infatti, che nella semiotica epicurea viene associato a certe proprietà (costantemente osservate) e diviene segno di un altro ogget­ to non percepibile a cui vengono attribuite le proprietà del primo. Tuttavia, il primo oggetto X deve avere almeno due proprietà Pt e P2 e il secondo oggetto deve avere almeno una di queste: la proprietà comune diviene il segno della presenza della seconda proprietà che può non essere perce­ pibile direttamente nel secondo oggetto. A esempio, se un certo individuo X ha le due proprietà: Pt = "essere un uomo" p2 = "non poter avere la ricrescita della testa, una volta tagliata" sarà sufficiente che un altro individuo Xt abbia la proprietà Pt perché gli si possa attribuire anche la proprietà p2. Le condizioni della validità generale di questa inferenza sono due: (i) che l'associazione tra le due proprietà nel pri­ mo membro dell'inferenza sia costante; (ii) che tale associa­ zione non si stabilisca tra proprietà casuali. Come vedremo in seguito, si tratta di scegliere delle proprietà che siano "es­ senziali". Rimane da fare una considerazione generale sul tipo di segno proposto dagli epicurei: esso sembra costantemente configurarsi come segno iconico, in quanto, in termini peir­ ceani, rimanda al suo oggetto in virtù di una somiglianza o per avere alcune proRrietà in comune con esso (Peirce 1980: 140; Eco 1973: 51). 1  188 8. ll «DE SIGNIS» DI FILODEMO 8.4 Critica stoica all'induzione epicurea Gli stoici non accettano la validità dell'inferenza basata su un criterio induttivo, come proponevano gli epicurei. A essa contrappongono inferenze segniche basate sostanzial­ mente su due tipi di criterio: (i) la tautologia; (ii) la L-impli­ cazione. 12 Seguiamo lo sviluppo dell'argomentazione degli stoici. Essi prendono come punto di partenza una tipica in­ ferenza induttiva, o analogica, epicurea: "Se gli uomini tra di noi sono mortali, allora tutti gli uomi­ ni lo sono''. Per gli stoici l'inferenza cosi formulata è inaccettabile. Per acquisire validità, essa deve essere riformulata secondo l'uno o l'altro dei criteri che abbiamo menzionato. Vedia­ mo il criterio definito come tautologia. Gli stoici sostengo­ no che, per rendere valida l'inferenza, cioè, dal loro punto di vista, per rendere necessaria la relazione tra i due mem­ bri, entrambe le proprietà prima considerate devono essere contenute nella premessa. 1 3 Gli stoici propongono così di riformulare l'inferenza nel modo seguente: Dal momento che gli uomini tra di noi sono mortali, e se in altri luoghi vi sono uomini simili a quelli tra di noi sotto tutti i ri­ spetti, e anche nell'essere mortali, essi sono eventualmente mor­ tali . (coIl. II, 37 - III, 4= cap. 5) Il carattere tautologico dell'inferenza è sottolineato dagli stoici stessi, i quali sostengono espressamente che "la con­ clusione appresa attraverso questo segno non differisce dal segno a partire dal quale si trae l'inferenza (smeioume­ tha)".14 Infatti viene assunta la premessa che entrambe le serie di entità (cioè sia gli uomini che si trovano tra di noi, sia gli uomini che sono in luoghi sconosciuti) hanno non so­ lo la proprietà comune di essere "uomini", ma anche con­ temporaneamente quella di essere "mortali".  8.5 RISPOSTA EPICUREA A FAVORE DELL'INDUZIONE 189 L'assunzione nella premessa dello stesso carattere di "mortalità" che dovrà essere anche oggetto di inferenza è, per gli stoici, condicio sine qua non della necessità dell'infe­ renza. L'inferenza sarà valida, dunque, solo se totalmente analitica o tautologica. Vediamo ora l'argomentazione stoica contro l'induzione secondo il criterio definito L-implicazione. In questo secon­ do caso gli stoici propongono di riformulare l'inferenza epi­ curea di partenza in maniera tale che il carattere di "morta­ lità" da inferire sia contenuto nella definizione stessa di "uomo". Per esprimere l'idea che la parola luomol implicita semanticamente tutto un insieme di proprietà che una defi­ nizione metterebbe in luce, essi introducono le espressioni hii "in quanto" e kath6 "nella misura in cui". L'inferenza riformulata secondo questo principio assume la forma se­ guente: Dal momento che gli uomini tra di noi, in quanto (hi1) e nella misura in cui (kath6) sono uomini, sono mortali, anche in qual­ siasi altro luogo gli uomini sono mortali.ts in cui la semplice espressione l uomo l è data come implici­ tante la proprietà "mortale" da inferire. Gli stoici sostengono che l'attribuzione della proprietà di essere "mortale" a l uomo l , se avviene in qualsiasi altro modo diverso da questo, come appunto fanno gli epicurei, rende vana l'inferenza. 8.5 La risposta epicurea a favore dell'induzione La sostanza della replica epicurea è che il sistema stoico, per quanto appaia analitico e a priori, tuttavia poggia in ul­ tima analisi su una base induttiva. In realtà, secondo gli epicurei, la necessità della relazione inferenziale è costruita sull'osservazione di congiunzioni costanti. È a causa del fatto di non vedere mai il fumo senza il fuoco, né il moto senza la presenza del vuoto, che noi arriviamo a dire che il fumo è segno del fuoco e il moto segno del vuoto.16 Cosi è  190 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO su base empirica che viene stabilito il sistema di necessità lo­ gica a priori alla quale fanno ricorso gli stoici . Del resto, la stessa connessione necessaria tra due termini, espressa at­ traverso il test della contrapposizione, può essere verificata solo dopo che l'esperienza ha mostrato la costante congiun­ zione tra di essi. Come giustamente interpreta Estelle De Lacy (1938: 405), "le ipotesi sul livello logico e teoretico sono formulate sulla base di informazioni intorno alla connessione di termini da­ ti dali'osservazione deli'esperienza dei sensi. La validità di queste ipotesi, di conseguenza, dipende dalla loro corri­ spondenza con i fatti e dalla loro adeguatezza nel compren­ dere tali fatti, come pure dalla loro interna coerenza o com­ patibilità dell'uno con l'altra". Se questa è la sostanza della replica epicurea alle critiche stoiche sull'induzione, vale però anche la pena di analizzare la risposta specifica17 alla seconda critica stoica. Infatti, in relazione alla L-implicazione, gli epicurei, ribaltando l'ar­ gomento stoico, sollevano una questione interessante: la de­ finizione di uomo in quanto mortale è non il punto di par­ tenza di un'inferenza deduttiva, ma il punto di arrivo di ri­ petute inferenze induttive. In altre parole, si costruisce la definizione di uomo in quanto tale, come comprendente an­ che la proprietà di essere "mortale" in conseguenza di due serie di informazioni: (i) le informazioni che ci fornisce la storia sulle vite degli uomini che ci hanno preceduti; (ii) le informazioni che ci derivano dali'esperienza diretta dei no­ stri contemporanei. Così gli epicurei pongono l'equivalenza tra la proposizione: (a) "Gli uomini , in quanto uomini , sono mortali " (che è la formula suggerita dagli stoici, e che indica dedutti­ visticamente il fatto che nella nozione di "uomo" vi è com­ presa la proprietà "mortale"), e la proposizione: (b) "Gli uomini con questa proprietà (di essere mortali) sono uomini"18  8.6 PROPRIETÀ ESSENZIALI E ACCIDENTALI 191 che è la formula epicurea, la quale suggerisce in qual modo venga costruita la definizione. In sostanza, gli epicurei sem­ brano sostenere che la definizione di "uomo" viene costrui­ ta mediante un'accumulazione di proprietà che sono rileva­ te mediante un metodo analogico in entità che sono9deno­ minate in un certo modo, in questo caso, luominil.1 8.6 Proprietà essenziali e proprietà accidentali Un altro interessante problema che emerge nella disputa tra stoici ed epicurei è quello della distinzione tra proprietà primarie e proprietà secondarie. Questa distinzione risale a Democrito, che è stato il primo a usarla (De Lacy 1938: 403). Il problema non è affatto banale e ancora oggi, in molte teorie semantiche, si ricorre a un'analoga distinzione. Gli epicurei affrontano l'argomento per rispondere a una critica stoica che attacca il metodo dell'analogia mostrando il rischio che si corre neli'applicarla a proprietà che non hanno tutte la stessa ripartizione o generalità. Infatti, so­ stengono gli stoici, allo stesso modo in cui viene universaliz­ zata la concomitanza osservata tra la proprietà "uomo" e la proprietà "mortale'', altrettanto potrebbe essere fatto per la concomitanza osservata tra "uomo" e "di breve vita": il ri­ schio è che, così facendo, si viene ad attribuire quest'ultima proprietà anche agli abitanti del monte Athos, che nell'anti­ chità erano proverbialmente considerati longevi.20 Proprio da questo tipo di critica gli epicurei sono spinti a elaborare una distinzione tra proprietà che sono variabili (cioè peculiari a certi individui) e proprietà che sono costan­ ti (cioè rintracciabili in ogni individuo). L'inferenza corret­ ta sarà quella che parte dalle proprietà costanti. Tuttavia, sostengono gli epicurei, la stessa presenza di proprietà va­ riabili, invece di indebolire la teoria dell'inferenza analogi­ ca, la rafforza: posto infatti che gli uomini conosciuti diffe­ riscono moltissimo rispetto alla lunghezza della vita (essen­ do alcuni di breve vita e altri longevi), diviene possibile, proprio sulla base dell'esistenza della variazione, fare cor­ rettamente l'inferenza che altrove esistano uomini di ecce-  192 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO zionale longevità, come lo sono appunto gli abitanti del monte Athos.21 Ma ciò che spinge gli epicurei ad andare ancora più a fon­ do su questa strada è l'attacco stoico a proposito di inferen... ze che hanno conseguenze sulla loro teoria metafisica. La provocazione stoica concerne la teoria degli atomi, che, nel­ la metafisica epicurea, hanno la proprietà di essere "incolo­ ri" e "indistruttibili"; però essi hanno anche la proprietà di essere "corpi", a cui, nell'esperienza, sono associate le pro­ prietà opposte (cioè "colorati" e "distruttibili"). Queste so­ no le due inferenze che, secondo gli stoici, gli epicurei do­ vrebbero fare, applicando correttamente il metodo analo­ gico: (l) "Dal momento che tutti i corpi della nostra esperienza hanno colore e anche gli atomi sono corpi, anche gli atomi hanno colore." (2) "Dal momento che tutti i corpi nella nostra esperienza sono distruttibili, e anche gli atomi sono corpi, gli atomi devono essere tutti distruttibili."22 La replica epicurea è molto interessante, per due motivi. In primo luogo, perché precisa ulteriormente la necessità di fare distinzioni tra proprietà a cui il metodo analogico si applica, e proprietà a cui non si applica; infatti il metodo agisce selettivamente sulle proprietà e non in modo ca­ suale.23 In secondo luogo, la replica epicurea è interessante per­ ché modula la precedente distinzione in termini teoricamen­ te più forti: essa diviene una distinzione in proprietà che possiamo definire essenziali e proprietà accidentali. Infatti gli epicurei parlano di certe proprietà che i corpi hanno pro­ prio "in quanto corpi" (hei somata), che essi mantengono in ogni occasione: prima fra tutte la proprietà di "opporre resistenza al tocco". Questa è dunque una proprietà essen­ ziale. Poi ci sono quelle proprietà che non sono strettamen­ te legate alla natura dei corpi e che possono variare a secon­ da delle condizioni: si tratta di proprietà accidentali, che i  8.6 PROPRIETÀ ESSENZIALI E ACCIDENTALI 193 corpi hanno "in quanto partecipano di una natura opposta a quella corporea e non resistente",24 come a esempio la di­ struttibilità o il colore, il quale ultimo è tanto accidentale che scompare nelle condizioni di buio. Possiamo schematizzare queste due serie di proprietà at­ traverso una tabella:   proprietè entitè corpi A B proprietè accidentali (in quanto partecipano di una nature opposta) ..distruttibilitè• ·colore•  (in quanto tali) ·resistenze al tocco· proprietè essenziali  Gli epicurei precisano molto chiaramente che le inferenze induttive generalizzanti non dovranno partire dalle proprie­ tà della colonna B; ma niente impedirà di fare inferenze ge­ neralizzanti, con il metodo dell'analogia, partendo dalle proprietà della colonna A.25 A conferma di questo schema si può riportare l'esempio del "fuoco'',26 per il quale, accanto alla proprietà essenziale di bruciare, viene elencata una serie di proprietà variabili peculiari ai vari tipi:  8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO proprietà essenziali proprietà accidentali (koin6ttes) (idi6ttes) ·di lunga o corta durata• ·non tutte le sostanze sono bruciate nello stesso modo· ·facili o difficili da spegnere · ·duri o teneri· •di colore variabile a seconda del combustibile· Nella sezione di Bromio27 viene anche prevista una specie di topica per individuare la ripartizione delle proprietà: in­ fatti, ai fini della correttezza delle inferenze, le proprietà es.. senziali (o comuni, koin6ttes) e quelle accidentali (o pecu­ liari, idiOttes) devono essere analizzate nei vari campi o ca­ tegorie che sono di pertinenza di un oggetto: nelle sostanze, nei poteri, nelle qualità, negli attributi, nelle disposizioni, nelle quantità, nei numeri. Lo scopo di questa topica appare essere quello di giustifi­ care inferenze universalizzanti ali'interno di categorie omo­ genee: infatti, a esempio, pur essendoci un'infinita varietà di esseri umani e di cibi che li nutrono, se si considera il fie­ no rispetto alla categoria dei "poteri", si troverà che esso ha due proprietà costanti: "di non nutrire gli esseri umani" e "di non essere digerito da essi".28 Perciò, al di là delle diverse caratteristiche che questo og­ getto potrà presentare (diversi colori, diversa consistenza, diverso grado di maturazione ecc.), potremo fare con sicu­ rezza l'inferenza che da nessuna parte si troverà del fieno che abbia la proprietà di nutrire gli uomini e di essere da lo­ ro digerito. Ma che cosa sono propriamente per gli epicurei quelle proprietà degli oggetti ''in quanto tali", che abbiamo defini­ to proprietà essenziali? Dai precedenti esempi (e da altri analoghi) appare chiaramente che esse sono , per loro , le ------------------- 194 propnettt r entità ! fuochi      8.6 PROPRIETÀ ESSENZIALI E ACCIDENTALI 195 proprietà definitorie di un oggetto, cioè quelle che concor­ rono alla sua definizione essenziale. Abbiamo visto che per gli stoici una definizione viene co­ struita analiticamente, attraverso una ricognizione delle proprietà implicite nella nozione da definire: un individuo, in quanto è uomo, ha la proprietà di essere mortale. Per gli epicurei le cose vanno nel senso opposto. La defi­ nizione di una nozione viene costruita per accumulo delle proprietà comuni a certi individui. Di conseguenza, tra le proprietà comuni (o essenziali) rilevate empiricamente e le proprietà che fanno parte della definizione, non c'è diffe­ renza. Lo dimostra anche l'uso della particella hi ("in quanto") che viene utilizzata (come vedremo meglio più avanti) nelle espressioni definitorie. Rimane aperto il pro­ blema se sia possibile costruire empiricamente una defini­ zione annotando le proprietà comuni a una classe di ogget­ ti, o se il processo non sia in qualche maniera viziato (alme­ no in parte) proprio dalla preliminare esistenza di definizio­ ni che rimandano alla lingua come struttura globale interde­ finita e/o storicamente stratificata. Questa seconda ipotesi sembra in parte prospettarsi con la definizione di l uomo l . Per gli epicurei, infatti, la pro­ prietà "mortale'' è, come abbiamo visto, una proprietà es­ senziale o definitoria di l uomo l . Si deve però notare che es­ sa fa parte della definizione di l uomo l già in una lunga tra­ dizione che risale per lo meno ad Aristotele. Quest'ultimo definiva infatti l uomo l come "animale mortale provvisto di ragione" (Top. , V, l , 128 b, 35-36). Gli stoici poi lo defi­ nivano come "animale razionale mortale" (Epictetus, Diss. II, 9, 2). La tradizione epicurea, infine, lo definiva come "mortale provvisto di sapienza pratica" (De signis, col. XXII, 22-24=cap. 37).29 È probabile, dunque, che definizioni di questo genere co­ stituissero un'implicita guida nella stessa ricognizione empi­ rica delle proprietà comuni a una serie di oggetti (gli uomini percepibili) analizzati in vista di un'inferenza al non perce­ pibile .  196 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO 8.7 Modalità di inerenza delle proprietà essenziali ai soggetti Quando nel trattato di Filodemo si parla di proprietà co­ muni o essenziali, queste vengono congiunte al soggetto me­ diante le particelle héi, kath6, par6, che equivalgono nel si­ gnificato alle espressioni italiane "in quanto", ''nella misura in cui". Esse vengono a indicare una condizione restrittiva nell'inferenza al non percepibile, come abbiamo visto nel­ l'esempio della natura degli atomi come "corpi in quanto tali", o degli uomini come mortali "nella misura in cui sono uomini". Nella sezione di Demetrio sono elencate quattro accezioni fondamentali di queste particelle, che rimandano a quattro modi di inerenza delle proprietà ai soggetti: (i) Secondo la prima accezione, le proprietà possono es­ sere viste come conseguenze necessarie (ex ananks synépe­ tar): come esempio di conseguenza necessaria del fatto di essere uomini, sono riportati i fatti di avere un corpo e di essere soggetti alla malattia e alla vecchiaia.3° Con questo esempio l'autore sembra individuare un tipo di proprietà che in certe semantiche contemporanee sono chiamate fat­ tuali o sintetiche3 1 o proprietà secondo il modo 1r). 32 (ii) Nella seconda accezione, le proprietà sono individua­ te come essenziali alla definizione o alla concezione fonda­ mentale (prolessi)33 di un certo oggetto. Questo si verifica a esempio con espressioni del tipo: "I corpi, in quanto corpi, hanno volume e resistenza", o come: "L'uomo, in quanto uomo, è un animale razionale''. In questo caso il rapporto sembra essere di tipo equativo: l'estensione del primo termi­ ne viene a coincidere con quella del secondo. Nel caso del­ l'esempio di l uomo l , l'equivalenza definizionale viene data in termini di genere ("animale"), più differenza specifica ("razionale"). (iii) Secondo la terza accezione, certe proprietà sono vi­ ste come sempre concomitanti (synbebekénar), come nell'e­ sempio: "L'uomo nella misura in cui è uomo, muore".34  8.8 CONCLUSIONI 197 L'autore sembra individuare qui delle proprietà che nelle teorie contemporanee sono state definite semantiche, anali­ tiche o proprietà secondo il modo E : "uomo,, infatti, è in­ cluso nella classe più vasta di "mortale". Quest'ultima, poi, ritorna sotto forma di marca semantica a comporre il seme­ ma corrispondente al termine l uomo l . (iv) La definizione della quarta accezione è perduta in una lacuna, ma essa può essere ricostruita dagli esempi che il testo ha conservato: "L'uomo, nella misura in cui è folle, è massimamente infelice,, "Un coltello taglia nella misura in cui è affilato", "Gli atomi, nella misura in cui sono soli­ di, sono indistruttibili", "Un corpo, nella misura in cui ha peso, cade verso il basso". Marquand (1883: 125) interpreta questi come esempi di proprietà che implicano gradazioni o proporzione. I De Lacy (1978: 125) fanno invece la conget­ tura che si tratti di proprietà delle proprietà. Certi di questi esempi farebbero pensare al rapporto se­ miotico della connotazione, inteso come significato che si appoggia su un altro significato e che comunque è fissato da un codice. Si possono schematizzare i quattro modi in cui le proprie­ tà ineriscono al soggetto, · sia secondo l'interpretazione di Marquand, sia secondo quella della semiotica contempora­ nea (cfr. p. 198). 8.8 Conclusioni Se gli stoici avevano fornito alla semiotica una solida im­ palcatura logica, gli epicurei arricchiscono la problematica del segno mediante una serie di specificazioni destinate ad avere valore operativo nella ricerca concreta ed effettiva. Abbiamo già visto le distinzioni tra i tipi di segno, i tipi di proprietà, i modi di inerenza delle proprietà ai soggetti. Ol­ tre a questi temi gli epicurei affrontano anche il problema della gamma di variazione a cui i fenomeni sono sottoposti e quello dei limiti di tale variazione, come condizione per fare inferenze corrette. Infatti ammettono l'esistenza di proprietà che variano da individuo a individuo, ma negano  198 8. IL «DE SIGNIS)) DI FILODEMO semiotica contemporanea   Marquand conseguenza  1. 2. concezione estensionalmente necessaria definizione o proprietè fattuali o sintetiche  essenziale (protessi ) proprietà equivalenti al soggetto  3. concomitanza proprietà semantiche o analitiche  4. gradazione o connotazioni proporzione codificate che nei fenomeni non percepibili la gamma di variazione sia illimitata e che comunque superi i confini della variazione osservabile nei fenomeni conosciuti. Così non si potrà infe­ rire che gli uomini fuori dalla nostra esperienza siano tanto resistenti da essere invulnerabili, oppure che essi siano fatti di ferro, o che passino attraverso le pareti, come quelli co­ nosciuti passano attraverso l'aria. La giustificazione di que­ sto fatto viene data dal metodo deli'inconcepibilità: "è in­ concepibile che ci sia un ogetto che non abbia niente in co­ mune con ciò che appare". 5 Nel De signis vengono anche affrontati i problemi con­ nessi ai vari tipi di inferenza: da classe a classe; da oggetti identici ; da casi rari ; da casi unici . Tutti questi problemi so­ no collegati a un tema che è costante nella semiotica epicu-   8.8 CONCLUSIONI 199 rea: quello delle garanzie di validità di un'inferenza. A esempio, un'inferenza scorretta è quella che porta a concludere che tutti gli uomini sono bianchi, partendo dal­ l'osservazione che gli uomini greci lo sono, o che, al contra­ rio, porta a concludere che tutti gli uomini sono neri, par­ tendo dali'osservazione che gli Etiopi sono tali. In effetti, simili inferenze sono errate perché non sono frutto di "una accurata supervisione di tutti i casi percepibili".36 Ciò che, dal punto di vista logico, avviene in casi di questo genere è che si tenta di applicare ali'intera classe o genere (quello de­ gli "uomini") una proprietà che di volta in volta è caratteri­ stica di una sottoclasse o specie (quella dei "Greci" o, ri­ spettivamente, quella degli "Etiopi"). In effetti, per garantire il massimo di sicurezza, gli epicu­ rei pongono alla base del loro metodo per costruire inferen­ ze una teoria della progressiva inclusione semantica tra in­ dividui, specie e generi, cioè una teoria delle classi. È infatti legittimo fare inferenze tra membri (classi o in­ dividui particolari) i quali si situino a un livello analogo o che siano il più possibile vicini e simili. Naturalmente que­ sto non significa che l'inferenza debba essere fatta esclusi­ vamente tra membri che si situano esattamente allo stesso livello, altrimenti l'induzione perderebbe molta della sua forza, ma nella maggior parte dei casi viene previsto un mo­ vimento ascendente di generalizzazione.37 Una teoria delle classi è implicita anche nella trattazione epicurea dei casi unici, elaborata ancora una volta in rispo­ sta a una critica stoica. In effetti gli stoici avevano tentato di attaccare il metodo deli'analogia ricorrendo ali'argomen­ to deli'esistenza in natura di casi unici, che non presentano analogia con alcun altro fenomeno: a esempio, in mezzo al­ la stragrande quantità di pietre che esistono nella nostra esperienza, ce n'è una sola, il magnete, che è capace di atti­ rare il ferro; ugualmente, solo l'ambra ha la proprietà di at­ tirare la paglia; infine, non c'è che il quadrato che misura 4 di lato che ha il perimetro e l'area espressi dallo stesso nu­ mero.38 Secondo gli epicurei, però, le critiche degli stoici, invece di inficiare l'inferenza analogica, in realtà la rafforzano.  200 8. IL «DE SIGNIS» DI Fll.ODEMO Per dimostrare questo, gli epicurei ricorrono al metodo di ridurre ad altrettante classi gli oggetti unici. Così, essi dico­ no, se alcuni magneti attirassero il ferro e altri no, l'inferen­ za per analogia sarebbe inficiata; ma poiché così non avvie­ ne, è possibile inferire le proprietà degli altri magneti a par­ tire dal magnete che cade sotto la nostra percezione.39 Molti ancora sarebbero i punti particolari da prendere in considerazione, per mostrare il modo con cui gli epicurei tentano di dettagliare la teoria del segno. Ma quello che in definitiva caratterizza la semiotica epi­ curea è il suo richiamo a un completo programma empirista (che era condiviso, tra l'altro, anche dai medici empirici). Tale programma comprende tre tappe fondamentali: (i) os­ servazione; (ii) storia; (iii) inferenza da simile a simile. I pri­ mi due momenti del programma permettono di individuare le "proprietà essenziali", e quindi di passare al terzo mo­ mento, che è quello della ricostruzione del processo semioti­ co vero e proprio. Nei primi due momenti, infatti, vengono suggerite delle condizioni sui fenomeni da osservare per ottenere le pro­ prietà costanti: essi devono essere "molti", devono essere diversi tra di loro (''vari") e, contemporaneamente, devono essere "omogenei".40 Il terzo momento, infine, combina le proprietà deli'enciclopedia semantica con le leggi della logi­ ca (che per gli epicurei sono quelle della logica delle classi). In questo compromesso, appunto, tra i concreti suggeri­ menti in vista della produttività empirica e il tentativo di mantenere il massimo rigore formale deve essere individua­ ta l'originalità della proposta epicurea.  9. RETORICA LATINA 9.0 Introduzione L'interesse per la problematica semiotica nel mondo ro­ mano fa parte di quel processo di costante e progressiva ac­ quisizione del patrimonio culturale greco, che inizia nel III secolo a.C. Ma, nel passaggio dal mondo greco a quello ro­ mano, il paradigma semiotico abbandona il campo della fi­ losofia in senso stretto, per installarsi, in maniera centrale, nell'ambito retorico-giuridico. In Grecia la conoscenza attraverso i segni era divenuta, soprattutto nelle scuole postaristoteliche, il modello stesso della conoscenza in generale e, a partire dagli stoici, aveva trovato la sua collocazione ali'interno della dialettica, una delle branche più astratte della filosofia, in quanto sotto­ partizione della stessa logica. Invece i Romani, aderendo a interessi maggiormente orientati in direzione pragmatica, avevano bensì colto l'estremo interesse del paradigma se­ miotico, ma lo avevano subito piegato ai fini, a loro più congeniali, del dibattito politico e giudiziario, dibattito de­ stinato a essere condotto con gli strumenti forniti appunto dalla retorica. Per rendersi conto, nel modo più chiaro, del cambiamen­ to di prospettiva, basta mettere a confronto l'atteggiamento di Aristotele con quello di Cicerone nei riguardi della retori­ ca. Aristotele aveva fatto di questa disciplina l'argomento di un suo importante trattato, la Retorica, e al suo interno aveva affrontato il tema dei segni; ma, come era già avve-  202 9. RETORICA LATINA nuto nei Primi analitici, aveva tentato di ridurre la forma dei vari tipi di segno a quella dei tipi di sillogismo. Cosi fa­ cendo, aveva indicato un percorso ben preciso: la logica stabilisce le forme fondamentali del ragionamento, che de­ vono rimanere un punto di riferimento anche quando l'inte­ resse si sposta, come nel caso della retorica, dal discorso scientifico a quello persuasivo, dai segni referenziali a quelli efficaci . In Cicerone, e in genere nella trattatistica retorica roma­ na, si registra un'inversione nell'ordine di priorità: la retori­ ca non occupa più il secondo posto, rispetto a un primato della logica, ma, al contrario, è la filosofia nel suo insieme che diviene scienza ancillare, il cui scopo è quello di contri­ buire alla formazione del buon oratore. Tuttavia è l'elo­ quenza l'espressione più alta dell'attività intellettuale. Un passo del De oratore (Il, 159-160) mostra abbastanza chia­ ramente l'opinione di Cicerone circa i rapporti tra dialettica e retorica, quando per bocca di Antonio viene detto che i dialettici sono soltanto capaci di criticare degli enunciati, ma non di produrne. In effetti, per Cicerone la retorica costituisce il "corona­ mento" della filosofia, dalla quale non può essere dissociata (De orat., III, 59-61), e non deve essere considerata una tec­ nica capace di aggiungere un'espressione elegante a un pen­ siero già formato. Come mettono bene in luce Mare Baratin e Françoise Desbordes (1981: 50), in Cicerone agisce un principio, sempre sfumato, ma costantemente affermato, che, se si parla bene, si pensa anche bene o, in altre parole, che non si pensa veramente bene se non quando si parla ve­ ramente bene. Tuttavia la retorica, indiscutibilmente, presenta anche un aspetto tecnico, e ogni trattatista mostra che essa è organiz­ zata secondo due tipi di assi. Il primo concerne i tipi di di­ scorso: il discorso dei tribunali (giuridico); il discorso del­ l'assemblea (politico); il discorso delle cerimonie pubbliche (dimostrativo). Il secondo riguarda le parti della retorica, ovvero i tipi di procedimenti che devono essere messi in atto per strutturare progressivamente un discorso: inventio (ri­ cerca degli argomenti); dispositio (ordinamento di quel che  9.l LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 203 è stato trovato); elocutio (resa degli argomenti in forma or­ nata); memoria (procedimenti mnemotecnici); actio (recita­ zione del discorso: gesti e dizione). La problematica riguardante il segno si colloca nel cuore della inventio, quando cioè si devono "trovare" le prove che convincano l'uditorio della colpevolezza o dell'innocenza di un imputato. Le prove, in retorica, hanno una loro propria forza, muovono dal ragionamento e si inseriscono nel pro­ gramma rivolto a convincere (/idem facere), il primo dei due programmi in cui si articola l'inventio. L'altro pro­ gramma è il commuovere (animos impellere) e consiste nel porre l'accento non sul messaggio o sulla sua forza proba­ toria, ma sulle emozioni del destinatario. Tuttavia, come sottolinea Barthes (1970: tr. it. 60), si ha un certo disagio a usare l'espressione "prova" per indicare le probationes (pf­ steis) retoriche, in quanto questa parola ha oggi una conno­ tazione scientifica la cui assenza appunto definisce le "pro­ ve" retoriche. Tuttavia, un merito che va riconosciuto alla retorica è proprio quello di aver tentato di dare una classifi­ cazione del diverso grado probatorio e della diversa forza argomentativa delle "prove" stesse. Compito, quest'ultimo, che ogni autore ha assolto in ma­ niera particolare, proponendo una classificazione che non coincide, se non parzialmente, con quella data dagli altri. Nei prossimi paragrafi, così, cercheremo di illustrare le li­ nee secondo le quali i tre grandi autori della trattatistica re­ torica romana, cioè Cornificio (autore della Rhetorica ad Herennium) , Cicerone e Quintiliano , ricostruiscono nelle rispettive opere la struttura del paradigma indiziario, cia­ scuno secondo diverse modalità. 9.1 La "Rhetorica ad Herennium" di Comificio Una documentazione diretta della retorica latina la si ha soltanto con i trattati del I secolo a.C., tra cui la Rhetorica ad Herennium , attribuita un tempo a Cicerone sulla scorta dell'autorità dei manoscritti, ma la cui paternità è oggi asse­ gnata a Cornificio (Calboli: 1969).  204 9. RETORICA LATINA La problematica semiotica viene sviluppata da Cornificio all'interno della constitutio coniecturalis dove, per verifica­ re se sia stata commessa o no una determinata azione da un certo imputato, si segni che ne mostrino la col­ pevolezza o Pinnocenza. L'elemento non conoscibile diret­ tamente a cui i segni devono rimandare non è il fatto o rea­ to, che è ovviamente noto, ma l'agente responsabile di tale fatto, oppure le relazioni tra un certo individuo e un certo fatto. Questo aspetto è abbastanza peculiare della semiotica giuridica ed è ben illustrato dall'esempio di Cornificio: Aiace in un bosco, dopo essersi reso conto di quello che aveva compiuto durante la sua pazzia, si gettò sulla spada. Sopravviene Ulisse e lo vede morto; estrae dal suo corpo l'arma insanguinata. Sopravviene Teucro, vede il fratello ucciso e il nemico del fratello con la spada insanguinata. Lo accusa di assassinio. Qui si cerca la verità per congettura. (Rhet. adHer., l, 18) Ma ciò che è in questione nell'esempio Oa colpevolezza o meno di Ulisse) per i retori romani non può scaturire da una intuizione spontanea, né da una abduzione fulminea. La retorica antica, come ha sottolineato Barthes (1970: tr. it. 59), nutriva una fiducia incrollabile nel metodo ed era ossessionata dali'idea che lo spontaneo e l'ametodico non portavano a niente di buono. Così Cornificio, con il suo ti­ pico procedimento diairetico, suddivide lo stato congettura­ le in sei parti, sei diverse vie per arrivare alla verità (Il, 3): probabile (probabilità), conlatio (confronto), signum (pro­ cedimento indiziario), argumentum (segno), consecutio (conseguenza), adprobatio (conferma). 9. 1 . 1 La probabilità Troviamo qui una terminologia in parte familiare, in quanto probabile può essere considerata la trasposizione la­ tina di eik6s, e signum quella di smefon, per limitarci solo a questi due casi. Ma i contenuti delle espressioni latine so-  9.l LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 205 no completamente difformi dalle corrispondenti nozioni greche. Infatti il probabile è "ciò attraverso cui si dimostra che era utile commettere il crimine e che l'imputato non si è mai astenuto da comportamenti di tale turpitudine" (Il, 3), defi­ nizione nella quale non rimane molto deli'eik6s aristotelico. Piuttosto la nozione di probabile è connessa alla caratteriz­ zazione psicologica dell'individuo in questione (''Se [l'accu­ satore] dirà che ha agito per denaro, mostri che egli è sem­ pre stato avaro, se per una carica, ambizioso; così potrà far combaciare il difetto congenito con il motivo del crimine", Il, 5) e, come si può cogliere dalla sua ulteriore suddivisione in causa e vita, oscilla tra la nozione di "movente" e quella di "precedenti". 9.1.2 Il procedimento indiziario La nozione di signum viene definita da Cornificio come "ciò che serve a mostrare come è stata cercata un'occasione favorevole ali'esecuzione (del crimine)" (II, 6). Non ritro­ viamo nemmeno qui la nozione greca di smeion. Piuttosto il signum costituisce l'insieme di quei procedimenti indizia­ ri, di pertinenza dell'investigatore, che permettono di rico­ struire il fatto scomponendolo, come suggerisce di fare Cornificio, in tanti oggetti di indagine separata: sul luogo del delitto, sul tempo, sull'occasione, sulla speranza di por­ tare a esecuzione il fatto, sulla speranza di tenerlo celato. 9.1.3 Il segno Una nozione che presenta maggiore interesse è quella di argumentum. Se la sua definizione non è ancora molto elo­ quente ("Argumentum è ciò attraverso cui il crimine viene confermato con segni [argumentis] più precisi e con un so­ spetto più sicuro", II, 8), gli esempi che vengono forniti ci tolgono ogni dubbio che si tratti del segno come singolo fe­ nomeno percepibile, che rimanda a un fatto non conoscibile  206 9. RETORICA LATINA direttamente; la sua struttura è quella in ferenziale, espressa da un periodo ipotetico: "Se il corpo del morto s'è alterato nel colore per gonfiore o lividezza, significa che è stato uc­ ciso da una dose di veleno" (Il, 8); se si trova del sangue sulle vesti dell'imputato, se è stato visto sul luogo del delit­ to, significa che egli è colpevole (ibidem) ecc. Caratteristicamente l'argumentum viene suddiviso in tre tipi, in relazione al rapporto temporale (anteriorità, con­ temporaneità, posteriorità) che si instaura fra antecedente e conseguente del segno; classificazione, questa, che risale al­ la retorica prearistotelica (si trova a esempio nella Rhetori­ ca ad Alexandrum, 1430 b, 30 e sgg.) e giunge almeno fino a Quintiliano. 9. 1 .4 Le reazioni fisiche non controllabili Un'altra nozione interessante è quella di consecutio, che Calboli (1969: 232) mette in relazione ai sjmptoma della terminologia medica. Si tratta, come dice Cornificio, dei "segni (signa) che solitamente presentano i colpevoli e gli innocenti" (II, 8), come, a esempio, che l'imputato, quando si è giunti a interrogarlo, "sia arrossito, sia impallidito, ab­ bia titubato, sia caduto in contraddizione, si sia smarrito, abbia fatto qualche promessa, che sono segni di coscienza non tranquilla" (ibidem). Sono dunque delle reazioni fisi­ che non controllabili, dei segni involontari che possono ve­ nire messi in relazione, in maniera abbastanza codificata, con degli stati d'animo (come il senso di colpa). Questi se­ gni, per quanto non siano facilmente dissimulabili, sono pe­ rò manipolabili a livello di interpretazione: infatti l'avvoca­ to difensore può intervenire sulla loro presenza sostenendo che l'imputato, a esempio, si è turbato per la gravità del pe­ ricolo e non per la coscienza della colpa; d'altro canto, l'ac­ cusatore può intervenire sull'assenza di segni di tal genere sostenendo che l' imputato aveva a tal punto premeditato la cosa da presentare la massima sicurezza, ragione che rende l'assenza di turbamento "segno di sicurezza, non d'inno­ cenza" (ibidem).  probabile causa - vita conlatio alii nemini bonum - neminem alium potuisse slgnum occasio - spes per- ficiendi spes celandi l argumentum consecudo adprobatio - praeteritum - signa 9.1 LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 207 9. 1 .5 La classificazione e la forza argomentativa Come si può vedere, il procedimento indiziario che viene messo in atto in ambito retorico-giuridico gioca su vari li­ velli: (i) innanzitutto, ci sono i segni della premeditazione. che nella tassonomia di Cornificio sono distribuiti tra il probabile, la conlatio (che consisteva nel dimostrare che l'imputato aveva più di ogni altro ragioni e possibilità di commettere il delitto) e il signum; (ii) in secondo luogo ci sono i segni delfatto stesso, che sono rappresentati dagli ar­ gumenta: essi mettono in relazione diretta l'imputato con il reato; (iii) in terzo luogo c'è quella sorta di segniproducibili quasi sperimentalmente, che si traggono dal comportamen­ to dell'imputato osservato in un momento diverso e succes­ sivo rispetto a quello dell'evento criminoso. Possiamo illustrare complessivamente la classificazione della materia congetturale effettuata da Cornificio con il se­ guente schema (Curcio 1900):  - locus - tempus - spatium - consequens   Se messa a paragone con quella della Retorica aristoteli­ ca, la classificazione di Cornificio appare filosoficamente meno coerente e non saldamente fondata. Tuttavia, con­ temporaneamente, appare molto più aderente alla materia instans conscientiae - signe  confidentiae - signa  innocentiae  208 9. RETORICA LATINA cui è destinata ad applicarsi e non priva di una logica inter­ na nel suo seguire i segni deli'imputato in un percorso che parte dal momento precedente il crimine e culmina nel pro­ cesso . Cornificio discute anche della forza argomentativa dei se­ gni, quando propone di organizzare in una struttura logica gli argomenti trovati. E, a questo proposito, nota che ci so­ no dei segni che non garantiscono nessuna certezza come a esempio: uoeve aver partorito, poiché porta in braccio un bimbo piccolo", oppure: "Dal momento che è pallido, deve essere ammalato" (Il, 39). Come si può notare, si tratta di segni che corrispondono a quelli in 2a figura di Aristotele: essi non sono sicuri perché, a esempio, il pallore può bensi indicare malattia, ma anche una quantità di altre cose. Quello che è però interessante è che Cornificio non li rifiu­ ta, ma sottolinea un loro valore argomentativo nel caso che compaiano in gran numero ("se però vi si aggiungono an­ che tutti gli altri, tali segni hanno un certo peso per accre­ scere il sospetto", ibidem). 9.2 Cicerone Cicerone affronta e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti della sua produzione teorica: (i) le opere di argomento retorico; (ii) le opere che parlano dei se­ gni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di questo ambi­ to, possiamo osservare che l'interesse per i segni non è ugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De oratore, I'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una problematica a carattere so­ cio-politico, volta a definire la figura deli'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut­ to ciò che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con esso anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tanto trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi:ura come un vasto campo di  9.2 CICERONE 209 competenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il De inventione, le Partitio­ nes oratoriae e i Topica, opere molto diverse tra loro, ma accomunate dalla caratteristica di prendere in considerazio­ ne e di sistematizzare la gran massa delle nozioni che com­ pongono l'apparato tecnico della retorica. Un limite di que­ ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa­ rossismo, come nel De inventione, e che spesso non trova un'adeguta giustificazione teoretica. Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è dato rintracciare gli spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno. 9.2. 1 Il "De inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di Cicerone e con­ densa l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino a Ermagora: è quindi naturale che al suo interno si tro­ vino riprodotti alcuni aspetti della concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In particolare è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an­ tecedente che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata l'attenzione verso i segni involontari (l'im­ pallidire, l'arrossire, il balbettare dell'imputato) come indi­ zi di colpevolezza. Infine compare la classica divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il fatto crimi­ noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei segni proposta da Cice­ rone è in larga misura diversa da quelle precedenti. Essa ap­ pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar­ gomentazione), cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle prove per confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere qualche cosa che si esco­ gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in maniera  210 9. RETORICA LATINA probabile (probabiliter ostendens) , o la dimostra in . un mo­ do necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44). Anche se non viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione è proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è stato trovato (un indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato) rinvia a qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione (già aristotelica) tra una forza argomentativa debole (probabili­ ter ostendens) e un'inferenza necessaria (necessarie demon­ strans) . 9.2 . 1 . 1 Rinvio necessario e non necessario I segni necessari sono così definiti: "Viene dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi né essere pro­ vato diversamente da come viene detto" (ibidem). Ne sono esempi: "Se ha partorito, è stata con un uomo" (ibidem); "Se respira, è vivo", "Se è giorno, c'è luce" (De inv. , l, 86). Come Cicerone spiega in un altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il conseguente sono legati da una re­ lazione inscindibile (cum priore necessario posterius cohae­ rere videtur, De inv., l. 86). Il rapporto di rinvio non necessario viene poi cosi defini­ to: "Probabile è poi ciò che suole generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" (De inv., l, 46). Con questa definizione Cicerone mette in evidenza due caratteri: (i) quello probabilistico e (ii) quello doxastico; il primo di questi era da Aristotele attribuito peculiarmente all'eikos (verisimile). E infatti i primi due esempi sono di un tipo che Aristotele avrebbe classificato come eikos: "Se è madre, ama suo figlio", "Se è avido, non fa gran caso del giuramento" (De inv., I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto di generalizzazio­ ne che per Aristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet., 1357 a). C'è però un terzo esempio, "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio" (De inv. ,  9.2 CICERONE 21 1 I, 47), che non sembra dello stesso tipo, ma è più vicino al smeion aristotelico. 9.2. 1 .2 L'indizio La categoria di signum, poi, compare come una sottopar­ tizione dei segni non necessari, accanto al credibile (credibi­ le), ali'iudicatum (giudicato) e al comparabile (paragonabi­ le). Se le ultime tre nozioni appaiono distinte in base a crite­ ri estrinseci (e scompariranno nelle trattazioni successive), il signum corrisponde a una categoria di fenomeni abbastan­ za particolare: "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no­ stri sensi e indica (significar) un qualcosa che sembra deri­ vato dal fatto stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più sicura" (De inv. , I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "il pallore", "la fuga", "la poivere". Si tratta, come si vede, degli indizi, intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e generalmente non vo­ lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio­ nale; ma niente vieta che vengano sviluppati in proposizio­ ni, come dimostra il caso deli'indizio "polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio". Gli indizi, infine, vengono suddivisi secondo la nota relazione temporale con il fatto criminoso. Possiamo quindi schematizzare la classificazione propo­ sta nel De inventione (cfr. p. 212). 9.2.2 "Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae sono un'opera della tarda matu­ rità di Cicerone, nella quale la classificazione della materia semiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto al trattato giovanile. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente da quella dei modelli greci e viene completa­ mente latinizzata. In secondo luogo gli indizi (qui chiamati  212 9. RETORICA LATINA argumentatio  necessaria probsbilis (·quod fero solet fiori élut quod in opi­ nione positum est") es.: .. "pallore'", ..polvere" vestigiafactl) non compaiono più come sottopartizione di un'altra categoria, ma assumono un ruolo autonomo. (·ea quae alitar ac discuntur nec fieri nec probari pos­ sunt"l es . : ·se ha partorito, è stata con un uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et quiddam sig nificat , quod ex ipso profectum est'") es.: ·sangue", ·ruga"', Sa è madre, ama suo fi\]lio   --- --- -  l "'·-- signum erodibile indicBtLm comparabile / -- -- Infine viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo­ ghi estrinseci" (corrispondenti alle "prove extratecniche", titechnol) e "luoghi intrinseci'' (corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1), che veniva criticata nel De inventione (Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei Topica. È curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle testirnonianze umane, anche quelle "divine": gli oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti onirici) (Part. or. , 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una concezione orda­ lica e antichissima deli'amministrazione della giustizia; tut­ tavia è anche un indizio di un continuo riaffiorare del para­ digma divinatorio all'interno dei fatti semiolici, anche quando ormai i segni si sono completamente laicizzati.  9.2 CICERONE 213 Né questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L ,orazione per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli dei" (V, 81; Lanza 1979: l05). 9.2.2. 1 Il verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli argomenti intrin­ seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di cau­ sa congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di segni: i verisimilia (verisimili) e le notaepropriae rerum (segni caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che accade per lo più" (Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri­ sponde ali'eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili­ stico e generalizzante. La nnta propria rei viene definita come "una prova che non si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co­ me il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi­ dentemente, del segno necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman­ da alla nozione di fdion smeion (segno proprio). Per Ari­ stotele il segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva carat­ tere di necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si­ gnis, l, 12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali  214 9. RETORICA LATINA vengono dati questi esempi: "un'arma, macchie di sangue, grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor­ so contraddittorio, tremore [...], gli indizi materiali della premeditazione, le confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive, rivelate" (Pari. or., 39). Cicerone non definisce QUf)tO tipo di segni, se non dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem), caratte­ ristica condivisa anche dai signa del De inventione (l, 48), in cui ricorrono esempi analoghi, e dagli argumenta di Cor­ nificio (Rhet. adHer., II, 8). I commentatori si sono chiesti se i vestigiafacti siano più in relazione con i segni necessari (notae propriae rerum) o con i verisimili (verisimile) (Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi­ che degli ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate­ goria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai tekmria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo delle Partitiones oratoriae (1 14), dove ricorrono esempi analoghi, i vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono definiti come consequentia, cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica che definiva appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma mentre Aristotele condannava i smefa da un punto di vista episte­ mologico per la loro insicurezza, Cicerone è pronto a rico­ noscerne l'efficacia qualora si presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi schematizzare la classificazione cicero­ niana nelle Partitiones oratoriae (cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla divinazione Molte cose collegano la retorica giudiziaria alla divina­ zione. Innanzitutto il fatto che entrambe si avvalgano dei segni per arrivare alla conoscenza di fatti non direttamente accessibili alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente­ mente congetturali e altri aspetti che sono invece naturali o  trt•) (·sensu percipi potest•) es . : ·sangue - uccisione· es.: •adolescenza­ inclinazione alla libidine · 9.2 CICERONE 215 coniecturs ---- l ----- verisimilie (•quod plerumque rta notse proprise rerum (•quod numquam alrter frt certumque declarat•) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alla dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu­ rali) e prove extratecniche corrisponde la distinzione tra di­ vinazione artificiale (basata sull'interpretazione e sulla con­ gettura) e divinazione naturale. Infine, come Cicerone pole­ micamente rileva (De div. , II, 55), i segni della divinazione sono talvolta interpretati in maniera diametralmente oppo­ sta, proprio come avviene nel processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due interpretazioni di­ verse ed entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i metodi deli'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti della di­ vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di intellet­ tuali della sua epoca, educati ai metodi di indagine della fi­ losofia greca, a fondamento razionalistico, e contempora­ neamente impegnato in politica, sente l'esigenza di operare una distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la divinazione fa, per lui, parte. La religione appartiene alla più antica tradizione romana e, posta come è ai fondamenti dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione dello stato stso; la superstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi spuri che inquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere respinta, anche per­ ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel suo impegno di gestione della repubblica.  216 9. RETORICA LATINA Cicerone affronta questi argomenti nel De natura deo­ rum, nel De fato e, soprattutto, nel De divinatione. Que­ st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi sulle teorie storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazioni di Cicerone contro la teoria soste­ nuta da Quinto sono particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una concezione generale del segno. 9.2.3. 1 La divinazione "artificiale" Secondo la teoria di Quinto, gli dei si pongono come fon­ te dell'informazione e come emittenti nei processi di comu­ nicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinata­ ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di divinazione, il pro­ cesso comunicativo si struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla divinatio artificialis, in cui l'interpretazione dei segni è legata a un'ars, ovvero a una tecnica professionale di decriptazione, demandata a specia­ listi, ciascuno esperto in un settore: extispices (esaminatori delle viscere), interpretes monstrorum et fu/gurum (inter­ preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures (interpreti del volo degli uccelli), astrologi (interpreti delle stelle), in­ terpretes sortium (interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed estratte a caso). In tale divinazione l'informazione proveniente dalla divinità si materializza prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica, secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau­ se ed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il /6gos divino e costituisce il fato (heimarmén), non è conoscibile per intero da parte degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola divinità (De div., I, 125-127).  9.2 CICERONE 217 Tuttavia viene prevista l'esistenza di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo srotolarsi di una gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre quantoprimaèaccaduto"(Dediv.,l, 127).Questofasìche gli uomini, attraverso l'osservazione attenta, colgano il mo­ do in cui gli eventi si ripetono e, pur non potendo conoscere direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas cernunt) (ibidem). Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con­ nessioni passate, si crea un vero e proprio codice basato sul­ la iteratività. Si può schematizzare così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla iterattività 9.2.3.2 La divinazione "naturale" Il secondo tipo di divinazione è quello definito naturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma derivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso la mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di preveggenza derivan­ ti da invasamento profetico, cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri­ patetiche (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente no­ minati, De div. , II, 100), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la legano al corpo, partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo del codice è in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema:     218 9. RETORICA LATINA emittente divino - segno interno - evento futuro .... ricevente umano 9.2.3 .3 Critiche "semiologiche" contro i segni divinatori Le obiezioni che Cicerone muove ai sostenitori della divi­ nazione si basano su argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la quale Cicerone nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente carattere semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se­ gni non siano veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli antecedenti rispetto a dei conse­ guenti. Per distinguere i segni veri rispetto a quelli presunti della divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le tecniche scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica previsionale del contadino e deli'astronomo) e la divinazione. In entrambi i casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi; ma, mentre le pratiche pro­ fessionali adottano una vera e propria metodologia che comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e congettura (coniectura)" (De div. , II, 14), le prati­ che divinatorie si basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso farà accade­ re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva, è il codice (anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla frequenza statistica) e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip­ pocratici tendevano a distinguere la propria scienza profes­ sionale dalla divinazione e dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi si sbarazza in termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso della divinazione tecnica si farebbe appello ali'osservazione iterata delle coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28).     9.3 QUINTILIANO 219 Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div. , Il, 83); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio­ so, ma a ben diverse cause naturali (De div., II, 62); (iii) l'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni ne­ cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div. , II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivata da ra­ gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div., II, 74). 9.3 Quintiliano All'epoca di Quintiliano, la trasformazione del regime politico dalla repubblica all'impero aveva fatto si che la re­ torica divenisse inutilizzabile come mezzo di agitazione po­ litica e sociale: per questo, da strumento pragmatico quale l'aveva essenzialmente concepita Cicerone, era divenuta so­ prattutto materia teorica. In questo quadro Quintiliano è colui che espone i principi dell'arte retorica nella maniera migliore e più completa di chiunque altro e contemporanea­ mente registra il processo di cadaverizzazione che l'elo­ quenza stava subendo. Nella sua Institutio oratoria (ca. 93-95 d.C.) tratta un programma completo del ciclo educativo del perfetto orato­ re, in cui la competenza semiotica ha una posizione di rilie­ vo. Gran parte degli elementi che compongono l'opera di Quintiliano hanno indiscutibilmente una pertinenza semio­ tica; ma nella lnstitutio è presente anche una sezione speci­ ficamente dedicata ai segni, come era ormai consuetudine per ogni trattato di retorica. Vaie anche nel caso di Quintiliano la considerazione fatta a proposito degli altri trattatisti di retorica, e cioè che la ri­ flessione sul segno è saldamente inquadrata all'interno del­ l'ottica giuridica con cui viene trattata la materia. I segni in­ fatti fanno parte delle probationes artificiales, cioè delle  220 9. RETORICA LA... INA prove che l'abilità (ars) dell'oratore saprà trovare per far assolvere o condannare un imputato. D'altro canto, le pro­ bationes inartificiales sono quegli elementi che derivano dali'esterno del processo e vengono consegnati ali'oratore insieme al suo dossier. Il seguente schema ne mostra l'inventario completo: 9.3. 1 Orientamento della retorica di Quintiliano probstiones (prove)  i n a rt i f i c/i a l tJ s praejudicia (pregiudizi) rumores (voce pubblica) tormenta , quaesita ( inter­ rogatorio sotto tortura) tabulae (scritture, atti, contratti ecc.) jusjursndum (giuramento) testimonia (testimonianze) a rt i f i c i s l e s  formale Va pure detto che la retorica di Quintiliano, accanto a un orientamento giuridico, ne presenta anche uno fortemente teorico, che tende a inquadrare la materia il più possibile in termini logici e formali (anche se è stato rilevato che Quinti­ liano non si trova del tutto a suo agio in questo campo) (Kennedy 1969). Così tutti e tre i tipi di prove tecniche (signa, argumenta, exempla) vengono inquadrati in un reticolo di relazioni lo­ giche vicine al genere deli'implicazione, ovvero del rappor­ to "se p, allora q". Infatti il meccanismo di avvaloramento signum (segno, prova di fatto) argumentum (prova di ragionamento) exemplum (esempio) ed epistemologico  9.3 QUINTlIANO 221 delle prove deve assumere una forma logica che coincide con uno dei seguenti quattro tipi: (i) il concludere dalPesse­ re una cosa che un'altra non sia (p-+ - q) ("È giorno, dun­ que non è notte"); (ii) il concludere dall'essere una cosa che un,altra sia (p-+q) (''Il sole splende sulla terra, dunque è giorno"); (iii) il concludere dal non essere qualcosa che qualcos'altro sia ( -p-+q) (''Non è notte, quindi è giorno"); (iv) il concludere dal non essere qualcosa che un'altra sia ( -p-+ - q) ("Non è un essere razionale, quindi non è un uomo") (lnst. or. , V, 8, 7). Analizzati ali'interno di questa griglia, i segni tendono a configurarsi come degli antecedenti rispetto a dei conse­ guenti; nozione, questa, che Quintiliano non ha bisogno nemmeno di rendere esplicita, in quanto attinta direttamen­ te dalla tradizione della retorica e della logica greca. Dallo stesso ambito, del resto, verranno attinti anche molti esem­ pi, tra cui l'ormai celebre "Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo", che, più o meno variato, ritorna in tutti i trattatisti del segno. Come Aristotele, a cui fa costante riferimento, Quintilia­ no è orientato verso un'ottica epistemologica, piuttosto che di calcolo logico: ciò che lo interessa è soprattutto la possi­ bilità di acquisire una conoscenza a partire da un segno. Scrive Eco (1984: 38) a questo proposito: "Aristotele, inte­ ressato ad argomentazioni che in qualche modo rendessero ragione dei legami di necessità che reggono i fatti, poneva distinzioni di forza epistemologica tra segni necessari e se­ gni deboli. Gli stoici, interessati a puri meccanismi formali dell'inferenza, evitano il problema. Sarà Quintiliano, inte­ ressato alle reazioni di un'udienza forense, a cercare di giu­ stificare, secondo una gerarchia di validità epistemologica, ogni tipo di segno che in qualche misura risulti 'persua­ sivo' ". A proposito del carattere persuasivo dei signa, Quintilia­ no fa una precisazione preliminare: i signa hanno molto in comune con le prove extratecniche, in quanto, a esempio, una veste insanguinata, le grida o i livori non vengono esco­ gitati dali'arte deli'oratore, ma gli vengono consegnati nel dossier. Inoltre, se esi rimandano a un significato inequi-  222 9. RETORICA LATINA vocabile, scompare la possibilità di argomentazione; se, in­ vece, essi sono ambigui, non sono delle prove ma necessita­ no essi stessi di prove (lnst. or., V, 9, l). Per questa ragione i segni devono essere divisi innanzitut­ to in necessari e non necessari. 9 . 3 . 2 I segni necessari l signa necessaria sono quelli che, come dice Quintiliano, "aliter se habere non possunt" (lnst. or. , V, 9, 3), cioè sono degli antecedenti che rimandano in maniera necessaria a dei conseguenti, e vengono messi in corrispondenza con i tekmria della tradizione greca. Si tratta di segni insolubili (alyta smefa), ovvero legati inscindibilmente ai conseguen­ ti. L'informazione che se ne ricava è sicura e incontroverti­ bile . La furia classificatoria, tipica del mondo antico, porta inoltre Quintiliano a sottoclassificare questo tipo di segni in base al fatto che i loro conseguenti siano individuabili nel tempo passato ("Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo"), nel presente (''Se soffia un forte vento sul ma­ re, si formano su di esso le onde"), nel futuro ("Se uno è stato ferito al cuore, morirà") (lnst. or., V, 9, 5). Questi segni vengono, poi, sottoposti anche a un altro ti­ po di classificazione basata sul criterio di reversibilità dei termini: ci sono relazioni segniche, come "Se vive, respira", che mantengono la relazione di necessità anche invertendo antecedente e conseguente: "Se respira, allora vive"; ma vi sono anche relazioni segniche in cui la reversibilità non è possibile, come in "Se cammina, si muove", "Se ha partori­ to, si è unita con un uomo", "Se è ferito al cuore, morirà", "Se si è raccolta la messe, si è seminato", "Se è stato ferito dalla spada, ha una cicatrice" (lnst. or. , V, 9, 7). Quintilia­ no sembra sollevare qui il problema della "conversazione" (antistréphein), che per Aristotele (An. Pr. , 70 b, 32 e sgg.) è condizione del segno proprio, cioè dell'"esserci un unico segno di un'unica cosa".  9. 3 QUINTllANO 9.3.3 I segni non necessari 223 I signa non necessaria, che Quintiliano mette in corri­ spondenza con gli eik6ta greci, sono le verisimiglianze, cioè quei fatti su cui vi è comunemente accordo, quelli che, se­ condo Eco (1984: 40), potendo essere altrettanto convincen­ ti di un segno necessario, dipendono dai codici e dalle sce­ neggiature che una certa comunità registra come "buone". Quintiliano ne distingue tre tipi fondamentali, in base al­ l'intensità del legame che si stabilisce fra antecedente e con­ seguente: firmissimum (sicurissimo), corrispondente alla norma statistica, come "Se sono genitori, amano i propri fi­ gli"; propensius (molto probabile), come "Se uno sta bene in salute, allora giungerà fino al giorno successivo"; non re­ pugnans (non contraddittorio), cioè non contrastante con il senso comune, come "Se c'è stato un furto dentro la casa, allora è stato fatto da chi era in casa". Nessuna di queste inferenze presenta un grado di certezza accettabile. Ma nell'ottica del discorso persuasivo esse pos­ sono essere molto efficaci, soprattutto nel caso che si pre­ sentino in gran numero avvalorandosi a vicenda (lnst. or. , V, 9, 8), poiché ricostruiscono una tessitura isomorfa a quella dell'opinione pubblica. 9.3.4 Gli indizi materiali Nel contesto dei signa non necessaria (lnst. or., V, 9, 8) Quintiliano parla del signum senza altra determinazione (messo in corrispondenza sia con indicium e vestigium, sia con il greco smeion). Non si capisce bene se esso venga considerato una categoria autonoma rispetto alle due prece­ denti (segni necessari e verisimiglianze), come del resto av­ veniva nella fonte aristotelica, o se Quintiliano consideri analoghi eik6ta e smeia. Nella seconda ipotesi si potrebbe parlare di un vero e proprio errore di Quintiliano, come fa Cousin (1936). Tuttavia il fatto che consideri un sinonimo l'espressione vestigium e ricorra all'esempio del sangue che permette di scoprire l'uccisione, spinge a stabilire un paral-  224 9. RETORICA LATINA lelo con i vestigia facti delle Partitiones oratoriae (39) cice­ roniane, dove compariva lo stesso esempio. Si tratterebbe, in definitiva, della abituale categoria degli indizi materiali (lividi., enfiagioni, ferite ecc.) (lnst. or., V, 9, I l) percepibili sensorialmente. Quintiliano li definisce come quelli "attraverso cui si comprende un'altra cosa, (per quod alia res inte/ligitur, V, 9, 9), sottolineando che con essi si stabilisce un rapporto di significazione, che parte da un sensibile per arrivare a qualcos'altro. Nella precedente categoria (quella dci signa non necessa­ ria == eik6ta) venivano classificati fatti o proprictfi che forni­ vano un'informazione non sicura, perché non convalidabile dal punto di vista sciePtifico (se uno sta bene oggi, non è scient((ica1nente sicuro che arriverà a domani); nella cate­ goria dei signa sono classificati fatti che sono insicuri per­ ché ambigui (una macchia di sangue su una veste può ri­ mandare tanto bene a un omicidio, come a una epistassi o allo schizzare del sangue di una vitti1na durante un sacrifi­ cio). La classificazione, allora, dovrebbe essere così formu­ lata: necessaria relazione necessaria tra a'ltecadente e cons&guento es.: "Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo· l ------- signa  non necssaria verisimiglianze non conva!idabili scienti­ ficamente es.: "Se uno sta bene in salute, giungerà fino al g iorno successivo" signa indizi materiali ambigui es.: ..Se macchia di sangue, allora omi­ cidio, o epistassi, o sacrificio· Questo spiega anche come mai Quintiliano chiami signa non necessaria dei casi chiari di verisimiglianza (e non si­ gna), come gli esempi che egli riprende da Ermagora e che  9.3 QUINTILIANO 225 critica: "Tra le cose che sono segni, ma non necessari, Er­ magora ritiene questo, che non sia vergine Atalanta perché vaga nei boschi con i giovani" (lnst. or., V, 9, 12). Quinti­ liano ha una certa riluttanza a considerare questo e altri esempi di verisimiglianze molto deboli come elementi pro­ banti in un processo: "Ma se accoglieremo questo come se­ gno, temo che si ritengano come segni tutte le conseguenze che si traggono da un fatto". Tuttavia, egli aggiunge, "essi si trattano allo stesso modo dei segni" (ibidem). Quella che viene descritta è la condizione tipica della semiotica giuridi­ ca, in perenne dialettica tra la forza oggettivamente proba­ toria degli argomenti e l'abilità dell'avvocato di fare un uso persuasivo anche di segni debolissimi. Naturalmente, in un'ottica semiotica generale, non c'è al­ cun problema a considerare come segni "tutte le conseguen­ ze che si traggono da un fatto". Le proprietà che l'enciclo­ pedia registra a proposito di un certo oggetto o fatto sono tutte, a buon diritto, dei segni di questo oggetto o di questo fatto. Saranno poi le relazioni circostanziali e contestuali a garantire le differenze nella forza probatoria: una pis.tola può essere segno di un delitto, ma diversi sono i casi in cui essa venga rinvenuta in casa di un presunto terrorista, di un poliziotto, di un armaiolo (Eco 1984: 39). E forse questo era stato oscuramente intuito dalla retori­ ca antica, già da Aristotele, ma ancor più da Quintiliano, i quali, da una parte ponevano una distinzione netta tra "cer­ tezza scientifica" e "certezza legata ai codici socio-cultura­ li", ma, dall'altra, utilizzavano entrambe, caso mai racco­ mandando, nel secondo caso, l'assunzione congiunta di più prove che si rafforzassero a vicenda. AGOSTINO 10.0 Unificazione delle teorie del segno e del lin­ guaggio Con Agostino si opera, per la prima volta e in maniera esplicita, una completa saldatura fra la teoria del segno e quella del linguaggio. Per trovare una altrettanto rigorosa presa di posizione teorica bisogna aspettare il Corso di lin­ guistica generale di Saussure, scritto quindici secoli dopo. La grande importanza che la tematica semiolinguistica ha in Agostino deriva in gran parte dal suo assorbimento della lezione stoica, come del resto testimonia il trattato giovanile De dialectica (387 d.C.): in esso sono riassunti molti dei principali temi stoici in materia semiotica, tra cui il princi­ pio che la conoscenza è, in linea generale, conoscenza attra­ verso segni (Simone 1969: 95). Ma vari elementi differenziano l'impostazione agostinia­ na da quella stoica. In primo luogo, infatti, gli stoici, racco­ gliendo e formalizzando una lunga tradizione di origine so­ prattutto medica e mantica, consideravano propriamente segni (smeia) solo i segni non verbali, come il fumo che svela il fuoco e la cicatrice che rinvia a una precedente feri­ ta. Agostino, invece, per primo nell'antichità, include nella categoria dei signa non solo i segni non verbali come i gesti, le insegne militari, le fanfare, la pantomima ecc., ma anche le espressioni del linguaggio parlato (''Noi diciamo in gene­ rale segno tutto ciò che significa qualche cosa, e fra questi abbiamo anche le parole", De Magistro, 4.9).  10. 1 STRATIFICAZIONE TERMINOLOGICA 227 In secondo luogo, gli stoici avevano individuato nell'e­ nunciato il punto di congiunzione tra il significante (semaf­ non) e il significato (semain6menon), elemento che comun­ que non coincideva con il segno (semefon). Agostino, inve­ ce, individua nella singola espressione linguistica, cioè nel verbum (''parola"), l'elemento in cui significante e signifi­ cato si fondono, e considera questa fusione un segno di qualcos'altro ("Quindi, dopo aver sufficientemente assoda­ to che le parole [verba] non sono nient'altro che segni [si­ gna] e che non può essere segno ciò che non significhi [si­ gniflcet] qualcosa, tu hai proposto un verso di cui io mi sforzassi di mostrare che cosa significhino le singole paro­ le", De Mag., 7.19). In terzo luogo, gli stoici avevano elaborato una teoria del linguaggio che aveva le due caratteristiche di essere formale (il lekt6n non coincideva con alcuna sostanza) e centrata sulla significazione. Agostino, invece, elabora una teoria del segno linguistico che ha un carattere psicologistico (i si­ gnificati si trovano nell'animo) e comunicazionale (passano nell'animo dell'ascoltatore) (Todorov 1977: 35; Markus 1957: 72). 10.1 n triangolo semiotico e la stratificazione ter­ minologie& È del resto con l'analisi della nozione stessa di parola (verbum simplex) che si apre il De dia/ectica ed è con questa nozione che si inaugura una serie interessante di distinzioni terminologiche. Al capitolo V, Agostino elabora una triplice distinzione che possiamo mettere in corrispondenza con i moderni con­ cetti di significato, significante e referente. Infatti individua in primo luogo la vox articu/ata (o il sonus) della parola, cioè quello che è percepito dali'orecchio quando la parola viene pronunciata. In secondo luogo individua il dicibi/e1 (corrispondente, anche dal punto di vista della trasposizio­ ne linguistica, al /ekt6n stoico), definito come ciò che viene avvertito dall'animo e che è in esso contenuto. In terzo luo-  228 10. AGOSTINO go, infine, distingue la res, che viene definita come un og­ getto qualsiasi, percepibile con i sensi, o con l'intelletto, op­ pure che sfugge alla percezione (De dialect. , cap. V). È così possibile ricostruire il triangolo semiotico nei se­ guenti termini: dicibile  vox articulata (o sonus) res Ma Agostino guarda ai segni anche dal punto di vista del loro potere di designazione, oltre che da quello della signifi­ cazione. Questo lo spinge a elaborare un'ulteriore suddivi­ sione terminologica in corrispondenza dei due aspetti che può assumere il referente di una parola: (i) può infatti avve­ nire che la parola rimandi a se stessa come proprio referente (fatto che si verifica nel caso della citazione, ovvero della designazione metalinguistica), e allora prende il nome di verbum;2 (ii) oppure può avvenire che la parola, intesa co­ me combinazione del significante e del significato, abbia come referente una cosa diversa da se stessa (come avviene con l'uso denotativo del linguaggio), nel qual caso prende il nome di dictio.3 È precisamente la nozione di dictio che, come ha osserva­ to Baratin ( 198 1 ), costituisce l'elemento di congiunzione tra la teoria del linguaggio e quella del segno. E ciò in virtù di uno sfasamento semantico che la nozione stoica di léxis (si­ gnificante articolato, ma senza essere necessariamente por­ tatore di significato) ha subìto nel corso degli studi lingui­ stici antichi.  10.2 RELAZIONE D'EQUIVALENZA E D'IMPLICAZIONE 229 Dictio è traduzione di léxis; ma non ha lo stesso significa­ to che le attribuivano gli stoici, bensì quello che le davano i grammatici alessandrini, in particolare Dionisio Trace, che definiva la léxis come "la più piccola parte dell'enunciato costruito" (Grammatici graeci, l , l , 22, 4), a metà strada tra le lettere e le sillabe, da una parte, e l'enunciato, dall'al­ tra. Questa sua particolare posizione fa sì che la léxis venga considerata come portatrice di un significato (in contrappo­ sizione alle lettere e alle sillabe che non lo posseggono), ma incompleto (in opposizione all'enunciato che porta un sen­ so completo). Lo spostamento di fuoco dalla centralità stoica dell'e­ nunciato alla centralità alessandrina della singola parola, fa sì che quest'ultima assuma al(\une delle funzioni prima spet­ tanti solo all'enunciato. In particolare, quella di essere un segno.4 Agostino definisce decisamente la parola come un segno al cap. V del De dialectica: "La parola è, per ciascuna cosa, un segno che, enunciato dal locutore, può essere compreso dall'ascoltatore". E, del resto, il segno viene definito come "ciò che presentandosi in quanto tale alla percezione sensi­ bile, presenta anche qualche cosa alla percezione intellet­ tuale (animus)" (ibidem). 10.2 Relazione di equivalenza e relazione di im­ plicazione Ponendo l'accento sulla parola, anziché sull'enunciato, Agostino ritrova l'opposizione platonica tra parole e cose. Incontro non casuale, in quanto Platone è l'unico, prima di Agostino, ad avere una concezione semiotica del linguag­ gio; per Platone, infatti, il nome era d/Oma, svelamento di qualcosa che non è direttamente percepibile, ovvero dell'es­ senza della cosa. Ma mentre nel Crati/o platonico si discute se il rapporto tra nome e cosa sia un rapporto iconico (pe­ raltro con la soluzione che conosciamo, cfr. cap. 4), in Agostino tale rapporto - configura subito come una rela­ zione di significazione: il nomt "significa" una cosa (nozio-  230 10. AGOSTINO ne equivalente a quella di "essere segno di" una cosa). Nel momento in cui Agostino propone la sua concezione della parola come segno, si producono alcune modificazio­ ni teoriche, conseguenti allo spostamento di prospettiva. In effetti nelle teorie linguistiche precedenti a quella di Agosti­ no il rapporto tra le espressioni linguistiche e i loro conte­ nuti era stato concepito come una relazione di equivalenza. La ragione, come noto, era di carattere epistemologico e ri­ guardava la possibilità di lavorare direttamente sul linguag­ gio, in sostituzione degli oggetti della realtà, dato che il lin­ guaggio veniva concepito come un sistema di rappresenta­ zione del reale (per quanto mediato dall'anima). Al contrario, il rapporto tra un segno e ciò a cui esso rin­ via era stato concepito come una relazione di implicazione, per cui il primo termine permetteva, per lo stesso fatto di esistere, di arrivare alla conoscenza del secondo. Eco (1984: 33) ha suggerito che, nell'enunciato stoico, i rapporti tra la relazione segnica e quella linguistica possono essere illustra­ ti da uno schema in cui il livello implicazionale si regge su quello equazionale:  onIE=>c __________________ m_E:! c dove E indica "espressione", C "contenuto", ::J "implica" e == "è equivalente a". In Agostino l'unificazione tra le due prospettive avviene a livello della singola parola e senza chiamare in causa rapporti di equivalenza. Caso mai la dic­ tio, che è rappresentabile con il livello i, è costituita dali'u­ nione, o prodotto logico, di una vox (significante) e di un dicibile (significato), unità che diviene segno di qualcos'al­ tro (livello ii).   10.3 UNmCAZIONE DELLE PROSPETI 231 10.3 Conseguenze dell'unificazione delle prospet­ tive La prima conseguenza dell'unificazione agostiniana, co­ me sottolinea Eco (1984: 33), è che la lingua comincia a tro­ varsi a disagio all'interno del quadro implicativo. Essa in­ fatti costituisce un sistema troppo forte e troppo strutturato per sottomettersi a una teoria dei segni nata per descrivere rapporti così elusivi e generici, come quelli che si ritrovano, a esempio, nelle classificazioni della retorica greca e roma­ na. Infatti l'implicazione semiotica era aperta alla possibili­ tà di percorrere l'intero continuum dei rapporti di necessità e di debolezza. Inoltre la lingua, come del resto Agostino mette in risalto nel De Magistro, possiede un carattere peculiare rispetto agli altri sistemi di segni, corrispondente al fatto di essere un "sistema modellizzante primario",5 cioè tale che qualun­ que altro sistema semiotico può essere tradotto in esso. La forza e l'importanza della lingua fanno sì che i rapporti con gli altri sistemi di segni si rovescino, e che essa, da specie, divenga genere: a poco a poco, il modello del segno lingui­ stico finirà per essere senz'altro il modello semiotico per ec­ cellenza. Ma quando il processo evolutivo arriva a Saussure, che ne rappresenta il punto culminante, si è ormai venuto a per­ dere il carattere implicativo, e il segno linguistico si è cri­ stallizzato nella forma degradata del modello dizionariale, in cui il rapporto tra la parola e il suo contenuto è concepito come situazione sinonimica o definizione essenziale. La seconda importante conseguenza dell'innovazione agostiniana riguarda il problema della fondazione della dia­ lettica e della scienza (Baratin 1 98 1 : 266 e sgg.). Fintanto­ ché il rapporto tra linguaggio e oggetto del reale era conce­ pito nei termini dell'equivalenza, il primo non appariva di­ rettamente responsabile della conoscenza del secondo. Ma nel momento in cui si attribuisce un carattere di segno alle espressioni linguistiche, la conoscenza delle parole sembra implicare, di per se stessa, e a priori, la conoscenza delle co­ se di cui esse sono segno. Tutta la grande tradizione sernio-  232 10. AGOSTINO tica, del resto, convergeva nel considerare il segno come il punto di accesso, senza ulteriori mediazioni, alla conoscen­ za dell'oggetto di riferimento. Il problema che si pone ad Agostino è allora quello di prendere una posizione rispetto alla questione se il linguag­ gio fornisca o meno , di per se stesso , informazioni sulle co­ se che significa. 10.4 Linguaggio e informazione Agostino affronta la questione del carattere informativo dei segni linguistici nel De Magistro (389 d.C.). L'opera, in forma di dialogo tra Agostino e il figlio Adeodato, inizia stabilendo due fondamentali funzioni del linguaggio: (i) in· segnare (docere) e (ii) richiamare alla memoria (commemo­ rare), sia propria sia degli altri. Si tratta di funzioni con­ temporaneamente informative e comunicative, in quanto coinvolgono in maniera centrale la presenza del destinatario nel momento in cui forniscono informazione. La prima parte del dialogo è tesa a dimostrare che queste funzioni, principalmente quella informativa, sono svolte dal linguaggio in quanto sistema di segni. Sono le parole, infatti, che, in qualità di segni, danno informazione sulle cose, senza che nient'altro possa assolvere alla medesima funzione. Nella seconda parte del dialogo, però, Agostino ritorna sull'argomento e cambia completamente la sua prospettiva. Fondandosi ancora una volta sul fatto che la lingua è un in­ sieme di segni, egli mostra che si possono presentare due ca­ si: (i) il primo caso è quello in cui il locutore produce un se­ gno che si riferisce a una cosa sconosciuta al destinatario; in tale situazione il segno non è in grado, di per se stesso, di fornire informazione, come dimostra l'esempio, riportato da Agostino, dell'espressione saraballae, la quale, se non precedentemente nota, non permetterà di comprendere il ri­ ferimento ai "copricapr', che essa effettua; (ii) il secondo caso è quello in cui il locutore produce un segno che si rife­ risce a qualcosa che è già noto al destinatario; e nemmeno  10.5 COMUNICAZIONE DEL VERBO INTERIORE 233 in questa evenienza si potrà parlare di un vero e proprio processo di conoscenza (De Mag. , 10.33). Alla fine Agostino conclude invertendo il rapporto cono­ scitivo tra segno e oggetto, e stabilendo che è necessario co­ noscere preliminarmente l'oggetto di riferimento per poter dire che una parola ne è un segno. È la conoscenza della co­ sa che informa sulla presenza del segno e non viceversa. La soluzione ha una ascendenza chiaramente platonica, e a es­ sa si collega anche la presa di posizione, di marca ugual­ mente platonica, che la conoscenza delle cose deve essere pregiata maggiormente della conoscenza dei segni, perché "qualunque cosa sta per un'altra, è necessario che valga meno di quella per cui essa sta" (De Mag., 9.25). Ma se per le cose sensibili (sensibilia) sono gli oggetti esterni che ci permettono di arrivare alla conoscenza, non altrettanto avviene nel caso delle cose puramente intelligibi­ li (intelligibilia). Per queste ultime Agostino individua una soluzione "teologica": la loro conoscenza deriva dalla rive­ lazione che viene fatta dal Maestro interiore, il quale è ga­ ranzia tanto deli'informazione quanto della verità (De Mag., 12.39). Ma anche con questa soluzione "teologica" del problema linguistico, al linguaggio è lasciato uno spazio, che in parte coincide con la funzione del segno rammemorativo, ma in parte la supera: quando conosciamo già l'oggetto di riferi­ mento, le parole ci ricordano l'informazione; quando non lo conosciamo , ci spingono a cercare (De Mag. , 1 1 . 36) . 10.5 Espressione e comunicazione del verbo inte­ riore In Agostino la soluzione teologica non è una scappatoia per uscire da un'impasse teorica. Al contrario, essa mette capo a nuove problematiche. È nel De Trinitate (415) che viene affrontato il tema dell'espressione del verbo interiore, una volta che sia stato concepito nella profondità dell'ani­ mo. In effetti, per poter comunicare con gli altri, gli uomini si servono della parola o di un segno sensibile, per poter  234 10. AGOSTINO provocare nell'anima dell'interlocutore un verbo simile a quello che si trova nel loro animo mentre parlano (De Trin., IX, VII, 12). D'altra parte Agostino sottolinea la natura prelinguistica del verbo interiore, il quale non appartiene a nessuna delle lingue naturali, ma deve essere codificato in un segno quan­ do ha bisogno di essere espresso e portato alla comprensio­ ne dei destinatari. Il verbo interiore ha, del resto, una duplice origine: da una parte esso costituisce una conoscenza immanente, la cui sorgente è Dio stesso; dall'altra esso è determinato dalle im­ pronte lasciate neli'anima dagli oggetti di conoscenza. Ma anche in questo secondo caso esso è riconducibile a Dio, in quanto il mondo è il linguaggio attraverso il quale Dio si esprime. Si trovano qui gli embrioni del simbolismo univer­ sale, che tanta parte avrà nella cultura del Medioevo. Quello che comunque emerge con sempre maggiore chia­ rezza è il carattere comunicativo della semiologia agostinia­ na, che è individuabile anche nello schema riassuntivo pro­ posto da Todorov (1977: 42): oggetti di conoscenza potenza !Immanente verbo verbo verbo divina interiore - esteriore - esteriore pensato proferito sa pere    10.6 Le classificazioni È comunque innegabile, come sottolinea Simone (1969: 96 n. 2), che se la semiologia agostiniana presenta un aspet­ to "teologico", connesso al problema del verbo divino, tut­ tavia possiede anche un ben individuato e autonomo aspet­ to laico, che prende in considerazione i caratteri che il segno ha di per se stesso. Fanno parte di quest'ultimo aspetto le varie classificazioni dei segni, alle quali Agostino si dedica soprattutto nel trattato De doctrina Christiana (397 d.C.,  l . 2. 3. 4. 5. secondo il modo di trasmissione: vista/udito secondo l'origine e l'uso: segni naturali/segni intenzio­ nali secondo lo statuto sociale: segni naturali/segni conven­ zionali secondo la natura del rapporto simbolico: proprio/tra­ slato secondo la natura del designato: segno/cosa 10.6 LE CLASSffiCAZIONI 235 con aggiunte più tarde), ma che ritorna anche in varie altre opere . Todorov (1977: 43 e sgg.) individua e analizza cinque tipi di classificazione a cui Agostino sottopone la nozione di se­ gno : Todorov lamenta il fatto che Agostino giustappone quel­ lo che in realtà avrebbe potuto articolare, in quanto gene­ ralmente queste opposizioni sono tra di loro irrelate. Questo non è però del tutto vero, perché (soprattutto nel De Magistro) c'è un tentativo di dare una classificazione combinata di alcuni aspetti del segno. A questo proposito è possibile ricostruire tale classifica­ zione ordinandola secondo uno schema arboriforme (Ber­ nardelli 1987), secondo il modello dell'albero di Porfirio (Eco 1984: 91 e sgg.); cfr. p. 236. La classificazione di Agostino non è totalmente a inclu­ sione, come tende a essere quella porfiriana; e si può osser­ vare che se venissero sviluppati i rami collaterali, si vedreb­ bero comparire, una seconda volta, alcune categorie elenca­ te sotto il ramo principale. Tuttavia è Agostino stesso a metterei sulla strada di una classificazione inclusiva da ge­ nere a specie quando definisce la relazione tra nome e paro­ la come "la stessa che c'è tra cavallo e animale" e includen­ do la categoria delle parole in quella più ampia dei segni (DeMag., 4.9).  genen· e specie AES SEGNO PAROLA NOME ------ segno udibile di cose (funzione denotativa) res sensibili (Romulus, Roma, fluvius) differenze significanti qualcosa verbale (voce articolata) differenze  ( s i g n i fi c s b i l i s l non significanti     nome in senso particolare non verbale (gesti. insegne, lettere, tromba militare ecc.) altra parte del discorso (si, ve/, ex, nsmque, neve, ergo, quonism ecc.) segno udibile di segni udibili (funzione metalinguistìca) res intelligibili ( virtus)   SIGNIFICANTE delle .. AES"    10.6 LE CLASSIFICAZIONI 237 10.6. 1 "Res" e "signa" La prima relazione interessante è quella tra res e signa. Per quanto il mondo sostanziahnente venga diviso in cose e segni, tuttavia, Agostino non concepisce tale distinzione co­ me ontologica, bensì come funzionale e relativa. Infatti anche i segni sono delle res e l'uomo è libero di as­ sumere come segno una res che fino a quel momento era sprovvista di quella dignità. Anzi, la stessa nozione di res viene definita in termini rigorosamente semiologici (Simone 1969: 105): "In senso proprio ho chiamato cose (res) quegli oggetti che non sono impiegati per essere segni di qualche cosa: per esempio i legno, la pietra, il bestiame" (De doctr. Christ. , I, Il, 2). Ma, immediatamente dopo, cosciente del­ la pervasività dei processi di semiosi, aggiunge: "Ma non quel legno che, leggiamo, Mosè gettò nelle acque amare per dissipare la loro amarezza (Esodo, XV, 25); né quella pietra sulla quale Giacobbe riposò la sua testa (Gen., XXVIII, I l); né quella pecora che Abramo immolò al posto di suo figlio (id., XXII, 13)". L'articolazione che esiste tra segni e cose è analoga a quella dei due processi essenziali: usare (ut1) e godere (jrul) (De doctr. Christ. , l, IV, 4). Le cose di cui si usa sono tran­ sitive, come i segni, che sono strumenti per giungere a qual­ cos'altro; le cose di cui si gode sono intransitive, cioè sono prese in considerazione per se stesse (Todorov 1977: 39). Nel De Magistro (4.8) Agostino propone anche un nome per le cose che non sono usate come segni, ma sono signifi­ cate attraverso segni: significabilia. Niente toglie che in un secondo momento anche quest'ultime possano essere assun­ te con funzione significante. Dopo aver così articolato i rapporti tra segni e cose, Ago­ stino propone questa definizione di segno nel De doctrina Christiana (Il, l, 1): "Il segno è una cosa (res) che, al di là dell'impressione che produce sui sensi, di per se stessa, fa venire in mente (in cogitationem) qualcos'altro".  238 10. AGOSTINO 10.6.2 Segni verbali e non verbali Nel nostro albero porfiriano abbiamo deciso di ricostrui­ re la principale suddivisione agostiniana dei segni secondo la dicotomia verbale/non verbale, anche se altre opzioni, ugualmente esplicite nei testi di Agostino, erano disponibili. Questa decisione è autorizzata da un passo del De doctrina Christiana (Il, IV, 4) in cui, a conclusione di un'analisi dei vari tipi di segni, Agostino sostiene: "Infatti di tutti quei se­ gni, di cui ho brevemente abbozzato la tipologia, ho potuto parlare attraverso le parole; ma le parole in nessun modo avrei potuto enunciarle attraverso quei segni". Viene esplicitamente fatto riferimento al carattere, tipico del linguaggio verbale, di essere un sistema modellizzante primario, e tale carattere viene assunto come criterio della divisione fondamentale dei segni. I0.6.3 Segni classificati in base al canale di perce­ zione Una classificazione incrociata rispetto alla precedente è quella effettuata in base al canale di percezione. Agostino infatti sostiene che "tra i segni di cui gli uomini si servono per comunicare tra di loro ciò che provano, certi dipendono dalla vista, la maggior parte dali'udito, pochissimi dagli al­ tri sensi" (De doctr. Christ., Il, III, 4). Tra i segni che vengono percepiti con l'udito ci sono quel­ li, fondamentalmente estetici, emessi dagli strumenti musi­ cali, come il flauto e la cetra, o anche quelli essenzialmente comunicativi emessi dalla tromba militare. Naturalmente, ritroviamo tra i segni percepìbili con l'udito, in una posizio­ ne dominante, anche le parole: "Le parole, in effetti, hanno ottenuto tra gli uomini il primissimo posto per l'espressione dei pensieri di ogni genere, che ciascuno di essi vuole ester­ nare" (Dedoctr. Christ., II, III, 4). Tra i segni percepibili con la vista Agostino elenca i cenni della testa, i gesti, i movimenti corporei degli attori, le ban­ diere e le insegne militari, le lettere.   10.6 LE CLASSIFICAZIONI 239 Infine vengono presi in considerazione i segni che riguar­ dano altri sensi, come l'odorato (l'odore dell'unguento sparso sui piedi di Cristo), il gusto (il sacramento dell'euca­ ristia), il tatto (il gesto della donna che toccò la veste di Cri­ sto e fu guarita). 10.6.4 "Signa naturalia" e "signa data" Sicuramente fondamentale, anche se non direttamente integrabile al nostro albero inclusivo, risulta lo schema di classificazione che oppone i signa naturalia ai signa data. I primi sono "quelli che senza intenzione, né desiderio di si­ gnificare, fanno conoscere qualcos'altro, oltre a se stessi, come il fumo significa il fuoco" (De doctr. Christ. , II, I, 2). Ne sono esempi anche le tracce lasciate da un animale e le espressioni facciali che rivelano, inintenzionalmente, irrita­ zione o gioia . Dopo averli definiti , Agostino dichiara di non volerli trattare ulteriormente. È invece maggiormente interessato ai signa data, in quan­ to a questa categoria appartengono anche i segni della Sa­ cra Scrittura. Essi vengono definiti come "quelli che tutti gli esseri viventi si fanno, gli uni agli altri, per mostrare, per quanto possono, i movimenti della loro anima, cioè tutto ciò che essi sentono e pensano" (De doctr. Christ. , II, II, 3). Gli esempi sono soprattutto i segni linguistici umani (le pa­ role) . Ma Agostino, curiosamente, include in questa classe an­ che i segni emessi dagli animali, come quelli che si hanno quando il gallo segnala alla gallina di aver trovato il cibo (ibidem). Questo crea una marcata differenza rispetto ad Aristotele, che include i gridi degli animali tra i segni natu­ rali (De int., 16 a). Ma Aristotele opponeva "naturale" a "convenzionale", mentre i signa data non sono i "segni convenzionali", come Markus (1957: 75) aveva suggerito (e come del resto era sta­ to proposto dalla traduzione francese di G. Combès e J. Farges). I signa data sono i "segni intenzionali" (Engels 1962: 367; Darrel Jackson 1969: 14), e corrispondono a 1:1na  240 10. AGOSTINO ben precisa intenzione comunicativa (De doctr. Christ. , Il , III, 4). È del resto il carattere intenzionale che permette ad Agostino di includere tra i signa data quelli emessi dagli animali, anche se egli non si pronuncia sulla natura di que­ sta intenzionalità animale (Eco 1987: 78). Del resto, come nota Todorov (1977: 46), porre l'accento sull'idea di intenzione corrisponde al progetto semiologico generale di Agostino, orientato verso la comunicazione. I segni intenzionali, o meglio, creati espressamente in vista della comunicazione, possono essere messi in corrisponden­ za del syrnbolon di Aristotele e della combinazione stoica di un significante con un significato; quelli naturali, ovvero già esistenti come cose, corrispondono invece ai smeia, sia aristotelici che stoici. 10.7 Semiosi illimitata a modello "istruzionale" Uno dei punti fondamentali della semiologia agostiniana, infine, è costituito dalla ricerca dei modi in cui si può stabi­ lire il significato dei segni. Tale indagine è condotta soprat­ tutto nel De Magistro, dove si può rintracciare una conce­ zione semantica che si avvicina al tipo della "semiosi illimi­ tata" di Peirce. Come ha rilevato anche Markus (1957: 66), il significato di un segno, per Agostino, può essere stabilito o espresso mediante altri segni, per esempio: fornendo dei sinonimi; attraverso l'indicazione con il dito puntato; per mezzo di gesti; tramite astensione (De Mag. , III e VII). Questa concezione del significato si rende possibile sol­ tanto nel momento in cui viene abbandonato lo schema equazionale del simbolo, per adottare, come fa Agostino, quello implicazionale del segno. La teoria semiologica ago­ stiniana si apre così, come ha messo in evidenza Eco (1984: 34 e sgg.), verso un modello "istruzionale" della descrizione semantica. Se ne può cogliere un esempio neIl'analisi che Agostino conduce insieme ad Adeodato del verso virgiliano "si nihil ex tanta superis placet urbe relinqui" (De Mag. , II, 3). Esso viene definito come composto di otto segni, dei quali, appunto si cerca il significato.  l0.7 SEMIOSI ILLIMITATA 241 L'indagine comincia da l si l , di cui si riconosce che espri­ me un significato di "dubbio", dopo aver tuttavia sottoli­ neato che non si è trovato un altro termine da sostituire al primo per illustrare lo stesso concetto. Si passa, poi, a lni­ hi/1 , il cui significato viene individuato come !'"affezione dell'animo" che si verifica quando, non vedendo una cosa, se ne riconosce l'assenza. In seguito Agostino chiede ad Adeodato il significato di lexl ed esso propone una definizione sinonimica: lexl sa­ rebbe equivalente a l de l . Agostino non è soddisfatto di questa soluzione e argomenta che il secondo termine è certo un'interpretazione del primo, ma ha bisogno di essere a sua volta interpretato. La solu2ione finale è che l ex l significa "una separazione" da un oggetto. A questa conclusione, pe­ rò, viene aggiunta anche una successiva istruzione per la sua decodifica contestuale: il termine può esprimere separa­ zione rispetto a qualcosa che non esiste più, come nel caso della città di Troia a cui si allude nel verso virgiliano; oppu­ re il termine può esprimere separazione da qualcosa che è ancora esistente, come quando diciamo che in Africa ci so­ no alcuni negozianti provenienti da Roma. Il significato di un termine, allora, "è un blocco (una se­ rie, un sistema) di istruzioni per le sue possibili inserzioni contestuali, e per i suoi diversi esiti semantici in contesti di­ versi (ma tutti ugualmente registrabili in termini di codice)" (Eco 1984: 34). La struttura implicativa permette regole del tipo "Se A appare nei contesti x, y, allora significa B; ma se B, allora C; ecc.", regole che sono comuni tanto al modello istruzio­ nale quanto alla semiosi illimitata. In definitiva, è proprio grazie ali'assunzione generalizza­ ta del modello implicazionale che la semiologia agostiniana riesce a porsi sia come sintesi delle acquisizioni semiolingui­ stiche del mondo antico (teoria della parola come segno), sia come potente anticipazione di alcune delle più recenti tendenze della ricerca attuale in campo semantico (modello istruzionale) . NOTE 1 Anche se non è ancora possibile stabilire se e in quale misura la cultura greca sia debitrice a quella mesopotamica della nozione di segno, secondo lo schema implicativo, in generale, è possibile, però, rilevare una connes­ sione storicamente documentabile tra le due culture in ambiti di uso parti­ colare del segno. A esempio nelPambito della medicina viene fatto ricorso allo schema del segno implicativo ("se..., allora...") nella presentazione dei complessi eziologici tanto nei trattati mesopotamici quanto in quelli greci, ambito in cui si sa che ci sono stati contatti positivi tra le due culture (cfr. Di Benedetto-Lami 1983: I l). 2 Barthes e Marty (1980: 71) collocano nel 3500 a.C. la nascita dei primi germi della scrittura in Mesopotamia. Alcuni, come Cardona (1981: 70), fanno risalire al 3500 l'invenzione degli stessi caratteri cuneiformi. Bottero (1974: tr. it. 155) posticipa molto la data, sostenendo che "la scrittura cu­ neiforme è stata inventata nella bassa Mesopotamia verso il 2850 avanti la nostra era"; cfr. anche Barthes e Mauriès (1981: 602). 3 Si veda il sumerogramma n. 73 del manuale di Labat (1948: 69). È cu­ rioso notare come si registri qui un gioco simile a quello omografico greco tra bios (''vita") e bios (''arco"), presente nel frammento 48 (D-K) di Era­ clito: "L'arco (bios) ha dunque per nome vita (bios) e per opera morte". 4 In ciascun esempio dividiamo la protasi dali'apodosi con un trattino, allo scopo di far meglio risaltare la distinzione. Per questi esempi, come per la maggioranza dei testi mesopotamici riportati nel corso di questo ca­ pitolo, siamo debitori al ricchissimo e ben documentato saggio di Bottero (1974). Qui, una volta per tutte, rimandiamo a esso per l'indicazione delle fonti primarie e delle edizioni critiche. Anche per gran parte delle notizie contenute in questo capitolo si fa riferimento a quel saggio.  Si potevano contare oltre cento oracoli per tavoletta, e alcune raccolte potevano arrivare a un numero di circa venti tavolette.  244 NOTE CAPITOLO 2. 1 Infatti da un'analisi del vocabolario dell'azione oracolare compiuta da Crahay (1974: tr. it. 220) risulta che alcuni vocaboli presentano il testo della rivelazione come un segno, molto spesso un segno anticipatorio, in quanto orientano l'azione verso l'avvenire. Tra questi si ricordino i due verbi smafno e prosmafnO (cioè "informare in anticipo con segni") e l'ag­ gettivo di origine verbale pr6phanton che esprime l'idea di un'informazio­ ne prima del fatto. 2 Ciò è tanto più evidente se si opera un confronto con civiltà come quella mesopotamica che mettevano la divinazione al centro della vita pubblica (Vernant 1974) e ne estendevano il modello formale anche a tutti gli altri ambiti culturali (a esempio, alla medicina e alla giurisprudenza). 3 Cfr . anche //. , I I I , 277 . Per i passi citati sono utilizzate, nel corso del­ l'intero testo, traduzioni correnti, talvolta parzialmente modificate. 4 Traduco dal testo in inglese di Romeo (1976: 86): "The lord, who has the oracle in Delphi, l neither discloses nor hides his thought, l but indica­ tes it through signs". s Infatti la divinazione è indissolubilmente legata ad Apollo, e Apollo è indissolubilmente legato alla sapienza. La sapienza del dio è totale e simul­ tanea e non ha bisogno di essere frammentata in parole. Tuttavia agli uo­ mini egli concede, invece, solo la frammentazione della parola oracolare, oscura e incomprensibile, in quanto in essa la sapienza divina appare come follia dell'uomo invasato. La follia, del resto, che Platone ritiene essere l'essenza stessa della mantica, riconnettendo nel Fedro (244 a-c) l'etimolo­ gia di mantiké a maniké ("arte folle"), non è altro che la sapienza vista dal­ l'esterno. 6 Ma si veda anche Amandry (1950) per la presenza di possibili procedi­ menti anche di cleromanzia (divinazione attraverso il lancio delle sorti) presso l'oracolo di Delfi. 7 Talvolta certi fenomeni naturali potevano perdere il carattere di ca­ sualità ed essere sottoposti a un processo di istituzionalizzazione, come av­ veniva nel caso dell'oracolo di Dodona, dove si interpretavano i segni dati dallo stormire del vento tra le fronde di una quercia sacra a Zeus (come pure, probabilmente, il tubare e il volo dei piccioni sacri e iJ mormorio di una fonte, gli echi di un gong). Per gli oracoli in generale, si vedano Ferri (1916) e Parke (1967); per una disamina generale e approfondita dei vari ti­ pi di divinazione i testi basilari sono Bouché-Leclercq ( 1 879-82) e Halliday (1913). 8 "Lobo", "vescichette" e "porte" erano i termini tecnici designanti par­ ti che gli specialisti di questo tipo di divinazione prendevano come segni da cui elaborare interpretazioni; cfr. Arist., Historia anima/ium, l, 17, 496 b 32· Eurip., E/ectra, 826-828. 9 Le forme della consultazione oracolare ci sono note attraverso un cer­ to numero di iscrizioni epigrafiche, provenienti principalmente da Delfi e da Dodona; cfr. Parke-Wormell ( 1 956) e Fontenrose ( 1 978) . 10 Quest'ultima categoria fa ovvio riferimento alla nozione di enigma, come era presente nella cultura greca: esso comportava, come vedremo  NOTE 245 meglio più avanti, sia un aspetto di sfida (da parte del dio all'uomo), sia la presenza nascosta di un secondo senso, sia, infine, l'idea che il primo senso doveva essere immediatamente scontato. Il termine "modo", poi, pone l'accento sul fatto che non vi è presenza di un unico meccanismo, ma di una galassia di procedimenti espressivi molto eterogenei, che vanno dalla banale omonimia, alla metafora (metasememi), allo scambio di prospetti­ va (metalogismi) ecc. L'espressione "modo" enigmatico fa naturalmente riferimento alla categoria di modo simbolico elaborata da Eco ( 1 984). Pur­ troppo non è qui possibile usare direttamente quella categoria perché essa, pur avendo molti punti in comune con questa che qui proponiamo, se ne discosta per la presenza di alcuni caratteri specifici (rapporto stretto tra si­ gnificante e significato, nebulosa di sensi multipli tendenzialmente coesi­ stenti ecc.) che qui non si ritrovano. È un peccato, perché ci sarebbe sem­ brato appropriato definire "simbolico" il modo di parlare del dio. 1 1 Il meccanismo retorico dell'enallage ricorda il meccanismo oracolare usato dalla Sibilla cumana, nella descrizione di Virgilio (Aen. , VI): la sa­ cerdotessa di Apollo scrive le varie parti del responso su delle foglie, se­ guendo l'ordine sintagmatico del linguaggio umano; poi lascia quelle fo­ glie al vento, che scompiglia l'ordine precedente, creandone un altro, in cui i riferimenti incrociati fra i ternlini rendono oscuro il testo e difficile l'interpretazione. 12 L'ambiguità del dio è simbolizzata dai due attributi antitetici della li­ ra e dell'arco: la lira rappresenta la faccia benigna ed esaltante (quella che compare nell'interpretazione di Nietzsche); l'arco, quella maligna e deva­ stante. Del resto l'etimologia stessa del suo nome suggerisce il significato di "colui che distrugge totalmente", ed è sotto questo aspetto che Apollo si presenta all'inizio dell'Iliade, dove le sue frecce portano lutto e distruzione nel campo degli Achei (Colli 1 975 : 1 8) . 1 1 Per una nozione complessa e articolata della nozione di "verità" nel mondo antico, si veda Detienne (1967). In particolare, sulla concezione di a/theia come "sintesi del passato, del presente e del futuro", comune al poeti ispirati, agli indovini e agli ambienti filosofico-religiosi, Detienne (1967, tr. it. 99). CAPITOLO 3. 1 D'ora in avanti ci riferiremo al Corpus Hippocraticum con la sigla C.H. Naturalmente, per una documentazione completa sulla medicina gre­ ca, dovrebbero essere prese in specifica considerazione almeno anche le opere di Galeno; tuttavia queste ultime, appartenendo a un'epoca molto più recente (II sec. d.C.) e attingendo a una tradizione filosofica (quella aristotelica e stoica) che aveva già portato molto avanti lo studio sul segno, si situano in parte al di fuori del discorso che stiamo svolgendo . Rimandia­ mo, comunque, a Manuli (1980). 2 La massiccia attribuzione dei trattati di medicina del V e lV secolo  246 NOTE 3 Si possono distinguere all'interno del C.H. gruppi omogenei di opere. Innanzitutto il gruppo di trattati tecnico-terapeutici (Sulle affezioni inter­ ne, il libro II delle Malattie (A), il libro III delle Malattie, la parte più ar­ caica del trattato Sulle malattie delle donne), caratterizzati da un carattere spiccato di arcaicità e da una maggiore attenzione all'aspetto terapeutico della medicina (Di Benedetto 1986: 5 e 80). In secondo luogo, un gruppo di trattati in cui appaiono maggiormente approfonditi i principi teorici e me­ todologici della medicina. Vegetti (1976: 21 e sgg.) ha proposto di definire convenzionalmente "pensiero ippocratico" queJJo che da questi ultimi ri­ sulta (indipendentemente dal fatto che essi siano attribuibili a molti autori e probabilmente tutti diversi dali'lppocrate storico vissuto tra il 460 e il 370 a.C.). Questi testi, collocabili cronologicamente nella seconda metà del V secolo a.C., sono: Antica medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Il 4 Cfr. Jaeger (1947: tr. it. 3). s Cfr. Vegetti (1976: 65 ss.); Vegetti (1967: 78). 6 Anche se, come mette in evidenza Lloyd (1979), la medicina ippocrati­ ca non arriverà mai a essere sperimentale in senso compiuto. 7 Per le traduzioni ci atteniamo al criterio di usare versioni correnti, tal­ volta apportandovi delle modifiche. 8 Solo più tardi, con la Scuola di Alessandria, sarà stabilita una distin­ zione fornaie tra anamnsis, relativa ai fenomeni collocati nel passato, diaghnOsis, ovvero individuazionc dello stato presente, e pr6ghnOsis, cioè previsione deJJ'andamento futuro della malattia; cfr. Di Benedetto-Lami (1983: 166). Sulla pr6ghnOsis si veda anche Grmek (1983: tr. it. 499 ss.). Si deve poi segnalare che Irigoin (1983: 179) collega il prefisso pro-, unito ai verbi di "dire", con il significato di "pubblicamente ", anziché con un si­ gnificato di "anticipazione". a.C . a lppocrate avviene nell'ambito della biblioteca di Alessandria nel I I I secolo a.C.; cfr. Di Benedetto (1986: 81). prognostico, Il regime nelle malattie acute, il Male sacro, Le epidemie l e III, e poi le maggiori opere chirurgiche (Leferite nella testa, Le articola­ zioni, Lefratture). 9 Cfr. Detienne (1967: tr. it. 99 n.). 10 In certi casi, il vocabolario usato per indicare la previsione medica ri­ calca queJJo della divinazione, come nel cap. 9 delle Articolazioni in cui si dice che è compito del medico "vaticinare" (katamante-Usasthal) certi pro­ cessi relativi allo stato di salute. 1 1 Si tratta di una concezione (vale la pena sottolineado) che affonda le radici in una religione preolimpica, animistica e demonica; cfr. Lanata (1967); Detienne (1963: 32 e sgg.); Dodds (1951); Lloyd (1979); Parker ( 1 983) . Un'ampia panoramica sul movimento magico e catartico era già stata fornita dagli studi del Rohde (1890-94: tr. it. 1982). 12 Cfr. Diog. Laert., Vitae, VIII, 32 D-K, 58 B la. Va notato, di sfug­ gita, che il carattere molto arcaico della concezione espressa dal brano è garantito dal riferimento al bestiame coinvolto nelle stesse vicende della comunità umana: c'è la rappresentazione di una comunità agricola in cui uomini e bestie formano una unità inscindibile; cfr. Deticnne (1963: 32). n Un esempio assolutamente analogo a questo si trova nel cap. 21 del =  NOTE 247 trattato Le arie, le acque, i luoghi, dove si confuta, usando i1 modus tol­ /ens, la tesi secondo cui l'impotenza che colpisce certuni degli Sciti sia do­ vuta a causa divina, in quanto colpisce i ricchi (che vanno a cavallo, essen­ do questa, per l'autore, la causa della malattia) e non i più poveri. Se fosse di origine divina, continua l'autore, colpirebbe indifferentemente tutti. 1"' Si pensi a questo proposito all'indebolimento dei sensi durante il son­ no di cui parla Platone nel Timeo (7 1 e) e a1la diminuzione dei turbamenti nell'aria che rende possibile il sorgere dei sogni secondo Aristotele (De di­ vinatione per somnum) . •s Per la nozione di "omomaterico", cfr. Eco (1975: 295): per "omoma­ tericità" si intende il fenomeno per cui "l'oggetto, visto come pura espres­ sione, è fatto della stessa materia del suo possibile referente". 16 Cfr. anche Lichtenthaeler (1983) e Wenskus (1983). 17 Cfr. Vegetti (1976: 48); Manuli (1985: 233). 18 Sull'abduzione si vedano Thagard (1978); Proni (1981); Eco (1983); Bonfantini-Proni (1983); Bonfantini (1985); Peirce (1984); Eco (1984). 19 Di Benedetto (1986) ha messo in luce, in maniera molto convincente, i rapporti tra i moduli espressivi di presentazione della malattia nella medi­ cina greca e quelli dei trattati mesopotamici ed egiziani; cfr. anche Di Be­ nedetto-Lami (1983). 2° Cfr. Campbell Thompson (1937: 285, I, 1). 2 1 Per questa nozione, cfr. Conte ( 1 986) . CAPITOLO 4. 1 Cfr. Hjelmslev (1943). CAPITOLO 5. 1 Cfr. Arist., An. Pr., Il, 70 a-b; Rhet., 1, 1357 a-b. 2 Cfr. Arist., Rhet., l, 1358 a, 36 e sgg. 3 Cfr.Arist.,Deint.,16a;An.Pr.,11,70a-b. "' Su questa nozione cfr. Di Cesare (1981 : 161). s Cfr. Eco (1984: 6-7; 1987: 75). 6 Cfr. Heinimann (1945). 7 Cfr. Eco-Lambertini-Manno-Tabarroni (1984); Eco (1987). 8 Emerge qui, per quanto nebulosamente, il tema della doppia articola­ zione del linguaggio umano, che verrà poi sviluppato in epoca contempo­ ranea da André Martinet (1960). 9 Anche se Aristotele non dà esplicitamente questa definizione, tuttavia nella Retorica (1, 1357 a, 14-22) c'è un passo che suggerisce l'idea dell'enti­ mema come sillogismo accorciato. Inoltre, in un passo dei Primi analitici  248 NOTE (Il, 70 a, 24-25), Aristotele tenta anche di distinguere il segno dal sillogi­ smo in base al numero di premesse assunte (una sola nel primo caso, due nel secondo). 1ella Retorica infatti il tekmirion verrà definito esplicitamente "neces­ sario" (anankaion), mentre il smefon è definito ..non necessario" (mè anankafon) (Rhet., I, 1357 b, 4). 1 1 Lo stesso punto di vista e la stessa terminologia ricorrono anche nel passo parallelo della Retorica (l, 1357 b, 16-18). 12 Quanto al carattere di confutabilità di questo tipo di segno, Aristote­ le così commenta l'esempio dato negli Analitici; "D'altra parte il sillogi­ smo che si sviluppa attraverso la figura intermedia risulterà sempre confu­ tabile (ljsimos), senza eccezione. In realtà, quando i termini si comporta­ no come si è detto sopra, non si costituirà mai un sillogismo: se infatti la donna gravida è pallida, e se inoltre una determinata donna è pallida, non per questo sarà necessario che questa determinata donna sia gravida"' (An. Pr.J Il, 70 a, 34-37). 1 "(Dei segni) quello necessario è la prova, quello non necessario non ha un nome corrispondente a questa differenza. Intendo per necessarie le proposizioni da cui derivano sillogismi. Perciò anche dei segni quello che è tale è la prova: quando infatti si ritiene che non è possibile confutare la proposizione enunciata, allora si pensa di apportare una prova, che si ritie­ ne dimostrata e compiuta; nella lingua antica infatti tékmar ('prova') e pé­ ras Ccompimento') significavano la stessa cosa" (Rhet. , l , 1357 b, 4-10). Si deve tuttavia segnalare il fatto che, se negli Analitici e nella Retorica la di­ stinzione tra tekmrion e semeion è rigida e netta, l'uso che Aristotele fa di questi termini nei trattati scientifici sembra essere molto più fluido, senza distinzioni speciali tra l'uno e l'altro termine. Si trova anche impiegato un terzo termine, martyrion, in un senso analogo a quello di semeion; cfr. Le Blond (1939, ried. 1973, 241, n.). 14 Cfr. Arist., An Pr., II, 70 b,'7-14. I!!. Cfr. Arist., An. Post., II, 98 b, 25-30. CAPITOLO 6. 1 È del resto sulla base delle immagini prodotte nella mente dagli oggetti esterni, in particolare su certi tipi di immagini, chegli stoici chiamano ka­ talptikaì phantasfai, che viene basato il "criterio di verità", cioè "ciò a cui ci atteniamo nell'affermare che alcune cose esistono e altre no e che certe cose determinate sono vere ( = sono il caso) e certe altre sono false ( = non sono il caso)" (Sext. Emp., Adversus Mathematicos, VII, 29); cfr. Mi­ gnucci (1965 e 1966); Sandbach (1971 a, e 1971 b); il capitolo "The crite­ rion of truth" di Rist (1969). 2 Cfr. anche Sext. Emp. , A dv. Math. , VII I , 69-70. 1 Si deve sottolineare che /ekt6n è l'aggettivo verbale del verbo /éghein.  6 Cfr. Diog. Lart., Vitae, VII, 51; Long (1971 a: 83). 7 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 11-12. 8 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 70. 9 Cfr. Diog. Lart., Vitae, Vll , NOTE 249 A questo proposito si ricorderà che, come sostiene Diogene Laerzio ( Vitae, VII, 57), gli stoici distinguevano tra il "proferire" (prophéresthal), che consisteva nel puro emettere dei suoni, e il "dire" (léghein), che consisteva nel fare ciò in modo da significare (sma{nein) lo stato delle cose in mente; cfr. anche Sext. Emp., Adv. Math. , VIII, 80. Long (1971 a: 77) sostiene di preferire, per lekt6n, la traduzione "what is said" rispetto a quella propo­ sta da Mates e dai Kneale, "what is meant", in quanto la prima è più gene­ rale e permette al lekt6n di essere interpretato come avente funzione tanto logica quanto grammaticale. 4 Si deve tuttavia sottolineare che vi è una tradizione, risalente al Crati­ lo platonico, secondo la quale nominare qualcuno equivale a dire "questo è il suo nome". In questo caso anche l'esempio di Sesto dovrebbe essere compreso nei termini di una proposizione implicita come "'Dione è il nome di costui" oppure "Questo è Dione"; cfr. Long (1971 a: 107 n. 1 1). ..s I lekta venivano classificati dagli stoici in completi e incompleti; cia­ scuno dei due tipi dava luogo a una sottoclassificazione, anche molto com­ plessa, che non prenderemo qui in considerazione; si veda a questo propo­ sito Mates (1953: 11-26). 63. 1° Cfr. Mates (1953: 1 1-12): Mates infatti concepisce i lekta come signi­ ficato delle parole e avvicina la loro definizione a quella di Sinn di Frege e a uella di intension di Carnap. 1 Cfr. Zeller (1865: 78-79). 12 Cfr. Bréhier (1909: 114-125). 13 Cfr. Mignucci (1965: 96). 14 Una definizione del criterio di verità la fornisce Sesto (A dv. Math. , VII, 29): "Ciò a cui ci atteniamo nell'affermare che alcune cose esistono e altre no e che certe cose determinate sono vere e certe altre sono false". Sul problema del criterio di verità, cfr. Rist (1969: 133-151); Sandbach (1971 a: 9 e sgg.); Mignucci (1966). 17 Cfr. anche Adv. Math., VIII, 245-257. 18 Cfr. Diels-Kranz, 75, B 2. 19 Si veda, a proposito di questa questione terminologica, la esaustiva 1 Cfr. Platone, Th., 190 a (206 d); Soph., 263 a. 16 In effetti il "discorso interno" (endiathetos /6gos), a differenza delle espressioni emesse materialment (prophorikòs 16gos), è un fattore che si dimostra capace di distinguere l'uomo dagli animali. Dice infatti Sesto (Adv. Math. , VIII, 275-276): "(Gli stoici) dicono che l'uomo differisce da­ gli animali irrazionali a causa del discorso interno, non a causa di quello pronunciato, in quanto corvi, pappagalli e gazze pronunciano suoni arti­ colati"; cfr. anche Pohlenz (1959, 1: 61-62). trattazione di Conte (1972: XXXV), curatore dcll'edizione italiana dei Kneale (1962). 20 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pirrh., Il, 95-96. 21 Ibidem: "anche la dimostrazione in quanto al genere è, a quel che pa-  250 NOTE re, un segno"; cfr. anche Adv. Math., VIII, 180. 22 Il testo del De signis, con traduzione inglese, è contenuto in Ph . e E.A. De Lacy (1978). 21 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 144; Hyp. Pyrrh., Il, 97. lA Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 147; Hyp. Pyrrh., II, 97. 2' Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 145; Hyp. Pyrrh., II, 98. 26 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 146; Hyp. Pyrrh., Il, 98. 27 Cfr. anche Adv. Math., VIII, 151-155. 28 Tale tripartizione verrà esplicitamente teorizzata nella retorica roma- na: vedi il capitolo relativo. 29 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 152-153. 30 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 154. 11 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 156. Al di là del carattere pole­ mico, l'osservazione di Sesto è interessante perché, citando "medici" e "fi­ losofi", fissa i due punti estremi di un ciclo di sviluppo deli'interesse verso il segno: l'introduzione di tale interesse da parte dei medici (come, poi, di­ mostrano anche i numerosi esempi di carattere medico presenti in tutte le trattazioni) e lo studio sistematico del segno da parte dei filosofi. 12 Cfr. Diog. Latrt., Vitae, VII, 71. 13 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 104-105; Adv. Math., VIII, 245- 247 . 34 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 245. 1' Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 248; Hyp. Pyrrh., Il, 106. 16 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 249-250; Hyp. Pyrrh., Il, 106. 37 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 250-251. 11 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 106-107; Adv. Math., VIII, 252- 253 . 39 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, IlO-I12. Qui prenderemo in consi­ derazione solo i primi tre criteri, perché il quarto sembra avere un'origine diversa dalla scuola megarico-stoica. 4() Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, lIO-I12; Adv. Math., VIII, 115- 117. •U Sono state proposte varie interpretazioni del condizionale diodoreo, che non possiamo qui prendere in considerazione. Segnaliamo tuttavia i saggi di Hurst (1935), di Mates (1949 a), dei Kneale (1962) e di Mignucci (1966), che affrontano l'argomento in una successione cronologica e teo­ rica. "2 Cfr. Phil., De signis, XIV, 11-14= 19; Xl, 32-XII, 1 = 17. l numeri romani, relativi ai paragrafi del testo greco, sono messi in correlazione con il segno " = " ai capitoli della traduzione inglese dei De Lacy (1978). "3 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 275-276; 287.  Cfr. Goldschmidt (1953: 79 e sgg.); Verbeke (1978: 401-402); Manuli (1986: 262). ..s Sul rapporto tra filosofia e divinazione, Verbeke (1978: 402) osserva molto opportunamente che per gli stoici il filosofo "est le médecin de cet organisme vivant qu'est le monde; il est aussi une sorte de prophète, un de­ vin, un exégète, un interprète des signes qu'il observe". 46 Cfr. Cic., De divinatione, I, 125-127.  49 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., 309. CAPITOLO 7. NOTE 251 "7 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., II, 140; Adv. Math., VIII, 305. 48 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 180: "D'altronde anche la dimo­ strazione è, in linea generale, un segno, giacché essa è considerata come di­ svelatrice della conclusione". 1 Il testo di Filodemo, giunto a noi attraverso il papiro ercolanese 1065, è ora disponibile nell'ottima edizione critica dei De Lacy (1978); d'ora in poi citeremo quest'opera con il titolo latino De signis: a essa è dedicato il prossimo capitolo. 2 Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 31; cfr. ancheEpic., EpistulaadHerodo­ tum (d'ora in poi Ep. Hdt.), 38; Kyriai Doxai (d'ora in poi K.D.), XXIV. 3 Cfr.Phil.,Designis,fr.l. " Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 33; Epic., Nat., XXVIII, fr. 4, col. III, in Arrighetti (1960: 296-297). Long (1971 b: 1 14) sostiene che un simile rap­ porto tra linguaggio e pro/essi è presupposto anche nella Ep. Hdt. , 37-38.  Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 34. 6 Cfr. Epic., Ep. Pyth., 86-87. 7 Cfr. Epic., Ep. Hdt., 82. 8 Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 31. 9 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 9. 1° Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 32. 11 Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 31. 12 Cfr. Epic., Ep. Hdt., 46. 13 Cfr. Epic., Ep. Hdt., 48. 1" Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VII, 211. 15 Cfr. Epic., K.D., XXIV. 16 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VII, 211. 1 7 La congettura semiotica è espressa dal verbo smeiolJ (Ep. Hdt. , 38) e prende la forma dell'induzione nella teoria epicurea. Il sostantivo da esso derivato, smeilJsis, non direttamente attestato negli scritti di Epicuro, avrà ampio spazio nel trattato di Filodemo. 18 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math. , VII, 21 3-214. 19 Come vedremo nel prossimo capitolo, il criterio della "non incompa­ tibilità" con i fatti conosciuti è centrale nella teoria dell'inferenza come è esosta nel De signis di Filodemo. ° Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 33. 21 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 13; 258; Plut., Adversus Colo­ tem, 1119f. 22 Si deve segnalare l'articolo di Glidden (1983) che tratta il problema semantico in Epicuro in termini molto diversi da quelli in cui lo abbiamo trattato qui e recupera, sostanzialmente, le posizioni di Sesto e di Plutarco, sostenendo che non esiste nella filosofia linguistica epicurea un livello spe-  252 NOTE cifico del "significato" in termini intensionali. 23 Cfr. Sedley (1973: 17-18); il testo di Sedley in parte si discosta da quello di Arrighetti (1960: 66-67). 24 Come veniva evitato, nel Crati/o platonico, tanto da Cratilo quanto da Socrate. 2Cfr. capitolo relativo a Platone in questo libro. 26 Cfr. Plat., Crat., 421 d, 435 c; cfr. Sedley (1973: 20). CAPITOLO 8. 1 La data di composizione del trattato, che è controversa, oscilla tra il 542e il 40 a.C.; cfr. De Lacy (1978: 163-164). Il titolo greco, essendo il testo in parte corrotto, è frutto della conget­ tura di T. Gompers; altre congetture sono state proposte. D'ora in poi ci riferiremo a esso nella sua versione latina De signis; cfr. De Lacy ( 1978: 1 1-I4). 3 Nella prima sezione vengono riportate le risposte di Zenone di Sidone alle critiche stoiche; nella seconda viene esposta la versione di Bromio del­ l'enumerazione e confutazione di Zenone degli argomenti contro l'inferen­ za empirica; nella terza viene riportata l'enumerazione di Demetrio di La­ conia degli errori comuni degli antagonisti del metodo analogico; la quarta sezione, che espone una seconda lista degli errori degli oppositori, è anoni­ ma, ma, con molta probabilità, è anch'essa da attribuire a Demetrio. .. Cfr. Marquand 1883; Deledalle 1984.  Cfr.Phil.,Designis,coll.VIII,32-IX,3=cap.13).Ilriferimentobi­ bliografico al trattato di Filodemo è dato in maniera duplice, indicando prima la colonna e il numero delle righe del testo greco del papiro, poi il numero del capitolo corrispondente nella traduzione inglese effettuata dai De Lacy (1978). 6 Come è a più riprese ribadito anche nella terza sezione che riporta il pensiero di Demetrio; cfr. col. XXVIII, 13-25 = cap. 45, e col. XXXVII, 12-24=cap. 57. 7 Cfr.col.XIII,1-15=cap.18. 8 Cfr. col. I, 1-12 9 Cfr. col. I, 12-16=cap. 2. 1° Cfr. col. XII, 14-31=cap. 17. 11 In Peirce (1980: 140), del resto, c'è a proposito dell'icona anche un'interessante considerazione (sulla possibilità che l'oggetto del segno iconico esista o non esista), la quale sembra riproporre, in epoca contem­ poranea, una tematica simile a quella stoica ed epicurea circa la distinzione dei segni in propri e comuni: "Un'Icona è un segno che si riferisce all'Og­ getto che essa denota semplicemente in virtù di caratteri suoi propri, e che essa possiede nello stesso identico modo sia che un tale Oggetto esista ef­ fettivamente, sia che non esista. È vero che, a meno che vi sia realmente un tale Oggetto, l'Icona non agisce come segno". = cap . 2,ecol.XIV,4-11=cap. 19.  NOTE 12 Cfr. Preti 1956: 13; si veda anche il cap. VI del presente lavoro. 13 Cfr. col. II, 25·36=cap. 5. ... Cfr. col. III, 4-8=cap. 5. 1Cfr. col. III, 30-34 = cap. 6. 16 Cfr. coli. XXXV, 35 - XXXVI, 7=cap. 53. 17 Le risposte alle obiezioni stoiche sono, nella sezione di Zenone, alle coli. XVI, 4 · XVII, 28 = capp. 23-24, e, nella sezione di Bromio, alle coli. XXII, 28 - XXIII, 7=cap. 38. 18 Cfr. col. XVII, 3-7=cap. 24. 19 Una discussione attribuita ai "dogmatici" sul problema della defini­ zione come combinazione di attributi, a esempio "animale", "mortale", "ragionevole" rispetto a uomo, è presente anche in Sesto Empirico, Adv. Math., VII, 276-277. 2° Cfr.col.IV,3-5=cap.6. 21 Cfr. col. XVII, 1 1-28 = cap. 24. 22 Cfr.V,l-7=cap.7. 21 Cfr. col. XVII, 29-36=cap. 25. 2A Cfr. coli. XVII, 37 - XVIII, 3 = cap. 25. 2 Cfr. col. XVIII, I0-16=cap. 25. 26 Cfr. coll. XXIII, 13 - XXIV, 8=cap. 39. 27 Cfr. col. XXIV, 10-17 = cap. 40. 28 Cfr. col. XXVI, 6-9=cap. 41. 29 La tradizione continua dopo gli epicurei, e nella tarda antichità le de­ finizioni vengono talvolta combinate; cosi si ha quella di Galeno: "animali razionali, cioè provvisti di ragione" (De P/ac. Hipp. et Plat., IX, 3); e quella di Sesto Empirico: "animale razionale mortale, provvisto di intelli­ genza e razionalità" (Adv. Math., VII, 269). 3° Cfr. 11 Cfr. 12 Cfr. 31 Cfr. 34 Cfr. 1 Cfr. 36 Cfr. l7 Cfr. 18 Cfr.coli.I,19-II,3=cap.3. 39 Cfr. coli. XIV, 28 - XV, 13=cap. 20. 40 Cfr.coli.XX,32-XXI,3=cap.35. coli. XXXIII, 35 - XXXIV, 5=cap. 52. Eco (1984: 130 e sgg.). Groupe p. (1970: 100). col . col. col . col. col. XXXIV, 5-7 = cap. 52. XXXIV, 11-15=cap. 52. XXI , 27-29 = cap. 36. XXX, 27-31 =cap. 47. XVIII, 23-29=cap. 26. CAPITOLO 9. 1 A questo proposito Cicerone parla di "regolarità della ragione" (ratio et constantia) contrapposta alla "sorte" (fortuna) (De div. , I l , 1 8). 253  254 NOTE CAPITOLO 10. 1 In altre opere, al posto di dicibile troviamo l'espressione significatio; a esempio in De Magistro, 10.34. 2 Si deve notare che Agostino adopera l'espressione verbum in due sen­ si: (i) uno tecnico e specifico, che è quello dell'uso metalinguistico della pa­ rola; (ii) uno generale, che corrisponde alla nozione ampia di "parola", co­ me "segno di ciascuna cosa che, proferito dal parlante, possa essere inteso dalJ'ascoltatore" (cap. V). 1 La natura della nozione di dictio, come composizione di significante e significato, è messa chiaramente in risalto dalla definizione del cap. V da De dialectica: Quel che ho detto dictio è una parola, ma una parola che significhi ormaj le due unità precedenti conten1poraneamente, la parola (verbum) stessa e ciò che è prodotto nell'animo per mezzo della parola [di­ cibile]". La dictio, inoltre, "non procede per se stessa, ma per significare qualcosa d'altro" (ibidem). 4 Si ricorderà che dagli stoici un segno era concepito, in termini propo­ sizionali, come un antecedente che rimandava a un conseguente; cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VliI, 245. s Per questa nozione, cfr. Lotman-Uspenskij (1975). RIFERIMENTI BffiLIOGRAFICI A.A. V.V. 1978 Les Storcien.s et leur logique, Actes du Colloque de Chan­ tilly, 18-22 Septembre 1976, Vrin, Paris Al, D.J. 1970 The Philosophy ofAristotle, Oxford University Press, Ox­ ford (tr. it. La filosofia di Aristotele, Lampugnani Nigri, Milano, 1973) AMANDRY, P. 1950 La mantique apollinienne à Delphes. 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Grice e Contri: l’implicatura conversazionale del Napoleone di Hegel – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cazzano di Tramigna). Filosofo. Grice: “I like Contri – he reminds me of my days at Rossall! Of course Contri is interested in Hegel – “a la ricerca del segreto sofisma di Hegel” – and attempts to reveal it as Stirling never could! But Contri is also interested in ‘il bello’ – being an Italian! – The interesting thing is that he goes back to Italy – Aquino! He has a good exploration on ‘verum’ in Aquino, too, which reminds me of Bristol, Revisited!” Allievo di Zamboni, elabora una minuziosa critica alla logica di Hegel di cui mise in rilievo le incongruenze gnoseologiche e metodologiche che portano alla errata concezione hegeliana della realtà come vita dell'idea. Rovesciando l'immanentismo hegeliano, scopre un mondo di realtà sviluppando una concezione di filosofia della storia che denomina “storiosofia”.  Studia a Verona. Si laurea a Padova. Discepolo fervente di Zamboni, di cui accolse e sostenne la dottrina della gnoseologia pura. In alcune occasioni si descrisse come elaboratore in contemporanea al suo maestro Zamboni di alcune teorie, collegate all’estetica ma non solo. Insegna a Bologna. Zamboni fu espulso dall'Università Cattolica con la motivazione di allontanamento dalla ortodossia tomistica e con accusa di non conformità al Magistero della Dottrina Cattolica Romana. C. definì la posizione della Cattolica con il termine da lui coniato di “archeo-scolastica”. La posizione “archeo-scolastica” della Cattolica di Milano, di una conoscenza indimostrata, a priori, dell’essere e degl’esseri era bersaglio di critiche da parte di filosofi cristiani e non che la ritenevano inadeguata nell’ambito del pensiero moderno. Contri sostenne che la dimostrazione della conoscenza dell’essere e degl’esseri data dalla Gnoseologia Pura di Zamboni superava definitivamente tali critiche e ridava certezza dimostrata della conoscenza e dell’esistenza di Dio. Accusa di plagio Gemelli per aver pubblicato nella monografia Il mio contributo alla filosofia neoscolastica (Milano) pagine già scritte da Mercier e Wulf, senza indicare le citazioni. Gemelli diede le dimissioni da Rettore della Università Cattolica ma rimase in carica. Insegna Bologna. Il prof. Ferdinando Napoli, Generale dei Barnabiti, cultore di scienze naturali, venne depennato dalla Pontificia Accademia delle Scienze, allora presieduta dal Gemelli. Venne dato ordine di non pubblicare articoli a firma di C.. Continuando la difesa della dottrina di Zamboni, fondò la rivista quadrimestrale di polemica e di dottrina neoscolastica “Criterion”. Il confronto con l’Università Cattolica di Milano continuò negli anni successivi con relazioni a numerosi congressi di cui C. da resoconto sulla rivista. Insegna a Ivrea. Sulla rivista Criterion apparvero intanto i saggi del C. sui suoi studi hegeliani che prelusero all'opera definitiva dLa Genesi fenomenologica della Logica hegeliana. Partecipa attivamente agli organi culturali del fascismo. Sscrisse su giornali quali Il Secolo Fascista, Quadrivio, Il Regime Fascista, Il meridiano di Roma e La Crociata Italica. Contri si avvalse della tribuna offerta da queste testate per promuovere i suoi studi filosofici e critica filosoficamente l’ ebraismo di Spinoza, di Durkheim e di Bergson. Insegna a Milano e tenne conferenze su studi hegeliani. Sorse una disputa con Zamboni in seguito all'articolo Il campo della gnoseologia, il campo della storiosofia, in risposta alla pubblicazione del Contri Dallo storicismo alla storiosofia. Prese parte attiva a congressi tomistici internazionali e a congressi rosminiani.  Partecipa attivamente alla “Missione di Milano”, lanciata dall’allora Arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini.  Come riconoscimenti ai suoi studi conseguì alcuni premi fra i quali uno indetto dall'Angelicum sul tema “Quid est veritas”, e una segnalazione all'Accademia dei Lincei per l'opera: Punti di trascendenza nell'immanentismo hegeliano, Milano, LSU. Discepolo e geniale continuatore di Zamboni. Così potrebbe definire la situazione filosofica di oggi. Il mondo del pensiero, perduta la bussola non teologica d'orientamento, è costituito da una miriade di metafisiche che cozzano le une contro le altre tanto da definirsi che heghelianicamente come il divenire in sè, che è puro fenomenismo. A tale fenomenismo corrispondono molteplici fenomenologie. Per esempio quella di  Heidegger, afferma che il reale è un solo, una totalità onniafferrante (Hegel direbbe begriff), tanto come essere quanto come niente. Anche Hidegger poi tenta la via della salvezza ammettendo la realtà del mondo esterno come di un che, che resiste al soggetto, ponendosi nel solco del pensiero di Zamboni. In questo modo Hidegger tocca il problema che si volle e che si vuole eludere: la realtà del mondo esterno. Esistono queste realtà, come la mia realtà, indipendentemente dal pensarle? Per dare risposta a questo interrogativo cruciale, è necessaria la gnoseologia pura. La gnoseologia secondo C., scoprì la risoluzione definitiva del problema della certezza della conoscenza umana. Essa permise di risolvere il problema dell'esistenza di Dio, riavvalorando criticamente le cinque vie della dimostrazione Aquino. Sono meriti del metodo filosofico di Zamboni il poter affermare la sostanzialità del mio “io” personale, la mia realtà individua e dimostrare l'esistenza di Dio, trascendente, personale. Il metodo zamboniano distingue gli elementi della conoscenza umana tra la sensazione, che e sempre oggettiva, e lo stato d'animo e tra questi "quello stato d'animo che è anche atto: l'attenzione". Ogno stato d'animo e sempre soggettivo. La gnoseology riesce a cogliere la realtà del proprio “io”, nei suoi atti e stati. Essi sono reali, per­ché immediatamente presenti all'”io”, e se sono reali gli accidenti dell'io, perché essi sono modo di essere dell'io, reale è l'io, come sostanza, cui essi ineriscono. Perciò dall'immediata certezza della realtà degli accidenti di un ente si giunge alla certezza della realtà sostanziale dell'io." La critica alla posizione della neoscolastica di Gemelli, Olgiati e Masnovo sulla conoscenza indimostrata dell'ente e la soluzione tramite la gnoseologia pura. Rispetto alla dimostrazione della realtà dell'ente, si fonda così nell'esperienza immediata ed integrale il concetto di essere e ‘esseri’ che non è più necessario assumere acriticamente, come qualcosa di razionalmente immediato, pena l'impossibilità di una logica razionale. L'assunzione acritica del concetto di essere ed esseri è propria del neotomismo dell'Università Cattolica, che in un suo autore, Masnovo, perviene alla sua massima teorizzazione nel "mio hic et nunc diveniente atto di pensiero". Ma con questo l'essere e gli esseri è solo pensato e ammesso acriticamente come pensiero, è un presupposto, mentre nella gnoseologia zamboniana è il risultato di un processo di astrazione, che deriva da una realtà immediatamente presente all'autocoscienza dell'io, che non ha la natura del pensiero, non è pensiero essa stessa, ma qualcosa di diverso. Si può pertanto uscire dalla formula logica della ragion sufficiente, che è sempre e comunque razionalista e riduce al razionalismo anche il neotomismo. Nell'ambito dell'esperienza immediata ed integrale si scopre invece non la ragion sufficiente, ma la sufficienza ad esistere o no. E la fondazione ed il ripensamento delle prove dell'esistenza di Dio, e in particolare della terza via tomistica, diventano inoppugnabili. Nessuno più può dubitare dell'esistenza del sufficiente ad esistere, che è Dio."  Secondo Peretti la fondazione gnoseologica della metafisica è il più grande merito di Zamboni.  L'ambiente filosofico dell'Università Cattolica non accetta la gnoseologia zamboniana e fonda la metafisica sul concetto di ente, assunto acriticamente, come un presupposto indimostrabile. Esso finì per identificarsi con l'ente di ragione (ens rationis), non sfuggendo all'insidia hegeliana, che lo aveva dialettizzato sia come essenza che come esistenza. La dialettica negativa di Hegel produsse ben presto nella corrente neotomista di Milano (ma anche in altre università cattoliche) i suoi effetti devastanti. Aveva messo in guardia i neotomisti dalla fraus hegeliana, che si svela nell'antitesi (contra-posizione) come negazione. Seguendo la metodologia gnoseologica, Contri affronta Hegel, il "padre del fenomenismo" compiendo una minuziosa e sistematica analisi della fenomenologia hegeliana. Dopo averle individuate ha messo in rilievo le incongruenze gnoseologiche e perciò metodologiche che sfocia nella concezione della realtà come vita dell'idea, presentandola come uno svolgimento dialettico del ‘begriff’, come qualche cosa che non mai in sé, ma diviene eternamente in sé e per sé. C. resa evidente questa impostazione, anima del fenomenismo, e scoperta nella deficienza gnoseologica e pertanto metodologica, derivata dall'impostazione razionalista ed empirista che al fondo dello stesso criticismo, rovescia l'immanentismo hegeliano, che si gli scopre non più come mondo di idee, ma di realtà, di cui ognuna è altro del suo altro, in un ordito cosmologico, di cui la storia dell'uomo rappresenta l'essenza. Ed ecco la storiosofia, che reclama, al posto dell'immanentismo gnoseologicamente insostenibile, la trascendenza della trama di questo ordito, che a questo punto in sé e per sé non può più essere spiegato (si ricordi che l'anima della spiegazione hegeliana è la "negazione"!). Tale trascendenza prova l'esistenza di un Dio trascendente, che ha concepito la trama creando le realtà ordito di questa trama, di realtà in reciproca relazione, in cui non c'è membro che sia fermo. In questo ordine si risolvono in modo nuovo i rapporti tra le realtà, che per esempio tra l'anima e il corpo, superando così gli scogli di una spinosa questione di eredità aristotelica, di grande importanza anche oggi, in cui le realtà terrene e spirituali non trovano la sintesi equilibratrice.  La storiosofia rappresenta uno sviluppo del metodo di Zamboni, considerandolo la via per rinnovare tutta la filosofia poiché esso non è storicismo filosofico, non è naturalismo, è avanti positivistico, non è speculazione, ma metodo appunto, (metodo) che da secoli la filosofia europea ha cercato, perdendolo oggi nella disperazione del momento." Altri saggi: “Il concetto aristotelico della verità in Aquino” (Torino, SEI); “Gnoseologia” (Bologna, L.Cappelli); “Il concetto d’armonia” (Bologna); “Il tomismo e il pensiero moderno secondo le recenti parole del Pontefice, Bologna, Coop. tipografica Azzoguidi): “Del bello” (Firenze, Libreria Editrice Fiorentina); “La filosofia scolastica in Italia nell' era presente” (Bologna, Cuppini); “L’essere e gl’esseri” (Bologna, C. Galleri); Un confronto istruttivo: Mercier, Gemelli, De Wulf ed altri ancora, Bologna, C. Galleri); “Pane al pane: riassunto d'una situazione, Bologna, Costantino Gallera. “Neo-scolastici e archeo-scolastici” (palaeo-scholastici) sulla rivista Italia letteraria; “Il segreto sofisma di Hegel” (Bologna, La Grafolita), “Mussoliniana: il discorso del duce” (Bologna, La Diana scolastica); “Gnoseologia pura di A. Hilckmann; Il segreto di Hegel di S. Contri, Bologna, Stabilimento Tipografico Felsineo); “Hegel, Ivrea, ed. Criterion); “La genesi fenomenologica della logica hegeliana” (Bologna, ed.Criterion; Ambrogino o della neoscolastica, dialogo filosofico,  Bologna); “La soluzione del nodo centrale della filosofia della storia, Bologna, Criterion); “Complementi di storiosofia, Bologna, Criterion); “Punti di storiosofia, Bologna, Criterion; Lettera a S.S. Pio XII sulla filosofia della storia, Bologna, Criterion; Il Reiner Begriff (=concetto puro) hegeliano ed una recensione gesuitica, Bologna, Criterion; Dallo storicismo alla storiosofia. Lettura prima, Verona, Albarelli; I tre chiasmi della storia del pensiero filosofico.  Inquadratura unitotale della controversia sulla storiosofia, Milano, ed. Criterion); “Rosmini” (Domodossola, La cartografica C. Antonioli); Ispirazione da dei” divina della S. Scrittura secondo l'interpretazione storiosofica” (Milano, Criterion); “La sapienza di Salomone, Milano, ed. Criterion; “La riforma della metafisica” (Milano, ed. Criterion); Filosofia medioevale.  Raggiungere la forma nuova, Fiera Letteraria; Punti di trascendenza nell'immanentismo hegeliano, alla luce della momentalità storiosofica” (Milano, Libreria Editrice Scientifico Universitaria); “Rosmini” (Milano, Centro di cultura religiosa); “Posizioni dello spiritualismo Cristiano: La dottrina della poieticita in un quadro rosminiano” (Domodossola, Tip. La cartografica C. Antonioli); “Assiologia ed estetica”, Theorein; Posizione dello spiritualismo cristiano. La dottrina della poieticità, in un quadro rosminiano, Rivista rosminiana; Heidegger in una luce rosminiana: la favola di Igino e il sentimento fondamentale, Domodossola, La cartografica); Missione di Milano. Chiosa storico-filosofica, Ragguaglio); “Heidegger in una luce rosminiana, Rivista rosminiana); La coscienza infelice nella filosofia hegeliana” (Palermo, Manfredi); “Husserl edito e Husserl inedito” (Palermo, Manfredi); “Kierkegaard: profeta laico dell'interiorità umana”; “Saggio di una poetica vichiana” (Milano, Il ragguaglio librario); La fenomenologia dello spirito di G. Hegel, Rivista rosminiana; L'unità del pensiero filosofico, Sapienza; Il pluralismo filosofico nell'ambito di una concezione cristiana, Sapienza; In margine al centenario dantesco, Sapienza; La negazione come principio metodologico di unificazione speculativa, Theorein; Vita e pensiero di Hegel, Rivista rosminiana; Possibilità di un accordo tra la dottrina rosminiana del sentimento fondamentale e le concezioni moderne  sull'inconscio, Rivista  rosminiana; Morale e religione nella Fenomenologia dello spirito di G. Hegel, Palermo); “Parallelo tra Hegel e Rosmini, Palermo, Mori); “Metafisica e storia, Palermo, Mori); “Il sofisma di Hegel” (Milano, Jaca book). “Il caso Contri”; “Gnoseologia”; noseologia, storiosofia; Contri, Note mazziane; La propedeutica metafisica hegeliana al problema del pensare e la lettura rosminiana di S. Contri, Contri tra gnoseologia e storiosofia, Punti di trascendenza in S. Contri, in Sophia, Crociata Italica, Fascismo e religione nella Repubblica di Salò, L'Estetica di Benedetto Croce. Certi gestiscriveva la Vanni Rovighiche gli furono rimproverati come acquiescenza al potere politico fascista (e furono ben pochi in confronto a quelli di molti altri) furono dettati dalla preoccupazione di difendere la sua Università dalla minaccia di chiusura da parte del potere politico, minaccia tutt’altro che immaginaria. E forse fu il timore di fronte alle obiezioni di un’altra autorità, quella ecclesiastica, che gli premeva ben più di quella politica, a indurlo ad allontanare dall’Università un uomo di grande ingegno e di purezza adamantina: Zamboni, un gesto che non può non essergli rimproverato e che lasciò anche a noi allora studenti dell’amaro in bocca. Contri, (Circa il volume di Croce 'La storia come pensiero e come azione. Siro Contri Presidente dell' Istituto di Cultura Fascista. CONDOTTA POLITICO-MILITARE   ESPRESSA DAI FATTI UNIVERSALMENTE NOTI,  I QUALI CELEBRANO COTANTO LA SINGOLARITÀ DI BONAPARTE. Paralello degli uomini ipiù celebrati  dalla Storia dei Secoli.   ]N"on è del mio proposito il qui premet-  tere alle azioni di NAPOLEONE le cau-  se che rivoluzionarono la Francia, e i  fatti che a danno proprio, o di altrui  operarono i Francesi, poiché questi sono  noti a tutti, o se qualcuno' vi è, che non  li sappia, da quelli stessi, che io dirò,  operati da Lui, meglio si rileverà la gran-  dezza degli altri distinguendosi troppo  bene riunite in un solo quelle grandi     ia   qualità, con le quali si va a riordinare,  e regolare in pace il cittadino, come in  guerra a vincere e superare l'inimico.  Nè vi voleva di meno: conobbe BONA-  PARTE opportunamente, che non si ha  la pace, se non si fa la guerra, che non può  tornare all'ordine il Francese, se non è  vittorioso, subito che la gloria di aver  vinto altrui richiama, per goder dei frut-  to, al dovere di vincere se stesso se non  si dipende? Col dipendere dagl'ordini di  BONAPARTE nel campo di battaglia, si  volò dal Francese alla vittoria: che me-  raviglia, se all'un fatto autorevole per-  ciò riesci agevole inculcare con altri i  doveri di giustizia, nell'osservanza de'  quali, rimesso l'ordine pubblico, si passò  ad unire a quelli di conquista i frutti  preziosi della pace.   Troppo è singolare NAPOLEONE  BONAPARTE nella storia dei secoli.  Quegli uomini che arrichirono di beni,  che fornirono di gloria la Patria, ed i re-  gni, di cui erano signori, di cui erano cittadini, con le loro imprese in guerra,  con i loro consigli in pace, daranno a me  tutto quel meglio che ciascuno di essi  possedeva parzialmente, per provarlo  riunito in BONAPARTE a riordinare la  Francia, a pacificare V Europa.   Non si vuol qui osservare l'ordine dei  fatti, nei quali BONAPARTE si mostrò  da prima grande Capitano, ma presa sib-  bene l'epoca del Consolato tanto glorioso  per Lui, e dove Egli si mostrò grande  politico, si faranno servire i fatti nell 9  uno, e nell'altro stato operati all'espres-  sione di quella condotta, la quale prati-  cata da Lui solo, celebra veracemente la  sua Singolarità.   Dirò pertanto, con tutto che io non  ignori, che Giulio Cesare fu l'uomo in  Roma, il quale più d'ogni altr'uomo del-  le storie antiche può dare a me una  qualche simigliala di NAPOLEONE in  Francia, pure i fatti che me lo descrivo-  no per grande, non sono quegli stessi che  ora mi dimostrano grandissimo BONAPARTE. 11 ritorno di GIULIO CESARE dal Governo della Spagna non è simile a quello di  BONAPARTE dopo V occupazione dell'  Egitto; Cesare trovò la Repubblica Ro-  mana divisa in due fazioni, una di GNEO POMPEO, e l'altra di MARIO CRASSO. BONAPARTE trova la Repubblica non divisa in fazioni, ma in tanto disor-  dine e confusione, che più non è divisi-  bile, poiché l'eccesso dell'anarchia pro-  duce la serie indefinita delle divisioni  sempre rinascenti e rovinose; pure non  altri vi fu, se non che Egli, tanto poten-  te, che la divise per trarla dalla sua confusione.   GIULIO CESARE vien pregato da ognuno dei due rivali a farsi del suo partito,  e Cesare si fa mediatore di pace.   BONAPARTE non pregato va da se  a rimproverare d'ingiustizia, e di oppres-  sione i Governanti, e a nome del Popolo  Francese ingiustamente oppresso intima  la loro destituzione.     Digitized by Google     iS   Giulio Cesare si fa pacificatore di chi  voleva la pace.   BONAPARTE assicura la pace a fron-  te di coloro che volevan la guerra.   Giulio Cesare dee vincere con la per-  suasione due nemici, che erano nel se-  no della Patria a promovere con la di-  visione l'interna discordia.   BONAPARTE dee vincere con la for-  za i nemici esterni della Francia, e dee  persuadere la Francia in disordine della  necessità di un nuovo ordine di cose per  felicitarla.   Giulio Cesare accetta l' incarico di  mediatore non per servire, ma per regna-  re; perchè coll'esser così fra Crasso e  Pompeo, ambidue li vedeva dipendenti  da Lui; regna chi non dipende, non di-  pende chi giudica, e quello che giudica  si fa arbitro dei due nemici: non voleva  Cesare con la sua dipendenza rendere  più forte uno dei rivali, ma voleva col  pretesto della sua mediazione indeboli-  re ambidue. Trattò la pace non per unirli fra di loro, ma per unirli a se, non per-  chè fossero amici, ma perchè fossero di-  sarmati.   BONAPARTE instruito dei disordi-  ni della Francia e delle sue perdite, con  eroica risoluzione veste il carattere di  guerriero, di 'pacificatore; si mostrò così  al Consiglio dei Cinquecento, dove era  maggiore l'autorità, e dove erano tanti  che volevano governare; non si ritiene  da dirli indegni di quest'ufficio, quando  per due anni avevano così male governa-  ta la Francia. Il rimprovero di un simile  delitto, la fermezza di chi rimprovera,  ed il coraggio, avvilì e disperse i delin-  . quenti, (molto più di Trasibulo che cac-  ciò d'Atene i trenta suoi tiranni): si rimi*  se allora BONAPARTE al voto del Popòlo Francese, che lo acclamò Liberatore;  ed assicurato di lealtà, annunziò il Con-  solato, e la sua Costituzione.   Fatta la pace fra Pompeo, e Crasso  per opera di Cesare, tutti due concorse-  ro a farlo Console, e in tutto il tempo n   Consolato il di Lui Collega non compar-  ve mai a palazzo.   Si vide BONAPARTE Primo Console, e gli altri due furono sempre con Lui  nel Consolato.   Se fu solo Cesare a comandare fu con  usurpazione.   Se ha BONAPARTE nel comando la  primazia, glie la concede la costituzione:   Cesare non soffriva che gli applausi  di buon governo fossero attribuiti ad al-  cun altro che a Lui: per tal modo andava  avvezzando Roma al governo di un solo,  e disponeva gli animi ad approvare nel  Consolato la Monarchia.   BONAPARTE sebbene il primo nel  Consolato, ed il maggiore nella autorità;  è però sempre insieme con gli altri a go-  vernare; non sprezza l'opera altrui, non  sfugge l'altrui consiglio, e vuole che tut-  ti abbiano parte al merito della sua bon-  tà, della sua aggiustatezza; non vuol cam-  biar governo nei momenti che tanto si  opera per stabilirlo; tutto quello che si fa, si fa per conoscere, 3e il Francese può  essere buon repubblicano: il grido della  libertà democratica non è un voto vale-  vole per la esclusione della monarchia;  quantunque siansi veduti i Francesi ele-  trizzati andare incontro alla morte per  vendicare la libertà; si deve dar ciò  alla forza di quel barbaro terrore difuso  per avvilimento universale con la op-  pressione dell'innocente; sostenuto con  la franchigia ed esaltazione del malva-  gio per accrescere il numero dei terrori-  sti; non già ad un maturo consiglio, ad  una risoluzione giudiziosa, unanime, uni-  versale, che però il procedere di BONA-  PARTE fu assai prudente per richiamare  all'ordine i Francesi in rivoluzione, e  metterli veracemente in libertà, col co-  stituire la forma di un buon governo.   Cesare ha finito il Consolato.   BONAPARTE viene dichiarato a Vita  Primo Console.   Cesare dopo il Consolato si elesse il  Governo delle Gallie dove andò con E-sercito, e fece guerra a molte nazioni.  Vide pesare che le fazioni lo potevano  fare il primo della Repubblica, ma non  bastavano a farlo padrone, per cui era  necessario un esercito: come armarsi però  senza scoprire il suo disegno? Ecco l'arte  di Cesare; si armò per servizio della Re-  pubblica, la servì valorosamente per po-  terla signoreggiare, la esaltò per poterla  opprimere: nel regnare l'arte del segreto  non è tacere, ma consiste in rivelare una  intenzione verisimile che nasconda la  vera, ma che non sia la principale: la più  fina simulazione del mondo consiste nel  sapersi ben servire della verità.   BONAPARTE fu fatto Primo Console  non dalle fazioni, ma dal voto libero di  una gran nazione: i meriti della guerra,  e quelli maggiori della pace precedettero  la sua perpetuità nel Consolato; non ser-  vì alla Francia per signoreggiarla, non la  esaltò per opprimerla, quando con averla  levata da suoi disordini, e fatta amica di  tutte le nazioni 5 non cercò di escludere i tanti dall'onore di questa grand'opera,  i quali ora sono con Lui nel governo vi-  gilantissimi per conservarla.   Per dare però una maggior rilevanza  al paragone di BONAPARTE con Giulio  Cesare, mi farò a tracciar questi nè suoi  principj per condurmi così a provar me-  glio la singolarità dell'altro; e giusta la  diversità di tante sue virtuose azioni, mi  farò pure a dir di quelli, i quali nei bei  secoli della Grecia, e di Roma onorarono  la loro patria, perchè i più valorosi nell'  arte della guerra, i più sapienti nel go-  verno dei popoli tra coloro tutti, che il  precedettero, scorrendo la vita de' me-  desimi, dimostrerò, senza osservare l'or-  dine dei tempi, giacché non è ciò del  mio soggetto, riunite in BONAPARTE le  grandi virtù di tutti quelli celebratis-  simi nella storia delle nazioni.   CeSare nella sua più fresca età passò  la prima volta a militare sotto Marco  Minucio GermOj allora Pretore in Asia.,  e mandato in Bitinia all'assedio di Mitiiene, la sola città che ricusava sottomet-  tersi ai Romani, si distinse tanto nella  sua presa, che meritò diverse corone civiche, le quali davansi a chi aveva sal-  vata la vita ad alcun cittadino romano.  BONAPARTE che nel principio della  Rivoluzione Francese trovavasi in Parigi  tutto intento a coltivare i grandi suoi ta-  lenti nella scuola militare, e nella vera  filosofia, fu mandato all'assedio di Tolo-  ne Ufficiale in una compagnia d'artiglie-  ri,, allora di soli ventitre anni, ed ivi le  prove del suo valore furono tanto lumi-  nose e così sollecite, che i Rappresen-  tanti del popolo ivi presenti, non tarda-  rono a promoverlo Generale di Brigata,  nel qual posto più d'ogn'altro suo pari si  mostrò esperto nell'arte difficilissima di  condur i soldati alla vittoria; e singo-  larmente intrepido si rendette in quei  terribili momenti di assalto, sotto l'im-  peto del quale ebbe a tornar Tolone in  potere dei Repubblicani. Giulio Cesare fu accusato da L. Vezio  cavalier romano complice nella cospirazione di Catilina. BONAPARTE fu accusato, e fatto ar-  restare a Nizza dal Convenzionale Befroi  come terrorista. Il terrore allora era di-  retto a dominare sugli uomini per disor-  dinarli, per perderli.   La Congiura di Catilina si volgeva a  fare un dominatore di Roma per felici-  tarla.   Il Valore mostrato nell'armi da BONAPARTE mosse l'invidia di tanti ad  accreditarne l'accusazione.   Fu accusato Giulio Cesare di troppa  parzialità per Lentulo, Gabinio, Cetego,  Statilio capi dei congiurati. Questi per  salvar la vita ebbe bisogno di un CICERONE; fuggì gli occhi di tutti; si rinserrò  nella propria casa timoroso d'incontrare  nuovamente il risentimento dei Padri.   BONAPARTE va da se a Parigi per fa-  re delle rimostranze al Comitato di salute  pubblica contro una simigliante ingiustizia, ha cuore di orare la propria causa  in faccia a quel Tribunale istesso eret-  to per distruggere gli innocenti; e non  avendo più dove ricorrere per denegata  giustizia, chiede il permesso di ritirarsi  a Costantinopoli, perchè soverchiamen-  te delicato, non vuol vivere a fronte di  un'accusa troppo ingiusta.   Il patrocinio delle Vestali, l'amor del  Popolo tant'altre volte come in questa  capriccioso, perchè mosso dall'ingenita  avversione al volere dei grandi, richiama  Giulio Cesare al suo uffizio. Affidato BONAPARTE al patrocinio  più sicuro della sua giustizia, attende da  filosofo il momento propizio alla sua  gloria, poiché il Vendemiatore vide  BONAPARTE col comando di un corpo  numeroso di linea tanto ben disposto, e  regolato, trarre dall'estremo periglio la  Convenzione, e salvar Parigi dal furore  di un nuovo disordine, che urtando libe-  ramente, poteva nelle sue rovine aprire  la tomba a tutti i Cittadini : un'operazione tanto salutare, li procurò dei potenti  amici, li meritò la pubblica ammirazio-  ne, la riconoscenza nazionale; in questo  giorno egli trionfò di tutti i cuori: gli  amici lo amavano teneramente, lo temevano grandemente gl'inimici : il suo trion-  fo fu molto dissimile a quello di Mario,  di Siila, di Cesare, e di Pompeo; questi  volevano, trionfando, signoreggiare, ed  avvilire tutti i Romani: BONAPARTE  riponeva nella grandezza dei Francesi, e  nella maggiore loro felicità il suo trionfo, la sua gloria era di vincere., lasciando  alla nazione di trionfare.   La prima azione di questo Giovine  Guerriero fu quella di sostenere nella  Patria i diritti delle supreme podestà  contro un forte partito dei suoi, il qual  voleva nella morte dei Governanti assi-  curare al disordine la sua dominazione,  che è quanto dire, a Lui viene affidata  la grande impresa di frenare, di avvilire  gl'inimici interni della Patria, che sono  i più potenti, i più terribili, perchè i più  sicuri di unire alla forza aperta i funesti  progressi di una domestica prodizione.  Per tutto questo era mal sicuro dell'istes^  ssl sua vita, perchè Comandante di tanti  altri armati troppo facili a cedere alla se-  duzione di alcuni di quelli, coi quali ol-  tre ad aver comune la patria, erano del  medesimo sangue, divisi soltanto di sen-  timento per la formazione di questo, o  dell'altro Governo* pure BONAPARTE  superiore ad ogni pericolo, va, come si  disse, condotto dal suo genio a farsi il  terrore dei sediziosi, il salvatore dei Go-  vernanti: molto più grande questa im-  presa di quella di Petrejo contro Catili-  na, poiché questi comandava all'aperto  a piè dell'Alpi i suoi Armati, dove la co-  gnizione del luogo, e la sua ampiezza  dava al Capitano in caso di perdita il  piano per una gloriosa ritirata. Quando  per BONAPARTE il campo di battaglia  era Parigi; aveva pertanto comune con  gl'inimici gFistessi ostacoli, i medesimi  pericoli, che anzi si facevano maggiori per Lui; perchè doveva esser sempre  nel sospetto, che quella immensa popo-  lazione rivoluzionata, inquieta per l'in-  certezza di un felice destino, potesse  fornire ad ogni momento di un maggior  numero di soldati le legioni dei ribelli:  con tutto questo le sue disposizioni fu-  rono così giudiziose, il suo coraggio tan-  to sorprendente, che con poco sangue  sparso vinse interamente la fazion nemi-  ca, e levò ad essa ogni speranza di risor-  gere, per tornare contro di Lui a nuova  pugna. Egli adunque, come Filopemene  mandato a guerreggiare contro gFistessi  Greci suoi, non si disse per Lui ventura  il trionfar di loro, ma una soda virtù,  mentre quelli, che eguali han tutte le co-  se, non possono che per virtù primeggia-  re sugli altri, e distinguersi più di loro.   Se fu capace BON APARTE di trionfa-  re sugl'istessi suoi Francesi, e ciò non  per se, ma per il solo bene dei vinti, ra-  gion voleva, che i Governanti ad una  prova tanto singolare d'amore, scegliesscio Lui Comandante in Capo dell'Armata d'Italia, siccome gl'interpreti sicuri  del voto universale dei Francesi, per  aprire cosi un nuovo campo di gloria ai  suo valore, ed assicurare a loro il bene  della vittoria sugl'esterni nemici della  Francia. NAPOLEONE va senza ritardo al  luogo, ^ove lo attende la grandezza de'  suoi destini; quivi essendo si mostra a  tutti i suoi, come Marc'Autonio mirabi-  lissimo nella idea delle sue imprese, le  concepisce quali dovevano essere nel-  la mente di un regnante; e più di Marc"  Antonio l'eseguisce con facilità, mentre  questi mancava di una pronta attività  per una felice esecuzione. È dunque BO-  NAPARTE, dove nasce l'Appennino e  mancan l'Alpi, fra strette gole ed inacces-  sibili dirupi, in quei luoghi istessi prati-  cati altra volta con bravura da un Fla-  minio, da un Postumio celebratissimi  Capitani di Roma; quivi egli è a fronte  di un inimico, che si avanza vittorioso da Voltri per battere Monteligino, ulti-  mo trinceramento repubblicano, di dove  poi andar più oltre con maggior spedi-  tezza, perchè minori gli ostacoli del luo-  go, ed arrivare una volta a por piede sul  terreno Francese, per risvegliare così,  ed animare il partito nemico delia liber-  tà. Con tutto questo che pareva tanto  prossimo ad eseguirsi, BONAPARTE nelle concepite disposizioni guerresche, ve-  de sicura l'occupazione dell'Italia; e più  oltre andando, non vede tanto incerto  l'approssimarsi alla Capitale dell'Alema-  gna: le grandi distanze, gl'infiniti perico-  li, che si frappongono, non lo distraggo-  no un momento dal porsi sulle mosse  per dar principio all'opera, e giungere  ad occupare la grandezza del suo fine: i  modi sono presti per vincere; in caso di  mancanza, sono pronti gli altri per trarre  dalla sua difesa gli utili di una grande  vittoria. Sagace nella previdenza di tutte  le cose, passa con risolutezza dallo stato  di difesa, a quello di offesa; e mentre si occupava rinimico a vincere le resisten-  ze del Capo di Brigata Rampon, BONA-  PARTE, seguitato dai prodi Generali  Berthier, e Massena, dirige le truppe dei  suo centro, e della sua sinistra sul fian-  co, e alle spalle degli Alemanni. Questa  manovra tanto difficile nel luogo., ed eseguita sugl'occhi di un inimico vigilantis-  simo, preparò la memorabile vittoria di  Montenotte, e la decise; poiché simile  ad Alessandro, e a Pirro nella prestezza  delle disposizioni, nell'impeto, e violen-  za del conflitto, divise il corpo di Beau-  lieu dagli Austro-Sardi; e mentre batteva  un corpo, l'altro era tenuto a bada, e poi  piombando su di questo, ambedue furon  vinti, disordinati, dispersi; la conseguen-  za di ciò fu l'essersi reso padrone del  Cairo, di Dego, e della posizione impor-  tantissima di santa Margherita, per cui  trovossi al di là delle cime dell'Alpi, su  i declivi, che guardano la bella Italia.  La impresa non fu strepitosa soltanto  per essere stata eseguita nel breve corso     3o   di quattro giorni, ma perchè opera di un  Capitano di soli ventisette anni, come  Pompeo nell'Affrica contro Domizio della  Fazion Mariana, e Jarba Re de' Mori suo  aleato, per cui questi ebbe da Siila, al-  lora Dittatore in Roma, il titolo di Gran-  de. BONAPARTE però più grande di  Pompeo per aver superatigli ostacoli del-  la natura in un con quelli opposti dall'ar-  te militare la più studiata, la più per-  fetta.   A che ricordarsi più con meraviglia  del passaggio dell'Alpi fatto da Anniba-  le? sebben'egli partito dal Rodano con la  sua armata di Numidi, e di Spagnuoli per  passar le Gole transalpine, e le Alpi* per  nove giorni di cammino fino alle sue vet-  te combatter dovesse ad ogni passo i Gal-  li che in imboscata e con prodizione at-  traversavano, estremamente molesti, la  sua gita; e negli altri sei giorni impiegati  nella discesa, niuno essendovi più, che  il molestasse, pure le nevi altissime, i  ghiacci, e le bufere rendessero tanto più malagevole, e pericoloso il suo tragitto:  ciò non pertanto più maraviglioso fu il  salire, e il discendere di BONAPARTE,  quando in questo si deve aggiugnere il  dover vincere passo passo un inimico,  che in un momento era pronto alla di-  fesa, e nell'altro prontissimo all'Offesa;  per cui gli avvenne di essere una qualche  volta respinto; lo che sembrava, e ciò a  tutti, una volontaria ritirata, tant'era  presto a riprendere il combattimento  con più veemenza, e risoluzione; come  chi, per accrescere il colpo contro le  mura nemiche, par si discosti per levar  più alto l'ariete, e la mazza ferrata a far  maggiore la gravità del colpo, e più sol-  lecita la sua distruzione: ed è per questo  che il General Augereau forza le Gole  di Millesimo; Menard, e Joubert discac-  cian l'inimico da tutte le posizioni di  quei contorni; ma l'inimico è sulle altu-  re a riprenderne delle nuove, e più for-  midabili per cui i Francesi in ogni ora  sono chiamati a nuovi disastrosissimi conflitti essi vi vanno non un movimento pronto, ben regolato e risoluto, in  ogni luogo perciò sormontano il potere  dell'inimico. Dopo fatiche così ecceden-  ti,, e sì luminosi vantaggi più non si teme  della vittoria; in fatti quando sugl'albo-  ri del sesto dì della battaglia Beaulieu  gli attacca, supera il villaggio del Dego,  respinge il general Massena per tre vol-  te assalitore, Victor, e Lannes per ordine  di BONAPARTE piombano sulla sini-  stra dell'inimico; ma l'inimico è più for-  te; le truppe repubblicane vacillano per  un istante; indi ritornano all'assalto;  raddoppiano il coraggio, e Dego è nuova-  mente in lor potere. Il piano delle ope-  razioni dei diversi corpi d'armata è trop-  po concorde perchè il risultato non la-  sci mai d'essere utilissimo al loro avan-  zamento: i suoi capi sono sempre insie-  me a combinare su d'un piano troppo  attivo e giudizioso, mosso e regolato dal  capo supremo, che lo ideò, che lo compose. La valle pertanto di Borimela, e quella  del Tanaro sono aperte ai repubblicani;  le trincee di Montezimo, e di Ceva sono  superate; passano questi il Tanaro, e ri-  nimico è in piena ritirata per la strada  del Mondovì: sul far del giorno i due eserciti sono a fronte l'uno dell'altro; co-  mincia nel villaggio di Vico la zuffa, Fio-  rella, e Dammartin attaccano con impe-  to il ridotto, che cuopre il centro del ne-  mico, questi abbandona il campo, passa  la Stura, e si pone fra Cuneo, e Chera-  sco entro un recinto bastionato; Masse-  na si muove contro, e rovescia le gran  guardie nemiche. Dopo questa operazio-  ne i Francesi si trovano vicino a Turino: il General Colli propone una sospen-  sion d'armi; BONAPARTE vi acconsen-  te con la condizione, che vengano a lui  rimesse Cuneo, e Tortona; il Re non sa  non approvarlo, e BONAPARTE con ciò  dà alla sua armata in Italia una situazio-  ne sicura ed imponente, e vede aperta   senz'altri ostacoli la sua libera comunicazione con la Francia. Ogni giorno  pertanto crescono gli armati,, BONAPAR-  TE gl'impiega al passo del Pò nella gran-  de battaglia di Lodi; con marce, e con-  tromarce cuopre air inimico i veri suoi  movimenti, si fa strada tra l'Adda, e il  Ticino per dirigere la sua marcia sopra  Milano, mentre Beaulieu ingannato, si  affaticava a fortificarsi tra il Ticino, e  la Sesia. Il resultato di queste felici ope-  razioni non aveva in se tutto, che si vo-  leva, per andare senz'altro intoppo dritto  dritto alla capitale della Lombardia. Sono eccellenti le disposizioni del generale inimico per apporne dei nuovi. Questi ritardarono la marcia, non l'impe-  dirono', Beaulieu col suo corpo d'armata  dall'opposta parte dell'Adda guarda con  numerosa artiglieria l'estremità del pon-  te di Lodi, che lo cavalca per l'estensione di cento tese; non volle tagliare il  ponte, lusingandosi cosi di meglio diri-  gere il fuoco alla distruzione di tanti ne-  mici insieme strettamente riuniti al suo passaggio. Il soldato francese, sotto un  tanto Duce, conosce il grande pericolo,  ma troppo è animato a superarlo; vede  che il passo del ponte è angusto e mici-  diale, ma ad impadronirsene ve li spro-  na l'onore, e gl'interessi della patria: la  morte di alcuni aprirà il varco a molti,  si muoja, dicevan essi, purché si vinca.  Quanti mai sono che vogliono essere i  primi, contenti di assicurare ai supersti-  ti col loro sangue gli utili d'una gran-  de vittoria: il secondo hattaglione de'ca-  rahinieri precede l'armata francese ser-  rata in colonna: i prodi si presentano sul  ponte, il fuoco dell'inimico è tanto ter-  ribile e continuato, che la testa della colonna stette in forse per alcuni momen-  ti a fronte di un sì alto pericolo, e se un  solo istante di più s'indugiava, tutto era  perduto:Berthier, Massena, Cervoni, Du-  prat si precipitarono alla testa delle trup-  pe, e fissarono la fortuna ancor vacillan-  te: l'inimico nell'istante è rovesciato,  l'Adda è aperta alla cavalleria, la vitto-  ria è definitivamente decisa. Più di Cesare glorioso BONAPARTE  poiché quello sostenne il ponte sul Aisne  contro Galba, che con le sue forze nu-  merosissime tentava superarlo; quando  l 'a i t ro acquistò il ponte di Lodi contro gli  Alemanni, che lo guardavano tanto for-  ti: Noyon atterrita apre le porte a Cesa-  re. Milano festeggiante incontra BONA-  PARTE; in quello Noyon teme il suo ti-  ranno; in questo Milano ama il suo bene-  fattore: Cesare vinceva per far schiavi i  vinti: BONAPARTE trionfa per farli li-  beri.   Dalle divisate azioni guerresche chi  non vede riunito in BONAPARTE il co-  va ^gio, l'operativa prontezza di Marcel-  la; ìa circospezione, ed il provedimento  Fabio Massimo? Conobbe troppo be-  > bON APARTE la importanza delle  <e imprese; e potè dire molto avanti  to quello, che solo aveva pensato di  . Si valse opportunamente dei suoi  .ta^i con non lasciarsi alle spalle al-  trui inimico: vinto uno dalle sue armi,  gli altri maravigliati, ed atterriti dalle  sue vittorie fecero delle proposizioni di  pace, che furono accordate con i vantag-  gi dovuti al vincitore; i quali però non  portavano il vinto ad un odioso avvili-  mento.   Riunì BONAPARTE in queste opera-  zioni la esecuzione dei pensieri di Mar-  cello in Siracusa; di Fabio Massimo nella capitale de' Tarentini, popolazioni da  loro debellate.   Marcello per trattato leva molti bel-  1 issimi simulacri, perchè servissero di  ornamento alla sua patria; la quale siuo  allora non aveva, ne avuti, nè veduti ab-  bigliamenti cosi gentili ed isquisiti. Fabio Massimo trasse fuori denari e ric-  chezze, lasciando ai Tarentini i loro nu-  mi sdegnati che eran di marmo. Marcello  fu applaudito dal popolo e condannato  dagli uomini di probità. Fabio Massimo  fu celebrato da questi, e non curato dagli  altri. Siro Contri, «Il regime fascista». Siro Contri. Contri. Keywords: il Napoleone di Hegel, del bello, il bello, assiologia, poetica vichiana, Mussolini, discorso, duce, logica di Hegel, filosofia dell’essere, l’essere e gli esseri, Hegel contraddetto, il bello, pulchrum, archeo-scolastici, paleo-scolastici, Aquino, aristotele, il vero, l’errore di Croce, l’equivoco di Croce, percezione del bello, l’armonia e il bello, del storicismo alla storiosofia, storiosofia o filosofia della storia, interpretazione dommatica di Aquino, la negazione di hegel, il concetto puro di Hegel, la negazione come metodo in Hegel, nihilismo e negazione in Hegel, l’errore di Hegel, il sofisma di Hegel, Gentile e il bello. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Contri” – The Swimming-Pool Library. Contri.

 

Grice e Corbellini: l’implicatura conversazionale del darwinismo politizzato – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cadeo, Cardeo). Filosofo italiano. Grice: “I like Corbellini; of course he has to defend science versus what he calls – alla Popper? – ‘pseudoscenza’ in Italy, which he calls ‘il paese della pseudoscenza’ – I thought that was Oxford!” I sui interessi riguardano la grammatical del vivente, la storia della medicina e la bioetica. Insegna Roma. Si laurea con “L’epistemologia evoluzionistica”.I suoi interessi di studio hanno riguardato la storia e la filosofia della biologia evoluzionistica, delle immunoscienze e delle neuroscienze, per includere poi anche lo studio della storia della malaria e della malariologia in Italia, delle ricadute della genetica molecolare, delle implicazioni dell’evoluzione e l'evoluzione. L'approccio storico-epistemologico all'evoluzione trovato una sintesi nella ricostruzione della storia delle idee di “salute” e malattia e delle trasformazioni metodologiche a cui è andata incontro la ricerca delle spiegazione causale della salute. La sua ricerca si è orientata anche verso l'esame delle radici delle controversie bioetiche. Difende un'idea non confessionale della bioetica, che ha radici filosofiche in uno scetticismo morale radicale, naturalistico e non relativista (Bioetica per perplessi. Una guida ragionata, Mondadori).  Coltiva anche un interesse per la percezione sociale e il ruolo della scienza nella costruzione del valore civile. Sostiene che l'invenzione e l'espansione del metodo scientifico hanno consentito e favorito l'evoluzione del libero mercato e della stato di diritto, ovvero che la scienza ha funzionano come catalizzatore nella costruzione e manutenzione dei valori critico-cognitivi e morali che rendono possibile il funzionamento del sistema liberal-democratico.  Altre opere: “Nel Paese della Pseudoscienza. Perché i pregiudizi minacciano la nostra libertà” (Milano, Feltrinelli); “Cavie? Sperimentazione e diritti animali” (Bologna, Il Mulino); “Tutta colpa del cervello: un'introduzione alla neuro-etica” (Milano, Mondadori Università,; Scienza, Torino, Bollati Boringhieri); “Dalla cura alla scienza” (Milano, Encyclomedia Publishers); “Scienza, quindi democrazia, Torino, Einaudi); “Perché gli scienziati non sono pericolosi” (Milano, Longanesi); “La razionalità negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia (con Giovanni Jervis), Torino, Bollati Boringhieri, EBM); “Medicina basata sull'evoluzione” (Roma-Bari, Laterza); “Bi(blio)etica” (Torino, Einaudi); “Breve storia delle idee di salute e malattia” (Roma, Carocci); “La grammatica del vivente. Storia della biologia e della medicina molecolare” (Roma-Bari, Laterza); “L'evoluzione del pensiero immunologico” (Bollati Boringhieri, Torino). L’errore di Darwin. Introduzione; Dall’etica medica alla bioetica; Il senso morale umano e le controversie bioetiche; 3. Sperimentazione sull’uomo e consenso informato; Scelte di fine vita; Scelte di inizio vita; Medicina genetica; Sperimentazione animale; Medicina dei trapianti e definizione di morte; Etica della ricerca responsabile; Medicina rigenerativa e staminali; Neuroetica; Etica ambientale e OGM; Etica della comunicazione scientifica, della percezione della scienza e del «gender»; Indice dei box; Indice analitico; Indice dei nomi. Come nota C. nella prefazione all’edizione italiana del libro di Ru- bin, il tentativo di applicare l’approccio evoluzionistico alla filosofia politica spesso rischia di venire frainteso. Il fraintendimento più comune e pericoloso deriva dalla mancata distinzione tra il darwinismo politicizzato e la politica darwiniana: il primo è costituito, come è accaduto nel caso del “social darwinismo”, dall’nterpretazione strumentale e priva di coerenza logica o di basi scientifiche delle idee darwiniane per difendere qualche particolare ideologia politica»; la seconda, invece, consiste nell’«uso delle conoscenze evoluzionistiche sulla natura umana per meglio comprendere le origini delle preferenze politiche individuali, la loro distribuzione sociale e le dissonanze tra gli adattamenti ancestrali e l’ambiente attuale. Ridley si mostra ben consapevole del rischio di trasformare la politi- ca darwiniana in ideologia. Questo, tuttavia, non gli impede di avanzare alcuni suggerimenti di politica economica Cfr. Skyrms, The Evolution of Social Contract, e Festa “Teoria dei giochi, metodo delle scienze sociali e filosofia della politica”, Prefazione a de Jasay, Scelta, contratto, consenso). Alcune immani tragedie che hanno segnato la storia degli ultimi due secoli sembrano dovute, almeno in parte, all’ignoranza – e, talvolta, alla ne- gazione – di alcune caratteristiche essenziali della natura umana. Per esempio, Ridley osserva che Marx vagheggia un sistema sociale che avrebbe funzionato solo se fossimo stati degli angeli, ed è fallito perché siamo invece degli animali. Singer, Una sinistra dawiniana. Politica, evoluzione e CO0OPERAZIONE, Torino, Edizioni di Comunità, Arnhart, Darwinian Conservatism, Exeter (UK), Imprint Academic, Rubin, La politica secondo Darwin; Corbellini, “Politica darwiniana vs darwinismo politicizzato”, prefazione a Rubin, La politica secondo Darwin; Ridley.Origini.Virtu.indd Le origini della virtùsi vedano soprattutto gl’ultimi tre capitoli del saggio – che gli sembrano compatibili con le nostre tendenze evolutive. La prospettiva filosofico-politica che ne emerge è un libe- ralismo con tendenze anarchiche, che non sarebbe inappropriato chiamare anarco-liberalismo. Tale prospettiva, ispirata dalla grande fiducia di Ridley negl’ISTINTI CO-OPERATIVI e altruistici degl’esseri umani, sfocia infatti nella difesa di un ordine politico-economico nel quale il ruolo del gover- no e dell’intervento pubblico è ridotto ai minimi termini: Recuperiamo la visione di Kropotkin, che immaginava un mondo di liberi individui. Non sono così ingenuo da pensare che ciò possa accadere da un giorno all’altro, o che qualche forma di governo non sia necessaria. Ma metto se- riamente in dubbio la necessità di uno Stato che decide ogni minimo dettaglio della nostra vita e si attacca come una gigantesca pulce alla schiena della nazione. D’altra parte, Ridley si rende conto che, mentre le soluzioni politico-economiche da lui favorite si accordano con alcune tendenze evolutive umane, confliggono però con altre. Per esempio, egli osserva che certe istituzioni economi- camente adeguate nella società moderna, come la proprietà privata, possono entrare in tensione con le tendenze primi- tive all’egualitarismo, alla redistribuzione e al rifiuto dell’accumulazione di ricchezza. L’analisi dei conflitti tra le moderne istituzioni politico-economiche e le nostre ten- denze primitive è uno degli argomenti centrali del già citato libro di Rubin.Le “Imperfezioni umane” di Pani e C. Covato Mailing Le “Imperfezioni umane” di Pani e C. Fornire un punto di vista innovativo, cioè evoluzionistico, di tutto quello che riguarda la salute e le disfunzioni comportamentali, e suggerire qualche punto di vista originale sul perché nonostante le dissonanze evolutive, la condizione umana è globalmente migliorata. È questo l’obiettivo del libro dal titolo “Imperfezioni umane. Cervello e dissonanze evolutive: malattie e salute tra biologia e cultura” (Rubbettino), scritto da Luca Pani e C., Roma, Centro studi americani a Via Caetani. Dopo i saluti di Messa, direttore Centro studi americani, interverranno alla presentazione moderata da Micaela Palmieri (Tg1) monsignor Lorenzo Leuzzi, Vescovo ausiliare di Roma, Mingardi, direttore generale Istituto Leoni, Ippolito, professore di storia della Filosofia a Roma. Negli ultimi vent’anni una nuova ipotesi di lavoro si è fatta strada in ambito medico sanitario, definita nel mondo anglosassone «evolutionary mismatch» (dissonanza evoluzionistica) – raccontano gl’autori -. Questa teoria assume, in pratica, che l’ambiente nel quale la nostra specie ha acquisito i suoi tratti adattativi sia drammaticamente cambiato in un tempo troppo breve perché predisposizioni o tratti genetici e fenotipici dell’organismo fossero in grado di adeguarsi, per selezione naturale, alle novità”. Le conseguenze di queste dissonanze? “Disfunzioni o disturbi o rischi che richiedono un approccio medico”.  “Il libro è diviso in tre parti – spiegano Pani e Corbellini – Si inizia con un’illustrazione dei presupposti di qualunque strategia motivazionale, cioè dei meccanismi che sono alla base del piacere e delle ricompense, e da cui deriva – in ultima istanza – la possibilità di acquisire nuove conoscenze che consentono di affrontare le incertezze psicologiche che si accompagnano a qualunque comportamento esplorativo. La riflessione prosegue con esemplificazioni di risposte comportamentali che in particolari (o mutate) condizioni si manifestano come malattie. Il terzo capitolo è dedicato in modo specifico al comportamento alimentare e discute l’esempio più eclatante di dissonanza evoluzionistica: il mismatch metabolico. Gl’ultimi due capitoli affrontano una serie d’imperfezioni e predisposizioni comportamentali umane che scaturiscono da compromessi evolutivi, e che risultavano vantaggiose o meno nel contesto dell’adattamento evolutivo, mentre i cambiamenti ambientali determinati dall’evoluzione culturale hanno generato, a loro volta, ulteriori fenomeni disadattativi”. Nel dettaglio gli autori descrivono le dissonanze create dai nuovi contesti di vita per quanto riguarda cicli del sonno, accesso al cibo, comunicazione, cooperazione ovvero isolamento sociale, oppure di comportamenti più complessi come la rabbia aggressiva o l’altruismo; ma anche le preferenze politiche o l’intelligenza. Negli ultimi capitoli del volume emergono anche idee e ipotesi relative a scoperte cognitive e innovazioni che hanno migliorato la condizione umana, o reso possibili cambiamenti comportamentali incredibili.Il concetto di libero arbitrio implica che sussista nelle persone, dato un certo grado di sviluppo cognitivo e morale, la capacità di decidere e di agire, scegliendo tra diverse alternative disponibili, senza essere condizionati da fattori fisici o biologici di qualunque genere. Si assume, in altri termini, che le persone maturino una cosiddetta “agenticità”, cioè una capacità di agire e decidere in un quadro di consapevolezza degli effetti prodotti, che non è riducibile o spiegabile sulla base dei processi neurobiologici che hanno luogo nel cervello e/o alle leggi fisiche che li governano. Di libero arbitrio si può parlare, comunque, in molti modi e da diverse prospettive: filosofica, metafisica, giuridica, psicologica, etc.  Nel corso dell’evoluzione della specie, abbiamo sviluppato strutture cerebrali che ci fanno appunto credere di essere liberi e poter decidere in completa autonomia, e su questa finzione abbiamo costruito il nostro straordinario successo di animali sociali  Negli ultimi decenni le neuroscienze cognitive e comportamentali hanno profondamente messo in dubbio, con una quantità crescente di prove, la visione classica di libero arbitrio, aprendo un dibattito scientifico ancora in corso.  Qual è la sua posizione all’interno del dibattito?  La mia posizione è che il libero arbitrio è una credenza senza senso, come aveva spiegato bene, molto prima delle neuroscienze, il filosofo Spinoza. Se ci fosse qualcosa come il libero arbitrio, allora davvero potrebbe esserci qualsiasi cosa ci possiamo immaginare.  Tuttavia, è vero che,nel corso dell’evoluzione della specie,abbiamo sviluppato strutture cerebrali che ci fanno appunto credere di essere liberi e poter decidere in completa autonomia, e su questa finzione abbiamo costruito il nostro straordinario successo di animali sociali. Il libero arbitrio è un’illusione, ma un’illusione molto produttiva.  L’intuizione di ritenersi liberi, in un senso vago o indefinito, è una forma di autoinganno, come tante altre che sono prodotte dalla nostra coscienza, che nel tempo è stata socialmente addomesticata per inventare un altro autoinganno, cioè un senso individuale di responsabilità, con tutte le conseguenze che ne derivano anche per l’organizzazione di un ordine sociale efficiente sulla base di un sistema di obblighi. Ovviamente questa strategia è modulata da specifiche condizioni ecologiche e sociali, per cui in alcuni contesti questa illusione si può espandere e diventare la base di sistemi anche molto progrediti per qualità di vita, come quelli occidentali, mentre in altri ambienti di vita sarà più adattativo che tale intuizione e illusione non maturi neppure, o maturi in forme che sono funzionali a all’accettazione di un comportamento consapevolmente eterodiretto.   L’intuizione di ritenersi liberi è una forma di autoinganno che nel tempo è stata socialmente addomesticata per inventare un altro autoinganno, cioè un senso individuale di responsabilità  Quali sono i rapporti fra emozioni e pensiero razionale? Con quali modalità le due componenti guidano il comportamento umano?  In che misura siamo (o possiamo essere) consapevoli di queste influenze?   Non è del tutto chiaro nei dettagli come interagiscano le strutture del cervello che controllano le emozioni o le reazioni impulsive, e quelle che controllano la pianificazione di azioni calcolate. Quello che si sa è che alcune condizioni, come trovarsi di fronte un’altra persona preferibilmente con le proprie stesse caratteristiche somatiche o un parente, induca l’inibizione di un comportamento utilitaristico, cioè volto a massimizzare qualche beneficio in generale a prescindere dai danni che si possono arrecare alle persone; ovvero che induca un comportamento di accudimento o altruistico, di carattere parentale o reciproco.  Mentre situazioni contrarie all’ordine morale appreso socialmente e attraverso l’educazione scatenano quasi automaticamente reazioni di disgusto o qualche altra avversione emotiva (ad esempio, rabbia o disprezzo).  Se non ci sono di mezzo contatti fisici, o rapporti parentali con altre persone, o impulsi emotivi avversi, le persone possono applicare un calcolo razionale e quindi scegliere un’azione in base all’utilità percepita o calcolata.  Comunque esistono diverse teorie su come emozioni e ragione entrano in gioco nelle scelte in generale, e in quelle morali in particolare. Quello che si sta sottovalutando, penso, è il ruolo che le emozioni, che mediano i valori morali, possono giocare nell’apprendimento di comportamenti, che a loro volta retroagiscono sui valori, cioè che possono cambiare nel tempo le predisposizioni delle persone nel rispondere a situazioni identiche o diverse. In altre parole, le emozioni servono direttamente alla sopravvivenza ed entrano in azione quando è minacciata l’omeostasi funzionale a qualche livello, e quindi servono a premiare o punire i comportamenti appresi sulla base della funzionalità che manifestano. Ma questi nuovi comportamenti possono far scoprire nuovi valori, cioè trovare premianti strategie diverse da quelle prevalenti nella società, e quindi modulare le emozioni originarie, evitando che gli impulsi emotivi inducano risposte non calcolate e che potrebbero essere deleterie.  In fondo, dato che noi occidentali sul piano genetico siamo praticamente uguali agli altri gruppi umani, qualcosa del genere potrebbe spiegare come ci siamo affrancati moralmente e politicamente da schemi decisionali tribali od oppressivi. Credits to Unsplash. Parliamo del legame tra violenza ed evoluzione: qual è il ruolo ricoperto dall’aggressività nell’evoluzione della specie, e quali sono le possibili determinanti genetiche del comportamento aggressivo?   L’aggressività, come la cooperazione, è stata un fattore chiave per la sopravvivenza e l’evoluzione della nostra specie. Come tutti i tratti, l’aggressività è polimorfica e quindi ci sono persone geneticamente più predispostedi altre all’aggressività.  È verosimile che la selezione sociale abbia col tempo reso più vantaggiosi i geni della cooperazione in alcuni contesti ecologici, e quindi favorito il processo socio-culturale che nell’età moderna ha ridotto drammaticamente la violenza sul pianeta, e soprattutto nel mondo che ha inventato la scienza e ha abbracciato lo stato di diritto. I governi occidentali continuano giustamente la lotta contro la criminalità e la violenza, ma nella storia del pianeta non c’è mai stata così poca violenza e aggressività, non solo in occidente ma nel mondo in generale, rispetto a oggi. Pinker ha dimostrato questo fatto in un dettagliatissimo e acuto saggio, “Il declino della violenza”.   Nella storia del pianeta non c’è mai stata così poca violenza e aggressività, non solo in occidente ma nel mondo in generale, rispetto a oggi  E per quanto riguarda la differenza di genere? Cosa sappiamo dei rapporti tra cervello maschile, cervello femminile e comportamento aggressivo? Le differenze di genere nel comportamento aggressivo esistono. Studiando complessivamente l’aggressività di bambini e bambine si è visto che i due generi sono egualmente aggressivi verbalmente, mentre i bambini lo sono di più fisicamente rispetto alle bambine. Nel complesso i bambini sono più aggressivi delle bambine sul piano dell’aggressione diretta. Mentre le bambine sono indirettamente aggressive anche più dei bambini. Queste differenze, come altre, dipendono verosimilmente da stimoli ormonali nel corso dello sviluppo e rispondono a strategie adattative selettivamente vantaggiose nell’ambiente dell’evoluzione. Il modo in cui maturano il cervello maschile e femminile dipende molto dai contesti e si conoscono diversi fattori ambientali e culturali che influenzano, ad esempio, la violenza a carico delle donne. Ci sono prove concrete del fatto che il patriarcato e la sua istituzione giuridica sono fattori importanti per la persistenza della violenza maschile ai danni delle donne, e del fatto che ridurre il dominio maschile attraverso delle adeguate politiche sociali riduce la violenza maschile e che la cooperazione tra donne riduce la violenza maschile sia contro le donne sia contro altri uomini. Parliamo ora delle differenze individuali nel controllo degli impulsi. Non ci sono moltissimi dati, ma uno studio di qualche anno fa ha esaminato cosa avviene nel cervello quando si fanno scelte impulsive, che svalutano una ricompensa ritardata, ovvero come viene rappresentata dinamicamente nel cervello la svalutazione del ritardo quando si sta aspettando e anticipando una ricompensapossibile che è stata desiderata e scelta. La corteccia prefrontale ventromedialemanifesta uno schema caratteristico di attività durante il periodo di ritardo nel ricevere la ricompensa, oltre a esercitare un’attività modulatoria durante la scelta, che è coerente con la codificazione del tempo durante il quale avviene una svalutazione del valore soggettivo. Lostriato ventrale esibisce a sua volta uno schema di attività simile, ma preferenzialmente negli individui impulsivi. Un profilo contrastante di attività collegata al ritardo e alla scelta è stata osservata nella corteccia prefrontale anteriore, ma selettivamente in persone pazienti, cioè non impulsive. Quindi corteccia prefrontale ventromediale e corteccia prefrontale anteriore esercitano – sebbene ciò sia ancora da chiarire come – influenze modulatorie ma opposte rispetto all’attivazione dello striato ventrale. Ovvero quell’esperimento ci dice che il comportamento impulsivo e l’autocontrollo sono collegati a rappresentazioni neurali del valore di future ricompense, non solo durante la scelta, ma anche nelle fasi di ritardo post-scelta.  Cosa può voler dire tutto questo per il nostro discorso? Mi lasci citare ancora Spinoza, per il quale è «libera quella cosa che esiste e agisce unicamente in virtù della necessità della sua natura». La vera libertà, è autonomia e indipendenza, non arbitrio o scelta indeterminata. Quindi si è tanto più liberi e non soggetti a impulsi, quanto più alcune strutture del nostro cervello, altamente connesse e addestrate dall’esperienza, lo rendono autonomo e meno soggetto o costrizioni esterne.   Credits to Unsplash.com Quali sono le possibili influenze delle disfunzioni cognitive e dei fattori ambientali sulla capacità decisionale (anche ai fini dell’imputazione penale)? Può condividere con noi qualche caso di studio?   Casi di studio ce ne sono diversi, ma quelli al momento più esemplari riguardano gli effetti delle varianti alleliche del gene della mono-amin-ossidasi A, detto anche “gene del guerriero”, in quanto collegato all’aggressività su basi osservazionali mirate. In sostanza, le persone con la variante che produce meno mon-amino-ossidati A. rispondono in modi più aggressivi e violenti, rispetto a chi esprime livelli più alti.  Il fatto interessante è che se queste persone predisposte all’aggressività sono state allevate in ambienti accoglienti, esprimono un’aggressività minore rispetto a omologhi genetici cresciuti in famiglie disagiate. Anche dati sperimentali in ambito psicologico e di economia comportamentale dimostrano che le aggressioni hanno luogo con maggiore intensità e frequenza, quando provocate in un contesto sperimentale, soprattutto in soggetti con una bassa attività di mono-amino-ossidati A.  Gli studi sperimentali mostrano anche che il mono-amin-ossidati A è meno associato con la comparsa dell’aggressione in una condizione di bassa provocazione, ma predice più significativamente il comportamento aggressivo in una situazione molto provocatoria.  Esiste ormai una letteratura sterminata anche sui casi di persone con anomalie morfologiche e funzionali dell’amigdala che regolarmente esprimono un profilo sociopatico, ovvero che non provano emozioni negative quando provocano sofferenze in altri individui. Si conoscono inoltre casi di tumori cerebrali o lesioni neurologiche che alterano la personalità individuale, e non poche persone hanno commesso crimini in quanto un tumore cerebrale ha alterato le loro capacità decisionali. La memoria del testimone: in particolare, come si accerta l’attendibilità della testimonianza e quali sono i principali metodi di verifica?  Il sistema giudiziario si fonda sulla memoria: interrogatorio/confronto, testimonianze, ricordo dei giurati al momento di discutere il verdetto. Ma la memoria umana è falsata: il cervello non è una videocamera né un computer. Siamo suscettibili a false memorie.  Gli stati emotivi influenzano la qualità della memoria. La nostra storia personale influenza il modo in cui ricordiamo. Gli psicologi e gli esperti studiano soprattutto il problema della testimonianza oculare, perché in ben tre casi su cinque le identificazioni si rivelano sbagliate.  Esistono diversi metodi di controllo/verifica e volti a ridurre gli errori nelle testimonianze. Uno di questi analizza per esempio l’accuratezzadella testimonianza oculare e delle modalità di interrogatorio del testimone, per arrivare a una probabilità relativa al caso.   Il sistema giudiziario si fonda sulla memoria. Ma la memoria umana è falsata: il cervello non è una videocamera né un computer. Siamo suscettibili a false memorie.  Esiste anche un diritto alla riservatezza per i nostri ricordi. Nel senso che se io non intendo comunicare a qualcuno un ricordo, ho diritto a tenerlo per me. Un giudice deve avere forti ragioni per forzare l’accesso alla mia memoria, ed è comunque tenuto a rispettare i miei diritti fondamentali se ci prova. Se davvero si riuscirà a costruire affidabili brain lie detector, macchine della verità con accesso alle memorie cerebrali, si configurerà un problema sul fronte di normare i limiti del diritto di un giudice far rilevare impronte mnestiche del nostro cervello, i ai fini di un’indagine processuale. Non tanto per la riservatezza del dato di interesse, cioè se un imputato o un testimone mentono o dico la verità nel caso in specie, ma per il fatto che quell’accesso può rendere noti dei fatti che non hanno rilevanza con l’indagine e che potrebbero danneggiare la persona. Inoltre, alcuni farmaci e tecnologie possono potenziare la memoria individuale. Ebbene, sarebbe lecito consentire a o incentivare alcuni attori del procedimento giudiziario (giudici e giurati) a potenziare le loro memorie ai fini di un più efficiente funzionamento del sistema? La morale ha, o potrebbe avere, un fondamento biologico?  La morale ha un fondamento biologico. La morale serve a tenere insieme i gruppi umani sociali, e ha creato le premesse sociobiologiche per l’affermarsi della religiosità quale sistema di controllo incorporato nelle persone e alimentato socialmente per garantire che i valori morali adattativi in società meno complesse delle nostre siano mantenuti e trasmessi. In prospettiva: quali sono a suo avviso i possibili intrecci tra acquisizioni neuroscientifiche e diritto penale? Quale impatto potrebbero avere sugli attuali meccanismi di attribuzione della responsabilità e di applicazione della pena?  Su questo punto la penso come chi ha detto che con l’arrivo delle neuroscienze, nel diritto, cambia tutto e non cambia niente. Vale a dire che il concetto di libero arbitrio e quello intuitivo di giustizia come retribuzione (caratteristico del diritto naturale) sono destinati a essere abbandonati, perché privi di basi teorico-fattuali. Mentre si potrebbe affermare un concetto consequenzialista(utilitarista) della concezione della pena, più vicino al diritto positivo.   Il concetto di libero arbitrio e quello intuitivo di giustizia come retribuzione (caratteristico del diritto naturale) sono destinati a essere abbandonati, perché privi di basi teorico-fattuali  In Italia, come vengono accolte dalla magistratura le evidenze neuroscientifiche? E a livello internazionale? L’Italia è all’avanguardia, se così si può dire, nell’uso di prove neuroscientifiche in tribunale. Due sentenze in particolare, Trieste e Como, riconobbero il ruolo causale di tratti neurogenetici nel comportamento delittuoso, e di conseguenza attribuirono uno sconto di pena.  Le sentenze italiane sono state accolte con allarme in diversi contesti internazionali. Ma c’è poco da fare: se queste conoscenze e tecnologie acquisiranno una base sperimentalmente solida e consentiranno di prevedere con buona attendibilità le predisposizioni a commettere reati, è inevitabile che entreranno a far parte dello strumentario di lavoro dei giudici.  Tuttavia, esiste un’ambivalenza in Italia, come in altri paesi, verso l’uso delle prove neuroscientifiche. Intanto in Italia non tutti i giudici hanno ancora chiaro cosa sia una perizia neuroscientifica e ignorano criteriepistemologicamente validi e formalmente definiti per scegliere periti che apportino davvero prove scientifiche e controllate nel contesto di un dibattimento processuale. Ciò sebbene la Cassazione abbia in sentenze recenti fatto proprio lo Standard Daubert, che elenca regole di ammissibilità delle prove nei processi statunitensi.  Inoltre, si tratta comunque di definire cosa implica una diminuita imputabilità per colui che commette un reato, in quanto le sue azioni e decisioni dipendevano dal modo di funzionare del cervello e dalla sua dotazione genetica. Questo individuo è meno libero di altri e quindi anche meno responsabile, e quindi le sanzioni dovrebbero essere volte a ridurre al minimo le probabilità di reiterazione del o dei reati. Il riferimento è al noto scritto di Greene, J. Cohen, For the law, neuroscience changes nothing and everything, in Philos Trans R Soc Lond B Biol Sci. Ricerca Storia del pensiero evoluzionista aspetti storici dell'evoluzionismo Lingua Segui Modifica Evoluzione CollapsedtreeLabels- simplified.svg Meccanismi e processi Adattamento Deriva genetica Equilibri punteggiati Flusso genico Mutazione Radiazione adattativa Selezione artificiale Selezione ecologica Selezione naturale Selezione sessuale Speciazione  Storia dell'evoluzionismo Storia del pensiero evoluzionista Lamarckismo Charles Darwin L'origine delle specie Neodarwinismo Saltazionismo Antievoluzionismo  Campi della Biologia evolutiva Biologia evolutiva dello sviluppo Cladistica Evoluzione della vita Evoluzione molecolare Evoluzione degli insetti Evoluzione dei vertebrati Evoluzione dei dinosauri Evoluzione degli uccelli Evoluzione dei mammiferi Evoluzione dei cetacei  Evoluzione dei primati Evoluzione umana Filogenetica Genetica delle popolazioni Genetica ecologica Medicina evoluzionistica Genomica della conservazione  Portale Biologia La prima traccia dell'idea di un'evoluzione biologicadegli esseri viventi è la teoria sull'origine della vitaattribuita ad Anassimandro di Mileto. Gli animali ebbero origine nell'acqua, dove erano tutti simili a pesci; con il tempo sono saliti sulla terraferma dove, liberati dalle scaglie, hanno continuato a vivere. Tale fu anche l'origine dell'uomo. Con l'avvento del Cristianesimo, e fino almeno all'evo moderno, l'indagine scientifica fu dominata dall'impianto filosofico essenzialista di derivazione aristotelica, nel quale la possibilità stessa della conoscenza si fonda sulla fissità della specie; inoltre, l'evoluzione non si armonizza con la Genesi e non trova collocazione in un sistema di riferimento che considera le specie immutabili perché perfette, in quanto create ex nihilo da Dio. Nel XVII secolo, col riaffiorare delle antiche concezioni, la parola evoluzione cominciò ad essere utilizzata come riferimento a un'ordinata sequenza di eventi, particolarmente quando un risultato si trovava, in qualche modo, già dall'inizio contenuto all'interno di essa. La storia naturale si sviluppò enormemente, mirando ad investigare e catalogare le meraviglie dell'operato di Dio. Le scoperte effettuate dimostrarono l'estinzione delle specie, che fu spiegata dalla teoria del catastrofismo di Georges Cuvier, secondo cui gli animali e le piante venivano periodicamente annientati a causa di catastrofi naturali per poi essere rimpiazzate da nuove specie create dal nulla. In contrapposizione ad essa, la teoria dell'Uniformitarismo di James Hutton, del 1785, ipotizzava un graduale sviluppo della Terra, il cui aspetto non era dovuto ad eventi catastrofici ma a un lento processo perpetuatosi attraverso gli eoni.  Darwin, nonno di Charles, avanza delle ipotesi sulla discendenza comune affermando che gli organismi acquisivano "nuove parti" in risposta a degli stimoli e che questi cambiamenti venivano trasmessi alla loro discendenza; nel 1802 suggerì la selezione naturale. Nel 1809, Jean-Baptiste Lamarcksviluppò una teoria simile (l'"ereditarietà dei caratteri acquisiti"), la quale ipotizzava che tratti "necessari" venissero ereditati col passaggio da una generazione alla successiva. Queste teorie di trasmutazione furono sostenute in Gran Bretagna dai Radicali come Robert Edmond Grant. In questo periodo l'opera di Thomas Malthus, Saggio sul principio della popolazione, influenzò il libero pensiero mostrando come l'incremento della popolazione mondiale fosse correlato a un eccesso nelle risorse disponibili.  Varie teorie furono proposte per riconciliare la Creazione biologica con le nuove scoperte scientifiche, incluso l'attualismo di Charles Lyellsecondo cui ogni specie aveva un suo "centro di creazione" ed era progettata per un particolare habitatil cui cambiamento portava inevitabilmente alla sua estinzione. Charles Babbage ritenne che Dio avesse creato le leggi per un programma divino che operava per la produzione delle specie e Owen seguì Johannes Müller nel pensiero che la materia vivente avesse un'"energia organizzativa", una forza vitale (Lebenskraft) che, dirigendo lo sviluppo dei tessuti, determinava l'arco di vita degli individui e delle specie.  AntichitàModifica GreciModifica Ipotesi secondo cui un tipo di animale, perfino l'essere umano, potesse discendere da altri tipi di animali erano state formulate dai filosofi greci Presocratici. Anassimandro di Mileto suppose che i primi animali vivessero in acqua, durante una fase umida del passato della Terra, e che i primi avi viventi a terra della razza umana dovevano essere nati in acqua, e aver passato solo una parte della loro vita sulla terraferma. Intuì anche che il primo umano della forma conosciuta oggi doveva essere stato il figlio di un altro tipo di animale, perché l'uomo ha bisogno di un lungo periodo di accudimento per raggiungere l'autonomia. Empedocle di GIRGENTI; intuì che quello che noi chiamiamo nascita e morte degli animali sono solamente il mischiarsi e il separarsi degli elementi che formano "l'infinita tribù delle cose mortali". Più in particolare, i primi animali e le prime piante erano simili alle parti divise che formano quelli che vediamo oggi, qualcuna delle quali sopravvisse unendosi in differenti combinazioni, e poi mescolandosi di nuovo, finché "tutto riuscì come se fosse stato fatto di proposito, lì le creature sopravvissero, essendo accidentalmente composte in modo corretto". Altri filosofi diventarono più importanti nel Medioevo, fra cui Platone, Aristotele, ed esponenti della scuola stoica di filosofia, credevano che le specie di tutte le cose, non solo viventi, fossero state stabilite da un progetto divino.  Epicuro dell’ORTO ha anticipato l'idea della selezione naturale. Il filosofo romano e atomista LUCREZIO espone queste idee nel suo poema De rerum natura (Sulla natura delle cose). Nel sistema Epicureo, si è ipotizzato che molte specie siano state generate spontaneamente da Gea in passato, ma che solo le forme più funzionali siano sopravvissute e abbiano avuto progenie. Gli epicurei non sembrano aver anticipato l'intera teoria dell'evoluzione come la conosciamo oggi, ma sembra che abbiamo postulato una teoria abiogeneticaseparata per ciascuna specie, piuttosto che postulare un singolo evento abiogenetico con la differenziazione delle specie a partire da uno o più organismi progenitori originari.  Cinesi Antichi pensatori cinesi come Zhuang Zhou, un filosofo taoista, hanno espresso varie idee su come le specie biologiche si siano diversificate. Secondo Joseph Needham, il Taoismo nega esplicitamente la fissità delle specie biologiche, e filosofi taoisti ipotizzano che le specie abbiano sviluppato diversi attributi in risposta ad ambienti differenti. Il Taoismo insegna che gli esseri umani, la natura e il cielo sono in uno stato di "trasformazione costante" noto come il Tao, una visione della natura in contrasto con quella più statica tipica del pensiero occidentale.  Romani Il poema di Lucrezio De rerum natura fornisce la migliore spiegazione superstite del pensiero dei filosofi epicurei greci. Esso descrive lo sviluppo del cosmo, la Terra, gli esseri viventi, e la società umana attraverso meccanismi puramente naturalistici, senza alcun riferimento al coinvolgimento soprannaturale. De rerum natura potrebbe aver influenzato le speculazioni cosmologiche ed evolutive di filosofi e scienziati durante e dopo il Rinascimento. Il suo punto di vista è in forte contrasto con le opinioni di filosofi romani della scuola stoica come CICERONE, Seneca, e PLINIO il Vecchio che avevano una visione fortemente teleologica del mondo naturale che ha influenzato la teologia cristiana. CICERONE riporta che la visione peripatetica e stoica delle natura riguarda fondamentalmente il produrre vita "capace di sopravvivere nel migliore dei modi", cosa data per scontata tra l'élite ellenistica. Agostino. Agostino in un dipinto di Lippi In linea con il precedente pensiero greco, il vescovo e teologo del IV secolo, Agostino di Ippona, scrisse che la storia della creazione nel libro della Genesi, non doveva essere letta troppo alla lettera. Nel suo libro De Genesi ad litteram ("Sul significato letterale della Genesi"), ha dichiarato che in alcuni casi le nuove creature potrebbero essersi originate attraverso la "decomposizione" di precedenti forme di vita.[9] Per Agostino — a differenza di quelle che considerava le forme teologicamente perfette degli angeli, il firmamento e l'anima umana — le "piante, uccelli e la vita animale non sono perfetti… ma creati in uno stato di potenzialità".[10] L'idea di Agostino che le forme di vita siano state trasformate "lentamente nel corso del tempo" ha spinto padre Giuseppe Tanzella-Nitti, docente di teologia presso la Pontificia Università della Santa Croce di Roma, a sostenere che Agostino abbia suggerito una forma di evoluzione. Osborn scrisse in From the Greeks to Darwin (1894):  "Se l'ortodossia di Agostino fosse rimasta una dottrina della Chiesa, la scoperta dell'evoluzione sarebbe avvenuta molto prima di quanto non abbia fatto, certamente nel corso del XVIII invece del XIX secolo, e la controversia su questa verità della Natura non sarebbe mai sorta… Chiaramente la creazione diretta o istantanea di animali e piante sembrava essere insegnata dalla Genesi, Agostino lesse questo alla luce del nesso di causalità primaria e il graduale sviluppo da imperfetto a perfetto spiegato da Aristotele. Questo influente insegnante ha così tramandato ai suoi seguaci pareri strettamente conformi alle vedute progressiste di questi teologi del nostro tempo che hanno accettato la teoria evoluzione. In Storia della lotta della scienza con la teologia nella cristianità (A History of the Warfare of Science with Theology in Christendom, 1896), dove Andrew Dickson White scrisse sui tentativi di Agostino di preservare l'antico approccio evolutivo alla creazione:  "Per secoli una dottrina largamente accettata era che l'acqua, la sporcizia, e le carogne avevano ricevuto il potere dal Creatore per generare vermi, insetti, e una moltitudine di piccoli animali; e questa dottrina era stata accolta con particolare favore da Sant'Agostino e molti dei padri fondatori, in quanto solleva l'Onnipotente dal creare, Adamo dal nominare, e Noè dal vivere nell'arca con queste innumerevoli specie disprezzate. In De Genesi contra Manichæos, Agostino dice: "Supporre che Dio creò l'uomo dalla polvere con le mani è molto infantile… Dio non plasmò l'uomo con le mani né soffiò su di lui con la gola e le labbra…" Agostino suggerisce in altri lavori la sua teoria dello sviluppo degli insetti dalle carogne, e l'adozione della vecchia teoria dell'evoluzione, mostrando che "alcuni animali molto piccoli non possono essere stati creati nei giorni quinto e sesto, ma possono essere stati originati in seguito dalla putrefazione della materia." Per quanto riguarda l'agostiniana De Trinitate ("Sulla Trinità"), Andrew White ha scritto che Agostino "…sviluppa finalmente l'idea che dietro la creazione di esseri viventi c'è qualcosa di simile a un'evoluzione, di cui Dio è l'autore ultimo, che opera attraverso le cause seconde; e, infine, sostiene che alcune sostanze sono dotate da Dio del potere di produrre alcune classi di piante e animali.. Una pagina del Kitāb al-Hayawān (libro degli animali) di Al-Jāḥiẓ La filosofia islamica e la lotta per l'esistenzaModifica Anche se le idee evolutive di greci e romani si estinsero in Europa dopo la caduta dell'Impero romano d'Occidente, non furono abbandonate dai filosofi e scienziati islamici. Nell'Epoca d'oro islamica, dall'VIII al XIII secolo, i filosofi esplorarono nuove idee nel campo della storia naturale, quali la trasmutazione dal non vivente al vivente: "dal minerale al vegetale, dalla pianta all'animale, e dall'animale all'uomo. Nel mondo islamico medievale, lo studioso al-Jahiz(776 -868) scrisse un libro sugli animali nel IX secolo, dove descrive la catena alimentare.[16]  Nel 1377, Ibn Khaldun scrisse il Muqaddimah in cui afferma che gli esseri umani si sono sviluppati dal "mondo delle scimmie", in un processo attraverso il quale "le specie diventano più numerose". Alcuni dei suoi pensieri, secondo alcuni commentatori, anticipano la teoria biologica dell'evoluzione. Nel primo capitolo si legge: "Il mondo con tutte le cose in esso create ha un certo ordine e la sua solida costruzione mostra nessi tra cause ed effetti, combinazioni fra alcune parti della creazione ed altre, trasformazioni di alcune cose esistenti in altre, in uno straordinario reticolo senza fine. Aquino in un dipinto di Carlo Crivelli Durante il Medioevo, la cultura classica greca decadde in Occidente. Tuttavia, il contatto con il mondo islamico, dove i manoscritti greci erano stati conservati e ampliati, ben presto portò a un'ondata massiccia di traduzioni latine nel XII secolo, che re-introdussero in Europa le opere greche, nonché quelle del pensiero islamico.  La maggior parte dei teologi cristiani credeva che il mondo fosse progettato secondo una gerarchia immutabile, la grande catena dell'essere o scala naturae, che influenzò il pensiero della civiltà occidentale per secoli. Altri teologi erano più aperti alla possibilità che il mondo si fosse sviluppato attraverso processi naturali. AQUINO si spinse oltre il pensiero di Agostino nel sostenere che i testi sacri come la Genesi non dovessero essere interpretati in modo letterale, poiché ciò si poneva in conflitto con quello che i filosofi naturali avevano imparato sul funzionamento del mondo naturale, e li vincolava dallo scoprire nuove cose[non chiaro]. L'Aquinate pensava che l'autonomia della natura fosse un segno della bontà di Dio, e che non vi era alcun conflitto tra il concetto di un universo divinamente creato, e l'idea che l'universo si potesse essere evoluto nel tempo attraverso meccanismi naturali.Tuttavia, Tommaso contestava i sostenitori di Empedocle, che sostenevano che l'universo avrebbe potuto svilupparsi anche senza un obiettivo di fondo.[21]  Rinascimento e IlluminismoModifica  Comparazione di uno scheletro umano con uno scheletro di uccello ad opera di Pierre Belon La filosofia meccanica di Cartesio incoraggiò l'uso della metafora dell'universo come macchina, un concetto che avrebbe caratterizzato la rivoluzione scientifica. Alcuni naturalisti, come Benoît de Maillet, produssero teorie che sostenevano che l'universo, la Terra, e la vita, si erano sviluppati meccanicamente, senza una guida divina. Nel 1751, Pierre Louis Maupertuis virò verso un'idea più materialista, scrivendo che le modifiche naturali si verificano durante la riproduzione e si accumulano nel corso di molte generazioni, producendo razze e specie nuove; una descrizione che ha anticipato il concetto di selezione naturale.[22]  La parola evoluzione (dal latino evolutio, "srotolare, svolgere") è stata inizialmente utilizzata in riferimento allo sviluppo embrionale; il suo primo impiego in relazione allo sviluppo della specie è venuto nel 1762, quando Charles Bonnet la ha utilizzata per il suo concetto di "pre-formazione", in cui le donne portavano una forma in miniatura di tutte le generazioni future. Il termine ha poi guadagnato gradualmente il significato più generale di crescita o sviluppo progressivo. Più tardi nel XVIII secolo, il filosofo francese Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, uno dei più importanti naturalisti del tempo, ha suggerito che le specie erano in realtà solo delle varietà ben delineate, prodotte dalle modifiche, dovute a fattori ambientali, di un organismo originale. Ad esempio, credeva che leoni, tigri, leopardi e gatti di casa potessero avere tutti un antenato comune. Leclerc ha inoltre ipotizzato che le circa 200 specie di mammiferi conosciute in quel periodo potessero essere derivate da solo 38 forme animali originali. Le idee evolutive del conte erano però limitate; credeva che ciascuna delle forme originali fossero sorte per generazione spontanea e che ognuno fosse stata modellata da "muffe interne" che limitavano la quantità di cambiamenti possibili. Le opere di Buffon, Histoire Naturelle (1749-1789) e Époques de la nature (1778), contengono teorie ben sviluppate sull'origine materialista della Terra; la sua messa in discussione della fissità della specie è stata estremamente influente.[24]  Un altro filosofo francese, Denis Diderot, scrive che le cose viventi possono essere sorte per generazione spontanea, e che le specie sono in uno stato di costante evoluzione attraverso un processo in cui nuove forme di vita sorgono continuamente, e possono sopravvivere o meno in base al caso; un'idea che può essere considerata un'anticipazione parziale della teoria della selezione naturale.[22] Tra il 1767 e il 1792, James Burnett, Lord di Monboddo, incluse nei suoi scritti, non solo il concetto che l'uomo era disceso dai primati, ma anche che, in risposta all'ambiente, le creature avevano trovato metodi di trasformare le loro caratteristiche in lunghi intervalli di tempo.[25] Il nonno di Charles Darwin, Darwin, pubblicò Zoonomi, dove suggerì che "tutti gli animali a sangue caldo sono sorti da un filamento vivente".[26] Nel suo poema Tempio della Natura (1803), Erasmus ha descritto il progredire della vita dai minuscoli organismi viventi nel fango fino a giungere alla biodiversità moderna.[27]  La nascita della teoria di DarwinModifica All'Università di Edimburgo, durante gli studi, Charles Darwin fu coinvolto direttamente negli sviluppi della teoria evoluzionistica di Robert Edmund Grant, ispirata dalle idee di Erasmus Darwin e Lamarck. In seguito, all'Università di Cambridge, i suoi studi di teologia lo convinsero ad accettare le considerazioni di William Paley sul "disegno" di un Creatore, mentre il suo interesse nella storia naturale aumentò grazie al botanico John Stevens Henslow e al geologo Adam Sedgwick, entrambi fermamente credenti in una creazione divina e nell'antico uniformismo della terra. Durante il viaggio del Beagle, Darwin si convinse della fondatezza dell'attualismo di Lyell e cercò di conciliare le varie teorie creazionistiche con le prove che riuscì ad evidenziare. Al suo ritorno, Richard Owen dimostrò che i fossili che Darwin aveva trovato, appartenevano a specie estinte mostranti relazioni con delle specie viventi in alcune località. John Gould rivelò con sorpresa che gli uccelli completamente diversi ritrovati nelle Isole Galápagos erano, in realtà, 13 specie diverse di fringuelli (conosciuti ora, volgarmente in tutto il mondo, come i Fringuelli di Darwin). Schizzo di un albero filogeneticodisegnato da Darwin negli appunti preparatori del suo First Notebook on Transmutation of Species.  Dagli inizi del 1837 Darwin meditò sulla trasmutazionein una serie di appunti segreti. Si occupò inoltre della selezione artificiale delle razze domestiche, consultando William Yarrell e leggendo un opuscolo scritto da un amico, Sir John Sebright, il quale commentava come "con un severo inverno, o una scarsità di cibo, attraverso l'uccisione degli individui deboli e malaticci, si avessero tutti i migliori effetti della più abile selezione". Nel 1838, in uno zoo, vide per la prima volta una scimmia antropomorfa: il bizzarro comportamento di un orango lo impressionò per la somiglianza con quello di un "bambino dispettoso" e, dalla sua esperienza sui nativi della Terra del Fuoco, lo portò a pensare che non ci fosse poi un grande abisso tra gli uomini e gli animali, a dispetto della dottrina teologica che considera solo la specie umana possedente un'anima.  Nel tardo settembre del 1838 Darwin cominciò a leggere la sesta edizione del Saggio sul principio della popolazione di Malthus, con la quale ricordò la dimostrazione statistica secondo cui la popolazione umana, riproducendosi al di sopra dei propri mezzi, competesse per la sopravvivenza. In questo periodo tentò di applicare per primo questi principi alle specie animali. Darwin applicò nella sua ricerca il pensiero liberista sulle leggi di Natura, considerando la pura lotta per la vita priva di sostegni esterni. Dal dicembre 1838 intravide una somiglianza tra il concetto della selezione artificiale e la Natura Malthusiana che selezionava, attraverso il cambiamento, le varianti da eliminare, in modo che ogni parte delle nuove strutture acquisite fosse pienamente pratica e perfetta.  L'origine delle specieModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: L'origine delle specie. La sintesi evolutiva modernaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Neodarwinismo.Anassimandro di Mileto afferma che dall'acqua e dalla terra riscaldate sarebbero nati dei pesci o degli animali molto simili a pesci; in questi concrebbero gli uomini, e i feti vi rimasero rinchiusi fino alla pubertà. Quando questi si spezzarono, allora finalmente ne uscirono uomini e donne che potevano già nutrirsi." (Censorino, De die natali) ^ "[Anassimandro] dice pure che da principio l'uomo fu generato da animali di altra specie." (Plutarco, Doxa) ^ Franco Volpi, Dizionario delle opere filosofiche, Colin A. Ronan, The Shorter Science and Civilisation in China: An Abridgement by Colin A. Ronan of Joseph Needham's Original Text, vol. 1, Cambridge; New York, Cambridge, Miller James, Daoism and Nature ( PDF ), su jamesmiller.ca (archiviato dall' url originale  il 16 dicembre 2008). ^ David Sedley, Lucretius, in Stanford Encyclopedia of Philosophy, Stanford, CA, Stanford University, 2013. ^ Peter Bowler, The Earth Encompassed: A History of the Environmental Sciences., in Norton History of Science, New Yorki, W. W. Norton, Cicerone, De Natura Deorum. ^ Sant'Agostino, La genesi alla lettera. ^ Gill, Meredith J., Augustine in the Italian Renaissance: Art and Philosophy from Petrarch to Michelangelo, Cambridge; New York, Cambridge, Owen, Vatican buries the hatchet with Charles Darwin, su Times, Bergoglio, "Teoria del Big Bang non contraddice la creazione divina. Dio non è stato un mago", su huffingtonpost.it, Huffington Post, 27 ottobre 2014. ^ Henry Osborn Fairfield, From the Greeks to Darwin: An Outline of the Development of the Evolution Idea, New York, Macmillan, Dickson White, Storia della lotta della scienza con la teologia nella cristianità, edizione inglese: A History of the Warfare of Science with Theology in Christendom, vol. 1, New York, Londra, D. Appleton & Company, Gutenberg. ^ Ben Waggoner, Medieval and Renaissance Concepts of Evolution and Paleontology, su ucmp.berkeley.edu, University of California Museum of Paleontology. ^ Frank N. 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Modifica su Wikidata   Portale Biologia   Portale Filosofia   Portale Storia L'origine delle specie saggio di divulgazione scentifica di Charles Darwin  Darwinismo teoria dell'evoluzione proposta da Charles Darwin  Evoluzionismo teista dottrina. In the few years of the pre-  Christian period that remained the teaching of Empedocles, and of Epicurus as the mouthpiece of the  y atomic theory, was revived by LUCREZIO in his “De Rerum Natura.” Of that remarkable man but little is recorded, and the record is untrustworthy. LUCREZIO died by his own  hand, Jerome says, but of this there is no proof. It is difficult, taking up LUCREZIO’s wonderful poem, to resist the temptation to make copious extracts from it, since, even through the  vehicle of Munro's annotations, it is  probably little known to the Oxford pupil in Literae Humaniores in these evil days of snippety philosophy. But the temptation  must be resisted, save in moderate degree. With the dignity which his high mission inspires, LUCREZIO appeals to us in the threefold character of teacher, reformer, and poet. First, by reason of  the greatness of my argument, and because I set the  mind free from the close-drawn bonds of your Roman superstitions; and next because, on so dark a theme, I compose such lucid verse, touching every point with the grace of poesy. As a teacher, LUCREZIO expounds the doctrines of The Garden (L’Orto) concerning life and nature. As a reformer, LUCREZIO attacks the Roman superstitions. As a philosophical poet, LUCREZIO informs both the atomic philosophy and its moral application with harmonious and beautiful verse swayed by a fervour that is akin to religious emotion. Discussing at the outset various theories of origins, and dismissing these, notably that which asserts  that things came from nothing — "for if so, any kind might be born of anything, nothing would require seed," LUCREZIO proceeds to expound the teaching  of the atomists as to the constitution of things by particles of matter ruled in their  movements by unvarying laws. This theory LUCREZIO works all round, explaining the processes by which  the atoms unite to carry on the birth, growth, and  decay of things, the variety of which is due to variety  of form of the atoms and to differences in modes  of their combination; the combinations being deter-  mined by the affinities or properties of the atoms  themselves, " since it is absolutely decreed what each  thing can and what it cannot do by the conditions of  Nature." Change is the law of the universe;. what  is, will perish, but only to reappear in another form.  Death is "the only immortal"; and it is that and  what may follow it which are the chief tormentors  of men. " This terror of the soul, therefore, and this  darkness, must be dispelled, not by the rays of the  sun or the bright shafts of day, but by the outward  aspect and harmonious plan of Nature." LUCREZIO explains that the soul, which he places in the centre of the breast, is also formed of very minute atoms of  heat, wind, calm air, and a finer essence, the pro-  portions of which determine the character of both  men and animals. It dies with the body, in support of which statement LUCREZIO advances XVIII arguments, so determined is he to " deliver those  who through fear of death are all their lifetime sub-  ject to bondage."   These themes fill the first three books. In the  fourth he grapples with the mental problems of sensation and conception, and explains the origin of belief in immortality as due to ghosts and appari-  tions which appear in dreams. " When sleep has  prostrated the body, for no other reason does the  mind's intelligence wake, except because the very  same images provoke our minds which provoke them  when we are awake, and to such a degree that we  seem without a doubt to perceive him whom life has  left, and death and earth gotten hold of. This Na-  ture constrains to come to pass because all the senses  of the body are then hampered and at rest throughout the limbs, and cannot refute the unreal by real  things."   In the fifth book Lucretius deals with origins —  of the sun, the moon, the earth (which he held to be  flat, denying the existence of the antipodes); of life  and its development; and of civilization. In all this  he excludes design, explaining everything as pro-  duced and maintained by natural agents, "the masses,  suddenly brought together, became the rudiments of  earth, sea, and heaven, and the race of living things."  He believed in the successive appearance of plants  and animals, but in their arising separately and di-  rectly out of the earth, " under the influence of rain  and the heat of the sun," thus repeating the old  speculations of the emergence of life from slime,  " wherefore the earth with good title has gotten and  keeps the name of mother." He did not adopt Empedocles's theory of the " four roots of all things,"  and he will have none of the monsters — ^the hippo-  griflFs, chimeras, and centaurs — ^which form a part of  the scheme of that philosopher. These, he says,  ** have never existed," thus showing himself far in  advance of ages when unicorns, dragons, and such-like fabled beasts were seriously believed to exist.  In one respect, more discerning than Aristotle, he  accepts the doctrine of the survival of the fittest as  taught by the sage of GIRGENTI. For he argues that since upon "the increase of some Nature set a  ban, so that they could not reach the coveted flower  of age, nor find food, nor be united in marriage,"  ..." many races of living things have died out, and  been unable to beget and continue their breed." LUCREZIO speaks of GIRGENTI in terms scarcely less exaggerated than those which he applied to Epi-  curus. The latter is " a god " who first found out  that plan of life which is now termed wisdom, and  who by tried skill rescued life from such great billows and such thick darkness and moored it in so  perfect a calm and in so brilliant a light, ... he  cleared men's breasts with truth-telling precepts, and  fixed a limit to lust and fear, and explained what  was the chief good which we all strive to reach." As  to GIRGENTI," that great country (Sicily) seems  to have held within it nothing more glorious than  this man, nothing more holy, marvellous, and dear.  The verses, too, of this godlike genius cry with a  loud voice, and make known his great discoveries,  so that he seems scarcely bom of a mortal stock."  Continuing his speculations on the development  of living things, Lucretius strikes out in bolder and     l.^    original vein. The past history of man, he says, lies  in no heroic or golden age, but in one of struggle  out of savagery. Only when "children, by their  coaxing ways, easily broke down the proud temper  of their fathers," did there arise the family ties out  of which the wider social bond has grown, and soft-  ening and civilizing agencies begin their fair offices.  In his battle for food and shelter, " man's first arms  were hands, nails and teeth and stones and boughs  broken off from the forests, and flame and fire, as  soon as they had become known. Afterward the  force of iron and copper was discovered, and the use  >^. ' of copper was known before that of iron, as its nature is easier to work, and it is found in greater quantity.  With copper they would labour the soil of the earth  and stir up the billows of war. . . . Then by slow  steps the sword of iron gained ground and the make  of the copper sickle became a byword, and with iron  they began to plough through the earth's [soil, and  the struggles of wavering man were rendered equal."  As to language, " Nature impelled them to utter the  various sounds of the tongue, and use struck out the  names of things." Thus does Lucretius point the  road along which physical and mental evolution have  since travelled, and make the whole story subordi-  nate to the high purpose of his poem in deliverance  of the beings whose career he thus traces from super-  stition. Man " seeing the system of heaven and the  different seasons of the years could not find out by  what causes this was done, and sought refuge in handing over all things to the gods and supposing  all things to be guided by their nod." Then, in the  sixth and last book, the completion of which would  seem to have been arrested by his death, LUCREZIO explains the law of winds and storms, of earth-quakes and volcanic outbursts, which men " foolishly  lay to the charge of the gods," who thereby make  known their anger.   So, loath to suffer mute,  We, peopling the void air,  Make Gods to whom to impute  The ills we ought to bear ;  With God and Fate to rail at, suffering easily.   And what a motley crowd of gods they were on  whose caprice or indifference he pours his vials of  anger and contempt! The tolerant pantheon of  Rome gavie welcome to any foreign deity with respectable credentials; to Cybele, the Great Mother,  imported in the' shape of a rough-hewn stone with  pomp and rejoicings from Phrygia 204 b. c; to Isis,  welcomed from Egypt; to Herakles, Demeter, As-  klepios, and many another god from Greece. But these are dismissed from a man's thought when the prayer or sacrifice to them had been offered at the  due season. They had less influence on the Roman's  life than the crowd of native godlings who were  thinly disguised fetiches, and who controlled every  action of the day. For the minor gods survive the changes in the pantheon of every race. Of the Greek  peasant of to-day Mr. Rennel Rodd testifies, in his Custom and Lore of Modern Greece, that much as  he would sliudder at the accusation of any taint of  paganism, the ruling of the fates is more immediately real to him than divine omnipotence. Mr.  Tozer confirms this in his Highlands of Turkey. He  says: " It is rather the minor deities and those as-  sociated with man's ordinary life that have escaped  the brunt of the storm, and returned to live in a dim  twilight of popular belief. In India, Lyall tells us that, " even the supreme triad of Hindu  allegory, which represents the almighty powers of  creation, preservation, and destruction, have long  ceased to preside actively over any such correspond-  ing distribution of functions. Like limited monarchs, they reign, but do not govern. They are  superseded by the ever-increasing crowd of godlings  whose influence is personal and special, as shown by  Mr. Crooke in his instructive Introduction to the  Popular Religion and Folk-lore of Northern India. The old ROMAN CATALOGUE of spiritual beings,  abstractions as they were, who gfuarded life in minute  detail, is a long one. From the indigitamenta^ as  such lists are called, we learn that no less than forty-  three were concerned with the actions of a child.  When the farmer asked Mother Earth for a good  harvest, the prayer would not avail unless he also  invoked " the spirit of breaking up the land and the  spirit of ploughing it crosswise; the spirit of furrow-  ing and the spirit of ploughing in the seed; and the  spirit of harrowing; the spirit of weeding and the spirit of reaping; the spirit of carrying com to the  barn; and the spirit of bringing it out again." The  country, moreover, swarmed with Chaldaean astrolo-  gers and casters of nativities; with Etruscan harus-  pices full of " childish lightning-lore, who foretold  eve'tits from the entrails of sacrificed animals; while  in competition with these there was the State-sup-  ported college of augurs to divine the will of the  gods by the cries and direction of the flight of birds.  Well might the satirist of such a time say that the place was so densely populated with gods as to  leave hardly room for the men."   It will be seen that the justification for including  Lucretius among the Pioneers of Evolution lies in  his two signal and momentous contributions to the  science of man; namely, the primitive savagery of  the human race, and the origin of the belief in a  soul and a. future life. Concerning the first, an-  thropological research, in its vast accumulation of  materials during the last sixty years, has done little  more than fill in the outline which the insight of LUCREZIO enabled him to sketch. As to the second,  he anticipates, well-nigh in detail, the ghost-theory  of the origin of belief in spirits generally which Her-  bert Spencer and Dr. Tylor, following the lines laid  down by Hume and Turgot (see p. 255), have  formulated and sustained by an enormous mass of  evidence. The credit thus due to Lucretius for the  original ideas in his majestic poem — Greek in con-  ception and Roman in execution — has been obscured in the general eclipse which that poem suf-  fered for centuries through its anti-theological spirit.  Grinding at the same philosophical mill, Aristotle,  because of the theism assumed to be involved in his  " perfecting principle," was cited as " a pillar of the  faith" by the Fathers and Schoolmen; while Lucre-  tius, because of his denial of design, was “anathema  maranatha.” Only in these days, when the far-reach-  ing effects of the theory of evolution, supported by  observation in every branch of inquiry, are apparent,  are the merits of Lucretius as an original seer, more  than as an expounder of the teachings of GIRGENTI and L’ORTO, made clear.   Standing well-nigh on the threshold of the Chris-  tian era, we may pause to ask what is the sum of  the speculation into the causes and nature of things  which, begun in Ionia (with impulse more or less  slight from the East), by Thales, ceased, for many centuries, in the  poem of Lucretius, thus covering an active period  of about five hundred years. The caution not to see  in these speculations more than an approximate ap-  proach to modern theories must be kept in mind. There is a primary substance which abides  amidst the general flux of things.   All modern research tends to show that the various  combinations of matter are formed of some prima ma-  teria. But its ultimate nature remains unknown.   2. Out of nothing comes nothing.  Modern science knows nothing of a beginnings and, moreover, holds it to be unthinkable. In this it stands  in direct opposition to the theological dogma that God  created the universe out of nothing; a dogma still  accepted by the majority of Protestants and binding on  Roman Catholics. For the doctrine of the Church of Rome thereon, as expressed in the Canons of the  Vatican Council, is as follows: " If any one confesses  not that the world and all things which are contained  in it, both spiritual and mental, have been, in their  whole substance, produced by God out of nothing; or  shall say that God created, not by His free will from  all necessity, but by a necessity equal to the necessity  whereby He loves Himself, or shall deny that the  world was made for the glory of God: let him be  anathemaJ'  The primary substance is indestructible. The modern doctrine of the Conservation of Energy  teaches that both matter and motion can neither be ere-  ated nor destroyed. The universe is made up of indivisible particles  called atoms, whose manifold combinations, ruled  by unalterable affinities, result in the variety of  things. With modifications based on chemical as well as  mechanical changes among the atoms, this theory of  Leucippus and Democritus is confirmed. (But recent  experiments and discoveries show that reconstruction  of chemical theories as to the properties of the atom may  happen.) Change is the law of things, and is brought  about by the play of opposing forces.   Modern science explains the changes in phenomena  as due to the antagonism of repelling and attracting  modes of motion; when the latter overcome the former,  equilibrium will be reached, and the present state of  things will come to an end.   6. Water is a necessary condition of life.  Therefore life had its beginnings in water; a theory   wholly indorsed by modern biology, Life arose out of non-living matter. Although modern biology leaves the origin of life   as an insoluble problem, it supports the theory of  fundamental continuity between the inorganic and the  organic.  Plants came before animals: the higher organ-  isms are of separate sex, and appeared subsequent  to the lower. Generally confirmed by modern biology, but with  qualification as to the undefined borderland between  the lowest plants and the lowest animals. And, of  course, it recognises a continuity in the order and  succession of life which was not grasped by the Greeks. Aristotle and others before him believed that some of  the higher forms sprang from slimy matter direct.   9. Adverse conditions cause the extinction of  some organisms, thus leaving room for those better  fitted.   Herein lay the crude germ of the modern doctrine  of the survival of the fittest. Man was the last to appear, and his primi-  tive state was one of savagery. His first tools and  weapons were of stone; then, after the discovery of  metals, of copper; and, following that, of iron. His  body and soul are alike compounded of atoms, and  the soul is extinguished at death. The science of Prehistoric Archceology confirms the  theory of man's slow passage from barbarism to civili-  zation; and the science of Comparative Psychology de-  clares that the evidence of his immortality is neither stronger nor weaker than the evidence of the immortality of the lower animals. Such, in very broad outline, is the legacy of sug-  gestive theories bequeathed by the Ionian school and  its successors, theories which fell into the rear when  Athens became a centre of intellectual life in which  discussion passed from the physical to those ethical  problems which lie outside the range of this survey.  Although Aristotle, by his prolonged and careful  observations, forms a conspicuous exception, the  fact abides that insight, rather than experiment, ruled Greek speculation, the fantastic guesses of parts of  which themselves evidence the survival of the crude and falsei deas about earth and sky long prevailing. The more wonderful is it, therefore, that so much  therein points the way along which inquiry travelled after its subsequent long arrest; and the more apparent is it that nothing in science or art, and but  little in theological speculations, at least among us Westerns, can be understood without reference to Greece. Approxi-Namb. Place. mate Speciality. Thales. Miletus.Cosmological (Ionia).Ae Pri f Water.Substance Anaximender. the Boundless. Anaximenes.Air. Pythagoras. Samos Numbers: the Ionian a Cosmos built coast). up of geometrical figures or(Grote, Plato) generated out of  number. Xenophanes. Colophon. Founder of the (Ionia). Eleatic school. Heraditus. Ephesus Ionia Fire. Empedocles. Agrigentum Fire, Air,Earth, (Sicily). And Water ruled by Love  and Strife. Anaxagoras. Clazomenae (Ionia). Nous. Leucippus Democritus. Abdera. Formulators of the Atomic Thrace Theory Aristotle.  Stagira  (Macedonia). Naturalist.  i Epicurus. Samos. Expounder of the Atomic  Theory and Ethical Philosopher. LUCREZIO.  Roma Interpreter of Epicurus and  EMPEDOCLE DI GIRGENTI: the first Anthropologist. Gilberto Corbellini. Keywords: darwinismo politizzato, Dawkins’ selfish gene – read selfish gene – medicina in Roma antica -- evoluzione, emergentismo, biologia filosofica, grammatical del vivente, cooperazione, altruismo, razionalita, utilitarismo, darwinismo sociale, evolluzione, filosofia dell’evoluzione, progresso ed evoluzione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Corbellini” – The Swimming-Pool Library. 

 

Grice e Cordeschi: l’implicatura conversazionale della logica della guerra – filosofia italiana – Luigi Speranza (L’Aquila). Filosofo italiano. Grice: “Cordeschi is fine if you are into how we can model a pirot from an automaton – Descartes’s old idea!” -- Roberto Cordeschi (L'Aquila) filosofo.  Si laurea a Roma sotto Somenzi. Si appassiona subito alla storia della cibernetica, di cui Somenzi fu tra i primi studiosi e contributori in Italia. Con la co-supervisione di Radice discute una tesi sui Teoremi di incompletezza di Gödel. Insegna a Morino, Avezzano, Torino, Roma, e Saerno. Altre opere: “Turing” – homo mechanicus (Alan Mathison); “Turing’s homo mechanicus” (Pisa: Edizioni della Normale); “La cibernetica in Italia” (Roma: Scienze, Istituto della Enciclopedia Italiana); “Un padrino per l’Intelligenza Artificiale. Sapere; “L’intelligenza meccanica”; Alfabeta; “Dalla cibernetica a internet: etica e politica tra mondo reale e mondo virtuale; “Dal corpo bionico al corpo sintetico. Roma: Carocci); “Somenzi. testimonianze. Mantova: Fondazione Banca Agricola Mantovana); “Natura, machina, cervello e conoscenza”; “Autonomia delle macchine: dalla cibernetica alla robotica bellica” (Roma: Armando); “Rap-resentare il concetto: filosofia e modello computazionale”. Sistemi Intelligenti, “Fare a meno delle metafore: il metodo sintetico e la scienza cognitive” (Milano: Franco Angeli). Nuove prospettive nell’Intelligenza Artificiale, XXI SecoloNorme e idee. Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani), “Quale coscienza artificiale? Sistemi intelligenti, “Adattamento” e “selezione” nel mondo della natura” (Milano: Franco Angeli); “Computazionalismo sotto attacco” (Padova: CLEUP); Premessa al Documento di Dartmouth, Sistemi Intelligenti, “Psicologia, fisicalismo e Intelligenza Artificiale. Teorie e Modelli; “Forme e strutture della comunicazione linguistica. Intersezioni. Filosofia dell’intelligenza artificiale. In Floridi L., a cura di. Linee di ricerca, SWIF. Una lezione per la scienza cognitiva. Sistemi Intelligenti, Funzionalismo e modelli nella Scienza Cognitiva. Forum SWIF. C Vecchi problemi filosofici per la nuova Intelligenza Artificiale. Networks. Rivista di Filosofia dell’Intelligenza Artificiale e Scienze Cognitive, In ricordo di Vittorio Somenzi Quaderno Filosofi e Classici SWIF; Intelligenza artificiale. Manuale per le discipline della comunicazione. Roma: Carocci. L’intelligenza Artificiale: la storia e le idee. Roma: Carocci); “Naturale e artificiale” (Bari: Edizioni Laterza); La scoperta dell’artificiale. Psicologia, filosofia e macchine intorno alla cibernetica, Milano-Bologna: Dunod-Zanichelli); “Pensiero meccanico” e giochi dell’imitazione. Sistemi Intelligenti; Prospettive della Logica e della Filosofia della scienza. Atti del Convegno SILFS. Pisa: ETS. I modelli della vita mentale, oggi e domani. Giornale Italiano di Psicologia, Filosofia della mente. Quaderni di Le Scienze, L’intelligenza artificiale. In: Bellone, E., Mangione, C., a cura di. Geymonat L., Storia del pensiero scientifico. Il Novecento,  Milano: Garzanti); Somenzi, La filosofia degl’automi. Origini dell’intelligenza artificiale. Torino: Bollati Boringhieri); Indagini meccanicistiche sulla mente: la cibernetica e l’intelligenza artificiale. In: Somenzi, V., Cordeschi, R., a cura di. La filosofia degl’automi. Origini dell’intelligenza artificiale. Torino: Bollati Boringhieri: Qualche problema per l’IA classica e connessionista. Lettera matematica PRISTEM, Una macchina protoconnessionista. Pisa: ETS: Le radici moderne del recupero scientifico della teologia. Nuova Civiltà Delle Macchine); Scienza e filosofia della scienza; La mente nuova dell’imperatore. La mente, i computer, le leggi della fisica. Milano. Wiener. In: Negri, A., a cura di. Novecento Filosofico e Scientifico. Protagonisti, Milano: Marzorati, Turing. In: Negri, A., a cura di. Novecento Filosofico e Scientifico. Protagonisti,  Milano: Marzorati: Significato e creatività: un problema per l’intelligenza artificiale. L’Automa spirituale: Menti, Cervelli e Computer, Cervello, mente e calcolatori: précis storico dell’intelligenza artificiale. In: Corsi, P., a cura di. La fabbrica del pensiero. Dall’arte della memoria alle neuroscienze, Milano: Electa: L’intelligenza artificiale tra psicologia e filosofia. Nuova Civiltà delle Macchine, Mente, linguaggio e realtà. Milano: Adelphi. Linguaggio mentalistico e modelli meccanici della mente. Osservazioni sulla relazione di Boden. L’evoluzione dei calcolatori e l’intelligenza artificiale. Manuscript; La psicologia meccanicistica, Storia e critica della psicologia, La teoria dell’elaborazione umana dell’informazione. Aspetti critici e problemi metodologici. Roma: Editori Riuniti); Dal comportamentismo alla simulazione del comportamento. Storia e Critica della Psicologia, I sillogismi di Lullo. Atti del Convegno Internazionale di Storia della Logica. San Gimignano: Il duro lavoro del concetto: il neoidealismo e la razionalità scientifica. Giornale critico della Filosofia Italiana; La psicologia come scienza autonoma: Croce, De Sarlo e gli “sperimentalisti”. Per un’analisi storica e critica della Psicologia, 2Dietro una recensione crociana di Couturat. Quaderni di Matematica, Metodi per la risoluzione dei problemi nell’intelligenza artificiale, Per un’analisi storica e critica della psicologia, Manuscript. La psicologia tra scienze della natura e scienze dello spirito: Croce e De Sarlo. In: Cimino G., Dazzi, a cura di. Gli studi di psicologia in Italia: Aspetti teorici scientifici e ideologici, Quaderni di storia critica della scienza. Nuova serie. 9, Pisa: Domus Galileana); Una critica del naturalismo: note sulla concezione crociana delle scienze. Critica marxista; Introduzione alla logica. Roma: Editori Riuniti. Predicati. In: CIntroduzione alla logica. Roma: Editori Riuniti. Elementi di logica matematica. Roma: Riuniti); Bilancio dell’empirismo contemporaneo. Scientia; La filosofia di Leibniz: esposizione critica con un’appendice antologica. Roma: Newton Compton Italiana); Filosofia e informazione. Padova: La Cultura; Validità e reiezione nella logica aristotelica. Il problema della decisione. Report: Storia della Filosofia Antica. Istituto di Filosofia, Roma. Manuscript. In generale, nella implicatura robotica c’è la tendenza a ricorrere al vocabolario delle rappresentazioni solo quando, per così dire, non se ne può fare a meno, ovvero, più precisamente, quando si lascia il livello puramente reattivo nel quale il lessico delle rappresentazioni sarebbe banale, per passare a quello topologico e, a maggior ragione, a quello metrico o delle mappe cognitive. Due robot puramente reattivi sono capaci di risolvere alcuni compiti per i quali, nella ricerca su animali (la squarrel Toby di Grice), si erano invocate rappresentazioni complesse come le mappe cognitive. Questi stessi robot reattivi, man mano che si riducono le restrizioni sull’ambiente, diventano sempre meno abili nell’affrontare quegli stessi compiti, che possono essere risolti solo da agenti dotati di stati interni (attitudine psicologica) ai quali essi riconoscono lo status di rappresentazioni. La massima sarebbe in questi casi quella di esaminare tutti i modi possibili di spremere l’ultima goccia di informazione dal livello reattivo prima di parlare dell’influenza della rappresentazione, modello del mondo o mappa sul comportamento intelligente. Circa la natura delle rappresentazioni, una volta ammesse, le opinioni sono contrastanti, e riflettono la varietà dei punti di vista ormai usuale in intelligenza artifiziale e intelligenza naturale, classica o nouvelle che sia. Si può parlare di rappresentazione anche per i pattern connessionisti, a patto di distinguere la relativa computazione. La rappresentazione e solo simbolica, quale che sia la loro complessità, e un pattern connessionista, non essendo considerato simbolico, non e una rappresentazione. Si parla di una rappresentazione che possono essere di diversa complessità e accuratezza, esplicita (spliegatura) o implicita (impiegatura), metrica o topologica, centralizzata o distribuita. E in generale si parla di ra-presentazione simbolica quando si è in presenza di un costrutto dotato di proprietà ritenuta analoga a quella del segno. Ricorrenti valutazioni polemiche da parte di alcune tendenze dell’IA nouvelle identificano nell’Ipotesi del Sistema Fisico di Simboli il paradigma linguistico per eccellenza dell’IA classica. Tuttavia, un confronto di qualche anno fa tra sostenitori e critici di questa ipotesi mostra come questa interpretazione sia quanto meno opinabile. Sarebbe opportuno tenerne conto, per evitare di porre in un modo troppo sbrigativo l’identificazione tra simbolo e  il concetto piu generale di segno in IA classica e per affrontare senza pregiudizi i difficili problemi che stanno alla base della costruzione di un modello di conversazione, tra i quali quello della natura della rappresentazione. Mi riferisco all’interpretazione in termini di un sistema di elaborazione simbolica dell’informazione (dunque in termini di un sistema fisico materiale di simboli) di sistemi tradizionalmente non considerati tali, come quelli proposti dai teorici dell’azione situata. L’idea di simbolo che sta alla base di questa ipotesi è che un simbolo è un pattern che denota, e la nozione di denotazione è quella che dà al simbolo la sua capacità rappresentazionale. Il pattern puo denotare altro pattern, sia interni al Si veda per una formulazione particolarmente esplicita (Gallistel). Detto in breve, tali proprietà riguardano, tra l’altro, la produttività, ovvero la capacità di generare e capire un insieme illimitato di frasi, e la sistematicità, ovvero la capacità di capire ad esempio tanto aRb quanto bRa. Fodor ne ha fatto la base per la sua controversa ipotesi del “linguaggio del pensiero” Per una introduzione all’argomento, si veda (Francesco). Per pattern si intende, come sarà più chiaro nel seguito, una struttura fisica, biologica o inor- ganica, che può essere oggetto di processi computazionali—codifica, decodifica, registrazione, cancellazione, cambiamento, confronto—i quali occorrono in sistemi diversi, in un calcolatore e nel sistema nervoso, anche se in quest’ultimo caso non sappiamo nei dettagli come. Questa tesi provocò diverse reazioni (si vedano Cognitive Science). Si noti che nelle intenzioni di Simon e Vera la tesi non comporta che ogni pattern sia dotato di meccanismo  sistema che esterni ad esso (nel mondo reale), e anche stimoli sensoriali e azioni motorie. Processi tanto biologici quanto inorganici possono essere simbolici in questo senso e, dal punto di vista sostenuto da Simon e Vera, i relativi sistemi sono sempre sistemi fisici di simboli, ma a diversi livelli di complessità. Per esempio, nel caso più semplice che riguarda gli organismi, anche l’azione riflessa (subcorticale) è un processo simbolico: la codifica di un simbolo provocata da un ingresso sensoriale, poniamo la bruciatura di una mano, dà luogo alla codifica di un simbolo motorio, con la conseguente rapida effettuazione dell’azione, in questo caso il ritirare la mano. Più precisamente, l’idea è che “il sistema nervoso non trasmette certo la bruciatura, ma ne comunica l’occorrenza. Il simbolo che denota l’evento [la brucia- tura] viene trasmesso al midollo spinale, che a sua volta trasmette un simbolo ai mu- scoli, i quali esercitano la contrazione che consente di ritirare la mano.” Nel caso degli artefatti, già il solito termostato è un sistema fisico di sim- boli, sebbene particolarmente semplice: il suo livello di tensione è un simbolo che denota uno stato del mondo esterno. Come ho ricordato, anche Brooks ha finito per riconoscere alle rappresentazioni un loro ruolo nel comportamento dei suoi robot, se non altro alle rappresentazioni “relati- ve al particolare compito per il quale sono usate” (i “modelli parziali del mondo”), quali potrebbero essere, a diversi livelli di complessità, quelle usate da agenti naturali come Cataglyphis o da agenti artificiali come Toto o il solutore di labirinti sopra ri- cordato. Simon e Vera considererebbero senz’altro agenti del genere come sistemi fisici di simboli, dotati di un’attività rappresentazionale molto sofisticata, anche se specializzata a un compito particolare. Ma essi includono tra i sistemi fisici di simboli anche artefatti molto più semplici, come il ricordato termostato, e agenti robotici pu- ramente reattivi o collocabili al livello del taxon system (che, seguendo Prescott, era stato definito come una catena di associazioni consistenti in coppie <stimolo, risponsa>). Secondo i due autori, i primi robot alla Brooks sono (un tipo relativamente sem- plice di) sistemi fisici di simboli: anche l’interazione senso-motoria diretta di un agen- te con l’ambiente nella misura in cui dà luogo a un comportamento coerente alle rego- larità dell’ambiente, non può essere considerata se non come manipolazione simboli- ca. Ho ricordato sopra il semplice comportamento reattivo di Allen, che tramite sonar evita ostacoli presenti in un ambiente reale. In questo caso, i suoi ingressi sensoriali danno luogo a un processo di codifica, e i costrutti in gioco (i simboli, secondo la definizione sopra ricordata) che risultano da tale interazione sensoriale, e poi motoria, dell’agente con l’ambiente sono rappresentazioni interne (degli ostacoli esterni da evitare) in un senso non banale: l’informazione sensoriale captata dal robot è converti- ta in simboli, i quali sono manipolati al fine di determinare gli appropriati simboli motori che evocano o modificano un certo comportamento. L’assenza di memoria in questo tipo di agente comporta che l’azione sia eseguita senza una rappresentazione esplicita del piano e dell’obiettivo che orienta l’azione stessa (senza pianificazione), ma non che non ci sia attività rappresentazionale simbolica. Qual è la natura di questi simboli, di queste rappresentazioni simboliche? denotazionale, cosa che evidentemente renderebbe banale questa definizione di simbolo: ci sono pattern che non denotano, tanto naturali quanto artificiali. Sulla sufficienza della denotazione per caratterizzare la nozione di simbolo (come di rappresen- tazione) si è molto discusso. Nel caso degli artefatti più semplici si tratta di rappresentazioni analogiche che stabiliscono e mantengono la relazione funzionale del sistema con l’ambiente. Questo, si è visto, è già vero per il solito termostato. Nel caso di (come pure di certi sistemi connessionisti, o che includono sistemi connessioni- sti), tali rappresentazioni (analogiche) hanno carattere temporaneo (senza intervento di memoria) e distribuito (non sono sottoposte a controllo centralizzato). In questi casi, una rappresentazione certo imprecisa ma sufficientemente efficace è fornita da un sonar sotto forma di un pattern interno fisico (un pattern di nodi della rete, nel caso di un sistema connessionista): essa denota o rappresenta per il robot un ostacolo o una certa curvatura di una parete o di un percorso. Una volta che tale pattern venga comu- nicato a uno sterzo, esso determina l’angolo della ruota sterzante del carrello del robot. Per quanto diversa a seconda dei casi, è sempre presente un processo di codifica- elaborazione-decodifica non banale, che stabilisce una ben precisa relazione funziona- le tra il sistema e l’ambiente, e spiega il comportamento coerente dell’agente nell’interazione con il mondo. Non parlare di rappresentazioni interne, e limitarsi a dire che un agente “intrattiene certe relazioni causali con il mondo, non spiega come tali relazioni vengano mantenute. E’ del tutto ragionevole sostenere che un agente mantiene l’orientamento verso un oggetto tramite una relazione causale (Grice, “La teoria causale della percezione”) con esso e che tale relazione è un pattern di interazione, ma non ha senso pensare che tale pattern venga prodotto per magia, senza un corrispondente cambiamento di stato rappresenta- zionale dell’agente, ovvero che esso possa aver luogo senza una rappresentazione interna fosse pur minima.” Rappresentazioni più complesse, che sono alla base di un’attività non semplicemente percettiva diretta, sono presenti in altri casi, quando entrano in gioco la me- moria, l’apprendimento, il riconoscimento di oggetti e l’elaborazione di concetti, la formulazione esplicita di una mappa o di piani alternativi, sotto forma di rappresentazioni off-line, e ancora. In molte di queste attività “alte” intervengono rappresentazioni esplicite, linguistiche e metriche, ma se si riconosce che la cognizione richiede questo tipo di rappresentazioni, è difficile mettere in dubbio che tali attività non condividono con attività più “basse” come la percezione, sulle quali esse vengono elaborate, il meccanismo denotazionale, sia pure in una forma minimale. A meno di restringere arbitrariamente la nozione di rappresentazione e di simbolo, non c’è ragione di riservarla esclusivamente a pattern linguistici, o ai costrutti della semantica denotazionale (variabili da vincolare ecc.). Penso si possa sottoscrivere questa conclusione di Bechtel: “la nozione base [di rappresentazione] è effettivamente minimale, tale da rende- re le rappresentazioni più o meno ubique. Esse sono presenti in ogni sistema organiz- zato che si è evoluto o è stato progettato in modo da coordinare il suo comportamento con le caratteristiche dell’ambiente. Ci sono dunque rappresentazioni nel regolatore, nei sistemi biochimici e nei sistemi cognitivi”. Il riferimento di Bechtel al regolatore di Watt è polemico nei confronti di van Gelder, che ne faceva il prototipo della sua concezione non computazionale e non simbolica della co- gnizione. In realtà questo tipo di artefatti analogici (sistemi a feedback negativo e servomecca- nismi) erano stati interpretati come sistemi rappresentazionali già all’epoca della cibernetica, in primo luogo da Craik, che ne aveva fatto la base per una “teoria simbolica del pensie- ro”, come egli la chiamava, per la quale “il sistema nervoso è visto come una macchina calcola- trice capace di costruire un modello o un parallelo della realtà”. Non entriamo in questa sede sui diversi problemi relativi al contenuto delle  Simon e Vera distinguono il livello della modellizzazione simbolica da quello della realizzazione fisica (sia biologica che inorganica) di un agente. Nell’interazione con l’ambiente, un agente ha un’attività rappresentazionale che è data dalle caratteri- stiche specifiche del suo apparato fisico di codifica-elaborazione-decodifica di simboli. Si pensi ancora alla codifica, molto approssimativa ma generalmente efficace, at- traverso sonar degli ostacoli da parte di un robot reattivo, e alla relativa decodifica che si conclude in un ben determinato movimento. La modellizzazione simbolica di questa capacità non appare in linea di principio diversa da quella “alta” sopra ricordata. L’idea è che tutti questi tipi o livelli di rappresentazioni, da quelli legati alla percezio- ne a quelli più alti della “ricognizione”, possono essere opportunamente modellizzati attraverso regole di produzione, come livello di descrizione di un sistema fisico di simboli. Un robot basato sull’architettura della sussunzione non fa eccezione. Ad esempio, il funzionamento di un modulo reattivo al livello più basso dell’architettura, che con- trolla la reazione di evitamento di ostacoli, potrebbe essere reso da un’unica regola di produzione del tipo “se c’è un ostacolo rilevato attraverso sonar e bussola allora fermati”. Questa possibilità sembra essere stata presa in considerazione dallo stesso Brooks, che però la respingeva in questi termini: “Un sistema di produzione standard in realtà è qualcosa di più [di un robot behavior-based], perché ha una base di regole dalla quale se ne seleziona una attraverso il confronto tra la precondizione di ogni regola e una certa base di dati. Le precondizioni possono contenere variabili che de- vono essere confrontate con costanti nella base di dati. I livelli dell’architettura della sussunzione funzionano in parallelo e non ci sono variabili né c’è bisogno di tale confronto. Piuttosto, vengono estratti aspetti del mondo, che evocano o modificano direttamente certi comportamenti a quel livello. Tuttavia, se distinguiamo il livello della realizzazione fisica da quello della sua modellizzazione, quella che Brooks chiama l’estrazione degli “aspetti del mondo” rilevanti per l’azione è descritta in modo adeguato da un opportuno sistema di regole di produzione, e tramite tale sistema un certo comportamento di una sua creatura può essere evocato o modificato nell’interazione con l’ambiente. E questo modello (a regole di produzione) delle regolarità comportamentali di diversi livelli dell’architettura della sussunzione può essere implementata in un dispositivo che, grazie all’elevato grado di parallelismo, presenta doti di adattività, robustezza e rispo- sta in tempo reale paragonabili a quelle di un dispositivo behavior-based. In questo senso, le regole di descrizione danno una modellizza- zione adeguata del comportamento di un agente situato. Oltre alle risposte automatiche, che nel caso dell’azione riflessa o “innata” e di quella reattiva possono essere rese attraverso un’unica regola di produzione (qualcosa che corrisponda a una relazione comportamentista S→R), esistono le azioni automa- rappresentazioni, al ruolo dell’utente degli artefatti e alla natura della spiegazione cognitiva. L’articolo di Bechtel contiene una disanima efficace di questi problemi, rispetto a posizioni diverse come quella sostenuta da Clancey contro la tesi di Vera e Simon. In breve, le regole di produzione hanno la forma “se... allora”, o CONDIZIONE → AZIONE. La memoria a lungo termine di un sistema fisico di simboli è costituita da tali regole: gli antecendenti CONDIZIONE permettono l’accesso ai dati in memoria, codificati dai conseguenti AZIONE. tizzate a seguito dell’apprendimento, quando cioè le regolarità relative a un certo comportamento sono state memorizzate, o quelle che comportano una relazione “di- retta” con il mondo tramite le affordance alla Gibson. Un esempio sono le risposte immediate che fanno seguito a sollecitazioni improvvise o impreviste provenienti dall’ambiente Ora i teorici dell’azione situata (e, come si è visto, i nuovi robotici) insistono sul fatto che questi casi di interazione diretta con l’ambiente si svolgono in tempo reale, senza cioè che sia possibile quella presa di decisione, diciamo così, meditata che ri- chiede la manipolazione di rappresentazioni e la pianificazione dell’azione. Si pensi all’esempio di Winograd e Flores dell’automobilista che, guidando, affronta una curva a sinistra. In primo luogo, secondo i due autori, non è necessario che egli faccia continuamente riferimento a conoscenze codificate sotto forma di regole di produzione—non è necessario riconoscere una strada per accorgersi che è “percorribi- le” (la “percorribilità”, questa è la tesi, è colta nella relazione diretta agente- ambiente). In secondo luogo, la decisione è presa dall’agente, per così dire, senza pensarci (senza pensare di posizionare le mani, di contrarre i muscoli, di girare lo sterzo in modo che le ruote vadano a sinistra ecc.). Tutto ciò avviene automaticamente e immediatamente, dunque senza applicare qualcosa come una successione di regole di produzione “se p, q”. In conclusione, la tesi è che non è possibile modellizzare questo aspetto della presa di decisione istantanea, o in tempo reale, attraverso un dispositivo che comporta codifica-elaborazione-decodifica di simboli, dunque computazioni, regole di produzione e così via. L’obiettivo della critica di Winograd e Flores è la teoria della presa di decisione nello spazio del problema, con il quale ha a che fare l’agente a razionalità limitata di Simon. Ora, se prendiamo sul serio la teoria di Simon, va detto che alla base del carat- tere limitato della razionalità dell’agente sta la complessità dell’ambiente non meno dei limiti interni dell’agente stesso (limiti di memoria, di conoscenza della situazione ecc.). Nel prendere la decisione, quest’ultimo, secondo la teoria di Simon, in generale non è in grado di considerare, come spazio delle alternative pertinenti, lo spazio di tutte le possibilità, ma solo una parte più o meno piccola di esso, e questa selezione avviene sulla base delle sue conoscenze, aspettative ed esperienze precedenti. Ora una presa di decisione istantanea, non meno di una presa di decisione meditata, è condi- zionata da questi elementi, i quali, una volta che abbiano indotto, poniamo attraverso l’apprendimento, la formazione di schemi automatici di comportamento (di risposte motorie, nell’esempio di sopra), finiscono per determinare l’esclusione immediata di certe alternative possibili (come, nell’esempio della guida, innestare la marcia indietro) a vantaggio di altre (come scalare marcia, frenare ecc.), e tra queste altre quelle suggerite dalla conoscenza dell’ambiente stesso (fondo strada bagnato ecc.) e dalle Le affordance, nella terminologia di Gibson sono invarianti dell’ambiente che vengo- no “colte” (picked up) dall’agente “direttamente” nella sua interazione con l’ambiente stesso, e “direttamente” viene interpretato come: senza la mediazione di rappresentazioni e di computa- zioni su esse. Un esempio sono i movimenti dell’agente in un ambiente nel quale deve evitare oggetti o seguirne la sagomatura e così via: un po’ quello che fanno i robot reattivi di cui ho parlato. L’esempio del termostato è ricorrente in scienza cognitiva e in filosofia della mente dai tempi della cibernetica. E’ evidente che definire sistemi fisici di simboli artefatti di questo tipo (e del tipo dei robot di Brooks, come vedremo) comporta rinunciare al requisito dell’universalità per tali sistemi (sul quale si veda Newell).  aspettative pertinenti.17 Secondo le stesse parole di Simon “il solutore di problemi non percepisce mai Dinge an sich, ma solo stimoli esterni filtrati attraverso i propri pre- concetti” (Simon). Di norma, dunque, l’informazione considerata dall’agente non è collocata in uno spazio bene ordinato di alternative, generato dalla formulazione del problema: tale informazione è generalmente incompleta, ma è pur sempre sostenuta dalla conoscenza della situazione da parte dell’agente. La proposta è, dunque, che la modellizzazione a regole di produzione di un’azione del genere, e in generale di una affordance, è un simbolo che, via il sistema percettivo di codifica, raggiunge la memoria del sistema per soddisfare la CONDIZIONE di una regola di produzione esplicita. In questo modo, soddisfatta la CONDIZIONE, si attiva la regola, e la produzione (la decodifica) del simbolo di AZIONE avvia la risposta motoria. Da questo punto di vista, le affordance sono rappresentazioni di pattern del mondo esterno, ma con una particolarità: quella di essere codificate in un modo particolar- mente semplice. Nell’esempio di sopra, una volta che si sia imparato a guidare, la regola è qualcosa come: “se la curva è a sinistra allora gira a sinistra”.Questa regola rappresenta la situazione al livello funzionale più alto nel quale la rappresentazione che entra in gioco è “minima”. Un termine del genere, a proposito delle rappresentazioni, lo abbiamo visto usato da Gallistel, ma per Simon e Vera il termine rimanda alla forma della regola indicata, che può essere rapidamente applicata: in questo caso, cioè, non c’è bisogno di evocare i livelli “bassi” o soggiacenti, quelli coinvolti con l’analisi dettagliata dello spazio del problema e con l’applicazione delle opportune strategie di soluzione, che comportano computazioni generalmente complesse, sotto forma di successioni di regole di produzione. Questi livelli intervengono nelle fasi dell’apprendimento (quando si impara come affrontare le curve), e possono essere evocati dall’agente quando la situazione si fa complicata (si pensi a una curva a raggio variabile, che rivela la complessità dell’interazione codi- fica percettiva-decodifica motoria). E tanto un apprendimento imperfetto quanto una carenza, per i più svariati motivi, dell’informazione percettiva rilevante possono anche ostacolare l’accesso ai livelli soggiacenti che potrebbero dare luogo alla risposta cor- retta (non tutti coloro che hanno imparato a guidare riescono ad affrontare tutte le curve con pieno successo in ogni situazione possibile). Insomma, in questa interpretazione di Simon e Vera l’interazione in tempo reale dell’agente con l’ambiente è data non dal fatto di essere non simbolica e di non poter essere modellizzata mediante regole di produzione, ma dal fatto di non dover accede- re, per dare la risposta corretta, alla complessità delle procedure di elaborazione sim- bolica dei livelli soggiacenti a quello alto. E’ nell’attività cognitiva ai livelli soggiacenti, allorché si elaborano piani e strategie di soluzione di problemi, che viene evidenziata la consapevolezza dell’agente. Simon e Vera ponevano infine un problema che riguarda i limiti degli approcci reattivi, sul quale mi sono già soffermato, e che mi sembra condivisibile: “E’ tuttora dubbio se questo approccio behavior-based si possa estendere alla soluzione di pro- blemi più complessi. Le rappresentazioni non centralizzate e le azioni non pianificate possono funzionare bene nel caso di creature insettoidi, ma possono risultare insuffi- cienti per la soluzione di problemi più complessi. Certo, la formica di Simon non ha 17 Su questo tipo di comportamento, che può essere visto in termini di “percezione attesa”, si veda bisogno di una rappresentazione centralizzata e stabile del suo ambiente. Per tornare al nido zigzagando essa non usa una rappresentazione della collocazione di ciascun gra- nello di sabbia in relazione alla meta. Ma gli organismi superiori sembrano lavo- rare su una rappresentazione del mondo più robusta, una rappresentazione più complessa di quella di una formica, più stabile e tale da poter essere manipolata per astrarre nuova informazione”. La successiva evoluzione della robotica sembra confermare questa osservazione.  Wikipedia Ricerca Entrata dell'Italia nella seconda guerra mondiale Dichiarazione di guerra dell'Italia verso gli alleati nella seconda guerra mondiale 1leftarrow blue.svg Voce principale: Storia del Regno d'Italia. A seguito dell'attacco tedesco contro la Polonia, il capo del governo Benito Mussolini, nonostante un patto di alleanza con la Germania, dichiarò la non belligeranza italiana. L'entrata dell'Italia nella seconda guerra mondiale avvenne con una serie di atti formali e diplomatici solo dopo nove mesi,, e fu annunciata da Mussolini stesso con un celebre discorso dal balcone di Palazzo Venezia. Durante i nove mesi di incertezza operativa, il Duce, impressionato dalle folgoranti vittorie tedesche, ma conscio della grave impreparazione militare italiana, restò a lungo dubbioso fra diverse alternative, a volte contrastanti fra loro, oscillando tra la fedeltà all'amicizia con Adolf Hitler, l'impulso a rinnegarne la soffocante alleanza, la voglia di indipendenza tattica e strategica, il desiderio di facili vittorie sul campo di battaglia e la brama di essere ago della bilancia nello scacchiere della diplomazia europea. Mussolini annuncia la dichiarazione di guerra dal balcone di Palazzo Venezia a Roma AntefattiModifica Gli attriti con la Francia e l'avvicinamento alla GermaniaModifica  L'ambasciatore francese in Italia André François-Poncet. Il ministro degli esteri tedesco Ribbentrop incontra a Roma MUSSOLINI e il ministro degli esteri italiano CIANO. Durante il colloquio, Ribbentrop parlò di un possibile patto di alleanza fra Germania e Italia, argomentando che, forse nel giro di tre o quattro anni, un confronto armato contro Francia e Regno Unitosarebbe stato inevitabile. Alle molte domande di Mussolini, il ministro degli esteri tedesco spiegò che esisteva un'alleanza fra inglesi e francesi, i quali avrebbero cominciato insieme a riarmarsi, che esisteva un patto di assistenza reciproca fra sovietici e francesi, che gli Stati Uniti d'America non erano nelle condizioni di intromettersi in prima persona e che la Germania era in ottimi rapporti con il Giappone, concludendo che «tutto il nostro dinamismo può dirigersi contro le democrazie occidentali. Questa la ragione fondamentale per cui la Germania propone il Patto e lo ritiene adesso tempestivo. Il Duce non sembrava convinto e iniziò a tergiversare, ma Ribbentrop catturò la sua attenzione affermando che il mar Mediterraneo, nelle intenzioni di Adolf Hitler, sarebbe stato posto sotto il totale dominio italiano, aggiungendo che l'Italia aveva in passato dimostrato la sua amicizia verso la Germania e che adesso era «la volta dell'Italia di profittare dell'aiuto tedesco. L'obiettivo di Hitler, cogliendo l'importanza strategica di avere Roma dalla propria parte, consisteva nel ridurre il numero dei potenziali nemici in una futura guerra, scongiurando l'eventuale avvicinamento dell'Italia a Francia e Regno Unito, il che avrebbe significato il ritorno al vecchio schieramento della prima guerra mondiale e al blocco marittimo che aveva contribuito a piegare l'Impero tedesco di Guglielmo II. L'incontro fra Ribbentrop, MUSSOLINI e CIANO, però, si concluse con un momentaneo nulla di fatto.  Dopo la conferenza di Monaco del 1938 la Francia si era riavvicinata all'Italia, inviando a Roma un suo ambasciatore nella persona di André François-Poncet, e Mussolini ritenne di poter approfittare del periodo di buoni rapporti per farle tre richieste riguardanti il mantenimento della particolare condizione degli italiani in Tunisia, l'ottenimento di alcuni posti nel consiglio di amministrazione della compagnia del Canale di Suez e un arrangiamento relativo alla città di Gibuti, che era il terminale dell'unica ferrovia esistente per Addis Abeba, all'epoca capitale dell'Africa Orientale Italiana. Infatti, gli obiettivi del Duce non comprendevano la conquista di territori europei. Il primo ministro inglese Chamberlain e il suo ministro degli esteri, lord Halifax, si recarono a Parigi e ultimarono i dettagli per la collaborazione militare tra Francia e Regno Unito, mentre i rapporti fra Italia e Francia iniziavano a deteriorarsi. Il successivo 30 novembre, durante un discorso alla Camera dei fasci e delle corporazioni, il ministro degli esteri Ciano pronunciò un discorso durante il quale, accennando alle rivendicazioni irredentistiche italiane, venne interrotto dalle acclamazioni Nizza!, Savoia!, Corsica!, partite da una trentina di deputati. In quel momento, nella tribuna diplomatica, assisteva alla seduta anche l'ambasciatore francese André François-Poncet, arrivato a Roma da appena una settimana. Una manifestazione simile si verificò il giorno stesso in piazza di Monte Citorio, dove un centinaio di dimostranti esternò le stesse acclamazioni. Nonostante la parvenza di spontaneità, si era trattato di iniziative organizzate da Ciano e da Achille Starace, i quali, chiedendo molto di più delle tre richieste di Mussolini per poi fingere di accontentarsi del poco ottenuto per via negoziale, avevano inscenato le manifestazioni per impressionare François-Poncet, il quale infatti avvisò immediatamente Parigi dell'accaduto.[8] Il governo francese gli ordinò allora di chiedere spiegazioni e arrivò alla conclusione che, se la situazione era quella, una futura guerra contro l'Italia sarebbe stata inevitabile. La sera stessa, durante una seduta del Gran consiglio del fascismo, Mussolini prese però le distanze da quanto accaduto in aula, dato che l'Italia aveva da poco ripreso buone relazioni con la Francia e che la protesta era stata intrapresa a sua insaputa. François-Poncet chiese a CIANO se le grida dei deputati potevano rappresentare gli orientamenti della politica estera italiana e se l'Italia riteneva ancora in vigore l'accordo franco-italiano. Ciano, dissimulando la propria paternità su quanto accaduto, rispose che il Governo non poteva assumersi la responsabilità delle affermazioni dei singoli, ma che le riteneva un chiaro campanello d'allarme del sentire comune nazionale, e che era auspicabile, secondo la sua opinione, una revisione dell'accordo.  Di fronte a risposte così poco rassicuranti, la Francia iniziò ad aspettarsi un attacco italiano. Tuttavia, lo stato d'animo dei vertici militari d'oltralpe era improntato all'ottimismo: il generale Henri Giraud affermò infatti che un eventuale conflitto sarebbe stato, per le truppe francesi, «una semplice passeggiata nella pianura del Po», mentre altri ufficiali parlavano di un'azione militare «facile come infilare un coltello nel burro. Il primo ministro francese Édouard Daladier, irrigidendo la propria posizione nei confronti dell'Italia, affermò che non avrebbe mai ceduto ad alcuna pretesa straniera, facendo così sfumare anche la speranza di accoglimento delle tre richieste del Duce su Tunisia, Suez e Gibuti. Lo Stato Maggiore francese, fin dal 1931, aveva disposto dei piani per l'invasione militare dell'Italia, ampliandoli dopo ma il generale Alphonse Georges fece notare che nessuna azione sarebbe stata possibile contro l'Italia se, sulla Francia, fosse pesata una minaccia tedesca. Mussolini decise di aderire al patto italo-germanico, comunicando a Ribbentrop il proprio impegno. Secondo Ciano, il Duce si convinse ad accettare la proposta tedesca a causa della comprovata alleanza militare tra Francia e Regno Unito, dell'orientamento ostile del governo francese nei confronti dell'Italia e dell'atteggiamento ambiguo degli Stati Uniti d'America, che mantenevano una posizione defilata, ma che sarebbero stati pronti a rifornire di armamenti Londra e Parigi. Il maresciallo Pietro Badoglio, ribadendo la linea mussoliniana tracciata l'anno precedente, riferì allo Stato Maggiore Generale il contenuto di un suo colloquio avuto con il Duce due giorni prima, durante il quale «il Capo del Governo mi ha dichiarato che, nelle rivendicazioni verso la Francia, non intende affatto parlare di Corsica, Nizza e Savoia. Queste sono iniziative prese da singoli, le quali non entrano nel suo piano di azione. Mi ha dichiarato, inoltre, che non intende porre domande di cessioni territoriali alla Francia perché è convinto che essa non ne può fare: quindi si metterebbe nella situazione o di ritirare una eventuale richiesta (e ciò non sarebbe dignitoso) o di fare la guerra -- e ciò non è nelle sue intenzioni. Gli sforzi sostenuti per la guerra d'Etiopia del 1935-36 e per il supporto alla guerra civile spagnola del 1936-39avevano comportato spese eccezionali per l'Italia, le quali, unite alla limitata capacità produttiva dell'industria, alla lentezza del riarmo e alla scarsa preparazione dell'esercito, spinsero il Duce ad annunciare al Gran consiglio del fascismo, il 4 febbraio 1939, che il Paese non avrebbe potuto partecipare a un nuovo conflitto. La firma del Patto d'AcciaioModifica  Italia e Germania, rappresentate rispettivamente dai ministri degli esteri Ciano e Ribbentrop, concretizzarono la proposta tedesca dell'anno precedente e firmarono a Berlino un'alleanza difensiva-offensiva, che Mussolini aveva inizialmente pensato di battezzare Patto di Sangue, ma che poi aveva più prudentemente chiamato Patto d'Acciaio. Il testo dell'accordo prevedeva che le due parti contraenti fossero obbligate a fornirsi reciproco aiuto politico e diplomatico in caso di situazioni internazionali che mettessero a rischio i propri interessi vitali. Questo aiuto sarebbe stato esteso anche al piano militare qualora si fosse scatenata una guerra. I due Paesi si impegnavano, inoltre, a consultarsi permanentemente sulle questioni internazionali e, in caso di conflitti, a non firmare eventuali trattati di pace separatamente.[16]  Pochi giorni prima, Ciano aveva incontrato Ribbentrop per chiarire alcuni punti del trattato prima di firmarlo. In particolare la parte italiana, conscia della propria impreparazione militare, voleva rassicurazioni sul fatto che i tedeschi non avessero intenzione di iniziare a breve una nuova guerra europea. Il ministro Ribbentrop tranquillizzò Ciano, dicendo che «la Germania è convinta della necessità di un periodo di pace che dovrebbe essere non inferiore ai 4 o 5 anni»[17] e che le divergenze con la Polonia per il controllo del Corridoio di Danzica sarebbero state appianate «su una strada di conciliazione». Siccome la rassicurazione di nessun conflitto armato per quattro o cinque anni faceva arrivare al 1943 o al 1944e, quindi, coincideva con la previsione di Mussolini del 4 febbraio 1939 di essere militarmente pronto per il 1943, il Duce diede il suo assenso definitivo per la firma dell'alleanza.[17] Vittorio Emanuele III, nonostante la decisione di Mussolini, continuò a manifestare i propri sentimenti antigermanici e il successivo 25 maggio, al ritorno di Ciano da Berlino, commentò che «i tedeschi finché avran bisogno di noi saranno cortesi e magari servili. Ma alla prima occasione, si riveleranno quei mascalzoni che sono».[18]  Dal 27 al 30 maggio il Duce fu impegnato nella stesura di un testo indirizzato ad Hitler, successivamente passato alla storia come memoriale Cavallero dal nome del generale che glielo consegnò ai primi di giugno, nel quale venivano inserite alcune interpretazioni italiane del Patto da poco stipulato. Nello specifico, Mussolini, nonostante ritenesse inevitabile una futura «guerra fra le nazioni plutocratiche e quindi egoisticamente conservatrici e le nazioni popolose e povere», ribadì che Italia e Germania avevano «bisogno di un periodo di pace di durata non inferiore ai tre anni» allo scopo di completare la propria preparazione militare, e che un eventuale sforzo bellico avrebbe potuto avere successo. Ciano si recò al Berghof, vicino Berchtesgaden, per un colloquio con Hitler. Quest'ultimo, parlando del Corridoio di Danzica, prospettò un eventuale confronto armato circoscritto a Germania e Polonia qualora Varsavia avesse rifiutato le trattative proposte dai tedeschi, specificando che, in base alle informazioni in suo possesso, né Parigi né Londra sarebbero intervenute. Inoltre, il Cancelliere tedesco accennò a delle trattative segrete in corso con l'Unione Sovietica per un'alleanza. Ciano ricordò che era stato definito, alla firma del Patto d'Acciaio, di far passare alcuni anni prima di intraprendere azioni belliche, ma il Führer lo interruppe dicendo che «li avrebbe attesi, secondo quanto era stato concordato. Ma le provocazioni della Polonia e l'aggravarsi della situazione» avevano «reso urgente l'azione tedesca. Azione però che non provocherà un conflitto generale. Hitler chiede al Capo del Governo italiano di quali mezzi e di quali materie prime avesse bisogno per riuscire a prendere parte a un'eventuale nuova guerra. Nella speranza che il Paese ne fosse esonerato, il Duce rispose con una lunghissima lista appositamente abnorme e impossibile da soddisfare, talmente esagerata da essere definita da Galeazzo Ciano «tale da uccidere un toro. L'elenco - soprannominato Lista del molibdeno a causa delle 600 tonnellate richieste di questo materiale - comprendeva, fra petrolio, acciaio, piombo e numerosi altri materiali, un totale di quasi diciassette milioni di tonnellate di rifornimenti e specificava che, senza tali forniture da ricevere subito, l'Italia non avrebbe potuto assolutamente partecipare a una nuova guerra. Il Führer, nonostante il sospetto che Mussolini lo stesse ingannando, rispose dicendo che comprendeva la precaria situazione italiana e che poteva inviare una piccola parte del materiale, ma che gli era impossibile soddisfare per intero le richieste nostrane.[21]  Il 30 agosto la Germania inviò alla Polonia un ultimatum per la cessione del Corridoio di Danzica e la Polonia ordinò la mobilitazione generale. La mattina del giorno successivo, nonostante la situazione fosse già disperata, Mussolini si offrì come mediatore presso Hitler affinché la Polonia cedesse pacificamente Danzica alla Germania, ma il ministro degli esteri inglese Halifax rispose che tale soluzione era inaccettabile. Appresa la notizia, nel pomeriggio dello stesso giorno il Duce propose allora a Francia e Regno Unito una conferenza per il successivo 5 settembre, «con lo scopo di rivedere quelle clausole del trattato di Versaglia che turbano la vita europea».[23]  Mussolini, precedentemente, aveva già tentato di instradare la situazione nell'alveo di una soluzione diplomatica. Ciano, nel suo diario, in più momenti annotò che il Duce «è d'avviso che una coalizione di tutte le altre Potenze, noi compresi, potrebbe frenare l'espansione germanica»;[24] «Il Duce sottolinea la necessità di una politica di pace»;[25] «[...] si potrebbe parlare col Führer di lanciare una proposta di conferenza internazionale»;[26] «Il Duce tiene molto a che io provi ai tedeschi che lo scatenare una guerra adesso sarebbe una follia [...] Mussolini ha sempre in mente l'idea di una conferenza internazionale. Il Duce raccomanda ancora ch'io faccia presente ai tedeschi che bisogna evitare il conflitto con la Polonia [...] il Duce ha parlato con calore e senza riserve della necessità della pace»;[28]«Vedo nuovamente il Duce. Tentativo estremo: proporre a Francia e Inghilterra una conferenza per il 5 settembre»;[29] «[...] facciamo cenno a Berlino della possibilità di una conferenza».[30] Durante la sera del 31 agosto, però, Mussolini venne informato che Londra aveva tagliato le comunicazioni con l'Italia. La scelta della non belligeranzaModifica  Truppe tedesche, il 1º settembre 1939, rimuovono una sbarra di confine tra Germania e Polonia All'alba del 1º settembre le forze armate tedesche, utilizzando come casus belli l'incidente di Gleiwitz, diedero inizio alla campagna di Polonia, varcandone il confine alla volta di Varsavia. Mussolini, avendo firmato solo tre mesi prima l'alleanza con il Reich, fu messo di fronte alla scelta se scendere o meno in campo a fianco di Hitler. Ricevuta notizia dell'attacco tedesco e conscio dell'impreparazione italiana, la mattina dello stesso giorno il Duce telefonò subito all'ambasciatore italiano a Berlino, Bernardo Attolico, chiedendo che Hitler gli mandasse un telegramma per sganciarlo dagli obblighi del Patto, in modo da non passare per traditore agli occhi dell'opinione pubblica. Il Führer rispose immediatamente, in modo molto cortese, accogliendo senza problemi la posizione dell'Italia, dicendo che ringraziava Mussolini per l'appoggio morale e politico e rassicurandolo sul fatto che non aspettava il sostegno militare italiano. Il telegramma, però, probabilmente per punire la beffa italiana della Lista del molibdeno, non venne pubblicato da alcun quotidiano del Reich e non venne trasmesso alla radio, facendo successivamente nascere, nell'opinione pubblica tedesca, una crescente ostilità nei confronti degli italiani, percepiti come inaffidabili e traditori del Patto.[32] Galeazzo Ciano riferì che Mussolini, avendo percepito questa crescente avversione, ancora il 10 marzo 1940 disse a Ribbentrop di essere «molto riconoscente al Führer per il telegramma nel quale questi ha dichiarato che non aveva bisogno dell'aiuto militare italiano per la campagna contro la Polonia», ma che sarebbe stato meglio «se questo telegramma fosse stato pubblicato anche in Germania».[33]  Non potendo scegliere la neutralità per non tradire l'amicizia con Hitler, nella seduta del Consiglio dei Ministri delle 15:00 del 1º settembre 1939 il Duce rese nota ufficialmente la posizione di non belligeranza.[34]La mancata consultazione dell'Italia da parte della Germania prima dell'invasione della Polonia e prima della firma del patto Molotov-Ribbentrop del 23 agosto 1939 fra Germania e Unione Sovietica, comunque, secondo l'interpretazione italiana erano violazioni dei tedeschi dell'obbligo di consultazione fra i due Paesi, previsto dal testo del Patto d'Acciaio, consentendo perciò a Mussolini di dichiarare la non belligeranza senza formalmente venir meno ai patti sottoscritti.  Il 2 settembre Mussolini ripropose l'idea di una conferenza internazionale: inaspettatamente, Hitler rispose dichiarandosi disposto a fermare l'avanzata tedesca e a intervenire in una conferenza di pace cui avrebbero partecipato Germania, Italia, Francia, Regno Unito, Polonia e Unione Sovietica. Gli inglesi, tuttavia, posero come condizione inderogabile che i tedeschi abbandonassero immediatamente i territori polacchi occupati il giorno prima. Galeazzo Ciano riportò nel suo diario che «non tocca a noi dare un consiglio di tale natura a Hitler, che lo respingerebbe con decisione e forse con sdegno. Dico ciò ad Halifax, ai due Ambasciatori e al Duce, e infine telefono a Berlino che, salvo avviso contrario dei tedeschi, noi lasciamo cadere le conversazioni. L'ultima luce di speranza si è spenta».[30] Secondo lo storico Renzo De Felice: «Così, nelle prime ore tra il 2 e il 3 settembre, sulle secche dell'intransigenza inglese forse più che su quelle dell'intransigenza tedesca [...], naufragò la navicella della mediazione italiana».[35] Il 3 settembre Regno Unito e Francia, in virtù di un trattato di alleanza con la Polonia, dichiararono guerra alla Germania. Il 10 settembre l'ambasciatore Attolico, facendo riferimento all'accordo fra Hitler e Mussolini per una non immediata entrata in guerra dell'Italia e al telegramma di conferma di Hitler, comunicò che nel Reich «le grandi masse popolari, ignare dell'accaduto, cominciano già a dar segno di una crescente ostilità. Le parole tradimento e spergiuro ricorrono con frequenza».[36]  Il successivo 24 settembre, a conferma dell'impreparazione italiana, il Commissariato Generale per le Fabbricazioni di Guerra sondò il grado di approntamento delle Forze Armate, ricevendo come risposta dagli Stati Maggiori che, salvo imprevisti, la Regia Aeronautica sarebbe riuscita a ripianare sufficientemente le proprie carenze entro la metà del 1942, la Regia Marina alla fine del 1943 e il Regio Esercito alla fine del 1944.[37] Inoltre l'economia italiana risultava fortemente danneggiata dal blocco navale alle esportazioni tedesche di carbone, imposto da Regno Unito e Francia e dall'applicazione del diritto di angheria, il quale prevedeva che Londra e Parigi potessero non solo attaccare il naviglio nemico, ma anche controllare il naviglio neutrale (o non belligerante) e porre sotto sequestro merci e navi neutrali (o non belligeranti) provenienti da una nazione nemica o dirette verso di essa. Dall'agosto al dicembre 1939, infatti, gli inglesi fermarono a Gibilterra e a Suez, con vari pretesti, 847 navi mercantili e passeggeri italiane (cifra poi salita a 1.347 navi al 25 maggio 1940), rallentando fortemente i traffici di qualsiasi merce nel Mar Mediterraneo, arrecando grave danno alla produttività nazionale e peggiorando i rapporti fra Roma e Londra.[39]  Durante l'inverno il Regno Unito fece sapere di essere disposto a vendere carbone all'Italia, ma ad un prezzo stabilito unilateralmente da Londra, senza garanzia sulle tempistiche di consegna e a patto che l'Italia rifornisse di armamenti pesanti Regno Unito e Francia.[40] Siccome l'accettazione di una simile proposta avrebbe comportato il crollo delle relazioni fra Italia e Germania e una sicura reazione di Hitler, Galeazzo Ciano comunicò il rifiuto del governo italiano. La cronica mancanza di carbone e di approvvigionamenti causata dal blocco navale anglo-francese, però, minava fortemente la stabilità nazionale e rischiava di portare il Paese all'asfissia economica. La Germania intervenne, rifornendo l'Italia del carbone necessario e rendendola così ancora più dipendente da Berlino, anche se la fornitura era molto rallentata perché, per aggirare il blocco marittimo, doveva obbligatoriamente avvenire via rotaie dal passo del Brennero. Per i generi di prima necessità, invece, l'Italia sopperì parzialmente mediante l'estensione delle politiche autarchiche adottate ai tempi della guerra d'Etiopia.[41] Gli esorbitanti costi di gestione dell'Africa Orientale Italiana, uniti ai suoi magri guadagni, stavano però rivelando che la conquista dell'impero era stata più un aggravio che un beneficio per le casse dello Stato.[42] Per quanto riguarda le risorse umane, le truppe italiane risultavano impreparate sotto ogni aspetto: nonostante le «otto milioni di baionette» millantate da Mussolini, la stragrande maggioranza dei soldati italiani non era motivata da alcun odio contro inglesi e francesi, non era addestrata a impieghi specifici come l'assalto a opere fortificate o l'aviotrasporto ed era cronica la mancanza di munizioni, mezzi motorizzati e indumenti adatti.[43]  Il Duce, a conoscenza della crescente ostilità dei tedeschi nei confronti degli italiani,[32] aveva paura di una possibile ritorsione di Hitler vincitore e si era posto il problema di quale sorte, in caso di vittoria tedesca, il Führer avrebbe riservato all'Italia qualora questa si fosse sottratta ai suoi doveri di alleata.[44] Il generale Emilio Faldella, infatti, testimoniò che «più si profilava l'eventualità della vittoria germanica, più Mussolini temeva la vendetta di Hitler».[45] Sulla situazione, poi, pesava la questione dell'Alto Adige, una zona di territorio italiano popolata prevalentemente da abitanti di lingua e cultura tedesca che, nonostante le rassicurazioni sull'inviolabilità dei confini, Hitler avrebbe potuto sfruttare come casus belli, nell'ottica pangermanista di unificare tutte le popolazioni di stirpe germanica, per annettere quel territorio al Reich e per invadere militarmente l'Italia settentrionale.[46]Addirittura, il Duce fu anche sfiorato dall'idea che convenisse cambiare campo e schierarsi con gli anglo-francesi. Il 30 settembre 1939, infatti, alludendo alla scarsità delle riserve di carburante necessarie per la guerra, commentò che, senza tali scorte, non sarebbe stato possibile impegnarsi «né col gruppo A né col gruppo B», facendo perciò supporre che, almeno in linea teorica, il Duce non escludeva a priori un ribaltamento delle alleanze.[47] Spaventato dalla situazione, diffidente nei confronti dei tedeschi e preoccupato da una loro eventuale calata nella Penisola, il successivo 21 novembre Mussolini ordinò il prolungamento difensivo del Vallo Alpino del Littorioanche sul confine con il Reich, nonostante l'alleanza fra Italia e Germania, creando il Vallo Alpino in Alto Adige. La zona, massicciamente fortificata a tempo di record, venne poi soprannominata dalla popolazione locale "Linea non mi fido", con evidente riferimento ironico alla Linea Sigfrido.[48]  Il problema della non belligeranzaModifica  La bandiera da guerra tedesca e la bandiera italiana sventolano insieme Gli esiti della campagna di Polonia, contraddistinta da una serie di impressionanti e fulminee vittorie dei tedeschi, contrastavano con la condizione di non belligeranza italiana, mettendo implicitamente in risalto il fallimento della politica militarista che Mussolini aveva condotto durante tutto il suo governo e dando l'inaccettabile impressione che l'Italia potesse essere considerata, in sede internazionale, come un Paese debole, ininfluente, secondario o codardo.[49]  Il Duce era infatti convinto che, nonostante l'insufficienza militare nostrana, l'Italia non avrebbe potuto astenersi dalla guerra. Secondo il cosiddetto Promemoria segretissimo 328 del 31 marzo 1940,[N 1][50] infatti, l'Italia non poteva restare non belligerante «senza dimissionare dal suo ruolo, senza squalificarsi, senza ridursi al livello di una Svizzera moltiplicata per dieci». Il problema, secondo Mussolini, non consisteva nel decidere se il Paese avrebbe partecipato o no al conflitto, «perché l'Italia non potrà fare a meno di entrare in guerra, si tratta soltanto di sapere quando e come: si tratta di ritardare il più a lungo possibile, compatibilmente con l'onore e la dignità, la nostra entrata in guerra».[49] Nello stesso testo, il Duce tornò a riflettere sull'opportunità di denunciare il Patto d'Acciaio e di schierarsi al fianco di Londra e Parigi, concludendo però che si trattava di una strada non praticabile e che, anche «se l'Italia cambiasse atteggiamento e passasse armi e bagagli ai franco-inglesi, essa non eviterebbe la guerra immediata colla Germania», ritenendo uno scontro con il Reich un'eventualità più disastrosa di un conflitto contro Francia e Regno Unito.[49]  Nonostante ciò Mussolini stesso covava la speranza, ormai flebile, di riuscire ancora a riportare la situazione nell'alveo delle trattative diplomatiche, credendo possibile una sorta di ripetizione della conferenza di Monaco del 1938. Per alcuni mesi il Duce restò infatti dubbioso fra tre possibili alternative:[51] fungere da mediatore in una riconciliazione per via negoziale fra tedeschi e anglo-francesi, in modo da ottenere da tutti qualche sorta di ricompensa, oppure rischiare e scendere in guerra al fianco della Germania (ma solo quando quest'ultima sarebbe stata a un passo dalla vittoria finale), oppure condurre una sorta di guerra parallela a quella della Germania, in piena autonomia da Hitler e con obiettivi limitati ed esclusivamente italiani, che gli avrebbe consentito di sedersi al tavolo dei vincitori e di raccogliere qualche guadagno con il minimo sforzo, essendo costretto a centellinare le poche risorse disponibili,[52] e senza perdere la faccia.[53]  Scartata la prima ipotesi, dal momento che le richieste di trattative avanzate da Hitler erano state respinte, Mussolini si orientò allora sulla seconda e sulla terza, in realtà strettamente interconnesse fra loro, maturando questa convinzione almeno già dal 3 gennaio 1940, quando scrisse una lettera al Führer per comunicargli che l'Italia avrebbe preso parte al conflitto, ma solo nel momento che avrebbe ritenuto più favorevole:[54] non troppo presto per evitare una guerra logorante, e non troppo tardi da arrivare ormai a cose fatte.[55] Nella stessa lettera, però, nonostante l'impegno a entrare in guerra, Mussolini dimostrò di nuovo la propria titubanza, suggerendo contraddittoriamente a Hitler di trovare un accomodamento pacifico con Parigi e Londra, in quanto «non è sicuro che si riesca a mettere in ginocchio gli alleati franco-inglesi senza sacrifici sproporzionati agli obiettivi».[56] Il 10 marzo 1940, dopo un incontro con il ministro degli esteri tedesco Ribbentrop, il Duce confermò questa linea, come risulta dal contenuto di una sua telefonata con Claretta Petacci intercettata dagli stenografi del Servizio Speciale Riservato.[N 2] Nella telefonata, Mussolini parlò dell'eventuale entrata dell'Italia in guerra come di un fatto ineludibile, senza però precisare come e quando.[57]  I dubbi sul da farsiModifica  Mussolini e Hitler nel 1940 Il 18 marzo Mussolini e Hitler si incontrarono per un colloquio al passo del Brennero. Secondo Galeazzo Ciano, l'obiettivo del Duce era dissuadere il Führer dal proposito di iniziare un'offensiva terrestre contro l'Europa occidentale.[58] L'incontro, invece, finì in un lunghissimo monologo del Cancelliere tedesco, con il Duce che a stento riuscì ad aprire bocca. Fra marzo e aprile Hitler intensificò la sua pressione psicologica su Mussolini, mentre il fronte antitedesco sembrava crollare in una serrata sequenza di vittorie germaniche. Le Forze Armate del Reich, mettendo in atto l'efficace tattica del Blitzkrieg, travolsero infatti la Danimarca (9 aprile), la Norvegia (9 aprile-10 giugno), i Paesi Bassi (10-17 maggio), il Lussemburgo (10 maggio), il Belgio (10-28 maggio) e iniziarono l'attacco alla Francia. I vertici militari italiani prevedevano, secondo il generale Paolo Puntoni, la «liquidazione della Francia entro giugno e dell'Inghilterra entro luglio». Le folgoranti vittorie tedesche, unite alle risposte tardive e inefficaci di inglesi e francesi,[59]fecero rimanere gli italiani col fiato sospeso, tutti più o meno consapevoli che dal conflitto sarebbero dipese le sorti dell'Europa e dell'Italia, e causarono in Mussolini una serie di reazioni contrastanti che, «con gli alti e bassi tipici del suo carattere», continuarono ad accavallarsi, rendendolo incapace di prendere una decisione che sapeva di dover prendere, ma alla quale cercava di sottrarsi.[60] A chi gli chiedeva un parere sull'eventualità che l'Italia restasse fuori dal conflitto, Mussolini, riferendosi all'attacco tedesco in corso in quei mesi, rispondeva che: «se gli inglesi e i francesi reggono il colpo ci faranno pagare non una, ma venti volte, Etiopia, Spagna e Albania, ci faranno restituire tutto con gli interessi».[61]  Il 28 aprile papa Pio XII inviò un messaggio al Duce per convincerlo a restare fuori dal conflitto. Galeazzo Ciano, riferendosi al messaggio, annotò sul suo diario che: «l'accoglienza di Mussolini è stata fredda, scettica, sarcastica».[62] Il 6 maggio il re Vittorio Emanuele III, accennando alla «macchina militare ancora debolissima», sconsigliò l'entrata in guerra, raccomandando al Duce di rimanere nella posizione di non belligeranza il più a lungo possibile.[63]Contemporaneamente la diplomazia europea si impegnò per evitare che Mussolini scendesse in campo al fianco della Germania: per impreparata che fosse l'Italia, il suo apporto rischiava di essere decisivo per piegare la resistenza francese e avrebbe potuto creare grosse difficoltà anche al Regno Unito. Il 14 maggio, su insistenza francese, il presidente degli Stati Uniti d'America Franklin Delano Rooseveltindirizzò al Duce un messaggio dai toni concilianti, il quarto da gennaio, per dissuaderlo dall'entrare in guerra. Due giorni dopo anche il primo ministro inglese Winston Churchill seguì l'esempio, ma con un messaggio più intransigente, in cui avvertiva che il Regno Unito non si sarebbe sottratto alla lotta, qualunque fosse stato l'esito della battaglia sul continente. Il 26 maggio partì un quinto messaggio di Roosevelt al Duce.[64]  Tutte le risposte di Mussolini confermarono che voleva rimanere fedele all'alleanza con la Germania e agli "obblighi d'onore" che essa comportava, ma privatamente non aveva ancora raggiunto la certezza sul da farsi.[65] Pur parlando continuamente di guerra con Galeazzo Ciano e con gli altri suoi collaboratori,[66] ed essendo profondamente colpito dai successi tedeschi, almeno fino al 27-28 maggio (se si esclude un'improvvisa convocazione dei tre sottosegretari militari la mattina del 10 maggio) non risulta che il numero dei colloqui con i responsabili delle Forze Armate avesse avuto alcun incremento, e nulla faceva presagire un intervento a breve.[67]  Mentre i francesi si aspettavano un lento avanzare della fanteria tedesca attraverso il Belgio, o al massimo un improbabile attacco frontale contro le fortificazioni della Linea Maginot, circa 2.500 carri armati tedeschi penetrarono in Francia dopo aver attraversato in modo fulmineo la foresta delle Ardenne, una regione collinare caratterizzata da profonde vallate e da fitti arbusti che Parigi riteneva, fino a quel momento, del tutto inadatta a essere attraversata da carri armati. Alla sorpresa di un'azione tatticamente così brillante seguì il rapido e totale collasso delle Forze Armate francesi, che fece nascere la convinzione, nei vertici militari italiani, che il Regno Unito non sarebbe stato in grado di fronteggiare da solo un attacco tedesco e che sarebbe stato costretto a scendere a patti con Berlino e che gli Stati Uniti non avrebbero avuto la volontà né il tempo utile di impegnarsi direttamente nel conflitto, dato che non lo avevano fatto neanche per salvare la Francia e per servirsi di essa come una testa di ponte sul continente europeo.[68] Inoltre, la maggioranza dell'opinione pubblica statunitense era contraria alla guerra e Franklin Delano Roosevelt, impegnato nella campagna elettorale per le elezioni presidenziali del 1940, non poteva non tenerne conto.[69]  Il direttore dell'OVRA, Guido Leto, dispose la raccolta di indiscrezioni, informazioni riservate e intercettazioni telefoniche per sondare i sentimenti degli italiani nei confronti della guerra, allo scopo di creare uno spaccato il più aderente possibile alla realtà da sottoporre al Duce, che chiedeva un quadro completo della situazione.[70] Secondo tali relazioni, «i nostri informatori segnalarono, prima sporadicamente, poi con maggiore frequenza ed ampiezza, uno stato di timore - che andava diffondendosi rapidamente - che la Germania fosse sul punto di riuscire a chiudere assai brillantemente e da sola la tremenda partita e che, di conseguenza, noi - se pure ideologicamente alleati - saremmo rimasti privi di ogni beneficio per quanto aveva tratto colle nostre aspirazioni nazionali. Che, a causa della nostra prudenza - di cui veniva attribuita la responsabilità a Mussolini - saremmo stati, forse, anche puniti dal tedesco e che, quindi, se ancora in tempo, bisognava bruciare le tappe ed entrare subito in guerra».[71] Leto, inoltre, aggiunse che «pochissime voci, e non certo di politicanti delle due parti avverse e con debolissimi echi nel paese, si levarono ad ammonire sulle tremende incognite che la situazione presentava».[71]  In questo clima, perciò, anche Mussolini si convinse che l'Italia potesse «arrivare tardi», in quanto era opinione comune[72] che il Regno Unito avesse i giorni contati e che la conclusione della guerra fosse ormai prossima.[73] A nulla servirono le opposizioni del re e di Pietro Badoglio, motivate dall'impreparazione del Regio Esercito e da un giudizio prudente sulle vittorie tedesche in Francia.[74] Il sovrano, inoltre, pose l'accento sull'importanza che avrebbe potuto avere nel conflitto un eventuale intervento armato statunitense, che sarebbe stato foriero di numerose incognite.[75] Dello stesso avviso era anche il principe ereditario Umberto di Savoia. Galeazzo Ciano scrisse nel suo diario: «Vedo il Principe di Piemonte. È molto antitedesco e convinto della necessità di rimanere neutrali. Scettico, impressionantemente scettico sulle possibilità effettive dell'esercito nelle attuali condizioni, che giudica pietose, di armamento».[76]  Secondo Mussolini, invece, le rapide vittorie tedesche erano il presagio dell'imminente fine della guerra, per cui l'insufficienza effettiva delle Forze Armate italiane assumeva ormai un'importanza trascurabile.[77]Accanto al suo timore che l'Italia non avrebbe ricevuto alcun beneficio nella futura conferenza di pace qualora il conflitto fosse terminato prima dell'intervento nostrano,[61] nacque in Mussolini la convinzione che gli fosse necessario «solo un pugno di morti»[78] per potersi sedere al tavolo dei vincitori e per avere diritto a reclamare parte dei guadagni, senza la necessità di un esercito preparato e adeguatamente equipaggiato in una guerra che, secondo l'opinione pubblica nella tarda primavera del 1940,[59] sarebbe durata ancora solo poche settimane e il cui destino era già scritto in favore della Germania.[75][79]  L'entrata in guerra dell'ItaliaModifica Ultimi tentativi di mediazioneModifica  Il presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt A fine maggio, nei giorni in cui i tedeschi vincevano la battaglia di Dunkerque contro gli anglo-francesi e il re del Belgio Leopoldo III firmava la resa del proprio paese, il Duce si convinse che fosse arrivato il «momento più favorevole» che attendeva da gennaio ed ebbe una decisiva virata verso l'intervento: il 26 ricevette una lettera dal Führer che lo sollecitava a intervenire e, contemporaneamente, un rapporto inviato a Roma dall'ambasciatore italiano a Berlino Dino Alfieri, che era succeduto a Bernardo Attolico, su un suo colloquio con Hermann Göring. Quest'ultimo aveva suggerito all'Italia di entrare in guerra quando i tedeschi avessero «liquidata la sacca anglo-franco-belga», situazione che si stava verificando proprio in quei giorni. Entrambi produssero nel dittatore una forte impressione, tanto che Ciano annotò nel proprio diario che Mussolini «si propone di scrivere una lettera ad Hitler annunciando il suo intervento per la seconda decade di giugno». Ogni settimana, di fronte all'ampiezza della vittoria tedesca, poteva essere quella decisiva per la fine della guerra e l'Italia, secondo Mussolini, non poteva farsi trovare non in armi.[80]  Lo stesso giorno, in un estremo tentativo di scongiurare la partecipazione italiana al conflitto, il primo ministro inglese Winston Churchill aveva, previo accordo con il suo omologo francese Paul Reynaud, inviato al presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt la bozza di un accordo, che quest'ultimo avrebbe dovuto successivamente trasmettere al Duce. Secondo tale documento, conservato presso i National Archives di Londra con il nome Suggested Approach to Signor Mussolini, Regno Unito e Francia ipotizzavano la vittoria finale della Germania e chiedevano a Mussolini di moderare le future richieste di Hitler.[81] Nello specifico, secondo questa proposta di accordo, Londra e Parigi promettevano di non aprire alcun negoziato con Hitler qualora quest'ultimo non avesse ammesso il Duce, nonostante la mancata partecipazione italiana al conflitto, alla futura conferenza di pace in posizione uguale a quella dei belligeranti.[81]  Inoltre, Churchill e Reynaud si impegnavano a non ostacolare le pretese italiane alla fine della guerra (che principalmente consistevano, in quel momento, nell'internazionalizzazione di Gibilterra, nella partecipazione italiana al controllo del Canale di Sueze in acquisizioni territoriali nell'Africa francese).[81]Mussolini, però, in cambio avrebbe dovuto garantire di non aumentare successivamente le proprie richieste, avrebbe dovuto salvaguardare Londra e Parigi frenando le pretese di Hitler vincitore, avrebbe dovuto revocare la non belligeranza e dichiarare la neutralitàitaliana e avrebbe dovuto mantenere tale neutralità per tutta la durata del conflitto. Roosevelt si dichiarò personalmente garante per il futuro rispetto di tale accordo.[82] Il 27 maggio l'ambasciatore degli Stati Uniti a Roma, William Phillips, recò a Galeazzo Ciano la missiva, indirizzata a Mussolini, con il testo dell'accordo.[83] Lo stesso giorno il governo di Parigi, per rendere la proposta di Roosevelt ancora più allettante, mediante l'ambasciatore francese in ItaliaAndré François-Poncet fece sapere al Duce di essere disponibile a trattare «sulla Tunisia e forse anche sull'Algeria».[81]  Secondo lo storico Ciro Paoletti, «Roosevelt prometteva per un futuro incerto e lontano. Sarebbe stato in grado di mantenere? E se per allora non fosse stato più presidente? L'Italia aveva già avuto in passato, nel 1915 e negli anni seguenti, delle notevoli promesse, poi non mantenute a Versailles nel 1919, come ci si poteva fidare? Mussolini doveva scegliere fra le promesse a lunga scadenza, fatte per di più da un presidente che di lì a sei mesi doveva presentarsi alla rielezione, e le possibilità vicine, concrete, date da una Francia al collasso, da un'Inghilterra allo stremo e dalla paura di cosa avrebbe potuto fargli subito dopo la ormai certa vittoria in Francia - e assai prima di qualsiasi intervento americano - una Germania trionfante».[82] Secondo gli storici Emilio Gin ed Eugenio Di Rienzo, inoltre, il Duce non avrebbe mai accettato di sedersi al futuro tavolo delle trattative di pace, accanto a un Hitler trionfante, solo "per concessione" degli Alleati, senza aver combattuto, in quanto la sua figura in sede internazionale ne sarebbe uscita debolissima e la sua autorità, paragonata a quella del Führer, sarebbe stata del tutto irrilevante.[81]Galeazzo Ciano, nel suo diario, alla data del 27 maggio riportò infatti che Mussolini «se pacificamente potesse avere anche il doppio di quanto reclama, rifiuterebbe».[84] La risposta a William Phillips, infatti, fu negativa.[83]  Gli atti formali e l'annuncio pubblicoModifica  La folla, radunata di fronte a Palazzo Venezia, assiste al discorso sulla dichiarazione di guerra dell'Italia a Francia e Gran Bretagna Il 28 maggio il Duce comunicò a Pietro Badoglio la decisione di intervenire contro la Francia e, la mattina successiva, si riunirono a Palazzo Venezia i quattro vertici delle Forze Armate, Badoglio e i tre capi di Stato Maggiore (Rodolfo Graziani, Domenico Cavagnari e Francesco Pricolo): in mezz'ora tutto fu definitivo. Mussolini comunicò ad Alfieri la sua decisione[85] e il 30 maggio annunciò ufficialmente a Hitler che l'Italia sarebbe entrata in guerra mercoledì 5 giugno.[86] Mesi prima, in realtà, il Duce aveva ipotizzato un'entrata in guerra per la primavera 1941, data poi avvicinata al settembre 1940 dopo la conquista tedesca di Norvegia e Danimarca e ulteriormente accorciata dopo l'invasione della Francia, fatto che faceva presagire un'ormai imminente fine del conflitto.[55] Il 1º giugno il Führer rispose, chiedendo di posticipare di qualche giorno l'intervento per non costringere l'esercito tedesco a modificare i piani in corso di attuazione in Francia.[87]Il Duce si mostrò d'accordo, anche perché il rinvio gli permetteva di completare gli ultimi preparativi. In un messaggio del 2 giugno, però, l'ambasciatore tedesco a Roma Hans Georg von Mackensen comunicò a Mussolini che la richiesta di posticipare l'azione era stata ritirata e, anzi, la Germania avrebbe gradito un anticipo.[88]  Il Duce, tramite il generale Ubaldo Soddu, chiese a Vittorio Emanuele III che gli venisse ceduto il comando supremo delle forze armate che, in base allo Statuto Albertino, era detenuto dal sovrano. Secondo Galeazzo Ciano il re avrebbe opposto notevole resistenza, finendo con il concordare una formula di compromesso: il comando supremo sarebbe rimasto in capo a Vittorio Emanuele III, ma Mussolini lo avrebbe gestito in delega. Il 6 giugno il Duce, scontento di questa soluzione e irritato dalla difesa del sovrano delle proprie prerogative statutarie, sbottò: «Alla fine della guerra dirò a Hitler di far fuori tutti questi assurdi anacronismi che sono le monarchie».[89] Volendo evitare l'entrata in guerra venerdì 7 giugno, data che era stata superstiziosamente considerata di cattivo auspicio,[90]si giunse a lunedì 10 giugno. Galeazzo Ciano fece convocare per le 16:30 a Palazzo Chigi l'ambasciatore francese André François-Poncet e, secondo la prassi diplomatica, gli lesse la dichiarazione di guerra, il cui testo recitava: «Sua Maestà il Re e Imperatore dichiara che l'Italia si considera in stato di guerra con la Francia a partire da domani 11 giugno». Alle 16:45 dello stesso giorno venne ricevuto da Ciano l'ambasciatore britannico Percy Loraine, che ascoltò la lettura del testo: «Sua Maestà il Re e Imperatore dichiara che l'Italia si considera in stato di guerra con la Gran Bretagna a partire da domani 11 giugno».[91]  Entrambi gli incontri si svolsero, secondo i diari di Galeazzo Ciano, in un clima formale, ma di reciproca cortesia. L'ambasciatore francese avrebbe detto che considerava la dichiarazione di guerra come un colpo di pugnale a un uomo già a terra, ma che si aspettava una tale situazione già da due anni, dopo la firma del Patto d'Acciaio fra Italia e Germania, e che comunque nutriva stima personale per Ciano e non poteva considerare gli italiani come nemici.[N 3][92]L'ambasciatore inglese, invece, sempre secondo Ciano avrebbe partecipato all'incontro restando imperturbabile, limitandosi a domandare educatamente se quella che stava ricevendo dovesse essere considerata un preavviso o la vera e propria dichiarazione di guerra.[93]  Preceduto dal vicesegretario del Partito Nazionale Fascista Pietro Capoferri, che ordinò alla folla il saluto al Duce, alle 18:00 dello stesso giorno Mussolini, indossando l'uniforme da primo caporale d'onore della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, di fronte alla folla radunatasi in Piazza Venezia, annunciò, con un lungo discorso trasmesso anche via radio nelle principali città italiane, che «l'ora delle decisioni irrevocabili» era scoccata, mettendo al corrente il popolo italiano delle avvenute dichiarazioni di guerra.[94]  Di seguito, l'incipit e explicit del discorso: «Combattenti di terra, di mare, dell'aria. Camicie nere della rivoluzione e delle legioni. Uomini e donne d'Italia, dell'Impero e del Regno d'Albania. Ascoltate! Un'ora, segnata dal destino, batte nel cielo della nostra patria. L'ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. [...] La parola d'ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed accende i cuori dalle Alpi all'Oceano Indiano: vincere! E vinceremo, per dare finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all'Italia, all'Europa, al mondo. Popolo italiano! Corri alle armi e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo valore!».[95]  Le reazioni dell'opinione pubblicaModifica  La prima pagina de Il Popolo d'Italia dell'11 giugno 1940 La notizia fu accolta con entusiasmo dai gruppi industriali italiani, che vedevano l'inizio del conflitto come un'occasione per aumentare la produzione e la vendita di armi e macchinari, e da una buona parte dei vertici fascisti, nonostante le più alte personalità del regime avessero in precedenza espresso scetticismo sull'intervento italiano e avessero abbracciato la linea di condotta tracciata da Mussolini il 31 marzo 1940, che prevedeva di entrare in guerra il più tardi possibile allo scopo di evitare un conflitto lungo e insopportabile per il Paese. In ogni caso, fra le personalità che avevano espresso dubbi - se non veri e propri atteggiamenti ostili - sull'intervento militare italiano, nessuna palesò pubblicamente la propria opposizione al conflitto e sulla scrivania del Capo del Governo non vennero recapitate lettere di dimissioni.  La stampa italiana, condizionata da censura e controllo imposti dal regime fascista, diede la notizia con grande enfasi, utilizzando titoli a caratteri cubitali che facevano uso entusiasta di citazioni del discorso e manifestavano completa adesione alle decisioni prese:[96]  «Corriere della Sera: Folgorante annunzio del Duce. La guerra alla Gran Bretagna e alla Francia. Il Popolo d'Italia: POPOLO ITALIANO CORRI ALLE ARMI! Il Resto del Carlino: Viva il Duce Fondatore dell'Impero. GUERRA FASCISTA. L'Italia in armi contro Francia e Inghilterra. Il Gazzettino: Il Duce chiama il popolo alle armi per spezzare le catene del Mare nostro. L'Italia: I dadi sono gettati. L'ITALIA È IN GUERRA. La Stampa: Il Duce ha parlato. La dichiarazione di guerra all'Inghilterra e alla Francia. Bertoldo: Londra non sarà piena di tedeschi, ma fra poco sarà piena di italiani.»  L'unica voce critica che si levò, oltre ai giornali clandestini, fu quella de L'Osservatore Romano: «E il duce (abbagliato) salì sul treno in corsa». Questo titolo fu accolto con grande disappunto dai vertici italiani, tanto che Roberto Farinacci, segretario del partito fascista, in un commento alla stampa affermò che: «La Chiesa è stata la costante nemica dell'Italia».[96]  Il capo dell'OVRA, Guido Leto, prendendo atto della reazione dell'opinione pubblica italiana, riferì che: «Come nell'agosto del 1939 la polizia rilevò e riferì il quasi unanime dissenso del paese verso un'avventura bellica, così nella primavera del 1940 essa segnalò il rovesciamento della pubblica opinione presa da un ossessionante timore di arrivare tardi. E nel primo e nel secondo tempo operò come un termometro: non determinò, né influenzò, né menomamente alterò la temperatura del paese, ma semplicemente la misurò».[71] Hitler, venuto a conoscenza dell'annuncio pubblico, inviò immediatamente due telegrammi di solidarietà e ringraziamento, uno indirizzato a Mussolini e uno a Vittorio Emanuele III, anche se, privatamente, espresse delusione per le scelte del Duce, in quanto avrebbe preferito che l'Italia attaccasse a sorpresa Malta e altre importanti posizioni strategiche inglesi anziché dichiarare guerra a una Francia già sconfitta.[N 4][95]  In sede internazionale l'intervento italiano contro la Francia fu visto come un gesto vile, al pari di una pugnalata alle spalle,[97] in quanto l'esercito francese era già stato messo in ginocchio dai tedeschi e il suo comandante supremo, il generale Maxime Weygand, aveva già impartito ai comandanti delle forze superstiti l'ordine di ritirarsi per mettere in salvo il maggior numero possibile di unità.[98] Il giudizio di Churchillsull'ingresso dell'Italia nel conflitto bellico e sull'operato di Mussolini fu affidato al commento pronunciato a Radio Londra:[99] «Questa è la tragedia della storia italiana. E questo è il criminale che ha tessuto queste gesta di follia e vergogna». Quando venne raggiunto dalla notizia dell'intervento italiano contro un nemico ormai sconfitto, il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt rilasciò a Charlottesville una dura dichiarazione radiofonica:[100]«In questo 10 giugno, la mano che teneva il pugnale l'ha affondato nella schiena del suo vicino».  Piani di guerraModifica  L'entrata in guerra fu la notizia principale su tutti i quotidiani italiani dell'11 giugno 1940 I preparativi bellici italiani erano stati delineati dallo Stato Maggiore dell'esercito nel febbraio 1940 e prevedevano una condotta strettamente difensiva sulle Alpi Occidentali ed eventuali azioni offensive (da iniziare solamente in condizioni favorevoli) in Jugoslavia, Egitto, Somalia francese e Somalia britannica. Si trattava di indicazioni di massima per la dislocazione delle forze disponibili, non di piani operativi, per i quali veniva lasciata al Duce piena libertà di improvvisazione.[101] I vertici militari riconobbero l'inadeguatezza del Paese ad affrontare una guerra ma, allo stesso tempo, non presero posizione dinanzi all'intervento, ribadendo la loro totale fiducia in Mussolini.[102] L'approccio del Duce al conflitto appena iniziato dall'Italia si concretizzò in direttive più o meno frammentarie, che egli indirizzava ai vertici militari: furono formulate richieste di operazioni nei teatri più disparati, mai trasformatesi in scelte precise e piani concreti. Venivano a mancare, in questo quadro, una strategia complessiva e di ampio respiro, obiettivi reali e un'organizzazione razionale della guerra.[102]  Ciò fu evidente fin da subito, quando, il 7 giugno, lo Stato Maggiore Generale notificò che: «A conferma di quanto comunicato nella riunione dei Capi di Stato Maggiore tenuta il giorno 5 ripeto che l'idea precisa del Duce è la seguente: tenere contegno assolutamente difensivo verso la Francia sia in terra che in aria. In mare: se si incontrano forze francesi miste a forze inglesi, si considerino tutte forze nemiche da attaccare; se si incontrano solo forze francesi, prendere norma dal loro contegno e non essere i primi ad attaccare, a meno che ciò ponga in condizioni sfavorevoli». In base a quest'ordine la Regia Aeronautica ordinò di non effettuare alcuna azione offensiva, ma solo di compiere ricognizioni aeree mantenendosi in territorio nazionale,[103] e altrettanto fecero il Regio Esercito e la Regia Marina, la quale non aveva intenzione di uscire dalle acque nazionali salvo per il controllo del canale di Sicilia, ma senza garantire le comunicazioni con la Libia.[104]  Come preannunciato nella corrispondenza con il governo tedesco,[105] dall'11 giugno le truppe italiane cominciarono le operazioni militari al confine francese in vista della pianificata occupazione delle Alpi occidentali ed effettuarono bombardamenti aerei, di carattere puramente dimostrativo, su Porto Sudan, Aden e sulla base navale inglese di Malta. L'alto comando delle operazioni venne affidato al generale Rodolfo Graziani, un ufficiale esperto in guerre coloniali contro nemici inferiori per numero e per mezzi, che non aveva mai avuto il comando su un fronte europeo[106] e che non aveva alcuna familiarità con la frontiera occidentale.[107]  I vertici militari italiani, costretti a centellinare le poche risorse disponibili, decisero di muovere le truppe solo in concomitanza con i movimenti dei tedeschi:[108]l'aggressione alla Francia avvenne infatti solo quando la Germania l'aveva già praticamente sconfitta, poi ci fu un periodo di inattività italiana contemporaneo all'inattività tedesca nell'estate 1940, poi le azioni italiane ripresero quando la Germania iniziò la pianificazione dell'aggressione al Regno Unito. Secondo lo storico Ciro Paoletti: «Ogni volta che i Tedeschi si muovevano poteva essere quella decisiva per la fine vittoriosa del conflitto; e l'Italia doveva farsi trovare impegnata quel tanto che bastasse a dire che anch'essa aveva combattuto lealmente e godeva il diritto di sedersi al tavolo dei vincitori».[109]L'atteggiamento dell'Italia, che «entrava in guerra senza essere attaccata» né sapeva dove attaccare,[110] e che «addensava le truppe alla frontiera francese perché non aveva altri obiettivi»,[110] venne sintetizzato dal generale Quirino Armellini con la massima: «Intanto entriamo in guerra, poi si vedrà».[111]  NoteModifica Note al testo ^ Il Promemoria segretissimo 328 era una relazione, stilata da Mussolini il 31 marzo 1940, con destinatari Vittorio Emanuele III, Galeazzo Ciano, Pietro Badoglio, Rodolfo Graziani, Domenico Cavagnari, Francesco Pricolo, Attilio Teruzzi, Ettore Muti e Ubaldo Soddu. cfr. Il «promemoria segretissimo» relativo ai piani di guerra redatto da Benito Mussolini, su larchivio.com. URL consultato il 28 dicembre 2018. ^ Il Servizio Speciale Riservato era un organo, istituito ai tempi di Giovanni Giolitti, per tenere sotto controllo le principali personalità del Paese. ^ Diversa, invece, la versione su toni e parole data dall'ambasciatore francese: «E così, avete aspettato di vederci in ginocchio, per accoltellarci alle spalle. Se fossi in voi non ne sarei affatto orgoglioso», e Ciano avrebbe risposto, arrossendo: «Mio caro Poncet, tutto questo durerà l'espace d'un matin. Ben presto ci ritroveremo tutti davanti a un tavolo verde», riferendosi a un futuro tavolo delle trattative al termine del conflitto. cfr. Niente pugnale alla schiena Archiviato il 15 settembre 2016 in Internet Archive., in Il Tempo, 10 giugno 2009. URL consultato il 28 dicembre 2018. ^ Di seguito i testi dei due telegrammi, qui fedelmente riportati secondo le fonti reperibili. cfr. La Dichiarazione di Guerra di Mussolini, su storiaxxisecolo. URL consultato il 30 dicembre 2018.   Berlino, 10/6/40, telegramma di Hitler al Re  La provvidenza ha voluto che noi fossimo costretti contro i nostri stessi propositi a difendere la libertà e l'avvenire dei nostri popoli in combattimento contro Inghilterra e Francia. In quest'ora storica nella quale i nostri eserciti si uniscono in fedele fratellanza d'armi, sento il bisogno d'inviare a Vostra Maestà i miei più cordiali saluti. Io sono della ferma convinzione che la potente forza dell'ITALIA e della GERMANIA otterrà la vittoria sui nostri nemici. I diritti di vita dei nostri due popoli saranno quindi assicurati per tutti i tempi.   Berlino, 10/6/40, telegramma di Hitler a Mussolini Duce, la decisione storica che Voi avete oggi proclamato mi ha commosso profondamente. Tutto il popolo tedesco pensa in questo momento a Voi e al vostro Paese. Le forze armate germaniche gioiscono di poter essere in lotta al lato dei camerati italiani. Nel settembre dell'anno scorso i dirigenti britannici dichiararono al Reich la guerra senza un motivo. Essi respinsero ogni offerta di un regolamento pacifico. Anche la Vostra proposta di mediazione si ebbe una risposta negativa. Il crescente sprezzo dei diritti nazionali dell'ITALIA da parte dei dirigenti di Londra e di Parigi ha condotto noi, che siamo stati sempre legati nel modo più stretto attraverso le nostre Rivoluzioni e politicamente per mezzo dei trattati, a questa grande lotta per la libertà e per l'avvenire dei nostri popoli. 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Voci correlateModifica Battaglia delle Alpi Occidentali Lista del molibdeno Occupazione italiana della Francia meridionale Storia del Regno d'Italia Italia nella seconda guerra mondiale Altri progettiModifica Collabora a Wikisource Wikisource contiene il testo completo del carteggio del 1940 fra Hitler e Mussolini contiene il testo completo della dichiarazione di guerra dell'Italia a Gran Bretagna e Francia Istituto Nazionale Luce. La dichiarazione di guerra alla Francia e alla Gran Bretagna: il discorso di Mussolini, su patrimonio.archivioluce. Portale Guerra   Portale Italia   Portale Seconda guerra mondiale   Portale Storia Ultima modifica 23 giorni fa di Franz van Lanzee PAGINE CORRELATE Patto d'Acciaio accordo di reciproco aiuto politico, diplomatico e militare tra i governi del Regno d'Italia e della Germania nazista  Lista del molibdeno richiesta italiana di materiale bellico nella II guerra mondiale  Memoriale Cavallero. Roberto Cordeschi. Cordeschi. Keywords: la logica della guerra, la guerra del fascismo, Croce, sperimentalismo italiano, mente, homo mechanicus, Turing, Craik, artificiale e naturale, filosofia, rappresentare il concetto, logica matematica, reiezione in Aristotele, predicate, significato, communicazione, creativita, informazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cordeschi” – The Swimming-Pool Library. Cordeschi.

 

Grice e Corleo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Salemi). Filosofo italiano. Grice: “Corleo is a genius --  His keyword is identity, the Hegelian type, and that’s why he attracted Gentile’s attention! But my favourite is his excursus on language! He talks like a veritable Griceian – about ‘intenzione’ and ‘pre-convezione’ – and the spontaneous cry to seek attention, Romolo from Remo, say – He very much elaborates on the subject and the predicate and the copula, and the other parts of speech – But he retains an empiricist, evolutionary viewpoint with which I wholly agree!” Studia nel Seminario vescovile di Mazara del Vallo, laureandose a Palermo. Crea un seminario di psicologia filosofica. Liberale, aderì alla rivoluzione siciliana. Su saggio, “Progetto per una adeguata costituzione siciliana”.  Durante la spedizione dei mille, fu nominato da Garibaldi governatore di Salemi – Saggio: “Garibaldi e i Mille”. Saggio: “Storia dell’enfiteusi dei terreni ecclesiastici in Sicilia”. Diviene conte di Salemi.  Altre opere: “Meditazioni filosofiche”; “Il sistema della filosofia universale; ovvero, la filosofia dell’identità”; “Per la filosofia morale”; “Lezioni di filosofia morale”. Dizionario biografico degli italiani. La regola d'identità, dipendente dall’esperienza e dal concetto appartene a qualunque specie di giudizio, giudizio affermativo (S e P) o giudizio negativo -- S non e P -- , giudizio condizionale -- Se p, q -- , giudizio tetico -- S e P --  giudizio ipotetico -- si p, q --, giudizio disgiuntivo -- p v q --  e via via. Poichè,ogni proposizione o giudizio, semplice or complessa, debbe congiungere un predicate ad un soggetto -- S e P -- o negare un predicato ad un soggetto -- S non e P --, e ciò non può farsi altrimenti che in forza della identità parziale o totale del predicato stesso col soggetto, ovvero del contrario o contrapposto del predicato in caso di giudizio negativo, sia cotesta identità assoluta, o sperimentale, sotto condizione, problematica, o in forma disgiuntiva. Il raciocinio è un complesso di giudizi che serve a scoprire una verità incognita per mezzo di una verità nota, o a dimostrare il nesso ignoto tra due verità conosciute. Onde il raciocinio deve esser fodato sulla medesima legge d'identità, che costituisce l'essenza dei giudizi di cui è composto. Ogni passaggio da una verità ad un'altra, da un giudizio ad un altro, è giustificato dalla connessione che deve esistere tra loro. Se connessione non vi è, non si può dall'uno inferir l'altro, non vi è passaggio legittimo o accettabile dal noto all'ignoto, e molto meno si può scoprire il nesso incognito tra due veri conosciuti. Or, questa stessa connessione non è che effetto d'identità. Parrà strano che la connessione si debba risolvere anch'essa in identità; ma riflettendo con attenzione, si scorge chiaro che in fondo è così, nè può essere altrimenti. Se S è connesso con P, ciò non importa che S sia identico con P, ma importa invece che ambidue sieno identici con S-P, cioè, che sieno parti integranti del tutto S-P, di guisa che la loro connessione non *significa* o signa altro, che il loro legame necessario per la formazione di quel tutto complesso proposizionale – “S e P” -- onde se essi non fossero con nessi a comporre il tutto S-P, quel tutto non sarebbe mai quello che è, non sarebbe identico alla somma delle parti che lo costituiscono. Due o più giudizi, tra loro connessi, sono parti integranti di un giudizio di maggiore estensione che tutti li abbraccia, ed è identico con essi come il tutto è identico con la somma delle sue parti. Laonde non può esser vero l'uno senza che sia vero l'altro, perocchè in diverso non sarebbe vero quel giudizio maggiore che risulta dalla verità di tutti i giudizi subalterni dai quali è costituito. Se, per cagion d'esempio, prendiamo ad esaminare ogni teorema geometrico intorno alle proprietà del “triangolo” in genere e delle varie sue specie, scorgiamo tosto che vi ha una continua connessione tra cotesti teoremi, nè puo uno esser vero se non sieno veri tutti gli altri di seguito; onde essi si dimo strano a vicenda. La ragione di ciò è semplicissima. Essi non sono che le parti necessarie di un solo tutto, del concetto di triangolo e delle sue specie subalterne, e tutti più o meno mediatamente in quel concetto complessivo sono compresi. Pertanto non vi ha che un identico totale (talora nemmeno avvertito ), il quale, per esser quello che è, ha bisogno che ciascuna delle sue parti sia quella che è, e che tutte insieme concorrano con unità di nesso a costituirlo, come le parti si debbon legare fra loro per unirsi nella identità di un sol tutto. Metto una grande importanza in queste osservazioni sul raziocinio e sulla connessione (consequenza logica) de' suoi membri; poichè l'unica che sembrerebbe scappare dalla rigorosa legge della identità sarebbe la connessione tra i giudizi diversi (premessa e conclusion), di cui consta un ragionamento. Eppure, quella connessione non è altro che il frutto dell'identità totale di un giudizio maggiore e più esteso, il quale abbraccia come sue parti necessarie ogni giudizio subalterno; e quelli sono per l'appunto connessi, perchè tutti in sieme formano un solo e identico giudizio di più larga estensione. Nè fa d'uopo che nel ragionare si abbia presente quel giudizio maggiore, nel quale si congiungono con identità totale i giudizi connessi. Esso opera senza che il ragionatore lo sappia, poichè è virtù dell'identico totale riunire per necessità le parti fra di lor, senza di cui egli non potrebbe esser quello che è. Ciò sapendo, chi ragiona può benissimo salire dai veri connessi a quel vero più ampio che tutti li abbraccia e nella sua unità totale li identifica. Sarà questo un sistema più completo di ragionare, perocchè non ci contenteremo di scorgere il nesso tra parecchi giudizi, di procedere per mezzo di tal nesso alla scoperta di un giudizio novella e di dire che uno essendo vero, tutti gli altri debbono pure esser veri; ma cercheremo ancora in qual giudizio plenario e più esteso essi tutti vadano a connettersi per la identità di unico comune risultato. In ciò consiste l'analiticita logica. Il raciocinio analitico ercano la dimostrazione dei teoremi singoli o la risoluzione dei singoli problemi nella proprietà, o nella funzioni e simili, che sono appunto i giudizii più ampli e plenary, nei quali tutti quei singoli s'identificano come parti di un sol tutto. Nella parte logica la connessione non è che l'identità del tutto più ampio con le sue parti subalterne, senza il cui necessario legame egli non risulterebbe quello che è. Il ragionamento è dimostrativo, quando serve a chiarire il nesso tra verità e verità. Dimostrare niente altro è che legare tra loro i giudizi come connessi, e la connessione pertanto vi è, perchè i loro rispettivi subbietti, quand'anco non si sappia, si raggruppano in unico e identico subbietto più esteso che tutti li abbraccia come tante sue parti: onde vi ha passaggio, dalla identità parziale di un predicato P col suo soggetto S, all'identità parziale dell'altro predicato P2 con l'altro suo soggetto S2, e così di seguito; perocchè essi tutti costituiscono un solo subbietto più esteso, che di tutti quei predicati si compone, e che perciò è identico con la loro somma. Un subbietto subalterno non potrebbe concorrere alla costituzione del subbietto totale, se non possedesse quel tale predicato e se gli altri subalterni non possedessero quelli altri predicati; onde la connessione fra tutti, se è vero l'uno, debbono esser veri gli altri, ed *implicitamente* deve esser vero il giudizio totale, con cui tutti s'identificano. È inventivo e non dimostrativo il raziocinio, quando, dalla verità che si conosce, si passa a quella che s'ignora; ed anco in tal caso la ragion del passaggio è fondata sulla connessione, e perciò sulla legge d'identità, in quanto che dalla identità parziale che si conosce, si sospetta prima e poi si scopre la identità totale. Per causa di alcuni punti d'identità o di parziali somiglianze tra un fenomeno ed un altro, si concepisce la *possibile* identità dei loro elementi in un sol tutto, e delle leggi che li governano. In questo caso vi ha l'*ipotesi* o supposizione, che annunzia come *possibile* identico totale quello che tuttora non è che un identico parziale. La conoscenza dei punti, della cui identità bisogna ancora certificarsi, conduce a cercare la medesima identità con quei mezzi, coi quali essa ordinariamente si osserva in altri simili. Ed allora uno dei due, o si giunge all'accertamento della identità di tutti gli elementi essenziali tra un fenomeno e l'altro, tra una legge e l'altra, e si ha perciò l'identità totale, si ha la tesi o posizione; o non si giunge ad accertarla per ostacoli presentemente insuperabili, di cui però dobbiamo renderci conto, e si resta in tal caso nella identità parziale, nella ipotesi o supposizione, pur sapendo quello che manca e perchè manchi, per poterla trasformare in tesi o posizione quando che sia. Tanto il raziocinio dimostrativo, quanto l'inventivo si valgono dell’esperienza concetto; poichè la *testificazione* della identità parziale tra predicato e soggetto di ogni giudizio, che compone un raziocinio, deve esser data dall’esperienza. Se è composto di giudizi sperimentali, risulta pur esso sperimentale; e la connessione dipende dalla loro parziale identità con un giudizio sperimentale di ordine superiore, il quale talvolta nemmeno è conosciuto, ma vi si deve giungere in forza di altre esperienze, come per lo più accade nel raziocinio inventivo. Siccome pero il giudizio sperimentale e tale temporaneamente, cioè fino a tanto che l'identità del predicato P col soggetto S sia solo testificata dall'esperienza, perchè ancora tutti gli elementi di essa non sono conosciuti, nè si ha l'identico concettuale che dovrebbe trasformare in concettuale il giudizio em pirico, così i raziocinî sperimentali, o anco misti, potranno divenire quando che sia raziocinî concettuali, fondati sull'identità assoluta dei concetti, quando cioè l'esperienza, per la perfetta analisi e sintesi delle parti col tutto, si eleva a concetto fisso ed assoluto con la conoscenza degli elementi proporzionali che costituiscono l'identico totale.Vi ha dunque passaggio dalle verità empiriche e dai ragionamenti empirici alle verità assolute ed ai raziocinî concettuali, a misura che la scienza progredisce nel conoscimento delle parti integranti che costituiscono i subbietti dei giudizi sperimentali, ed a misura che essa discopre il nesso tra quei subbietti parziali ed il subbietto più esteso che tutti l'identifica in un complesso solo. È questo il doppio scopo finale dell’uomo: la cognizione concettuale e necessaria dei fatti sperimentali per mezzo degli elementi proporzionali che li costitui scono, e lo svolgimento dei concetti più complessi nei loro con cetti subalterni, che sono del pari i loro elementi costitutivi. Pertanto l'essenza del raziocinio non può essere collocata in una forma piuttosto che in un'altra; essa consiste nel passaggio dalla identità totale alle identità sparziali che la costituiscono, o dalle identità parziali alla totale per mezzo della scoperta di quelle altre identità parziali che sono con loro connesse per compiere l'identità totale. Bisogna dunque assi curarsi, per mezzo dei concetti, della doppia identità delle parti e del tutto per avere ragionamenti rigorosi; e non potendo giungervi per mezzo dei concetti, assicurarsene per mezzo della esperienza. In questi due soli modi è possibile il raziocinio. Chi cura soltanto la forma esteriore del ragionamento e ripone la logica nello studio delle leggi della FORMA LOGICA, non prende di mira lo scopo vero del raziocinio, che è l'accertamento della identità de' giudizi connessi col tutto di cui sono parti; e perciò corre l'aringo di un VUOTO FORMALISMO alla Hilbert, che non è mai garanzia sicura di esatti ragionamenti. Or, perchè mai i subbietti di tali giudizi son dive nuti concettuali e perciò includono necessariamente i loro pre. Tre sono state le più grandi logiche formali. La prima e l’induzione primitiva: quella che argomenta dal particolare al particolare per mezzo di un generale appoggiato ad altri particolari. La seconda, quella che argomenta il generale dai particolari (necessario se i particolari si presentano con caratteri di necessità, empirico se si presentano soltanto come fatti di esperienza) per poter poi discendere dal generale ad altri particolari: il sillogismo di Aristotele preceduto dalla classificazione dei necessari e degli empirici, predicabili e predicamenti, che costituiscono le sue categorie. Terza legge formale: la induzione di Bacone, e quella che ascende dai particolari empirici ai generali pure empirici, adottata da ogni naturalista sensista e positivista. Il sillogismo di Aristotele fu scompagnato dalla sua precedente classificazione categorica per opera dei neoplatonici come Porfirio e BOEZIO, che vollero così conciliare a forza Aristotele con Platone, e poi per opera degli scolastici e dei moderni idealisti. Essi hanno adottato la sola argomentazione dal generale al particolare ponendo il generale come idea, che si afferma da sè per la sua evidenza e pei caratteri di necessità, di universalità e di assolutezza che la distinguono, senza indurre le categorie dalla classificazione dei fatti, come fa Aristotele. Niuna pero di queste argomentazioni formali costituisce da sè un esatto ragionamento: esse sono o inutili allo scoprimento del vero, o pericolose di errore, o tali almeno che non posson menare al concetto scientifico e necessario, perchè non conducono al vero identico totale. Difatti la induzione primitiva argomenta da un particolare all'altro in forza d'identità parziali; e peggio, da un certo numero di particolari, che si somigliano in taluni punti, argomenta il generale. Perchè questa casa fuma, perciò si brucia! E perchè il legno delle nostre cucine fumando si brucia, perciò: OGNI cosa che fuma si brucia! Da somiglianze o identità parziali si vuole argomentare l'identità totale di un fatto con un altro, o anche più, l'identità totale di tutti i fatti che parzialmente si assomigliano. Il sillogismo dei neoplatonici e degli scolastici, conchiudendo dal generale al particolare e ponendo il generale in virtù della luce dell'idea, non trova mai verità nuove. Poichè, s'io dico, che il tutto é maggiore della parte, e percið ne deduco che il libro dicati, mentre altri rimangono soltanto empirici e perciò la identità tra predicato e subbietto dev'essere soltanto attestata dal l'esperienza? Chi fa che taluni giudizi siano concettuali ed altri non? D'altra parte, è poi sicuro che le idee che noi abbiamo siano tutte esatte, e non può accadere che vi si contengano predicati che loro non appartengano veramente, in modo che apparisca una identità necessaria tra predicato e subbietto, mentre essa non è che l'effetto di una inclusione di predicato che veramente nel concetto non deve entrare? Quanto alla formazione di un concetto si deve notare, che essa avviene per opera di astrazione, la quale procede in due modi, o spontaneamente, per effetto d'identica presentazione dei punti identici delle percezioni e di separazione dei diversi, ovvero riflessivamente e volontariamente, cioè per deve esser maggiore di ciascuna pagina, non affermo in conclusione una verità nuova; ma dico due proposizioni, di cui l'una è tanto vera e tanto evidente, quanto è vera ed evidente l'altra, nè vi è affatto ragionamento. Se però il generale è posto in forza di un cumulo di esperienze o di fatti (sia quanto si voglia lungo ed esteso quel cumulo) si corre pericolo di errare; poichè allora dalla similitudine, o dalla identità par ziale che hanno fra loro alcuni fatti, si vuol provare che tutti gli altri, i quali abbiano identità parziali conformi, debbano somigliarli in tutto il resto. È allora una induzione mascherata sotto le forme assolute di un sillogismo. Poichè, una delle due: o il particolare, di cui si cerca, si ebbe già presente nella formazione del generale, o il generale fu formato per gli altri particolari simili, ma senza di lui. Nel primo caso, lungi che il particolare, di cui si cerca, acquisti luce dal generale, è desso che con corre a formarle. Nel second, si ha il solito vizio di argomentare da alcune identità parziali, tra un fatto particolare e gli altri dello stesso genere, alla loro totale identità. Perchè moltissimi esseri che hanno la figura umana hanno la ragione, percio qua lunque selvaggio che presenta la figura umana, deve avere la ragione? La induzione baconiana ha lo stesso difetto, perocchè non potendo raccogliere che un certo numero di fatti particolari, grande quanto pur si voglia, da’ essi soli suo generale, e poi ne argomenta agli altri casi particolari per ragione di parziali somiglianze. Essa inoltre non perviene mai al necessario ed all'assoluto, perchè non giunge alla identità concettuale del tutto cogli elementi che lo costituiscono. Tutto al più, vi giunge come la categorizzazione di Aristotele (che per lui deve precedere il sillogismo), cioè ritiene l'assoluto ed il necessario nel generale, perchè i particolari si presentano anch’essi con tali caratteri di necessità e di assolutezza. Il tutto è necessariamente maggiore della parte, o è assolutamente identico alla somma delle parti, perchè con tale necessità ed assolutezza nei fatti singoli il tutto si presenta in tali rapporti con le sue parti. Non si perviene mai all'identico, si rimane sempre nell'empirico, in tutte coteste forme di ragionare. Come la necessità ed assolutezza dell'idea si accetta empiricamente, perchè essa con tali caratteri si presenta alla coscienza, cosi nelle varie suddette forme di ragionare si rimane pur sempre nel passaggio empirico da identità parziali ad altre parziali, o peggio, ad altre total, senza assicurarne la totale identità. rea analisi che l'uomo fa di proposito sui complessi ancora inde composti delle percezioni, e sugli stessi primi astratti tuttavia decomponibili. Seguendo sempre la regola dell'identico e del di verso, con la quale si forma idee tipiche e concettuali delle parti più salienti delle percezioni, e di quelle altre che, pur connettendosi con le percezioni stesse, non potranno mai divenire oggetto immediato di percezione. Nasce da ciò un doppio ordine di concetti ben distinti, cioè di quelli che si formano spontaneamente e primitivamente per l'identica presentazione dei punti identici delle percezioni e per la spontanea separazione dei diversi, e di quelli altri che da sè non si offrono, ma è neces sario l'uomo se li procuri colla propria riflessione e col proprio studio, cioè con l'applicazione della legge dell'identità nelle analisi ulteriori, e se li trasmetta tradizionalmente per non per derli. Nel primo caso, l'identico tipico del concetto si costituisce da sè spontaneamente, e perciò il predicato si trova tosto incluso nel soggetto concettuale di cui fa parte. Nel secondo, l'identico tipico del concetto riflesso si costituisce mediante la voro mentale, e per lungo tempo, in mancanza dell'idea, è d'uopo ricorrere all'esperienza, affinchè essa testifichi l'identità del predi cato col soggetto, non potendo nel soggetto trovarsi il predicato a prima fronte, sino a tanto che non sorga netta e chiara l'idea in tutte le sue parti costitutive. Nei concetti spontanei e primitivi, formati dalla identificazione tipica dei punti più chiaramente identici delle percezioni, non può esservi pericolo di errore, logicamente parlando; poichè identicamente si presenta e si presenterà sempre ciò che identicamente si presenta, e diversamente il diverso. Onde i concetti fissi, fondati sulla identità logica, e perciò as loluti e necessarî. All'incontro, le idee (concetti riflessi) ela borate dall'uomo, ben vero con la stessa regola della identità, ma composte di elementi ch'egli astrae da gruppi diversi e che egli poi mette insieme, possono per avventura non es sere logicamente esatte; poichè per un momento si fallisca o per disattenzione, o per precipitanza, o per pregiudizi, alla rigorosa regola della identità nel condurre l'analisi riflessa, o nel mettere insieme gli elementi astratti dai gruppi diversi, potrà uscirne un'idea monca ed imperfetta nel primo caso, erronea nel secondo. E quel ch'è peggio, divenuta tipica tale idea che contiene o non contiene il predicato, l'operazione del giudizio o del raziocinio, che verrà a cercarlo in essa, riuscirà difettiva oppure erronea, come difettosa o erronea era l'idea. Difettiva o erronea l'idea (cioè, mancante di elementi necessari, o intrusi in essa elementi che non le convengono), sarà sempre causa di errore nel giudizio ideale che su di essa si fonderà per legge logica d'identità, e conseguentemente nel raziocinio. Nello stesso modo, un'esperienza mal condotta o per difetto o per syista e confusione di una cosa con un'altra, sarà fonte d'errore nel giudizio empirico, e quindi nel ragionamento che da esso prenderà le mosse. Gl’errori di esperimento si correggono con la ripetizione e col controllo di tutti quelli che se ne occupano. Gl’errori però dell'idea debbonsi correggere con un buono ed accurato esame ideologico, al quale debbono collaborare tutti gli studiosi delle rispettive materie. Ma qual sarà la regola, con la quale si potrà fare l'esame delle idee, o di quei concetti riflessi che l'uomo si è formati col proprio lavoro, per conoscere se elementi vi man chino, o se vi siano intrusi degli elementi che non possono en trarvi? La regola dell'esame non può essere che quella stessa la quale deve presiedere alla loro formazione, cioè quella del l'identità totale dell'idea con l'identità parziale dei singoli ele menti che la costituiscono. L'idea deve essere decomposta nei suoi elementi, e deve essere osservato se tra essi e l'idea vi sia perfetta e totale identità: così soltanto potranno includersi quelli che difettano e potranno escludersi quelli che non convengono; poichè nell'uno e nell'altro caso l'identico totale mostra quello che gli manca, o quello che gli conviene, per essere quel che è. In tal modo è possibile l'esame, e la rettificazione delle idee, occorrendo; ed in ciò consiste un buon trattato d'Ideologia. La scuola empirica, duce il Locke, aveva già compreso la necessità dell'esame delle idee, all'oggetto di non ammetterle soltanto in forza dei loro caratteri este riori di evidenza, necessità, universalità ed assolutezza, con cui s'impongono. La disposizione che si dà al complesso de' giudizi ed ai ragionamenti, sia per esporre, sia per dimostrare, sia per avviare alla ricerca, costituisce il metodo, il quale non può avero altro scopo, che quello di condurre all'identico totale per mezzo di tutti i suoi parziali, o ai parziali per la decomposizione del loro totale. Il metodo sta ai ragionamenti, come il ragionamento sta ai giudizi: egli ha lo scopo di fare un ragionamento com plessivo di tutti i ragionamenti subalterni mediante la regola della doppia identità parziale e totale. Onde il vero metodo scientifico è certamente analitico e sintetico insieme, man è l'ana lisi sola, nè la sola sintesi, nè entrambe unite, potrebbero con durre a risultati scientifici, se non avessero per rigorosa regola l'identità, e se non mirassero al suo conseguimento finale in tutti i giudizi e raziocinî, sperimentali, concettuali, o misti. Parlo del vero metodo scientifico; poichè per comunicare alle masse i risultati della scienza, o per indurre in loro la persua sione necessaria all'adempimento dei proprî doveri, una esatta analisi degli elementi delle idee o dell'esperienze, ed una esatta loro sintesi, all'oggetto di condurle a rigorosa identità totale, Perd essa voleva rimontare, senza alcuna ragione nè possibilità di riuscita, alla ori gine cronologica delle idee. Voleva inoltre, far provenire le idee dai sensi. Onde, in vece della vera origine cronologica, ben difficile a trovarsi per le singole idee, diede spesso supposizioni romanzesche sulla prima nascita delle medesime, e sopra tutto delle idee morali, col preteso stato naturale e col contratto sociale. Tutte quelle idee che non potè giustificare coi sensi, le rigetto, o le ammise alla credenza pubblica come necessità indemostrabili della nostra natura. Onde i posteriori idealisti, visto l'inte lice esito dell'esame, son tornati ad ammettere le idee in virtù della loro evidenza e dei loro caratteri che s'impongono alla nostra ragione, sia ritenendole verità prime indiscutibili ed indispensabili ad ogni ragionare (scuola del senso comune); sia supponendole forme assolute del pensiero  quidquid recipitur ad formam recipientis recipitur (scuola kantiana ); sia riputandole innate e facienti parte del nostro intel letto, almeno in una prima idea fondamentale, quella dell'essere (*scuola rosminiana*); sia ammettendole come frutto d'interne azioni e reazioni dello spirito (scuola di Herbart); sia credendole comunicazioni della mente medesima di Dio, intuizioni, tocchi misteriosi (*scuole giobertiane*), o anche evoluzioni della stessa idea divina, assumente caratteri di progressiva attuazione per la legge dialettica de contrari (scuola hegeliana ), attuazione dell'idea in forza di volontà preordinante e producente (scuola di Schopenauher ), o attuazione inconscia (scuola di Hartmann ). Tutti supposti, appoggiati a me tafore, a superficiali osservazioni, o a dogmi, per dare una spiegazione dei caratteri delle idee senza volerle esaminare in sè stesse, nei loro attuali elementi costitutivi, adducendo a prova della impossibilità dello esame l'infelice risultato ottenuto dagli empirici, i quali ebbero bensì il buon volere, ed anche la presunzione dell'esame, senza mai averne studiato i mezzi convenienti non sono punto possibili, nè anche utili. Laonde è d'uopo r correre ad esperienze ovvie, a idee evidenti e generalment ammesse, per inferirne le bramate conseguenze. Or se è vero che percepire distintamente, sintetizzare, analizzare, ricordare, astrarre, concettuare, ideare, giudicare, connettere e ragionare, non sono altro che più o men largamente identificare le parti ed il tutto, spontaneamente o riflessivamente, in forma sperimentale o in forma tipica assoluta, se cid è vero, diviene pur troppo evidente che, per potere scorgere l'identità più prontamente e con maggiore chiarezza, sarebbero assai utili due cose. Primo, abbreviare e ravvicinare tra loro con SEGNI le percezioni ed i loro elementi, le idee ed i loro elementi. Secondo indicare con segni le successive operazioni che vengon fatte spontaneamente o riflessivmente sui detti complessi e loro elementi. L'algebra ed il *calcolo* per sè non sono scienza, ma sono potenti mezzi di scienza, in quanto abbracciano e ravvicinano le idee e le operazioni su di esse fatte rendendo più facile e più sicuro il colpo d'occhio su di loro per scorgerne le identità e le differenze. Or, perchè non sarà possibile una logica aritmetica o matematica per agevolare la conoscenza delle identità parziali e totali, dalle quali dipende tutto l'eser cizio della intelligenza? Non vale il dire che nell’aritmetica e la geometria si tratta di rapporti tra sole quantità, e perciò e possibile un segno abbre viativi e le operazioni identiche. Mentre invece nella logica generale si dovrebbero trattare molti altri rapporti di QUALITà, che variano tra loro indefinitamente, e perciò l'aritmetica non si potrebbe applicare alla logica. Non vale il dire questo; poichè tutti i rapporti tra le QUANTITà hanno unico fondamento comune, l'identità costante di ogni unità con sè stessa, in guisa che non possa crescere nè decrescere in alcun modo, e che ogni unità valga quanto un'altra. Onde il fondamento vero dell’aritmetica e dei loro processi è tutto nella identità, come in generale il fondamento di tutte le operazioni dell'intelletto; e la loro unica regola consiste nella IDENTIFICAZIONE. Non vi ha dunque difficoltà vera contro la formazione di un'aritmetica logica; il cui scopo non dev'essere altro che quello di fissare, abbreviare, e con un segno, costante e certo, ravvicinare fra loro le idee ed i loro elementi, e le operazioni che su di esse si fanno. Nella scelta del segno per tale oggetto, non occorre far tutto a nuovo. Come nell'aritmetica, si posson prendere le lettere alfabetiche per indicare i complessi della percezione e dell'idea, non che i loro elementi, cioè le lettere maiuscole (A, B, C…) pei complessi, e le lettere minuscole (a, b, c, …) per gli elementi, se fossero gli uni e gli altri conosciuti e categorizzati. Se ancora non fossero conosciuti distintamente, potrebbero adoperarsi i soli punti. Ogni segno dell’aritmetica, più, meno, eguale, maggiore, minore, hanno posto nella logica o semiotica matematica o aritmetica. Il dubbio ha un segno nella scrittura ordinaria, l’interrogativo – la quesserzione --. Un segno pure abbiamo nella stessa scrittura per indicare un seguito di cose simili, che corrisponde all' &. Soltanto resterebbero a stabilirsi un segno per quell’operazione che nell'aritmetica e nel linguaggio ordinario non esiste. Questo segno si riducono a distinguere lo stato spontaneo dal stato riflesso, che sono i due stati del nostro animo, ed ambidue i detti stati dal di fuori di essa. Per tale scopo descrivo due spazi, uno spazio inferiore e l'altro spazio superiore, chiusi da tre linee parallele orizzontali. Il di fuori è tutto quello ch'è al disotto dello spazio inferiore e lo spazio superior. Lo spazio inferiore indica lo *spontaneo*. Lo spazio superiore indica il *riflesso*. Indico con quadrati di linee, di punti, o di lettere, i complessi e le loro parti, sia percepito, sia non percepito, o sia salito allo stato di riflessione. Un punto e una lettera minuscola indicano i loro elementi. Il punto indica che l’elemento non e conosciuto. La lettere indica che l’elemento e conosciuto. Denoto il simile con due parallele verticali. Rappresento l'identico con la convergenza di due linee in un angolo verticale. Se l’identità non è completa, ma sol tanto parziale, una delle due linee sarà più corta dell'altra, quasi per indicare la mancanza. Due quadrilateri che convergono e si toccano con un lato rispettivo in un angolo vertical rappresentano la sintesi dei punti identici. Se i due lati divergono, le quadrilateri rappresentano l'analisi dei diversi. Indico il connesso con una serie di anelli di una catena. Esprimo il negativo col segno 3 del meno sovrapposto a quello che voglio negare, il non identico, il non simile, il non dubbio, ecc. $ 54. Ecco così la serie dei segni principali: + più, meno, =  uguale, <: maggiore; ‘>’: minore; ‘ll’ simile, 1 identico, ^ identico parziale,? dubbio, 000 connesso, (II) in contatto, & etcetera, -1-- non simile, ^ non identico,?- non dubbio cioè riflesso spontaneo, [ ] non percepito, I percepito in comcerto, plesso, percepito distintamente senza categorizzazione di TAI parti, 71 percepito e sintetizzato, !! percepito e analizzato, DU U IV / TAL sintesi ed analisi spontanea e riflessa, |A| astratto com Ul Tala plessivo, Tala astratto con la parte a. | A la S 55. Quando non occorre distinguere lo stato di spontaneità da quello di riflessione, cioè quando si è nei concetti riflessi (idee), nei giudizii e nei raziocinii nei quali non entrino l'esperienze e le percezioni, i due spazî, che segnano lo spontaneo ed il riflesso, si trascurano. L'idea ed i suoi elementi si rappresentano così ovvero al ovvero A:, ovvero secondo chè sieno più o meno distinte e conosciute le sue parti elementari. Il giudizio ha una delle due formole: 10 AA? Bİ, il concetto o la percezione A è identica a B? A A? Bİ, non è identica certamente, oppure la risposta contraria: è iden tica certamente, 1 -?-; 2º Aja?, l'elemento a fa parte dell'idea a _?. o della percezione A? La risposta si dà col negare il dubbio (A) а h g bAt a b A. cde? с a hg an. Or, dire che a fa parte di A è lo stesso che dire 1A | {4} +/ biali, с de cioè l'elemento a è identico ad uno degli elementi di A, essendo OOO gli altri elementi b c d e f g h. Il raziocinio in generale ha la formola della connessione logica, cioè della connessione nello stato riflesso, che è l'identità de’ suoi membri in un tutto mag giore, di cui sono parti; onde è necessario che sieno veri i membri con reciproca connessione, affinchè sia vero il loro tutto. Onde la formola del raziocinio in generale sarebbe: ^()()(). Con le parentesi esprimo i membri di versi del raziocinio che fanno da premesse (e possono essere parecchi) e quello che fa da conclusione, indicando la loro connessione e l'identità di essi in un sol tutto più ampio con quel segno intermedio di connessione riflessa e d'identità, che qui equivale al dunque. Il ragionamento erroneo si esprimerebbe con l'identico non identico Â, con la contraddizione. $ 56. Il raciocinio è o dimostrativo, o inventivo; ed in ogni caso esso passa dalla identità parziale di una idea con un'altra, o di un esperimento con un altro, alla identità totale (S 43). Onde la formola generale di ogni raziocinio ne' suoi passaggi è i sempre questa: (a"B') (a000bcdefghh), a h g с de b h g ovvero OOO d e (a), (^Bİ). Quanto a dire: A e B contengono a, sono parzialmente identici. Come si farà per sapere se sieno totalmente identici? Bisogna dalla parziale identità a riconoscere se pur vi sieno le altre parziali identità b c d e f g h. Ciò si può sapere in due modi: o che vi sia connessione tra a e tutti quegli altri, o che a li contenga. Bisogna accertare uno dei due, o decomponendo i rispettivi concetti, o sperimentalmente. Accertato uno dei due, o per connessione 000 che signa l’identità dei membri col loro tutto, o per continenza che signa lo stesso (il tutto che contiene le parti), si ha passaggio logico legittimo 000 al dunque, alla conclusione; e pongo il segno d'identità 1 sul dunque, perchè ogni connessione di membri esprime la loro identità col tutto che li contiene $57. Lo scopo di cotesti segni non deve esser quello di sostituirli al linguaggio ordinario; poichè in tal caso ogni ragionamento prenderebbe l'aspetto della matematica e del convenzionalismo di Poincare e il formalism di Hilbert; onde sarebbero ben pochi coloro che avrebbero la forza di mente e l'abitudine necessaria per condurre così i loro raziocinî. Io mi son limitato nella mia semiotica (significa) universale a servirmene come mezzi di reddiconto e di controllo, a ragionamenti finiti; poichè giova il riassumerli con segni e presentare la forma logica della percezione, dell’idea e del concetto, i loro rispettivi elementi, e le varie serie di operazioni su di loro eseguite, per potere a colpo d'occhio discernere il cammino della identità in tutti i giudizi e ragionamenti. Nella cennata mia opera ne ho fatto largo uso in questo modo, nè domando per ora che sieno adoperati altrimenti. Qui pero, in questo lavoro sintetico e riassuntivo del sistema, non renderebbero più facile la comprensione delle idee, alla quale aspiro; onde io non me ne servirò, lasciando che i leggitori di mente più ferma ne prendano esperimento nelle singole dimostrazioni, alle quali già li ho applicati nella suddetta semiotica universale. Sotto il generico vocabolo “parola” (cf. Grice, ‘to utter’) si può intendere qualunque segno communicativo che serve a rappresentare una percezione o un'idea o concetto. Pur nondimeno questa voce “parola” – cf. Grice “to utter” -- nell'uso ordinario è ristretta a signare un suono articolato, con cui l’uomo esprime e communica la pércezione o la idea o concetto ad altro uomo; e siccome il suono articolato e stato legato ad altro segno, così la parola, oltre di esser pronunziata (pro-nuntiatum), è anche scritta. Orche cosa è mai questa *communicazione* da un'uomo all'altro? Questa communicazione propriamente è un mezzo di suscitare nell’altro uomo, al quale si dirigge, una percezione o una idea o concetto consimile a quelle che ha e che vuol *communicare* (o signare) colui che ‘signa’. Perciò la communicazione consiste nel far sorgere nell’altro quella stessa percezione o quella stessa idea. Ciò in due modi può succedere, cioè: o mediante una convenzione, arbitrio, concordo, patto, sul segno, sia volontariamente fatta, sia abitualmente seguita, cosicchè ogni segno per ragion di associazione convenzionale desti una percezione o un'idea corrispondente; o pure mediante una naturale (iconica, assoziativa) associazione o meglio co-relazione che si stabilisce tra un segno e una percezione o idea o concetto, cosicchè non abbisogni altro che imitare (proffere) appositamente questo segno per suscitare nell’altro la percezione o idea o concetto naturalmente (iconico, assoziativo) annessa o co-relata. È del primo modo – il modo di correlazione convenzionale -- la maggior parte dei segni; poichè una convenzion prima espressamente o tacitamente fatta, e l'uso che ciascun trova del sistema di communicazione del suo popolo, fan sì che appena si manipula un determinato segno, tosto si destino in coloro che ascoltano le percezioni e le idee co-rispondenti. Sono del secondo modo ogni segno che per lo più imitano una proprieta naturale, come la voce del cane (“Daddy wouldn’t buy me a bow-wow”), il romore del vento, lo scorrer del fiume il rimbombo del tuono, della esplosione, ed altri simili. Ancorchè l'uomo non sa per antecedente convenzione il ‘signato’ di tale ‘segno,’ egli tosto si fa l'idea del ‘segnato’ che s'indica, perchè la imitazione – iconicita, assoziativita – della proprieta naturale sveglia la percezione socia. Sentendo “bac-buc” dei tedeschi, quantunque non sa l'alemanno, mi debbo far tosto l'idea del vuotarsi di un vaso a bocca stretta. In questa categoria va pure il vocativo “o”, perchè la pronunzia molto spontanea di questa vocale fa volgere la persona verso il punto donde “o” vien pronunziato: e quindi da per sè stesso il vocativo “o” serve a chiamare, perchè ottiene spontaneamente questo effetto o risponsa nell’recipiente. Intanto il segno, oltre che serve a mettere in communicazione due uomini fra loro ed a far nascere in essi la ri-produzione (o trasferenza psicologica) di una percezione e di una idea secondo la volontà del ‘signante,’ è al tresi utile ad un'uomo solo, allorchè egli si racchiude in se stesso e si va rappresentando le cose per meditarvi. Difatti è un'osservazione ben comune che noi parliamo dentro noi stessi, allorquando pensiamo le diverse cose, e principalmente allor quando ci rappresentiamo una idea astratta. La influenza del segno sull’astrazione comincia ad esser guardata con attenzione quando i filosofi della scuola sensista credettero che l'unica differenza tra l'uomo ed il bruto consistesse nel segno communicativo. In verità è ben facile rilevare che senza gl'innumerevoli segni articolati l’uomo non puo mai formarsi e ritenere l'immensa serie d'idee astratte, e per dirla più esattamente, non puo egli nè sintetizzare ne analizzare in sì gran copia, posciachè l’astrazione è figlia dei grandi incrociamenti delle sintesi e delle analisi. Certamente i punti simili delle percezioni rappresentandosi similmente si sintetizzano, ed i dissimili si analizzano rappresentandosi dissimilmente. Ma se per ciascuno di quei punti simili e dissimili non vi fosse un segno associato, non e mica possibile riprodurre e ritenere la immensità delle similitudini e delle differenze che offrono da un momento all’altro la percezione. Imperciocchè tra moltissimi punti simili, che fra loro si differenziano in picciola cosa, sarebbe più fa eile la confusione, anzichè la distinta rappresentazione di ciascun grado minimo di somiglianza e di differenza per mezzo delle percezioni medesime. Al contrario, il segno articolati e diversissimi d’altro segno articolato; e perciò attaccando un segno a ciascuna di quelle minute sintesi ed analisi, si ha di già quanto basta per poterle esattamente richiamare, senza poterle mai confondere un segno per altro. Per esempio, quante gradazioni diverse non offre un colore solo, il concetto di “bianco” (o “bianca”)? Or si potrebbero mai ritenere senza confonderle tutte queste gradazioni? Ma l’uomo vi adatta un segno diverso per signarle, e la confusione è evitata. Egli dice “bianco chiaro”, “bianco sbiadito”, “bianco lordo”, “bianco latte”, ec. Vi sono poi delle parti di percezioni che si isolano dal complesso mediante l’astrazione, e se non vi fosse un segno per risvegliarne l'idea, non puo esser pensate giammai. Per esempio, l'idea o il concetto astratto o generale o universale di “colore” – il nero non e un colore; il bianco no e un colore --, siccome abbraccia ogni colore, con qual di essi partitamente o complessivamente si puo rappresentare, se non vi fosse un segno distinto (gaelico glas: verde o blu?) da tutti i co fori singoli per richiamarla? Vi e pure un gruppo d'idee astratte che con maggior ragione han bisogno di un segno per essere pensate, come la “gloria”, la “virtù”, l’ “onore”,  il “dovere”, ec. Cosi anche e il concetto meta-fisico dell’essere sopra-sensibile, Iddio, la sostanza, ec. É in forza dell'unità del segno, che sorge l'unica idea astratta; poichè, se vogliam provarci a idear (o mentare) la cosa senza segno alcuno, particolarmente in una nozione astratta che non ra-presentano o signa un essere reale, ma soli rapporti fra gli esseri, non sappiamo veramente come farcene l'idea. Oltre a tutto ciò il segno ha una virtù speciale, che fa vedere il legame di una idea coll’altra; perciocchè, messo un segno radicale o di radice (“amare”), ogni variazione di desinenza e e ogni derivativo indica o signa, come un gruppo che costituisce un'azione risultante venga variandosi in mille modi: il che importa una sintesi mista all'analisi, perchè la radicale ferma indica il punto fondamentale della somiglianza, mentre ogni desinenza e ogni derivato fa vedere ogni categoria: quantita, qualita, relazione, modalita – per citare la funzione kantiana della categoria d’Aristotele -- tempo, luogo. Questo vantaggio non si puo altrimenti ottenere, che coll’articolazione del segno sub-segmentale (prima e seconda articolazione), poichè rimanendo fermo un segno come segno radicale sub-segmentale (articolazione prima e seconda) (“am-”), il segno articolato (mutato della radice) indica la differenza (“amans”, “amatus”, “amiamo” “ambi due amiemo”) fine a formare una proposizione compieta: il mittente con il signans signa al recipient *che* il mittente crede che ama al recipiente. Siegue da tutto ciò che il segno articolato ha un'influenza grandissima nella operazione della sintesi, dell'analisi e dell'astrazione; e siccome senza del segno articolato l'uomo non può nè giudicare (operare con una proposizione) nè ragionare (inferire una proposizione d’altra), cosi il segno articolato ha un'influenza suprema nel giudizio e la volizione e nel raziocinio (di giudizio e di volizione). Infatti il sordo-muto ha un limite strettissimo nella sintesi,  nell’analisi e nell’astrazione; ed a misura che si allarga in loro la sfera dei segni per mezzo della gesticolazione, e più anche per mezzo di un sistema alternativo, il sordo-muto inoltransi nell'astrazione, il suo giudizio, la sua volunta, ed il suo ragionamento – di giudizio o di volonta -- divene più estesi e più esatti. Dopo che si disse che l'uomo non puo mai dare origine al segno articolato o communicativo, la scuola di Bonald si valse di questa stessa dottrina per fondarvi sopra l'edificio della divina rivelazione, che dovette communicarsi al primo uomo coll'insegnamento diretto del segno communicativo, e che dovette tradizionalmente discendere col segno medesimo in tutta l'umana generazione, fino a che colla dispersion babeliana delle lingue venne a guastarsi la forma genuina primitiva del segno soppranaturale, praeternaturale rivelato, e varii innesti di origine umana si attaccarono al primitivo tronco, cosicchè insiem col segno furono anche travisate le idee della rivelazione prima. Questa stessa dottrina è stata abbracciata con molta facilità da Gioberti, quantunque in tutt'altro alla scuola di Bonald egli non appartenesse. Non entro in questa questione dal lato teologico (o genitoriale), molto più che non veggo nella antica religione romana nessuna espressione che alluda all'insegnamento primitivo del segno per mezzo di un dio. Veggo per altro che le anzidette scuole han preso a dimostrare filosoficamente che l'uomo da sè stesso non può dare origine al linguaggio, e con questa dimostrazione negativa credono dare il più saldo appoggio alla necessità della primitiva rivelazione della parola. Guarderò adunque le loro ragioni da questo stesso lato filosofico, e porrò così il quesito: È egli vero che per poter ‘signare’ comunicativamente in qualunque guisa bisogna l’uso preventivo dell’astrazione, e viceversa per potere astrarre bisogna l'uso antecedente del ‘signare communicativo? Se ciò fosse vero, sarebbe questo un circolo vizioso (“a Schifferian loop”), da cui non potrebbe mai uscire l'origine puramente umana del ‘signare communicativamente’; e perciò, essendo un fatto che l'uomo signa communicativamente, ed ammesso che egli sia stato *creato* da un dio (Prometeo), re sterebbe come una ipotesi interamente consona alla divina bontà di Prometeo che egli stesso gli abbia insegnato o signato a signare communicativamente fin dalla origine o dalla genesi alle rivelazioni! Resterebbero cosi giustificati gli argomenti della scuola teologica o genitoriale di Gioberti. Ma a me pare che, posto a quel modo il quesito, la necessità del circolo vizioso venga tutta dal non voler discendere nella minuta analisi di un tutto complessivo – un complesso proposizionale --, e dal volere la spiegazione sintetica di un fatto che costa d'innumerevoli elementi, senza volere esaminare come nascano gli elementi medesimi, e come gradatamente si combinino fra loro per costituire il fatto totale nel modo che oggi si presenta. Uno dei difetti delle scuole dell'età nostra è questo precisamente, che i nodi voglionsi tagliare invece di scioglierli; e cosi mi pare sia accaduto al problema che riguarda l'origine del signare communicativamente. Infatti, se si domaada: l'uomo può esercitare quella vastità di astrazione che attualmente esercita senza fare uso del signare communicativamente? La risposta è facile: nol può: perchè il segno communicativo, siccome testé abbiam veduto, influisce grandemente nell'esercizio dell’astrazione. Parimente se si domanda: l'uomo può signare communicativamente (con “o”) senza l’esercizio dell’astrazione? è anche facile ugualmente la risposta che nol può: perchè la convenzione implica la conoscenza dell'utilità del signare communicativamnte, ed implica nel tempo stesso l'attaccamento di un'idea (“presta attenzione”) ad un segno articolato (“o”), il che è un'effetto di astrazione. Ma il problema non è ben presentato col porre le due anzidette domande; perocchè non si vuol sapere se l'esercizio completo del signare communicativamente, qual'è attualmente, può stare senza l’uso dell'astrazione, nè anche si vuol sapere se lo sviluppo immenso che ha preso l’astrazione nelle molte successive generazioni del popolo italiano possa mai stare senza l'uso del segno articulato. Invece il problema vero è quest'altro. Vi può essere un atto di signare communicativamente primitivo, un primo uso di un segno articolato (“o – o – o”), colla sola influenza di un'astrazione (o articolazione) di primo grado, la quale per compiersi non ha bisogno dell'uso del atto di signare communicativo. Quando due cose s’influiscono a vicenda, in modo che non può crescer l’una senza che cresca l’altra, se si guardano *sinteticamente* dopo un lunghissimo periodo di mutuo accrescimento, non pajono più naturalmente spiegabili, e comparisce quella specie di circolo vizioso, di cui si parla inpanzi, perchè lo sviluppo pieno del l’una suppone lo sviluppo pieno dell’altra, ed amendue si suppongono talmente a vicenda, che non si sa più qual delle due debba esser prima. Per isciogliere un problema di tal fatto bisogna incominciare dal periodo o fase o stadio primo, cioè dal momento men complicato e meno sviluppato. Allora soltanto si può scorgere la influenza mutua, e come mano mano vengano accrescendosi l’una coll’altra. Qui trovo un’obbiezione ben facile. Mi si dirà: avete voi elementi storici ben certi per poter determinare qual sia stato il periodo primo dell’atto di signare communicamente in Romolo e Remo. Anzi taluni credono trovare nell'etnografia una base sufficiente per poter sostenere che il segno communicativo più antico e più elevato e più ricco di forza plastica. Onde da quelli si crede che l’atto del signare comunicativamente e andati mano mano deteriorando. Veramente, se debbo esaminare il mio problema sull’appoggio del solo dato storicio  non mi credo autorizzato a dare una soluzione diffinitiva. Imperciocchè io non son’ uso a sciogliere un problema a posteriori, e viceversa, so che la *ragione* necessaria delle cose governa la storia. Non entro ad esaminare se l’uomo e creato adulto o no; o se, dimenticato il primitivo atto del signare communicativamente, sia stata possibile la nascita di un atto *nuovo* di signare communicativemente. Non entro in un esame storico, dal quale la mia semiotica non puo sempre ricavare un risultato filosoficamente rigoroso. Invece, domando se e possibile, senza precedente arbitrio alcuno, stabilirsi una communicazione di un segnato tra due uomini per mezzo di un segno (“o”) anche *involontariamente* (spontaneamente, naturalemnte) adoperati, e, se trovata l'utilità pratica o prammatica di un arbitrio mutuo di tal fatto. Si puo fare avvertitamente e per mutuo arbitrio ciò che prima si è fatto *spontaneamente*. Posta così la questione, non ha bisogno più della ricerca storica. Si attacca alla natura comune – la ragione -- di due uomini – una diada conversazionale, Romolo e Remo, Niso ed Eurialo --, quantunque anche la storia puo venire in conferma di ciò che la cosa deve essere per natura sua propria – uomo animale razionale. Distingo due specie del genero segno: ma non e necessario moltiplicare i sensi di ‘segno’ sine necessita. Primo e un segno naturale, spontaneo, imitative, mimetico, iconico, assoziativo. Secondo, e a posteriori altro segno – un segno devenuto segno dopo un mutuo arbitrario. Or sebbene il mittente che usa un specimen particolare di segno “o” che imita una proprieta naturale spontanea, il segno “o”, sieno per sè stesso assai ristretto, pure ha questo di particolare. Senza bisogno di arbitrio mutuo alcuno, e senza anchie aver lo scopo di *conimunicare* (transfere il segnato) all’altro un qualunque segnato (sensum, percipito), puo essere adoperati, e producono l’effetto della communicazione (communicato, segnato) che non e primariamente nell' *intenzione* di nessuna delle due parti. Nessuno più di un bambino italiano è da natura inclinato ad imitare (‘bow wow’) i romori che sente o perceve. Non è necessario supporre che questa imitazione (‘bow wow’) ha uno scopo, fine, volizione, o intenzione (volutum). Il bambino italiano imita spontaneamente, e signa che e in relazione con un cane, è come la ri-petizione naturale della cadenza che si esieguono non dall'uomo solo, ma anche dai bruti. Comincio da questo caso semplicissimo, non perchè io creda che l’atto del signare communicativamente sia nato in questo preciso modo, ma quando si cerca la possibilità di una cosa, bisogna ricercarla tra le possibilità più semplici e più comuni. Imperciocchè, pria che si dice che una cosa non può essere, è mestieri osservare in quante maniere ben semplici ella può avvenire. Or vediamo, allorchè un’uomo imita spontaneamente un suono qualunque naturale (“o-o-o”), che cosa accade nell’altr’uomo che lo interpreta (l’interprete). Il segno imitato per ragione di semplice associazione o iconicita richiama naturalmente la percezione della causa che suole ordinariamente emettere cotal segno. Per esempio, se un bạmbino italiano, senza la menoma intenzione communicativa, e solo per il puro piacere imitare, esiegue il belato (‘bah bah’) della sua pecora, chiunque lo sente si rappresenta in quel momento l'animale che fa quel belạto. Senza *voler* o avere l’intenzione di communicare, i. e. d’informare ad altro, vi è di già tutto quello – il principio razionale --  che costituisee la communicazione e la conversazionale. Un segno, a cui è attaccato una percezione, adoperato la prima volta, ‘one-off’, spontaneamente, per caso, per imitazione, per qualunque altra causa, desta la percezione socia, e senza arbitrio mutuo alcuno divien segno della medesima causa (‘bah bah’ = pecora). Infatti, se il bambino italiano che imitava poc' anzi il belato della sua pecora, non conosce punto il segno articolato ‘pecora’, e se io voglio più tardi rinnovare in lui la percezione della pecora, che altro dovrei se non che imitare il belato medesimo? Nè ciò dipende da che io conosco l'utilità del segno. Giacchè potrei supporre all'inverso che il bambino italiano il quale, imitando spontaneamente il belato della pecora (“bah bah”), si accorse o da un segno (“bah bah”), o dallo sguardo ch’io do alla pecora, che già mi feci ricordanza della pecora, più tardi il bambino stesso potrebbe servirsi a ragion veduta di quel belato per riprodurre in me or di proposito la stessa percezione. Immagino un’altro caso. Se alla vista (visum) di un pericolo (leone) l'uomo (Eurialo) gitta un grido – “o-o-o” --, un suono qualunque, quand’anche non sapesse che vi fossero altr’ uomo (Niso), dal che potrebbe essere soccorso, il grido spontaneo che suole uscire per lo più involontariamente, spontaneamente, naturalmente - sotto il dominio della paura o pena, e se a quel grido si ve dessero accorrere altr’uomo, il quale, scorgendo la posizione pericolosa, viene in aiuto, non sarebbe tosto quel grido spontaneo “o-o-o” un segno della “chiamata” in aiuto, segno non devenuto da mutuo arbitrio in principio, nia che per l’effetto ottenuto o la risponsa ottentua divene base di un mutuo arbitrio in avvenire? Immagino anche un’altro caso più semplice. Se un'uomo spontaneamente, e senza *intenzione* communicative alcuna, signa “o-o-o”, il segno più facile ad articolare, e se altr’uomo (Remo, Niso) e presente e sente o perceve che Romo ha profferito un specimen di un segno, che cosa mai dovrà avvenire? Non si voltera verso colui che signa? Non è naturale il rivolgersi verso il punto donde parte il segno? Ebbene, un'effetto si è ottenuto. Questo segno profferito senza intento alcuno o intenzione comunicativa alcuna richiama l’attenzione dell’altra parte della diada conversazionale. Ciò che si è dapprima, one-off, ottenuto senza intento communicativo o intenzione communicativa, può la seconda volta esser voluto *di proposito*, voluntariamente, -- def. di verbum in Aquino -- per la utilità che se n’è ricavata: ripetendosi dunque avvedutamente lo stesso segno, quello è divenuto un vocativo naturale. E noi osservammo che appunto questa vocale “o” è il vocative nella Roma di Remo (o tempora o mores) e nella Roma di oggi. L’arbitrio mutuo o duale dunque non nasce dapprima a ragion veduta, ma nasce per mezzo di un'effetto o risponsa, che un segno, EMESSO per accidente (“o”) o per imitazione, consigue. Volendo di nuovo ottenere avvedutamente lo stesso effetto o la stessa risponsa, non ci vuol’altro che ripetere un altro specimen del stesso genero di segno (“o”). L’arbitrio mutuo dual è bello e fatto. Or quando vi sono tante possibilità d'incominciare l'uso di un segno articolato e di dar luogo spontaneamente a un arbitrio mutuo e duale, come si può dire in tuono assoluto che sia impossibile l'uso del segno senza aver la preventiva conoscenza della utilità del segno medesimo? Non dico che l’atto del signare communicativamente nacque in questo o in quell’altro modo. Dico che vi sono moltissime possibilità tutte *naturali*, nelle quali l'uomo può avvertire l'utilità dell'uso di un segno articolato per l’effetto o la risponsa spontanea, no intenzionata, che ne ottiene, e senza il bisogno di un preventivo arbitrio duale. Basta questo per distruggere a rigor di logica le basi tutte di quell'edificio che si vuol fondare sull’impossibilità assoluta che l’uomo signa senza prima aver conosciuto l'uso e l'utilità dell segno. Ma invero il brutto ebbero forse insegnato da Dio l'uso del atto di signare communicativamente, con che communica (o transferre) il suo bisogni, la sua gioia, il suo pericolo, la domanda del soccorso? Forse non vediamo fin dal loro nascere i varii animali communicarsi per mezzo di un segno, per lo più *istintivo* -- che causa una risponsa istintiva, i diversi loro stati? Non puo il brutto perfezionare il suo atto di signare communicativamente, perchè non ha facoltà di sintetizzare e di analizzare gli elementi della percezioni, e molto meno ha facoltà astrarre, siccome vedremo a suo luogo. Ma la co-rispondenza o co-relazione dell’effetto o stimolo, in esito al suo primo segno istintivo fa si che il brutto lo ripeta volontariamente; e tutti conosciamo come un animale domnanda il cibo o la libertà del movimento per mezzo di segni speciali, nel che dalla sua parte vi ha una specie di “tacito” arbitrio duale (Androcle e il leone), perché l’effetto ottenuto o la risponsa ottenuta una volta, per ragion di associazione o co-relazione iconica istintiva associativa, fa appunto le veci di un arbitrio duale. Se dunque questo segno inferiore è possibile nel bruto, il quale non astragge, perchè lo stesso principio di spontaneo tacito arbitrio duale non è possibile fra due uomini! Un uomo, che ha la piena capacità di astrarre, riconosce più facilmente l'utilità dell’effetti ottenuto o della risponsa ottenuta dall’altra parte della diada conversazionale, e si crea l'idea generica del arbitrio duale del segno, dalla quale discende poi come conseguenza la necessità di *variare*, fare piu ricco, illimitato, creativo, e di fine aperto, in ragione di questo o quello bisogne, in ragion di questa o quella percezione, o in ragione di questo o quello concetto astratta. Concepita una volta l’utilità dell’uso del atto di signare communicativemente, del segno articolato (terza articolazione), non ci vuol’altro che possedere in fatto la capacità di variare e combinare *indefinitamente* in modo aperto e illimitato, l'articolazione e la operazione di questo o quello segno primitivo, e l'uomo possiede già questa capacità meravigliosa. L’uomo adunque può, da un certo numero di fatti spontanei in cui il segno è riuscito a *stabilire* un arbitrio duale, elevarsi all'idea astratta dell’arbitrio duale del segno, poichè da un fatto singole si forma la sintesi, l'astrazione, e l'idea generica; e possedendo in fatto la varietà indefinita, componibile, di questo o quello segno articulato primitivo, è già nel caso di far da sè tutto il resto. Quantunque il segno che compone l’atto del signare communicativo e per arbitrio muto, pure siccome debbono *signare* una percezione (S e P), gli tre elementi delle medesime (S, e, P) ed i concetti astratti, debbono quindi ritrarre le proprietà fondamentali dell’uomo, cioè la relazione costanti che debbono avere fra ogni percezione, e ogni operazione o combinazione. Perciò, sebbene e diverso il segno che si adoperano ne' varii paese dell’Italia per signare il medesimo segnato, pure in ogni dia-letto vi sono parti fisse del discorso o dell’orazione, vi è una sintassi necessaria, vi sono in somma una relazione che e comuni a ogni segno. In primo luogo, siccome ogni percezione rappresenta un risultamento esteriore ed e anch' esso del risultamento organico subbiettivo, perciò vi ha un fondo comune in ogni percezione ed è l'azione risultante, che equivale alla somma di ogni azione sostanziale aggregate insieme. L’azione sostantiva e la aggregazione di questa o quella azione sostantiva, ecco ciò che è comune a ogni reale ed a ogni percezione. Quindi in ogni atto del signare communicativamente debbe esistere un segno addetto ad indicare l’azione risultante in tutta la loro immensa varietà. Questo e il segno del “verbo” – Varrone, verbum, greco rheo --, cioè il segno per eccellenza, per chè in verità, tutto quello che si può rappresentare, ad azione sostanziale si riduce, e perciò il segno del verbo (la copula) è il fondamento di ogni segno. Ogni proposizione si aggira intorno al segno del verbo (il S e P), e se vuol farsene un'analisi, la mossa si dee sempre prendere dal segno del verbo, perchè un segno che non e un verbo non puo indicare, se non che un rapporto dell’azione risultante signata dal segno verbo. Inoltre, per questo stesso che ogni azione *risultante* e non basica, e composte della combinazione di questa o quella azione sostanziali intransitive ed immutabili, è necessario che ogni verbo ha il loro fondamento in un solo segno di verbo, e che quel segno del verbo e *intransitivo* (la copula e intransitiva), siccome e questa o quella azione sostanziale, dalla che nasce ogni azione risultante, la quale e ra-presentata dal resto della classe del segno del verbo. Infatti abbiam notato già da molto tempo che in ogni atto di signare communicavemente vi è un verbo sostantivo intransitivo, il verbo “essere”, al quale si possono facilmente ridurre ogni altro verbo, decomponendoli in “copula e predicato”. Io amo è lo stesso che io sono amante. Ed è notevole che ogni segno di verbo chiamati attivo, o meglio transitivi, perchè denota un’azione che passa dal soggetto all'oggetto, si sciolgono tutti in un segno di verbo fondamentale che è intransitivo, o come i modisti dicono neutro – epiceno, mezza voce --, cioè nè attivo nè passivo. Poichè ciò che è veramente transitivo é la forma del risultato, ma ognuna delle azioni sostanziali componenti è intransitiva. La sintesi e necessaria e l'analisi e necessaria, perchè una percezioni e complessiva e costa di questo o quello elemento, che colla riproduzione, sovrapponendosi gli uni agli altri, si sintetizzano nel punto simile e si analizzano nel punto dissimile. Bisogna dunque che ogni segno indica un composto o complesso proposizionale, e che ogni segno articulato composito e de-compo nibili. Però, siccome gli elementi di ogni risultato e una azioni sostantiva, perciò è necessario che ogni segno si puosciogliere in un segno solo che indica l’azione sostantiva, non come occulta (sub-stantia), ma come realtà, cioè come essere, onde il *nome* (nomen, onoma – nomen substantivum, nomen adjectivum) non meno che il segno del verbo, si sciolgono tutti nell'essere, il quale è verbo e nome allo stesso tempo, ed è appunto verbo sostantivo, perchè indica un’azione che sta per sè stessa, e che non ha bisogno dell'altrui appoggio. Un nomine addiettivo e ogni altro segno sin-categorematico che indica quantita, qualita, relazione, o modalità o relazione, ra-presentano la composizione, il risultato, la combinzione di questa o quella azione sostanziale, e perciò non e mai da sè sole, ma ha bisogno di un segno di verbo o di un segno di nomine (S e P), su cui debbono appoggiarsi. Conciossiachè in verità la consposizione e qualunque suo modo di essere non può stare senza questo o quello componenti, anzi non è altro che la somma medesima di questo o quello componento. Però, siccome la composizione è una forma complessa, e come tale si distingue da cia scun componente, quindi è che tutte le parole indicanti modd lità, quantità e relazi ni, conie gli avverbii, le preposizioni, le congiunzioni, gli aggettivi, ec. non sono riduttibili al solo verbo essere, nè al solo nume essere, a differenza del segno del verbo e del segno del nome che ogni segno si reduce al verbo sostantivo “essere”. Nel tempo stesso non possono sussistere per sè, ed han continuo bisogno di questo o quello essere (il S, il P), perchè la composizione non può stare senza di questo o quello singolo componento. Sotto tai riguardo la differenza che passa tra ogni segno che indicano la quantita, la qualita, la relazione, e la modalità dell’azione sostanziale e quella che indica l'azione medesima, e quella stessa differenza che esiste tra il tutto e la collezione di questa o quella parte che lo compone; imperocchè il segno del verbo, e principalmente il verbo “essere”, nel quale ogni segno di verbo si sciolgono, indica la collezione di questa o quella azione, mentrechè il segno del nome aggettivo, il segno del avverbo (ad-verbium, come la particola “non”), la preposzione (in latino, i casi), il signo di congiunzione (copulativa, e, adversative, ma), ec. indica come questa o quella azione e disposte, e che relazione ha fra loro, in ogni vario gruppo che compone. Siccome ogni gruppo di azioni è un *risultato* che subisce questa o quella modificazione (declinazione, congiuggazione) secondo i cangiamenti parziali del numero (singolare, duale, plurale) e della posizione di questo o quello componento, cosi vi ha una sintesi fondamentale in ogni parte simile che nel risultato e ferma, e vi ha una continua analisi di ogni parte variabile ed accessoria. Per questa ragione e necessario il segno radicale che esprimono la parte *sintetica* fondamentale, cioè, il fondo permanente dell’azione: il radicale poi si va cangiando nella sua desinenza (uomo, uomni, pater e familia, paterfamilias), o in suo articolo definito (il – ille, la -- illa) o indefinito, “segna-caso”, ed ausiliare, per indicare ogni variazione e accessorio che in torno a quel gruppo fondamentale di questa o quella aziona si effettua. Il atto di signare monosillabica dei cinesi supplisce a ciò coll’accozzare diverse sillabe, cioè diverse segni, di cui ognuna esprime una idea, e tutte unite esprimono un complesso. Una idea fissa si esprime con un signo fisso. Una segnato variabile si esprime con un segno variantie. Sorge da ciò la necessità del segno derivativo, del segno della desinenza e del segno del prefisso, infisso, e suffisso, come anche la necessità di trasformare in maniera avverbiale un nome e un verbo, e di operare ogni cangiamento di preposizione in verbo ed in nome, dell’aggettivo in sostantivi e viceversa. Poichè, fissa la forma fondamentale, ogni mutamento di forma debbe esprimersi con cangiarli secondo il bisogno e secondo la relazione che vuolsi esprimere tra un gruppo di azioni ed un'altra. Finalmente vi ha un'altra forma obbligata in ogni costruzioni del discorso, ed è quella del giudizio, poichè ogni proposizione – in ogni modo – indicativo, imperative -- in giudizio o volizione si risolvono, e come si va da un giudizio all'altro per mezzo di una connessione, così la proposizione prende forma concatenata e compone un period (protasi, apodosis), e questo periodo s'incatena con quello periodo e forman un discorso. Però è no ievole che l’operazione dell'analisi e l’operazione della sintesi spontanea non puo altrimenti annunziarsi che sotto forma di “proposizione”, cioè di giudizio o volizione; quantunque agli occhi perspicaci del filosofo anche un segno solo, considerata nella sua radicale o nella sua derivazione, indica benissimo l’operazione analitica che vi è dentro. La ragione, per cui non si può annunziare ad altri, che sotto forma di giudizio, una completa operazione di sintesi e di analisi, si è appunto questa, che quando si annunziano ad altri cotali operazione di sintesi o analisi, vi è di già il concorso della riflessione, e perciò non si annunzia altro che il risultato ultimo della sintesi e dell'analisi riflessa, il qual risultato e il giudizio e la volizione, ambe due con contenuto proposizionale. Onde si ha che nello singolo signo si rappresenta le sintesi e le analisi spontaneamente fatte, e nel complesso si rappresenta il risultato totale, che perciò appunto veste la forma di giudizio o volizione con contenuto proposizionale. Da tutte queste osservazioni emerge che il segno e la sua costruzione (sintassi) in ogni popolo – o paese d’Italia -- debbe avere una forma fissa (semiotica agglutinativa) e una forme variabile (semiotica componenziale), siccome il risultamento organico subbiettivo ed il risultamento esteriori obbiettivo ha una forma fissa e una forme variabile, poiché il segno debbe necessariamente prendere lo stesso aspetto del segnato. In ogni segno possono riguardarsi due parti distinte, cioè il segno e la costruzione del segno. Ogni segno è segno di una percezione, o di una parte di percezione, o di un'idea o concetto (signato). La costruzione del segno ra-presenta ogni relazione che ha questa o quella percezione, questa o quella idea, questo o quello segnato. Onde il signo è lo specchio più sicuro del grado delle conoscenze di un emittente del segno. Poiché la povertà o la ricchezza del repertorio semiotico e di questa o quella forma di costruzione indica quante percezioni, quante idee, esistano presso il medesimo emittente, ed in quante maniere sa  metterle in relazione fra di loro. Però è notevole una cosa, che forse non è stata abbastanza studiata sino al presente. C’e un segno (“colletivo”) che non esprime una percezione sola o una idea sola, ma serve ad esprimerne più di una. Per sapere se mai una di tale segno esprima una idea piuttosto che un'altra, fa d'uopo stare attento alla *forma* del discorso, dall' insieme del medesimo, come anche dalla forma della costruzione, si ricava ciò che precisamente si vuol signare col segno che si adopera. Questo fatto è ben noto ai filosofi sensista; ma forse la causa del fatto non è da loro cercata con rigore semiotico. Acciocchè un segno sia adoperato a signare un segnato diverso d’altro segnato (equivocazione), è necessario che il segno in origine appartenga ad un segnato solo; poichè non è presumibile che siasi voluta fare un arbitrio dual anfi-bologico (equivocazione – para-bologica – il rasaio di Occam), cioè un arbitrio duale di usare un segno solo per rappresentare un segnato e altro segnato, appunto per far nascere la dubbietà di sapere il segnato che propriamente vuolsi indicare. Allorchè dunque si presenta un segnato nuovo, che perciò non ha ancora segno proprio, il segnato stesso fa sperimentare il bisogno di trovare o inventare o concevire un segno per indicarlo, ed in pari tempo il segnato (es. spirito) fa svegliare l'idea socia di un segnato simile avente un segno proprio (spirare). Allora l'uomo prende quel segno, e se ne serve per indicare il segnabile novello ch' è ancora propriamente IN-segnato. Questo bisogno si sperimenta più di tutto nell'esprimere una idee astratta (‘implicatura’), a cui mano mano un emittente si eleva; e perciò si serve del segno che indica un segnato, quanto più è possibile, somigliante a quella idea (im-piegare). Nasce cosi l'uso del traslato: un segno, che propriamente è servito ad indicare una segnato (lo spirare), è adoperata a signare un'altra (lo spirito) che solo ha con essa qualche somiglianza. Il traslato di tal fatta e una necessità, perchè la presentazione di un segnabile IN-signato conduce al bisogno di signarlo, e non potendo formarsi sul momento un segno apposito per l'impossibilità di fare un pronto arbitrio duale, si ricorre più prestamente al segno del segnato simile, lasciando pure al resto del discorso l’incarico di mostrare la diversità e la novità del signabile previamente IN-segnato, pel quale si adopera una segno. Ma oltre a ciò vi ha pure una necessità di usare un segno da traslati o metaforicamente, quantunque il signato che vuolsi esprimere ha segno suo proprio. L’esattezza del segno appartiene sopra tutto a quel filosofo oxoniense che e avvezzo alla precisione del segnato e del segnabile non segnato, e che valutano ciò che propriamente esprima ciascuno dei segni, che essi adoperano per indicarle. Ma il numero maggiore degli uomini non può mai aver fatto queste esatte meditazioni, e molto meno può aver l'abitudine del linguaggio preciso. Inoltre gli uomini, spinti dal momentaneo bisogno di communicare il segnato, e molto più quando sono sotto il dominio delle passioni che maggiormente l'incalzano, non han tempo a ricercare il segno che esattamente corrisponde al segnabile IN-segnato. Allora succede un'effetto ch' è tutto proprio dell'associazione delle idee. Si presenta un segnabile che non richiama prontamente alla memoria il suo segno, ed invece richiama per ragion di similitudine un'altra percezione segnata che ha pronto il segno. Allora l’emittente, senza metter tempo ir mezzo, si approfitta di questo segno cognosciuto per indicare, non il segnato proprio, ma un segnabile simile; e cosi si la un'altro genere di traslato, cioè il traslato metaforico. L’interprete o recipiente e pur'essi obbligato da quel segno a passare dal segnato simile non propria al segnato propri; e ciò, quando la similitudine calza bene, riesce a proccurare una maggior persuasione, come pure riesce a rappresentare lo stato di esaltamento dell'animo del emittente, quando lo si vede correre rapidamente di segnato in segnato, senza aspettare la corrispondenza esatta del segno, é con servirsi di un segno che indicano un segnato simile. Quest'altro genere di trasláti è anch'esso una necessità, perchè la maggioranza degli uomini non può sempre misurare il segno, e molto meno lo può, quando è sotto l' ardore delle passioni, o nel momento di una pubblica arringa, in cui il segno naturalmente si eleva colla metafora per l’imperioso bisogno di esprimersi con qualunque segno si presenti più adatta. Con questi criterii è ben facile giudicare, perchè vi sieno emittente di repertorio ricco ed emittente di repertorio povero, perchè vi sieno emittente di repertorio riccho e emittente di repertorio povere di forme, ed in qual rapporto stieno tra loro l'abbondanza e la povertà degli uni e delle altre. Il emittente men civilizzato e meno avvezz alla riflessione filosofica, avendo un minor numero di segnati, debbono esseri poveri di segni; ed a misura che son poveri di sengi, più abbondano di traslati, perocchè ad ogni nuovo sengabile che ai medesimi si presenta debbono adattare per similitudine un segno. Queste emittente però diventa di un repertorio ricchissime di forme, ed inclinano quasi sempre alle circonlocuzioni (perifrasi) ed al figurato (metafora). Ciò è ben naturale, perché la forma stessa del discorso deve dare a comprendere che el sengo non venga adoperata nel uso suo ordinario, ma in un uso di somiglianza, in un uso figurato o allegorico. Questo emittente si presta anche facilmente alla nascita di un segno composto (bi-cicletta), perchè sentono il bisogno di accoppiare due segni indicanti oggetti proprii, per segnare un segnabie che ha una somiglianza con ambidue uniti insieme (portmanteau). Perciò questo emittente contiene un signo radicale che si prestano ad inflessioni molto diverse, e per quanto son povere di radice originaei, tanto son ricche di composti e derivati. Per ciò sogliono chiamarsi il più anticho emittente. Non vuolsi confondere un ricco repertorio delle forma con un ricco repertorio di segni, nè si deve credere che la ricchezza delle forme sia indice della perfezione maggiore dell’emittente, molto più quando non è congiunta a - ricchezza vera di signo. Al contrario, i segni di più avanzati nella riflessione e nella civiltà hanno un più esteso numero di vocaboli proprii, e fanno molto conto della purità e della proprietà del segno: onde esse sono più aliene dalla sinonimia, scansano le figure, e adoperano al bisogno strettissimo i traslati. Queste linyne si prestano meglio all’esattezza scientifica, ma quanto sono rigorose, tanto son più fredde, poichè non si confanno collo stato dell'uomo appassionato, il quale afferra qualunque segno avente somiglianza col segnable che vuole signare. Un emittente i di tal sorta non e nato con quella esattezza fin dalla loro origine; perciò porta l' impronta di molte radicali, di molti decivativi e di traslati che appartennero all'epoca più antica. Tutti questi però coll'andare del tempo hanno acquistato segnati loro proprie; cosicché non si ha più l’idea di un traslato o di una metafora in ciascun segno, ma vi si scorge un segnato tutto proprio (By uttering ‘You’re the cream in my coffee’ I sign that you are my pride and joy). Ciò prova che questo fenomeno e recente, e figli, anzichè padre. L’emittente e ricchissimo nel repertorio di segni, ma molto povero nel repertorio di forme poichè ogni segnato ha segno proprio che esattamente lo segna, e perciò le relazioni delle proposizioni sono meno intralciate, son più semplici, e sempre più si avvicinano alla forma fondamentale di ogni giudizio o proposizione: soggetto copula e predicato. Un'altra osservazione debbesi pur fare intorno a queste due specie di emittente. Quello che e più antico, più abbondante di figure e di traslati, meno ricchi di segni che di forme, segna il segnato per come si presenta in forza del l'associazione, e perciò nella loro costruzione-riescono sempre più intralciati; cosicchè il soggetto dell'azione sostanziale, l'azione sostanziale stessa, ed il suo oggetto, non van sempre in ordine progressivo, ma per come si associano tumultuosamente un signato coll’altro, cosi l'esprime: quindi la necessità di molti incisi e di molte trasposizioni del signo. Al contrario, l’emittente più riflessivo, più abbondanti di segni e men ricche di forme, abitua ad un'associazione d'idee più ordinata, e perciò la proposizione conserva la fisonomia ordinaria del giudizio, senza il tumulto d'idee bruscamente congiunte. Per questo un emittente antico (Catone) non e più intelligibili a noi, se prima non mutiamo la sua costruzione, da noi chiamata “indiretta”, in un’altra costruzione più conforme all'ordine logico delle idee che diciamo “diretta” e che a noi è divenuta più abituale. Se si interpreta an pezzo di Catone colla costruzione stessa che ha nell'originale, non sarebbe mica intelligibile. Intanto si scorye da ciò che al linguaggio appassionato ed oratorio, a quel linguaggio, che ha bisogno di esprimere le idee per come si presentano nel tumulto delle passioni o nel calore della perorazione, l’emittente antico e meglio adatto, e quella stessa costruzione intralciata rileva vie maggiormente l'originalità e la spontaneità dell'associazione delle idee. Al contrario, l’emittente nuovo si presta meglio alle opere scientifiche, e per sostenersi nella poesia e nell'oratoria ha bisogno di pensieri per sé stessi clevati, non potendo sperare il loro effetto dalla varietà della forma e dallo stile figurato. Io non scendo a particolari confronti tra stile e stile, poi che qui m'intrattengo dell'alta semiotica generale. Lascio al non-filosofo lo applicare questo principio che nascono dalla natura stessa del segno, dallo stato più o meno amplo delle idee e dal corso delle loro associazioni. Solamente debbo notare che il migliore emittente debbe esser quello, il quale accoppi i due diversi vantaggi, dello stile figurato e dei traslati quando abbisognano, e della precisione rigorosa quando è necessaria. L’emittente antico non puo riunire questi due vantaggi insieme, se non che in un caso solo, quando cioè il popolo italiano è passato colla medesima lingua dal primo periodo della spontaneità a quello della riflessione, dall'epoca della poesia (mythos) a quello della filosofia (logos). Bisogna però in tal caso che il popolo italiano mantenga i due registry in un solo sistema: l'ordinario o basso ed il sublime o alto, il rigoroso ed il figurato. Questo emittente e ricco di segni e di forme allo stesso tempo, ma pecca di molta sinonimia, ed in generale offre un'esempio rilevante, che coloro, i quali adoperano il rigistro esatto, non sa più riuscire nell'altro registro.  Wikipedia Ricerca Affezione Lingua Segui Modifica Il termine affezione (dal latino affectio, sinonimo di affectus) nel linguaggio comune è usato nel significato di "affetto", inteso come un sentimento di benevolenza verso il prossimo, di intensità minore della passione.  In filosofia il lemma indica tutto ciò che avviene nell'animo determinandone una modificazione: l'affezione è ogni «fenomeno passivo della coscienza», ossia la condizione in cui si trova chiunque subisca un'azione o una modificazione[2].  AristoteleModifica In Aristotele, in senso generico, l'affezione è ciò che si contrappone all' ἔργον (ergon), (azione)[3]: il πάϑος (pathos), il "patire", una delle dieci categorie che si possono predicare dell'essere. I sensi producono affezioni con i dati sensibili, che provengono dagli oggetti esterni, sull'anima, che come una tabula rasane viene impressa, dando luogo così all'inizio del processo conoscitivo.   L'affezione può anche riguardare un cambiamento di stato, cioè «una modificazione o carattere sopravvenienti a una sostanza, come l'essere musico o l'essere bianco per l'uomo»[4]  In senso più ampio, sempre in Aristotele, poiché dagli oggetti esterni provengono quegli elementi che provocano nell'anima modifiche non solo sensibili ma anche sentimentali come il piacere, il dolore, il desiderio...ecc., le affezioni coincidono con le "passioni" della sfera etica[5] Quest'ultimo significato si ritrova anche in Cicerone[6], che adotta affectionescome sinonimo di perturbatio animi o concitatio animi. Anche Agostino d'Ippona usa i termini perturbationes, affectus, affectiones come sinonimi di passiones[7].  La funzione delle affezioni. Nella storia del pensiero la funzione delle affezioni viene considerata in tre diversi modi:  con Platone e il platonismo, poiché il comportamento buono si basa sulla conoscenza del vero, le affezioni sono dannose perché influiscono negativamente sia sulla conoscenza che sul comportamento morale. Su questa stessa linea di giudizio sono Cartesio[8], Spinoza, Leibniz, e soprattutto Hegel, che fanno rientrare le affezioni — sia per la conoscenza che per la moralità — nell'ambito della false o confuse idee.[9]  Nella filosofia aristotelica e in quella epicurea le affezioni sono valide nell'ambito conoscitivo, poiché i dati sensibili ricevuti passivamente dal soggetto sono sempre veri, mentre falsi sono i nostri giudizi anticipatori (prolessi) delle sensazioni vere e proprie. Le affezioni sono valutate positivamente anche dal punto di vista morale, poiché non esiste uomo senza passioni, quindi il problema non è quello di eliminarle ma di moderarle (μετριοπάϑεια). Con lo stoicismo le affezioni sono ineliminabili dal punto di vista del processo conoscitivo, mentre vanno messe da parte nei comportamenti morali, che non devono essere compromessi dalle passioni. Il saggio è colui che raggiunge l'apatia, l'indifferenza alle passioni. Kant Secondo Kant, per le nostre intuizioni è indispensabile che il nostro animo sia "afflitto" (affiziert, "affettato") dalle affezioni.[10] Quella della ragione sarebbe una falsa conoscenza senza le affezioni sensibili. Se invece noi intendiamo le affezioni come passioni allora il loro ruolo è puramente negativo: esse sono, non diversamente da quanto aveva inteso Cartesio, «cancri della ragion pura pratica, per lo più inguaribili»[12].  Il concetto di affezione tuttavia fa nascere nella dottrina kantiana un problema relativo alla dicotomia fra fenomeno e cosa in sé. Se l'affezione è tale nel senso per cui i sensi del soggetto vengono modificati dall'oggetto, poiché spazio e tempo sono parte della nostra intuizione sensibile come "a priori", indipendenti dall'esperienza, e il noumeno è per definizione inaccessibile ai sensi, dove mai l'affezione fisicamente modificherà la nostra sensibilità? Kant per uscire dalla difficoltà parla allora di affezione come il risultato di un rapporto causale, intellettivo e non intuitivo sensibile, tra l'oggetto e il soggetto percipiente. Le categorie senza intuizione sono vuote, ma l'intuizione empirica senza le categorie non porta ad alcuna conoscenza.  NoteModifica ^ Dizionario Treccani di filosofia (2009) alla voce corrispondente; Enciclopedia Garzanti di Filosofia alla voce corrispondente Aristotele, De Anima, Γ 2, 426a 2 ^ Aristotele, Metaphisica, Δ 7, 1049a 29,30 (in Sapere.it alla voce "Affezione") ^ Aristotele, Rhetorica, Β 8, 1385b 34 ^ M.T. Cicerone, Tusculanae IV, 6, 11-14 ^ Agostino, De civitate Dei, IX, 4 ^ La passioni sono una "malattia" della razionalità. Sono utili per la vita come l'istinto di sopravvivenza ma impediscono la serenità dell'uomo razionale. (In Ubaldo Nicola, Atlante illustrato di filosofia, Giunti Editore, 2003, p.318 ^ Dizionario Treccani di filosofia alla voce corrispondente ^ I. Kant, Critica della ragion pura, Estetica trascendentale (B 33) ^ Cfr. I. Kant, id.,  Dialettica trascendentale ^ I. Kant, Antropologia pragmatica, (§ 81) ^ I. Kant, Critica della Ragion pura, Analitica trascendentale, 24 Voci correlateModifica Modo (filosofia)  «affezione»   Portale Filosofia. Intelletto facoltà della mente di intendere e concepire  Critica della ragion pura libro del 1781 di Immanuel Kant  Pensiero di Kant Wikipedia Il contenutoSimone Corleo. Keywords: filosofia morale, filosofia dell’identita, filosofia universale, meditazione filosofica, logica, antropologia, sofologia, noologia, noetica-estetica -- linguaggio ordinario, principio dell’identita, Aristotele, la sostanza, l’universale ontologico, la categoria come universale ontologico, segno, signare communicativamente, segnabile, sensibile – nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu -- segnato, emettente, repertorio di segni, repertorio di forme, composizionalita, communicazione primitive, pre-arbitrio pre-convenzione, pre-consenso mutuo, spontaneita, naturalita, associazione, iconicita, bah-bah, peccora, conversazione adulto-bambino, il vocativo “o” emesso sense intent communicative – signa naturalmente che e necessaria l’attenzione spontanea, scenario ii. Romolo e Remo, Eurialo e Niso. Le parti dell’orazione, il verbo e le categorie agruppatta in quattro funzione: quantita, qualita, relazione, modalita. Il nome sostantivo, il nome addgietivo, il avverbo, le particelle, la congiunzione, il vocative “o” – la forma del giudizio e la proposizione semplice “S e P” – modelo filosofico dello svilupo del signare communicativamente – dello spontaneo (arbitrio duale tacito) al arbitrio duale, l’idea di un gesto come SEGNO di una affezione dell’animo – DUALISMO? Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Corleo” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Cornelio: l’implicatura conversazionale di Giove, Ganimede, e Prometeo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Rovito). Filosofo italiano. Grice: “I love Cornelio – he has a gift for titling his treatises: gyymnasma!” “My favourite of his gymnasmata is the one on what he calls the ‘generation’ of ‘man’ – in Roman, ‘homo’ is said to come from mud, humus – and this is strange because Prometeo created man out of mud – In Rome, the more Catholic your philosophy is, the more ‘Aquinate’, as it were, the less Hegelian and Platonic – so trust an Italian philosopher to believe in the Graeco-Roman myth of the ‘generation of man’ than the story of Adam’s spare rib, etc.!” Si forma alla scuola cosentina sulle teorie anti-aristoteliche diTelesio, molto studiato nei salotti. Studia a Roma, approfondendo e facendo proprie molte tesi galileiane. Conobbe il naturalismo telesiano e campanelliano, di cui fu erede il suo tutore Severino. Insegna a Napoli, portando la filosofia di Cartesio e di Gassendi. Nel “Pro-gymnasmata physica” sono esposte la sua teoria filosofiche. Altre opere: “Pro-gymnasmata physica”; “Epistola ad illustriss. marchionem Marcellum Crescentium”; “De cognatione aëris et aquae”; “Epistola Ad Marcum Aurelium Severinum”. Dizionario biografico degli italiani. Quæ in hoc volumine continentur animalium conformatio ex inspectione er ex aque, ac terre expira ouorum percipi facile patest  tionibus ætheri permiftis con animalium ex semine conformatio de stituitur scribitur aer ob vsum respirationis recentari de animalium pars primigenia non iecur neque cor, neque fanguis ter præter modum diſtraktus aut com animantes exſectis teftibus quandoque preffus vite animalium & ignis con filios generant. fernationi inutilis antiquorum varix de.rerum initijs opi aer nisi vaporibus aqueis permiſtus re niones spiritioni inutilis apoplecticorum & ftrangulatorum aer infra aquam demerſus à fuperftan mitis est exitus tis aqua pondere comprimitur Aqua frigore concreta rarefcit, & in ma. Aeris in reſpiratione quis vſus. iorem molem ampliatur. aeris per neceſitas tum ad vitam ani aqua quomodo in vapores foluatur malium tum ad ignem conferuan in glaciem concreſcat dum Aqua fenfu iudice neque contrahi,neque Aeris grauitas diftrahi potest Aeris color caeruleus onde aqua triformis Arris, Aquarum pondus fub eifdem Aquis ineſſe non poteſtnotabilis quanti demerſi curnon ſentiamus. tas aeris Akris compreffio,ea diſtractio nifi æthere Archimedes ingenj doctrinæque prin admiſſo nequit explicari ceps Aeris ex aqua generatio Ariſtoteles animaduertit in generatione Aztheris ſubſtantia omnino admitten diuiparorum fieri.conceptus ouifor da Alibilis fuccusad cor confluit Aristoteles ab attico platonico philo animalia amphibia cur sub aquis distid fopho notatus si le ſine spiritu viuant Aristoteles cur priuationem inter prin Animalia pulmonibus prædita cur niſi cipia numerauerit reſpiraverint citiffimemoriuntur Aristotelis de loco fententia improba animalia, quæ interclufo fpiritu fiiffa cantur dexterum cordis ventriculum, Ariſtotelis principia diffentanea. pulmones babent multo fanguine Ariftotelis quàm galena doctrina de ge refertos. neratione animalium fanior ar mes tur arteriæin vteros prezrintinm perti mentuan mentes frequentiores, ampliores Calor omnis animalium eflà Janguine fiunt Aiteris non moventur à ri pulſifica eiſ- calor nonnunquam diſſimilis nature cor dem à corde communicata, fid ab im pore congregat pulfu fanguinis Calore corpora non femperrarefiunt, Arteriæ omnes eoderntemporis puncto Calore cur omnia diffoluantur, atque li. ab impulſu fanguinis mouentur, tam queſcant que cordis proximefunt, quam quæ à Caloris naturaex Platone explicatur corde longiſſimèabfunt. Cauernæ in quibushomines fuffocantur, arteriarum venarumqueplexus, atque ignisextinguithi' implicatio ibi eße folet vbi fit aliqua Chyli in ſanguinem mutatio quomodo ſecretio fiat. Aſtrologia conieéturalis vanitas Cloylus ad inteſtina de aplies duobus li quoribuspermiſcetur attractioni vulgo tributi motus re vera chylum ounem per lacteas venas trana. pendent à circumpulſione refulſo prodideruntiuniorcs Auftifichs ſuccusper membranas, a Chymix cognitio ad Thyſiologiam illis neruos in partes diffunditur ſirandam perutilis Auftificus fuccus ab Arabibus obfer- chymici magnam cladem galenicæ fa Uatus,fedperperam iudicatus. &tioni attulere cibaria non eo quo ingeruntur ordine Ilis à fanguine in iecinore fecerni B permanentin ventriculo tur cibi pars e ventriculo fiatim elabitur Bilis nõ eſt fanguinisexcrementun antequam integra maſa confefta fue Bilis nutritiumfuccum diluit, & fluxum reddit ciborum concoétionem auctores diuerſa Bilis vtilitas rationeexplicant Brahaus illuftris Aftronomus à predi- cibus in ventriculo quomodo conficia Etionibus aftrologicis abstinuit  Bruni de mundanorum innumerabilitate cibus non à folo calore conficitur sententia refellitur cibus in ventriculo fermentarur Brunus voluminibus ſuis nugas inferuit. Cibus in ventriculo coctus non femper albicat Cibus non detinetur in ventriculo donec Alidorum halituum magna vis in totusfuerit confectus exterendis duris corporibus Cola piſcis cur amphibiorum more diu Calor cæleftis est eiufdem nature, atque tule fub aquis viuere potuerit elemenearis Conceptus omnes viviparorum ouifor culor innatus eftmedicorum inane com mes ſunt Con rit. tur. с Copernicus ab Italis mundani systematis FFelleus, Gʻaqueus humor cuit Condensatio, et rarefaétiofine tenuiſſima quod ob defluxum bydrargyri inane ætheris fubftantia explicari non po videtur teft F Elle nullum animal caret. notitiam arripuit quibus Copernicus maximus astronomus prædi. chylus diluitur,iterato fæpius circuitu &tiones aſtrologicas improbauit ad inteftina reuoluuntur cor motum non habet à cerebro, fed inſe Fermentatio quid ſit ex Platone, ip, o cietur, cpalpitat Fermenti vis à calore excitatur. ibid. Cordis motus fit ab balitibusin eiuſdem Firmicus reprehenditur lofibras influentibus flamma cur fine pastu permanere ne Cordis motus nõ excitatur àferuorefan queat guinis, vt Ariftoteli, Carteſio pla- Flamma cur faſtigietur in conum, ibid. Fæmina ſubminiſtrat materiam omnem Corpora je inuicem propellere poffunt, ex qua fætuscorporatur non autem attrahere Fæminæ genitura non carent D Feminarumgenitura an aliquid conferat Ifferentis inter conceptus ouip.rros, adgenerationem Fætus vita non pendet à vita matris Dɔny Volumen de natura hominis fætus cum propria tum parentis vi ab utero excluditur E Frigore nonnunquam diſſimilis nature Lectrum quomodofeſtucasattrahat. corpora ſegregantur experimenta ludicra quatuor primum Alenus ab Ariſtotele maximis de orbiculorum in aqua alternatim a rebus diſſentit frendentium, defcendentium Galenus Platonis fententiam de circum secundum orbiculorum in tubo dque pulſione non eſt affecutus pleno fuerfum deorſumque recurrena Galeni experimentum de fistula in arte. - tium ad nutum eius, qui tubi oftium riam immiſa oſtendit arterias ab im digito obturat pulſie fanguinis moueri tertium orbiculorum in tubo retorto Galeni Secta cæpit deficere aſcendentium defcendentium pro Galenice fattioni magna clades d chy paria tubi inclinatione micis eſt illata quartum orbiculorum ex imo furfum galenice medicine summa aſcendentium propter diſtractionein Galilæus de atomis, inani aliter vidé aeris in eiſdem conclufi tur decernere, ac Democritus & Epi Experimentum quo Verulamius probat curus aquam comprimipole eſt fallax Galileus omnium primus physiologiam experimentum Torricelli de spario, com Geometria iugauie Ga Gevens ifotelemaximisde Galilcus aſtronomicarum rerum peritif Hippocratimulta tribuuntur, quecom. fimus improbauit aſtrologicas prædi mentitia funt ctiones" Hobbes fententia de ſubſtantia inter al GALILEI (si veda) Carteſi aliorumque iuniorum rem & aquam media. doctrina phyſicapræftantior quam homo à teneris annisita potefl educari, antiquorum vt amphibiorum more ſub aquisdiu Genituraquid,vnde prodeato tius viuat Genitura non fit in teftibus Homo incerto gignitur fpatio Genitura in procreatione animalium ef- Hominis genitura non est eiufdem ratio ficientis tantum caufa vim habet. nis cum femine ſtirpium Genitura non eſt pars, feu materia con Hornunculorum generatio à Paracelſo fituendi conceptus: propoſita commentitia eft Genituræ craffamentum oua, & conte Humanusfætus recens formatusmaiu ptus minimè ingreditur Sculæ formica magnitudinem vix fum Geniturepars, quæ efficiendi vim habet, perat oculorum fugit aciem Geniture vis per occultum agit corpora quantumuis denfa penetrat Sanguinefecernere. Ecinorisprecipuum munusest bilen Geometrie Paradoxa nonſemper plyſInanenihil eft. cis diſquiſitionibus aptantur so Ingenia ad philofophandum idonea que Glandulg cur maiores & frequentiores nam fint. in tenellis, & pinguibusanimalibus, Initia rerum naturalium abftrufa. quam in ſenioribus, &macilentis, in omni motu fit reciproca corporum  dla translatio Glandule fecernunt auctificum ſuccum Iuniores multa fulicius inuenere quam à reliquo fanguine Priſci. 4 Glandularum vtilitas. ibid. K Græci curdoctrine ſudijs cæteris natio nibuspræcelluerint probauit aftrologicas predi&tio Grauiora corpora etiam à leuioribus ju. perftantibus premuntur L Grauitas quid L Ac quibus vis feratur' ad mam H mas Hanimalium accuratiſſima. Aruei obſeruationes degeneratione lacervberibus virorum, &virginum frequenti fuetu prolicitur Harueius in obferuando diligētior, qaam Lace papillisrecens natorum extillans.. in iudicando Hippocratis de calore Paradoxum. lac in ventriculo pueri coagulatur Hippocratesanimaduertitfetum in man ' Latte columbs-nutriunt pullos ſuosprin tris vtero alimentum exfugere mis diebus Laa nes Luuleirum venarum nonnulla cum me. Saraicis coniunguntur medicina praua quadam conſuetudina Lamine complanatæ mutuo contactu co. hominibus infimæfortis tractanda re hærentes cur niſi magno conatu diuelli linquitur nequeant Medicina rationalis ſuper falſis hypothe. Lansbergius' excellens Aftronomus à fibus hactenus fuit ſuperstructa predi& tionibus aſtrologicis abſtinuit. Medicina Græcorum continet inanes conie turas & fallaces præceptiones, Lien per flexuojam arteriam craffioren fanguinem excipit Medicina inconftantia, Seftarum va Lien craffiorē & impuriorem ſuccum ex rietas. cibireliquisſecretum ſuſcipit Medicinam pauciffimi Romanorum fa Lienis vtilitas, Arụctura Etitarunt Lumennon eft in rebus, fed fit in ipfo  Membranarum vtilitas, dentis oculo Motus ad fugam vacui vulgo relati pen Luminis naturaexplicatur dent à circumpulſionefuperftantis ae. ris maseratica vis diſimilis elektrick: Mund for printeriplexdifferentia mini. Men Maßarias iuniorum gloriæ infenſus  Mundi magnitudo incomprehenſa. ibid. Materia exqua fætus corporatur eſt al N bugineus lentor ſinailis ouorum albus Aturæ ratio ex ipſa potiusrerum Mathematicæ diſciplinæ fummam inge paranda stü aciem defiderant Naturalis historie cognitio ad Phyſiolo Mathematicarum disciplinarum notabile giam malde necellaria incrementum O Medici latina verba importunèeffutiunt, Bferuatio noua deforaminibus in vt imperitorum plaaſum aucupen. interiorem pentriculi tunicam.: tur biantibus. Medici periculofus, &ancipites morbo- obſeruatio noua de pensatorum ventri. rum curationes inftituunt, culis. Medici perperam diuidunt partes in ſper. Obferuatio noua lenti humoris in ventri maticas,atque fanguineas', culo exiſtentis Medici rationales quam profitentur', Obſeruatio viarum, que nouum alimentū. ſcientiam omnino ignorant ex ventricnli fundo excipient Medicis familiare eft mutuainter fe ia. Oetimestris partus non minus pitalis Etare conuicia quam ſeptimeſtris Medicorum improbitas Ouiformis conceptus in viviparis habet Medicorum inſcitia reprehenditur, vcram ſeminis rationem Ouum gr Pusega Perguedus nouisobfervationibusfretus R Frisvarijoeleis queriamlitar $ Strguis I i Ouum fæcundum b.abet rationem femi- Ptolemai Copernici, &Brahei mundan nis in ouiparis Systematis pofitiones manca im perfecte Ancreatis ductus vtilitas Pueri cur facilius mathematici effe pof fant,quàm phyſici,aut politici. Paracelſus d plerifque propter obſcurita- Pulli ex quo generatio defcribitur tem deſertus R opinion Erum natura vix alibi quàm in li Pecquetus obferuationibus quæriſolita bematofin tribuit cordi, non iecinori. Refpiratione cordis æſlum temperari fal sò creditum est Pestilentix confideratio philosophandi ratio inſtituta à noftri fæ Anguis non eſt ſuceus ſimplex, nec culi auctoribus laudatur. tamen continet quatuor decantatos Philoſophia noftris temporibus in liber humores tatem vindicata eft Sanguis in omne corpus per arterias dif Philosophia Cartesii quails funditur Ploilofophiæ ftudium à pleriſque peruer- Sanguis per arterias in membra influen's titur vitalitatem magis, quam nutrimen Philoſoplrorum in definiendis rerum ini. tum infert tijs conſenſus sanguis non calore, motuue liquefcit, fed Phyſiologia parum hactenus adoleuit permiftione tenaifimihalitus pbyſiologia plurimarum rerum cognitio nem, & experientiam requirit Sanguis non fuapte natura caliduseſt, Phyſiologia onde ordienda nec calorem accipit à corde, fed motu, Phyſiologia poteft ex falfis hypotheſibus atque agitatione incalefcit veras naturalium rerumaffectiones Sanguis non in iecinore, nec in corde, vel concludere alio certo viſcere conficitur Phyſiologie obſcuritas onde proficifca. Sanguinis duapartes altera viuifica tera auctifica Phyſiologiæ perfetta cognitio cur defpe- Sanguinis natura admirabilis Eius randa potior pars aciem fugit Phyſiologiam noftre etatis fcriptores Sanguinis motusà corde a præclaris inuentis illuſtrarunt Sanguinis circulationem ab Harueio de Phyſiologiam nemo Geometriæ ignarus fcriptam indicauerant,ante Pizulus Mis aſequitur Sarpa, &Anstress Cefalpinus. Planetarum corpora ad ætheris liquidif- Sanguinem fal coire, &denfere noir par ſui motum circumferripoflunt titur Plato materiam voluit eſſe locum Sapientia illa quam in ætatibus habet ſe weêtus nostræ potius cetati, quins pria e feq. tør. ſeis fcis temporibus debetur Vacuipropugnatores corporis naturam à Semen animalium quidnam fit cx Aris tałtu determinant Stotele P'ene lactea non deferuntomnem fuc Senfus non ea omnia percipit, qua in na. cum alibilem jura exiſtunt Venis la &teis animantesquædam carere Senſu quæcumquepercipiuntur falsò ta videntur lia iudicantur qualia videntur. ibid. Venarum lymphaticarum progreffus, ego Soli nibilſimiliusquamflamma vſus leg. Solem igneum esſe tactus & oculorum Vene meſaraica fuccum nutritium ex teftimonio probat Cleanthes inteſtinis ad iecur Stelliole Encyclopedia Vens meſaraicæ non ſunt deſtinate nú Stelliola nouitate verborum abſtruſe do. tricationi inteftinorum & alui Etrina caliginem offudit Vene vmbilicales maiores ampliorefque Stirpium ex ſemine propagatio compre funt coniugibusarterijs. 88 hendi facile poteſi Ventriculi,& inteftinorum motus  Stoicis materia corpuseffe videtur Vermes in iecinorè, liene,corde,pulmoni Sympathia Antipathiæ & Antiperiſia bus & cerebro animaliū fis inania commenta Verulamius opes ætatemque inter expe rimenta conſumpſit Elefius putauit poße ſpatiumma Vix quibus humores d corpore per aluum gna vi conatuque pacuum fieri. expurgantur Vita hominis in continuata fanguinis Telefiusveteresphilofophos, é precipuè. motione conſiſtit Ariſtotelem exercuit Vitalis halitus in ſanguine existensquo Testes priuerfo corpori robur conferunt. modo percipiatur Vitri denſitatem penetrat hydrargyrus Theologi Hegyptü Deos omnes ex ouo prognatos eſetradiderunt Vniuerſum vnum indiuiduum, atque im Tyndaridæ ex ouo editi mobile Torricelli Paradoxum geometricum Vrina per quas vias in renes, &veficam profunditur. Acuum experimento Torricelli Vvirjungiani ductus vtilitas Vacuum neque mouere corpora poteſt ne Enonis de natura geniture fenten que ne moueantur inbibere Ztia.  Wikipedia Ricerca Ganimede (mitologia) personaggio della mitologia greca, figlio di Troo, coppiere degli dei Lingua Segui Modifica Ganimede Ganymede eagle Chiaramonti Inv1376.jpg Ganimede e l’aquila, Nome orig.Γανυμήδης Sessomaschio Luogo di nascitaDardania Professionedio dell'amore omosessuale e principe dei Troiani Ganimede (in greco antico: Γανυμήδης, Ganymḕdēs) è un personaggio della mitologia greca. Fu un principe dei Troiani. Omero lo descrive come il più bello di tutti i mortali del suo tempo.  «La vicenda mitologica di Ganimede servì da emblema significante per la natura dell'amore tra uomini, un amore filosoficamente più elevato rispetto a quello rivolto alle donne: la vicenda dell'aquila divina si assicurò così un posto d'onore tra i riferimenti artistici al desiderio omoerotico[1].»  In una versione del mito viene rapito da Zeus in forma di aquila divina per poter servire come coppiere sull'Olimpo: la storia che lo riguarda è stata un modello per il costume sociale della pederastia greca, visto il rapporto, di natura anche erotica, istituzionalmente accettato tra un uomo adulto e un ragazzo. La forma latina del nome era Catamitus, da cui deriva il termine catamite, indicante un giovane che assume il ruolo di partner sessuale passivo-ricettivo. Genealogia Figlio di Troo e di Calliroe (o di Acallaride).  Le varianti della sua ascendenza sono molte, Marco Tullio Cicerone scrive che sia figlio di Laomedonte[7], Tzetzes che sia figlio di Ilo[8], per Clemente Alessandrino è figlio di Dardano[9] e secondo Igino suo padre fu Erittonio[10] oppure Assarco.  Non risulta aver avuto spose o progenie.  Mitologia Bassorilievo di epoca romana raffigurante l'aquila, GANIMEDE che indossa il suo berretto frigio e una terza figura, forse il padre in lutto Il tema mitico fondante di Ganimede è costituito dalla sua bellezza, di cui si invaghirono sia il re di CretaMinosse sia Tantalo ed Eos, come infine il re degli dei Zeus, così come si racconta nelle varie versioni della stessa leggenda.  Nell'Iliade di Omero, Diomede racconta che il Signore degli Dei, affascinato dalla sublime beltà rappresentata dal ragazzo, lo volle rapire nei pressi di Troia in Frigia, offrendo in cambio al padre una coppia di cavalli divini e un tralcio di vite d'oro[12]: il padre si consolò pensando che suo figlio era ormai divenuto immortale e sarebbe stato d'ora in avanti il coppiere degli Dei, una posizione che era considerata di gran distinzione.  Zeus per sottrarre Ganimede alla vita terrena si sarebbe camuffato da enorme aquila; sotto tale aspetto si avventò sul giovanetto mentre questi stava pascolando il suo gregge sulle pendici del monte Ida, nelle vicinanze della città iliaca, se lo portò quindi sull'Olimpo dove ne fece il suo amato. Per questo motivo nelle opere d'arte antiche Ganimede è spesso raffigurato accanto a un'aquila, abbracciato a essa, o in volo su di essa, e, in varie opere d'arte, è quindi raffigurato con la coppa in mano.  Walter Burkert ha trovato un precedente riguardante il mito di Ganimede in un sigillo in lingua accadicaraffigurante l'eroe-re Etana di Kish volare verso il cielo a cavalcioni proprio di un'aquila[13]. Da alcuni viene anche associato con la genesi della sacra bevanda inebriante dell'idromele, la cui origine tradizionale è proprio la terra di Frigia. Tutti gli dei erano riempiti di gioia nel vedere il bel giovane in mezzo a loro, con l'eccezione di Era; la consorte di Zeus considerava difatti Ganimede come un rivale più che mai pericoloso nell'affetto del marito. Il padre degli Dei ha successivamente messo Ganimede nel cielo come costellazione dell'Acquariola quale è strettamente associata con quella dell'Aquila e da cui deriva il segno zodiacale dell'Acquario.   Busto di Ganimede, opera romana d'epoca imperiale (sec. II d.C.) (Parigi, Museo del Louvre) Mito iniziaticoModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Pederastia § Origini iniziatiche. La coppia Zeus-Ganimede costituisce il modello mitico del rapporto omoerotico tra maschio adulto e giovinetto, relazione colorantesi spesso di un significato iniziatico (vedi la pederastia cretese) in quanto finalizzata - anche attraverso il legame sessuale - all'inserimento del giovane nella comunità dei maschi adulti. Questi amori "paidici" di un adulto amante-erastès che rapiva simbolicamente un giovinetto passivo-eromenos potevano venir praticati attraverso schemi rituali imitanti i veri e propri rapporti matrimoniali e dove, in un luogo appartato, avveniva la sua iniziazione sessuale.[15]  Zeus e Ganimede, rappresentando la perfetta coppia di amanti maschili, sono stati come tali cantati dai poeti. Il cosiddetto "tema di Ganimede" era adottato durante il simposio a modello dell'amore efebico: se anche il Signore degli dei fu incapace di resistere alle grazie di un fanciullo, come avrebbe potuto farlo un mortale e poter rimanerne immune? Certamente nella mitologia greca si riscontra la grande voglia di Zeus nel sedurre le Dee, ninfe, ecc.; per questo a volte si considera il padre degli dei strettamente d'accordo all'eterosessualità. [16]  FilosofiaModifica Platone rappresenta l'aspetto pederastico del mito attribuendo la sua origine a Creta e ponendo, quindi, il rapimento sull'omonimo monte Ida dell'isola: la sua è una critica dell'usanza della pederastia cretese che aveva oramai perduto quasi completamente la sua funzione originaria, accusando quindi i Cretesi di essersi inventati il mito di Zeus e Ganimede per giustificare i loro comportamenti[17].  Nel dialogo platonico poi Socrate nega che il bel giovane possa mai esser stato l'amante carnale del padre degli Dei, proponendone, invece, un'interpretazione del tutto spirituale: Zeus avrebbe amato l'anima e la mente o psiche del ragazzo, non certo il suo corpo[18][19].  Il neoplatonismo ci offre una rappresentazione mistica del rapimento di Ganimede; esso sta a significare il rapimento dell'anima a Dio, e in questo senso è stato usato, anche in opere d'arte funerarie e anche durante il Neoclassicismo, sia nell'arte figurativa sia in letteratura. Si veda, per un esempio, il Ganymed di Johann Wolfgang von Goethe del 1774.   Damiano Mazza (attribuzione), Ratto di Ganimede, sec. XVI (National Gallery, Londra) PoesiaModifica In poesia Ganimede divenne un simbolo dell'attrazione e del desiderio omosessuale rivolto verso la bellezza giovanile dell'adolescenza. La leggenda fu menzionata per la prima volta da Teognide, poeta del VI secolo a.C., anche se la tradizione potrebbe essere più antica; di essa parla anche il poeta latino Publio Ovidio Nasone nella sua opera Le metamorfosi[20], poi Publio Virgilio Marone nell'Eneide all'interno del proemio, Apuleio[21] e infine anche Nonno di Panopoli nel suo poema epico intitolato Dionysiaca narrante la vita e le gesta del dio Dioniso.  Virgilio ritrae con pathos la scena del rapimento: il ragazzo che lo accompagna tenta invano di trattenerlo con i piedi sulla terra, mentre i suoi cani abbaiano inutilmente contro il cielo[22]. I cani fedeli che continuano a chiamarlo con latrati disperati anche dopo che il loro padrone è sparito nell'alto dei cieli è un motivo frequente nelle rappresentazioni visive e vi fa riferimento anche Stazio[23].  Ma egli non è sempre raffigurato come acquiescente: ne Le Argonautiche di Apollonio Rodio ad esempio Ganimede risulta essere furibondo contro Eros per averlo truffato nel gioco d'azzardo con gli astragali, Afrodite si trova così costretta a rimproverare il figlio di barare come un principiante.  Nell'opera Come vi pare di William Shakespeare il personaggio di Rosalind si traveste da uomo quando deve andare nella foresta di Arden, scegliendo il nome di Ganimede: ciò ha portato ad approfondire lo studio del rapporto che si era creato tra Rosalind e sua cugina Celia, il quale andava ben oltre la semplice amicizia, avendo dei tratti molto simili all'amore, in questo caso omosessuale.   Statuina di Zeus-Aquila e Ganimede di epoca paleocristiana AstronomiaModifica Per il rapporto esistente fra Giove e Ganimede, il maggiore satellite naturale del pianeta Giove - il pianeta più grande del sistema solare e per questo chiamato per omologia come la versione latina di Zeus, ovvero Giove - è stato battezzato appunto Ganimede da Simon Marius[24]. Gli è inoltre stato dedicato l'asteroide scoperto nel 1925, 1036 Ganymed.  Nelle artiModifica Nella scultura una delle immagini più famose di Ganimede è il gruppo scultoreo di Leocare del IV secolo a.C. (lo stesso a cui viene attribuito anche l'Apollo del Belvedere) e tanto ammirato da Plinio il Vecchio: «Leocare [ha realizzato] un'aquila che trattiene con forza Ganimede; innalza il fanciullo piantandogli gli artigli nella sua veste.» Questo particolare del rapimento tramite l'aquila è stato spesso elogiato anche in seguito. Stratone di Sardi lo evoca in uno dei suoi epigrammi, così come fa anche Marco Valerio Marziale.  La leggenda di Ganimede ha ispirato anche un gruppo in terracotta, probabilmente originario di Corinto e oggi conservato nel Museo Archeologico di Olimpia: questo è uno dei pochi esempi di grande scultura in terracotta, e una rappresentazione scultorea molto rara della coppia in cui Zeus si mantiene in forma umana.  Nella ceramica il tema di Ganimede si ripete spesso, di solito raffigurato nei crateri, quei particolari grandi vasi entro cui venivano mescolati acqua e vino durante i banchetti (o simposi) che si svolgevano solo tra uomini, in cui gli ospiti gareggiavano in immaginazione poetica e filosofica per celebrare i meriti dei loro rispettivi eromenos. Tra i più famosi è incluso il craterea figure rosse che ritrae da un lato Zeus in pieno esercizio, dall'altro Ganimede mentre sta giocando con un grande cerchio, il simbolo della sua giovinezza: il ragazzo è completamente nudo, così come vuole la tradizione antica sportiva di origine in parte pederastica (vedi nudità atletica).   Il ratto di Ganimede (circa 1650), di Eustache Le Sueur Il Rinascimento ha visto riapparire innumerevoli rappresentazioni di questo mito, con artisti quali Michelangelo Buonarroti, Benvenuto Cellini e Antonio Allegri tra tutti. In questo periodo è anche uno dei temi con più forte significato omoerotico, divenendo una sorta di icona gay ante litteram almeno fino al XIX secolo inoltrato.  Quando il pittore-architetto Baldassarre Peruzziinclude un pannello riguardante il rapimento di Ganimede in uno dei soffitti di Villa Farnesina a Roma(1509-1514 circa), i lunghi capelli biondi del ragazzo e l'aspetto effeminato contribuiscono a farlo rendere identificabile a prima vista: si lascia difatti catturare verso l'alto senza opporre la minima resistenza.  Nel Ratto di Ganimede di Antonio Allegri detto Il Correggio la sua figura e l'intera scena è più contestualizzata intimamente. La versione del Ratto di Ganimede di Pieter Paul Rubens ritrae invece un giovane uomo. Ma quando Rembrandt dipinse il suo Ratto di Ganimede per un mecenate calvinista olandese nel 1635, ecco che un'aquila scura porta in alto un bambino paffuto in stile putto, che strilla e si fa la pipì addosso per lo spavento.   Ratto di Ganimede (1700), di Anton Domenico Gabbiani Gli esempi di Ganimede nel XVIII secolo in Francia sono stati studiati da Michael Preston Worley[25]. L'immagine raffigurata era invariabilmente quella di un adolescente ingenuo accompagnato da un'aquila, mentre gli aspetti più omoerotici della leggenda sono stati raramente affrontati: in realtà, la storia è stata spesso "eterosessualizzata". Inoltre, l'interpretazione del mito data dal Neoplatonismo, così comune nel Rinascimento italiano, in cui lo stupro di Ganimede ha rappresentato la salita alla condizione di perfezione spirituale, sembrava non essere di alcun interesse per i filosofi e i mitografi dell'Illuminismo.  Jean-Baptiste Marie Pierre, Charles-Joseph Natoire, Guillaume II Coustou, Pierre Julien, Jean-Baptiste Regnault e altri hanno contribuito ad arricchire le immagini di Ganimede nell'arte francese tra fine XVIII e inizio XIX secolo.  La scultura che ritrae Ganimede e l'aquila di José Álvarez Cubero, eseguita a Parigi nel 1804, ha portato all'immediato riconoscimento dell'artista spagnolo come uno degli scultori più importanti del suo tempo[26].  L'artista danese Bertel Thorvaldsen, di gran lunga il più notevole degli scultori danesi, ha scolpito nel 1817 una scultura dedicata alla scena di Ganimede e l'aquila.   Particolare di una scultura della seconda metà del II secolo d.C., da un modello tardo ellenistico a sua volta derivato dall'ambito figurativo greco del IV secolo a.C. Conservato al Museo archeologico nazionale di Napoli. AltroModifica Nel linguaggio corrente il nome di Ganimede è passato a indicare un bellimbusto, un damerino o anche un giovane amante omosessuale.   Pittore di Berlino, Ganimede gioca con il cerchio, tenendo in mano un gallo, dono di corteggiamento di Zeus. Cratere attico a figure rosse, ca. 500-490 a.C. (Parigi, museo del Louvre).   Ganimede e Zeus, e Apollo e Ciparisso, illustrazione di due miti a carattere omosessuale per le Metamorfosi di Ovidio (Venezia, 1522)   Illustrazione gli Emblemata di Andrea Alciati del 1534. Ganimede rappresenta allegoricamente l'anima che si "rallegra" in Dio.   Raffaello da Montelupo (1505-1566), Giove bacia Ganimede  (Ashmolean Museum, Oxford)   Cherubino Alberti, Copia rovesciata da originale di Polidoro da Caravaggio, Giove bacia Ganimede (sec. XVII). La borsa di denaro in mano al giovane allude alla prostituzione, in spregio al mito pagano.   Il Ganimede di Antonio Canova  "Ganimede" (1804), di José Álvarez Cubero  Ganimede abbevera l'Aquila divina (1817), di Bertel Thorvaldsen Albero genealogicoModifica AtlantePleioneScamandroIdea Elettra ZeusTeucro DardanoBatea Erittonio Ilo Troo Calliroe EuridiceIloAssarcoIeromneneGanimede Laomedonte Strimo (o "Leukyppe")TemisteCapi PriamoEcubaAnchiseAfroditeLatino EttoreParideCreusaEneaLavinia AscanioSilvio Silvius Enea Silvio Bruto di TroiaLatino Silvio Alba Atys Capys Capeto Tiberino Silvio Agrippa Romolo Silvio Aventino Proca NumitoreAmulio MarteRea Silvia ErsiliaRomolo Remo Età regia di RomaShe-wolf suckles Romulus and Remus.jpg NoteModifica ^ Paolo Zanotti Il gay, dove si raccnta come è stata inventata l'identità omosessuale Fazi editore 2005, pag. 25 ^ Secondo l'AMHER ("The American Heritage Dictionary of the English Language", 2000), catamite, p. 291. ^ a b ( EN ) Apollodoro, Biblioteca III, 12.2, su theoi.com. URL consultato l'8 giugno 2019. ^ ( EN ) Omero, Iliade XX, 213 e seguenti, su theoi.com. URL consultato l'8 giugno 2019. ^ ( EN ) Diodoro Siculo, Biblioteca Historica IV, 75.3 e 4 e 5, su theoi.com. URL consultato il 10 giugno 2019. ^ ( EN ) Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane I, 62, su penelope.uchicago.edu. URL consultato l'8 giugno 2019. ^ Marco Tullio Cicerone, Tusculanae disputationes, 1. 26 ^ Tzetzes a Licofrone 34 ^ ( EN ) Clemente Alessandrino, 22, su theoi.com. URL consultato il 3 giugno 2019. ^ Igino, Fabulae 224 ^ Igino, Fabulae 227 ^ Iliade, 5.265ff. ^ Burkert, p. 122; Burkert fa purtuttavia notare che non esiste un nesso diretto con l'iconografia. ^ Veckenstedt. ^ Guidorizzi, Il mito greco Volume primo - Gli dèi 2009, p. 835. ^ Guidorizzi, Il mito greco Volume primo - Gli dèi 2009, p. 836. ^ Platone, Leggi, 636D. ^ Platone, Fedro, 255. ^ Platone, Simposio, 8,29-3. ^ Ovidio, Metamorfosi, 10,152. ^ Apuleio, L'asino d'oro, 6,15; 6,24. ^ Publio Virgilio Marone, Eneide, V 256-7. ^ Stazio, Tebaide, 1.549. ^ Marius/Schlör, Mundus Iovialis, p. 78 f. ^ Worley, The Image of Ganymede in France, 1730-1820: The Survival of a Homoerotic Myth, in Art Bulletin, n. 76, dicembre 1994, pp. 630-643. ^ ( EN ) Hugh Chisholm (a cura di), Alvarez, Don José, in Enciclopedia Britannica, XI, Cambridge University Press, 1911. BibliografiaModifica  "Ganimede" (1874), di Gabriel Ferrier Fonti antiche Apollonio Rodio, Le Argonautiche. Apuleio, L'asino d'oro. 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Figlia di Crono e Rea  Laomedonte re di Troia nella mitologia greca, figlio di Ilo  Wikipedia Il contenutoGrice: “It’s best to represent Cornelio as representing Cartesio – yes, the Cartesio that Ryle attacked! But Italy never had a Ryle, so that’s good!” Tommaso Cornelio. Cornelio. Keywords: Giove, Ganimede, e Prometeo, pro-gymnasmaton, gymnasmaton, gymnasta, gymnasium, ginnasio, ginnasiale, nudo romano, nudita romana, corpo nudo, snudare, atleta, atletismo, lotta ginnastica, competizione ginnastica, implicatura ginnastica, l’implicatura ginnastica di Socrate, Socrate al ginnasio, implicatura ginnasiale, the eagle, Giove come aquila, aquila come impero romano, aquila come impero nazi – le due aquile -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cornelio” – The Swimming-Pool Library. Cornelio.

 

Grice e Cornello – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sorrento). Filosofo italiano. La sua opera più importante è la Gerusalemme liberate, in cui vengono cantati gli scontri tra cristiani e musulmani durante la prima crociata, culminanti nella presa cristiana di Gerusalemme. Ultimo dei tre figli di Bernardo Tasso, letterato e cortigiano nato a Venezia, ma di antica nobiltà bergamasca, poi al servizio del principe di Salerno Ferrante Sanseverino del regno di Napoli, compreso nella monarchia spagnola, e di Porzia de' Rossi, nobildonna napoletana di origini toscane, pistoiesi da parte paterna e pisane da parte materna. Di Sorrento e della «dolce terra natìa» il poeta conserverà sempre un magnifico ricordo, rimpiangendo  «... le piagge di Campagna amene, pompa maggior de la natura, e i colli che vagheggia il Tirren fertili e molli.»  (Gerusalemme liberata) Quando C. era ancora bambino, il principe di Salerno fu bandito dal regno e Bernardo seguì il suo protettore. All'età di 6 anni si recò in Sicilia e dalla fine del 1550 fu con la famiglia a Napoli, dove lo seguì il precettore privato Giovanni d'Angeluzzo. Frequentò per due anni la scuola dei Gesuiti appena istituita e conobbe Ettore Thesorieri con il quale poi restò in corrispondenza epistolare.  Ebbe un'educazione cattolica e da giovane frequentò spesso il monastero benedettino di Cava de' Tirreni (dove si trovava la tomba di Urbano II, il papa che aveva indetto la prima crociata), e ricevette il sacramento dell'Eucaristia quando «non avea anco forse i nov'anni», come scrisse egli stesso. Due anni dopo la sorella Cornelia, che nel frattempo si era sposata con il nobile sorrentino Marzio Sersale, rischiò di essere rapita durante un'incursione ottomana a Sorrento, e questo rimase impresso nella sua memoria.   Guidobaldo II Della Rovere. Rimase a Napoli fino ai dieci anni, poi seguì il padre a Roma, abbandonando con grande dolore la madre che fu costretta a rimanere nella città partenopea perché i suoi fratelli «rifiutavano di sborsarle la dote». Nella città pontificia fu Bernardo a educare privatamente il figlio, ed entrambi subirono un grave trauma quando vennero a sapere della morte di Porzia, probabilmente avvelenata dai fratelli per motivi d'interesse.  La situazione politica a Roma subì però uno sviluppo che preoccupò Bernardo: era scoppiato un dissidio tra Filippo II e Paolo IV e gli spagnoli sembravano sul punto di attaccare l'Urbe. Mandò allora Torquato a Bergamo presso Palazzo Tasso e la Villa dei Tasso da alcuni parenti e si rifugiò presso la corte urbinate di Guidobaldo II Della Rovere, dove fu raggiunto dal figlio pochi mesi dopo.  A Urbino C. studiò assieme a Rovere, figlio di Guidobaldo, e a Monte, poi illustre matematico. In questo periodo ebbe maestri di assoluto livello quali il poligrafo Girolamo Muzio, il poeta locale Galli e il matematico Federico Commandino. Torquato passava a Urbino solo l'estate, dal momento che la corte trascorreva l'inverno a Pesaro, dove Tasso entrò in contatto con il poeta Bernardo Cappello e con Dionigi Atanagi, e scrisse il primo componimento a noi noto: un sonetto in lode della corte.  Bernardo si sposta intanto a Venezia, indiscussa capitale dell'editoria, per occuparsi della pubblicazione del suo Amadigi. Poco tempo dopo, quindi, anche il figlio cambiò una volta di più città, stabilendosi in laguna. Sembra che proprio a Venezia, non ancora sedicenne, abbia cominciato a mettere mano al poema sulla prima crociata e al Rinaldo. Il Libro I del Gierusalemme (conservato dal Codice vaticano-urbinate 413) fu scritto dietro consiglio di Giovanni Maria Verdizzotti e Danese Cataneo, due poeti mediocri che allora frequentava e che già avevano scorto nel Tasso un talento straordinario. Si iscrisse per volere paterno alla facoltà di legge dello Studio patavino, raccomandato a Sperone Speroni, la cui casa frequentò più delle aule universitarie, affascinato dalla vastissima cultura dell'autore della Canace. Tasso non amava la giurisprudenza, tanto che attendeva più alla produzione poetica che allo studio del diritto. Così, dopo il primo anno ottenne dal padre il consenso per frequentare i corsi di filosofia ed eloquenza con illustri professori tra cui spicca il nome di Carlo Sigonio. Quest'ultimo rimarrà un modello costante per le dissertazioni teoriche tassesche futureprime fra tutte quelle dei Discorsi dell'arte poetica, in cui si nota anche l'influsso dello Speronie lo avvicinò allo studio della Poetica aristotelica.  È in quest'epoca che si colloca il primo innamoramento del ragazzo, già molto sensibile e sognatore. Il padre era stato introdotto nella corte del cardinale Luigi d'Este, e nel settembre 1561 si era recato col figlio a fare la conoscenza dei familiari del suo protettore. Conobbe nell'occasione Lucrezia Bendidio, dama di Eleonora d'Este, sorella di Luigi.  Lucrezia, quindicenne, era molto bella ed eccelleva nel canto, anche se era piuttosto frivola. Avendo notato un interessamento della fanciulla, Tasso cominciò a dedicarle rime petrarcheggianti, ma dovette presto essere ricondotto alla realtà, poiché nel febbraio 1562 scoprì che la ragazza era promessa sposa al conte Baldassarre Macchiavelli. Non si arrese, continuando a cantarla in poesia, ma dopo le nozze si lasciò andare al risentimento e alla delusione.  Intanto, l'entourage cominciava ad avvedersi del talento del Tassino (come veniva chiamato per essere distinto dal padre), e gli furono commissionate delle rime per alcuni funerali. Confluendo in due raccolte, furono le prime poesie pubblicate da Torquato.  Ancora più notevoli erano gli sforzi prodigati per il Rinaldo, composto in soli dieci mesi e dedicato a Luigi d'Este. Il poema epico cavalleresco, incentrato sulle avventure del cugino di Orlando, fu stampato a Venezia nel 1562 e contribuì a diffondere il nome di Tasso, che aveva ancora soltanto diciotto anni.  Il padre intanto lo aveva messo nel 1561 al servizio del nobile Annibale Di Capua, e il duca d'Urbino gli aveva procurato una borsa di studio di cinquanta scudi annui per permettergli di continuare i corsi universitari. Dopo due anni a Padova, Tasso proseguì gli studi all'Bologna, ma durante il secondo anno di permanenza nella città felsinea, nel gennaio 1564, fu accusato di essere l'autore di un testo che attaccava pesantemente, con una satira sferzante, alcuni studenti e professori dello Studio. Espulso e privato della borsa di studio, fu costretto a ritornare a Padova, dove poté beneficiare dell'ospitalità di Scipione Gonzaga, che gli fornì il necessario per continuare il percorso di formazione.  Ritrovò tra i maestri Francesco Piccolomini e seguì le lezioni di Federico Pendasio. In casa del principe Gonzaga era appena stata istituita l'Accademia degli Eterei, ritrovo di seguaci dello Speroni che miravano alla perfezione della forma, non senza scadere nell'artificiosità. Tasso vi entrò assumendo il nome di Pentito e leggendovi molti componimenti, tra cui quelli scritti per Lucrezia Bendidio e per una donna che la critica ha per lungo tempo identificato in Laura Peperara.  Secondo questa versione Torquato conobbe Laura nell'estate del 1563, quando aveva raggiunto a Mantova Bernardo, nel frattempo messosi al servizio del duca Guglielmo Gonzaga. La delicatezza nei modi della giovane fece dimenticare presto al Nostro le ancor fresche pene amorose per Lucrezia Bendidio. Lo spirito del Petrarca rivisse allora nelle liriche del ragazzo nuovamente innamorato. L'anno dopo, rivedendola, fu però deluso, e pur continuando a cantarla dovette ben presto rassegnarsi al secondo scacco.  Ricerche recenti hanno tuttavia collocato la nascita della Peperara nel 1563, rendendo quindi impossibile che fosse lei la seconda musa del Tasso.  I due canzonieri amorosi andarono in parte a finire tra le Rime degli Accademici Eterei, stampate a Padova nel 1567, assieme ad alcune che scriverà nel primo anno ferrarese.  Si legò anche all'Accademia degli Infiammati.  A Ferrara  Torquato Tasso all'eta di 22 anni ritratto da Jacopo Bassano. Giunse a Ferrara in occasione del secondo matrimonio (quello con Barbara d'Austria) del duca Alfonso II d'Este, al servizio del cardinale Luigi d'Este, fratello del duca, spesato di vitto e alloggio, mentre dal 1572 sarà al servizio del duca stesso. I primi dieci anni ferraresi furono il periodo più felice della vita di Tasso, in cui il poeta visse apprezzato dalle dame e dai gentiluomini per le sue doti poetiche e per l'eleganza mondana.  Il cardinale lasciò al Nostro la possibilità di attendere solamente all'attività poetica, e Tasso poté così continuare il poema maggiore. Rapporti particolarmente intensi intercorsero con le due sorelle del duca, Lucrezia e Leonora. La prima era uno spirito libero e incarnava ideali di vivacità e vitalità, mentre la seconda, malata e fragile, fuggiva la vita mondana e conduceva un'esistenza ritirata. Per quanto Tasso fosse attratto da entrambe e per quanto si sia avallata l'ipotesi di una relazione amorosa con Leonora, la critica tassesca ha concluso che non si andò al di là di forti simpatie.  La ricchezza culturale della corte estense costituì per lui un importante stimolo; ebbe infatti modo di conoscere Battista Guarini, Giovan Battista Pigna e altri intellettuali dell'epoca. In questo periodo riprese il poema sulla prima crociata, dandogli il nome di Gottifredo. Nel 1566 i canti erano già sei, e aumenteranno negli anni appresso.  Nel 1568 diede alle stampe le Considerazioni sopra tre canzoni diPigna, dove emerge la concezione platonica e stilnovistica che il Tasso aveva dell'amore, con alcune note però affatto peculiari, che lo portavano a ravvisare il divino in tutto ciò che è bello, e a definire di matrice soprannaturale anche l'amore puramente fisico. I concetti vennero ribaditi nelle cinquanta Conclusioni amorose pubblicate due anni più tardi.  Compose anche i quattro Discorsi dell'arte poetica e in particolare sopra il poema eroico, anche se videro la luce solo nel 1587 a Venezia, per i tipi di Licino.  Nell'ottobre 1570 partì per la Francia al seguito del cardinale e, temendo gli potesse accadere qualche disgrazia nel lungo e pericoloso viaggio, volle dettare le proprie volontà all'amico Ercole Rondinelli, richiedendo la pubblicazione dei sonetti amorosi e dei madrigali, mentre precisava che «gli altri, o amorosi o in altra materia, c'ho fatti per servizio di alcun amico, desidero che restino sepolti con esso meco», ad eccezione di Or che l'aura mia dolce altrove spira.  Per il Gottifredo afferma di voler far conoscere «i sei ultimi canti, e de' due primi quelle stanze che saranno giudicate men ree», il che prova che il numero dei canti era salito almeno a otto.  Intanto, sempre nel 1570, Lucrezia d'Este sposò Francesco Maria II Della Rovere, compagno di studi di Torquato nel periodo urbinate.  Il soggiorno transalpino fu di sei mesi, ma, siccome Luigi aveva messo a disposizione del poeta poco denaro, questi trascorse il periodo francese sostanzialmente nell'ombra, con il solo onore di essere ricevuto da Caterina de' Medici, la moglie di Enrico II. Di ritorno a Ferrara, il 12 aprile 1571 decise di lasciare il seguito del cardinale.  Credeva incorrere in miglior fortuna presso Ippolito II, e scese pertanto a Roma. Anche il cardinale di villa d'Este però lo deluse, e Tasso decise di risalire la penisola, facendosi ospitare qualche tempo da Lucrezia e Francesco a Urbino, prima di entrare al servizio di Alfonso II.  In questo periodo continuò ad attendere al capolavoro, ma si diede anche al teatro, e scrisse l'Aminta, celebre favola pastorale che rientrava nei gusti delle corti cinquecentesche. Rappresentata con ogni probabilità all'isola di Belvedere, dov'era una delle «delizie» estensi, ebbe un grande successo e fu richiesta anche da Lucrezia d'Este a Urbino l'anno successivo. Nell'euforia del successo, scrive una tragedia, Galealto re di Norvegia, ma la abbandona  all'inizio del secondo atto, salvo rimettervi mano molto più tardi trasformandola nel Re Torrismondo.  Il capolavoro e la revisione L'impegno principale rimaneva comunque il poema epico, per il quale l'autore non aveva ancora stabilito un titolo. Nel novembre '74 l'opera era quasi completa, visto che «io aveva comincio quest'agosto l'ultimo canto», ma si deve aspettare per avere l'annuncio del completamento del testo, quando in una lettera al cardinale Giovan Girolamo Albano leggiamo: «Sappia dunque Vostra Signoria illustrissima, che dopo una fastidiosa quartana sono ora per la Dio grazia assai sano, e dopo lunghe vigilie ho condotto finalmente al fine il poema di Goffredo».  Completato quindi il poema maggiore, si apre il periodo della nevrosi e del terrore di aver portato a termine un lavoro non gradito all'Inquisizione, allora in una fase di rigidità estrema (il concilio di Trento si era concluso da soli dodici anni). Da una lettera emerge l'inquietudine del poeta: «Qui va pur intorno questo benedetto romore de la proibizione d'infiniti poeti: vorrei sapere se ve n'è cosa alcuna di vero. Scipione Gonzaga Tasso sottopose il testo al giudizio di cinque autorevoli personaggi romanigaranzia di validi consigli concernenti l'estetica e la moralenevroticamente insoddisfatto delle proprie scelte estetiche ma principalmente preoccupato, come s'è visto, dalle questioni religiose.  I cinque erano il maestro ed erudito Speroni, il principe e cardinale Gonzaga, il cardinale Antoniano, il poeta Bargeo e il grecista Nobili.  Cndivise in parte i consigli degli illustri letterati, che gli avevano rivolto critiche di stampo moralistico, ma talvolta li respinse bruscamente. Ne nacquero missive quasi quotidiane che mettono in luce un autore intimamente travagliato e continuamente bisognoso di dimostrare (forse soprattutto a sé stesso) di non trasgredire principi di poetica né tanto meno di fede.  Ossessivo nell'apportare modifiche al testo, era continuamente combattuto e incerto sul da farsi, al punto che nell'ottobre arrivò a scrivere al Gonzaga: «Forse a questao condotto finalmente al fine il poema di Goffredo. Completato quindi il poema maggiore, si aprì per Tasso il periodo della nevrosi e del terrore di aver portato a termine un lavoro non gradito all'Inquisizione, allora in una fase di rigidità estrema (il concilio di Trento si era concluso da soli dodici anni). Da una lettera emerge l'inquietudine del poeta. Qui va pur intorno questo benedetto romore de la proibizione d'infiniti poeti: vorrei sapere se ve n'è cosa alcuna di vero. Tasso sottopose il testo al giudizio di cinque autorevoli personaggi romanigaranzia di validi consigli concernenti l'estetica e la moralenevroticamente insoddisfatto delle proprie scelte estetiche ma principalmente preoccupato, come s'è visto, dalle questioni religiose.  I cinque erano il maestro ed erudito Sperone Speroni, il principe e cardinale Scipione Gonzaga, il cardinale Silvio Antoniano, il poeta Pier Angelio Bargeo e il grecista Flaminio de' Nobili.  Torquato condivise in parte i consigli degli illustri letterati, che gli avevano rivolto critiche di stampo moralistico, ma talvolta li respinse bruscamente. Ne nacquero missive quasi quotidiane che mettono in luce un autore intimamente travagliato e continuamente bisognoso di dimostrare (forse soprattutto a sé stesso) di non trasgredire principi di poetica né tanto meno di fede.  Ossessivo nell'apportare modifiche al testo, era continuamente combattuto e incerto sul da farsi, al punto che nell'ottobre arrivò a scrivere al Gonzaga: «Forse a questa particolare istoria di Goffredo si conveniva altra trattazione; e forse anco io non ho avuto tutto quel riguardo che si doveva al rigor de' tempi presenti. E le giuro che se le condizioni del mio stato non m'astringessero a questo, ch'io non farei stampare il mio poema né così tosto, né per alcun anno, né forse in vita mia; tanto dubito de la sua riuscita».[26] Nemmeno l'entusiastica ammirazione di Lucrezia d'Este cui leggeva il poema ogni giorno «molte ore in secretis»[27], né l'essere venuto a conoscenza del grande piacere con cui da più parti l'opera veniva letta, poterono placare le sue angosce. Scrive “Allegoria”, con cui rivisitava tutto il poema in chiave allegorica cercando di emanciparsi dalle possibili accuse di immoralità. Ma non bastava: gli scrupoli di carattere religioso assunsero la forma di vere e proprie manie di persecuzione. Per mettere alla prova la propria ortodossia nella fede cristiana si sottopose spontaneamente al giudizio dell'Inquisizione di Ferrara, ricevendo due sentenze di assoluzione.[29]   Barbara Sanseverino Disagi presso la corte estense e fughe Due belle signore, giunte alla corte nel 1575 e protrattesi presso il duca fino all'anno dopo, costituirono un intermezzo piacevoleforse l'ultimoin mezzo a tante preoccupazioni. Per loro, la contessa di Sala Barbara Sanseverino e la contessa di Scandiano Leonora Sanvitale, cantò gioiosamente in alcune rime amorose, che, com'era accaduto per Lucrezia e Leonora d'Este, obbediscono alle conventions de genre e non rivelano altro che una sincera amicizia. Ma il Tasso si era stancato anche di Alfonso, e sognava diandare a Firenze, presso la corte medicea. Non è chiaro perché volesse abbandonare Ferrara, ma i motivi adducibili sono vari e variamente intriganti, e tutti hanno in loro almeno una parte di verità. «Ch'io desideri sommamente di mutar paese, e ch'io abbia intenzione di farlo, assai per se stesso può essere manifesto, a chi considera le condizioni del mio stato», scrive a Gonzaga.  Le «condizioni del mio stato» possono avere una valenza materiale: Tasso riceveva dal duca solo cinquantotto lire marchesane mensili, che sommate alle centocinquanta percepite in qualità di lettore all'Università (carica che ricopriva per i soli giorni festivi) danno una cifra sicuramente bassa che a un poeta ormai affermato doveva parere stretta, anche solo per una questione di dignità, senza voler pensare a motivazioni di pretta bramosia L'espressione tassesca può assumere però anche una connotazione morale e psicologica: si erano in effetti verificati alcuni episodi spiacevoli presso la corte estense. Ha una lite con il cortigiano Ercole Fucci. Provocato, aveva rifilato uno schiaffo al Fucci, che in risposta lo colpì più volte con un bastone.  Un servo aveva inoltre rivelato al Tasso che, durante una sua assenza, un altro cortigiano, Ascanio Giraldini, aveva fatto forzare la porta della sua camera, nel tentativo di appropriarsi di alcuni manoscritti. Tasso sarebbe anche riuscito a rintracciare il magnano ottenendone una confessione, come risulta da un'altra lettera al Gonzaga, in cui si ipotizzano altre trame ordite alle sue spalle, anche se «io non me ne posso accertare».[33]  A far precipitare il rapporto con il duca e la corte furono però gli scrupoli religiosi del poeta. Si autoaccusò presso l'Inquisizione ferrarese (dopo l'autoaccusa presso il tribunale bolognese avvenuta due anni prima), attaccando inoltre influenti personaggi di corte. Si cercò allora di far desistere il poeta dall'intenzione di confermare le sue affermazioni negli interrogatori successivi, senza risparmiargli punizioni corporali che non riuscirono afar cambiare idea al Tasso, che si presentò altre due volte davanti all'inquisitore.[35]  Le accuseerano rivolte in particolare contro Montecatini, il segretario ducale. Siccome Torquato voleva recarsi a deporre presso il Tribunale capitolino, l'inquisitore ferrarese, conscio del fatto che una simile azione poteva mettere a repentaglio i rapporti con la Santa Sede,vitali per casa d'Esteinformò immediatamente il duca con una missiva del 7 giugno. Alfonso mise il poeta sotto sorveglianza, e il 17 giugno Tasso, ritenendosi spiato da un servo, gli scagliò contro un coltello.   Il Castello Estense Tasso rimase nella prigione del Castello fino all'11 luglio, quando Alfonso lo fece liberare e lo accolse presso la villeggiatura di Belriguardo, dove però rimase pochi giorni, venendo rimandato a Ferrara per essere consegnato ai frati del convento di S. Francesco.[37]  Il poeta supplicò allora i cardinali dell'Inquisizione romana affinché lo sollevassero da una situazione ormai insopportabile trovandogli una sistemazione nell'Urbe, e nel contempo si lamentava con Scipione Gonzaga per il trattamento ricevuto, ma pochi giorni dopo si ritrovò nuovamente nella prigione del Castello. Tentò quindi un'altra via e chiese invano perdono al suo signore. E indubbiamente provato dalle fatiche della Gerusalemme, e le lettere del periodo rivelano un animo inquieto e agitato, spesso preoccupato di smentire chi voleva vedere in lui i germi della pazzia. Le manie di persecuzione e l'instabilità si erano impadronite di lui, ma fino a qual punto? Fino a qual punto invece certe manifestazioni del poeta, che mantiene nelle missive una lucidità pressoché completa, funsero da pretesto per emarginare un personaggio divenuto pericoloso? Su questo punto i critici non sono mai riusciti a trovare un accordo.  Intanto la prigionia el Castello si prolungava, e non restava che la fuga: nella notte tra il 26 e il 27 luglio si travestì da contadino e fuggì nei campi. Raggiunta Bologna, proseguì fino a Sorrento, dove, ancora sotto mentite spoglie e fisicamente distrutto, si recò dalla sorella, annunciandole la propria morte, così da vedere la sua reazione, e svelandole la sua vera identità solo dopo aver osservato la reazione realmente addolorata della donna.[39]  A Sorrento rimase parecchi mesi ma, volendo riprendere parte alla vita di corte, fece inviare da Cornelia una supplica al duca, in data 4 dicembre 1577, chiedendo di essere riammesso alle sue dipendenze, in un testo che fu certamente dettato, almeno in parte, dal poeta stesso: «La maggior colpa che io credo sia in lui, è la poca sicurezza, che ha mostrata d'avere nella parola di V.A., e il molto diffidarsi della sua benignità».[40]  Così, nell'aprile 1578 ritornò a Ferrara, ma, tempo tre mesi, era di nuovo in fuga; Mantova, Padova, Venezia. Presa la via di Pesaro, da Cattolica mandò ad Alfonso una missiva in cui cerca di spiegare i motivi dell'abbandono, che restano, anche nella testimonianza diretta del Tasso, criptici: «ora me ne dono partito. per non consentire a quello, a che non dee consentire uomo, che faccia alcuna professione d'onore, o ch'abbia nell'animo alcuno spirito di nobiltà. Paura, instabilità?  Quello che è certo è che nello stesso mese le parole di Maffio Venierche lo aveva incontrato a Veneziasembrano far perdere credibilità alle ipotesi di follia: «sebbene si può dire che egli non sia di sano intelletto, scuopre tuttavia più tosto segni di afflizione che pazzia». Anche gli scambi epistolari intrattenuti con Francesco Maria Della Rovere paiono rivelare una personalità afflitta e agitata più che folle. Il Leitmotiv, adesso più che mai, è il dolore. Il dolore si fa allora poiesis, creazione. È proprio questo il periodo in cui vengono composti i versi dell'incompiuta canzone Al Metauro, tra i più citati e famosi dell'opera tassesca. Qui, in una rievocazione della propria vita sub specie doloris[44], affiorano i ricordi delle proprie sofferenze e della morte dei genitori. Il poeta è un esiliato, concretamente e metaforicamente, sin da quando bambino dovette lasciare il luogo natìo:  «In aspro esiglio e 'n dura povertà crebbi in quei sì mesti errori; intempestivo senso ebbi a gli affanni: ch'anzi stagion, matura l'acerbità de' casi e de' dolori in me rendé l'acerbità degli anni»  Intanto continuava a vagare. Percorse a piedi il tratto che separa Urbino da Torino, ma non sarebbe riuscito a entrare nella cittàera stato respinto dai doganieri perché in stato pietosose Angelo Ingegneri, amico di Torquato da alcuni anni, non lo avesse riconosciuto e aiutato a entrare. A Torino ricevette l'ospitalità del marchese Filippo d'Este, genero del duca di Savoia[45], e godette di una certa tranquillità che gli permise di comporre poesie e iniziare tre dialoghi, la Nobiltà, la Dignità e la Precedenza. In seguito a nuovi pentimenti e nuove nostalgie della corte ferrarese, il poeta si adoperò ancora una volta per il rientro nella città ducale, facendo leva sulle intercessioni del cardinale Albano e di Maurizio Cataneo, e infine riguadagnò la capitale estense tra il 21 e il 22 febbraio, proprio mentre fervevano i preparativi per le terze nozze di Alfonso, quelle con Margherita Gonzaga, figlia del duca di Mantova Guglielmo.  Fu ospitato da Luigi d'Este, ma nessuno badava a lui: «Ora le fo sapere, che io qui ho trovato quelle difficoltà che m'imaginava, non superate né dal favore di monsignor illustrissimo, né da alcuna sorte d'umanità ch'io abbia saputo usare», scrisse a Maurizio Cataneo. In una missiva al cardinale Albano, recante la data, Tasso chiede almeno gli si faccia riottenere lo stipendio precedente.[47]  A questo punto i fatti precipitano: «Iersera l'altra si mandò il povero Tasso a Sant'Anna, per le insolenti pazzie ch'avea fatte intorno alle donne del Signor Cornelio, e che era poi venuto a fare con le Dame di Sua Altezza, quali, per quanto m'è stato rifferto, furono così brutte e disoneste, che indussero il Signor Duca a quella risoluzione».[48] Non è chiaro quando accadesse esattamente il fatto, si oscilla tma è certo che in quest'ultima data il poeta fosse già stato recluso nella prigione di Sant'Anna.[ Pare sicuro anche che le parole offensive pronunciate in preda all'ira si siano indirizzate poi in modo esplicito allo stesso duca, ed è probabile che si trattasse di gravi accuse (forse legate ancora una volta alla vicenda dell'Inquisizione) che, fatte in pubblico, chiedevano una risoluzione drastica.  Il duca Alfonso II rinchiuse quindi Tasso nell'Ospedale Sant'Anna, nella celebre cella detta poi "del Tasso", dove rimase per sette anni. Qui, alle manie di persecuzione, si aggiunsero tendenze autopunitive.   Delacroix: Tasso all'ospedale di Sant'Anna Nell'Ospedale veniva trattato alla stregua dei «forsennati», ricevendo poche razioni di cibo scadente, privato di ogni comodità materiale e di ogni conforto spirituale, visto che il cappellano, «se ben io ne l'ho pregato, non ha voluto mai o confessarmi o comunicarmi».[50] È vero che dopo nove mesi ci fu un miglioramento del vitto, ma dovette trattarsi di ben poca cosa, e i primi tre anni coincisero con una sorta di isolamento.  Scrisse comunque ininterrottamente a principi, prelati, signori e intellettuali pregandoli di liberarlo e difendere la propria persona. Le suppliche erano rivolte al solito Gonzaga, alla mai dimenticata Lucrezia d'Este, a Francesco Panigarola (che sarebbe divenuto vescovo di Asti), a Ercole Tasso e molti altri. I primi anni di reclusione non impedirono a Torquato di scrivere; anzi, le tre canzoni del periodo rivelano una poesia essenziale, magistrale nella gestione delle armonie, simbolo di un'ormai indiscussa maturità e dimostrazione, una volta di più, di come le facoltà mentali del poeta fossero ancora intatte. Ecco quindi A Lucrezia e Leonora, con la celebre invocazione alle «figlie di Renata», in una nostalgico ricordo dei tempi sereni trascorsi a corte, messo in contrasto con la durezza del tempo presente, ecco Ad Alfonso, nuova supplica al duca che, rimasta inascoltata, diventò un inno Alla Pietà nell'omonima canzone.  Le condizioni mutarono con gli anni: gli fu permesso di uscire qualche volta e di ricevere visite, il vitto migliorò ulteriormente, mentre poté lasciare Sant'Anna più volte alla settimana, «accompagnato da gentiluomini e qualche volta fu condotto anche a corte».[52] Tuttavia il trattamento rimaneva molto duro e, a distanza di secoli, pare spropositato se il motivo dovesse ridursi alla pazzia o a delle offese personali.  Certo, il Tasso soffriva di turbe psichiche. A questo proposito è illuminante la lettera di aiuto che indirizzò il 28 giugno 1583 al celebre medico forlivese Girolamo Mercuriale. Qui troviamo un elenco e una descrizione dei mali che affliggono il poeta: «rodimento d'intestino, con un poco di flusso di sangue; tintinni ne gli orecchi e ne la testa, imaginazione continua di varie cose, e tutte spiacevoli: la qual mi perturba in modo ch'io non posso applicar la mente a gli studi per un sestodecimo d'ora», fino alla sensazione che gli oggetti inanimati si mettano a parlare. È da notare tuttavia come tutte queste sofferenze non l'abbiano reso «inetto al comporre. Si può poi ammettere che «il Tasso non fu semplicemente un melanconico, ma di tratto in tratto veniva sorpreso da eccessi di mania, da riescire pericoloso a sé ed agli altri»[54], ma, anche se questi squilibri dovessero essersi manifestati realmente, essi non giustificano né la tesi della pazzia né la necessità di allontanare il Tasso dalla corte per un periodo così lungo. Con buone probabilità, quindi, la ragione principale deve essere riallacciata ancora una volta ai tentativi tasseschi di ricorrere all'Inquisizione romana, e l'imprigionamento era il solo modo per non compromettere il rapporto con lo Stato Pontificio.  Dopo l'edizione veneziana "pirata" e mutila di Celio Malespini, sempre durante la prigionia, vennero pubblicatenel tentativo di porre rimedio alla sciagurata operazionea Parma e Casalmaggiore, ancora senza il suo consenso, due edizioni del poema iniziato all'età di quindici anni. Il titolo di Gerusalemme liberata fu scelto dal curatore di queste ultime versioni, Angelo Ingegneri, senza l'avallo dell'autore. L'opera ebbe un grande successo.  Siccome anche le stampe dell'Ingegneri presentavano delle imperfezioni e la Gerusalemme era ormai di dominio pubblico, bisognava approntare la versione migliore possibile, ma per far questo era necessaria l'autorizzazione e la collaborazione del Tasso. Così, seppur riluttante, il poeta diede il proprio consenso a Febo Bonnà, che diede alla luce la Gerusalemme liberata il 24 giugno 1581 a Ferrara, restituendola in modo ancora più preciso pochi mesi dopo. Queste traversie editoriali addolorarono il Tasso, che avrebbe voluto mettere mano al poema in modo da renderlo conforme alla propria volontà. All'amarezza per le pubblicazioni seguì ben presto quella che gli fu causata dallapolemica con la neonata Accademia della Crusca. La diatriba non fu scatenata, per la verità, né dal poeta né dall'Accademia. La sua origine va ricercata nel dialogo Il Carrafa, o vero della epica poesia, che il poeta capuano Camillo Pellegrino stampò presso l'editore fiorentino Sermartelli. Nel dialogo Torquato viene esaltato assieme alla sua opera, in quanto fautore di una poesia etica e fedele ai dettami aristotelici, mentre l'Ariosto viene duramente condannato a causa della leggerezza, delle fantasiose invenzioni e dell'eccessiva dispersione che si possono riscontrare nell'Orlando Furioso. Il testo provocò la reazione dell'Accademia, che rispose nel febbraio dell'anno seguente con la Difesa dell'Orlando Furioso degli Accademici della Crusca, stroncando il Tasso ed esaltando invece «il palagio perfettissimo di modello, magnificentissimo, ricchissimo, e ornatissimo» che era il Furioso. La Difesa fu fondamentalmente opera di Leonardo Salviati e di Bastiano de' Rossi. Tasso decise di scendere in campo con l'Apologia in difesa della Gerusalemme Liberata, edita a Ferrara dal Licino il 20 luglio. Rivendicando la necessità di un'invenzione che si fondi sulla storia, il poeta si opponeva alle opinioni dei paladini del volgare fiorentino, e respingeva le accuse di un lessico intriso di barbarismi e poco chiaro. La polemica continuò, visto che il Salviati replicò in settembre con la Risposta all'Apologia di Torquato Tasso (testo noto anche come Infarinato primo), cui seguirono un nuovo opuscolo di Pellegrino e un Discorso del Nostro, dopo di chese si esclude un ulteriore scritto del Salviati, l'Infarinato secondo per qualche tempo le acque si calmarono, ma la querelle tra ariosteschi e tasseschi proseguì fino al secolo successivo, e fu una delle più infiammate della storia della letteratura italiana.  Durante la reclusione Tasso scrisse principalmente discorsi e dialoghi. Fra i primi quello Della gelosia, Dell'amor vicendevole tra 'l padre e 'l figliuolo, Della virtù eroica e della carità, Della virtù femminile e donnesca, “Dell'arte del dialogo”; “Il Secretario” cui si deve aggiungere il Discorso intorno alla sedizione nata nel regno di Francia e il Trattato della Dignità, già iniziato a Torino, come si è visto.[61]  Queste opere sviluppano tematiche morali, psicologiche o strettamente religiose. La virtù cristiana è proclamata come superiore alla pur nobile virtù eroica, si afferma la comune origine di amore e gelosia, si valutano i talenti specifici della donna, il tutto arricchito dal racconto di esperienze personali che giustificano l'opinione dell'autore. Vengono affrontate anche questioni politiche, in special modo nel Secretario, diviso in due parti, la prima dedicata a Cesare d'Este, la seconda ad Antonio Costantini. Qui, nella descrizione del principe ideale, si enucleano alcune caratteristiche come la clemenza (chiaro il riferimento alla propria condizione), l'esser filosofo, e soprattutto «un gentiluomo a la cui fede ed al cui sapere si possono confidare gli Stati e la vita e l'onor del principe». Più copiosa ancora fu la composizione di dialoghi, scritti sotto il nume ideale di Platone, ma paragonabili più obiettivamente a quelli del sedicesimo secolo. Quasi ogni tematica morale viene sviscerata in una serie davvero lunga di opere più o meno prolisse e più o meno felici.  Tasso scrisse, nell'ordine, Il Forno, o vero de la Nobiltà, il Gonzaga, o vero del Piacer onesto, in seguito rivisto e stampato con il titolo Il Nifo, o vero del piacere; Il Messaggero. Qui immaginò di interagire amichevolmente con il folletto da cui si credeva perseguitato nella realtà. Questo dialogo ispirò la celebre operetta morale leopardiana Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare), con una seconda lezione. Il padre di famiglia (ispirato a un gentiluomo che lo ospitò a Borgo Sesia prima dell'arrivo a Torino); Il cavalier amante e la gentildonna amata (con dedica a Giulio Mosti, giovane ammiratore del poeta); Romeo o vero del giuoco, rivisto e dato alle stampe con titolo Il Gonzaga secondo, o vero del giuoco; La Molza, o vero de l'Amore (prende spunto dalla conoscenza che il Tasso fece della celebre poetessa Tarquinia Molza a Modena, dedicato a Marfisa d'Este); Il Malpiglio, o vero della corte (con riferimento al gentiluomo ferrarese Lorenzo Malpiglio); Il Malpiglio secondo o vero del fuggir la moltitudine; Il Beltramo, overo de la Cortesia; Il Rangone, o vero de la Pace (in risposta a uno scritto di Fabio Albergati); Il Ghirlinzone, o vero l'Epitafio. Il Forestiero napolitano, o vero de la Gelosia; Il Cataneo, o vero de gli Idoli, e, infine, La Cavalletta, o vero de la poesia toscana. In tutto questo non aveva dimenticato l'opera principe, dimostrando di avere al riguardo idee piuttosto lontane da quella che sarà la realizzazione finale. A Lorenzo Malpiglio espose intenzioni sostanzialmente opposte agli interventi che avrebbe apportato negli anni successivi: parla di portare la Liberata da venti a ventiquattro canti (secondo l'idea originaria) e di accrescere il numero delle stanze, tagliando anche dei passaggi ma con il risultato che «la diminuzione sarà molto minor de l'accrescimento. Qualche segnale, magari anche dettato da semplice interesse, lasciava intravedere un astio meno severo nei confronti del Nostro. Prima della reclusione  a Comacchio era stata rappresentata una commedia tassesca alla presenza della corte. Ora Virginia de' Medici voleva che il testo fosse perfezionato e completato per essere interpretato durante i festeggiamenti del suo matrimonio con Cesare d'Este. Tasso si mise al lavoro ed esaudì la richiesta. L'opera fu poi pubblicata e ricevette il titolo “Gli intrichi d'amor” edal Perini, uno degli attori dell'Accademia di Caprarola, che aveva messo in scena la commedia. L'opera, ricolma di intrecci amorosi e di agnizioni secondo il costume dell'epoca, è sofisticata e inverosimile, ma non mancano pagine vivaci ed episodi ispirati all'Aminta. Vi si possono inoltre vedere alcuni elementi che confluiranno nella commedia dell'arte: il personaggio del Napoletano, parlando in dialetto e «profondendosi in spiritosaggini sbardellate», richiama alla mente la futura maschera di Pulcinella. La critica è stata piuttosto concorde nel ritenerla infelice, tutta una goffaggine pedantesca e superficiale, nel giudizio di Francesco D'Ovidio. F. Pourbus: Vincenzo Gonzaga Dopo la prigionia: le delusioni, le sofferenze, le peregrinazioni. Finì la prigionia. Venne affidato a Vincenzo Gonzaga, che lo volle alla sua corte di Mantova. Nelle intenzioni di Alfonso, Tasso doveva restare presso il figlio di Guglielmo Gonzaga solo per un breve periodo, ma di fatto il poeta non tornò più a Ferrara, e restò presso Vincenzo, in un ambiente in cui conobbe Ascanio de' Mori da Ceno, diventandone amico.  A Mantova ritrova qualche barlume di tranquillità; riprese in mano il Galealto re di Norvegia, la tragedia che aveva lasciato interrotta alla seconda scena del secondo attoe che aveva frattanto avuto un'edizione nel 1582 -, e la trasformò nel Re Torrismondo, conglobando nei primi due atti quanto aveva precedentemente scritto ma cambiando i nomi, e procedendo alla stesura dei tre atti successivi in modo da arrivare ai cinque canonici. Quando nell'agosto si recò a Bergamo, ritrovando amici e parenti, si mise subito in azione per dare alle stampe la tragedia, e l'opera uscì, a cura del Licino e per i tipi del Comin Ventura, con dedica a Vincenzo Gonzaga, nuovo duca di Mantova. Si trattava comunque di una "libertà vigilata", e i fatti lo dimostrano chiaramente. Dopo essere tornato a Mantova, deluso e preoccupato di una possibile venuta di Alfonso, Tasso andò a Bologna e a Roma senza chiedere al Gonzaga l'autorizzazione e questi, sotto la pressione del duca di Ferrara, tentò in ogni modo di farlo tornare indietro. Antonio Costantini, sedicente amico del poeta che metteva al primo posto l'ambizione e l'obiettivo di essere tenuto in onore presso la corte mantovana, e Scipione Gonzaga si mobilitarono, ma Torquato capì la situazione e rifiutò di ritornare, rendendo impossibile qualsiasi mossa, dal momento che un intervento che lo riportasse nel ducato mantovano con la forza non sarebbe mai stato tollerato dal Pontefice. Il fatto che nessuno impedisse il viaggio a Bergamo mentre ci fosse una mobilitazione generale per allontanare il poeta dall'Urbe rimane comunque un segnale che pare ulteriormente ridimensionare il peso della presunta follia di Torquato nelle preoccupazioni dei duchi del settentrione.  Il santuario di Loreto in un'incisione di Francisco de Hollanda (prima meta del sec. XVI) Nel corso del tragitto Tasso passò da Loreto, raccogliendosi in preghiera nel santuario e concependo quella canzone «a la gloriosa Vergine» che può forse richiamare il Petrarca della Canzone alla Vergine in qualche scelta lessicale, ma, in mezzo alla lode e alla supplica, è tanto più intessuta di travaglio e sofferenza:  «Vedi, che fra' peccati egro rimango, qual destrier, che si volve nell'alta polve, e nel tenace fango.»  Torquato fu a Roma. L'irrequietudine era di nuovo alle stelle: le lettere registrano le sue richieste di denaro e le lamentele per la propria condizione di salute. Il poeta è ormai disilluso, e fa meno affidamento sulla possibilità che gli altri lo aiutino. Come scrisse alla sorella in una lettera del 14 novembre, gli uomini «non hanno voluto sanarmi, ma ammaliarmi. Tuttavia, il Nostro è in preda al bisogno materiale e continua ad autoumiliarsi, scrivendo versi encomiastici per Scipione Gonzaga, divenuto cardinale, senza ottenere alcunché. Anche la speranza di essere ricevuto dal papa Sisto V viene delusa, nonostante le lodi che Tasso rivolge al pontefice in varie poesie, confluite assieme ad altre del periodo in un volumetto del 1589, stampato a Venezia. Vista l'inutilità del soggiorno romano, il peregrinante poeta pensò trovare maggior fortuna nell'amata Napoli. Così, ritorna nella città vesuviana fortemente intenzionato a risolvere a proprio favore le cause contro i parenti per il recupero della dote paterna e di quella materna. Benché potesse contare su amici e congiunti, e sulle conoscenze altolocate partenopee, tra cui i Carafa (o Carrafa) di Nocera, i Gesualdo, i Caracciolo di Avellino, i Manso, preferì accettare l'ospitalità di un convento di frati olivetani. Qui conobbe l'amico più caro degli ultimi anni: Giovan Battista Manso, signore di Bisaccia e primo entusiasta biografo dell'autore dopo la sua morte.  Il clima amichevole in cui fu accolto, la stima di amici e letterati, e il conforto di una «bellissima città, la quale è quasi una medicina al mio dolore, riuscirono a risollevare per un breve periodol'infelice animo tassiano. Per ringraziare i monaci scrisse il poemetto, rimasto incompiuto, Monte Oliveto, in riferimento al convento in cui sorgeva il complesso monastico che attualmente ospita la caserma dei carabinieri (resta visitabile la chiesa Sant'Anna dei Lombardi). L'operaun resoconto encomiastico delle principali tappe esistenziali e delle principali virtù di Bernardo Tolomei, il fondatore della Congregazioneè fortemente intessuta di spirito cristiano, in un severo richiamo ad una vita sobria, lontana dalle vanità del mondo. Dedicata al cardinale Antonio Carafa, si interrompe alla centoduesima ottava. Al pari del Re Torrismondo e di molta parte dell'ultima produzione tassesca, il Monte Oliveto non ha goduto dei favori della critica. Guido Mazzoni vi vide più una predica che un poema, mentre Eugenio Donadoni utilizzò quasi le medesime parole che gli erano servite per stroncare il Torrismondo (v. Re Torrismondo): questa è «l'opera non più di un poeta, ma di un letterato, che cerca di dare forma e tono epico a una convenzionale vita di santo».[78] Come per la tragedia nordica, la rivalutazione è arrivata con l'analisi di Luigi Tonelli e di alcuni studiosi più recenti.  In ogni caso, anche questo periodo napoletano si rivelò problematico per Tasso, a causa delle precarie condizioni di salute e delle ristrettezze economiche, a cui si aggiunsero anche nuove polemiche letterarie e religiose sulla Gerusalemme liberata. Spostatosi a Bisaccia, Tasso poté vivere un periodo di maggiore tranquillità. Manso ricorda un episodio curioso: mentre sedeva con l'amico davanti al fuoco, questi disse di vedere uno «Spirito, col quale entrò in ragionamenti così grandi e meravigliosi per l'altissime cose in essi contenute, e per un certo modo non usato di favellare, ch'io rimaso da nuovo stupore sopra me inalzato, non ardiva interrompergli». Alla fine della visione, Manso confessò di non aver visto nulla, ma il poeta gli si rivolse sorridendo: «Assai più veduto hai tu, di quello che forse... E qui si tacque».[79] Viste le rare manifestazioni allucinatorie di cui abbiamo notizia, (si ricordino quelle che erano state descritte nel dialogo Il messaggero, in cui è descritto uno spirito amoroso che appare a Tasso sotto la figura di un giovanetto dagli occhi azzurri, simili a quelli che Omero alla dea d'Atene attribuisce), la risposta del Nostro assume una valenza indubbiamente ambigua, e non può escludersi che avesse voluto mettere alla prova il Manso per vedere se anche lui lo avrebbe considerato un "folle".  A dicembre era di nuovo a Roma, dove giunse nella speranza di poter essere ospitato dal Papa in Vaticano, confidando negli illusori pareri di alcuni amici.[80] Ad ospitare Tasso fu invece Scipione Gonzaga, e il poeta si sentì di nuovo «più infelice che mai». Ricominciava la routine: richieste d'aiuto a destra e a sinistra, con l'obiettivo di ricevere i cento scudi che gli erano stati promessi per la stampa delle sue opere: «vorrei in tutti i modi trovar questi cento ducati, per dar principio a la stampa, avendo ferma opinione che di sì gran volume se ne ritrarrebbero molto più», scrisse ad Antonio Costantini.[82] I destinatari erano ancora una volta i più disparati: il principe di Molfetta, il Costantini, il duca di Mantova Vincenzo Gonzaga, gli editori. Il Nostro si umiliò per l'ennesima volta anche con Alfonso, cui chiese nuovamente perdono, mentre al Granduca di Toscana Ferdinando I domandò l'intercessione del cardinal Del Monte, lo stesso che prenderà sotto la propria protezione Caravaggio. Tutte le speranze, però, furono disattese.  Al tempo stesso anche le missive ai medici si rifecero intense. Tuttavia, in mezzo a tante delusioni e a tanto affanno non venne meno la verve creativa: oltre ad aver raccolto le Rime in tre volumi, e avervi scritto il commento, Tasso compose anche un poema pastorale che riprende, anche se solo nel nome, alcuni personaggi dell'Aminta. È Il rogo di Corinna, dedicato a Fabio Orsino. La prima pubblicazione dell'opera fu postuma. Per quanto Grazioso Graziosi, agente del duca di Urbino, dicesse al suo signore del modo eccellente in cui il Tasso era trattato presso il cardinale Gonzaga, egli rilevava al contempo le infermità fisiche e mentali di Torquato, che privavano la sua età «del maggior ingegno che abbian prodotto molte delle passate. Tuttavia, è bene diffidare della prima quanto della seconda affermazione. Se «il povero Signor Tasso è veramente degno di molta pietà per le infelicità della sua fortuna»[85], come si legge in una missiva del Graziosi di due settimane dopo, perché cacciare il poeta in malo modo, mentre Scipione Gonzaga non era presente, e costringerlo a una nuova situazione di bisogno? In aiuto del Tasso vennero ancora i monaci della Congregazione del Tolomei, che lo ospitarono a Santa Maria Nuova degli Olivetani.[86]  Gli ultimi anni del Tasso, però, non conobbero pace duratura: le sofferenze psichiche si acuirono nuovamente, certo per le nuove delusioni derivanti da richieste di denaro non esaudite, dall'obbligo di piegarsi alla composizione di poesie a pagamento, e il poeta fu costretto a farsi ricoverare nell'Ospedale dei Pazzarelli, adiacente alla chiesa dei Santi Bartolomeo e Alessandro dei Bergamaschi, la cui costruzione era appena stata ultimata. Il dolore emerge in modo chiaro in una lettera inviata il primo dicembre 1589 ad Antonio Costantini, divenuto ormai suo confidente. Ritornò presso Scipione Gonzaga, sempre lamentandosi per la scarsa considerazione in cui era tenuto e sempre scrivendo della propria infelicità.[88] Tasso premeva, come già più volte in passato, per essere accolto a Firenze dal Granduca di Toscana, e accettò quindi con gioia l'invito di Ferdinando de' Medici. A Firenze giunse in aprile, ospite prima dei fidati Olivetani, poi di ricchi e illustri cittadini quali Pannucci e Gherardi. Alla tranquillità necessaria per rivedere la Gerusalemme si aggiunsero anche relative soddisfazioni economiche (sempre comunque in cambio di versi encomiastici): dal Granduca ricevette centocinquanta scudi[89], da Giovanni III di Ventimiglia, marchese di Geraci, sembrerebbe, duecento scudi.[90]  Il motivo di gioia principale era tuttavia un altro, era l'avvicinarsi dell'evento più ambito da chi si sentiva, sopra ogni cosa, poeta: «Penso a la mia coronazione, la qual dovrebbe esser più felice per me, che quella de' principi, perché non chiedo altra corona per acquetarmi». Non ci fu nessuna incoronazione. C'è chi ha asserito che questa lettera contenesse solo una bislacca speranza del Tasso, senza alcun legame con la realtà.[92] Tuttavia, la sicurezza con cui l'evento viene ormai dato per certo lascia pensare che le illusioni del Nostro avessero un fondamento, e non fossero una pura chimera.  Un nuovo evento lo indusse all'ennesimo spostamento: papa Urbano VII era succeduto a Sisto V, incoraggiando il Tasso a fare nuovamente affidamento sugli aiuti pontifici. Tasso scese così a Roma, accolto dagli Olivetani di Santa Maria del Popolo. Giovanni Battista Castagna morì tredici giorni dopo l'elezione, lasciando il posto a Gregorio XIV. Anche questa volta le lettere del poeta registrano un amaro scacco: «Ho perduto tutti gli appoggi; m'hanno abbandonato tutti gli amici, e tutte le promesse ingannato», confidò, sempre più afflitto, a Niccolò degli Oddi. L'autore della Gerusalemme è ogni giorno che passa più confuso, sballottato qua e là dagli eventi come una barca in mezzo al mare. Tutto questo riflette la condizione interiore di una persona disincantata ma al tempo stesso ancora ingenuamente pronta a fidarsi delle fallaci promesse che giungono dal mondo intorno, riflette un'instabilità ormai cronica. È vero che la fede andò radicandosi sempre più in Tasso, ma il fatto che al duca di Mantova scrivesse di volersi ritirare in un monastero e pochi giorni dopo accettasse il suo invito a tornare a corte è l'evidente manifestazione di un'anima senza pace.[94]  Ritornato quindi sul Mincio (marzo 1591), accolto con tutti gli onori, poté dedicarsi totalmente al lavoro letterario, e in particolare alla revisione del capolavoro. La missiva a Maurizio Cataneo del 4 luglio ci informa del fatto che il poeta era già a buon punto, e illustra le linee direttrici della propria opera correttrice: «sono al fine del penultimo libro; e ne l'ultimo mi serviranno molte di quelle stanze che si leggono nello stampeato. Desidero che la riputazione di questo mio accresciuto ed illustrato e quasi riformato poema toglia il credito a l'altro, datogli dalla pazzia de gli uomini più tosto che dal mio giudicio».[95] Sono parole che possono parere sciagurate, ma riflettono gli scrupoli religiosi sempre più pressanti.  Non si era comunque concentrato solo sul poema: aveva raccolto le Rime in quattro volumi, e con l'editore veneziano Giolito parlava della possibilità di stampare tutte le opere (esclusa la Gerusalemme) in sei libri. A tutto questo va aggiunto un nuovo lavoro che aveva intrapreso, lasciandolo poi incompiuto. La genealogia di Casa Gonzaga, con dedica a Vincenzo, si interruppe dopo centodiciannove ottave, per essere pubblicato solo nel 1666, tra le Opere non più stampate dell'edizione romana Dragondelli.[96] Il poemetto è sicuramente trascurabile, fatto di una versificazione fredda, appesantita da nozioni e nomi. Tra le fonti il ruolo principale è stato svolto da un regesto di Cesare Campana, Arbori delle famiglie... e principalmente della Gonzaga, uscito a Mantova l'anno prima, e dall'Historia sui temporis di Paolo Giovio, accanto a cui va ricordata la tradizione orale legata alla battaglia del Taro.[97]  La calma, tuttavia, era ormai un ricordo di gioventù, e ogni soggiorno diventava insopportabile dopo un certo numero di mesi. Così, ridiscese la penisola, con l'intenzione di raggiungere nuovamente Roma. Il viaggio fu travagliato e appesantito dal fatto che Tasso si ammalò più volte durante il tragitto, costretto a sostare in varie località, fra cui Firenze. Giunto nell'Urbe il 5 dicembre 1591, ricevette l'ospitalità di Maurizio Cataneo. Poche settimane dopo era ancora in viaggio, diretto a Napoli  A questo punto, inaspettatamente, ci fu spazio per qualche luce e qualche reale soddisfazione. Il soggiorno napoletano non tradì, né per quanto riguarda l'accoglienza ricevuta (fu ospitato dal principe di Conca Matteo di Capua e poi da Manso con grandi onori e affetto), né sulle questioni letterarie, né su quelle relative alla salute dell'artista. In effetti, in virtù della «purità dell'aria, comincia a sentirsi meglio, e di conseguenza poté dedicarsi in modo più proficuo alle proprie attività. In questi mesi completò la Conquistata, e, sempre durante il soggiorno partenopeo, mise mano all'ultima opera significativa, Le sette giornate del Mondo creato. Gli ultimi tre anni di vita lo videro prevalentemente a Roma. L'elezione al soglio pontificio di Clemente VIII lo fece venire nell'Urbe, e anche qui ebbe un trattamento decisamente migliore rispetto alle recenti esperienze. Poté infatti alloggiare nel palazzo dei nipoti del Papa, Pietro e CinzioAldobrandini, in procinto di diventare cardinali. Cinzio sarà di fatto il vero mecenate dell'ultimo periodo. La produzione letteraria ebbe nuovi sussulti, consacrandosi ormai quasi esclusivamente agli argomenti sacri: compose i Discorsi del poema eroico e altri Dialoghi, carmi latini e rime religiose. Addolorato per la morte di Scipione Gonzaga, gli dedicò, nel marzo 1593, Le lagrime di Maria Vergine e Le lagrime di Gesù Cristo.Tasso aveva intanto finito di rivedere il poema, e sempre nel 1593 vide la luce a Roma, per i tipi di Guglielmo Facciotti, la Gerusalemme conquistata.  Esistono inoltre chiare testimonianze del fatto che ci fosse l'intenzione di incoronare Tasso in Campidoglio, nonostante alcuni studiosi si siano osti negarlo e a considerarla un'invenzione del poeta. È veramente degno il Signor Torquato Tasso di esser celebrato in questi medesimi tempi come raro per la sua poesia, ed è parimente degno della grandezza dell'animo del Signor Cinzio Aldobrandini di erigergli una statua laureata, con mill'altre cerimonie e specie, come dicono che tosto si vedrà, e dargli luogo in Campidoglio fra le più degne ed antiche cerimonie [...]», rivela Matteo Parisetti in una lettera ad Alfonso II, risalente all'agosto del Lo stesso Tasso è esplicito al riguardo: «Qui in Roma mi voglion coronar di lauro», scrive al Granduca di Toscana il 20 dicembre 1594, «o d'altra foglia». Sennonché, pur essendo ancora bisognoso di soldi e continuando a fare richiesta per ottenerli, il poeta sentiva sempre più lontane le preoccupazioni del mondo, e sempre meno si curava della vanità e dei successi terreni. La salute, dopo la parentesi napoletana, andava aggravandosi nuovamente, e Torquato cominciava a capire che la fine non era lontana. Per questo ritornò alle falde del Vesuvio, per concludere rapidamente in proprio favore la questione legata all'eredità materna: il risultato fu soddisfacente, acconsentendo il principe di Avellino a versargli duecento ducati all'anno, ai quali vanno aggiunti cento ducati annui che il Papa si risolverà a dargli a partire dal febbraio 1595.  A Napoli rimase dal giugno al novembre del 1594, alloggiato al monastero benedettino di san Severino, sempre più votato alla vita monastica e attratto ancora dalla letteratura agiografica. Fu probabilmente nei mesi trascorsi presso i benedettini che Tasso abbozzò l'incompiuta Vita di San Benedetto. Alla fine dell'anno ritornò a Roma.  Cambiò città per l'ultima volta: la fine era dietro l'angolo. Riconosciuta la definitiva infermità che gli rendeva ormai impossibile scrivere e correggere, non sentì più che un ultimo bisogno, tralasciando tutto il resto, il bisogno della «fuga dal mondo». Entra al monastero di S. Onofrio, sul Gianicolo, senza più nemmeno curarsi del fatto che il Mondo creato non era stato ancora rivisto. Tutto svaniva, di fronte all'importanza di prepararsi al trapasso: «Che dirà il mio signor Antonio, quando udirà la morte del suo Tasso? E per mio avviso non tarderà molto la novella, perch'io mi sento al fine de la mia vita. Non è più tempo ch'io parli de la mia ostinata fortuna, per non dire de l'ingratitudine del mondo». Tutto perdeva importanza, a fronte della dolcezza della «conversazione di questi divoti padri», che cominciava «la mia conversazione in cielo. Monumento in Sant'Onofrio Il 25 aprile, all'«undecima ora». Tasso muore. E una morte serena, ricevuta con tutti i conforti dei sacramenti.La morte  del Tasso è stata accompagnata da una particolar grazia di Dio benedetto, perché in questi ultimi giorni le duplicate confessioni, le lagrime e insegnamenti spirituali pieni di pietà e di giudizio, mostrarono che fosse affatto guarito dall'umor malinconico, e che quasi uno spirito gli avesse accostato al naso l'ampolle del suo cervello. Venne sepolto nella Chiesa di Sant'Onofrio al Gianicolo.  Presso il monastero, accanto alla strada è ancora visibile la rampa della quercia, dove si trova il tronco nero di una quercia secolare sostenuto da un sopporto metallico. Secondo la tradizione locale si tratta della cosiddetta quercia del Tasso, l'albero alla cui ombra il poeta spesso sedeva per riposarsi.  Albero genealogico Reinerius de Tassis Sconosciuta Omedeo Tasso (1290)[110] Sconosciuta Ruggero Tasso SconosciutaBenedetto Tasso SconosciutaPalazzo de Tassis Tonola de Magnasco, Pasimo (o Paxio) de Tassis. SconosciutaPietro Tasso. SconosciutaGiovanni Tasso  Catalina de Tassi Gabriel Tasso Porzia de RossiBernardo Tasso Torquato Tasso Opere  Un ritratto a Sorrento. Gerusalemme Scritto quando egli aveva solo 15 anni il Gierusalemme rappresenta il primissimo tentativo di Tasso di maneggiare il genere epico nonché il suo primo impegno letterario di rilievo. Se ne possiedono soltanto centosedici stanze del canto I. Oltre a condividere con la Liberata l'argomento (la prima Crociata), si notano pure alcune somiglianze tra il proemio di questo esordio poetico giovanile e quello del capolavoro della maturità.  Rinaldo All'età di diciotto anni Tasso riprese la materia del romanzo cavalleresco e pubblicò il Rinaldo, poema in ottave che narra in dodici canti (circa 8000 versi) la giovinezza del paladino della tradizione carolingia e le sue imprese di armi e di amori. Nella prefazione al poema Tasso dichiara di voler imitare in parte gli "antichi" (Omero e Virgilio), in parte i "moderni" (Ariosto). Si concentra però su un unico protagonista, secondo le esigenze di unità proposte dall'aristotelismo. Si tratta di un'opera tipicamente giovanile, ancora priva di originalità, ma compaiono già alcuni temi e toni fondamentali che caratterizzeranno il Tasso maturo e formato culturalmente.  Rime Torquato Tasso compose un gran numero di poesie liriche, lungo l'arco di tutta la sua vita. Le prime furono pubblicate col titolo di Rime degli Accademici Eterei. Uscirono Rime e prose. Tasso lavorò fino al 1593 ad un riordino complessivo dei testi, distinguendo rime amorose e rime encomiastiche. Previde poi una terza sezione, dedicata alle rime religiose e una quarta di rime per musica, ma non realizzò il progetto.  Nelle Rime amorose è ben riconoscibile l'influenza della poesia petrarchesca e della vasta produzione petrarchistica del Quattrocento e Cinquecento; contemporaneamente, però, il gusto per le preziosità linguistiche e l'intensa sensualità rivelano l'evoluzione verso un linguaggio nuovo che maturerà nel Seicento. L'uso frequente di forme metriche poco usate dai poeti precedenti, come il madrigale, e la raffinata musicalità dei versi fecero sì che molti di essi fossero musicati da grandi autori come Claudio Monteverdi e Gesualdo da Venosa.  Più solenni e classicheggianti le Rime encomiastiche, dedicate alle figure e alle famiglie signorili che ebbero rilievo nella vita del poeta. Per la loro creazione si ispira a Pindaro, Orazio e al celebre Monsignor della Casa. Fra tutte, la più famosa è la Canzone al Metauro, intessuta di elementi autobiografici.  Le Rime religiose sono caratterizzate dal tono cupo e plumbeo, forse dovuto al fatto che le scrisse negli ultimi anni di vita. Qui il poeta manifesta il desiderio di sconfiggere l'ansia esistenziale e il tormentoso senso del peccato attraverso la fede e l'espiazione.  Discorsi dell'arte poetica Attorno alla metà degli Anni Sessanta scrisse i quattro libri dei Discorsi dell'arte poetica ed in particolare sopra il poema eroico, letti all'Accademia Ferrarese e pubblicati molto più tardi, nel 1587, dal Licino. Il testo fornisce una chiara visione della concezione tassesca del poema eroico, piuttosto distante da quella ariostesca, che dava la prevalenza all'invenzione e all'intrattenimento del pubblico.  Perché possa essere giudicato di buon livello, deve basarsi su un evento storico, da rielaborare in modo inedito. Infatti, «la novità del poema non consiste principalmente in questo, cioè che la materia sia finta, e non più udita; ma consiste nella novità del nodo e dello scioglimento della favola. Al verosimile deve essere unito il meraviglioso, e Tasso trova l'unione perfetta di queste due componenti nella religione cristiana. Intiera, l'opera deve essere una, ossia prevedere l'unità d'azione, ma senza schemi rigidi: ci può essere largo spazio per la varietà, e per la creazione di numerosi racconti nel racconto, e in questo senso la Gerusalemme liberata costituisce una piena realizzazione delle idee dell'autore. Lo stile, infine, deve adeguarsi alla materia, e variare tra il sublime e il mediocre a seconda dei casi.  Aminta Magnifying glass icon mgx2.svg Aminta (Tasso).  Le sofferenze di Aminta, dipinto di Bartolomeo Cavarozzi «L'Aminta non è un dramma pastorale e neppure un dramma. Sotto nomi pastorali e sotto forma drammatica è un poemetto lirico, narrazione drammatizzata, anzi che vera rappresentazione, com'erano le tragedie e le commedie e i così detti drammi pastorali in Italia … Essa è in fondo una novella allargata a commedia, di quel carattere romanzesco che dominava nell'immaginazione italiana, aggiuntavi la parte del buffone, che è il Ruffo, la cui volgarità fa contrasto con la natura cavalleresca de' due protagonisti, Virginia e il principe di Salerno. Gli avvenimenti più strani si accavallano con magica rapidità, appena abbozzati, e quasi semplice occasione a monologhi e capitoli, dove paion fuori i sentimenti dei personaggi misti alla narrazione … L'Aminta è un'azione fuori del teatro, narrata da testimoni o da partecipi con le impressioni e le passioni in loro suscitate. L'interesse è tutto nella narrazione sviluppata liricamente e intramessa di cori, il cui concetto è l'apoteosi della vita pastorale e dell'amore: "s'ei piace, ei lice". Il motivo è lirico, sviluppo di sentimenti idillici, anzi che di caratteri e di avvenimenti. Abbondano descrizioni vivaci, soliloqui, comparazioni, sentenze, movimenti appassionati. Vi penetra una mollezza musicale, piena di grazia e delicatezza, che rende voluttuosa anche la lacrima. Semplicità molta è nell'ordito, e anche nello stile, che senza perder di eleganza guadagna di naturalezza, con una sprezzatura che pare negligenza ed è artificio finissimo. Ed è perciò semplicità meccanica e manifatturata, che dà un'apparenza pastorale a un mondo tutto vezzi e tutto concetti. È un mondo raffinato, e la stessa semplicità è un raffinamento. A' contemporanei parve un miracolo di perfezione, e certo non ci è opera d'arte così finamente lavorata.»  (De Sanctis) L'Aminta è una favola pastorale. Presenta un prologo, 5 atti, un coro. Ogni canto si conclude a lieto fine.  Ha ispirato la composizione della favola pastorale Flori di Maddalena Campiglia lodata dallo stesso Tasso. Sulle ali dell'entusiasmo per il successo dell'Aminta Tasso incominciò una tragedia, Galealto re di Norvegia, che però interruppe alla seconda scena del secondo atto. Il poeta la riprese e la completò a Mantova, subito dopo la liberazione dall'Ospedale di Sant'Anna cambiando però il titolo, diventato Re Torrismondo, e il nome del protagonista. L'ambientazione è nordica: in essa sono frequenti le immagini di distese boschive. In questo, il Tasso mostra la sua forte curiosità per le leggende nordiche, come ad esempio mostra la lettura dell'Historia de gentibus septentrionalibus di Olao Magno.  L'editio princeps è quella bergamasca del 1587; seguirono a ruota le edizioni di Mantova, Ferrara, Venezia e Torino, ma poi ci fu un lungo silenzio. L'opera fu rappresentata per la prima volta soltanto al Teatro Olimpico di Vicenza.  Trama Torrismondo è intimamente segnato dal conflitto tra amore e amicizia: il sovrano (d'una ignota regione nordica, non di Norvegia) ama Alvida, che a causa di un debito passato (Germondo aveva salvato la vita a Torrismondo) deve sposarsi con l'amico Germondo, re di Svezia, regno nemico a quello di Alvida poiché Germondo stesso era stato accusato di omicidio del fratello di Alvida. Germondo dunque non può sposarsi con la donna amata poiché il padre di quest'ultima lo odia. Germondo decide allora che Torrismondo per sdebitarsi avrebbe dovuto chiedere la mano di Alvida e al momento delle nozze avrebbe dovuto scambiare la sposa. Ottenuta da Torrismondo la mano di Alvida i due consumano l'amore. La storia prenderà un'altra china quando Torrismondo scoprirà che la donna amata non è altri che la sorella, la situazione culminerà nel suicidio dei due. Il Re Torrismondo è molto importante perché anticipa le tragedie barocche, nelle quali si riprendono alcune caratteristiche fondamentali delle tragedie senecane: la meditatio mortis (il Memento mori) e il gusto dell'orrido. Nel Tasso, però, ciò che compare fortemente e caratterizza le sue tragedie è il conflitto intimo che dilania l'animo dei personaggi: l'uomo si sente intrappolato dal fato, poiché impossibilitato all'agire, a modificare il corso degli eventi ormai già predisposti.  Tuttavia, la critica non si è espressa positivamente in merito all'opera: Angelo Solerti e Francesco D'Ovidio si sono mostrati ostili verso il Torrismondo come lo erano stati nei confronti degli Intrichi d'amore, e severo si è dimostrato anche Umberto Renda, che alla tragedia ha dedicato una monografia.  Ancora più duro il giudizio di Eugenio Donadoni, che arrivò a parlare di «opera di un ex-poeta, non più di un poeta,  e nemmeno Giosuè Carducci, pur apprezzando lo sforzo di unire elementi pagani e religiosi, classici ed esotici, ha ritenuto il dramma degno dell'ingegno tassesco. Solo Tonelli fa presente che superava pur sempre «la maggior parte delle tragedie cinquecentesche e rivaleggiava con le migliori del tempo. Gerusalemme liberata Gerusalemme liberata.  Tasso con la sua Gerusalemme liberata La Gerusalemme liberata è considerata il capolavoro di Tasso. Il poema tratta di un avvenimento realmente accaduto, ossia la prima crociata. Tasso iniziò a scrivere l'opera con il titolo di Gierusalemme durante il soggiorno a Venezia. L'opera fu pubblicata integralmente con il titolo di Gerusalemme liberata. In seguito alla pubblicazione del poema il poeta rimise mano all'opera e la riscrisse eliminando tutte le scene amorose e accentuando il tono religioso ed epico della trama. Cambiò anche il titolo in Gerusalemme conquistata. In realtà la Conquistata fu immediatamente dimenticata e la redazione che continuò ad avere grande successo e ad essere ristampata, in Italia e nei paesi stranieri, fu la Liberata.  Trama Goffredo di Buglione nel sesto anno di guerra raduna i crociati, viene eletto comandante supremo e stringe d'assedio Gerusalemme. Uno dei guerrieri musulmani decide di sfidare a duello il crociato Tancredi. Chi vince il duello vince la guerra. Il duello però viene sospeso per il sopraggiungere della notte e rinviato. I diavoli decidono di aiutare i musulmani a vincere la guerra. Uno strumento di Satana è la maga Armida che con uno stratagemma riesce a rinchiudere tutti i migliori eroi cristiani, tra cui Tancredi, in un castello incantato. L'eroe Rinaldo per aver ucciso un altro crociato che lo aveva offeso viene cacciato via dal campo. Il giorno del duello arriva e poiché Tancredi è scomparso viene sostituito da un altro crociato aiutato da un angelo. I diavoli aiutano il musulmano e trasformano il duello in battaglia generale. I crociati sembrano perdere la guerra quando arrivano gli eroi imprigionati liberati da Rinaldo che rovesciano la situazione e fanno vincere la battaglia ai cristiani. Goffredo ordina ai suoi di costruire una torre per dare l'assalto a Gerusalemme ma Argante e Clorinda (di cui Tancredi è innamorato) la incendiano di notte. Clorinda non riesce a entrare nelle mura e viene uccisa in duello proprio da colui che l'ama, Tancredi, che non l'aveva riconosciuta. Tancredi è addolorato per aver ucciso la donna che amava e solo l'apparizione in sogno di Clorinda gli impedisce di suicidarsi. Il mago Ismeno lancia un incantesimo sul bosco in modo che i crociati non possano ricostruire la torre. L'unico in grado di spezzare l'incantesimo è Rinaldo, prigioniero della maga Armida. Due guerrieri vengono inviati da Goffredo per cercarlo e alla fine lo trovano e lo liberano. Rinaldo vince gli incantesimi della selva e permette ai crociati di assalire e conquistare Gerusalemme. I Dialoghi La stesura di prose dialogiche impegnò Tasso fin dal 1578, anno della composizione del Forno overo de la Nobiltà.  La dialogistica tassiana è stata da sempre relegata al margine dalla critica: De Sanctis accenna soltanto al Minturo overo della Bellezza, limitandosi ad asserire che Tasso da giovane fu “infetto dalla peste filosofica”. Un giudizio a dir poco sminuente se si considera che il poeta compose venticinque dialoghi (e questa è solo la cifra canonica; non si fa riferimento, infatti, agli abbozzi e ai rimaneggiamenti) e vi pose il suo impegno fino alla morte.  Una valutazione più precisa è fornita da Donadoni: lo studioso dedica un intero capitolo della sua monografia ai Dialoghi indagandone trame, fonti e suggestioni. La prima edizione moderna del corpus dialogico tassiano è quella di Guasti, il quale, però, non riuscendo a reperire tutti i manoscritti dei Dialoghi si basa sui testimoni a stampa, dando vita ad un’edizione, che presenta corruttele da far rabbrividire i moderni filologi.  Un grande passo in avanti nella fortuna dei Dialoghi è rappresentato dall’edizione critica di Ezio Raimondi pubblicata nel 1958, di capitale importanza per gli studiosi tassiani i quali, ancora oggi, continuano a considerarla punto di riferimento. Raimondi considerò i Dialoghi tassiani come opere postume, scegliendo la versione più attendibile fra manoscritti e stampe in base alla loro storia individuale.  Questo criterio non è stato accettato da Stefano Prandi e Carlo Ossola, i quali hanno proposto un’edizione storica dei Dialoghi che tenesse conto dei testi effettivamente circolanti all’epoca dello scrittore. L’edizione in realtà non ha mai visto la luce e si è fermata al 1996 ad uno specimen che avrebbe dovuto anticipare una successiva edizione completa.  Negli ultimi anni gli studiosi della prosa tassiana sono aumentati: si è posta attenzione al Tasso politico, con due edizioni commentate della Risposta di Roma a Plutarco e al Tasso egittologo di cui si è occupato Bruno Basile. Non mancano letture dei singoli dialoghi: Basile e Arnaldo Di Benedetto si sono occupati del Padre di Famiglia (rispettivamente, Fonti culturali e invenzione letteraria nel «Padre di famiglia» di Torquato Tasso; e Torquato Tasso, «Il padre di famiglia»); Emilio Russo del Manso (Amore e elezione nel "Manso" di Tasso), Massimo Rossi del Malpiglio Secondo e del Rangone (Io come filosofo era stato dubbio. La retorica dei "Dialoghi" di Tasso); Maiko Favaro, dopo la monografia di Prandi/Ossola, ha offerto una puntuale lettura del Forno, premiata con il premio Tasso  (Le virtù del tiranno e le passioni dell’eroe. Il “Forno overo de la Nobiltà” e la trattatistica sulla virtù eroica); Angelo Chiarelli si è, invece, occupato del Malpiglio overo de la corte (Una «congregazione di uomini raccolti per onore». Tentativi di aggiornamento della teoria cortigiana nella dialogistica e nella prosa tassiana), preceduto dal contributo di Massimo Lucarelli sullo stesso argomento (Il nuovo «Libro del Cortegiano»: una lettura del «Malpiglio» di Tasso) e del Costante («Questa concordia è sempre nelle cose vere». Note per una contestualizzazione de «Il Costante overo de la clemenza» di Tasso).  L'edizione critica di Raimondi fornisce il testo dei venticinque dialoghi tassiani, con un'appendice che ci permette di conoscere i manoscritti superstiti e le stampe. Questo il titolo dei vari dialoghi:  Il Forno overo de la Nobiltà; Il Beltramo overo de la cortesia; Il Forestiero Napoletano overo de la gelosia; Il N. overo de la pietà; Il Nifo overo del piacere; Il messaggiero; Il padre di famiglia; De la dignità; Il Gonzaga secondo overo del giuoco; Dialogo; Il Rangone overo de la pace; Il Malpiglio overo de la corte; Il Malpiglio secondo overo del fuggir la moltitudine; La Cavalletta overo de la poesia toscana; Il Gianluca overo de le maschere; Il Cataneo overo de gli idoli; Il Ghirlinzone overo l'epitaffio; La Molza overo de l'amore; Il Costante overo de la clemenza; Il Cataneo overo de le conclusioni amorose; Il Manso overo de l'amicizia; Il Ficino overo de l'arte; Il Minturno overo de la bellezza; Il Porzio overo de le virtù; Il Conte overo de le imprese. Le sette giornate del mondo creato È un poema in endecasillabi sciolti, accanto ad altre opere di contenuto religioso di impronta chiaramente controriformistica. Il poema venne pubblicato postumo. Si fonda sul racconto biblico della creazione ed è suddiviso in sette parti, corrispondenti come dice il titolo ai sette giorni nei quali Dio creò il mondo, e presenta una continua esaltazione della grandezza divina della quale la realtà terrena è un pallido riflesso.  Le lacrime di Maria Vergine e Le lacrime di Gesù Cristo Si tratta, come nel caso de Le sette giornate del mondo creato, di due scritti facenti parte delle cosiddette "opere devote" del Tasso. Nello specifico, sono due poemetti in ottave che riprendono la tradizione della "poesia delle lacrime", in voga nella seconda metà del Cinquecento, appena qualche anno prima della morte.  Influenze culturali  Statua di Tasso a Sorrento La figura del Tasso, anche per la sua pazzia, divenne subito popolare. La lucidità delle opere scritte durante il periodo di prigionia nell'Ospedale di Sant'Anna fece diffondere la leggenda secondo cui il poeta non era veramente pazzo ma fu fatto passare per tale dal duca Alfonso che voleva punirlo per aver avuto una relazione con sua sorella, imprigionandolo (anche se, come si è visto, è assai più probabile che la vera ragione della reclusione consistesse nell'autoaccusa del poeta di fronte al tribunale dell'Inquisizione). Questa leggenda si diffuse rapidamente e rese particolarmente popolare la figura del Tasso, fino a ispirare a Goethe il dramma Torquato Tasso (1790)[129].  In età romantica il poeta divenne il simbolo del conflitto individuo-società, del genio incompreso e perseguitato da tutti coloro che non sono in grado di comprendere il suo talento straordinario. In particolare Giacomo Leopardi, che quando si recò a Roma il giorno venerdì 15 febbraio del 1823 pianse sul sepolcro del Poeta in S. Onofrio (commentando in una lettera che quella esperienza era stata per lui "il primo e l'unico piacere che ho provato in Roma"), considerava Torquato Tasso come un fratello spirituale, ricordandolo in numerosi passi dei propri scritti (tra cui quello citato) e nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare (una delle Operette morali).  Molta parte della poesia recanatese è impregnata di stile tassesco: i notturni di alcuni canti, come La sera del dì di festa o Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, richiamano quelli della Gerusalemme, mentre nella canzone Ad Angelo Mai Leopardi crea una forte empatia con il «misero Torquato, spirito fraterno «concepito come un alter ego. I due nomi femminili più celebri presenti nei Canti, Silvia e Nerina, furono ripresi dall'Aminta.  In generale, l'attenzione si spostò dai personaggi della Liberata al dramma esistenziale vissuto dal suo autore. Ferretti scrisse le parole del Torquato Tasso, melodramma in tre atti musicato da Gaetano Donizetti e rappresentato per la prima volta al Teatro Valle. Il "mito" conquistò anche Franz Liszt: era quando l'apostolo del Romanticismo metteva in musica l'opera byroniana Il lamento del Tasso, dando vita al poema sinfonico Tasso. Lamento e Trionfo.  Il poeta vicentino ottocentesco Jacopo Cabianca ha dedicato al Tasso un poema in dodici canti intitolato appunto Il Torquato Tasso.  Nei primi anni del ventesimo secolo il compositore catanese Pietro Moro si concentrò sugli ultimi momenti di vita del poeta con Ultime ore di Torquato Tasso, carme in un atto sulle parole di Giovanni Prati (riviste per l'occasione da Rojobe Fogo).  Torquato Tasso nel cinema Torquato Tasso, regia di Luigi Maggi, Torquato Tasso, regia di Roberto Danesi. Adattamenti cinematografici de La Gerusalemme liberata Il primo regista a girare un film sull'opera fu Enrico Guazzoni. Ne farà due remake;  Gerusalemme liberata, di Enrico Guazzoni; La Gerusalemme liberata, di E. Guazzoni); La Gerusalemme liberata, di Carlo Ludovico Bragaglia; I due crociati, parodia di Giuseppe Orlandini con Franco e Ciccio. Alitalia gli ha dedicato uno dei suoi Airbus, Laurea poetica nastrino per uniforme ordinariaLaurea poetica (postuma) — Roma. Giovan Pietro D'Alessandro, Vita di Torquato Tasso, ed. da C. Gigante, in «Giornale storico della Letteratura Italiana», Giovan Battista Manso, Vita di Torquato Tasso, B. Basile, Roma, Salerno Editrice, Pier Antonio Serassi, La vita di Torquato Tasso, Bergamo, Stamp. Locatelli, 2 to. Angelo Solerti, Vita di Torquato Tasso, Torino-Roma, Loescher, 1895, 3 voll. Luigi Tonelli, Tasso, Torino, Paravia, Giulio Natali, Torquato Tasso, Roma, Tariffi, Capitoli di storie letterarie Ettore Bonora, in Storia della letteratura italiana, dir. E. Cecchi e N. 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Doglio, Palermo, Sellerio, Gerusalemme conquistata, L. Bonfigli, Bari, Laterza («Scrittori d'Italia»), Gerusalemme conquistata. Ms. Vind. Lat. 72 della Biblioteca Nazionale di Napoli, C. Gigante, Alessandria, Edizioni dell'Orso,. Gerusalemme liberata, L. Caretti, Milano, Mondadori («I Meridiani»). Giudicio sovra la ‘Gerusalemme' riformata, C. Gigante, Roma, Salerno Editrice («Testi e documenti di letteratura e di lingua», Il Gierusalemme, L. Caretti, Parma, Zara («Le parole ritrovate», 8),Il Monte Oliveto, A. M. Lagomarzini, in «Studi tassiani», Il Re Torrismondo, V. Martignoni, Parma-[Milano], Guanda-Fondazione Pietro Bembo («Biblioteca di scrittori italiani»),  Intrichi d'amore, E. Malato, Roma, Salerno Editrice («Testi e documenti di letteratura e di lingua», I), Le Lettere di T. T. disposte per ordine di tempo ed illustrate da C. Guasti, Firenze, Le Monnier, Le prose diverse, C. Guasti, 2 voll., Firenze, Le Monnier, 1875. Le Rime, B. 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Dal petrarchismo a Torquato Tasso, Firenze, Società Editrice Fiorentina, Massimo Colella, «Parmi ne’ sogni di veder Diana». Emersioni seleniche nelle Rime di Torquato Tasso, in «Griseldaonline», 1Sull'«Aminta» Mario Fubini, L'«Aminta»: intermezzo alla tragedia della «Liberata», in Studi sulla letteratura del Rinascimento, cMaria Grazia Accorsi, «Aminta»: ritorno a Saturno, Soveria Mannelli, Rubbettino, Arnaldo Di Benedetto, Il sorriso dell'«Aminta», in «Giornale storico della letteratura italiana», Arnaldo Di Benedetto, Tasso, Haller, Ungaretti, in «Studi tassiani», Sui Dialoghi A. Benedetto, Torquato Tasso, «Il padre di famiglia», in L'«incipit» e la tradizione letteraria italiana. Dal Trecento al tardo Cinquecento, Pasquale Guaragnella e Stefania De Toma, Lecce-Brescia, Pensa MultiMedia,  Angelo Chiarelli, «Questa concordia è sempre nelle cose vere». Note per una contestualizzazione de «Il Costante overo de la clemenza» di Tasso, in «Filologia e Critica», Angelo Chiarelli, Una «congregazione di uomini raccolti per onore». Tentativi di aggiornamento della teoria cortigiana nella dialogistica e nella prosa tassiana, in «La Rassegna della letteratura italiana»,  Raimondi Ezio, Il Problema Filologico e Letterario dei Dialoghi di T. Tasso, in Rinascimento Inquieto, Einaudi, Torino. Bozzola Sergio, «Questo quasi arringo del ragionare». La Tecnica dei «Dialoghi» Tassiani, in «Italianistica, Rivista di Letteratura Italiana», Baldassarri Guido, L’arte del dialogo in Torquato Tasso, in «Studi Tassiani»,  Guido Armellini e Adriano Colombo, Torquato TassoL'uomo, in Letteratura italianaGuida storica: Dal Duecento al Cinquecento, Zanichelli Editore, Luperini, Cataldi, Marchiani, La scrittura e l'interpretazione, Palumbo, L. Tonelli, Tasso, Torino); Lettere di Torquato Tasso (Firenze, Le Monnier); L. Tonelli, G. Natali, Torquato Tasso, Roma, G. Natali, cA. Solerti, Vita di Torquato Tasso, Torino. Altri pensano invece che queste sperimentazioni risalgano al periodo patavino o addirittura a quello bolognese.  G. Natali, cit.,   Luperini, Cataldi, Marchiani, La scrittura e l'interpretazione, Palumbo, G. Natali, cG. Natali, cit.20  L. Tonelli, cit.68  G. Natali,  L. Tonelli, cit.60  E. Durante, A. Martellotti, «Giovinetta Peregrina». La vera storia di Laura Peperara e Torquato Tasso, Firenze, Olschki,   W. Moretti, Torquato Tasso, Roma-Bari Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria, Dal testo alla storia. Dalla storia al testo, Milano: Paravia,  L. Tonelli, cil rapporto amoroso è stato ipotizzato in particolare da Angelo de Gubernatis in T. Tasso, Roma, Tipografia popolare, L. Tonelli, c Lettere, cit., I22  L. Tonelli, cit.89  L. Tonelli, cit.,  99-100  Lettere, cit., I49  Secondo Maria Luisa Doglio la data non è casuale e si inserirebbe nella tradizione petrarchesca. Petrarca avrebbe infatti visto per l'unica volta Laura, cfr. M. L. Doglio, Origini e icone del mito di Torquato Tasso, Roma Lettere, c Lettere,  Lettere, cit., I114  Si tratta di un'epistola al Gonzaga del luglio 1575; Lettere, cit.,  L. Tonelli S. Guglielmino, H. Grosser, Il sistema letterario, Milano, Principato, L. Tonelli, Lettere,  Si trattava comunque di uno stipendio oggettivamente basso, che a una persona comune avrebbe garantito a stento la sopravvivenza; L. Tonelli, cit.172  Lettere, L. Chiappini, Gli Estensi, Milano, Dall'Oglio, A. Solerti, cA. Solerti, cit., II,  120-121  A. Solerti, L. Tonelli, cit. G. B. Manso, Vita del Tasso, in Opere del Tasso, Firenze, M. Vattasso, Di un gruppo sconosciuto di preziosi codici tasseschi, Torino, M. Vattasso, cA. Solerti, L. Tonelli, c M. L. Doglio, I. De Bernardi, F. Lanza, G. Barbero, Letteratura Italiana,  2, SEI, Torino, 1987  Lettere, cit., I298  Lettere, cit., I299  A. Solerti, ccosì scrive al cardinale Luigi un suo informatore L. Tonelli, Lettere, cit., II89  L. Tonelli, cit.187  A. Solerti,  Lettere, Cesare Guasti, Napoli, Rondinella,  A. Corradi, Delle infermità di Torquato Tasso, Regio Instituto Lombardo548  L. Tonelli, M. L. Doglio, cit.,  41 e ss.  Opere di Torquato Tasso, Firenze, Tartini e Franchi, L. Tonelli, cInfarinato era il nome accademico assunto dal Salviati  Tra parentesi sono indicate le date di pubblicazione  L. Tonelli, Opere, cit., II276  Tra parentesi si indicano due date, quella di composizione e quella di pubblicazione  Lettere, cit., II56  La prima versione di quelli che saranno Gli intrichi d'amore non ci è pervenuta  L. Tonelli, L. Tonelli, F. D'Ovidio, Saggi critici, Napoli, Morano, Non fu più tenero il Solerti; L. Chiappini, c L. Tonelli, cit.188  L.Tonelli,  247-248  A. Solerti, cLettere, L. Tonelli, cit.,  266-267  Lettere, c L. Tonelli, cG. Mazzoni, Del Monte Oliveto e del Mondo creato di Torquato Tasso, in Opere minori in versi di Torquato Tasso, Bologna, Zanichelli,  E. Donadoni, Torquato Tasso, Firenze, Battistelli,  G. B. Manso, Vita di T. Tasso, in Opere di Torquato Tasso, Firenze; Lettere, Così al Costantini; Lettere,   Lettere,  L. Tonelli, cit.275  Passo riportato in A. Solerti, A. Solerti,   L. Tonelli, Lettere,  Lettere, cit.,Lettere, cit., Lettere, A niuno sono più obligato che a Vostra Eccellenza, ed a niuno vorrei essere maggiormente; perché è cosa da animo grato l'esser capace de le grazie e de gli oblighi. Laonde non ho voluto più lungamente ricusare il secondo suo dono di cento scudi, bench'io non abbia mostrato ancora alcuna gratitudine del primo; ma la conservo ne l'animo, e ne le scritture: e ne l'uno sarà forse eterna, e ne l'altre durerà tanto, quanto la memoria de le mie fatiche. Niuno de' presenti o de' posteri saprà chi mi sia, che non sappia insieme quant'io sia debitore a la cortesia di Vostra Eccellenza, ed a la sua liberalità; con la quale supera tutti coloro che possono superar la fortuna." Così scrive il Tasso al marchese Giovanni Ventimiglia da Firenze nella primavera del 1590. Soltanto nello stesso 1590, il Tasso dedicherà al marchese due composizioni encomiastiche, non portando però a compimento il promessogli poema Tancredi normando.  Lettera a Scipione Gonzaga, Lettere. E. Rossi, Il Tasso in Campidoglio, in Cultura, Lettere, cit., V6  L. Tonelli, cit.278  Lettere, cit., V62  L. Tonelli, cit.,  278-279  C. Cipolla, Le fonti storiche della «Genealogia di Casa Gonzaga», in Opere minori in versi di Torquato Tasso, cit.,  I  L. Tonelli, G. B. Manso, L.Tonelli, L. Tonelli, E. Rossi, c A. Solerti, cit.,  II  Lettere, cit., V194  Lettere, cLettera ad Antonio Costantini, in Lettere, Lettera di Maurizio Cataneo a Ercole Tasso, 29 aprile 1595; A. Solerti, cit., II363  Lettera di monsignor Quarenghi a Giovan Battista Strozzi, A. Solerti, cAlmanach du gotha, de J.-H. de Randeck, Les plus anciennes familles du monde: répertoire encyclopédique des 1.400 plus anciennes familles du monde, encore existantes, originaires d'Europe,   de Karl Hopf, Historisch-genealogischer Atlas: Seit Christi Geburt bis auf unsere Zeit, de A. M. H. J. Stokvis, Manuel d'histoire: Les états de Europe et leurs colonies, de Pierantonio Serassi, La vita de Torquato Tasso8.  de Niccolò Morelli di Gregorio, Della vita di Torquato Tasso, de Pierantonio Serassi, La vita di Torquato Tasso10.  (DE) de Karl Hopf, Historisch-genealogischer Atlas: Seit Christi Geburt bis auf unsere Zeit, de Heinrich Léo Dochez, Histoire d'Italie pendant le Moyen-âge T. Tasso, Discorsi dell'arte poetica, I, 12 in Le prose diverse di Torquato Tasso (C. Guasti), Firenze, Le Monnier, 1875  Discorsi dell'arte poetica, cit., I, 15  A. Solerti, F. D'Ovidio, Saggi critici, Napoli, Morano, U. Renda, Il Torrismondo di Torquato Tasso e la tecnica tragica nel Cinquecento, Teramo, E. Donadoni, G. Carducci, Il Torrismondo, testo premesso all'ed. Solerti delle Opere minori in versi di Torquato Tasso, L. Tonelli, cit.253  Torquato Tasso, Risposta di Roma a Plutarco, Res, Risposta di Roma a Plutarco e marginalia | Edizioni di Storia e Letteratura, su storiaeletteratura. Angelo Chiarelli, Una «congregazione di uomini raccolti per onore». Tentativi di aggiornamento della teoria cortigiana nella dialogistica e nella prosa tassiana, in «La Rassegna della letteratura italiana»,,  121, n°1,  34-43.. 12 agosto. «Questa concordia è sempre nelle cose vere». Note per una contestualizzazione de «Il Costante overo de la clemenza» di Tasso, in «Filologia e Critica», Sul muro esterno della Chiesa di S. Onofrio, a Roma, una tavola con iscrizione tedesca ricorda il soggiorno di Goethe e l'ispirazione che lo portò a scrivere il dramma, dopo aver veduto la tomba del poeta custodita all'interno dell'edificio sacro  Ad Angelo Mai, v. 124  G. Baldi, S. Giusso, M. Razetti, G. Zaccaria, Dal testo alla storia dalla storia al testo, Milano, Paravia, S. E. Failla, Ante Musicam Musica. Torquato Tasso nell'Ottocento musicale italiano, Acireale-Roma, Bonanno, Emersioni seleniche nelle Rime di Torquato Tasso | Massimo Colella | Griselda Online, su griseldaonline. 2Torquato Tasso, commedia goldoniana Tasso, dramma di Goethe, Torquato Tasso, opera di Gaetano Donizetti Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, dalle Operette morali di Giacomo Leopardi Thurn und Taxis, ramo austriaco della famiglia Tasso di Bergamo, fondatori delle prime poste europee Museo tassiano, museo dedicato a Torquato Tasso Accademia dei Catenati Cella del Tasso, attuale ubicazione a Ferrara. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Torquato Tasso, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Torquato Tasso, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.  To Tasso, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.  Opere di Torquato Tasso, su Liber Liber.  Opere di Torquato Tasso, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Torquato Tasso,. Opere Progetto Gutenberg. LibriVox. Torquato Tasso, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Spartiti o libretti di Torquato Tasso, su International Music Score Library Project, Project Petrucci Tasso, su Internet Movie Database, IMDb.com.  Torquato Tasso Testi completi e cronologia delle opere. Opere integrali in più volumi dalla collana digitalizzata "Scrittori d'Italia" Laterza Opere di Torquato Tasso, testi con concordanze, lista delle parole e lista di frequenza Due segregazioni: il Cantico spirituale di Giovanni della Croce e Il Re Torrismondo di Torquato Tasso, su midesa). Opere di Torquato Tasso colle controversie sulla Gerusalemme poste in migliore ordine, ricorrette sull'edizione fiorentina, ed. illustrate dal professore Gio. Rosini, Pisa, presso Niccolò Capurro, Le lettere di Torquato Tasso disposte per ordine di tempo e illustrate da Cesare Giusti, 5 voll., Firenze, Felice Le Monnier, I dialoghi, Cesare Guasti, Firenze, Felice Le Monnier, Le rime di Torquato Tasso. Edizione critica su i manoscritti e le antiche stampe Angelo Solerti, 4 voll., Bologna, presso Romagnoli-Dall'Acqua, Opere di C..  DELL'ARTE DEL DIALOGO. Voi mi pregate, pad* molto reverendo, nelle vostre lettere, eh' io voglia darvi alcuno ammaestramento: e i chiedete, se non m'inganno,  dello scrivere i dialoghi, perchè son quelle medesime nelle quali m'av-  visate d' aver ricevuti quelli della poesia toscana e della pace. E se  propriamente ragionale, io non posso compiacervi, perchè tanto a me  disdioevol sarebbe la persona di maestro, quanto a voi quella di sco-  lare: né rifiutandola io temo di poterne esser biasimato, come Giotto, perch'agli ricusò convenevole onore: io non accetto ufficio non conveniente. Bla se volete onorarmi con questo nome, e ammaestramento  chiamate l' opinione» io la scriverò; perchè niuna cosa debbo tenervi celata, la qual possa giovar agli altri, oppure a me stesso'; ed allora sti-  merò buone le mie ragioni» che dal vostro giudicjo saran confermate.  E se -delle regola avviene quel che delie leggi : siccome altre leggi hanno  i Genovesi diverse da quelle oV Veneziani o de/ Ragusei, oasi potrebbero avere altri precetti nell'artificio del bene scrivere» Ma io non gli  voglio dar questo nome, nò voi gliele scrivete in fronte ; perciocché io  l'ho raccolte in un'operetta assai breve per assomigliar alcuni dottori  cortigiani, i quali' non potendo sostener persona così grave, vestono di  corto. E a' in questo abito potranno sensa fastidio esser lette dagli amid  ' e da parenti, non v' incresca di leggere.Nell'imitazione o s'imitano l' azioni degli uomini o i ragionamenti:  e quantunque poche operazioni si facciano alla mutola, e pochi discorsi  senza operazione, almeno dell' intelletto, nondimeno assai diverse giu-  dico quelle da questi : e degli speculativi è proprio il discorrere, sicco-  me degli attivi l'operare. Due sàran dunque i primi generi dell'imi-  tazione: l'un dell'azione, nel quale son rassomigliati gli operanti:  l' altro delle parole, nel quale sono introdotti i ragionanti. E. 1 primo  genere si divide in altri, che sono la tragedia e la commedia, ciascuna  delle quali patisce alcune divisioni: e '1 secondo si può divider pari-  mente. Ed Aristide un de' più famosi Greci, i quali scrissero e non  parlarono, così parve che gli dividesse, dicendo che Platone avea comi-  camente rappresentato Ippia, Prodico, Protagora, Gorgia, Eutedemo,  Bonisidoro, Agatone, Cinesia e gli altri: e ch'egli medesimo chiama le  sue leggi tragedia, e si confessa ottimo tragico. Ma tra' moderni v*è  chi gli divide altramente, facendone tre specie: l'una delle quali può  montare in palco, e si può nominare rappresentativa, perciocché in essa   vi siano persone introdotte a ragionare cioè in alto, com' è usanza   di farsi nelle commedie e nelle tragedie: e simil maniera è tenuta da  Platone nei suoi Ragionamenti, e da Luciano ne' suoi; ma un'altra ce  n' è, che non può montare in palco, perciocché conservando1' autore  la" sua persona, come isterico narra quel che disse il tale e '1 cotale:  e questi due ragionamenti si possono domandare istorici o narrativi, e  tali sono per- lo più quelli di Cicerone. E c'è ancora la terza maniera  ed è di quelli, che son mescolati della prima e della seconda maniera,  conservando l'autore la sua prima persona, e narrando come istorio):  e poi introducendo a favellar tyafiarix&s come s'usa <fi far nelle tra-  gedie e nelle commedie: e può e non montare in palco, cioè non può  montarvi, in quanto l' autore conserva la sua persona ed è come 1* isto-  rico: e può montarvi in quanto s'introducono le persone rappresenta-  tivamente a favellare: e Cicerone fece alcuni ragionamenti sì fatti. E  quantunque questa- divisione sia tolta dagli antichi e paia diversa dal-  l' altra, nondimeno l'intenzione forse è l'istessa; perchè la tragedia si  divide in quella che si dice tragedia propriamente, e nell'altra nella  qual parla il poeta: e tragedia sì fatta compose Omero. E questa divi-  stone perchè è fatta in due membri, è più perfetta; nondimeno i àia-  Ioghi sono stati detti tragici e comici per similitudine, perchè le trage-  die e le commedie propriamente sono l'imitazione dell'azione; però  tragici si posson chiamar sopra tutti gli altri il Critone e 1 Fedone: Dell' un de' quali Socrate condannato alla morte, ricusa di fuggirsene  con gli amici: nell'altro dopo lunga deputazione dell' immortalità del-  l'anima bee il veleno. E comico è il convito nel quale Aristofane è  impedito dal rutto nel favellare; ed Alcibiade ubriaco si mescola fra i  convitati. Ma il Menesseno par misto di queste due specie: perciocché  Socrate battuto dalla maestra Aspasia è persona comica; ma lodando  i morti ateniesi innalza il dialogo all' altezza della tragedia. Pur questi  medesimi dialoghi non son vere tragedie, ovvero commedie; perchè  nell' une e nelT altre le quistioai e i ragionamenti son descritti per  l'azione; ma ne' dialoghi l'azione è quasi giunta de' ragionamenti : e  8' altri la rimovesse, il dialogo non perderebbe la sua l'orma. Dunque  in lui queste differenze sono accidentali piuttosto che • altramente ; ma  le proprie si terranno dal ragionamento jslesso e da' problemi in lui  contenuti, cioè dalle cose ragionate, non sol dal modo di ragionare.  Per eh' i ragionamenti sono o di cose che appartengono alla contempla-  zione, oppur di quelle che son convenevoli all' azione e negli uni sono  i problemi intenti all' elezione e alla fuga, negli altri quelli che riguar-  dano la scienza, e là verità; laonde alcuni dialoghi debbono esser detti  civili e costumati,, altri speculativi. E '1 soggetto degli uni e degli altri;  o sarà la quistione infinita, come se la virtù si possa insegnare; o la  finita che debba far Socrate condannato alla morte. E perciocché gran  parte de' platonici dialoghi sono speculativi e quasi in tutti la quistione  è infinita, non pare che lor si convenga la scena in modo alcuno, né  meno agli altri che son de' costumi, perchè son pieni d' altissime spe-  culazioni. Anzi piuttosto non si conviene ad alcun dialogo, se non forse  per rispetto dell'elocuzione, la quale alcuna volta pare istrionica, sic-  come disse il Falereo, awengachè nella scena si rappresenti l'azione o  atto dal quale son denominate le favole e le rappresentazioni dramma-*  tiche. Ma nel dialogo principalmente s' imita il ^ragionamento il qual  non ha bisogno di palco: e quantunque vi fosse recitato qualche dia-  logo di Platone, l'usanza fu ritrovata dopo lui senza necessità. Perchè  se in alcuni luoghi l'elocuzione pare accomodata all'istrione, come nell'Eri-  demo, può leggersi dallo scrittore medesimo, ed aiutarsi colla pronuncia.  Né egli conviene ancora il verso, come hanno detto, mala prosa ; perciocché  la prosa è parlar conveniente allo speculativo e all' uomo civile, il qual ragioni degli uffici e delle virtù. E i sillogismi, e l'induzioni, e gli entimemi  e gli esempi non potrebbono esser convenevolmente fatti in versi. E se  leggiamo alcun dialogo in versi, come è l'amicizia bandita di Ciro  predentissimo, non stimeremo lodevole per questa cagione, ma per al*  tra: e diremo, che il dialogo- sia imitazione di ragionamento scritto in  prosa senza rappresentazione per giovamento degli uomini civili e spe-  culativi : e ne porremo due specie, 1' una contemplativa, e Y altra co-  stumata : e 1 soggetto nella prima specie sarà la quistione infinita o  la finita : e quale è la invola nel poema, tale è nel dialogo la qui-  stione : e dico la sua forma, e quasi Y anima. Però se una è la  favola, uno dovrebbe essere il soggetto, del quale si propongono i  problemi. E nel dialogo sono oltre di ciò T altre parti, cioè la  sentenza^ e '1 costume ,* e Y elocuzione ; ma trattiamo prima della  prima. Dico adunque, che la quistione si forma della dimanda e  della risposta; e perchè 1 dimandare s'appartiene particolarmente al  dialettico, par, che lo scrivere il dialogo sia impresa di lui : ma '1 dia-  lettico non dee richieder più cose d' uno, oppur una cosa di molti ;  perchè se altri rispondesse non sarebbe una V affermitene o la ne-  gazione: e non chiamo una cosa quella, ch'ha un nome solo se  non si fa una cosa di quelle: come l'uomo è animai con dne  piedi e mansueto : ma di tutte questo si fa una sola cosa ; ma dell' esser bianco e dell'essere uomo e del camminare, come dice Ari-  stotile, non se ne fa uno; però s' alcuno affermasse qualche cosa,  non sarebbe, una affermazione ; ma una voce, e molte l' affermazio-  ni. Se dunque l'interrogazione dialettica ò una dimanda della ri-  sposta, ovvero della proposizione, ovvero dell'altra parto della con-  tradizione: e la proposizione è una parte della contradizione , a que-  ste cose non sarà una risposta, né una dimanda. Ma se al dimostrativo  non s' appartiene il dimandare, a lui non converrà di scriver dialo-  go. E par, che Aristotile assai chiaramente faccia questa differenza  nel primo delle prime risoluzioni fra la proposizkm dimostrativa e la  dialettica, dicendo, che la dimostrativa prende l'altra parte della  contradizione; perciocché 'colui, il qual dimostra, non dimanda, ma  piglia ; ma la dialettica è dimanda della contradlzione. Nondimeno  nel primo delle posteriori egli dice, che s' è il medesimo l' interro-  gazione sillogistica e la proposizione : e le proposizioni si fanno in cia-  scuna scienza, ancora si posson fare le dimando. Laonde io raccolgo,  che si posson fare i dialoghi nell'aritmetica, nella geometria, nella  musica e nell' astronomia e nella morale e nella naturale e netta  divina filosofia, e in tutte F arti e in tutte le scienze si posson fu  le richieste e conseguentemente i dialoghi. E se oggi fossero in looe dell'arte del dialogo i dialoghi scritti da Aristotile, non ce ne sarebbe perawentura dubbio  alcuno. Ma leggendo quei di Platone, i quali son pieni di proposizioni appartenenti a tutte le scienze, potremo chiaramente conoscere  lMstcsso. Nondimeno siccome il dimandare è proprio al dialettico, così a lui si conviene il dialogo più; che a tutti gl’altri. Laonde  Aristotele nel capitolo seguente pare, che faccia differenza fra le matematiche e ì dialoghi, dicendo, che se fosse impossibile mostrar dal  falso il vero,  sarebbe facile il risolvere, perchè, si convertirebbono  di necessità. Ma si convertono più quelle, che son nelle matematiche, perchè non ricevono alcuno accidente, e in ciò son differenti  da quelle, che son ne’ dialoghi. E dialoghi chiama i parlari dialettici, i quali son composti della dimanda e della risposta. Al dialetttico dunque converrà principalmente di scrivere il dialogo, o a colui, che vuol rassomigliarsi. E'1 dialogo sarà imitazione d' una disputa dialettica. Va perchè quattro sono i generi delle dispute, il  dottrinale, il dialettico, il tentativo e il contenzioso, l'altre dispute  ancora si possono imitare ne' dialoghi. E forse in quelli d'Aristotele  sono tutte IV. Ma in quelli di Platone si troverebbono similmente, perchè Socrate per via d' ammaestramento e d'esortazione  parla con Alcibiade, con Fedro e con Fedone, e come dialettico  disputa con Zenone, e con Parmenide;. e come tale riprova Ippia,  GORGIA, Trasimaco e gli altri sofisti e talora gli tenta. Ma i sofisti  son contenutosi, e vaghi di gloria, come appare nell' Eutiemo, detto  altramente il Litigioso. Nondimeno questi IV generi non sono così partitamente distinti dagl’interpreti di Platone i quali pongono  tre mdftUre di dialoghi; l'una, nella quale Socrate esorta i giovanetti; nell’altra riprova i sofisti; la terza è mescolata dell' una e  dell' altra, la qual senza dubbio è più soave per la mescolanza. Ma  chi volesse scriver dialoghi secondo la dottrina ó? Aristotele e arricchir di questo ornamento le scuole peripatetiche, potrebbe scriverli  in tutte IV le maniere. Ma principalmente son lodevoli le due  prime: la dottrinale e la dialettica, l'artificio della quale consiste  principalmente nella dimanda usata con mollo artificio di Socrate  ne’ libri di Platone, come appare nel primo dialogo nel quale Socrate  richiede ad Ipparco quel, che sia la cupidigia del guadagno; e in tutti  gli altri simiglianlt, non eccettuando quelli, ne’ quali sotto la persona di forestiero ateniese dà le nuove leggi d’una città: e 'n quelli  di Senofonte ancora con arte molto simile Socrate chiede a Critobulo  se l'economia è nome di scienza, come la medicina e l'architettura.  E nel Tirreno Simonide a Jerone, che differenza aia fra la vita reale e la privata: e dalla risposta, eh' è fatta, prendono occasione d'insegnare. Ma da questo artificio si dipartì M. Tullio, Il quale nelle  partizioni oratorie pone la dimanda in bocca, non di quel, eh' insegna,  ma di colui, ch'impara. Ed. egli medesimo ci dimostra la diversità  fra i ROMANI in quelle parole di CICERONE: figlinolo, tuo)  dunque eh' io ti dimandi scambievolmente IN LINGUA LATINA di quelle  cose medesime, delle quali tu mi suoli addomandare nella Greca ordinatamente? Laonde pare, che la dimanda, fatta dal discepolo, 6ia  derivata da CICERONE, e l' artificio sia proprio de’ROMANI, il quale  s’usò dal Possevino e da altri nella dottrina peripatetica, perchè forse  è più facile. Ma è non così lodevole, né fu, eh' io mi ricordi, usata dagl’antichi. E per questa ragione M. Tullio nelle Quistioni Tuscalane più s' avvicina all' arte de’ Greci ; perciocch' egli comandava,  che alcun de' suoi famigliari ponesse quello, che gli pareva, ed egli  contraddiceva alla conclusione in questo modo. Auditore. La morte  mi pare esser male. M. A quelli che son morti o a quelli eh' han da  morire P La quale è vecchia e Socratica ragione di disputar contra  l' altrui opinione. Tuttavolta il por la conclusione ha dello scolastico: e però dice d'aver poste ne' V libri le scuole de' V giorni. Tanto potè l' amor della filosofia in un vecchio senator romano, padre della patria, il qual quistiona secondo il costume de' Greci  forse per ingannar se stesso in questo modo e consolarsi nella servitù. Ma non si dimenticò ne’ libri dell' oratore di quel, eh' era convenevole a' romani Senatori; laonde CRASSO e MARC’ANTONIO in altra maniera  introduce a favellare. Ma fra tutti i dialoghi Greci, lodevorrssimi sono  que' di Platone; perciocché superano gl’altri d'arte, di SOTTILITÀ, d'acume,  e d'eleganza e di varietà di concetti e d'ornamento di parole. E pel secando luogo son quei di Senofonte; e quei di LUCIANO nel terso. Ma CICERONE è  primo fra' LATINI, il quale volle forse assomigliarsi a Platone: nondimeno nelle quistioni, e nelle dispute alcuna volta è più simile agli oratori, che a' dialettici. Ma nel secondo luogo non so che se gli avvicini, o chi possa paragonare a' Greci. E NELLA NOSTRA LINGUA coloro, che  hanno scritto dialoghi, per la maggior parte hanno seguita la maniera meno artificiosa, nella quale dimanda quegli, che vuole imparare, non quel, che riprova. E se alcuno s'è dipartito da questo modo  di scrivere, merita lode maggiore: e tanto basti della prima parie, che è la quistione. Ma perchè il dialogo è imitazione del ragionamento, e il dialogo dialettico imitazione della disputa, è necessario, che i ragionanti e i disputanti abbiano qualche opinione delle cose disputate, e qualche costume, il qual si manifesta  alcuna volta nel disputare. Da quelli derivano l'altre due parti nel  dialogo, io dico la sentenza, e il costume: e lo scrittore del dialogo  deve imitarlo non altramente, che faccia il poeta ; perchè egli è quasi  mezzo fra il poeta e ri dialettico. E niun meglio l'imita, e meglio  l'espresse di Platone, che, descrive nella persona di Socrate il costume d'un uomo dabbene, che ammaestra la gioventù, e risveglia gli  ingegni taidl e raffrena i precipitosi, e richiama gli erranti, e riprova  la falsità de' sofisti, e confonde l'insolenza e la vanità, amator del  giusto e del vero, magnanimo, non che. mansueto nel tollerar l'ingiurie, intrepido nella guerra, costante nella morte. Ma in quella d'Ippia, e di GORGIA DI LEONZIO, e d'Eutidemo, e degl’altri sì fatti si descrivono gl’avari, e ambiziosi, e amatori di gloria, i quali non hanno vera scienza  d'alcuna cosa, ma parlano per opinione. In quella di Menoue e di  Grifone descrive il buon padre e il buon amico, e in quella d'Alcibiade, di Fedro, e di Carmide i costumi de' nobili son descritti maravigliosamente. Oltra queste parti del dialogo ci sono le digressioni, come nel poema gli episodj : e tale è quella d' Eaco, e di  Minos, e di Radamanto nel GORGIA, e quella di Teutdemone degl’Egizi nel Fedro, d'Ero Panfilio ne' dialoghi della Repubblica. Ma perchè abbastanza s'è ragionato del soggetto del dialogo, e della sentenza,  e de' costumi di coloro, che sono introdotti a favellare; resta, che  parliamo dell'ultima parte, la quale è l'elocuzione: e se crediamo  ad Artemone, che ricopiò l'epistole d'Aristotele, bisogna scriver col  medesimo stilo il dialogo e l'epìstola, perchè il dialogo è quasi una  sua parte. Ma Demetrio Falereo dice, che il dialogo è imitazione del  ragionare all'improvviso. Ma l'epistola si scrive, e si manda in dono  in qualche modo. Però dee esser fatta e polita con maggiore studio. Tultavolta nò Platone, ne M. Tullio pare, che sempre avessero questa considerazione. Perchè ne' dialoghi l'elocuzione dell'uno e dell'altro non è meno ornata, che quella dell'epistole: e in tutti gli altr’ornamenti i dialoghi paiono superiori. E ciò non par fatto senza molta  ragione. Conciossiacosaché i dialoghi di Platone e di M. Tullio sono imitazione de' migliori, e nell'imitazioni sì fatte, le persone e le cose imitate debbono piuttosto accrescere che diminuire, come ci insegna Demetrio medesimo, il qual vuole, che la magnificenza sia nelle cose, se  il parlare è del cielo o della terra. Oltre di ciò laddov/egli parla od  periodo ne fa tre generi : il primo isterico, il secondo dialogico» il teno oratorio: e vuole, che ristorico sia nel meno dell'uno e dell'altro,  non molto ritondo, né molto rimesso: ma la forma dell'oratorio sia  contorta e circolare: e quella del dialogico più semplice dell'istoria)  in guisa che appena dimostri d' esser periodo. I quali ammaestramenti  sono stati meglio osservati da' Greci, che, da M. Tullio, che imitò Platone solamente; perchè egli così nel periodo, come in tiascun'-altra  parte, ricercò la grandezza più dr Senofonte e degli altri. Laonde usa  le metafore pericolosamente in luogo delle Immagini, che sono osate da  Senofonte: e somiglia colui, 11 quale cammina in luogo, dove è peri-  colo di Bdrucciolare, compiacendo a se medesimo, e avendo molto ar-  dire, siccome è proprio delle nature sublimi ; talché fu detto di lai,  ch'egli molto s'innalzava sovra il parlar pedestre: e che il suo par-  lare non era in tutto, simile al verso, né in tutto simile alla prosa : e  ch'egli usava l'ingegno non altramente, che i re facciano la podestà:  e insomma niun ornamento di parole, niun color rettorico, ninn lume  d'orazione par, che sia rifiutato da Platone. Ma s’in alcuna parte del  dialogo dobbiamo aver risguardo agli avvertimenti di Demetrio, è in  quella, nella qual si disputa , perchè in lei si conviene la purità, e la  simplicità dell'elocuzione, e '1 soverchio ornamento par che impedisca  gli argomenti, e che rintuzzi, per così dire, l'acume, e la sottilità. Ma l' altre parti debbono essere ornate con maggior diligenza : e dovendo  lo scrittore del dialogo assomigliare i poeti nell'espressione, e nel per  le cose innanzi agli occhi, Platone meglio di ciascuno ce le fa quasi  vedere, il qual nel Protagora parlando d'Ippocrate, che s' era arrossito,  essendo ancora di notte, soggiunge: Già appariva la luce, onde il color  pareva esser veduto e la chiarezza, die evidenza è chiamata dai La-  tini, nasce dalla cura usata nel parlare, essersi ricordato, che Ippo-  crate era da lui veduto di notte. E nel medesimo dialogo leggiamo  con maraviglioso diletto, che l'eunuco portinaio, perchè i sofisti gli erano  venuti a noia, serra con ambe le mani la porta a Socrate e al com-  pagno : e appena l' apre, udendo, che non erano di loro. E ci piace il  passeggiar di Protagora e degli altri, che passeggiando con tanto or-  dine ascoltavano il ragionare : e ci par vedere lppia seder nel trono, e  Prodico giacere avviluppato. E con piacer incredibile leggiamo simil-  mente che due giovanetti appoggiati sovra il gomito descrivessero ccr-3!i, e altre inclinazioni della sfera : e che Socrate pur col gomito, di-  mandasse, di chi ragionavano. Né con minor espressione ci pone in-  nanzi agli occhi Garmide e gli amici : e quasi veggiamo gli estremi,  che sedevano da questa parte e da quella, l'uno cadere e l'altro es-  ser costretto a levarsi. Ma sopra tutte le cose c'empie di compassione  e di maraviglia il venir di Garmide alla prigione innanzi al giorno, e  l'aspettar, che si destasse Socrate, condannato alla morte: e poi, che  il medesimo raccolga la gamba, la quale era stata legata, e grattandosi discorra del dolore e del piacere, l'estremità de' quali son con-  giunte insieme : e distendendosi, e postosi a sedere sovra la lettiera dia  principio a maggiore e più alta contemplazione. E nel medesimo dialogo  tempera il dolore, quando scherza colle belle chiome di Fedone, le quali  dovevano il giorno tagliarsi : e nella descrizione parimente è maravi-  glioso. E se leggiamo i ragionamenti di Socrate sotto il platano, e quelli  del forestiero ateniese all'ombra degli alberi frondosi, mentre col La-  cedemonio e col Gandiano vanno all'antro di Giove, ci par di vedere,  e ascoltare quello, che leggiamo. Queste son le perfezioni di Platone,  veramente maravigliose: le quali, sebben saranno considerate, non ci  rimarrà dubbio alcuno, che lo scrittore del dialogo non sia imitatore,  o quasi mezzo fra il poeta e il dialettico. Àbbiam dunque, che IL DIALOGO sia imitazione di ragionamento , fatto in prosa per giovamento de-  gli uomini civili e speculativi, per la qual cagione egli non ha bisogno  di scena o di palco : e che due sian le specie, l' una nel soggetto della  quale sono i problemi, che risguardano l'elezione e la fuga: l'altra  speculativa, la qual prende per subietto quistione, jche appartiene alla  verità e alla scienza; e nell'una e nell'altra non imita splamente la  disputa, ma il costume di coloro, che disputano, con elocuzioni in alcune parti piene di ornamento, in altre di purità, come par, che si convenga alla materia. Tasso. Tasso. Cornello. Keywords: l’arte del dialogo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tasso”, “Grice e Cornello” – The Swimming-Pool Library. Cornelio.

 

Grice e Cornificio: la vera etimologia -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Autore di un’opera etimologica in tre libri, composta fra il tempo di Cicerone e Ottaviano. Das Werk des C. Longus de etymis deorum. a) Prise. GLK, C. in 1 de etymis deorum. Macr. C. etymorum libro tertio. Cornificius in etymis: vgl. noch wo Anschlufs an die stoische Philosophie (vgl. W. A. Baehrens, Hermes; K. Reinhardt, Kosmos und Sympathie, München); Arnob., Festus, M. bemerkt bezüglich der Etymologie von Minerva: C. vero, quod fingatur pingaturque minitans armis, eandem dictam putat. (nare); (nuptiae); (oscillare); (Rediculus; s. Ed. Meyer, Herm.  (lalassus). Der bloße Name Cornificius ohne Glosse erscheint. Das diese Glossen aus dem Werk „de etymis deorum" geflossen sind, vermuten R. Merkel.  Ovids Fasten, Berlin.; Th. Bergk, Kl. phil. Schr. Willers, De Verrio Flacco glossarum interprete disput. crit., Halle. C. hat dann auch andere als Götteretymologien behandelt, vermutlich wenn er von Kultusgebräuchen und Kultus-einrichtungen sprach. Wahrscheinlich dürfen wir den gleichen Schriftsteller finden auch in dem C. Longus bei Serv. Aen., wo es sich ebenfalls um Etymologien handelt: invenitur tamen apud C. Longum lapydem et Icadium profectos a Creta in diversas regiones venisse, lapydem ad Italiam, Icadium vero duce delphino ad montem Parnasum et a duce Delphos cognominasse et in memoriam gentis, ex qua profectus erat, subiacentes campos Crisaeos vel Cretaeos appellasse et aras constituisse.  Dieser kann dann aber nicht  identisch sein mit dem Dichter und Feldherrn C.  (Bergk.), der nie den Beinamen Longus trug, den außerdem die Zeitverhältnisse unmöglich machen. Denn der Verfasser der etymo'ogischen Schrift zitiert nach Macr.das Werk Ciceros de natura deorum, das im J. 44 erschien, so das sie in den folgenden drei Jahren von dem stark beschäftigten Statthalter Afrikas hätte geschrieben sein müssen. Benutzt hat dann Verrius die Abhandlung 'de etymis deorum'. — J. Becker, C.Longus und C. Gallus, Ztschr. für die Altertumsw. Wissowa, Realenz.; Funaioli 473. A stoic wrote a book on etymology. Cornificio Lungo. Cornificio.

 

Grice e Cornuto: Roma antica -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). A slave in Rome, he became one of the city’s leading intellectuals. A member of the porch. The name Anneo points to a connection of some kind with the family of Seneca. He taught rhetoric and philosophy, his pupils including Agathino, Petronio Aristocrate, Lucano, and Persio. In his will, Persio left C. his books, which he accepted, and his money, which he rejected. He was sent into exile by Nerone. He wrote an influential commentary on Aristotle’s Categories. He argues that the categories reflect divisions within language, rather than within reality. In a different essay, the Epidrome, he surveys the myths and by means of linguistic analysis and allegorical interpretation he seeks to extract what he considers to be their true meaning. Lucio Anneo Cornuto Cornuto. Cornuto.

 

Grice e Corrado: la dieta di Crotone e la semiotica magica– filosofia italiana – Luigi Speranza (Oria). Filosofo italiano. Grice: “I like Corrado; of course we have the beefsteak, the English do; but Corrado philosophised on the near ‘cibo pitagorico’ a Crotone and produced a philosophical cookbook for the noblemen!” --  Uomo di grande cultura, fu soprattutto grande gastronomo e uno dei maggiori cuochi che si distinsero tra il '700 e l'800 nelle corti nobiliari di Napoli, simbolo del suo tempo nella variegata realtà partenopea. E il primo cuoco che mette per iscritto la "cucina mediterranea", il primo, a valorizzare la grande cucina regionale italiana.  Scrisse “Il cuoco galante”, definito all'epoca un libro di alta cucina, testo richiesto in tutto il mondo dalle principali autorità dell'epoca, e ristampato per ordini del principe per ben 6 volte.  Preparava elegantissimi banchetti in principio alla corte di Don Michele Imperiali Principe di Francavilla presso il palazzo Cellamare di Napoli, dove coordinava un piccolo esercito di maggiordomi, domestici, volanti e paggi e preparava i pranzi o le cene con particolare assortimento di vivande accoppiandole con tanta fantasia e particolari accorgimenti architettonici ed artistici al fine di formare una coreografia sontuosa e raffinata.  Figlio di Domenico e di Maddalena Carbone. Rimasto orfano per la morte del padre, ancora adolescente, divenne paggio alla corte di Michele Imperiali che era Principe di Modena e Francavilla Fontana, Marchese di Oria e Gentiluomo di camera di S.M. il Re delle due Sicilie, che lo condusse a Napoli dove risedette per diversi anni. Appena maggiorenne, entrò a far parte della Congregazione dei Padri Celestini nel convento di Oria.  Dopo l'anno di noviziato, fu chiamato dal Superiore Generale De Leo nella residenza napoletana di San Piero in Maiella, dove si specializzò negli studi di filosofia. Dallo stesso padre generale fu avviato, anche, allo studio delle scienze naturali e dell'arte culinaria, per la quale divenne famoso. Non diventò mai sacerdote per cui, dopo la soppressione degli ordini religiosi si stabilì a Napoli, ove risedette per oltre cinquant'anni, insegnando la lingua francese ai figli delle famiglie aristocratiche della città, pubblicando contemporaneamente molte sue opere che gli diedero successo e notorietà. Per i molti impegni che ebbe a Napoli, non tornò più ad Oria, anche se non mancarono momenti di nostalgia per la lontananza dalla sua famiglia e dalla sua città natale.  Il Principe di Francavilla gli attribuì la mansione di Capo dei Servizi di Bocca -- antica mansione con cui veniva chiamato colui che era preposto a sovrintendere alla cucina, alla preparazione delle vivande e all'organizzazione dei banchett --  di Palazzo Cellamare, sito sulla collina delle Mortelle prospiciente il golfo di Napoli e della famiglia del Principe, poiché molti illustri personaggi di un certo livello e rango, che venivano a Napoli, invitati a mensa poterono constatare la fama di questa opulenta ospitalità più spagnolesca e tipicamente partenopea che era in uso al tempo.  Parlando del suo lavoro Vincenzo Corrado così si esprimeva:  «L'abbondanza, la varietà, la delicatezza delle vivande, la splendidezza e la sontuosiotà delle tavole richiedevano una schiera di uomini d'arte, saggi e probi. Questa mastodontica organizzazione, era guidata proprio da lui. Alle sue dipendenze lavoravano un maestro di casa, un maestro di cucina ed un maestro di scalco che aveva il compito di acquistare, di cucinare, di dissodare e di trinciare ogni tipo di animale, mentre una schiera di cuochi, rispettando la gerarchia allora in uso, lavorava secondo la propria specializzazione (oggi le grandi cucine dei Ristoranti hanno i cuochi di rango): vi era il cuoco friggitorie, quello per le insalate, il pasticciere, il bottigliere e il ripostiere. Tutti questi erano aiutati da una serie di sguatteri e di serventi che avevano il compito di girare intorno al tavolo per esibire lo spettacolo fantasioso delle portate prima ancora di servirle. Tutta questa organizzazione era coadiuvata da un piccolo esercito di maggiordomi, domestici, volanti e paggi che interveniva non appena il servizio di cucina consegnava le varie portate artisticamente decorate. Vincenzo Corrado, a seconda degli ospiti del Principe preparava i pranzi o le cene con particolare assortimento di vivande accoppiandole con tanta fantasia e particolari accorgimenti architettonici ed artistici al fine di formare una coreografia sontuosa e raffinata. Egli stesso ci descrive queste splendide composizioni con pregevole gusto e raffinatezza, lasciando, anche, delle visioni grafiche. Gli elementi decorativi della tavola erano affidati al maestro ripostiere che usava gusto artistico e genialità: grandi vasi in porcellana ricolmi di fiori variopinti, alzate di cristallo e argento a tre o quattro piani colmi di dessert o frutta o fiori o ortaggi, bianchi gruppi di porcellana raffiguranti scene arcadiche o bucoliche; puttini d'argento; gabbiette dorate con piccoli uccellini cinguettanti; coppe di cristallo di varie fogge in cui guizzavano pesciolini tra foglie di rose ed altri fiori. Il centro veniva racchiuso da una cornice di frutta, di fiori freschi e di ortaggi, secondo la stagione variante, disposti, intervallati da piccole spalliere di agrumi in porcellana con ortolani nell'atto di raccoglierli. La composizione era la sintesi di un artista di provata esperienza, di raffinata fantasia e di vivace estro, capace di accoppiare tanti svariati elementi fondendoli insieme a formare uno spettacolo di gran gusto e di particolare gradevolezza. Il valore del tavolo di gala completato dal vasellame, cristalleria e argenteria di grande pregio era inestimabile. Questo senso artistico, anche, nell'arte culinaria C. lo aveva ereditato da un suo antenato letterato di mestiere. Ma per quanto dotato di una cultura autodidatta, di vivacità d'ingegno, di originalità e di una particolare facilità nell'insegnamento, se non avesse avuto la fortuna di conoscere Don Michele Imperiali, che ne coltivò le particolari doti incoraggiandolo a scrivere della sua specifica arte per tramandarla ai posteri, probabilmente sarebbe rimasto un ottimo organizzatore, un appassionato gastronomo, ma la sua fama si sarebbe estinta con lui.  Le opere “Il cuoco galante’. Il primo libro vegetariano della nostra storia. il credenziere: colui che si prendeva cura della credenza. L'opera fu sottoposta a ben 7 ristampe. Prodotta in 7500 copie, Dalla dedica si ricava il leitmotiv dello scritto nonché la filosofia in cui credeva l'autore, che è di questo tenore: il “buon gusto nella tavola” inteso come “sano pensare”. Di questo trattato di gastronomia, il successo fu istantaneo e inaspettato, in quanto la precedente opera gastronomica, La lucerna dei cortigiani, stampata presso Napoli e dedicata a Ferdinando II duca di Toscana, non era riuscita ad attirare l'interesse del pubblico che la trascurò ignorandola.  Invece grande successo ottenne la prima edizione del "Cuoco Galante" che si esaurì rapidamente, tanto che il Principe ne ordinò una seconda edizione che ebbe eguale successo. Intanto Vincenzo Corrado migliorò e ampliò il testo di questa opera e ne preparò una terza edizione.  La fama del libro superò i confini del Regno di Napoli e dell'Italia; infatti dall'estero giunsero richieste da tutti quegli stranieri che avevano conosciuto ed apprezzato il Corrado alla corte degli Imperiali, per cui si pervenne ad una quarta edizione, seguita dalla quinta e infine la sesta pubblicata. Assolute novità introdotte dall'autore erano allora la patata, il pomodoro, il caffè e la cioccolata.  Altre saggi: Incoraggiato dal successo del Cuoco Galante, il Principe spinse l'autore a pubblicare nel un Credenziere del buon gusto, del bello, del soave e del dilettevole per soddisfare gli uomini di sapere e di gusto. Egli scrive e pubblica inoltre “Il cibo Pitagorico”, “Trattato sulle patate”, “Manovre del cioccolato” e “Manovra del caffè”; “Trattato sull'agricoltura e la pastorizia ed infine, “Poesie baccanali per commensali”. -- è il faro della cucina moderna della nobiltà a cavallo del periodo della rivoluzione francese. Egli privilegia i personaggi di rango in visita alla mensa del principe con opulenta ospitalità. Orbene in questo contesto di sfarzo godereccio, di lusso e di differenze sociali abissali, rimase fin abbagliato dalla nobiltà, la gente ricca e potente, verso la quale nutre sempre sentimenti di grande reverenza se non addirittura di venerazione. Proprio per riconoscenza al Principe, dando alle stampe i suoi due libri, confessa. “Questi due libri che del buon gusto trattano, con la guida e norma scrissi, e pur mercé la tua generosità mandai alle stampe, e tu di propria mano ne *segnasti* il titolo “Il Cuoco Galante” -- l'uno e “Il credenziere del buon gusto” l'altro, tutti e due a te li porgo come frutto di un albero dalla mano piantato. Mio Scopo egli è di richiamare alla memoria dei nobili uomini dei quali tu fosti la gloria l'ornamento alla memoria e la lode. Ah? Ma qual Tu fosti non basterebbe di dire di cento e mille lingue, per cui io stimo meglio il tacere e con il silenzio benedire gli anni che ti fu appresso.  L'organizzazione dei magnifici banchetti e delle cene lussuose gli diedero l'appellativo di “il cuoco galante”. La cosa straordinaria è che dietro gli scenari di un favoloso pranzo o cena vi era una preparazione, quasi orchestrale della quale il direttore era il filosofo. Alle sue dipendenze vi era una vera e propria squadra di addetti alle cucine formata da precettori cuochi e servienti. La presentazione estetica, oltre al gusto, acquista la sua importanza in cucina, ed dedica grande spazio alle decorazioni e al modo di imbandire le tavole dei banchetti. Nell'opera sono anche presentati i sorbetti, in vari gusti, ed il caffè, che, a differenza dall'attuale espresso, veniva bollito in apposite caffettiere.  Precettori un precettore di alloggio e sistemazione posti per gli invitati, un precettore di preparazione dei cibi, un precettore abile con utensili domestici, che aveva la mansione di far provviste e comperare il necessario al mercato per le mense, di dissodare e di affettare ogni tipo di carne o pesce. Chef e Cuochi “Il cuoco friggitore”, il cuoco per le insalate, il pasticciere, il bottigliere, il ripostiere. Serventi lavapiatti, camerieri, maggiordomi, domestici, volteggianti e giullari che intervenivano non appena il servizio di cucina consegnava le varie portate artisticamente decorate.  Non era solo una semplice cena, era un vero e proprio spettacolo, fuori dall'immaginato. A volte comprendeva l'utilizzo di 100 persone per altrettanti o più invitati.  I banchetti o le cene con caratteristiche e assortimenti di piatti erano accoppiate con tanta inventiva e particolari astuzie architettoniche ed eleganti al fine di plasmare una scenografia sfarzosa e affinata.  Egli stesso nelle sue opere e nei suoi diari ci descrive queste splendide composizioni culinarie come opere d'arte, quasi uno spreco consumarle. Bicchieri e coppe di cristallo, posate in argento intagliate, tovaglie di pizzo fiorentino, buche e composizioni floreali, piatti in porcellana di Capodimonte. Termini culinari "Il Cuoco Galante", proprio nella terza edizione, alfine di una maggiore comprensione, spiega alcuni termini "cucinarj" usati per la preparazione delle varie pietanze, ne riportiamo un esempio:  Bianchire: Far per poco bollire in acqua quel che si vuole; Passare: Far soffriggere cosa in qualsiasi grasso; Barda: Fetta di lardo; Inviluppare: Involgere cosa in quel che si dirà; Arrossare: Ungere con uova sbattute cosa; Stagionare: Far ben soffrigere le carni o altro; Piccare: Trapassar esteriormente con fini lardelli carne; Farsa: Pastume di carne, uova, grasso ecc.; Farcire: Riempire cosa con la sarsa; Adobare: Condire con sughi acidi, erbette, ed aromi; Bucché: Mazzetto d'erbe aromatiche che si fa bollire nelle vivande; Salza: Brodo alterato con aromi, con erbe, o con sughi acidi; Colì: Denso brodo estratto dalla sostanza delle carni; Purè: Condimento che si estrae dai legumi, o d'altro; Sapore: La polpa della frutta condita, e ridotta in un denso liquido; Entrées: Vivande di primo servizio; Hors-dœuvres: Vivande di tramezzo a quelle di primo servizio; Entremets: Vivande di secondo servizio; Rilevé: Vivande di muta alle zuppe, potaggi, o d'altro.  Pitagora nell’atto, che dalla cattedra nella nostra italica scuola dettava sistemi, che riguardavano quanto mai fosse fuori di esso lui, e di noi per pascere l’animo e l'intelletto, non trascure di sistemare peranche ciò che meglio, e piu opportunamente al nutrimento ed alla conservazione del meccanico nostro vivere conducesse. E però dettando il canone o la legge, come dir si voglia, per la cucina delli suoi mentati, non di *carni* di animali ei ditte quadrupedi, o volatili, o di pelei imbandite vengano le mente di quanti han voglia di più lungamente, e più lanamente vivere, ma soltanto di vegetabili erbe, di radici, di foglie, di fiori. Ebbe cotesso filosofante la somma disgrazia di non essere da ogni filosofo inteso, come sovente la savia donna stobeo sua moglie e espose li g luf'J\ l&- r menti: e com’egli la tras-migrazione dell’anime avesse ingegnata, così dalli silenziari scolari suoi, e da parecchi altri prevenuti da quel di lui fatto sistema si divieta del cibo animalesco, e la preferizione del solo cibo erbaceo furon pref nel sinistro senso di una supertiziosa venerazione, cK egli aveffe per l’animale, nella macchina del quale l’anima dell’uomo dopo la morte fojfcro tras-migrate. Ma ’ che chefané di ciò, egli è indubitata cosa, che il cibo erbaceo fallo più confacenti all’verno, per cui vedef la più parte dei Naturalifi a quella opinione indicimata, che l'uomo naturalmente non è carnivoro. E se noi ponghiamo mente al parlare dell’antica filosofia, rilevaremo con tutta chiarezza che le frutta della terra defluiate vennero al nutrimento dell'uomo, e che sopra del pesce, dell’animale terrestre, e del volatile n eh he lo fie[fio uomo soltanto il domini; Jlcchè l efifierfii poi dati alcuni uomini ad alimentarsi di animali j'offe fiata una necessità di alcuni luoghi, oppure un lusso! Non senza ragione quindi la italiana gente, ansi avvedutamente oggi più che in altro tempo la legge pitagorica ha ripigliata ad oficrvare con tutto impegno nella cucina del filosofo galante, e nelle mensa: e le nazioni anche più culte, che da Italia sono lontane, han preso il gufo di dare al corpo nutrimento più sano, gusiosso, e facile per mezzo dell’erba. Ed ecco perciò tutta la scuola cucinaria pofia in movimento per inventar un nuovo modo a poter preparare e condire l’erba per mezzo di altri fingili vegetabili, onde non solamente grato al palato si renda il semplice pitagorico cibo, ma eziandio pofia sioddisfarsii al lusso nell' imbandire laute Menfie da filmili siempìicità compofie. E quesio è il fine della mia filosofia, difiefio, ed a comune uso e utilità. Vero egli è, che non tutti li vegetabili dei quali ferie preferìve qui la preparazione filano li più perfetti, e giovevoli ai nutrimento nostro. Ma ciò ha dovuto farsi per accomodarsì af gufo comune, ed alla moda presiente della tavola fu,di che qualunque Aristarco non avrà che opporre. Nella mia filosofia volendosi imitare la filmile semplicittà della materia del soggetto, con sempiice e chiaro discorso si da la pratica come ogni erba italiana dando il suo proporzionato condimento con fughi di carne, con latte Animali, e di fórni, con butirro, con olio, con uova, e con altr’erbe odorifere e gusiofe debano preparar f. E intanto per a et tare, ad ogni articolo alcuna cosa verrà premefi, che rifguarda la natura, e le virtù del vegetabile di cui fe ne voglidn preparare la vivanda. E già qui fiegue in prima, la maniera di far i brodi, i  coli e le buri neceJTarj pel condimento: ed in secondo luogo h nòta del vegetabile del quale nella mia filosofia fe ne preferivo il modo di prepararli: avendo io in ciò fare procurato di mettere in J'alvo anche il Injjo nell' imbandire con simili generi una mensa di formalità e gala, e nel tempo Jìeffo di soddisfare il gusto delicato dei nobili, e di provvedere alla conservazione dell’utterato. INDICE: Velli Brodi, Coli, e Purè p. I Velli Coli a Velie Purè i tutta la c minarla prepa- ragione de’ vegetabili, Lattuca, Spinaci, Cavolo Cappuccio, Selleri, Zucca, Zucca lunga ia Delle Zucche Vernine ivi Cavai fiore Finocchi Iudivia Cardoni Cavoli Torgi Carciofi Broccoli Boraggine Senape Cipolle ivi Rape Ravanelli CicoriaPetronciane Pafiinacbe Pomidoro Cedriuoli Peparoli Pifelli Sparaci Raperortzpli Velli Ceci Fave Faggioli 3^ De//** I-enfe 39 Funghi Tartufi Erba per condiment, Maggiorana, Targone, Pimpinella, Santa Maria Crefcione Origano Timo Acetofa Salvia Menta Cerfoglio Porcellana Bafiltco Ruta Sambuco Rosmarino Tralci Vite Zafferano Anafi Cappari Scalogne Dettagli Rafano o Ramolaccio Bettonica Idea dell'ufo delle frutta ivi. Grice: “My favourite chapter from ‘Il cuoco galante’ is the philosophical one, on Pythagoras! I vitto pitagorico consiste l’erba fresca, la radice, il fiore, la frutta, il seme, e tutto cid che dalla terra produce per nostro nutrimento. Vien detto pittagorico poiche Pitagora, com’ è tradizione, di questi prodotti della terra soltanto fece uso. Pitagora mangia l’erba semplice e naturale, ma gli uomini de’ nostri di li vogliono conditi, e manovrari; ed io nel voler conversare con distinzione dell’erba procuro eseguire l’uno, e soddisfare l’altro, con escludere le carni, e di servirmi del condimento, anche pitagorico, com'è il ſugo di carne, il lasase, le uova, l’olio, ed il burirro per compiacere qualche particolar palato, servirmi pure delle parti più delicate degli animali.  Molte fonti filosofica suggeriscono l'idea di un'origine mitica comune per la semiotica e la filosofia: entram­be le pratiche, infatti, figurano come doni di Apollo e sono a lui variamente collegate. Così, per esempio, Platone nel Simposio: "In verità, Apollo scoprì l'arte del tiro con l'arco e la medicina e la divinazione". È molto suggestivo, dal punto di vista semiotico, che le due pratiche primordiali che inaugurano un sapere basato sui segni, siano avvertite come originariamente collegate. E un effettivo stretto colle­gamento esse lo trovano nella figura antichissima dello ia­tromantis, il filosofo-cum-medico-indovino, che unisce in sé le facoltà di un veggente e la capacità di curare le malattie. L'appellati­vo del filosofo come iatromantis è riferito in prima istanza allo stesso dio Apollo; ma passa poi a una serie di filosofi in vario modo legati al dio, che uniscono al dono della mantica e della medicina, anche quello di effettuare delle purificazioni. Un elemento fondamentale che caratterizza la figura del­l filosofo iatromantis è la sua capacità di usare una procedura dia­gnostica: trattandosi di un veggente, egli è in grado di individuare la causa nascosta (il segnato) di una malattia (il segnante), causa che è da at­tribuirsi sempre a un intervento sopra-naturale. In epoca antichissima, la malattia è concepita infatti come miasma, come contaminazione, dovuta a un contatto con un'entità  divina o demonica. Si tratta di una concezione (vale la pena sottolineado) che affonda le radici in una religione italica pre-olimpica, animistica e demonica; cfr. Lanata; Detienne; Dodds; Lloyd; Parker. Un'ampia panoramica sul movimento magico e catartico era già stata fornita dagli studi del Rohde. Per questa ragione, c'è bisogno di un filosofo-cum-medico-indovino, in grado di leggere i segni che gli rendono accessibile il mondo delle forze oscure e sopra-naturali alle quali è imputato il presente stato di contaminazione; in se­guito alla sua diagnosi, il filosofo-cum-iatromantis [those spots mean measles,  black cloud means rain] può indicare gli stru­menti magici atti a purificare il miasma. Questa concezione è ben iliustrata da una notizia di un filosofo della scuola pitagorica a Crotona, Alessandro Poliistore, che cita le "Memorie pitagoriche"."L'aria, secondo i pitagorici, è piena di anime. Ed essi le conside­rano demoni ed eroi e pensano che siano essi a inviare agli uo­mini i sogni e i segni premonitori (semeia) e le malattie, e non solo agli uomini, ma anche alle greggi e agli altri animali da pa­scolo. E a questi demoni ed eroi sono dirette le cerimonie ca­tartiche e apo-tropaiche e tutta la mantica e i vaticini e tutto ciò che è di tal genere" (Diog. Laert., Vitae, D-K). Va notato, di sfug­gita, che il carattere italico molto arcaico della concezione espressa dal brano è garantito dal riferimento al bestiame coinvolto nelle stesse vicende della comunità umana. C'è la rappresentazione di una comunità agricola in cui uomini e bestie formano una unità inscindibile (Cfr. Deticnne (1963: 32). Sono presenti in questo passo tutti gli elementi di una semiologia SACRA e magica abbinata a una filosofia esoterica e medicina magica. I demoni sono la fonte delle malattie che affliggono gli uomini. Ma, contemporaneamente, sono anche la fonte dell'informazio­ne che concerne il mondo in-visibile o in-perceptibile, in-sensibile, inviando agli uomini i segni (compreso quel particolare tipo di segno che sono i so­gni) dai quali si rende riconoscibile l'origine della malattia. Del resto il circolo comunicativo si chiude attraverso gli speciali segni che gli uomini sono chiamati a produrre: i riti catartici e apo-tropaici. In particolare, le cerimonie apo-tro­paiche sono costituite dalla recita di epoidai, cioè di formu­le verbali incantatorie, ritenute idonee a scongiurare il ma­le. Si tratta di segni linguistici che da una parte chiudono il circuito comunicativo con il sopra-naturale, dall'altra sono efficaci, nel senso che intendono agire sul mondo e non rispecchiarlo.Grice: “Oddly, my mother was keen on Mrs. Beeton, I’m keen on Signore Corrado!”  La cucina e la credenza, ad esami parlando, son sorelle gemelle, poichè le due appartengono al buon gusto del cibo, e le due nacquero, cresceron, e s’ingrandirono nello stesso temp, e nella nostra Italia che in altri luoghi, sotto i fastosi e dominanti romani, e divennero tutte e due arti d’ingegno, di piacere, e di utile; ed il cuoco ed il credenziere debbono esser d'accordo nel loro, quantunque dissimile, lavoro. Della estesa ed elevata cucina se n’è discorso abbastanza. Dico abbastanza ma non già al fine; e compimento, poichè ciò accade quando non vi saranno più uomini al mondo. Ora vengo a trattare di quanto la credenza include, e di quanto un credenziere dee esser fornito. E se nel dar l’istruzione per la cucina pensai e scrissi da cuoco, ura collo stesso metodo filosofo da credenziere. Come tale intendo ragionare al dilettante. Procuro di aggiugnere quanto di bello, di buono, e di dilettevole mi ha potuto suggerire la fantasia. Gradisci dunque, o cortese mentato, questa mia fatica, e sappi, ch’io resto soprabondevolmente pagato col piacere di avervi servito. Vivi felice. Vincenzo Corrado. Corrado. Keywords: la dieta di Crotone, il cibo pitagorico, il concetto di conversazione galante, gala --.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Corrado” – The Swimming-Pool Library. Corrado.

 

Grice e Corsini: l’implicatura conversazionale della filosofia in roma antica -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Fellicarolo). Filosofo italiano. Grice: “I like Corsini; if we at Oxford had a sublime history as they do in Italy, we surely would be philosophising about it! Corsini taught philosophy at Pisa and spent most of his efforts in deciphering what the Romans felt interesting about Greek philosophy!” Grice: “Corsini also explored the roots of Roman philosophy from the earliest times – ab urbe condita,’ as the Italians put it!” Studia nel Collegio dei padri scolopi fananesi, dove in seguito entra quale novizio e  si trasferì nel Noviziato di Firenze.  Le sue capacità lo portarono a diventare docente di filosofia a soli vent'anni presso la stessa scuola. Si trasferì quindi a Pisa dove insegna. Eletto Superiore Generale e dovette trasferirsi a Roma.  I principali campi di studio ai quali si applica furono: la filosofia, la cronologia, l'epigrafia, la filologia e la numismatica ma si interessò anche di matematica, di logica, di fisica, di idraulica, di didattica, di storia e di lettere antiche e moderne. Altre opere: “Illustrazione relativa alle recensioni su De Minnisari e Dubia de Minnisari pubblicate ne gli Acta Eruditorum; “Illustrazione relativa all'Epistola ad Paulum M. Paciaudum, pubblicata negli Acta Eruditorum”; “Ragionamento istorico sopra la Valdichiana” (Firenze); “Index notarum Graecarum quae in aereis ac marmoreis Graecorum tabulis observantur” (Firenze); “De Minnisari aliorumque Armeniae regum nummis et Arsacidarum epocha dissertation” (Firenze); A. Fabbroni, Vitae Italorum...,  Pisis  E. de Tipaldo, Biografie degli italiani illustri,  X, Venezia); Dizionario biografico degli italiani. Elogio di C. (con lettere di Fananese a Rondelli). Fanani nianae, quod in ditione est oppidum Ducum provinciae Ateftinorum Fri, III. Non. natus eft C. optimis quidem parentibus, honestissimaque familia, quippe quae jamdiu civitate Mutinensi donata fuerat. Is ubi primum adolevit Sodalitatem hominum Scholarum Piarum, quos praeceptores puer in patria habuerat, ingressus est. Multa diligentia, multoque labore in humaniorum litterarum [cf. Grice, Lit. Hum.], philosophiae ac theologiae studiis Florentiae se exercuit apud suos; & cum omnes condiscipulos gloria anteiret, ab omnibus tamen in deliciis habebatur. Erat enim bonitate suavitateque morum prope singulari; & cum plurimuin faceret non solum in excolendis studiis, sed etiam in officiis omnibus religiosi hominis obeundis, minimum tamen ipse de se loquebatur. Vix ferre poterat Eduardus peripateticos quofadam horridos, durosque oratione & moribus, quibuscum versari cogebatur; intelle xeratque jam falsos hujusmodi sapientiae magistros de veritate jugulanda potius, quam de fendenda assidue certantes, philosophiam artem fecisse subtiliter & laboriose infaniendi. Relictis igitur disputandi spinis, ad Academiam se convertit, cujus ratio inquirendi verum libero folutoque judicio, & fine ulla contentio ne & pertinacia non poterat non magnope reprobari homini natura leniſſimo. Nec forum in philosophorum libris corum dogmata, quae disputationibus huc & illuc trahuntur, ut ipse per se perpenderet, inveſtigavit C., sed etiam philosophiae adminicula & an ſas, qualem Xenocrates geometriam appellabat, in Euclide, Apollonio & Archimede quae sivit. Quo in itinere felicem adeo habuit exitum, ut fervore quodam aetatis impulsus, břevi condere potuerit libellum de circulo quadrando, quem ad Guidam Grandium mi fit. Novit in eo Grandius eximium & admirabile adolescentis ingenium, eumdemque hortatus est, ut pergeret porro in eo studio, quod ceteris & studiis & artibus antecede ret, & in quo ipse futurus effet excellens. At C. praeſertim trahebatur ad humaniores litteras, quibus a puero mirifice dedicus fuerat, quaſque vel in sublimiorum disciplinarum occupationibus, ne obsoleſcerent, legendo renovaverat. Itaque moleste tulit demandatam fibi a majoribus fuisse provinciam tradendi publice FIRENZE philosophiam, quasi ad ea detru deretur, quae sui non essent ingenii. Principio sequi coactus est Goudinium, cui brėvi substituit Hamelium. Atque hos auctores sic interpretatus est, ut facile intelligeretur non eſſe ex illorum doctorum numero, pud quos tantuin opinio praejudicata poteſt, ut etiam fine ratione valeat auctoritas eo rum, quos ſequi ſe profitentur. Poftremo ad ſcholae fuae utilitatem et ornamentum maxime pertinere exiſtimavit, fi e multis, quae ſunt in philoſophia & gravia & utilia a recentioribus praefertiin FILOSOFI tracta ta, quantum quoque modo videretur deli geret, in quo adoleſcentes exerceret. Sa pienter etiam faciebat, quod ipſos non ſolum quibus luminibus ab illa omnium laudanda rum artium procreatrice Philoſophia petitis a mentem illuſtrare, fed etiam quibus virtuti bus omnem vitam tueri deberent fedulo e rudiebat. Quare minime eſt mirandum fi in tantam claritudinem brevi pervenerit, ut fuis & Florentinis vehementer carus, quibuſdam vero hominibus nudari ſubfellia ſua, & cor nicum oculos configi dolentibus eſſet invim diofifſimus. Fuerunt & nonnulli (tantum in vidia, aut inſcitia potuit ) qui apud eos, quorum munus eſt providere, ne quid er roris in religionem moreſque irrepat, Corſi nium accufarunt, multa illum tradere, in exponendis praeſertim Gassendi & Cartesio ſententiis, a recta religione abhorrentia. Stomachatus eft homo religiofiflimus, caftif fimuſque obtrectatorum temeritatem. Hos ve ro ut falſae & iniquae inſimulationis publi ce convinceret, utque ab omni metu diſci pulos fuos liberaret, ftatuit in lucem profer re, quae in ſchola & domi iiſdem expoſue rat. Quod cum praeftitiffet, id evenit, ut alteros reprehendiſſe poeniteret, alteri fe di diciſſe gauderent. Inſcripfit opus: Inſtitutio nes philoſophicae ad ufum Scholarum Piarum, & illud in quinque volumina diſtribuit si ma mum continet hiſtoriam philoſophiae & lo gicam; ſecundum verfatur in indagandis prin cipiis, & tanquam feminibus unde corpora funt orta & concreta, horumque proprieta tibus & qualitatibus; agit tertium de cor poribus inanimatis, quae caelo, aere, ri & terra continentur; examinat quartum animata corpora, multipliceſque eorum fpecies, et elementa metaphyſicae tradit; quia tum denique morum doctrinam complectitur. Nec folum in conficiendis his libris res no vas inveſtigavit C., fed etiam eas, quae funt ab antiquis traditae, quarum cognitionem eo utiliorem putavit, quod faepe. philoſophos nova proferre judicamus, cum pervetera proferant. Praeter quam quod in ea erat opinione C., illi, fitum eſt veritatem invenire, fingulas nofcen das effe diſciplinas, ut ex omnibus, quod probabile videri poſſit, eliciat, praeſertim cum doceamur a ſapientiffimis viris, nullam fectam fuiffe tam deviam, neque philoſopho rum quemquam tam delirantem, qui non vi derit aliquid ex vero. Nec modo quid fibi probaretur, fed aliorum etiam fententias, & quid cui propo quid in quamque ſententiam dici poſſet, pera fecutus eſt, quod ea modeſtia praeſtitit, ut: non vincere maluiſſe, quam vinci oſtenderid. Hanc opinionum varietatem ex fuis fone tibus fincere deductam, ut potentius in die fcipuloruin animos influeret, non modo ora, vine diſpoſuit., ſed etiam claritate & nitore, LATINO SERMONE illuſtravit. Praeclare enjin, CICERONE: mandare quemquam litteris cogitationes fitas, qui eas nec difponere poffit, nec illuftra-: re, nec delectationé. aliqua lectorem allicere, hominis est. intemperanter abitentis otio & like cris. Sunt nonnulli qui in hiſce. Insitus, rionibus dum pleniflimo ore laudant ima menſam prope eruditionis copiam,, politio remque elegantiam, quibus ornantur, defide; rare videntur abditiorem 'reconditioremque tractationem earum rerum, quae primum ii) phyſica tenent locum, quales ex. gr. ſunt Trotus., Newtoniana' attractia, harumque lo ges, non tam.ut ceteros, quam ut ſe ipſum, qui nunquam adduci potuit, ut Newtoni fententiae affentiretur, convinceret. Sed ii meminiſſe debent quibus ſcripſerit:C., hribuſque temporibus ſcripferit. Quoniam ve to plurima ſunt in phyfica, quae fine 'gea metriae ope tractari non poffunt, hoc quo que adjumențum a fe afferri oportere diſci pulis ſuis putavit. Itaque Philoſophicis Ma thematicas Institutiones adjecit, in quibus fi ordinem excipias (initium enim facit a pro portionibus, quas nemo ignorat difficillimam effe geometriae partem) cetera ſatis belle procedunt. Neque multo poft retexuit hoe ipſum opus, in quo eo elaboravit attentius, quod fperabat aditum fibi facturum ad mu nus tradendi mathematicas diſciplinas in LIZIO Florentino. Acceptum illud cum plauſu fuit propter dilucidam brevitatem atque ele gantiam, licet in eo acutiores peritioreſque geometrae pauca quaedam jure ac merito teprehenderint. Praeſtantiam, quam conſe cutus fuerat C. in rebus geometricis, yoluit ad hydroſtaticam transferre; cumque fedulo evolviffet quae in ea facultate ſcris ptis mandaverant poft GALILEI (vide), BRUNI Torricellius, Michelinius, Guglielminius, Grandius, alii. que pauci, in ſcenam prodire non dubitavie fuftinens perſonam non modo conſiliarii & arbitri de dirigendis avertendiſque aquis, ſed etiam ſcriptoris. Etenim ex ejus officina prow diit liber, qui infcriptus eft: Ragionamenti intorno allo stato del Fiume Arno e dell' acque della Valdinievole, quique editus fuit fum ptibus. Marchionis Ferronii, cujus cauffam praeſertim defendebat. Spe dejectus Eduar dus perveniendi in LIZIO Florentini docto rum numerum, qui praeter modum iis tem-. poribus. creverat, animum ad Academiam Piſanam convertit, petiitque dari ſibi va cuum eo tempore logicae interpretis locum. Celeriter quod optabat impetravit, propte rea quod Joannes Gaſto Magnus Etruriae Dux eximiam illius ſcientiam in omni re philo ſophica cognoverat. Vir non tam doctrina praeſtans, quam docendo prudens (etenim quaedam etiam ars, eſt docendi ) magno erat emolumento ſtudiofis adoleſcentibus, qui non uſitata frequentia fcholam illius celebrabant. Cum vero de fchola in otium folitudinem que se conferret, tempus potiffimum conſu mebat in augendis. perficiendiſque ſuis Phi lofophicis Institutionibus, abſolvendoque, quod inſtituerat, opere de Practica Geometria. Ins ter haec magna fuit amnis Arni inundatio,ut fi inundationes excipias, quae annis acciderunt, nul lam unquam majorem fuiſſe conſtaret. Pere vaſerat opinio per animos Florentinorum huic luctuofae calamitati cauſſam praefertim dediffe Clanis aquas in Arnum deductas, & quae ad eaſdem moderandas aquas facta fue rant opera. Hunc errorem ut eriperet Edu. ardus, utque perſuaderet eadem opera fuiſſe utiliffima ac faluberrima, libro expoſuit qua lis fuiſſet, & quis eſſet ſtatus Claniae val lis, quidque conſultum & actum ad fua uſque tempora, ut peſti lentiſſima regio convaleſcere aliquando & fa nari poſſeti, utque controverſiae inter finia timos Principes de dirigendis aquis ejuſdem regionis tollerentur. Piſis erat C. con tubernium cum Alexandro Polito, qui hum maniores litteras profitebatur, cujuſque vi tam ſupra explicavimus. Hominis Graecis & Latinis litteris eruditiffimi exemplum & vo. ces, ſelectiſſimorumque librorum copia, qua is abundabat, C. per fe jam flagran tem vehementiffime incenderunt ad eas ar tes, quibus ab ineunte aetate deditus fuerrat, celebrandas. Sciebat Graece, cujus ſermonis elementa juvenis Florentiae acce perat a ſodali ſuo Franciſco Maria Baleſtrio, fed non luculenter. Itaque multo ſudore ac labore in arte grammatica primum ſe exer euit, poftea Graeca multa convertit in LATINVM, Graecorumque libros & eos pracſer tim, qui res geſtas & orationes ſcripſe runt, utilitatem aliquam ad dicendum aucu- | pans, ftudiofiffime legebat. Cum vero ei eſſet perſuaſum ingentes ac prope immenſos cam pos illi proponi, qui eloquentiae ceterife que humanioribus litteris vacare cupit, acom mico hac de re aliquando ſciſcitanti reſpon dit: percipiendam ei effe omnem antiquitatem, cognoscendam hiſtoriam, omnium bonarum artium ſcriptores & doctores & legendos & pervolu tandos, & exercitationis cauſa laudan.los, in terpretandos, corrigendos, refellendos; diſputan dumque de omni re in contrarias partes, & quid quid erit in quaque re, quod probabile videre poffit, eliciendum atque dicendum. Hujuſmodi exercitationes, quas diu incluſas habuit, Core finius in veritatis lucem tandem proferre ſe poffe putavit, cum Faſtos Atticos illustrandos fuſcepiſſet; magnum ſane opus & prae clarum, quod omnem fere Athenienfium hi ftoriam complecti debebat, cum qua philofophiae, omniumque laudatarum artium hi ſtoria arctiſfime eſt conjuncta. Diviſit illud ipſum opus in partes duas, quarum prio rem veluti apparatum Faftorum effe voluit, quod in illa fuſe lateque ea exponerentur, quae commode in ipfis Faftis, ad quos ta men pertinebant, 'exponi haud poffe vide bantur. Agit itaque de Archontum inſtitu tione, numero, varietate, muneribus & re rie, de Archontico anno, atque ordine men fium Athenienfium. Cum vero Archontigiis annus non in menſes ſolum, ſed in Pryta nias etiam diviſus eſſet, ac Tribuum Athe nienfium fingulae aequali temporis, annique parte Prytaniae munere fungerentur, de ie pſarum Tribuum ac Prytaniarum numero, ordine ac ſerie, deque Atticae populis, ex quibus illae conſtabant, eruditiſſime differit. Neque ab his ſeparandam putavit tractatio nem de Athenienſium Senatu & Ecclefiis, dcque Proedrorum, ac Epiſtatum numero, diſtinctione & officiis. Tranſit inde ad contexendam Archontum ſeriem diſtinguens eponymos a pseudeponymis. Quam diſtinctionem licet nonnulli agnoverint, nemo tamen exſtitit, qui Pſeudeponymorum Archontum feriem illuftrandae Atticae hiſtoriae maxime neceffariam recenſere tentaverit. Agit de mum de civilibus Graecarum gentium annis, ipfarumque menfibus, cyclis atque periodo, cum antea declaraſſet tempus, verumque di em, quo varia Athenienſium feſta peragi & redire confueverant. Id facere neceſſe fuit propterea quod eadem fefta, veluti perſpi cuae certaeque temporis notae, rerum gefta rum memoriaé ſaepiffimè a ſcriptoribus adji ciuntur. Haec quidem in priori operis par te. In fecunda vero Fafti exponuntur a pri ma Olympiade, qua Coroebus palman retus lit, uſque ad Olympiadein cccxvi. Causa fuit juſta C. praetereundi antiquiora tempora, quod iſta laterent craſſis occultata tenebris, & circumfuſa fabulis. Ne tamen primam Athenienfis imperii formam deſpice. re videretur (nam Athenis initio Reges, inde perpetui Archontes, mox decennales, tandemque annui imperarunt) qui Reges & Archontes perpetui, & qua aetate fuerint in Prolegomenis perſecutus eft. Ceterum Fa. ftos fic contexuit C., ut nullum ad nos pervenerit nomen Archontum, Olympioni čarum & Pythionicarum, nulla lex, neque pax, neque bellum, neque caſus neque res illuſtris & memoranda populi Athenien fis, quae in iis ſuo tempore non fit notata. Interdum etiam attigit Spartanorum, Phoceli fium, Thebañoruin, aliorumque Graecorum gefta, conſilia, pugnas, diſcrimina, quod ca maxime ſint Atticae hiſtoriae conjuncta. Graecos vero philosophos, poetas, oratores, cete roſque tum pacis, tum inilitiae artibus claros viros ita commemoravit, ut quibus Olympicis annis, & quo loco in lucem fint editi, vitam que ' finierin't intelligi poffit. Atque haec o Innia capitulatim ſunt dicta. Etenim nimis lon gus effem fi praecipua, & nova vellem deſcri bere, quae in his Faftis continentur. Nihil poſuit in iis C. fine locuplete auctori täte & teſte, aut faltem ſine probabili conje: ctura; quodque difficillimum fuit, fcriptorum Graecoruin loca aut vitiata aut minime intel lecta, aut mutilata'ſic reſtituit, illuſtravit, fupplevitque, ut dubitari poffe videatur plus ne jis reddiderit luminis, quam ab iiſdem aco ceperit. Neque minori perſpicientia Athe nienfium nummos vidit, ex quibus non pau. ca quidem in rein ſuam hauſit; ſed multo plura e marmoreis monumentis fumpfit, ta li modo dirimens controverſiam, quae ex fufcitata fuerat a ſummis viris Spanhemio, & Gudio, nummis ne, an inſcriptionibus princeps locus dandus effet in explicandis ri tibus, feſtis, Numinibus, ludis, magiſtrati bus, rebuſque geſtis Athenienfium. Inter nobiliores inſcriptiones, quas refert Corfi nius, & miro prorſus acumine atque eru ditione explicat, & interdum etiam fupplet, eft Florentina quaedam apud Riccardios ile luſtrandis Athenienfium Tribubus maxime idonea. Sed haec mirifice corrupta erat, au gebatque corruptelam collocatio. Etenim cum ex tribus fragmentis conſtaret, imperi tus artifex fic illa in pariete diſpoſuerat, ut media pars primae, finiſtra mediae, dextera vero omnium poftremae partis locum Occu paret. Vidit haec mala Corſinius, qui 2 tutiſſime indagabat omcia, iifque remedia goadhibuit. At puduit Joannem Lamium ſe non adeo lynceum fuiffe, cum ufus effet sadem inſcriptione in ſuis ad Meurfium Scholiis, & ex pudore orta eſt invidia. Ex quo intelligi poteſt quare is debitas mun quam tribuerit laudes operi, quod omnium judicio longe multumque ſuperat quidquid in hoc rerum Atticarum genere ſcripſerunt Sigonius, Scaliger, Petavius, Petitus, Sponius, & vel ipfi Meurfius, & Dodwellus, quorum errorés dum faepe corrigit C. , & dum minime ab iis animadverſa pro fert, fatis declarat iiſdem detrahere voluiffe Haerentem capiti multa cum laude coro nam. Rumor erat ea parare Lamium, quibus fpe rabat hominibus fe probaturum, C. in emendanda illuſtrandaque Riccardiana in fcriptione ſurripuiffe fibi fegetem & mate riem gloriae ſuae. Porro Lamius poft edi tas Corſinii emendationes fupponere cogita verat in locum impreſſae jam paginae in I. Meurſii operum volumine, quae prae fe fe rebat inſcriptionem corruptam, aliam pagi nam, in qua emendatior inſcriptio legebatur; CORSINIUS: 1 bancque mutationem, omnibus occultari pof ſe putaverat, quod Meurſii liber nondum efe ſet in vulgus editus. Non latuit certe Core finium, in cujus manus pervenit etiam pria mum impreffa pagina, qua omnem a fe prow pulſare poterat injuriam. Id ut audivit Lami mius aliam rationem iniit perficiendi confi lii ſui. Dedit ad Angelum Bandiniun litte ras plenas iracundiae ac minarum, ſpecie qui dem ut ea, quae jamdiu ſepoſuerat ad Riccardianum marmor explanandum, aliquando proferret; re autem ipſa ut quae a C. didicerat, perpaucis additis aut mutatis, le ctori aut occupato aut indiligenti vendita Yet pro ſuis. Atque id utrumque ſcriptorem conferenti luce clarius eft. Quare mirari ſa tis non poffum hominis frontem, qui furti C. infimulet in eo loco, in quo ipfo cum re aliena, atque etiam cum telo eſt de prehenſus. Atque haec an. v. ſunt geſta, cum Fafti Attici anno ſuperiori lu cem vidiſſent. Sed tamen res defenſionem apud multitudinem potuit habere uſque ad cum annum, quo Meurſii opera cum Lamii animadverſionibus vulgata funt fimul universa. Tum enini primum jejuna illa marmoris interpretatio, quam ante annos xxII. Lamius in l. operum volumen intulerat, lecta eft.: ad calcem vero ejus voluminis ſecundae Aucto ris curae in eum lapidem, & quaſi retra Statio quaedam ante dictorum edita eſt. Qua in mantiſſa bina extant indicia Corſinii cauffam mire tuentia, alterum quod nihil hoc in loco proponatur, quod non ille in Faſtorum libro occupaverit; alterum quod mantiſſae characteres ab ejuſdem voluminis characteribus forma et figura longe abſunt, teſtanturque non niſi poſt annos multos quam liber fuerat impreſſus, diſtractis jam aut obſoletis formis illis prioribus, additam eſſe appendicem, de qua meminimus. Sed jam fatis multa de homine meo quidem judicio paucis comparando, niſi regnum in litteris, quod FIRENZE perdiu tenuit, malis inter dum artibus & clarorum virorum vexatione confirmandum putaſſet. Quamvis in Fa. Hujus rei narrationen pluribus etiam verbis exa pofitam vide in libello cujus eſt infcriptio: Paffatem po Autuntile, quo in libcllo Si quis est qui dictum in se ir clemencius Exis. Atis Articis elaborare C, maxime glorio fum fuerit, non minorem tamen laudem rea portavit ex Agoniſticis Differtationibus, de qui bus Ludovicus Muratorius, intelligens ſane. judex, dicere folebat, poſſe eas per ſe ſo las aeternum nomen Auctori comparare. His Diſſertationibus oftendere voluit C., quo tempore Graeci celebrare conſueverunt ludos Olympicos, Pythicos, Nemeaeos, & Iſthmiacos, quod tempus eatenus fuerat vel incompertum, vel faltem obſcurum. In hoc autem non mediocrem utilitatem chronolo giae & hiſtoriae ſe allaturum putavit, quod iiſdem ludis fcriptores uterentur ad notanda deſignandaque rerum geſtarum tempora. Ab Olympicis exordiens, qui ceteros fplendore & frequentia ſuperabant, breviter cos percurrit, quos ab Hercule primum inſti tutos Trojano bello deſiiſſe, moxque ab. Iphito reftitutos iterum intermiffos fuiffe fcriptores narrant. Etenim illud caput eſſe videbatur, ut de Olympiade illa quaereret, qua Coroe bus palmam accepit, & quae prima dicitur, omnes Exiflimayit ele, fit exiſtimet Reſponſum,  d.ctum effe, qu'a lacris prior quod ab illa ceterarum Olympiadum ordo & feries incipiat. Hanc celebratam fuiſſe putat an. periodi Julianae  circiter folftitium aeſtivum, plenilunii tempo re, qui mos ſemper manſit non folum anti quioribus, quibus civiles Graecorum anni lunares erant, fed recentioribus etiam, qui bus ſolares anni a Romanis ad Graecos tran. fierunt. Primus is erat anni menſis, in quem incidiffent Olympici ludi. Quinque diebus eorum certamina abſolvebantur, inter quae curſus, quo, uno certatum eſt ad Olympia dein uſque, primas tenebat. Neque. in Aelide folum, fed & in aliis Graeciae ur bibus fumma cum populi frequentia ac faca. crorum caeremonia Olympici celebraba ntur, donec v. ineunte reparatae falutis faeculo, jidem cum Pyticis. ſublati fuerunt., Pyticos primum inftituit Apollo, eofque jamdiu in-. termiffos, confecto. Criſſenfi bello, Olympiade. Amphictyones revocarunt. Ii dem Olympicorum inſtar pentaéterici erant; neque ſecundis annis, aut quartis, ut Petavius & Dodwellus, exiſtimarunt, ſed tertiis, hiſque exeuntibus circa Elaphebalionis menfis finem, tum Delphis, tum in aliis Graeciae urbibus peragi confueverunt, Proxime poft Pythia Olympiade ſcilicet Lill. inſtaura ta fuerunt Nemea, quorum origo reperitur a ſeptem Argivis ducibus, qui ad lenien dum defiderium pueruli Archemori a ſerpen te occiſi funebres hoſcę agones ante Olympiadem primam prope Ne meaeum nemus inftituerunt. At Nemeadem illam, ex qua veluti cardine ceterae infe quentes numerari coeperunt, in annum Olympiadis LxxII. poft Marathoniam pu gnam incidiffe fatis probabiliter Eduardus af firmat. Nemeades aeſtivae aliae, aliae hibere nae, omnes vero trietericae fuerunt; eaeque alternis annis ita peragebantur, ut hibernae quidem in medios ſecundos, aeſtivae vero in quartos ineuntes Olympiadum annos in currerent. Cum Nemeis ludis quaedam erat Iſthmicis a Theſeo, ut ferțur, conſtitutis fia militudo. Funebres erant ambo, ambo trie terici, & qui utrolibet in certamine viciſſent apio coronabantur, Ithmici quoque alii em rant aeſtivi, non tamen alii hiberni, ut qui dem Dodyellus putabat, fed verni brabantur illi primis Olympiadum annis Hea catombeone menſe, hi Thargelione, exeun te fere tertio Olympico anno. Sic definivit C. tempora quatuor illuſtrium Graea ciae ludorum, patefaciens obſcura & ignota vel ipſis chronologiae luminibus Scaligero Petavio, & Dodwello, quorum auctoritate abreptus ipfe in primo Faſtorum Atticorum libro Pythiades ſecundis Olympicis annis cona cefferat. Agoniſticis hiſce Differtationibus, veluti faftigium operis, idem adjecit feriem Hieronicarum alphabetico, ut dicitur, ordi ne diſpoſitam, & Dodwelliana longe ube riorem accuratioremque. Nam feptuaginta. ſupra centum vitores recenſuit, qui Dod weilum prorſus fugerant; fonteſque indic cavit (in quo Dodwelli diligentia ſaepiffi, me deſiderabatur ) unde uniuſcujufque vin ctoris nomen, aud patria, aut aetas, aut tertaminis genus, quo viciffet, hauriebatur. Hoc opus vehementer adeo Auctori fuo pro batum erat, ut vir modeftiffimus in eo quo daininodo gloriari videretur. Etenim, ut At rico fcripfit CICERONE, fua cuique Sponfa,fuus quiqua Quoniam autein tumuin his Agoniſticis Diſſertationibus, tum in Faltis ſcribendis faepe uſus eſt C. ſubſidio marmoreorum monumentorum, in quibus multae occurrunt notae, quarum neque fa cilis, neque prompta fuit explicatio, fepara tum opus. a ſe expectare putavit Graecarum antiquitatum ftudiofos, quo in opere non ſolum ex marmoreis, fed etiam ex aereis Graecorum tabulis: varias eorum notas colli geret, haſque explicaret atque illuſtraret. Quae dum animo verſaret, fcriptionique jam manum admoviffet, ecce in lucem prodit Scipionis Maffeii liber de Graecorum figlis l.z pidariis, in quo trecenta fere vocum com pendia ingeniofe: feliciterque enodantur.. Cum C. ab amico librum accepiſſet, ei epi ſtolam fcripfit (relata haec fuit in volumen. diarii Litteratorum. Florentiae editi ) in qua ſummas tribuit Maffejo laudes, quod primus ex omnibus materiem hanc ſeorſim tractandam füfceperit,, magnam in illam con ferens.eruditionis copiam, & acre: prudenſ que judicium.. Non, propterea tamen: ſpar tam, quam fibi ſumpſerat, ille deſeruit, quia, ut ait Auſonius, is crat campus, in quo alius alio plura invenire poteft, nemo om. nia. Et plura certe C.  invenit, cum mille fere notas, aut numerorum vocum que compendia uno volumine colligere po tuerit & explicare illo ſuo acutiffimo inge nio, cui inquirenti & contemplanti omnia occurrere ſe ſeque oftendere videbantur. Ut vero delectatione aliqua alliceret adoleſcen tes, quibus inſuavis fortaſſe & aſperior via deri poterat ſiglarum inveſtigatio, poftquam multa eruditiſſime praefatus effet de notarum origine, vi, utilitateque, opportune ſparſit in toto libro non pauca ad hiftoriam, geos graphiam, chronologiam, ac mythologiam ſpectantia. Ex quibus aliiſque diſciplinis ube riora etiam hauſit, ut ornaret dissertatio nes ſex, quas, abſoluta univerſa notarum ſerie, confecit, ut eſſent operis corollarium. Explicant illae inſignes quaſdam Chriſtianac & profanae antiquitatis inſcriptiones, ficque explicant, ut facile exiſtimari queat, eum qui non comprehenderit rerum plurimarum ſci entiam, quique judicio certo & ſubtili non fit praeditus, in his antiquitatis ftudiis ſatis callide verſari & perite non poſſe. Inſcriptit C. hoc ſuum opus: Norse Graecorum five vocum & numerorum compendia, quae in gereis atque marmoreis Graecorum, tabulis obſer vantur, dedicavitque Cardinali Quirinio, a quo pecuniam ad illud ipſum evulgandum dono accepit. Etenim his temporibus haud illi magna res erat, quae vix fatis efle vide batur ad vitam ſuſtentandam, neceſſarioſque. libros emendos. Praepoſitus dialecticae ſcholae, nihil aliud annui ſtipendii obtinuit nifi octingentos denarios. Hoc eſia fatum videtur nobiliilimae. quidein diſcipli nae, ut pote quae per omnes diſciplinas ma: nat ac funditur, ut qui illam profitentur me: diocribus afficiantur praemiis. Vel ipſi Graeci, quamvis ellent aequi liberalium artium aeftimatores, minam, eſſe voluerunt inerce dem Dialecticorum. Coin.nodiori in ftatu res C. eſſe coeperunt cum traductus fuit ad metaphyſi cam atque ethicam docendam. Tunc eniin ipfius ftipendium erat bis millenorum & am plius denariorum, poſteaque illud ipſum ad quatuor. mille ducentos quinquaginta uſque pervenit, cum proſperae. res multae confecutae fuiſſent. Satis ſuperque id erat homi ni temperato ad vitam beatiſſimam; videba turque libi ſuperare Craffum divitiis. Quan tum vero ſorte ſua contentụs, quantiſque a moris vinculis Academiae Piſanae obftrictus effet, ex eo conjici poteſt, quod mortuo Lu dovico Muratorio Mutinenfis Ducis bibliothe cae praefecto in illius locum fuccedere recu favit, quamvis liberaliſſime ipfius Ducis ver bis invitaretur. Quo cognito ab Emmanue le Comite Richecourtio, qui Franciſci I. Cae faris nomine res Etruriae adminiſtrabat, ipſe fingularibus verbis ei gratias agendas cenſuit, eidemque prolixe de ſua non modo, fed & Cae aris voluntate pollicitus eſt. Id non potuit C. non fumme eſſe jucundum; utque viro de fe & de Sodalitate ſua bene ſemper merito gratum fe oftenderet dedica vit illi PLUTARCO opus de Placitis Philoſopho. tum a se LATINVM factum, vitaque Scriptoris, fcholiis, & diſſertationibus ornatum. Causam ſuſcipiendae novae interpretationis ei dem dederunt naevi quidam, quibus maçı lantur Budaei, Xylandri, & Crụſerii honi num ceteroquin doctiſſimorum interpretationes; ſuſceptam vero ita perfecit, ut ver bu pro verbo reddiderit, multaque etiam attulerit de fuo, quae funt diverfo chara ctere notata, ne attenuata nimis diligentia perſpicuitati officeret, & ne res ipfa omni LATINAE orationis dignitate cultuque deſtitu ta ſordeſceret. In limine operis Plutarchi vi tam ex illius aliorumque veterum ſcriptis a ſe diligentiſſime colletam, & feriem philo ſophorum, quorum placita a Plutarcho pro feruntur, aetatemque, in qua vixerunt, ex. poſuit. Singulis vero operis capitibus brevia adjecit commentaria, quae aut mutilos & hiulcos Plutarchi locos ſupplent, aut de pravatos emendant, aut obſcuros atque per plexos, opportune allatis aliorum philoſo phorum ſententiis, illuſtrant. Siquando au tem longioris eſſe orationis putavit Corſi nius lucem aliquam afferre rebus obſcuriſſi mis, cum non Heraclitus ſolum, ſed & quiſ que fere antiquitatis philofophorum, quo rum ſententias coarctavit & peranguſte re ferſit PLUTARCO, Exotélv8 cognomen me reatur, hujuſmodi illuſtrationes ad finem li bri rejecit. Quo in loco voluit etiam recenfere illuſtriores ſententias, quae propriae di cuntur recentiorum philoſophorum, cum ea rum tamen manifeſta appareant veſtigia in Plutarchi libro, quod profecto ad veterum gioriam amplificandam plurimum valet. Ta les ſunt attractionis leges, vireſque, ut di cuntur, centripeta & centrifuga, Charteſiani vortices, lunae phaſes, maculae, quod que haec fit terra multarum urbium & mone tium, converfio folis, planetarum, fiderum que certa quadam celeritate ac periodo cir ca axes ſuos, natura, coſtans motus, rever lioque cometarum, telluris motus, quodque ex eo cauſſa ' maris aelus repetenda fit jegew’ewe explicatio, aliaque hujuſmodi mul ta tum ad corporum, tum ad animi na turam pertinentia. Profecto nihil dulcius erat Corfinio quam per abdita remotioris antiqui• tatis permeare, & inde nova & inexpecta ta deferre, quae hominibus contemplanda bono in lumine exhiberet. Nam, ut Ari ſtoteles inquit, fuo quiſque artifex ftudio atque opera impenſius delectatur. Cum igi tur accepiffet ab Antonio Franciſco Gorio amiciſſimo ſuo graphidem eximii cujųſdam anaglyphi, quod Romae viſitur in Aedibus Farneſianis, non magnopere hortandus fuit, ut in illo exponendo elaboraret. Exhibet hoc ſuperiori in parte Herculem cuin Eų. ropa, Hebe, Satyriſque quieri, voluptati que poſt exantlatos labores indulgentem, in inferiori vero tripodem Apollini ſacrum, Ar givae Junonis Sacerdotem, atque alatam Virginem, & Herculem demum ipſum ſe ſe expiantem, ut purus ad Deorum conci lium afcenderet. Hinc & illinc anaglyphum ornant binae columnae cum Graeca inſcrie ptione, quae multis verſuum decadibus Her culis geſta commemorat: in ſupremo tan dein anaglyphi loco octodecim hexametra car mina exculpta ſunt, quibus Herculis labores & certamina declarantur. Praeclariſſimi hujus monumenti explicationem Eduardus libello quem ad Scipionem Maffejum inſtituit, com plexus eſt; ex eoque judicari poteft, vehe mens afiiduumque ftudium ipfi copiam eru ditionis dediſſe, naturam vero tribuiſſe in genium ad conjiciendum divinandumque fa ctum. Et fane divinationis cujuſdam vide illum potuiſſe laceras ac depravatas multorum verſuum lacinias feliciſſime corri gere atque ſupplere. Magnae antiquitatis ar gumentum praebere ſuſpicatus eſt Doricam dialectum, qua exarata eſt inſcriptio, ne- ! que ipfe affirmare. dubitat opus paullo poſt Alexandri tempora', antequam Q. Flaminius priſtinam Graecis libertatem redderet, perfe &um fuiſſe. Sed aliter alii ſentiunt qui bus nunc plerique affentiri videntur. Hoc ipſo ferme tempore Corſinius ejuſdem Gorii poſtulationibus Diſſertationes quatuor con ceſſit, quae impreſſae funt ab illo in vi. vo lumine Symbolarum litterariarum. Extricat pri ma epigraphen ſculptam in labro interiori cujuſdam crateris ahenei Mithridatis Eupa toris, qui crater in muſeo Capitolino, Vide Winkelman, Monumenti antichi inediti Trel. Prelim. Idem quaedam alia notat in quibus deceptum fuiſſe C. arbitratur Sic interpretatur C.  mire involutam in. ſcriptionem: Regis Mithridatis Eupatoris Regni anno 54. Eupatoriftts GYMNASII-- hoc eft civibus Eupatoriae, qui IN GYMNASIO certarunt -- ſenectutem conſeival, quod erat ad laudem vini, quo plenus crater vi &ori con cedebatur. Alii aliter interpretanda extrema pracſertim inſcriptionis verba exiſtimarunt, quorum fententiam plerique nunc fequuntur affervatur. Secunda patefacit obſcuros igno ratoſque dies natalem & fupremum Plato nis, qua occafione aliorum etiam virorum illuſtrium Archytae, Philolai, Iſocratis, Ly fiae, Dionis, & Socratis aetates & tempora perſequitur. Explicat tertia adverſam par tem numiſmatis Antonini Caeſaris, in qua Prometheus humanum corpus ex luto fin gens, & Pallas capiti mentem, papilionis imagine expreſſam, inſerens confpiciuntur. Curioſa ſunt quae excogitavit C., ut perſuaderet hominibus morem repraeſentandi humanam mentem ſub papilionis imagine non ex miris hujus volucris affectionibus & natura, non ex ipſa animi immortalitate, circuitu, aut tranſmigratione, non ex Chal daicae, Graecaeque fapientiae fontibus, non ex arcanis amoris myſteriis, fed ex fola ar tificum imperitia profluxiſſe. Cum enim unum idemque nomen pſyches papilionem & ani nium deſignet, rudis artifex, qui primus ani mum exprimendum ſuſcepit, non putavit hu jus ideam poffe melius excitari, quam obje eta imagine illius rei, quacum is commune nomen habet. Quarta Diſſertatio demum in eo verſatur, ut oftendat mentitam & falfam effe LATINAM quamdam inſcriptionem, quae Piſis vilitur in Scortianis aedibus. Summi labores, quos C. impendit in conficien dis, quos retulimus, libris, magna compen ſati fuerunt gloria, ut unus e multis, qui illuſtrandae Graecae praefertim antiquitati ſe ſe dederunt, excellere judicaretur. Cujus de praeſtanti in hoc rerum genere doctrina tan ta etiam judicia fecit Scipio Maffejus, quan ta de nullo; cujus teſtimonii auctoritas ma xima reputari debet non folum quod ab hox mine prudentiſſimo proficifcitur, fed etiam quia figulus invidens figulo, faber fabro, ut eſt Heſiodi dictum, alterius laudi & gloriae | minime favere ſoleat. Ex mutua opinione doctrinae, fimilitudineque ftudiorum orta eft inter cos jucundiffima amicitia, cujus tanta vis fuit, ut C. aeſtate an.quamvis non bene valens, Veronam venerit aliquot menſes commoraturus apud amicum. Quo tempore inter eos fuit familiariſſima focietas, & communicatio ftudiorum. Dono accepit C. a Maffejo tercentum fere Graecas inſcriptiones (has Chici1shullius collegerat, & fecundae Afiaticarum antiquitatum parti reſervaverat ) ea conditio; ne, ut eas Latine redderet atque illuſtraret, Satisfecit ille aliqua ex parte promiffo ſuo, cum anno inſequenti edidiſſet eas inſcriptio. nes, quae ad Athenas ſpectabant; eaſdem que iterum cum commentariis edidit quam driennio poft, ut eſſent ornamento quarto Faftorum volumini. Nono menſe poftquam in Etruriam rediit C., moritur Alexander Politus, quocum ille ita vixit, uit. quem pauci ferre poterant propter difficilli mam naturam, hujus fine offenfione ad fum. mam fenectutem retinuerit benevolentiam. Mortuo autem Polito neque inquirendum neque conſultandum fuit quis illi ſucceſſor in Academia Piſana daretur, cum omnium oculi ftatim in C.conjecti fuiſſent. Ita hic exeuntė poftquam octodecim fere annos philoſophiam tradidif ſet, munus docendi humaniores litteras li bentiſſimo animo ſuſcepit. Initio propoſuit fibi (nam muneris ratio, & adolefcentium utilitas ab eo poftulabant, ut cum Graecis Latina conjungeret ) explanare Plutarchi parallelas ROMANORVM vitas, ut inde occaſionem ſumeret utriuſque populi leges inter ſe conferendi. Memoriter dicebat e ſuperiori loco, quod ad praeceptoris & ſcholae dignitatem plurimum tum conferre putabatur; & quae tradebat inſignita e rant luminibus ingenii, & conſperſa erudi tionis ſententiarumque flore. Genus dicen di erat quiétum & lene, purum & elegans, ut maxime teneret eos qui audiebant, & non folum delectaret, fed etiam fine fatieta te delectaret. Nulli diſcipulorum aditum ſermonem, congreſſumque fuum denegabat, quin immo eos bis in hebdomada domum ſuam invitabat, ut in ftudiis exerceret ROMANORVM ANTIQVITATVM. Domi etiam tradebat metaphyſicam, quo onere non placuit Academiae Moderatoribus illum libe rare niſi  quo quidem tem pore Venetiis evulgavit ſuas Inſtitutiones Me taphyficas. In his adornandis illud unum pro pofitum fibi fuit, ut in animis adoleſcentium rectas de animae immortalitate, arbitrii li bertate, Dei exiſtentia, ceteriſque naturalis theologiae dogmatibus notiones infereret, quibus in gravioribus aliis diſciplinis veluti praeſidiis uti pofſent, quibuſque caverent a peſte quadam hominum non tam religioni, quam reipublicae infeſta, quae rationem per vertendo ubique venenatas opiniones diffe minare non veretur. Subaccuſent aliqui, fi lubet, C., quod nimis, parcus fuerit in pertractandis quibuſdam rebus, quae in ca, in qua nunc ſumus, luce ignorari mi nime poſſe videntur; omnes profecto uno ore fateri debent tales effe hafce Inſtitutio nes, ut cupidi metaphyſicae nullibi poffint refrigerari ſalubrius atque jucundius. Poftre mum hoc operum fuit, quae C. Phi loſophiae dicavit, nifi dicere velimus, eti am cum minime videretur tum maxime ila lum philofophari conſueviſſe, Quod declarant ejus Latinae orationes ad Academicos Piſanos refertae Philoſophorum fententiis, faluberri ma praecepta, quibus adoleſcentes ad omne officii munus inftruebat, doctiflimoruin Philoſophorum familiaritates, quibus ſemper flo ruit, & ars illa diſtinguendi vera a falſis, colligendi ſparſa, eaque inter ſe conferendi, diligenter examinandi omnium rerum verbocum rumque pondera, nihilque afferendi fine evi denti ratione, aut faltein probabili conjectu ra in qua arte quantum inter omnes un Aus excelleret, praeſertim oftendebat, in vetuftatis monumenta inquireret. Hujus inquiſitionis uber fane fructus fuit Diſſertatia illa de Minniſari, aliorumque. Armeniae Regim nummis, Et. Arſacidarum epocha, quam idem in lucem extulit. Difficulta tis maximae fuit oftendere Minniſari num mum, quem praecipue illuſtrandum C. ſuſceperat, ad illum fpectare Maniſarum Armeniae & Meſopotamiae. Regem, de quo Dio Caffius in libro ROMANAE HISTORIAE mentionem fecit, & Arſacidarum epocham uon in Parthiae. folum, fed etiam in: Arme niae regum nummis inſcriptam fuiffe, eam. que ab anno Urbis conditae Dxxv. initium duxiſſe. Antea quidem doctiſſimorum viro rum Uſſerii, Petavii, Noriſii, Spanhemii, Vaillantii, & Froelichij fententia fuerat, ſe rius. Arſacidarum imperium incepiſſe, adver ſus quam ſententiam C. ita pugnavit, ut veritas non minus quam modeſtia eluxe rit. Quoniam vero in antiquitatis ftudio multae res inter fe ita nexae & jugatae funt, ut, inventa una, aliae, quae prius latebant, ſe ſe contemplandas offerant, ean ob rem Corfinius in Minniſari regis num mo explicando varia ſcriptorum loca corri gere & ſupplere, verum Darii genus expo nere, Tiridatem alterum, Arfamem, aliof que Armeniae Reges Vaillantio prorſus in cognitos proferre potuit. Res in hac Differ tatione contentae, non fine laude oppugnatae fuerunt a Jeſuitis Froelichio & Zacharia, reſponditque ad ea, quae objecta fuerunt, ſine iracundia C.. Eteniin veritatis unice amans alios a fe diffentire haud ini quo ferebat animo, ſemperque deteſtatus eſt eos, qui ſuis ſententiis quaſi addicti & con. fecrati etiam ea, quae plane probare non poſſent, conſtantiae, non veritatis cauſſa de. fenderent. Propugnationem quoque Corſinii libello (*) ſuſcepit ejus convictor & fodalis Huic titulus eſt. Lettere critiche di un Pafton r Arcade ad un Accademico Erruſco nelle quali ſi ſciola gono le difficoltà fane contro un'opera del Reverendiſſia mo Padre Corſini nel Tom. IX. della Storia leveraria of lialia &e, in Pisa in Carolus Antoniolius, qui quidem non me. diocria adjumenta illi praebuit, cum pluri mum valeret in omni genere ftudiorum quae ipſe excolebat. Magni quoque Acade miae fuit Antoniolii opera in Graecis littea ris tradendis toto illo ſexennio, quo C., coactus capeſſere, ſummum Sodalitatis fuae magiſtratum, bona Principis cum ve nia, & fine ulla ſtipendiorum jactura Piſis abfuit. Hic Romam venit menſe. ardens. defiderio indicia veteris memoriae, quibus mirabiliter urbs. illa abun dat (quacumque enim quis ingreditur in aliquam hiſtoriam veftigium ponit ) cogno ſcendi. Sed raro ei poteſtas dabatur huic ſuo. deſiderio, fatisfaciendi, cum podagrae dolori bus ſaepiſſime vexaretur, & munus ſuum diligentiſſime exequi vellet. Quanta vero pru dentia ac dexteritate fuerit in tractandis ne. gotiis, quanta aequitate in conſtituendis, temperandiſque, ſi res pofcebat, conſtitutis jam legibus, quanta humanitate erga omnes, quantaque vigilantia ac providentia in con fulendo rebus. praeſentibus, praecavendoque futuras, fatis praedicari non poteft. Cum autem nihil ſine aliorum conſilio agere ei mos eſſet, & facilitate ſumma uteretur in füos adjutores procuratoreſque, inde norza nulli materiem ſumpſerunt falſae criminatio nis, quod ad aliorum magis quam ad ſuun arbitrium res Familiae adminiftraret. Omnino totum fe tradidit Sodalitati, to tamque fic rexit, ut oblitus commodorum ſuorum omnibus proſpexerit. Non eſt credi bile quanto animi dolore angeretur, fi ali quis ſuorum in crimen vocabatur. Horrebar enim homo innocentiſſimus vel ipfam pecca ti ſuſpicionem. Sed non propterea fontibus iraſcebatur, hofque clementia magis atque manſuetudine, quam animadverſione & ca ftigatione ad frugem revocare ſtudebat. Cum vero feveritatem, fine qua reſpublica adıni niftrari non poteſt, adhibere cogebatur, similis, ut praeclare admonet CICERONE, legum erat, quae ad puniendum non iracundia, fed aequitate ducuntur. In his occupationi bus muneris ſui, ne plane ceſſäre a fcriben do videretur, extare voluit explicationem đuarum Graecarum inſcriptionum, quae mus ſeum ornant Bernardi Nanii Veneti Senatoris. quam feliciter id praeftiterit, perſcrutata prius litterarum priſcarum, quibus illae con fcriptae ſunt, forma atque vi, facile judica bunt ii, qui ſunt harum deliciarum amato Tes. Tentaverat eamdem rem Franciſcus Za nettus, ſed longiſſime aberravit a vero ejus interpretatio. Ipſe C. cum Anconae effet ineunte eoque prae ſente cum multis aliis detecta fuiſſent atque agnita corpora Sanctorum Cyriaci, Marcelli ni & Liberii, quos ſingulari obfequio ea dem civitas venerațur, incitatus fuit, ut ali quid laboris impertiret illorum Sanctorum illuſtrandae hiſtoriae, definiendoque praeſer tim tempori, quo tranſata eorumdem cor pora fuerunt in eum, ubi nunc jacent, lo cum, & quo Anconae coli coeperunt. Haec C., edito commentariolo, accidiffe - ftendit exeunte faeculo & ex ipfis an tiquitatis monumentis quibus ſententiam ſuam confirmavit, quatuor Anconitanorum Epiſcoporum nomina in lucem protulit, quaç uſque ad id tempus fuerant incognita, Per pauca in hoc commentariolo attigit de S, Liberio, quod ejus hiſtoriam involutam tenebris & fabulis exiſtimabat, Mox cum ei aliquid luminis affulfiſſet, & monumentorum ope, & mirabili illa ſua conjiciendi arte pa tefacere potuit Liberium fuiſſe unum ex fo ciis S. Gaudentii Abfarenſis Epiſcopi, qui circiter an. MxXxx. Anconam venit, fo litariam vitam acturus in ſuburbano mona ſterio Portus Novi. Harum rerum inventio multis laudibus. celebrata fuit a Scriptoribus annalium Camaldulenſium: pergrata quo que fuit. Benedicto XIV. pro ejus. fingulari ftudio in Anconitanam Ecclefiam. Hic cum ſaepe ad congreffum colloquiumque ſuum invitaret Eduardum, quod ejus ſummum in genium, fuaviffimos. mores, atque eximiam probitatem & nofſet & diligeret, ſaepe quo que ipſum hortabatur,, ut ea pergeret man dare litteris, quae abdita Chriſtianae anti quitatis patefacerent. Sed fuerunt juftae ca uffae quare. C. amantiffimis. Pontificis M. conſiliis minime obtemperavit; & quid quid fubciſivorum temporum incurrebat, quae perire non patiebatur, libentiffime concedebat ſuis priſtinis ftudiis. Ruſticabar cum eo in Tuſculano, quando epiſtolam ſcripſit ad Paullum Mariam Paciaudium, in qua plura de Gotarzis eximio nummo, ejuſque, Bar danis, & Artabani Parthiae Regum hiſtoria perſecutus eſt, & pro jure noftrae amicitiae ab ipſo poftulabam, ut in otio, quod raro da batur, & peroptato illi dabatur, ceffaret a libris & a ftilo. Verum cuin is eſſet ut fi ne his ftudiis vitam inſuavem duceret, di cere folebat hujuſmodi ſcriptiones non pre mere, ſed relaxare animum. Et relaxatione certę aliqua ille indigebat, cui grave adeo erat, quod multi appetunt, ceteros regendi munus, ut onus Aetna majus ſibi ſụſtinere videretur. Poterat quidein illi eſſe lovaniens to recordatio multorum benefactorum, inas ter quae maximum illud reputari debet quod eo ſexennio, quo ad Sodalitatis gum. bernaculum ſedit, viginti domus, five cole legia conſtituta ſunt. Interim advenit tem pus, quo magiſtratu fe abdicare, & extre mos auctoritatis fuae fructus capere debe bat in provehendo digno viro, qui fibi fuc cederet. Verum minime illi: contigit, ut funt ancipites variique caſus comitiorum, quem optabat, exitus. Peractis comitiis, fine mora rediit ad Academiam Piſanam & ad il lamºquietam in rerum contemplatione & co gnitione maxime poſitam degendae vitae rae tionem, qua qui frueretur, negabat ei aliquid deeffe ad beatė vivenduin. Liber de Praefe. ctis Urbis ei erat in manibus; Graecas in fcriptiones in Aſia repertas, quas, ut ſupra retulimus, a Scipione Maffejo dono accepe rat, quafque jampridem Latinas fecerat, co pioſis commentariis explicabat; aderat diſci pulis ſuis; veniebat frequens in Academiam, afferebat res multum & diu cogitatas, facie batque fibi audientiam hominis erudita, com pta & mitis oratio. Idem efflagitatu & coae tu amicorum inftituta. hoc tempore opera abrupit, ut explicationem lucubraret cujuf dam nummi recens in Auſtria reperti, in quo erat nomen & imago Sulpiciae Dryan tillae Auguſtae. Conjecit ille feminam hanc libertam fuiſſe, libertatémque accepiffe a Sul picio quodam, ab eoque in Sulpiciam ģen tem receptam; nupfiffe demum Carinó fcea leftiffimo Imperatori. Haec porro incerta. Illud unuin ſine ulla dubitatione colligi pof fe videtur ex nummi fabrica, characterum forma, feminaeque ornatu, illum ipſum num mum cuſum fuiſſe inter Elagabali & Diocle tiani imperium, proptereaque Dryantillam ad aliquem Imperatorum, qui illo intervallo re gnarunt, pertinere. Neque his contentus Edu ardus voluit etiam excutere hiſtoricorum & rei nummariae interpretum mire inter fe dif ſidentes opiniones de Aureliani ac Vaballa thi imperio atque aetate, ac poftremo ſuam ſententiam proferre. Fuit haec, Aurelianum exeunte Julio, vel ineunte Auguſto imperium ſuſcepiſſe, eaque multis & gravibus confirmatur argumentis. Ad ex vero diluenda, quae contra dici poterant ex illorum ſententia, qui praeſertim niti vide bantur lege quadam data a Claudio VII. Kal. Novembris Antiochiano & Orfito Con ſulibus, ut ſerius Aurelianum inchoaffe im perium perſuaderent, diſtinguit Conſules or dinarios a ſuffectis. Hac autem conſtabilita diſtinctione, quae maxime apta erat non fo lum ad id, quod requirebat, ſed etiam ad expediendos alios, quos vel ipſe Scaliger in diffolubiles in Chronologia exiſtimaverat now dos, concludit eamdem legem editam fuiffe anno quando An tiochianus & Orfitus ſuffecti Conſules erant, minime vero anno cclxx. iiſdem Confuli bus ordinariis. Nec minor difficultas erat o ſtendere, qui fieri potuerit, ut Aurelianus ad vil. Imperii annum perveniffe dicatur, & explicare locum Euſebii, qui tradit in ejuſdem tempora incidiffe in. Antiochenam Synodum: exploratnm eft enim hanc Sya nodum anno cclxix. incoeptam & abſolu tam fuiſſe. Feliciter haec praeftitit Corſi nius, cum probaſſet Aurelianum anno & ultra antequam a legionibus poft mortem Claudii Imperator fieret, ab ipfo Claudio deſtinatum ſibi fuiſſe ſucceſſoreni, adeoque ampla poteſtate donatum ut ab hoc tema pore nonnulli ejus Imperii initium ſumere potuerint. Quae vero de Vaballatho diſream ruit C. haec ferme ſunt. Illum Ze nobia procreavit ex Athena priori viro, ejuf demque nomine ab uſque dum Claudius in Gothicum bellum uni ce intentus vixit, Orientis imperium te H4 ut nuit. Ex quo factum eſt, ut quae hoc tem pore cuſa funt Vaballathi numiſmata, Impe. satorem Caefarem Auguftum illum nominent. Poftquam vero ille deſciviſſet a matre, Aureliano adhaereret, huic quidem conjun octus in nummis repraefentari voluit, minime vero paludamento, radiata corona, fplendi doque Augufti nomine decoratus, ſolo Im peratoris contentus. Praetereo alia multa Scitu digniſſima in hac Diſſertatione conten ta, ne, cum nimis longus in recenfendis ſcriptis operibus fuerim, videar oblitus con ſuetudinis & inſtituti mei. Hujus libelli (cil ra liberatus C. totus in eo fuit, ut ab Solveret ſeriem Praefectorum Urbis ab Urbe con dita ad annum afque five a Chri fto nato DC. Etenim poſteriora tempora mi nime inquirenda putavit, quibus, penitus fere exſtincto Urbanae Praefecturae fplendo re ac dignitate, nonniſi tenue nomen, ac leviſſima priſtinae majeſtatis umbra ſuperfuit; ex quo fiebat, ut nihil inde lucis facra & profana ſperare poffet hiſtoria, cum contra uberrimam fplendidiffimamque utraque acci. peret ex veterum Praefectorum ferie, horumque aetate rite conſtituta. Ut vero non utilitate ſolum, ſed etiam jucunditate lecto res invitaret C., operi varia opportu ne admifcuit, quae marmora & ſcriptores, quorum teftimoniis ubique fere utitur, cor rigunt & illuſtrant, interpretumque falſas opiniones atque errores emendant. Non ego ſum neſcius multos anteceſſiſſe Corſinium in hujuſmodi pertractando argumento; ex qui bus omnibus, ac praefertim Jacobo Gotho fredo ac Tillemontio plurima in rem ſuam tranftulit. Sed ii exiguis finibus operam fuam continuerunt, fi unum excipias Feli cem Contelorium, qui contextam a Panvi. nio Praefectorum ſeriem ad annum uſque traduxit. Tale tamen non fuit Contelorii opus, quin eadem de re aliquid politius, copiofius, perfectiuſque proferri a C. potuerit. Et protuliffe certe ipſum oportet, cum magna fuorum laborum prac conia ab intelligentibus viris reportaverit. Mi rari hi tantummodo viſi ſunt quod aut is in gnoraverit hac ipſa in re plurimum quoque elaboraſſe Almeloveenium, aut quod hujus fcripta conſulere praetermiſerit. Id profecto & praeſtitiſfet abundantius & copiofius pro poſitae fibi rei ſatisfacere potuiſſet, neque poftea ventofiffimi homines triftem fuftinuif fent notam calumniatorum, qui nullo in pre tio ob pauca quaedam a C. praetermif ſa hujus opus habendum inflatis buccis clamitarunt. Ne hi verbofis fibi famam ad quirerent ſtrophis vel apud imperitam mul titudinem, factum eſt diligentia Cajetani Mari nii, qui librum Bononiae edidit, quo non folum eorum obftitit injuriis, verum etiam nova a ſe inſcriptionum ope detecta Praefectorum Urbis nomina in lucem protulit. Sed ad C. revertor, qui dum fine intermiſſione obſequebatur ftudiis ſuis & adoleſcentium utilitati, oblitus vide batur fe jam fenem factum (quando enim typis mandavit librum de Praefectis Urbanis ſexageſimum primum aetatis annum agebat ) & infirma aegraque valetudine effe. Sed ac Hujus eſt inſcriptio: Difefa per la ſerie de' Pree fetti di Roma del Ch. P. Corfini contro la cenſura farie. le nelle offervazioni ſul Giornale Piſano, in cui le della Serie si suppliſce anche in affai luoghi e le emenda. In Bon logna e AQUINO (si veda) in 4. Vide Pilanas Ephcm meridcs eidit miſerabilis caſus, qui repente ipſi onga nem ſpem non folum litteris, ſed etiam na: turae vivendi praecidit. Erat haec conſuetu. do Academiae Piſanae, ut qui humaniores lite teras profitebantur, Kalendis Novembris, quo tempore inftaurari ftudia folebant,  LATINAM  om rationem haberent ad vehementius inflamman dam cupidam doctrinarum juventutem. Di cebat eo ipſo die Eduardus (vertebat tunc annus tertius fupra fexageſimum hujus fae tuli ) de viris, qui & ſcriptis editis, in ventiſque rebus in Academia maxime florue runt, eaque erat oratio, ut nunquam is di xiſſe melius judicaretur. Cum eo pervenirſet, ut exultaret in immenſo GALILEI (si veda) laudum campo, repente apoplexis ipſum perculit, ac ſemivivum reliquit. Dolore hujus caſus o ſtenſum eft quantum ille Academiae eſſet ac ceptus. Aegre domum deductus, ibi quatri duo cum morte conflictatus eſt. Quinto die, multis adhibitis remediis, levari coepit, ac praeter ſpem paullatim convaluit. Ut arden ter deſideraret priſtinas recuperare vires, efficiebat ille fuus ſingularis amor in Aca demiam, cui majus ſe non poſſe munus afferre videbat, quam fi inſtitutum juſſu Prin cipis biennio fere ante opus de ejuſdem Academiae ortu, progreſſu ac vicibus ad umbilicum perduceret. Plurima collegerat at que vulgaverat ad hanc hiſtoriam pertinen tia vir diligentiſſimus Stephanus Maria Fa bruccius Juris civilis in eadem Academia do ctor, quae quidem ampla & bella materies effe poterant ad novum aedificandum opus. Hoc igitur ſubſidio inſtructus Eduardus, ala cer ſe ſe ad rem accinxit. Et primo quidem ILLUSTRIVM ITALICORVM GYMNASIORVM ori ginem ſubtexuit, diſſerenfque quatuor prio ribus capitibus de prima GYMNASII PISANIi institutione, neque ab xi. neque a xiv. Chris fti faeculo, ut multi ſcripſerunt, fed ab ine unte XIII. vel exeunte xii. illam repeten dam effe exiſtimavit. Ex hoc tempore ad annum uſque, quo anno Fa bruccius contendit coepiſſe Academiam Piſa nam, hanc fi nullam dicere nolumus, mi nimain certe fuiſſe oportet. Conſecutae des inceps yices multae, ut ipſa modo langues ſcere, modo ad interitum properare, vires vitamque modo recuperare, ac faepe etiam veluti extorris ſedem mutare viſa fuerit, Quae omnia octo conſeqılentibus capitibus perſecutus eft Eduardus. Cum vero Acade miae res, imperante Coſmo I. ceteriſque.non solum Mediceis, sed etiam Lotharingis Principibus, feliciflime proceſſiſſent, quibus ab his beneficiis, ſplendore atque gloria aucta, quibuſque gubernata legibus consuetudinibusque, variis interdum pro temporum varietate, exposuit in quatuordecim capitibus, quo rum nonnulla adumbrata magis quam de fçripta videntur. Haec omnia primam ope ris partem conficere debebant, cum refer vafſet alteram, quam tamen minime attigit, Doctorum vitis. Dum haec scripta legebam videbatur mihi pofſe ab Auctore defiderari major rerum copia, magiſque apta ac preſ fa oratio. Inest quidem in omnibus C. scriptis luxuries quaedam, quae, ut in herbis ruſtici ſolent, depaſcenda erat; quod fi eft vitium in omni oratione, maximum tamen eſt in hiſtoria, in qua pura & illu fțris brevitas expetitur. Eodem tempore, quo Eduardus in Academiae historiam incumbebat, ne plane superioris aetatis Audia de servisse videretur, epistolam fcripfit ad ami cum & collegam fuum Franciſcum Albi zium, in qua de Auſonii Burdigalensi consulatu egit, Desperaverant vel ipsi chronologiae Patres Panvinius & Pagius, computationem quamdam annorum ah. Auſonio factam in e pigrammate, ad Proculum, in quo, ab Urbe condita ad consulatum suum annos enumeravit, conciliari posse, cum Varroniana epocha, ideoque, novam excogitarunt epocham XIII. annis Varroniana pofte riorem, qua non solum Ausonium, sed etiam Arnobium usos fuisse scripserunt. Horum aliorumque Auſonii interpretum errorem ut corrigeret Eduardus, probare debuit. Auſonium non Romanum, modo, fed & Bur digalenſem geffiffe consulatum, & Romanorum & Burdigalenfium Consulum fastos conscripsisse. Qua distinctione constabilita, facile fuit oftendere eumdem Aufonium in ea pigrammate, quod ad Heſperium filium ini fit cum Romanis faſtis, de Romano, a ſe ges: ſto consulatu, in epigrammate autem illo, quod est ad Proculum, de patrio, municipali, quinquennali (etenim in municipis omnibus majores magiſtratus quinquennales eſſe ſolebant) de Burdigalenſi nimirum con. ſulatu locutum fuisse. Hanc epistolam secuata est altera ad Joannem Chrysostomum Trom. bellium Canonicum Regularem, in qua do nummo quodam ab Athenienſibus Livia Augustae dicato, illiuſque aetate differens, feminam illam non ſupremis tabulis, ſed matrimonii jure a marito nomen Auguſtae accepiſſe pluribus monumentis comprobat. Quae quidem aliaque ex abditiſſima antiqui. tate deprompta, quae fparfit C. in hac epiſtola, ut jucunda lectoribus, ita iif dem plena moeroris fore arbitror, quae in extrema pagina ejuſdem epifolae Trombel lius adnotavit. Scribit enim ille: Dum extre mam hujus epiſtolae partem edimus, monemur, eodem fere tempore, quo Brixiae egregius Maza zuchellius, inclytum Corfinium noftrum Pisis apoplexi repente ereptum. Eheu litterae aflicłae ! o amicos incomparabiles ! o annum vere calami 10fum & peffimum ! Dies, quo illum apople xis iterum invafit, fuit v. ante poft quem caſum tribus ferme diebus vixit fine ſenſu, Sepultanta tus eft in Aede S. Euphraſiae totius Acade miae luctu, quae hanc calamitatem acerbif fime doluit, doletque adhuc reminiſcens ſe orbatam homine, in quo plurimae erant lit terae eaeque interiores, divinum ingenium, ac induſtria fumma; fruebatur vero nominis celebritate, ut hac fola muneris fui fplendorem tueri potuiſſet. Atque haec vi tae decorabat dignitas & integritas. Quan tả gravitas mixta comitati in yultu & moribus ! quantum pondus in verbis ! ut nihil inconſideratum exibat ex ore ! quam diligen ter inquirebat in fè ſe, atque ipſe ſe ſe ob Servabat I Oinnino tantus erat in ipso ordo, conſtantia, & moderatio dictorum omnium atque factorum, ut probitatem & religio nem prae se ferret, & ad omne virtutis de cits natus videretur. Quidquid come loquens, & omnia dulcia dicens mirabiliter ad se diligendum omnium ani mos alliciebat; si vero in familiari sermo ne a quopiam dissentiret, contentiones disputationesque vitabat, quod non tam na turae quam virtutis erat. Etenim iracun diae aculeos aliquando sentiebat, sed hos perpetuus cupiditatum domitor frangebat, pla neque occultabat. Secum ipſe vivens animi triftitiam frequenter patiebatur, praeſertim si contemplaretur misera, in quae incidimus, tempora, quibus corrumpere, & corrumpi saeculum vocatur. Quod vero nonnulli per verſe adeo abuterentur philofophia, ac prae ſertim metaphyſica, ut ea animos a religio ne avocarent, tanto illum perfundebat horrore, ut vehementer poenitere eum non nunquam videretur industriae suae, quam in erudienda juventute ad recentiorum philoſo phorum dogmata inſumpſerat. Quae quidem poenitentia injurioſa mihi videtur; omnium artium parenti philosophiae, quasi ejus culpa, quae deflebat mala C., accidif ſent. Etenim ſunt unicuique ſcientiae: certi fines ac termini ab omnium rerum modera tore Deo constituti, quos qui tranfilit, nae ille devius in praecipitem locum ruat necese est. Sed ad C. revertor, de cujus laudibus non eft tacendum ſummae illum bonitati ingenuitatique ſummam dexterita tem, ſi oportuiſſet, conjűxisse. Liberalis minimeque cupidus pecuniae hanc facile a se extorqueri patiebatur. Virorum litteris illus ftrium amicitias ftudiofillime coluit, amavitque in primis Trombellium & Paciaudium, quo rum mentionem fupra fecimus, quorumque conſuetudinis magnum cepit fructum eo prae sertim tempore, quo Romae fuit. Dolui in pſum combufliffe, quas ab amicis accipere solebat, epistolas, quia ſciebam in iis erudita multa contineri: eae quidem mihi non me diocri subsidio futurae fuiſſent huic explican dae vitae. De qua fatis erit dictum, fi hoc unum addam, eumdem ineditas reliquiffe bi nas Dissertationes de S. Petro Igneo, & B. Joanne delle Celle; librum de civitatibus, quarum mentio sit in graecis nummis, ſex que Latinas orationes habitas in Academia Piſana, ex quibus lenitas ejus fine nervis cognoſci potest. Opere: “Instıutiones philosophicae, ac Mathemaricae ad ufum Scholarum Piarum: Florentiae typis Paperini, continens physicam generalem, continens libros de coelo Es mundo, continens tractarum de anima, E metaphysicam  continens ethicam vel moralem continens institutiones mathematicas Editae iterum fucrunt hae institutiones in V. mos diſtributae Bononiac ex ty pograghia Laclii a Vulpe cum hoc titulo Cl. Reg: Scholarum Piarum, & in Pisana Academia Philosophiae Professoris Institutiones Philosophicae ad un fum scholarum Piarum edirio altera auctior & emendarior; Ragionamenti intorno allo fato del fiume Arno, dell acque della Valdinievole, In Colania appresso Heng Werergroot, in 4. “Elementi di Matiemasica, ne' quali sono con migliori ardine e nikovo metodo dimostrare le più nobili e necesaria proposizioni di Euclide, Apollonio, e Archimede, Ch. Reg. delle Scuole Pie: in Firenze. nella Stamperia di S. A. R. per li Tartini, e Frasa ahi in 8. Hace elementa mathematica edita secundo fuerunt Year I 2 1 netiis apud Antonium Perlinum, in qua edie tione quaedam mutata ſunt, emendatufque error, quo cao ptus fuerat Auctor, dum in priori editione exposuit propoíitionem XXXV Venetae huic editioni a djc&us est ejusdem Auctoris liber della Geometria Pranica; Ragionamento Istorico Sopra la Valdichiana, in cui si descrive la antica e presente suo stato” (Firenze, Moucke); “Faſii Anici in quibus Archonium Athenienfium sea ries, Philosophorum, aliorumque illustrium Virorum deras arque praecipua Acicae historiae capita per Olympicos annos disposita describuntur, novisque observationibus illustrantur: ACl. Reg. Scholarum Piarum in Pisana Academia Philosophiae Professore, Florentiae, ex typographia. Giovannelli ad insigne Palmae in Platea S. Eliſabeth. ex Imperiali typographia Cl. Reg. Scholarum Piarum in Acadeo mia Pisana Philosophiae Profeſoris Differtationes. Agonisticae, quibus Olympiorum, Phychiorum, Nemeurum, ale que Isthmorum lempus inquiriiur ac demonftrarur: Aco redit Hieronicarum catalogus eduis longe uberior Es accurarior. Florenciae ex typographia Imperiali. In cxtrema pagina hujus libri öxhibetur integra feries menfium Macedonicorum, Atticorum, & Romanorum ad de mondirandun veruna corum ficum ac connexionem; quam ſeriem hoc quoque in loco nos exponemus, quia rem gratam antiquitatis ſtudioſis facturos arbitramur. Series enim a C. contexta differt nonnullis in nienſibus ab ca quam Scaliger, Uſterius, Petavius, Dodwellus, aliique descripferunt, i Macedonici Atrici Romani Lous Gorpiaeus Hyperbercraeus Dlus Apellaeus Audynaeus Peritius Dystrus Xanthicus Artemisius Daiſius Panemus Hecatombeeon Meragirnion Boedromion Pyanepſion Maemacterion Pofideon Gamelion Anthefterion Elaphebolion Murychion Thargelion Scirrhophorion Julius Augustus September October November December Januarius Februarius Marrius Aprilis Majus Junius Lettere intorno al saggio di Maffei intitolato: Graecorum Siglae lapidariae. Extat del Giornale de’ Letterati pubblicaro in Firenze notae graecorum, five vocum Ex numerorum compen dia, quae in aereis atque marmoreis Graecoruin rabulis ob. fervantur. Collegii, recenſuit, explicavit, eaſdemque cabu las opportune riluftravia C. Cl. Reg. Scholas) rum Piarum in academik Piſina Philoſophiae Profesor. Accedunt Differtationes ſex, quibus marmora quaedam rum facra cum profana exponuntur ac emendantur. Florentine Tographio Imperiali in fol. Plutarchi de Placitis Philofophorum libri V. Larine reddidit, recenſuir, adnotationibus, variantibus lectionibus, diferrationibus illuſtravit C. Cl. Reg. Schoe laruan Piarum in Pisana Acad. Philosophia Professor Flo. seniige ex Imp. Typographio, Disertationes quibus antiqua quaedam insignia moc sumente illuſtrantur. Vide eas, Symbolarara litercriarum Antonii Francisci Gorii. Herculis quies & expiatio in eximio Farnesiano mere more expresa: in fol. Inscriptiones Articae nunc primum ex Cl. Maffeii Schea dis in lucem editae latina interpretatione brevibusque observationibus illuſtratae Cler. Regul. Schole sunr Puarum in Academia Pisana Philosophiae Professore. Florenciae ansio ex typographio Jo. Pauli Giovannel li in 4. Solecta ex Graeciae Scriptoribus in usum ſtudiosae Juvent. sutis, Florentiae ex Imperiali rypographio ir 8. Inſtitutiones Metaphyſicae in ufus Academicos auctore Eduardo Corfi:n0 Clericorum Regularium Scholarum Piaruz in Academia Pifana. Philoſophiae Profeſore. Vesieriis ex Typographia Balleoniana in 12 C. Cl. Reg. Scholarum Piarum in Accodemia Pisana humaniorum litterarum Profeſſoris de Minni fari aliorumque Armeniac Regum nummis, & Arſacidarum Epocha Differtario Liburni typis Antonii Santini & Sociorum in 4. Spiegazione di due antichiſſime inſcriçroni Greche indie ricare al Reverendiffimo Padre Anton Franceſco Vezzofi, Prepoſto Generale de Cherici Regolari, Lettore nella Seo pienza Romana, ed Eſaminatore de' Vefcovi da Edoardo Corfini Ch. Reg. delle Scuole Pie. In Roma, nella Stamperia di Giovanni Zempel; Relazione dello scuoprimento e ricognizione fatta in Ancona dei Sacri Corpi di S. Ciriaco, Marcellino, e Lia berio Proiettori della Circà; e Riflefroni ſopra la translazione, ed il culto di queſte Sanci. In Roma, nellu Stamperia di Zempel in 4. Eduardi Corfini Cler. Regul. Scholarum Piarum, En in Academia Piſana humaniorum literarum Profeffuris Dis Seseario, in qua dubia adverſus Minniſari Regis nummum, & novam Arſacidarum epocham a Cl. Erasmo Froelichio s. J. proposita diluuntur. Romae ex typographio Palla dis in 4. C. Cler. Regul. Scholarum Piarum & in Academia Pisana humaniorum lirerarum Profeſoris ad Cles riflimam virum Paulum Mariam Paciaudium Epiſtola, ir qua Gotarzis Parthiae Regis nummus hactenus ineditos expli Catur, & plura Parthicae hiſtoriae capita illustrantur. Romae, in Typographio Palladis. Excudebant Nicolaus & Marcus Palearini ir 4.Cl. Reg. Scholarum Piarum in Pifar:& Academia humaniorum litterarum Profeſoris Epiftolae rres, quibus Sulpiciae. Dryantillae, Aureliani ac Vaballathi Avea guſtorum nummi explicantur & illuſtrantur. Liburni apud Jo. Paullus Fanthechiam ad fignum Verit. in 4. Series Praefeciorum Urbis ab Urbe condira ad annum uſque sive a Chriſto naro DC. collegit, rem cenſuit, illuſtravir Eduardus Corſinus Cler. Reg. Scholarum Piarum in Academia Piſana humaniorum liuerarum Professor Pisis excudebar Joh. Paulus Giovane nelius Academiae Pifunae Typographus cum Sociis in 4. Notizie Iſtoriche intorno a S. Liberio ſepolto e venera 10 nella Cattedrale della città di Ancona all' Eminentiffimo Signor Cardinale Acciajuoli Veſcovo di detta città. In Are cona nella Sramperia Bellelli in 4.  Cl. Reg. Scholarum Piarum, in Academia Piſana humaniorum litterarum Profeſoris Epiſtola de Burdigalenfi Aufonii Confulatu. Piſis Exe cudehar Joh. Paulus Giovannellius Academiae Pifanae inyo pographus cum Sociis in 4. Clericor. Regular. Scholarum Pia rum Ex- generalis, & in Pifana Univerſitare Primarii Les coris ed Joannem Chryſostomum Trombellium canonicorum Regularium Congregationis S. Salvatoris Ex-generalem & S. Salvatoris Bononiae Abbatem Epistola, Bunoniae,  ex typographia Longhi in 4; Disertazione sopra S. Pietro Ignes, sopra il B. Giovanni delle Celle; De Civitatibus, quarum mentio sit in Graecis nummis, Pars I. 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Grice e Cortese: l’implicatura conversazionale del segno naturale -- del principio del significato – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. e alpinista. Grice: “I love Cortese; first he wrote on Frege, whose views on ‘aber’ are very much like mine on ‘but’! – But then he also wrote on ‘irony,’ alla Socrates – as per Kierkegaard’s example, “He’s a fine fellow! => He’s a scouncrel --, and most ‘theoretically,’ as the Italians put it – on the ‘principle of meaning’ – significato – which had me thinking – I very freely speak of the principle of conversational helpfulness, but somehow, principle of ‘signification’ sounds obtuse! Signification seems too natural to require a principle! If helpfulness and benevolence are evolutionary traits, they are certainly NOT ‘instituted’ as principles, even if they are requirements for trust and the ‘institution of decisions’!” “I am anything but a contractualist, and principle has to be taken with a pinch of salt!” If I speak of a rational constraint, the idea of a principle evaporates: it’s conversation as rational cooperation – as I put it – as different from and stronger than ‘conversation as mere cooperation’ – but this slogan frees us from a commitment to the existence of a ‘principle’ to which we might want later to provide with some sort of ‘psycho-logical’ validation!” Di una famiglia originaria di Sant’Angelo Lodigiano. Si laurea a Trieste e Milano sotto Bontadini e Noce. Insegna a Trieste. Studia Kierkegaard, Gioberti. Italianismi in Kierkegaard. Altre opere: “Kirkegaardiana” (Milano); “Esistenzialismo e fenomenologia” SEI, Torino); “Protologia e temporalità, Gregoriana, Roma); “Kierkegaard” (Milan); “Del principio di creazione o del significato” Liviana, Padova, Kierkegaard” (La scuola, Brescia); “Ironia” (Marietti, Genova); La Creazione: Un'apologia accidentale della filosofia” (Marietti, Genova); “Il negozio del sapone, Liviana, Padova); “Enten-Eller ([Victor Eremita” (Adelphi, Milano); “L'attrice” (Antilia, Treviso); “Un discorso edificante” (Marietti, Genova); Il naturale e il sovra-naturale (Padova); Ermeneutica” (Lint, Trieste), “Il responsabile” – “Eden” – “Introduzione all’introduzione” del Gioberti – “Frege: signare il concetto”; “Liberalismo”Meteorologia branca delle scienze dell'atmosfera Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento meteorologia non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. La meteorologia[1] (dal greco μετεωρολογία, letteralmente "studio dei fenomeni celesti"[2]) è il ramo delle scienze dell'atmosfera e della Terra che studia i fenomeni fisici che avvengono nell'atmosfera terrestre (troposfera) e responsabili del tempo atmosferico.   Cumulonembo calvus, nube convettiva in atmosfera StoriaModifica Magnifying glass icon mgx2.svg Storia della meteorologia.  Rappresentazione di venti e meteorologia in una tavola degli Acta Eruditorum del 1716 Il termine deriva dal greco μετεωρολογία, meteōrología, da μετέωρος metéōros, "elevato" e λέγω légō, "parlo", quindi "discorso razionale intorno agli oggetti alti": la parola μετέωρος ha un'etimologiaincerta, forse derivato dal termine metá in italiano ‘’oltre’’ e ourea ovvero il termine arcaico greco per ‘’montagne’’ quindi Oltre i Monti [3], o forse da μετά metá "con, dopo" e αἴρω áirō "alzo".[4] Dopo le prime intuizioni dei greci si è dovuto attendere fino alla seconda metà del XX secolo quando, con l'arrivo dei calcolatori elettronici, l'uomo ha avuto la possibilità di eseguire in un tempo ragionevole le tante operazioni di calcolo che caratterizzano l'elaborazione a mezzo di un modello meteorologico. Gli oggetti che cadono dal cielo più frequentemente sul nostro pianeta sono le idrometeore, vale a dire particelle costituite da acquanella sua forma liquida (pioggia) o solida (neve, cristalli di ghiaccio, grandine o neve tonda).  DescrizioneModifica  Circolazione generale dell'atmosfera  Ciclone extratropicale  Fronte caldo  Fronte freddo  Fronte occluso In particolare lo studio dell'atmosfera è lo studio sia sperimentale dei suoi parametri fondamentali (temperatura dell'aria, umidità atmosferica, pressione atmosferica, radiazione solare, vento), attraverso l'uso di osservazioni e misurazioni dirette e indirette a mezzo di stazioni meteorologiche, palloni, sonde, razzi e satelliti meteorologici equipaggiati della necessaria strumentazione, sia teorico, facente cioè uso dell'astrazione propria del linguaggio della fisica matematica per la quantificazione delle leggi fisiche o processi (appartenenti alla fisica dell'atmosfera) che intercorrono tra essi.  I due approcci confluiscono nel risultato finale ovvero l'ideazione, l'implementazione e l'inizializzazione di modelli matematici in grado di ottenere una previsione o prognosi a breve scadenza dei vari fenomeni atmosferici (nubi, perturbazioni, vento, precipitazioni tramite i cosiddetti modelli meteorologici) su un dato territorio (previsione del tempo).  Tempo meteorologico e climaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Tempo meteorologico, Clima e Variabilità meteorologica. Obiettivo della meteorologia è quello di misurare direttamente i parametri fisici atmosferici istantanei e cercare di fornire previsioni su determinati eventi atmosferici futuri, studiando dunque i fenomeni di breve durata che caratterizzano il tempo meteorologico; la raccolta di dati sul lungo periodo è utile invece a livello climatologico studiando l'andamento medio del tempo atmosferico di una regione in un certo lasso temporale: mentre il tempo atmosferico è definito come l'insieme delle condizioni atmosferiche in un certo istante temporale su un dato territorio, il clima invece è l'insieme delle condizioni meteorologiche medie di un territorio su di un arco temporale di almeno 30 anni, come stabilito dall'Organizzazione Meteorologica Mondiale (OMM): talune analisi che si riferiscono in primis all'ambito meteorologico non possono dunque essere estese all'ambito climatologico essendo questo una media statistica sul lungo periodo, oggetto di studio di quella scienza affine che è appunto la climatologia; quindi mentre la meteorologia ha come finalità ultime la comprensione dei fenomeni atmosferici a breve scadenza con relativa previsione, la climatologia studia invece i processi dinamici che modificano le condizioni atmosferiche medie a lunga scadenza, come ad es. i cambiamenti climatici.  Principali fenomeni meteorologiciModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Fisica dell'atmosfera. L'atmosfera terrestre è un gigantesco sistema termo-fluidodinamico, accoppiato con il sistema oceanico, la biosfera e la criosfera, e mosso da una sorgente di energia termica sotto forma di radiazioni che è il Sole. La natura dinamica e intrinsecamente caotica o turbolenta dell'atmosfera si esplica attraverso la circolazione generale dell'atmosfera e una serie innumerevole di fenomeni atmosferici che quotidianamente osserviamo. Gran parte di questi fenomeni possono essere inclusi in tre grandi categorie di processi:  i processi di redistribuzione del calore, sia in verticale attraverso il trasferimento radiativo e convettivo, sia in orizzontale (a piccola, media e larga scala) attraverso i venti e la circolazione generale dell'atmosfera. i processi atmosferici coinvolti nel ciclo dell'acqua, innescati a loro volta dai processi radiativi, quali evaporazione, condensazione, nubi, precipitazioni e i fenomeni perturbativi ad essi associati (a piccola, media e larga scala) quali fronti meteorologici, cicloni extratropicali, cicloni tropicali, temporali, rovesci, tornado ecc. i processi legati all'elettricità atmosferica, come i fulmini. Le prime due categorie di processi sono intimamente connesse giacché evaporazione, condensazione e formazioni cicloniche contribuiscono anch'esse al trasporto dell'energia nel sistema sia in verticale che in orizzontale e allo stesso tempo da essi innescati.  I vari fenomeni meteorologici sono classificati all'interno della cosiddetta scala dei moti atmosferici a seconda delle dimensioni del territorio, del tipo di analisi richiesta e dell'intervallo temporale di interesse in cui essi insistono.  StrumentazioniModifica  Strumentazione di una stazione meteorologica  Satellite meteorologico(Meteosat) Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Stazione meteorologica. L'uomo ha anche costruito nuovi strumenti per osservare le varie interazioni; i seguenti strumenti sono stati approvati dall'Organizzazione Meteorologica Mondiale (OMM), e molti di essi vengono utilizzati in ogni stazione meteorologicamondiale:   radiometri e scatterometri localizzati su satelliti meteorologici misurano l'energia elettromagnetica reirradiata dal pianeta verso lo spazio esterno, fornendo quindi un'immagine dello stato dell'atmosfera e della presenza di nuvole termometri (es. a minima e massima), per la misurazione della temperatura; igrometri, per la misurazione dell'umidità; psicrometri, per la misurazione dell'umidità; termoigrometri, per la registrazione della temperatura e dell'umidità; pluviometri/pluviografi, per la misurazione delle quantità di pioggia; nivometri, per la misurazione dell'accumulo di neve al suolo; anemometri, per la misurazione della forza e della direzione dei venti; trasmissometri, per la misurazione della visibilità; palloni sonda per radiosondaggi: attraversano verticalmente l'atmosfera per ottenere profili verticali di pressione, temperatura, umidità e vento (sono per ora la principale fonte di dati per i modelli meteorologici); boe galleggianti e navi meteorologiche, per l'osservazione delle condizioni meteorologiche in mare aperto; radar meteorologici. Irradiano energia elettromagnetica e ricavano informazioni sull'atmosfera analizzando le caratteristiche del segnale da essa riflesso. Sono utilizzati per individuare eventi di precipitazione, stimarne l'entità e prevederne l'evoluzione a breve termine (nowcasting), e in alcuni casi per sondare la struttura interna delle nubi. Possono essere installati a terra o su satellite; satelliti meteorologici, cioè satelliti che ruotano attorno alla terra per inviare al suolo immagini del movimento delle nubi e le mappe della temperatura. I satelliti si dividono in geostazionari e a orbita polare. Si possono visualizzare le immagini dei satelliti su molti siti web. Previsioni meteorologiche Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Previsione meteorologica.  Manica a vento, uno dei simboli della Meteorologia  Immagine del NOAA  Carta meteorologica di previsione a 500 hp Le previsioni meteorologiche si ottengono solitamente dalla seguente procedura:  osservazione e misurazione delle variabili atmosferiche (es. velocità e direzione del vento, temperatura dell'aria, umidità, pressione); trascrizione, studio ed elaborazione dei dati rilevati su carte sinottiche o assimilando i dati attraverso modelli matematici che girano su calcolatori numerici, dove in quest'ultimo caso, viene prodotta la situazione meteorologica di un determinato momento, chiamata analisi; prognosi futura a partire dalle carte sinottiche oppure facendo evolvere la condizione iniziale tramite uso dei modelli matematici meteorologici (previsione). Ambiti di studioModifica All'interno della disciplina vi sono vari ambiti di studio:  la meteorologia sinottica che studia in maniera qualitativa e quantitativa l'evoluzione delle condizioni atmosferiche di vaste porzioni dell'atmosfera stessa (superiori ai 1000 km) tramite l'uso di carte meteo, nozioni empiriche, metodo delle analogie ecc. la meteorologia dinamica che, partendo dalle equazioni di base della fluidodinamica, cerca di spiegare formazione e sviluppo dei fenomeni osservati (detta anche meteorologia fisica o teorica). la meteorologia numerica, si occupa di definire e affinare i modelli numerici di previsione meteorologica la meteorologia satellitare, che si avvale delle analisi di telerilevamento atmosferico e quindi dei relativi dati trasmessi a terra dai satelliti meteorologicicome ad esempio i satelliti Meteosat. la radarmeteorologia che si avvale dei dati raccolti dai radar meteorologici dislocati sul territorio per affrontare la previsione meteo a brevissima scadenza (nowcasting). la meteorologia aeronautica, che si occupa principalmente dei fenomeni rilevanti per la navigazione aerea; la meteorologia spaziale che si occupa del cosiddetto tempo meteorologico spaziale in alta atmosfera; la meteorologia ambientale che studia pollini e dinamica degli inquinanti in atmosfera; l'agrometeorologia che studia le relazioni tra tempo atmosferico e agricoltura[5]; Meteorologi famosiModifica Edmondo Bernacca Andrea Baroni Plinio Rovesti Guido Caroselli Mario Giuliacci Guido Guidi Paolo Sottocorona Paolo Corazzon Luca Mercalli Andrea Giuliacci Daniele Izzo NoteModifica ^ Anche se spesso viene usata, la grafia metereologia non è corretta, come dimostra l'etimologia greca; cfr. anche l'abbreviazione meteo. ^ meteorologìa in Vocabolario, su Treccani Con la stessa etimologia delle antiche divinità della cosmogonia greca Ouranos (Cieli) e Ourea (Montagne) ^ Franco Montanari, Vocabolario della lingua greca, Torino, Loescher, 1995, p. 1276. ^ Luigi Mariani Clima e agricoltura Rivista I tempi della terra su itempidellaterra.org. URL consultato il 17 gennaio 2019 (archiviato dall' url originale  il 19 gennaio 2019). BibliografiaModifica Antonio Navarra, Le previsioni del tempo, Il Saggiatore,  Agrometeorologia Atmosfera Anticiclone Avvezione Barometro Carta meteorologica Circolazione atmosferica Formula ipsometrica Fisica dell'atmosfera Igrometro Isobara (meteorologia) Isoterma (meteorologia) Grandine Ghiaccio Geopotenziale Legge della persistenza Legge della compensazione Meteorognostica Nube Neve Pressione atmosferica Precipitazione (meteorologia) Promontorio di alta pressione Riscaldamento stratosferico Storia della meteorologia Stazione meteorologica Saccatura Satellite meteorologico Strato limite Teoria del caos Temperatura Termometro Tempo (meteorologia) Umidità Variabilità meteorologica Vortice polare Altri progettiModifica Collabora a Wikisource Wikisource contiene sulla meteorologia Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su meteorologia  «meteorologia» Collabora a Wikinotizie Wikinotizie contiene notizie di attualità su meteorologia Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su meteorologia Collegamenti esterniModifica ( IT ,  DE ,  FR ) Meteorologia, su hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera. Modifica su Wikidata ( EN ) Meteorologia, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Ulteriori informazioni Da questa sezione sono stati rimossi e reinseriti ripetutamente alcuni link vietati. Organizzazioni nazionaliModifica (IT) Meteo Aeronautica Servizio Meteorologico dell'Aeronautica Militare (IT) AMPRO Associazione Meteo Professionisti Organizzazioni internazionali World Meteorological Organization Organizzazione Meteorologica Mondiale (EN) European Centre for Medium-Range Weather Forecasts Centro europeo per le previsioni meteo a medio termine (EN) Eumetnet Raggruppamento di 29 servizi meteo nazionali europei (EN) Eumetsat Organizzazione europea per i satelliti meteorologici European Meteological Society Portale Meteorologia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di meteorologia Ultima modifica 3 mesi fa di Pav03 Storia della meteorologia Meteorologo Previsione meteorologica Wikipedia Il contenutoGrice: Can a sign have a different meaning for utterer and recipient? – If so, why do we keep calling communication – signare seems to be still good enough! -- Alessandro Cortese. Cortese. Keywords: del principio del significato, Kierkegaard, soap, sapone, actress, attrice, edifying discourse, discorso edificante, naturale/sopra-naturale/preter-naturale, Paul Carus, hyperphysical. Those spots means she has the devil inside her. Praeter-natural implicatura, supra-natural implicature, non-natural implicature, natural implicature. “Del significato”, ironia socratica, sapone, Savona, signare il concetto, sovrannaturale, liberalismo, il responsabile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cortese” – The Swimming-Pool Library. Cortese.

 

Grice e Corvaglia – il pessimismo e l’implicatura di Tantalo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Melissano). Filosofo italiano. Grice: “I love Corvaglia – or corvus in diluvio, as he called himself! – a very Italian philosopher and thus interested in the history of Italian philosophy, especially Vannini – the fact that he wrote plays on philosophical subjects – La casa di Seneca – helps!”  Opera nel campo della filosofia del rinascimento. Tra gli studi filosofico-scientifici si distinguono per vastità e profondità i volumi Le opere di Vanini e le loro fonti, e Vanini Edizioni e plagi, risposta polemica condotta contro le veementi critiche ricevute Porzio.  Pubblica il romanzo Finibusterre, trasfigurazione quasi sacra della sua amata terra e del popolo del Basso Salento, ch'egli incitava con ogni mezzo, anche se spesso travisato e intralciato e persino calunniato a crescere, per migliorare materialmente e moralmente. Il romanzo fu ben accolto dalla critica. Benedetto Croce, a cui Corvaglia lo aveva dedicato, rimarcò "lo sfondo storico rappresentato in modo assai vigoroso" e il "trattamento dei caratteri e degli effetti". Con maggiore puntualità Annibale Pastore (già suo professore all'Torino) gli confidava di sentire emergere nella sua mente, attraverso figure e temi del romanzo, ricordi sepolti, "struggente malinconia", un mondo molto simile a quello del Manzoni, "anch'esso celato alla superficie, soffuso d'ironia-limite", e tuttavia turbato da altri affascinanti caratteri, quali: "il sorprendente realismo, la perfetta armonia, l'effusione poetica, l'occhio acuto e sicuro, che scruta l'animo umano fin nelle più remote pieghe".  Si dedica totalmente alla filosofia del Rinascimento, animato dal bisogno di trarre alla luce obliterate sorgive  e percorrendo il movimento spesso alquanto sconosciuto della filosofia, che dal Rinascimento risale fino al Medio Evo.  S'apre nella sua vita uno spiraglio di fiducia verso gli uomini impegnati, e si prestadoverosamente secondo la sua fede politica all'attività politica, accogliendo e votandosi alla cultura mazziniana, cui rimane Fedele.. È di questo periodo la pubblicazione, tra l'altro, dei Quaderni Mazziniani: “Noi Mazziniani”, “Mazzini ed il Partito di Azione”, “L'Acherontico retaggio”, “Il Partito Repubblicano italiano”, il discorso Ai giovani, la conferenza (edita da Laterza) su Giuseppe Mazzini. Dopo la proclamazione della Repubblica, però, si allontana da ogni azione politica, ritenendola del tutto estranea e lontana dall'ideale da lui vagheggiato e sperato. Si trasferisce a Roma, nell'ambiente culturale a lui più consono, ritornando agli studi tra i suoi libri, dove soltanto sente di vivere senza alcun compromesso, in assoluta libertà.  Cascata di S.M. di Leuca. Scaligero, un saggio di "speleologia". Saggio su Cardano. Su iniziativa del comune di Melissano, è stato avviato un "Biennio di Studio su Corvaglia", al fine di approfondirne e divulgarne la conoscenza. Alla realizzazione del progetto collaborano, come protagonisti, anche l'Amministrazione Provinciale di Lecce, l'Università degli Studi del Salento e l'Istituto Comprensivo Statale di Melissano, che chiuderanno il biennio dei lavori, organizzando un Convegno su Corvaglia", al fine di dibattere argomenti di particolare interesse presenti nella sua opera. A tale riguardo si sta già operando non solo sul piano della ricerca specialistica e accademica, ma anche sulla promozione d'iniziative, che coinvolgano biblioteche e settori culturali degli enti locali, creando opportunità per sviluppare in maniera articolata e organica la ricognizione e la valorizzazione del patrimonio culturale salentino in generale e melissanese in particolare, lasciato in eredità da Corvaglia.   La casa di Seneca- Commedia di L. Corvaglia. Altre opere: “La casa di Seneca” (Tipografia Fratelli Carra, Matino (Lecce); “Rondini (dedicata "Al mio povero innocente Nova, fuggevole visione di un Infinito", che avvampa e dilegua in vicenda amara di avventi senza natale"; Tipografia Fratelli Carra, Matino (Lecce); “Tantalo” Tipografia Fratelli Carra, Matino (Lecce), Santa Teresa e Aldonzo (L. Cappelli Editore, Bologna); Rondini- Commedia; “Romanzo Finibusterre, Editrice Dante Alighieri, Milano); “Le fonti della filosofia di Vanini” (Anphitheatrum Aeternae Providentiae, Società Dante Alighieri, Milano); “Introduzione semi-seria dialogata per il lettore Vanini” (Edizioni e plagi, Tipografia Carra di Casarano); “Ricognizione delle opere di G.C. Vanini, in "Giornale Critico della Filosofia Italiana”; La poetica di Scaligero nella sua genesi e nel suo sviluppo, in "Giornale Critico della Filosofia Italiana", Quaderni Mazziniani; “Noi Mazziniani” Tipografica di Matino (Lecce), “Mazzini e il partito d' azione (critica), Tipografica di Matino (Lecce), “ L'acherontico retaggio (con l'elogio della vita comune), Tipografica di Matino (Lecce), Quaderni Mazziniani n° 4. Il partito repubblicano italiano, Tipografica di Matino (Lecce). Discorso tenuto a Lecce nel Teatro Paisiello il 21 gennaio 1945. Giuseppe Mazzini, Discorso commemorativo tenuto a Lecce nel Teatro Apollo, Laterza, Bari,"Rinascenza salentina", Un Paese del Sud. Melissano. Storia e tradizioni popolari, Tipografia di Matino. Meridionalista e Polemista, La Poetica di Giulio Cesare Scaligero nella sua genesi e nel suo sviluppo, Musicaos Editore, Sulla Poetica di G.C. Scaligero. Convegno sy Corvaglia. Il pensiero politico di Corvaglia. Popolo Sacralità Religiosità.  Wikipedia Ricerca Tantalo personaggio della mitologia greca, figlio di Zeus, legato al famoso supplizio Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Tantalo (disambigua). Tàntalo Tantalus by J.Heintz the Elder, jpg Tantalo Nome orig.Τάνταλος SessoMaschio Luogo di nascitaLidia ProfessioneRe di Lidia Tàntalo (in greco antico: Τάνταλος, Tàntalos) è un personaggio della mitologia greca.  Re di Lidia (o della Frigia) che per i suoi numerosi peccati fu punito dagli dei e gettato nel Tartaro, la sua punizione è divenuta una figura retorica con cui si indica una persona che desidera qualcosa che non può raggiungere.  EtimologiaModifica Secondo Platone, accordandosi alla radice greca τλα-/τλη- del verbo greco τλάω (che significa "soffrire"), il nome Tantalo deriverebbe da talànatos(infelicissimo) Genealogia Modifica Figlio di Zeus[2][3] o di Tmolo[4] e della ninfa Pluto[2][3]sposò la ninfa Dione[2] (figlia di Atlante) o Eurinassa[5](figlia di Pattolo) o Euritemiste[6] (figlia di Xanto) o Clizia[6] (figlia di Anfidamante) e fu padre di Pelope[2][5][6], Brotea[4][7], Niobe[8][9] e Dascilo[10].  MitologiaModifica Tantalo visse presso il monte Sipylos in Anatolia, dove fondò la città di Tantalis[11].  Il banchetto di Tantalo I misfattiModifica Tantalo, che grazie alle sue origini era ben voluto dagli dei[12], si rese responsabile di diverse offese nei loro confronti e violò le regole della xenia cercando di rapire Ganimede, rubando dell'ambrosia che in seguito distribuì ai suoi sudditi ed organizzando il furto di un cane d'oro creato da Efesto e posto a guardia di un tempio di Zeus a Creta (di tale furto l'artefice materiale fu Pandareo ma Tantalo giurò il falso ad Hermes, inviato dagli dei proprio per recuperare l'animale[13][14]; secondo un'altra versione il cane era in realtà Rea trasformata in quel modo da Efesto[15]).  Il re infine organizzò un banchetto a cui invitò gli dei stessi e, per mettere alla prova la loro onniscienza, uccise suo figlio Pelope e lo fece servire come pasto: Demetra, disperata per la perdita della figlia Persefone, non si accorse di nulla e consumò parte di una spalla del ragazzo, ma gli altri dei notarono immediatamente l'atrocità e gettarono i pezzi di Pelope in un calderone[13].  Il supplizioModifica  Il supplizio di Tantalo Gli dei punirono Tantalo gettandolo negli inferi[12] e condannandolo ad avere per sempre una fame e una sete impossibili da placare[13] schiacciato dal peso di un masso, legato ad un albero da frutto e immerso fino al collo in un lago d'acqua dolce: appena prova ad abbeverarsi il lago si prosciuga e non appena prova a prendere un frutto i rami si allontanano o un colpo di vento li fa volare lontano[16].  Il sepolcro di Tantalo sorgeva sul monte Sipylos[3] ma gli onori gli furono pagati ad Argo, la cui tradizione locale sosteneva anche di possedere le sue ossa[3].  Miti successiviModifica I mitografi successivi cercarono in tutti i modi di discolpare gli dei da un possibile atto di cannibalismo stravolgendo in tutto la storia di Tantalo: secondo tale versione, infatti, egli era un sacerdote che rivelò ogni segreto ai non iniziati, al che colpirono suo figlio con una malattia orrenda. I chirurghi di allora, con varie operazioni, riuscirono a ricostruire il corpo originale anche se di lì in poi esso portò innumerevoli cicatrici[17].  Filosofia Il mito di Tantalo venne successivamente ripreso dal filosofo Arthur Schopenhauer nella sua opera più nota, Il mondo come volontà e rappresentazione, come esempio della eterna insoddisfazione dell'uomo per cui "contro un desiderio che viene appagato ne rimangono almeno dieci insoddisfatti; la brama dura a lungo, le esigenze vanno all'infinito mentre l'appagamento è breve e misurato con spilorceria".  Curiosità. Il furto dell'ambrosia a vantaggio degli esseri umani lo accomuna a Prometeo[18], ma in questa veste il suo mito si trasforma da peccatore a benefattore. Tantalo, alla stregua di Licaone, era uno dei re originali a cui era concesso, con il favore degli dei, di condividerne la mensa: il suo gesto viene visto come un atto di separazione fra divinità e umanità, che verrà poi ripreso da molti altri miti come nel caso di Achille. Il supplizio di Tantalo viene citato anche da Primo Levi in Se questo è un uomo nella frase: "Si sentono i dormienti respirare e russare, qualcuno geme e parla. Molti schioccano le labbra e dimenano le mascelle. Sognano di mangiare (...). È un sogno spietato, chi ha creato il mito di Tantalo doveva conoscerlo." Oriana Fallaci, in Se il sole muore, cita il mito di Tantalo dal momento che nella missione Apollo 11l'astronauta Michael Collins sarà costretto ad avvicinarsi alla Luna senza avere la risposta a: "Com'è la Luna? Assomiglia alla Terra? È più bella? Più brutta? Che effetto fa camminarci?". La tortura di Tantalo viene ripresa anche da Thomas Mann in La montagna incantata. Un personaggio dell'opera, la signora Stohr, riferendosi al prolungarsi indefinito delle prescrizioni per le cure, afferma: «[omissis] Dio buono si è sempre allo stesso punto, lo sa anche lei. Si fanno due passi avanti e tre indietro... Quando uno ha fatto cinque mesi, arriva il vecchio e gliene rifila altri sei. Ah, è la tortura di Tantalo. Si spinge, si spinge e quando si crede d'essere in cima...». È evidente la confusione che la signora, avvezza alle gaffes, fa tra Tantalo e Sisifo. L'interlocutore, il sarcastico e dotto umanista Settembrini, risponde sul punto: «Oh, brava e generosa! Finalmente concede al povero Tantalo un diversivo. Per variare gli fa spingere il famoso pietrone! È un atto di vera bontà! [omissis]». Ne La valle dell'Eden John Steinbeck fa dire a Kate: "Chi era quello che non riusciva a bere da un setaccio? Tantalo?" (cap. 46). Tantalo appare come sostituto di Chirone nel secondo libro della Saga di Percy Jackson Il mare dei mostri. Il tantalio, elemento chimico di numero atomico 73, prende il nome da Tantalo, e si trova sotto il niobio, il cui nome deriva proprio da sua figlia Niobe. NoteModifica ^ Platone, Cratilo, 28. ^ a b c d Igino, Fabulae 82 ^ a b c d ( EN ) Pausania il Periegeta, Periegesi della Grecia, II, 22.2 e 3, su theoi.com. URL consultato il 13 agosto 2019. ^ a b Scholia ad Euripide, Oreste 5 ^ a b Giovanni Tzetzes a Licofrone, 52 ^ a b c Scholia ad Euripide, Oreste, Pausania il Periegeta, Periegesi della Grecia, III, 22.4, su theoi.com. URL consultato il 13 agosto 2019. ^ Igino, Fabulae, 9 ^ ( EN ) Apollodoro, Biblioteca, III, 5.6, su theoi.com. URL consultato il Scolio ad Apollonio Rodio, Le Argonautiche, II, v. 752 ^ Plinio il Vecchio Naturalis historia 2,93; 5,31 ^ a b ( EN ) Diodoro Siculo, Biblioteca Historica, IV, 74.1 e 2, su theoi.com. URL consultato il 13 agosto 2019. ^ a b c ( EN ) Pindaro, Olimpiche, 1.60 ff, su perseus.tufts.edu. URL consultato il 13 agosto 2019. ^ Euripide, Oreste, 10 ^ Antonio Liberale, Metamorfosi, 11 e 36. ^ ( EN ) Apollodoro, Biblioteca, Epitome II, 1, su theoi.com. URL consultato il 13 agosto 2019. ^ Tzetze, a Licofrone, 152 ^ Pindaro, Olimpiche, 1, 59-63. BibliografiaModifica Fonti primarie Esiodo, Teogonia 355 Pausania, Libro II, 22,4 Pindaro, Olimpica III, 41 Igino, Fabulae 82,83 e 124 Fonti secondarie Robert Graves, I miti greci, Milano, Longanesi, 1979, ISBN 88-304-0923-5. Angela Cerinotti, Miti greci e di roma antica, Prato, Giunti, 2005, ISBN 88-09-04194-1. Anna Ferrari, Dizionario di mitologia, Litopres, UTET, 2006, ISBN 88-02-07481-X. Anna Maria Carassiti, Dizionario di mitologia classica, Roma, Newton, Prometeo Issione Tizio Sisifo Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Tantalo Collegamenti esterniModifica Tantalo, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Carlo Gallavotti, TANTALO, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1937. Modifica su Wikidata ( EN ) Tantalo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. La storia di Tantalo, su haidukpress.Portale Mitologia greca: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di mitologia greca Ultima modifica 3 giorni fa di Nicola Gotti Enomao re di Pisa nella mitologia greca, figlio di Ares  Clitennestra personaggio della mitologia greca, moglie di Agamennone e amante di Egisto  Minia re e fondatore di Orcomeno in Beozia nella mitologia greca  Wikipedia Il contenutoAlles Wollen entspringt aus Bedürfniß, also aus Mangel, also aus Leiden. Diesem macht die Erfüllung ein Ende; jedoch gegen einen Wunsch, der erfüllt wird, bleiben wenigstens zehn versagt: ferner, das Begehren dauert lange, die Forderungen gehen ins Unendliche; die Erfüllung ist kurz und kärglich bemessen. Sogar aber ist die endliche Befriedigung selbst nur scheinbar : der erfüllte Wunsch macht gleich einem neuen Platz : jener ist ein erkannter, dieser ein noch unerkannter Irrthum. Dauernde, nicht mehr weichende Befriedigung kann kein erlangtes Objekt des Wollens geben: sondern es gleicht immer nur dem Almosen, das dem Bettler zugeworfen, sein Leben heute fristet, um seine Quaal auf Morgen zu verlängern. – Darum nun, solange unser Bewußtseyn von unserm Willen erfüllt ist, solange wir dem Drange der Wünsche, mit seinem steten Hoffen und Fürchten, hin- gegeben sind, solange wir Subjekt des Wollens sind, wird uns nimmermehr dauerndes Glück, noch Ruhe. Ob wir jagen, oder fliehn, Unheil fürchten, oder nach Genuß streben, ist im Wesentlichen einerlei: die Sorge für den stets fordernden Willen, gleichviel in welcher Gestalt, erfüllt und bewegt fortdauernd das Bewußtseyn; ohne Ruhe aber ist durchaus kein wahres Wohlseyn möglich. So liegt das Subjekt des Wollens beständig auf dem drehenden Rade des Ixion, schöpft immer im Siebe der Danaiden, ist der ewig schmachtende Tantalus.Luigi Corvaglia. Corvaglia. Keywords: Tantalo, Schopenhauer, Sisifo, assurdo, Camus, tragico. Refs.: Vanini, Bordon, poetica, Mazzini, Pomponazzi, Cardano --. Luigi Speranza, “Grice e Corvaglia” – The Swimming-Pool Library. Corvaglia.

 

Grice e Corvino – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Imbevuto di discorsi socratici, insigne per le sue attività politiche e militari, scrittore e protettore di poeti. C. studia in Atene con Orazio e poi coltivò l’eloquenza, la grammatica, la poesia. C. e incluso nelle liste di proserizione perchè avversario di Cesare, ma salva la vita. C. combattò con Bruto e Cassio a Filippi, poi si unì ad Marc'Antonio.In seguito, C. strinse rapporti con Ottaviano. C. e console, combattè ad Azio ed ebbe comandi in Oriente. Per una vittoria sugl'Aquitani, C. consegue il trionfo.C. rimase però sempre fedele alle antiche convinzioni politiche, e perciò, dopo sei giorni dalla nomina, abbandona l’ufficio di praefectus urbis. C. e curator aquarum. A nome del Senato, C. salutò Augusto "pater patriae."Corvino fu capo di un circolo filosofico al quale appartennero Tibullo e Ligsdamo.C. scrive carmi bucolici e orazioni. Come oratore, C. e molto lodato da Tacito e Quintiliano.C. compose un’opera storica, probabilmente di memorie.Alcuni hanno rilevato influssi dell’Epicureismo, altri di Posidonio, nel lungo frammento che ci rimane di un poema sulla caccia ("Cynegetica") composto da Grattio, vissuto al tempo di Augusto.Ma abbiamo elementi troppo scarsi per determinare le direttive del suo pensiero. Del poeta Linceo (probabilmente questo era uno pseudonimo), Properzio, suo amico e rivale in amore, dice che attingeva la sua sapienza ai libri socratici e che avrebbe potuto trattare del corso delle cose, del sistema del mondo e di problemi, escatologici e naturali. Marco Valerio Mesalla Corvino. Corvino.

 

Grice e Cosi: l’implicatura conversazionale del cuore -- accordo – cuori -- l’accordo – filosofia italiana – Luigi Speranza -- (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “I love Cosi; my favourite of his philosophical essays on justice is the one on ‘l’accordo,’ for this is what my principle of conversational helpfulness or co-operation is all about!”  Giovanni Cosi. Si laurea a Firenze. Insegna a Firenza, Sassari, Siena. Altre opere: “La liberazione artificiale: l’uomo e il diritto di fronte a la droga” (Milano: Giuffrè); "Religiosità e teoria critica" (Giuffre); "Secolarizzazione e ri-sacralizzazioni" (Giuffre); "Il sacro e giusto: itinerario di archetipologia” (FrancoAngeli). Dopo aver compiuto ricerche sull'espressione del dissenso in forma non rivoluzionaria negli ordinamenti liberal-democratici, pubblica per la Giuffrè Editore il volume "Saggio sulla disobbedienza civile"; "Il traviato”, “il filosofo traviato: il filosofo come gentiluomo (Giuntina); “La  obbedienza civile, la disobbedienza civile: il consenso, il dissenso, la aristocracia, la plutocracia, la democrazia, la repubblica (Milano: Giuffrè). Il giurista perduto: avvocati e identità professionale” (Giuntina), “Logos e dialettica” (Giappichelli, Torino); “Il filosofo risponsabile” (Giappichelli,Torino); “Lo spazio della mediazione, -- il terzo escluso – chi media nella diada? (Giuffrè). “Invece di giudicare” (Giuffrè); “Il spazio della mediazione nel conflitto della diada conversazionale” (Giappichelli Torino); “Legge, Diritto, Giustizia” (Giappichelli, Torino). “Giudicare, o Fare giustizia. – vendetta – il concetto filosofico” (Giuffré Editore, Milano). La liberazione artificiale: l'uomo e il diritto di fronte alla droga, Giuffrè, Milano; Saggio sulla disobbedienza civile: storia e critica del dissenso in democrazia, Giuffrè, Milano; Il giurista perduto: avvocati e identità professionale, Giuntina, Firenze; Il sacro e il giusto: itinerari di archetipologia giuridica, Franco Angeli, Milano; Il Logos del diritto, Giappichelli, Torino; La responsabilità del giurista: etica e professione legale, Giappichelli, Torino; Società, diritto, culture: introduzione all'esperienza giuridica, dispense di Sociologia del Diritto, Firenze); La professione legale tra patologia e prevenzione: materiali di etica professionale, dispense di Sociologia del Diritto, Firenze; Per una politica del diritto del fenomeno droga: problemi e prospettive", Archivio Giuridico; Il diritto e la droga" e "Per una comprensione culturale dell'uso di droghe", Testimonianze; "Religiosità e Teoria Critica: la teologia negativa di Max Horkheimer", Rivista di Filosofia Neo-scolastica, "Secolarizzazione e risacralizzazioni: le sopravalutazioni post-illuministiche dell'immanentismo", in L. Lombardi Vallauri - G. Dilcher, Cristianesimo, secolarizzazione e diritto moderno, Giuffrè - Nomos Verlag, Milano - Baden-Baden);  "Sulla 'naturalità' dei diritti civili", Testimonianze; "L'Uno o i Molti? Il 'nuovo politeismo' di Miller e Hillman", Testimonianze; "Ordine e dissenso. La disobbedienza civile nella società liberale", Jus; "Iniziazione e tossicomania: intorno a un libro di Luigi Zoja", Testimonianze; "Le aporie del pacifismo: critica della pace come ideologia", Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto; "L'immagine sofferente della legge", L'Immaginale; "Diritto e morale in tema di aborto", Testimonianze; "Professionalità e personalità: riflessioni sul ruolo dell'avvocato nella società", Sociologia del Diritto; "L'avvocato e il suo cliente: appunti storici e sociologici sulla professione legale", Materiali per una storia della cultura giuridica; "La coscienza, gli dei, la legge", Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto;  "Il diritto del mondo I", Anima; "Un anniversario dimenticato: Il Bill  e la sua eredità", Sociologia del Diritto; "Vecchio e nuovo nelle crisi di identità degli avvocati", in Storia del diritto e teoria politica, Annali della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Macerata; "Verso il paese di Inanna", Anima;"Avvocato o giurista?", comunicazione al VI Convegno nazionale di studio dell'Unione Giuristi Cattolici Italiani, Firenze, Iustitia, "Tutela del mondo e normatività naturale", in L. Lombardi Vallauri (ed.), Il meritevole di tutela, Giuffrè, Milano); "Tutela del mondo e strumenti giuridici", Testimonianze; "La professione legale tra etica e deontologia", Etica degli Affari e delle professione; "Diritto e realizzazione: un'introduzione alla fenomenologia del logos giuridico", Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto; "La legge e le origini della coscienza", Per  la filosofia; "Naturalità del diritto e universali giuridici", Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto,"Naturalità del diritto e universali giuridici", in F. D'AGOSTINO (ed.), Pluralità delle culture e universalità dei diritti, Giappichelli, Torino); "Etica secondo il ruolo", Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto; "Purezza e olocausto: un'interpretazione psicologico-culturale", Per  la Filosofia; "Logos giuridico e archetipi normativi", in L. LOMBARDI VALLAURI, Logos dell'essere, Logos della norma, Adriatica, Bari); “Giustizia senza giudizio. Limiti del diritto e tecniche di mediazione”, in F. MOLINARI e A. AMOROSO, Teoria e pratica della mediazione, FrancoAngeli, Milano); “Le forme dell’informale”, comunicazione al Congresso Nazionale della Società di Filosofia Giuridica e Politica, Trieste, Ora in Giustizia e procedure, Atti del suddetto Convegno, Giuffrè, Milano); “L’idea di professione”, Dirigenti Scuola, “Controllare la professione”, Dirigenti Scuola, “Professione, patologia e prevenzione”, Dirigenti Scuola. Ricerca Cuore organo muscolare, centro motore dell'apparato circolatorio. disambigua.svg Disambiguazione. Se stai cercando altri significati, vedi Cuore (disambigua). Il cuore è un organo muscolare, che costituisce il centro motore dell'apparato circolatorio e propulsore del sangue e della linfa in diversi organismi animali, compresi gli esseri umani, nei quali è formato da un particolare tessuto, il miocardio ed è rivestito da una membrana, il pericardio. natomia del cuore umano EmbriologiaModifica Può originare da un abbozzo mesodermico ventrale, come negli anfibi, nella parte rostrale del celoma, oppure da due abbozzi pari, come nei mammiferi, che poi si uniscono medialmente. In entrambi i casi il primo abbozzo cardiaco è compreso nel mesentere ventrale che in seguito si dividerà in mesocardio dorsale e ventrale; successivamente entrambi spariranno per far spazio al tubo cardiaco che permane nella cavità pericardica, separatasi dalla cavità addominale per lo sviluppo di un setto trasverso.  In questa fase il cuore, che si trova lungo il decorso del vaso sanguifero mediano nella regione subfaringea, non ha ancora né valvole né altre suddivisioni: è rappresentato da un tubo con due pareti, una muscolare più esterna, miocardio, e una endoteliale più interna, endocardio.  Anatomia comparataModifica Nei vertebrati l'apparato circolatorio presenta una complessità crescente dai pesci ai mammiferi, le modifiche che ha subito nel corso dell'evoluzione sono in relazione allo sviluppo di un apparato respiratorio[1]sempre più efficiente.  Nei pesci il cuore è costituito da un solo atrio, che raccoglie il sangue povero di ossigeno proveniente da tutto il corpo, e un solo ventricolo, che raccoglie il sangue proveniente dall'atrio: esistono però un seno venoso nel punto di arrivo delle vene e un bulbo arterioso all'inizio delle arterie, quindi le camere sono in realtà quattro. Le camere nel cuore dei pesci La circolazione in questi animali è definita semplice perché il sangue compie un intero ciclo passando una sola volta per il cuore, da dove raggiunge le branchieper essere ossigenato così da arrivare ai tessutitrasportato dalle arterie. Dopo aver ceduto alle cellule l'ossigeno e aver prelevato il diossido di carbonio e i prodotti di rifiuto, il sangue torna verso l'atrio per mezzo delle vene. A questo punto torna nel ventricolo e da qui alle branchie: a questo punto il ciclo ricomincia. Nei vertebrati terrestri, mammiferi e uccelli, vi è una circolazione doppia (polmonare e sistemica), nella quale il sangue, nel corso di un ciclo completo, passa due volte per il cuore. Negli anfibi e nella maggior parte dei rettili il cuore ha due atri, ma un solo ventricolo così che i due tipi di sangue finiscono nell'unico ventricolo, qui si rimescolano parzialmente e riducono la quantità di ossigeno destinata ai tessuti; insieme all'aorta, alle arterie e vene polmonari esiste un’arteria pulmo-cutanea che porta il sangue alla pelle, dove il sangue circolante si ossigena.[1]  Cuore dei varani  Anatomia: RVH= atrio destro; LVH= atrio sinistro; KK= circolazione sistemica; LK= circolazione polmonare; SAK= valvole del setto atrioventricolare; CP= cavità polmonare.   Sistole: Frecce blu= sangue venoso, Frecce rosse= sangue arterioso   Diastole: Frecce blu= sangue venoso, Frecce rosse= sangue arterioso  Solo nei coccodrilli i ventricoli sono separati, mentre l'aorta e l'arteria polmonare sono collegate dal forame di Panizza.  Per ricapitolare i diversi tipi di circolazione, potremmo così riassumere[2]:  Nei pesci la circolazione è semplice, è unidirezionale e ha un solo ventricolo; Negli anfibi e nei rettili è doppia e incompleta; Nei mammiferi e uccelli è doppia e completa, vi sono due ventricoli completamente separati Anatomia umanaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Cuore umano.  La posizione del cuore all'interno del torace umano Negli esseri umani è posto al centro della cavità toracica, precisamente nel mediastino in posizione anteroinferiore fra le due regioni pleuropolmonari, dietro lo sterno e le cartilagini costali, che lo proteggono come uno scudo, davanti alla colonna vertebrale, da cui è separato dall'esofago e dall'aorta, e appoggiato sul diaframma, che lo separa dai visceri sottostanti. Il cuore ha la forma di un tronco di conoad asse obliquo rispetto al piano sagittale: la sua base maggiore guarda in alto, indietro e a destra, mentre l'apice è rivolto in basso, in avanti e a sinistra;[4] pesa nell'adulto all'incirca 250-300 g, misurando 12-13 cm in lunghezza, 9-10 cm in larghezza e circa 6 cm di spessore (si sottolinea che questi dati variano con età, sesso e costituzione fisica). Battito del cuore di un uomo a 61 bpm FisiologiaModifica Il cuore si contrae e si rilascia secondo il ciclo cardiaco.  Il cuore è costituito dalle cellule del miocardio, tipicamente striate, che si occupano della contrazione e dalle cellule auto ritmiche non contrattili, da cui origina lo stimolo di contrazione. Le cellule auto ritmiche possiedono la capacità di auto depolarizzarsi, grazie all'apertura canali del sodio (detti fun), che spostano il potenziale di membrana verso valori più positivi, consentendo l'apertura dei canali del calcio. L'ingresso di calcio nella cellula è prolungato e porta il potenziale a stabilizzarsi su valori positivi per qualche millisecondo, generando un plateau. Il segnale termina grazie all'apertura dei canali del potassio, che riportano il potenziale di membrana a valori negativi e consentono ai canali funny di aprirsi nuovamente. La contrazione del miocardio inizia grazie all'ingresso del calcio nella cellula, che provoca la fuoriuscita di altro calcio dal reticolo sarcoplasmatico e quindi la contrazione.  Il cuore nelle culture umane. Nell'antichità classica (anche per il filosofo e scienziato Aristotele) il cuore era ritenuto sede della memoria. Il verbo ricordare deriva infatti dal verbo latino recordari e questo dal sostantivo cŏr (genitivocŏrdis), cuore (come sede della memoria) col suffissore- di movimento all'incontrario: quindi, propriamente, rimettere nel cuore (= nella memoria). Ancora oggi l'espressione "a memoria" si traduce par coeur in francese, by heart in inglese e de cor in portoghese ("coeur", "heart" e "cor" significano "cuore").  Particolarmente cruento era il sacrificio del cuore nel mondo azteco. Gli Aztechi prendevano un cuore, estratto ancora palpitante dalle vittime sacrificali umane, e lo offrivano agli dei. Apparato respiratorio nei vertebrati, su sapere La circolazione dei vertebrati, su hischool.weebly. Fiocca, Testut e Latarjet, Dizionario etimologico della lingua italiana, di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli, ed. Zanichelli. Léo Testut e André Latarjet, Miologia-Angiologia, in Trattato di anatomia umana. Anatomia descrittiva e microscopica – Organogenesi, Torino, UTET, Silvio Fiocca et al., Fondamenti di anatomia e fisiologia umana, 2ª ed., Napoli, Sorbona, cuore, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Cuore, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( EN ) Opere riguardanti Cuore, su Open Library, Internet Archive.Cuore, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Portale Anatomia   Portale Biologia   Portale Medicina Ultima modifica 18 giorni fa di Lorenzo Longo Arteria vasi sanguigni che trasportano il sangue dalla periferia del cuore al corpo  Cuore umano organo muscolare cavo  Apparato circolatorio insieme degli organi deputati al trasporto di fluidi diversi – come il sangue e, in un'accezione più generale, la linfa – che hanno il compito di apportare alle cellule gli elementi necessari al loro sostentamento  Wikipedia Il contenutoGrice: “Italians are afraid of the ‘sacro’ because since the fall of the Roman Empire, it means the evil Pope! – unless otherwise stated by people like Evola, etc.” – Grice: “Hart should have spent more time analysing the implicatures of ‘disobey,’ as Cosi does -- to realise how wrong his theory is!” Grice: “Austin, who taught morals at Oxford, should have examined, as Cosi does, what we mean by ‘responsible philosopher’ before opening his mouth!” – Grice: “My idea of helpfulness does not quite include that of ‘mediation’ but it should – the space of mediation in the conflict in the conversational dyad! I owe this to Cosi.” Grice: “I decided to use ‘judicative’ versus ‘volitive’ after Cosi. – His ‘giudicare’ is a gem!” -- Giovanni Cosi. Keywords: l’accordo, il secolare/il sacro; profane/sacro – secolare; archetipo, il filosofo come gentiluomo, l’obbediente, il disobbediente, il consensus, il disensus, to obey, conflitto, mediazione, diritto (right), giure, giurato – legatum, vendetta, giudicare, fare giustizia, vendetta conversazionale, natura, naturalita, non-naturale, legge naturale gius naturale, giusnaturalismo, fenomenologia del giurato; normato naturale? Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cosi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Cosmacini: l’implicatura conversazionale del consenso e la compassione – sinestesia e simpatia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “I like Cosmacini; for one he wrote on THREE areas of my concern: ‘cuore’, as when we say that two conversationalists reach an ‘accord’! – on ‘empatia’ – a Hellenism, and most importantly, on ‘compassione,’ which is at the root of my principle of conversational benevolence. -- Giorgio Cosmacini (Milano), filosofo. Studia a Milano e Pavia.la “convenzione della mutua” o INAM(Istituto nazionale per l'assicurazione contro le malattie) e apre un ambulatorio mutualistico Fare bene il mestiere di “medico della mutua” non significa gestire un certo numero di “mutuanti”; voleva inoltre dire aver cura di una comunità di persone, ciascuna delle quali con esigenze proprie. raggiungendo in quel periodo circa trecento mutuanti. Quando i suoi mutuanti erano circa millecinquecento, decise di realizzare un suo sogno: la libera docenza. è autore di numerose opere d'argomento filosofico-medico. Altre opere: la mutua, medico della mutua, mutuante, mutuanti, ambulatorio mutualistico. “Scienza medica e giacobinismo in Italia: l'impresa politico-culturale di Rasori (Collana La società, Milano, Franco Angeli); Röntgen. Il "fotografo dell'invisibile", lo scienziato che scoprì i raggi x, Collana Biografie, Milano, Rizzoli); “Gemelli. Il Machiavelli di Dio, Collana Biografie, Milano, Rizzoli); “Storia della medicina e della sanità in Italia. Dalla peste europea alla guerra mondiale. Gius. Laterza & Figli); “Medicina e Sanità in Italia nel Ventesimo secolo. Dalla 'Spagnola' alla 2ª Guerra Mondiale, Roma, Laterza); “La medicina e la sua storia. Da Carlo V al Re Sole, Collana Osservatorio italiano, Milano, Rizzoli); “Una dinastia di medici. La saga dei Cavacciuti-Moruzzi, Collana Saggi italiani, Milano, Rizzoli); Storia della medicina e della Sanità nell'Italia contemporanea, Roma-Bari, Laterza, G. C. Cristina Cenedella, I vecchi e la cura. Storia del Pio Albergo Trivulzio, Roma-Bari, Laterza); “La qualità del tuo medico. Per una filosofia della medicina, Roma-Bari, Laterza); “Medici nella storia d'Italia, Roma-Bari, Laterza, L'arte lunga. Storia della medicina dall'antichità a oggi, Roma-Bari, Laterza); “Il medico ciarlatano. Vita inimitabile di un europeo del Seicento, Laterza); “Ciarlataneria e medicina. Cure, maschere, ciarle, Milano, Cortina, La Ca' Granda dei milanesi. Storia dell'Ospedale Maggiore, Roma-Bari, Laterza); “Il mestiere di medico. Storia di una professione, Collana Scienze e Idee, Milano, Raffaello Cortina); “Introduzione alla medicina, Roma-Bari, Laterza, Biografia della Ca' Granda. Uomini e idee dell'Ospedale Maggiore di Milano, Laterza, Medicina e mondo ebraico. Dalla Bibbia al secolo dei ghetti, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza, Il male del secolo. Per una storia del cancro, Roma-Bari, Laterza); “La stagione di una fine, Terziaria); “Il medico giacobino. La vita e i tempi di Rasori, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “Salute e bioetica, Torino, Einaudi, G. C. Satolli, Lettera a un medico sulla cura degli uomini, Roma, Laterza, La vita nelle mani. Storia della chirurgia, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza, Una vita qualunque, viennepierre edizioni, Il medico materialista. Vita e pensiero di Jakob Moleschott, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza «La mia baracca». Storia della fondazione Don Gnocchi, Presentazione del Cardinale Dionigi Tettamanzi, Laterza); “La peste bianca. Milano e la lotta antitubercolare, Milano, Franco Angeli); “L'arte lunga. Storia della medicina dall'antichità a oggi, Roma-Bari, Laterza); “Il romanzo di un medico, viennepierre edizioni, L'Islam a La Thuile nel Medioevo. Un «tuillèn» alla terza crociata: andata, ritorno, morte misteriosa, KC Edizioni, Le spade di Damocle. Paure e malattie nella storia, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “La religiosità della medicina. Dall'antichità a oggi, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “L'anello di Asclepio. L'età dell'oro”; “La peste, passato e presente, Milano, Editrice San Raffaele); “La medicina non è una scienza. Breve storia delle sue scienze di base” (Collana Scienze e Idee, Milano, Raffaello Cortina); “Il medico saltimbanco. Vita e avventure di Buonafede Vitali, giramondo instancabile, chimico di talento, istrione di buona creanza” (Roma-Bari, Laterza); “Prima lezione di medicina, Collana Universale.Prime lezioni, Roma-Bari, Laterza); “Il medico e il cardinale, Milano, Editrice San Raffaele); “Testamento biologico. Idee ed esperienze per una morte giusta” (Bologna, Il Mulino); “Politica per amore” (Milano, Franco Angeli); “Guerra e medicina. Dall'antichità a oggi, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “Compassione” (Bologna, Il Mulino); “La scomparsa del dottore. Storia e cronaca di un'estinzione, Milano, Raffaello Cortina); “Camillo De Lellis. Il santo dei malati, Roma-Bari, Laterza); “Il medico delle mummie. Vita e avventure di Bozzi Granville, Collana Percorsi, Roma-Bari, Laterza); “Como, il lago, la montagna, NodoLibri); “Tanatologia della vita e stetoscopio. Bichat, Laënnec e la "nascita della clinica", AlboVersorio,. Medicina e rivoluzione. La rivoluzione francese della medicina e il nostro tempo” (Collana Scienza e Idee, Milano, Raffaello Cortina); “Un triennio cruciale. Como, il lago, la montagna, NodoLibri); “La forza dell'idea. Medici socialisti e compagni di strada a Milano. L'Ornitorinco,  Per una scienza medica non neutrale. Tre maestri della medicina tra Ottocento e Novecento, L'Ornitorinco,  Medicina Narrata, Sedizioni); “Galeno e il galenismo. Scienza e idee della salute” (Milano, Franco Angeli); “La chimica della vita” -- e microscopio. Pasteur e la microbiologia, AlboVersorio); “Per una scienza medica non neutrale. Tre maestri della medicina in Italia fra Ottocento e Novecento, L'Ornitorinco); “Il tempo della cura. Malati, medici, medicine, NodoLibri); “Elogio della Materia” -- Per una storia ideologica della medicina, Edra edizioni); “L'Infinito di Leopardi. Un impossibile congedo” (Sedizioni,. Memorie dal lago e ricordi dal confine. Como, il lago, la montagna, NodoLibri,  Salute e medicina a Milano. Sette secoli all'avanguardia, L'Ornitorinco); “La medicina dei papi, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “Medici e medicina durante il fascismo” (Pantarei); “Il viaggio di un ragazzo attraverso il fascismo, Pantarei); Historia cordis, Ass. Beretta,. Curatele Dizionario di storia della salute, G. Cosmacini, Giuseppe Gaudenzi, Roberto Satolli, Collana Saggi, Torino, Einaudi.  “mutua gratia” - Practicis nostris, Muri LAPIDES, sine inscriptione, apud nus, gadinca, vel Hnoc. Non liquet, “don mutual” – mutual gift -- Chartain Chartul. Hygenum de Limitibus constituendis. inquit Somnerus. (Mutinæ carnes, in Con thesaur. S. Germ. Prat. fol. 12. rº.: Dicta. mutuum, Exactio nomine mului, Charta suet. MSS. Eccl. Colon. e Bibl. Eccl. Atre- Ysabellis exhibuit dicto thesaurario quasdam Rogerii 1. Reg. Sicil. ann. apud Mu bat, eædem quæ vervecinæ. Vide Multo, litteras mutuæ gratiæ dudum confectas inter ralor. tom. 6. col. Nulla angaria, par I mutio, id est, Patuus. Vocabul. dictam Ysabellam et prædictum defunctum angaria, echioma, gabella,Muruum, extorsio utriusque Juris. dum vivebat, et constante legitimo matrimo- jaciatur, imponatur. Chron. Parmense ad mutis, Truncus, stirps. Pactum inter nio inter ipsos. aapud eumdem Humb. dalph. et episc. Gratianopol. ann. “mutuare”, Mutuum, seu exactionem ec impositum fuit per commune Parma in Reg:. Chartoph. reg. ch. 34: nomine mutui impositam solvere. Vide unum mutuum octo millium librarum impe recte tendendo ad pedem cujusdam margassii mutuum. rialium per episcopatum, et quinque millium seu claperii in quo margassio seu cleppe. Mutuatim, pro mutuo, in Vita Anti- per civitatem. Et mutuum clericis fuit im rio sunt duæ mutes arborum. dii Archiep. Bisonticensis cap. 5: Bene- positum duo millium librarum, etc. Chron. Åwwvíz, in Gloss. Græc. Lat. dictionis ergo dono mutuatim dato, etc. Mutin. ibid. tom. II. col. 122: Tria Mu [Mirac. S. Bernhardi Episc. tom. 5. Julii (mutuatio, pro mutatio, in Consuet. tua extorsit.] Historia Cortusiorum lib. 3. p.112, Eoque quippiam petere volente, MSS. Auscior. art. 3: Fiat autem mutua cap. 14, Teutonici cruciabant Paduanos verbis in ore reclusis, subito mulus effectus tio consulum annuatim in festo S. Joan. *mutuis* el daciis. Infra: *mutual* imposuit et est; qui a plerisque tentatus, an videlicet Baptistæ. datias. Lib. 7. cap. 1: V'exabantur Muluis astu Muritatem simularet, et tandem certa ex Ital. Mutola, Muta. Oc- et daliis. Albertinus Mussalus lib. 12. de loquendi impotentia comprobatur. Occurrit currit in Vita B. Justinæ de Aretio n. 9. Reb. gest. Italic. pag. 86: Communes da præterea toin. 2.Sanctorum Apr. pag. 429.], Idem quod Expeditatus, riæ, exactionesque et Mutua publica el priMuronagium. Vide in Charta Forestæ cap. 9. forte pro múti- vata etc. Charta R. Abbatis Monasterii Ka Mullo. latus. Locum vide in Mastinus. roffensis in Pictonib. ann. 1308. ex (Ovis, Massiliensibus Mous, Nudus, glaber. Regesto Philippi Pulcri Regis Franc. Tabu tonfede. Charta ann. 1390: Quilibet Mu- Gloss. Lat. Græc. MSS. Sangerman. larii Regii n. 11: Non recipiemus ibi Mu tofeda solvat xvi. denarios. * Castigat. in utrumque Glossar. forte tuum, nisi gratis mutuare voluerint habitan Lugdunensibus, Feye. Vide supra Menlulosus, ead'ns, ex Vulc. tes. Ita in Liberlatib. Novæ Bastidæ in Oc Lex Ripuar. lit. 6o. S 4: Si citania ann. in alio Regesto ejusdem xudovicv, Malum colo- autem ibidem infra terminationem aliqua in- Regis ann. n. 16. Vide Credentia, neum. Supplem. Antiquarii et Gloss. MSS. dicia sua arte, vel butinæ,aut Lat. Græc. Sangerm. Aliud itidem Gloss.: extiterint, ad sacramentum non admittatur, *mutuum coactum* exactio, quæ a Mutonium, Tepábeuo, Additio. etc. Ubi mutuli, videntur esse aggeres ter- dominis in urgentibus negotiis suis ac ne 1., quos Motes nostri vocant: aut forte cessitatibus fiebat super subditos, vassallos, equilatus, quod sic describit Jovius Hist. lapides ii quosMuros vocant Agrimensores,ac tenentes cum restitutionis conditione ac lib. 14: Mutpharachæ admirabili virtute i. sine inscriptione, vice terminorum po- pollicitatione: a qua quidem exactione præstantes, toto orbe conquisiti, ea condi- siti. Vide Bonna 2. exempta pleraque oppida, quibus concessæ tione militant, ut quos velint Deos, impune KF Errat Cangius, si fides Eccardo, libertates, leguntur. Charla libertatum colant, præsentique tantum Imperatori ope- in Notis ad Legem citatam, quam ad cal- Aquarum Mortuarum ann. 1246: Omnes ram navent. Hæc post Carolum de Aquino cem Legis Salicæ edidit. Mútuli enim sunt habitatores loci illius sint liberi et immunes in Lex. milit. machinaliones clandestinæ, vel seditiones ab omnibus questis, talliis, et toltis, et clam excitatæ, a veteri German.Meulen, tuo coucto, et omni ademptu coacto. Con capitis tegumentum, quod monachi cap. | clandestine agere, unde Meutmacher, Fla- suetudines Monspelienses MSS. cap. 56: paronem vocabant. Gall. Christ. tom. 4. bellum seditionis, Gall. Mutin. Hæc vir Toltam nec quistam, vel Mutuum coactum, col uti. Mutrellis 782: Statuimus in dormitorio, quod liceat fratribus eruditus; quæ tameninmeam fidem reci. vel aliquam exactionem coactam non habet;. Vide Mitræ. necunquam habuit dominus Montispessulani I Vide Morth. I Gall. Mouton. in hominibus Montispessulani. Eædem ver *, ut supra Muramen. Charta ann.  exArchivis Massil.: naculæ, totas inquistas, ni prest forsat, o Terrear.villæ de Busseul ex Cod. reg. Item super co quod petebantdicti parerii alcuna action destrecha, etc. Libertates fol. 47. vº.: Item unum Pariziensem Mut -I quartam partem Murunorum, astorium et concessæ oppidis Castelli Amorosi et Va CANGII CLOSS. – T. IV. 2. Feda 2. pere nolim. etc. lentiæ, in diæcesiAginnepsi, ab Edwardo I Eodem significatu, De S. 6: L. FURPANIO L. Lib. PuILOSTORGO Mr. I. Rege Angliæ ex Regesto Constabulariæ Juvenate Episc. tom. 1. Maii pag. 399: ROBRECHARIO VIX ann. LIJTI. Purpuria L. Burdegalensis fol. 55. 140: Nec recipiemus Episcopus Narniensis ex suo palatio, ialari L. OLYMPUSA PECIT.  in ibi Muruum, nisi gratis nobis mutuare velint reste indutus, racheto et Muzzeta. Vide Inscript. Vide Martin Lex. in habitantes. Eadem habent libertales Rio. Mozzetta. hac voce. magi in Arvernis. vocatur letri rudoris in. Fantasia, miratores. Pa Mutuum VIOLENTUM, in Charta liberta- quietudo terrena. Ita Apuleius de Muudo. pias. tum Jasseropis, apud Guicheponum in A Græco nimium púxw, Mugio, reboo. Vide Ma Histor. Bressensi pag. 106. Roga coacta, in I Piscis genus, qui alius zer. Charta Ludovici Comitis Blesensis et Cla- videtur ab eo quem Spelmannus piscem. in Statutis Mon romontens. ann. 1197. pro Creduliensi viridem vocat. Computus ann. 1425. apud tis Regal. fol. 318: Debeat solvere emptori villa: Omnes homines Credulio marentes Kennett. in Antiquit. Ambrosden. pag. gabellæ piscium, solidos quatuor pro quoli taliam mihi debentes, el eorum hæredes, a 575: Et in 111. copulis viridis piscis... Et bet rubo piscium, et intelligatur detracta talia, ablatione, impruntato et Roga coacta inxv. copulisde Myllewellminorissortisx: Myrta et cestis ac funibus. de cælero penitus quilos et immunes esse sol. vi. d. et in xx. Myllewell majoris sortis Eadem notione, usurpant Cat concedo. Exslat Statutum Philippi VI. Re- Xit, sol. (* Vide Mulsellus.] lius Aurelianus, Celsus, et Apicius. Vide gis Frane. 3. Febr. ann. 1343. quo vMoniales, ex Anglo -Sa- Murta. in posterum fieri ullum Mutuum coactum xop. myn'e'cen'e, vel minicene, hodie Graviter, com super subditos suos: quod scilicet paulo Anglis Minneken et minnekenlasse. Copeil. posite ambulare. Chron. Ditm. Mersburz. anie exegisse docet Diploma anni 1342. Ænbamiense in Anglia ann. 1009. cap. 1: l'episc. tom. 10. Collect. Histor. Frane. pag. 28. Junii, sed et Philippum Pulerum Re- Episcopi et abbates, monachi et Mynecenæ, 131: Henricus Dei gratia res inclytus à se. gem aliud ann. 1309. in 12. Regesto Char- canonici et nonne, natoribus duodecim vallatus, quorum ser tophyl. Reg. Ch. 15. et in 36. Regest. apud Ausonium in rasi barba,alii prolixa Mystace incedebant Ch. 48. lemmate Epigrammatis 30. Cantharus po- cum buculis, etc. Laudatum Philippi VI. Statutum torius Scaligero, qui a similitudine muris I Sacerdotum præposi frustra quæsitum in Regestis publicis testa- et barbæ, quæ in conum desinit, Myobar- tus; titulus honorarius Archiep. Toletani, tur D. de Lauriere tom. 2. Ordinat. Reg. bum voce ibrida dietum existimat. Turne- ex Hierolex. Macri. Franc. prg. 234. Undeexistimat D. Cangium bus vero Advers. lib. 3. cap. 19. putat ver- lapsum memoria art. 4. et 5. Statuti ejusd. | bum compositum mure et barbo, quod | , Mysteriorum per. Regis ann. 1345. 15. non3. Febr.spectasse, mensuram, liquidorum sescunciam penitus, vel princeps. Prudent. Peristeph. 2. quo vetat Philippus Rex in posterum a dentem sonat, ut sit tamquam muris cya- 349: Bene est, quod ipse ex omnibus My subditis suis exigi equos, currus, ele. nisi thus. Quidam le; emendat Lil. Gyraldus  Epist, *mutuum violatum* Exactio nomine xobarbaru, quod non placet. Vide Cupe. Zachariæ PP. ann.748. tom. 1. Rer. Mo *mutui*, quæ a subditis exigitur. Charta rum in Harpocrate pag. 78. gunt. pag. 255, Officium, sacra Li mutuum violatum, velmessionem bajuli vel turgia. Pelagius Episcop. Ovetensis in Fer servientum. [** Leg. Violentum ut, supra.) ctum... Si autem Myocepha aur ypopius fuerit,dinando Rege Hispan.: Tunc Alfonsus Rez mutuum ebraldum. Charta Henrici Co- post inunctionem ligabis oculos aut linteo in velociter Romam nuntios misi ad Papam mitis Portugalliæ tom. 3. Monarchiæ Lusi- aqua infuso frigida, aut spongia in ipsa Aldebrandum cognomento septimus Grego tanæ p.282, Non introducam *mutuum* aqua infusa. rius. Ideo hoc fecit, quia Romanum Vyste Ebraldum Colimbriam. 9piratici genus arium habere voluit in omni Regno. Infra: mutuum, stipendium datum in ante-, ut placet Tur Confirmarit itaque Romanum Mysterium in cessum. Lit. ann. 1408. tom. 9. Ordinat. nebo lib. 3. Adversar. cap. 1. nomen omne regnum Regis Adefonsi æra 1113. (Chr. reg. Franc. pag. 363, art. 1: Ordinamus adepti. Melius Scaliger, a forma qevūves, 1088. ) per senescallos, receptores, thesaurarios,... hoc est, angusta et oblonga, dictum ira- Missæ sacrifi tum nobilibus quam innobilibus, cum ex dit. cium. Acta S. Gratil. tom. 3. Aug. pag. parte nostra mandati fuerint ut ad guerras Hist. Franc. Sfortiæ ad ann. col. 2: Indutus est (Gratilianus ) ve nostras accedant, *mutuum* fieri priusquam apud Murator. tom. 31. Script. Ital.col.stimentis a.  Wikipedia Ricerca Sinestesia (psicologia) fenomeno sensoriale/percettivo Lingua Segui Modifica Avvertenza Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze. La sinestesia è un fenomeno sensoriale/percettivo, che indica una "contaminazione" dei sensi nella percezione.[1] Il fenomeno neurologico della sinestesia si realizza quando stimolazioni provenienti da una via sensoriale o cognitiva inducono a delle esperienze, automatiche e involontarie, in un secondo percorso sensoriale o cognitivo.[2]   Possibile visione dei mesi dell'anno da parte di una persona soggetta al fenomeno della Sinestesia Descrizione generale del fenomenoModifica Con il termine "sinestesia" si fa riferimento a quelle situazioni in cui una stimolazione uditiva, olfattiva, tattile o visiva è percepita come due eventi sensoriali distinti ma conviventi.[1]  Nella sua forma più blanda è presente in molti individui, spesso dovuta al fatto che i nostri sensi, pur essendo autonomi, non agiscono in maniera del tutto distaccata dagli altri.  Più indicativo di un'effettiva presenza di sinestesia è il caso in cui il percepire uno stimolo (come ad esempio il suono) provoca una reazione netta e propria di un altro senso (ad esempio la vista). Per "forma pura" si intende la sinestesia che si manifesta automaticamente come fenomeno percettivo e non cognitivo. Il fenomeno è involontario, ma una maggiore attenzione prestata dal soggetto può evocarlo con maggiore consapevolezza, al punto che il sinestesico puro, vedendo i suoni e sentendo i colori, può riuscire a trarre vantaggio da queste contaminazioni sensoriali; un compositore che sfruttava questa sua capacità fu Olivier Messiaen, così come il pittore Vasilij Vasil'evič Kandinskij, che affermava di poter sentire la voce dei colori, che per lui erano suoni, entità vive e lo spiega bene nel suo libro Lo spirituale nell’arte. Un altro sinestesico fu il pittore e musicista lituano, Mikalojus Konstantinas Čiurlionis. Il compositore russo Aleksandr Nikolaevič Skrjabin era particolarmente interessato agli effetti psicologici sul pubblico quando sperimentavano suoni e colori contemporaneamente. La sua teoria era che quando si percepiva il colore giusto con il suono corretto, si creava "un potente risonatore psicologico per l'ascoltatore". La sua opera sinestetica più famosa, che viene eseguita ancora oggi, è Prometeo: il poema del fuoco [1]. Ma la lista degli artisti sinestesici è molto lunga, infatti le ultime ricerche affermano che il fenomeno sinestesico interessi il 4% della popolazione e di questo 4% la maggior parte sono artisti. Un'altra caratteristica della sinestesia è poi che si presenta a volte nelle persone mancine, o in concomitanza con altre caratteristiche come l'allochiria (confusione della mano destra con la sinistra), scarso senso dell'orientamento, dislessia, deficit dell'attenzione e, raramente, autismo.  Spesso la contaminazione sensoriale avviene a direzione unica: ad esempio, se vedo una nota musicale come un colore, non è detto che vedendo quel colore la mia mente evochi quella nota. Questa è una delle caratteristiche della sinestesia percettiva, l'unidirezionalità. Secondo lo storico Angelo Paratico il mancino Leonardo Da Vinci era affetto da sinestesia.[3]  Esperienze di tipo sinestetico possono essere indotte in maniera artificiale, mediante l'uso di sostanze allucinogene, sostanze stupefacenti come l'LSD, esperienze di deprivazione sensoriale, meditazione, ed in alcuni tipi di malattie che colpiscono la corteccia cerebrale. Questo tipo di sinestesia è detta pseudosinestesia, in quanto è indotta o non presente dalla nascita. La sinestesia acquisita sembra riguardare solo le forme di sinestesia percettiva, e non sono stati documentati casi di sinestesia concettuale acquisita.  Le persone che hanno esperienze sinestesiche nella "forma pura" sono un numero relativamente ridotto. Studi recenti hanno mostrato una certa variabilità:  1 ogni 2000[4] 1 ogni 200[5] Queste esperienze sono quotidiane ed iniziano sin dall'infanzia. Molti sinestesici si sorprendono scoprendo che questa esperienza non è provata da tutte le persone.  L'esperienza sinestetica è composta da due elementi:  L'evento induttore (inducer). L'evento concorrente (concurrent). Per esempio, può accadere che un sinestesico descriva il suono (inducer) del proprio bambino che piange come un colore giallo sgradevole (concurrent). La relazione tra un inducer e un concurrent è sistematica, nel senso che a ogni inducer corrisponde un preciso concurrent.  Grossenbacher & Lovelace (2001), distinguono due tipi di sinestesia a seconda che l'inducer sia percettivoo concettuale.  Sinestesia percettiva: l'inducer è uno stimolo percettivo (per es. la vista di lettere produce anche la vista di colori "collegati"). Sinestesia concettuale: i concurrent sono prodotti dal pensare a un particolare concetto (per es: numero, mese dell'anno, posizione nello spazio). Si utilizza intensivamente la sinestesia anche nella terminologia utilizzata nella degustazione o nell'analisi sensoriale.    Basi genetiche della sinestesiaModifica Purtroppo con le competenze scientifiche attuali non è possibile identificare singoli loci genici che determinino con certezza questo fenomeno neurocognitivo. Il fenomeno è più probabilmente dovuto a un complesso meccanismo neurale e non a singole proteine codificate da parti di genoma. In ogni caso interessanti esperimenti di neuroimaging paiono confermare tale fenomeno. [6]  Sinestesia: grafema-coloreModificaRamachandran e i suoi collaboratori hanno notato che la forma più comune di sinestesia è quella grafema(lettera, numero) - colore e infatti i rispettivi centri cerebrali sono molto vicini tra loro.[7]  Tecniche di neuroimmagini (es. risonanza magnetica funzionale) hanno permesso di individuare il "centro del colore" (es. Zeki & Marini, 1998, Brain), l'area V4 nel giro fusiforme.  L'area dei grafemi è stata anch'essa individuata nel giro fusiforme, in particolare nell'emisfero sinistro vicino all'area V4. L'area si attiva sia in seguito alla presentazione di lettere sia in seguito alla presentazione di numeri.  L'ipotesi di Ramachandran è che ci sia una attivazione congiunta. La presentazione di un grafema fa attivare l'area dei grafemi, che fa attivare contemporaneamente anche l'area del colore, anche senza la presenza di uno stimolo. Questo è dovuto ad un eccesso di connessioni tra le due aree, non presente in tutte le persone.  Le connessioni che si hanno alla nascita sono un numero superiore di quello che si trovano in un cervello adulto. Quello che avviene nei primi mesi di vita è un processo definito pruning (potatura, sfoltimento) delle connessioni cerebrali. L'ipotesi di Ramachandran è che le connessioni tra area del colore e area dei grafemi, che normalmente subiscono un processo di pruning, rimangono invece intatte nei sinestesici. Probabilmente per una mutazione genetica che fa fallire il processo di pruning. Esisteranno delle regole che in seguito all'esperienza permetteranno di sviluppare connessioni particolari tra area dei grafemi e area del colore. Questo spiegherebbe perché ad un grafema viene sempre associato un certo colore.  Ramachandran ipotizza che l'attivazione del giro fusiforme non implichi un arrivo alla coscienza delle informazioni. Perché sia possibile essere consapevoli dell'informazione percepita si dovranno attivare altre aree superiori. Tuttavia, Grossenbacher sostiene che la sinestesia non sia dovuta alla presenza di un numero maggiore di connessioni neurali (le quali non sarebbero presenti nei non sinestesici); infatti, secondo lo studioso tale fenomeno percettivo è imputabile al fatto che, nel cervello dei sinestesici, alcune connessioni neurali risultano ancora attive, mentre non vengono più "utilizzate" in chi non sperimenta tale modo di percepire. Questo spiegherebbe il motivo per cui chi assume droghe psicoattive sia in grado di esperire una condizione di "pseudo-sinestesia", circoscritta esclusivamente al limite temporale in cui tali sostanze dispieghino il loro effetto, per poi tornare a non percepire sinestesicamente una volta terminato quest'ultimo. Secondo Grossenbacher è molto improbabile, infatti, che si siano create nuove connessioni neurali durante l'assunzione di tali droghe; piuttosto, risulta più probabile che vengano percorse "strade" neurali solitamente "disattive".  Influenza dell'attenzione sulla percezioneModifica Esperimento di Ramachandran e Hubbard: caso della figura gerarchica (un 5 composto da tanti 3), se ai soggetti veniva chiesto di fare attenzione a livello globale (5) vedevano il colore rosso, se invece dovevano dirigere la loro attenzione a livello locale (3) vedevano verde.  Questo esperimento porta a concludere che l'attenzione influenza il manifestarsi del fenomeno sinestesico.  Sinestesici projectorModifica Nel caso di grafema-colore, il colore è visto come una pellicola che ricopre il numero completamente. Un sinestesico testato da Dixon, riferiva di provare un'esperienza irritante se il numero era di un colore incongruente con quello del fotismo (l'effetto della sua sinestesia). Se per esempio il numero 5 gli evocava il colore rosso, ma in realtà era scritto con il giallo.  Sinestesici associatorModifica Sempre nel caso di grafema-colore, il colore appare nella mente, e non sopra il numero. In genere, i sinestesici associator riferiscono che l'esperienza di vedere un numero con un colore non congruente con quello del fotismo, non è un'esperienza per nulla disturbante. La percezione del colore "reale" del numero è un'esperienza molto più intensa del fotismo, per un sinestesico associator.  I sinestesici projector sembrano una minoranza rispetto ai sinestesici associator (11 su 100, tra quelli intervistati da Dixon e collaboratori).  Tra i maggiori studiosi della sinestesia percettiva, Richard Cytowic, Ramachandran, E. Hubbard, Sean Day, Bulat Galeyev, Irina Vaneckina.  Rapporto con i canali del calcioModifica Studiando nel moscerino della frutta un gene coinvolto nell'elaborazione del dolore, alcuni ricercatori hanno creato il primo modello della sinestesia. Con la tecnica dell'interferenza a RNA hanno isolato 600 geni quali candidati a interessare possibili geni del dolore. Il primo ad essere analizzato più in dettaglio è stato quello che codifichi parte di un canale del calcio noto come alfa 2 delta 3 (α2δ3). Questi canali che regolano il passaggio di Ca2+ attraverso la membrana cellulare sono fondamentali per l'eccitabilità elettrica dei neuroni. Con questi canali interferiscono diversi antidolorifici.  Nei topi carenti di α2δ3 si è dimostrato che questo gene controlli la sensibilità al dolore provocato dal calore sia nella Drosophila sia nei mammiferi. Indagini condotte con la MRI hanno anche rivelato che α2δ3 partecipi all'elaborazione del dolore termico a livello cerebrale. In assenza di α2δ3 il segnale del dolore a genesi termica arriva al talamo, ma poi non prosegue verso i suoi centri corticali superiori. Le immagini di fMRI mostrano piuttosto un'attivazione crociata delle aree corticali per la visione, l'olfatto e l'udito. Questa sinestesia si osserva anche quando lo stimolo doloroso sia di natura tattile.[8]  NoteModifica ^ a b Emozioni colorate | Le Scienze, su lescienze.espresso.repubblica.it. ^ Harrison, John E.; Simon Baron-Cohen (1996). Synaesthesia: classic and contemporary readings. Oxford: Blackwell Vinci. A Chinese Scholar Lost in Renaissance Italy, Lascar Publishing, 2015. lascarpublishing.com/leonardo/Archiviato il 26 luglio 2018 in Internet Archive. ^ Baron- Cohen, 1997 ^ Ramachandran & Hubbard, 2001 ^ "Neurocognitive mechanism of synesthesia" Edward M. Hubbard1 and V.S. Ramachandran, Neurocognitive mechanism of synesthesia, su cell.com, November 3, 2005. URL consultato il libero. ^ percezione e idee, la sinestesia | PsycHomer, su psychomer.it (archiviato dall' url originale  il 20 novembre 2010). ^ Le Scienze: Non provo dolore, ma ne sento l'odore e ascolto le note BibliografiaModifica Córdoba M.J. de, Hubbard E.M., Riccò D., Day S.A., III Congreso Internacional de Sinestesia, Ciencia y Arte, 26-29 Abril, Parque de las Ciencias de Granada, Ediciones Fundación Internacional Artecittà, Edición Digital interactiva, Imprenta del Carmen. Granada. Córdoba M.J. de, Riccò D. (et al.), Sinestesia. Los fundamentos teóricos, artísticos y científicos, Ediciones Fundación Internacional Artecittà, Granada. Cytowic, R.E., Synesthesia: A Union of The Senses, second edition, MIT Press, Cambridge, Cytowic, R.E., The Man Who Tasted Shapes, Cambridge, MIT Press, Massachusetts, Marks L.E., The Unity of the Senses. Interrelations among the modalities, Academic Press, New York, 1978. Riccò D., Sinestesie per il design. Le interazioni sensoriali nell'epoca dei multimedia, Etas, Milano, Riccò D., Sentire il design. Sinestesie nel progetto di comunicazione, Carocci, Roma, 2Tornitore T., Storia delle sinestesie. Le origini dell'audizione colorata, Genova, 1986. Tornitore T., Scambi di sensi. Preistoria delle sinestesie, Centro Scientifico Torinese, Torino, 1988. Voci correlateModifica Takete e Maluma Sinestesia tattile-speculare. «sinestesia» Udire i colori, gustare le forme, su lescienze.espresso.repubblica.it, Le Scienze. URL consultato il 20 maggio 2015. TED Talk: "I listen to color" Portale Psicologia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di psicologia Ultima modifica 2 mesi fa di Mess Qualia aspetti qualitativi delle esperienze coscienti  Locus ceruleus Sinestesia tattile-speculare raro fenomeno sensoriale/percettivo  Wikipedia Il contenutoGrice: “The grammar of ‘mutuality’ can be extraordinarily complicated. But I’m sure Schiffer’s ‘A and B mutually know that p’ doesn’t make sense as an analysandum.” Grice: “You can trade (L mutate both ways) or exchange *information* -- The grammar is: A and B are in love – implicated: ‘mutual’ --  A and B are friends – implicated: mutual. Dickens, who never attended Oxford, would never catch the subtlety of his biggest solecism, “Our mutual friend”! – Grice: “But I’m surprised from Schiffer, who did attend the varsity!” -- Giorgio Cosmacini. Cosmacini. Keywords: compassione, salute, mens sana in corpore sano, storia della medicina, Foucault, l’anello di Asclepio, la medicina nella Roma antica, giacobinismo, fascismo, giacobinismo in Italia, medici fascisti, medicina fascista, la medicina non e una scienza, tanatologia, bio-chemica, la chemical della vita, bio-chemistry –Grice on life, the philosophy of life, cooperation and compassion. Imperativo conversazionale, compassione conversazionale, imperative della mutualita conversazionale – mutualita conversazionale – imperative of conversational mutuality, mutuality, mutual, the depth grammar of mutuality – Grice against Schiffer – Grice scared by ‘mutual knowledge’ – and using it in scare quotes (“Such monsters as Schiffer’s ‘mutual knowledge’ have been proposed to replace my regress when there’s nothing wrong with stopping it elsewise!” Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cosmacini” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Cosmi: l’implicatura conversazionale dei discorsi: corsi e ricorsi -- metodo dei principi generali del discorso – filosofia italiana – Luigi Speranza (Casteltermini). Filosofo italiano. Grice: “I love Cosmi – for one he uses the very exact phrase I do, ‘the general principles of discourse,’ and he also finds them to have a rational (‘razionale’) basis – they involve those desiderata for helpful communication, a co-operative principle – concerning most constraints I refer to: the necessity to avoid superfluity (supperfluita) and to maximize clarity (chiarezza) – so that’s genial!” – Grice: “Cosmi actually has two treatise, a more theoretical one, “General principles of discourse,” and an applied tract, “Metodo’ – of the “general principles of discourse’ – he had already elaborated on all the figures of rhetoric, so he knew what he was talking about and where he was leading --.” Grice: “The fact that he like me also loved Locke – and perhaps was more of a ‘sensista’ than I am, makes him great, too!” Fu un'imponente filosofo, no italiano, ma siciliano (Grice: “Sicily is not considered part of the ‘peninsola italiana’). Formatosi nel Seminario dei Chierici di Agrigento, ricopre la carica di rettore a Catania. Riceve dal re Ferdinando l'incarico di redigere il piano regolatore della filosofia siciliana. Da un rilevante contributo all'innovazione del illuministimo. Fu un grande filosofo, il primo e il più geniale del regno meridionale e uno dei primi e più geniali del Settecento italiano. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.   Principi generali del discorso, e della ortografia italiana ad uso delle regie scuole normali di Sicilia by C., edition published in Italian and held by 2 WorldCat member libraries worldwide. E primo forne il D2 Cosmi. Questo e un aureo libretto dei "Principi generali del discorso" – i. e. un principio comune a ogni discorso. Questo affinchè il filosofo a una nozione direttrice, non superflue. In questo trattato invano cercheresti quella immensa farragine di precetti disordinati, e quelle infinite minuterie non necessarie, con cui si sostitoleva confondere e stancare la prattica conversazionale del giovanetto. Si spone un solo principio generale e fondamentale, sintetizzato nell'antico ma verissimo motto: precetto uno. Il resto e uso. Questa mia preziosa filosofia è un sapientissimo essamine pel filosofo che vuole adoperare il "metodo conversazionale." Quivi si ricorda dapprimà quanto in occasione di filosofare sulla maniera di dare la prima istruzione conversazionale al ragazzo, in caso la necessita. Si ricorda come puo potè attuare la mia prammatica conversazionale, mettendo in esecuzione un maniobra chiara, spedita, uniforme per ogni topico conversazionale adattata alla maniera del civil conversare --  è cosa necessaria il sapere la semantica e le implicature conversazionale del volgare linguaggio. Il pirincipio della conversazionale e un principio di chiarezza (perspicuita) -- e un principio di aggiustatezza (approprio_ -- e un principio di mezzana eleganza (stilo estetico), e un principio senza oscurità, e un principio con univoci e senza cattive equivoci (un buon aequi-voce e accettable)– sensa non sunt multiplicanda praeter necessitatem --, e un principio senza superfluità (economia dello sforzo conversazionale, fortitudine conversazionale, candore conversazionale -- e un principio senza barbarismi -- imperciochè la perfezione e efficenza del volgare linguaggio guidato dalla semantica formale e il segno del reale. E vuole che al giovane si da un principio generale e fondamentale -- e un principio generale della conversazione, esposto con metodo ragionabile e calculable e con chiarezza. Un solo principio o imperativo categorico, un principio di efficenza communicative -- un principio soggetto il meno che si può all'eccezione o la violazione involuntaria si non a la splotazione retorica -- e un principio stesso ben capito e ben esercitato, chi forma il  corpo di ogni parte della filosofia. Ebbe un giorno a scrivere di CICERONE, che questo ingegno eminente prende a gradi la sua maturità e si perfezionava coll’uso, colla riflessione e col maneggio dei grandi affair. Or quello che osservo su Cicerone, intervenne proprio me medesimo, i cui Elementi di filologia, non prometto continuazione; ma osservazioni su l'uso dei Principj del Discorso, e qualche riflessione su i primi pensieri, da cui era partito nell'immaginar il mio metodo, gli somministrarono la materia di un secondo, e anche di un terzo volume di preziose nozioni di metodica prammatica.  Il secondo volume  e come il primo, è diviso in due parti.  La prima parte ha per titolo, “PRINCIPJ GENERALI DEL DISCORSO applicati alla lingua volgare”, per la quale avverto che, sebbene nelle parti già pubblicate dei “Principj generalie del discorso” siesi detto ciò che basta per l'istruzione della prima età; la sperienza mi ha fatto conoscere, che, volendosi col metodo intrapreso tirare innanzi il cammino, per la piena intelligenza,  1 C., Elem. di filol. ecc.,  Elem. di filol, ital. e latina, tomo II, Palermo; pag. III   ed imitazione dei classici principalmente italiani, era necessario ad entrare in qualche più esteso rischiarimento, *non per multiplicare l’imperativo conversazionale, ma per agevolarne l'uso, senza di cui inutili sempre la massima conversazionale universalisable si rimarranno. Dietro di che, in cinque paragrafi, filosofo, con la solita competenza, “Del Pronome in generale”, “Del Pro-nome ed dell’Articolo”; “Del pronomi e del verbo che ne dipendono; Della Preposizione, detta “segnacasi”, e “Della Costruzione irregolare”. I quali cinque paragrafi, con la giunta delle prime due parti dei PRINCIPJ GENERALI DEL DISCORSO  -- PRINCIPIO GENERALE DEL DISCORSO -- già stampati a riprese. Egli fece riunire in separato volumetto per uso degli scolari 3  Io non mi stancherei, dirò col  Blasi, di riportare varie altre sentenze, che oggi pajono roba fresca, e pure da presso a un secolo il nostro l'aveva annunziato con tanta chiarezza da farla scorgere anco ai ciechi; ed è per tanto che riferisco qualche altro criterio, che dovrebbe aver nell'animo e nella coscienza ognuno, che si dà all'educazione specialmente elementare:  Invece di sorprendere, cosi il C., l'età fanciullesca coll' apparenza dottrinale di parole incognite, ingegnerassi il maestro a far vedere, che ciò che s'insegna di nuovo, è presso a poco quanto sapeva il fanciullo o quanto avrebbe potuto agevolmente sapere con un poco di riflessione 5.  Anzi che ad un giuoco di memoria desiderava che lo studio fosse diretto allo sviluppo dell'intendimento; inculcava lo studio dell' aritmetica fatto a norma delle regole predette, e indi tornava a ribadire che:  Per mantenere sempre desta l'attività nella mente degli allievi, è di somma importanza il non sgomentarli giammai coll'apparenza di gravi difficoltà nelle operazioni che loro si propongono; anzi colla frequenza degli esempi il far loro osservare, che avrebbero da se sciolto le domande, se avessero fatto riflessione alle cose sa pute 6.  E poi seguiva cosi:  Che se alle volte occorrerà di dovere insegnare delle cose difficili, allora il maestro procurerà di scemare la difficoltà colla curiosità della ricerca, perchè il piacere della scoverta l'incoraggisca al tedio dell'operazione. Ma qualora la curiosità non è infiammata, il fanciullo non sente altro che la fatica, e la fatica sola da se ributta 7.  Poi chiedeva a se stesso:  É necessario il rappresentare al naturale lo stato presente della educazione ncstra letteraria? Lo farò con coraggio. Si è caricata la nostra memoria; perciò è rimasto senza energia e senza originalità l'intelletto. La nostra filosofia, in vece   C., Metodo dei principj generali del Discorso, Palermo, Metodo cit., BLABI, Note storiche di G. A. De C.; Palermo, Cosmi, Metodo ecc., d'essere l'arte di pensare, è stata l'arte di parlare di ciò che non s'intende; la nostra rettɔrica, l'arte di csaggerare con parole, e di parlare a controsen 30. Gran servigio, gran servigio, ridico, si presta al pubblico da chi indirizza per la strada regia del sipere la presente gioventù, da chi coltiva la loro ragione e il loro cuore.  Era tempo oramai di aprirsi a tutti la strada alla coltura delle scienze e delle arti; di venire nella comune estimazione le cognizioni realmente utili all'umanità, di siudiarsi la Natura nei suoi varj regni e nel suo vero prospetto. Era già il tempo ce la pubblica e la privata utilità fossero rico 103ciute ch.n: la misar di calcolare l'importanza delle cognizioni; che la Religione s'impari nella sua storia, nei suoi Dogmi, nella sua Morale, mi senza il pru:ito della costroversia; che nelle lingue doite si cerchi il gusto, ma senza pedanteria; che le matematiche, e l'analisi ci servano di guida nelle cognizioni astratte; che nelle scienze naturali si cerchino i mezzi per accrescere, o conservare la sanità dei nostri corpi, o per influire ne la ricchezza nazionale, coltivando e migliorando i prodotti dell'arte e della natura; e che finalmente la volgare e popolare lingua, vero termometro della coltura nazionale, si perfezioni; che non pud perfezionarsi, senza che si eserciti la ragione nello stesso tempo '.  [ocr errors] IV.  A questa stupenda Direzione pei maestri, il De Cosmi unì la prima parte dei Principj Generali del Discor30, che già aveva stampato a solo sin. dal 1790; cui fece seguire ora dalla parte secondo, che delle proposizioni, dei verbi, dei pronomi, delle congiunzioni s'intertiene, chiudendola con alcune regole primarie ad illustrazione delle altre, messe in fine della prima parte; e terminando l'aureo librettino con un capitolo sulla Scelta dei libri necessari allo studio della lingua italiana; dove vuole che siano preferiti i libri del Trecento; additando per libro di prima lettura il Fiore di virtù o il Volgarizzamento dei Gradi di S. Girolamo, 'od anche gli Ammaestra. minti degli antichi di frate Bartolomeo da San Concordio; e per la seconda classe, il Trattato del Governo della famiglia di Agnolo Pandolfini 5.  A sintesi di tutto il libretto il De Cosmi conchiude così:  Ciò che i maestri debbono inculcar continuamente alle tenere orecchie degli scolari sarà la necessità delle regole e dell'uso; perchè l'uso e le regole sono i veri arbitri di ogni lingua. Nulla contro le regole, nissuna parola fuori dell'uso",  Questo pregevole volumetto incontrò l'applauso di tutti i letterati; e un di essi, che si volle occultare sotto le iniziali 0. G. R. P., ne fece una bellissima ed estesa rivista nelle Notizie Letterarie di Cesena-agosto 1792 “.   1 G. A. De Cosmi, Op. cit., p. 17-18. . Vedi sopra pag. 166.  • C., , Metodo ecc., p. 56-57."  • Lo stesso, Op. cit., p. 60-61.  * Pag. 55 e seg.   L'articolo dell' O. G. R. P. venne riprodotto da Angelo nelle Memorie per servire alla Storia letteraria di Sicilia; Ms. della Biblioteca Comunale C.. Discorso concetto filosofico Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce sull'argomento linguistica è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento. Un discorso è una modalità di comunicazionelinguistica mediante cui si parla o scrive. La definizione del termine varia a seconda dei campi di applicazione (antropologia, etnografia, cultura, letteratura, filosofia, ecc.).  In semantica e analisi del discorso è una generalizzazione del concetto di comunicazione all'interno di tutti i contesti. Nel campo dei codici è la totalità del linguaggio utilizzato (vocabolario) in un determinato settore di pratica sociale o ricerca intellettuale (es: discorso giuridico, discorso religioso, discorso medico, ecc.). Michel Foucault ha definito il discorso come "un ensemble de séquences de signes" (un insieme di sequenze di segni).[1] Per quanto riguarda il campo delle scienze sociali e delle scienze umanistiche, il termine ha rilevanza riguardo a un pensiero che si può esprimere mediante il linguaggio.  Il discorso si differenzia dall'enunciato e dalla dichiarazione. Il discorso, infatti, può rappresentare la manifestazione di un pensiero individuale relativamente o meno a un determinato argomento; la dichiarazione invece consiste in un atto ufficiale di solito è preparato e coinvolto in documentazioni.   Con il termine discorso si identifica anche l'esposizione pronunciata in pubblico relativamente a un argomento o materia (discorso inaugurale, discorso commemorativo, ecc.).  Foucault, L'archéologie du savoir, Parigi, Gallimard, 1969, p. 141. Voci correlateModifica Parti del discorso Parresia Discorso diretto Discorso indiretto Frase Autore Dialettica Retorica Monologo Dialogo  «discorso» Portale Antropologia   Portale Filosofia   Portale Linguistica   Portale Sociologia Pregiudizio Strutturalismo (filosofia) movimento filosofico  Le parole e le cose Libro di Michel Foucault. Grice: “I call it ‘principle’ not ‘principles’ – or at least I did in my first William James lecture: ‘some general principle of discourse’ – I later found out that Aristotle is right: ‘arkhe’ is best used in the singular!.Grice: “So MY principle is ‘be cooperative’ – principle of conversational helpfulness --.  Maxims are not as important as ‘principle’ is – as Kant would agree!” Cosmi. Giovanni Agostino De Cosmi. Giovanni Cosmi. R Cosmi. Keywords: metodo dei principi generali del discorso, discorso, discursus, principle versus principle – principio, principii  -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cosmi” – The Swimming-Pool Library.Cosmi.

 

Grice e Cosottini: l’implicatura conversazionale di MELOPEA – filosofia italiana –Luigi Speranza (Figline Valdarno). Filosofo italiano. Grice: “Cosotini considers ‘Home, sweet home,’ in terms of linearity – surely Miss X can ‘improve’ on the score! Especially if she did visit Payne’s little cottage by the sea – in Easthampton, and shed a tear!”. Si laurea a Firenze con “Fenomenologia”. Fonda GRIM, Gruppo per la Reserccia dell’Improvisazione Musicale. GRICE Gruppo por la research dell’Improvisazione conversazione espressiva. Insegna Improvvisazione Musicale. Le Fanfole, canzoni composte su testi del poemetto meta-semantico di Fosco Maraini Gnosi delle Fanfole. Linearità e Nonlinearita in semiotica – sintagma lineare, sintagma soprasegmentale – the volume of a sound – a ‘natural’ expression of pain – the higher the volume, the higher the pine --. Grice on stress, intonation and implicature. I KNOW it. I KNOW it (you don’t have to tell me). SMITH paid the bill. Due conversazionaliste si muovono pacatamente per le loro vie, variando direzioni e anche versi, ascoltandosi sempre, ma con dialoghi liberi e mai serrati. “La musica dei matti” creazione dialogica di suoni del tutto libera e interamente legata all'istante, tale da produrre mozzione conversazionale dallo sviluppo verticale. Improvvisare la verità. Il concetto di ‘improvvisare’ improvissato – cf. English ‘improved’. Improvisation – improvised. Musica e Filosofia. Realizza la partitura grafica Dettagliper tre esecutori, che consiste di una mappa e ottantuno carte con segni grafici codificati (la mappa e le carte sono i “veicoli” e il modo in cui si legge la grafia genera molteplici possibilità di implicature. “wordless novel”. I suoi studi si concentrano sulla filosofia della musica e sull’improvvisazione musicale, scrivendo numerosi saggi per riviste specializzate come Musica Domani, Perspectives of New Music, Aisthesis, Musicheria e la rivista online De Musica.  Inoltre pubblica un saggio sul silenzio e sulle sue potenzialità performative. Metodologia dell'Improvvisazione Musicale. Tra Linearità e Nonlinearità, un libro di metodologia dell’improvvisazione musicale nel quale Cosottini teorizza la dicotomia tra Linearità e Nonlineairtà come strumento per l’analisi dell’improvvisazione musicale.  Non-linearita EDT, il silenzio in contesto non lineare, Filosofia della Musica. Non-linearità.  Metodi non lineari. EDT Non linearità. EDT Ascolto creativo e scrittura creativa di un’improvvisazione musicale. Metodologia dell’improvvisazione musicale. Tra Linearità e Nonlinearità Edizioni ETS, L’estetica dell’improvvisazione tra suono e silenzio in Musica Domani, improvisation-research-center--musica-e-filosofia. Do You Need A Sign.  Wikipedia Ricerca Palazzo Bardi edificio a Firenze Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Palazzo Bardi (disambigua). Palazzo Bardi Palazzo busini-bardi 11.JPG Esterno del Palazzo Bardi Localizzazione StatoItalia Italia RegioneToscana LocalitàFirenze Indirizzovia de' Benci 5 Coordinate 43°46′02.99″N 11°15′32.75″E Informazioni generali CondizioniIn uso CostruzioneXV secolo Realizzazione Committentebanchieri Busini Il palazzo Bardi o Busini-Bardi-Serzelli si trova in via de' Benci 5 a Firenze.   Palazzo Bardi, il cortile attribuito a Brunelleschi StoriaModifica Fu costruito su preesistenze negli anni Trenta del XV secolo per conto della famiglia di banchieri Busini, su disegno forse di Filippo Brunelleschi: è quindi evidente la sua grande importanza nel testimoniare, circa quindici anni prima della costruzione di palazzo Medicidi via Larga ad opera di Michelozzo, il definirsi della tipologia del palazzo rinascimentale, con cortile centrale, in un momento di significativa crescita urbana promossa dai ceti dirigenti del tempo.  Giovanni de' Bardi (della linea di Gualtiero, non di quella di Piero, esiliata nel 1343) acquistò il palazzo nel 1482: la famiglia già nel secolo precedente aveva significative proprietà di là dal ponte. Agnolo de' Bardi, nipote di Giovanni, fece fare dei lavori di ammodernamenti al palazzo, forse con il concorso di Giuliano da Maiano, ma non ne venne modificato l'assetto generale. Furono chiuse le grandi aperture sul fronte che davano accesso a vari locali adibiti a botteghe (una successione di fornici è ancora apprezzabile su via Malenchini e due permangono su via de' Vagellai). Da sottolineare come i lavori, pur giungendo ad esiti formalmente diversi, si sviluppassero in parallelo con quelli dell'antistante palazzo Corsi, ugualmente volti a convertire la più antica struttura medievale in un palazzo adeguato alla nuova concezione rinascimentale.   Preesistenze sul lato sud in via Malenchini Verso la fine del XVI secolo, come ricorda una lapide sulla facciata, si riuniva in questo palazzo una comitivadi letterati, artisti e musicisti, conosciuta sotto il nome di Camerata fiorentina di casa Bardi, istituita dapprima allo scopo di risuscitare l'antico teatro greco e che più tardi si occupò del melodramma teatrale, tanto che qui si eseguì per la prima volta il canto dantesco del conte Ugolino, messo in musica da Vincenzo Galilei e si eseguirono le Nuove Musiche di Giulio Caccini. Più tardi la Camerata divenne Accademia, trasferendosi nell'odierno palazzo Corsi-Tornabuoni in via Tornabuoni.  Il palazzo fu abitato dai Bardi fino all'estinzione del ramo familiare a inizio dell'Ottocento, per poi passare ai Bardi Serzelli, che l'hanno abitato fino al 1954, anno della morte del conte Alberto. Successivamente affittato alla Provincia di Firenze, è stato da questa scelto negli anni settanta per ospitare il III Liceo Scientifico statale. Nel 1983 ha subito il rifacimento degli intonaci sul fronte di via Malenchini. A partire dal 1990 circa, oramai liberato dalla presenza della scuola e acquistato da una società immobiliare, è stato interessato da un complesso cantiere finalizzato al recupero della fabbrica e alla suddivisione in appartamenti dei grandi ambienti interni, conclusosi nel 2007.  Il palazzo appare nell'elenco redatto nel 1901 dalla Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti, quale edificio monumentale da considerare patrimonio artistico nazionale, ed è sottoposto a vincolo architettonico. Descrizione  Esterno La semplice facciata, sviluppata sui canonici tre piani e graffita con una finta muratura a conci rinnovata nel 1885 (al tempo della proprietà di Ferdinando Bardi, comunque da considerare sostanzialmente fedele alle preesistenze), quindi restaurata e integrata nell'ambito del recente intervento, presenta ai lati due scudi con le armi, oramai consunte ma ancora ben leggibili, della famiglia Busini (d'azzurro, a tre fasce increspate d'oro, e alla banda attraversante di rosso, caricata di tre rosed'argento). Da segnalare sul fronte anche la lapide che ricorda come, in questo palazzo, Giovanni Bardi conte di Vernio avesse riunito a Camerata fiorentina di casa Bardi, in seno alla quale nacque il melodramma.  IN QUESTA CASA DEI BARDI VISSE GIOVANNI CONTE DI VERNIO CHE AL VALOR MILITARE MOSTRATO NEGLI ASSEDI DI SIENA E DI MALTA CONGIUNSE LO STUDIO DELLE SCIENZE E L'AMOR DELLE LETTERE COLTIVÒ LA POESIA E LA MUSICA E ACCOLSE E FU L'ANIMA DI QUELLA CELEBRE CAMERATA LA QUALE INTESA A RIPORTARE L'ARTE MUSICALE IMBARBARITA DALLE STRANEZZE FIAMMINGHE ALLA SUBLIMITÀ DELLA MELOPEA DI CUI SCRISSERO GLI STORICI DELL'ANTICA CIVILTÀ APRÌ LA VIA GIÀ CHIUSA DA SECOLI AL RECITATIVO CANTATO E ALLA MELODIA E CON LA RIFORMA DEL MELODRAMMA FU LA CUNA DELL'ARTE MODERNA. Palazzo busini-bardi, targa camerata dei bardi. JPG  Stemma Bardi sul cancello d'ingresso Di rilievo l'androne, chiuso sul fondo da una elegante cancellata (presumibilmente databile al Settecento) con sulla rosta l'arme dei Bardi (d'oro, alla banda di losanghe accollate di rosso) accostata da due aquile. Le fasce marcapiano aggettanti sono ornate da volute di fiori, primo esempio di "stile nuovo" fiorentino. Semplici finestre centinate si allineano su otto assi. all'esterno si trova murato anche un piccolo tabernacolo con un affresco scarsamente leggibile con la Madonna in gloria adorata da una monaca.  L'elemento più interessante è il bel cortile centrale porticato sui quattro lati, progettato forse dal Brunelleschi, probabilmente il primo cortile privato signorile a Firenze (dopo i cortili pubblici del Palazzo del Bargello e di Palazzo Vecchio): a pianta quadrata, presenta arcate a tutto sesto con colonne con capitelli corinzi che scandiscono lo spazio. I volumi sono scanditi ad altezza doppia rispetto al modulo usato spesso successivamente del cubo sormontato da semisfera: qui l'altezza delle colonne è doppia rispetto all'intercolumnio (a differenza per esempio del loggiato dello Spedale degli Innocenti) e, pur mantenendo dimensioni armoniche, presenta un maggior slancio. Tipicamente brunelleschiana è anche la disposizione delle porte che si aprono sul cortile.  "Si osservi anche il sonoro androne d'ingresso, con volte a crociera su capitelli pensili strettamente analoghi a quelli del palazzo di Niccolò da Uzzano; o lo splendido episodio dei capitelli delle colonne del cortile stesso, che presentano un singolare episodio di protocorinzio appunto brunelleschiano, cui non a caso rispondono i capitelli del cortile della casa di Apollonio Lapi, posta in via del Corso 13, egualmente attribuita all'esordio professionale di Filippo: per la qual cosa piacerebbe datare pure il prezioso testo architettonico protobrunelleschiano di palazzo Bardi (Morolli).  All'interno molte stanze presentano dei soffitti in legno risalenti all'epoca di Agnolo de' Bardi, che li fece uniformare.  BibliografiaModifica  Tabernacolo Emilio Burci, Guida artistica della città di Firenze, riveduta e annotata da Pietro Fanfani, Firenze, Tipografia Cenniniana; Ministero della Pubblica Istruzione (Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti), Elenco degli Edifizi Monumentali in Italia, Roma, Tipografia ditta Ludovico Cecchini; Ross, Florentine Palace and their stories, with many illustrations by Adelaide Marchi, London, Dent; Schiaparelli, La casa fiorentina e i suoi arredi, Firenze, Sansoni, Limburger, Die Gebäude von Florenz: Architekten, Strassen und Plätze in alphabetischen Verzeichnissen, Lipsia, F.A. Brockhaus, Bertarelli, Italia Centrale, II, Firenze, Siena, Perugia, Assisi, Milano, Touring Club Italiano; Garneri, Firenze e dintorni: in giro con un artista. Guida ricordo pratica storica critica, Torino et alt., Paravia; Bertarelli, Firenze e dintorni, Milano, Touring Club Italiano; Allodoli, Arturo Jahn Rusconi, Firenze e dintorni, Roma, Istituto Poligrafico e Libreria dello Stato, Barfucci, Giornate fiorentine. La città, la collina, i pellegrini stranieri, Firenze, Vallecchi; Thiem, Christel Thiem, Toskanische Fassaden-Dekoration in Sgraffito und Fresko, München, Bruckmann, Limburger, Le costruzioni di Firenze, traduzione, aggiornamenti bibliografici e storici a cura di Mazzino Fossi, Firenze, Soprintendenza ai Monumenti di Firenze, Biblioteca della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio per le province di Firenze Pistoia e Prato);  Bucci, Palazzi di Firenze, fotografie di Raffaello Bencini, 4 voll., Firenze, Vallecchi, Quartiere di Santa Croce; Quartiere della SS. Annunziata; Quartiere di S. Maria Novella, Quartiere di Santo Spirirto; Lisci, I palazzi di Firenze nella storia e nell’arte, Firenze, Giunti & Barbèra, Fanelli, Firenze architettura e città: atlante -- Firenze, Vallecchi, Touring Club Italiano, Firenze e dintorni, Milano, Touring Editore; Salvagnini, La guerra degli sporti, in "Granducato", Bargellini, Ennio Guarnieri, Le strade di Firenze, Firenze, Bonechi, Il Monumento e il suo doppio: Firenze, a cura di Marco Dezzi Bardeschi, Firenze, Fratelli Alinari; Firenze. Guida di Architettura, a cura del Comune di Firenze e della Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze, coordinamento editoriale di Domenico Cardini, progetto editoriale e fotografie di Lorenzo Cappellini, Torino, Umberto Allemandi; MOROLLI, Vannucci, Splendidi palazzi di Firenze, con scritti di Janet Ross e Antonio Fredianelli, Firenze, Le Lettere; Zucconi, Firenze. Guida all’architettura, con un saggio di Pietro Ruschi, Verona, Arsenale; Cesati, Le strade di Firenze. Storia, aneddoti, arte, segreti e curiosità della città più affascinante del mondo attraverso vie, piazze e canti, 2 voll., Roma, Newton & Compton editori; Touring Club Italiano, Firenze e provincia, Milano, Touring, Pecchioli, ‘Florentia Picta’. Le facciate dipinte e graffite dal XV al XX secolo, fotografie di Antonio Quattrone, Firenze, Centro Di; Paolini, Case e palazzi nel quartiere di Santa Croce a Firenze, Firenze, Paideia; Paolini, Lungo le mura del secondo cerchio. Case e palazzi di via de’ Benci, Quaderni del Servizio Educativo della Soprintendenza BAPSAE per le province di Firenze Pistoia e Prato n. 25, Firenze, Polistampa; Paolini, Architetture fiorentine. Case e palazzi nel quartiere di Santa Croce, Firenze, Paideia, Palazzo Bardi; Paolini, scheda nel Repertorio delle architetture civili di Firenze di Palazzo Spinelli(testi concessi in GFDL). Una pagina sulla conservazione del palazzo, su limen.   Portale Architettura   Portale Firenze Ultima modifica 2 anni fa di Omega Bot Palazzo Malenchini Alberti Palazzo Bardi-Tempi Palazzo de' Benci Edificio a Firenze, Italia. Mirio Cosottini. Cossotini. Grice: “I am sure that a suprasegmental or non-linear segment adds to what a conversationalist means – he means THAT Smith did not pay the bill, and that somebody else did” – By stressing on LOVE he means that he likes her AND that he loves her.” Keywords: melopea, prosodia, Hjelmslev, Hockett, fonema, tratto sopra-segmentale, stress – Grice’s examples: “Smith kicked the cat” – “Smith didn’t pay the bill. Nowell did.” “Smith didn’t pay the bill”. “I knew it” “I love her” -- segno, nonlinearita, codice, soprasegmento. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cosottini” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Costa: l’implicatura conversazionale dell’interno e l’esterno – l’internalizzazione-l’esternalizzazione -- uomini fuori di sé– filosofia italiana – Luigi Speranza (Torre del Greco). Filosofo italiano. Grice: “I love Costa; if I have to chose three of my favourite essays of his, those would be, “Le passioni,” “L’uomo fuori di se: l’esternalissazione’ and above all, his sublime, “l’estetica della communicazione,’ which is what my philosophy is all about!” --  Mario Costa (Torre del Greco), filosofo. È conosciuto, in particolare, per aver studiato le conseguenze, nell’arte e nell’estetica, delle nuove tecnologie, introducendo nel dibattito filosofico una nuova prospettiva teorica, attraverso concetti come "estetica della comunicazione", "sublime tecnologico", "blocco comunicante", "estetica del flusso".  Professore a Salerno e, come professore incaricato di Metodologia e storia della critica letteraria e di Etica ed estetica della comunicazione, ha contemporaneamente insegnato per molti anni nelle Università degli Studi di Napoli "L'Orientale" e di Nizza (Sophia-Antipolis). A Salerno ha fondato e diretto, daArtmedia, Laboratorio permanente dedicato al rapporto tra tecno-scienza, filosofia ed estetica, organizzando su queste tematiche decine di iniziative di studio, mostre e convegni internazionali. L'estetica dei media ha ottenuto il Premio Nazionale Fabbri.  Pubblicato una trentina di libri; alcuni di essi e numerosi suoi saggi sono tradotti e pubblicati in Europa e in America. Il suo lavoro teorico si è svolto in due momenti successivi ed ha seguito due fondamentali direzioni di ricerca: l'interpretazione socio-politica e filosofica delle avanguardie artistiche, e l'elaborazione di una filosofia della tecnica costruita soprattutto attraverso l'analisi dei cambiamenti che la nuova situazione tecno-antropologica ha indotto nell'arte e nell'estetico.  Per quanto riguarda la prima delle due direzioni indicate, ha fornito un complesso di interpretazioni filosofiche ed estetiche di numerosi movimenti dell'avanguardia artistica e letteraria. Momenti di particolare rilievo in questo ambito di ricerca possono essere considerati i suoi lavori su Duchamp e sulle funzioni della moderna critica d'arte, nonché i suoi studi sul "lettrismo" e sullo "schematismo", movimenti artistici di grande importanza, anche estetologica, ma, all'epoca, pressoché ignoti in Italia. Per quanto riguarda la seconda delle direzioni indicate, il suo pensiero si è a sua volta sviluppato secondo due assi fondamentali: uno riguardante le conseguenze sociali ed etiche della comunicazione tecnologica, riassunte soprattutto nel libro La televisione e le passioni che analizza gli effetti disgreganti e distruttivi della televisione, e poi nel più recente La disumanizzazione tecnologica, e l'altro, dominante rispetto al primo, consistente in un ripensamento del senso che l'"estetico" e l'"artistico" vanno assumendo nella fase attuale delle nuove tecnologie elettro-elettroniche e digitali della scrittura, dell'immagine, della spazialità, del suono e della comunicazione, ciò che lo ha condotto ad una radicale ed originale reimpostazione teoretica di tutto il campo investigato. Negli ultimi suoi lavori (Ontologia dei media, e Dopo la tecnica) la prospettiva teoretica si è andata ulteriormente approfondendo dando luogo ad una compiuta filosofia dei media e della tecnica in quanto tale. Alcune opere rappresentative L'estetica dei media può considerarsi, per i contenuti trattati e per la inedita metodologia di indagine instaurata e seguita, un libro che apre un nuovo campo di ricerca, prima del tutto ignorato ed inesplorato dalle discipline estetologiche, quello appunto della "estetica dei media", da non confondere, ad esempio, con l'estetica della fotografia o con quella del cinema, alle quali ha comunque dedicato altri suoi importanti lavori. Il libro in questione segue ai diversi contributi teorici relativi all'estetica della comunicazione le cui identificazione, nominazione e formulazione teorica risalgono, e che è ora rappresentata, nella sola Italia, da numerose Cattedre e indirizzi universitari. Il sublime tecnologico è considerato il lavoro più noto e più innovativo di tutta la sua produzione teorica; è in esso che, considerando le conseguenze indotte nel campo dell'arte e dell'estetico dalla nuova situazione tecno-antropologica, si parla dell'oltrepassamento della dimensione dell'arte e delle categorie ad essa connesse, nella direzione di una nuova forma di sublime, quella appunto del sublime tecnologico, con tutto quello che questo concetto implica e comporta. La nozione del sublime tecnologico è stata diffusamente accolta e seguita sul piano internazionale della teoria estetica ed ha sollecitato un incalcolabile numero di sperimentazioni da parte di artisti di tutto il mondo. Arte contemporanea ed estetica del flusso traccia le linee di una nuova estetica e della sperimentazione artistica che da essa può scaturire. Si tratta da una parte di un violento e argomentato pamphlet contro l'arte contemporanea, ritenuta “una congerie più o meno sgradevole di nullità mercantili”, e dall'altra della tematizzazione ed elaborazione del concetto di “flusso estetico tecnologico”, considerato come ultima e residua possibilità di sperimentazione per gli artisti e come chiave per comprendere alcuni aspetti dell'ontologia contemporanea. Dopo la tecnica ripercorre la storia delle varie epoche della tecnica sottolineandone la discontinuità e la capacità di agire configurando, ogni volta in maniera diversa, l'organizzazione antropologica di chi da esse è abitato. Sulla base di questi presupposti, si mostra come la tecnica, una volta connessa e dipendente dai bisogni umani, si va rendendo incondizionatamente autonoma forzando l'uomo a vivere dentro di essa, ad appartenerle e a favorire il suo sviluppo. Altre saggi: “Arte come soprastruttura”, Napoli, CIDED, Teoria e Sociologia dell'arte, Napoli, Guida Editori, Sulle funzioni della critica d'arte e una messa a punto a proposito di Marcel Duchamp, Napoli, M.Ricciardi Editore, Il ‘lettrismo' di Isidore Isou. Creatività e Soggetto nell'avanguardia artistica parigina posteriore, Roma, Carucci Editore, Le immagini, la folla e il resto. Il dominio dell'immagine nella società contemporanea, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, Il sublime tecnologico, Salerno, Edisud, L'estetica dei media. Tecnologie e produzione artistica, Lecce, Capone Editore, Il ‘lettrismo'. Storia e Senso di un'avanguardia, Napoli, Morra, La televisione e le passioni, Napoli, A.Guida, 1Lo ‘schematismo'. Avanguardia e psicologia, Napoli, Morra, Lo ‘schématisme parisien'.Tra post-informale ed estetica della comunicazione, Fondazione Ghirardi, Piazzola sul Brenta (Padova), Sentimento del sublime e strategie del simbolico, Salerno, Edisud, Della fotografia senza soggetto. Per una teoria dell'oggetto tecnologico, Genova/Milano, Co.& Nolan, Il sublime tecnologico. Piccolo trattato di estetica della tecnologia, Roma, Castelvecchi, Tecnologie e costruzione del testo, Napoli, L'Orientale, L'estetica dei media. Avanguardie e tecnologia, Roma, Castelvecchi, L'estetica della comunicazione. Come il medium ha polverizzato il messaggio. Sull'uso estetico della simultaneità a distanza, Roma, Castelvecchi, Dall'estetica dell'ornamento alla computerart, Napoli, Tempo Lungo, Internet e globalizzazione estetica, Napoli, Tempo Lungo, New Technologies, Artmedia-Museo del Sannio, oDimenticare l'arte. Nuovi orientamenti nella teoria e nella sperimentazione estetica, Milano, Franco Angeli, L'oggetto estetico e la critica, Salerno, Edisud, La disumanizzazione tecnologica. Il destino dell'arte nell'epoca delle nuove tecnologie, Milano, C. & Nolan, Della fotografia senza soggetto. Per una teoria dell'oggetto estetico tecnologico, Milano, C. & Nolan, Arte contemporanea ed estetica del flusso, Vercelli, Mercurio,  Ontologia dei media, Milano, Post media books,  Dopo la tecnica. Dal chopper alle similcose, Napoli, Liguori. Il lavoro teorico di C. teso, tra l'altro, a definire la nuova epoca dell'estetico connessa alle neo-tecnologie elettro-elettroniche e digitali, e a fare in modo che questa si andasse ben configurando e definendo, si è, per ciò stesso, sempre accompagnato ad un'intensa attività di promozione estetico-culturale:  agli inizi degli anni ottanta organizza a Napoli, col supporto della RAI-TV, una grande esposizione di videoarte (Differenzavideo); per sollecitare una riflessione sugli effetti estetico-antropologici indotti dalle tecnologie della comunicazione, co-organizza (conPerniola) presso l'Salerno, il Convegno Estetica e antropologia i cui Atti sono, in parte, pubblicati sulla Rivista di estetica di Torino, necrea, con l'artista Forest, il movimento internazionale dell'Estetica della comunicazione che presenta in vari contesti  (Electra di Popper, al Centre Pompidou a La Revue parlée di Gautier, ialla Sorbonne, al Séminaire de Philosophie de l'art di Revault D'Allonnes); dà luogo al primo evento/rassegna di estetica della comunicazione (L'immaginario tecnologico, Benevento, Museo del Sannio); concepisce e dirige, presso l'Salerno, Artmedia, Convegno Internazionale di Estetica dei Media e della Comunicazione; organizza presso l'Salerno un Convegno Internazionale su estetica e tecnologia; organizza presso la stessa Università il Convegno "Il suono da lontano". Eventi sonori e tecnologie della comunicazione"; realizza, per la RAI-TV (Dipartimento Scuola e Educazione) la trasmissione televisiva in tre puntate: Un'estetica per i media; fa svolgere, presso la settecentesca Villa Bruno (S.GiorgioNapoli) Technettronica. Laboratorio di Estetica dei Media e della Comunicazione; presenta per la prima volta in Italia presso l'Salerno due videoplays di Samuel Beckett; fonda e dirige, la Rivista Multilingue Epipháneia. Ricerca estetica e tecnologie, fonda e dirige, presso le Edizioni Tempo Lungo di Napoli, Vertici, una «Collana di Estetica e Poetiche» aperta alle questioni estetologiche connesse ai nuovi media (testi di Piselli, Cauquelin, Adorno, C., Solulard, Dorfles);  co-organizza a Parigi la Edizione di Artmedia; co-organizza presso l'Salerno il Convegno Internazionale Tecnologie e forme nell'arte e nella scienza; organizza presso il Museo del Sannio di Benevento la Mostra New Technologies (Roy Ascott, Maurizio Bolognini, Forest, Kriesche, Mitropoulos); norganizza presso l'Salerno la IX Edizione di Artmedia; nco-organizza a Parigi la X Edizione di Artmedia; norganizza presso l'Salerno un seminario conclusivo di Artmedia dal titolo "L'oggetto estetico dell'avvenire". Sulle funzioni della critica d'arte e una messa a punto a proposito di Marcel Duchamp, Napoli, Ricciardi, C., L'oggetto estetico e la critica, Edisud, Salerno. C., Il 'lettrismo' di Isou. Creatività e Soggetto nell'avanguardia artistica parigina, Carucci Editore, Roma,Il 'lettrismo'. Storia e Senso di un'avanguardia, Morra, Napoli, Si veda anche Signe, forme, schéma, ornement, in "Schéma et schématisation", L'estetica dei media. Avanguardie e tecnologia, Castelvecchi, Roma, C.Il sublime tecnologico. Piccolo trattato di estetica della tecnologia, Castelvecchi, Roma, Arte contemporanea ed estetica del flusso, Mercurio, Vercelli. Inoltre: Technology, Artistic Production and the "Aesthetics of communication", in "Leonardo", Tecnologie e costruzione del testo, L'Orientale, Napoli, Reti e destino della scrittura. Sulla diffusione e la rilevanza del suo pensiero, si vedano tra gli altri: Bootz, The thesis of Benjamin and C., in Bootz, Baldwin, Regards Croisés, West Virginia, Abruzzese, Il compiersi della pubblicità dal manifesto metropolitano ai linguaggi elettronici del presente: pretesti, testi e questioni, in Lattuada, Nuove tendenze ed esperienze nella comunicazione e nell'estetico, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane. Kerckhove, L'estetica dei media e la sensibilità spaziale. Riflessioni su un libro di C., in "Mass Media",Frank Popper, L'art à l'âge électronique, Paris, Hazan, C., professore di estetica, in MCmicrocomputer, Roma, Pluricom. esternalismo/internalismo. – La nozione di esternalismo (externalism), usata in contrapposizione a quella di internalismo (internalism), si è sviluppata principalmente in merito ai dibattiti sulla filosofia della mente e sull’epistemologia ed è attualmente al centro del dibattito filosofico sulla giustificazione epistemica, sull’epistemologia sociale, sul ruolo dell’ambiente e dell’esterno negli stati mentali, nei processi cognitivi e nei processi linguistici e comunicativi; si parla di e./i. anche in filosofia morale. Nell’e. una conoscenza si considera giustificata se è causata da processi affidabili derivati dall’esperienza esterna; diversamente, nella prospettiva internalista, una credenza viene considerata vera se fondata su esperienze interne al soggetto (per es. il cogitocartesiano), riconducendo la conoscenza, anche sensibile, del mondo esterno all’appercezione di stati di coscienza (Kornblith, Epistemology: internalism and externalism; Bonjour, E. Sosa, Epistemic justification: internalism vs. externalism, foundations vs virtues). Nella filosofia della mente, gli stati mentali vengono ricondotti, in prospettiva esternalista, a connessioni causali con l’ambiente esterno; in chiave internalista, a processi e fattori interni alla mente. Nella teoria della motivazione morale si parla di i. allorché si ritiene che vi sia una connessione necessaria fra considerazioni morali e motivazione, costitutiva della considerazione morale stessa; si parla invece di e. quando si ritiene che tale connessione si fondi su fattori concomitanti contingenti. Con l’argomento della ‘Terra gemella’ (twin Earth), il filosofo Hilary Putnam ha sostenuto che una differenza di estensione, ossia dell’insieme degli individui cui si applica un concetto o un predicato, è anche una differenza di significato; questo per dimostrare che i significati non sono enti mentali, ossia che la medesima parola applicata a due enti diversi (anche se non apparentemente tali) cambia di significato, benché averne o meno cognizione dipenda dalla competenza semantica dei parlanti in merito all’oggetto designato (The meaning of ‘meaning’, Gunderson, ed.,Language, mind and knowledge). A partire dalle tesi dell’e. semantico (in filosofia del linguaggio si privilegia la coppia di termini esternismo/internismo) il dibattito si è esteso alle filosofie della mente e alle scienze cognitive, indagando se il soggetto cognitivo sia circoscrivibile al cervello e al sistema nervoso, o se la mente e il mentale includano anche fattori ambientali, sia fisici sia sociali, ricalibrando i confini fra mente, corpo, ambiente. Nel dibattito filosofico ha avuto rilievo anche la tesi della ‘mente estesa’ di Clark e Chalmers (Chalmers, The extended mind, in Analysis; Clark, Supersizing the mind: embodiment, action, and cognitive extension, ), che riconosce il ruolo dei fattori extracorporei e ambientali nel costituirsi della mente, ma riguardo agli aspetti cognitivi non fenomenici (non coscienti). Superando contrapposizioni troppo rigide fra le due posizioni, nelle tesi esternaliste più recenti si tende a riconoscere non unicamente la dipendenza causale dall’esterno del mentale, ma a vedere l’origine del mentale nell’interazione causale ambiente-corpo-cervello, ciascuno influente nei processi cognitivi e mentali. In ambito sia semantico sia fenomenico si è differenziato l’e. dall’i. in base alla possibilità di ‘individuare’ uno stato mentale ritenendo di poter ricorrere, o meno, a fattori esterni (Wilson, Boundaries of the mind. The individual in the fragile sciences: cognition). Più recentemente si è teso invece a privilegiare l’aspetto della realizzazione fisica. Si parla, in tal senso, di e. del veicolo o anche procedurali, spostando il punto di messa a fuoco dall’identificazione del contenuto dello stato mentale (intenzionale o fenomenico) alla natura del sistema di realizzazione fisica di tale stato (Amoretti, La mente fuori dal corpo. Prospettive esternaliste in relazione al mentale). Entro l’approccio incentrato sul veicolo e sulla realizzazione fisica sono state elaborate posizioni differenziate, principalmente riguardo alla possibilità di comprendervi o meno elementi fenomenici, ossia legati agli stati cognitivi coscienti.Grice: “Costa uses words in ways we don’t allow at Oxford: a sign by which nobody signs; and so on.Mario Costa. Keywords: uomini fuori di sé, blocco comunicante, communicazione sine contenuto, communicazione fatica, semiotica, estetica della comunicazione, significante sine significato – segno sine segnato – autoreferenzialita – asemanticita – sintassi – retorica – codice – intenzione communicative, medio, messaggio, recursivita, self-reference, meta-linguaggio – linguaggio come metalinguaggio -- - Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Costa” – The Swimming-Pool Library. Costa.

 

Grice e Costa: l’implicatura conversazionale della sinestesia conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Ravenna). Filosofo. Grice: “My favourite keyword for Costa is ‘contrassegnare’!” – Grice: ““I love Costa; for one, he improves on Locke; on the composition of ideas and how to ‘countersignal’ them with ‘vocaboli precisi’ – I explored that a little in my ‘Prejudices and Predilections,’ when I attack minimalism and extensionalism, and provide a way which is meant to resemble Locke’s way of words, or rather Locke’s way of ‘complex’ words, or ‘composite’ (Costa’s ‘comporre’) out of ‘simple’ ones – as in Quine’s worn-out ‘bachelor’ unmarried male that I play with with Strawson in “In defense of a dogma.” In this respect, it is interesting to see that Costa also wrote on ‘ellocution’ and ‘sintesi’ versus ‘analisi’!” Figlio di Domenico e Lucrezia Ricciarelli, studia a Ravenna e Padova. Insegna a Treviso e Bologna, a Villa Costa, Bologna -- è costretto a riparare a Corfù perché sospettato di essere affiliato alla Carboneria. Può rientrare a Bologna. Altre opere: “I trattati della elocuzione e del modo di esprimere l’idea e di segnarla con una espressione precisa a fine di ben ragionare” – Colla profferenza, “Fa fredo,” C. segna che fa freddo. Il trattato filosofico della sintesi e dell'analisi; i quattro sermoni dell'arte poetica, un commento alla Divina Commedia, la Vita di Dante, il Dizionario della lingua italiana, poesie (Laocoonte), lettere e traduzioni.  Letterato neo-classico e dunque tipicamente italiano e anti-romantico, ammira i corregionali Monti e Giordani e sostenitore del purismo e del “sensismo” lucreziano in filosofia. Nella lettera a Ranalli di introduzione al Della sintesi e dell'analisi così riassume le sue concezioni filosofiche. È necessario, per togliere la infinita confusione che è nelle scienze ideologiche, di dare all’espressione un determinato valore. Sostengo che questo non si può ottenere, come crede Locke, colla de-finizione (horismos) (la quale e una scomposizioni di una idea o di piu idee), se prima la idea non sia stata ben composta. Sostengo che questa non si puo compor bene, se prima non si conosce quale ne sieno gli elementi semplici – soggetto e predicato, il S e P -- Sostengo che un elemento semplice e una reminiscenza relative a una sensazione, e che la idea si compone di almenno due di sì fatti elementi – il S e P – la proposizione, ‘segno che p’ -- e del sentimento del rapporto di una reminiscenza e dell’altra, cioè dei proposizione – nel indicativo o imperative – il giudizio – il giudicato – e la volizione – il volute. Da ciò conséguita che l'esperienza (se l'esperienza vale ciò che si sente mediante l'attenzione) è il fondamento della scienza umana. I kantisti ed altri filosofi distinguono una idea in una idea soggettiva e in una idea oggettiva, ed attribuiscono un'origine a posteriori e sintetico alla una ed un'origine a priori e analitico all’ltra. Questa distinzione può esser buona, ma non è buona l'ammettere che abbiano origini di natura diversa: a posteriori/sintetico, dal senso – e a priori/analitico – dall’intelleto – nihil est in intellectus quod prior non fuerit in sensu.  Ogni idea ha un stesso origine. e questo si fa palese per un solo esempio. Da una idea soggettiva puo nascere sue  proposizioni. Una proposizione: "La reminiscenza S1 e la reminicenza S2 sono in me”. Altra proposizione: “La reminiscenza S si associa con la reminiscenza P”. Qual è l'origine dell’idea dalla quale deriva sì fatta proposizione? Il sentimento. Dire che la reminiscenza del color di rosa è in me, è dire che sento che è in me, e dico: “Vedo una macchia rosa”. Così direte dell'altra proposizione. Dall’idea oggettiva puo nascere una proposizione e altra proposizione. Il corpo pesa. La rosa manda odore. Da che nasce la proposizione? Dal sentimento (senso). Perciocché dire che questo corpo pesa è lo stesso che dire che sento il peso di questo corpo; giu-dico, ovvero, sento che la cagione (causante, causans) della mia sensazione tattile del senso del tattoo è in questo corpo. Così dire che la rose manda odore è lo stesso che dire che sento l'odore della rosa, giu-dico, ovvero, sento che l'odore dela rosa ha una delle cagioni in cose fuori, cioè che non sono in me. Fra una idea soggettiva e una idea oggettiva non vi è altra differenza, se non che nella che si suppone oggetiva  sento che la cagione (causans) è nella nostra persona. Nell’idea che si suppone oggetiva sento che la cagione (causans) è in me (o noi entrambi – nella diada --), nell’idea soggetiva nella cosa (il reale). fuori. Ma come sentiamo noi che vi sia una cosa (il reale) fuori? Questo è il gran problema dagl'ideologi non ancora solute. Ma l'ignoranza in che siamo non dà facoltà legittima alla scuola trascendentali di concludere che il giudizio dell’idea soggetiva non dipende dal sentire. Il giudicio è un sentimento, cioè, un rapporto sentito fra una sensazione e altre sensazione, una reminicenza (il S) e altra reminiscenza (il P); ché se tale non fosse, nessuno potrebbe dire che l'idea che abiamo di una rosa p.e. ha la sue cagioni fuori di noi entrambi, perciocché una sì fatta proposizione suppone che l'uomo che proferisce questa proposizione o explicatura (spiegato) abbia o la sensazione S e la sensazione P, o le reminiscenza S e la reminiscenza P in relazione alla sensazione prodotte dalla rosa, e l'idea del sentente. Voi vedete chiaramente, che nell'uno e nell'altro degli addotti esempii la modificazione che chiamamo ‘idea,’ e il sentimento dei loro rapporti sono nella nostre anime ambidue, e che quindi si esprimono falsamente coloro, che dicono che sentiamo il corpo fuori di noi. Dovrebbero dire, strettamente, che sentiamo che la cagione (causans) del nostro sentire (sentito) non è in noi entrambe. Coi fondamenti da me posti si può stabilire una dottrina, se il buon desiderio non mi acceca, per la quale vadano a terra le opinioni di coloro che disprezzano il sensismo, e che con odiosa espressione la chiamano dottrina de' “sensuali”. Con che danno a divedere, che essi mattamente opinano che il materiale organo del senso (i cinque organi, i cinque sensi) senta e percepisca, senza accorgersi che se gli occhi (visum) e le orecchie (auditum) e il naso (odore) sentissero ciascuno separatamente, non potrebbe giammai nascere giudizio alcuno circa la qualità della sensazione  di natura diversa. L’uomo non potrebbe mai dire che l’odore della rosa mi diletta più del colore della rosa, e così via discorrendo. Il sentimento di un solo centro, nostre anime ambidue: e nostre anima ambidue senteno in sé mesima, e non fuori di sé. Puo parere che questa dottrina del sensismo sia la stessa che quella dell'idealista irlandese Bercleio; ma essa è diversa, poiché ammette che oltre la idea vi sieno fuori dell'uomo la cagione (causans) di essa idea. Di questa cagione (causans) – il reale, il noumeno -- noi conosciamo l'esistenza, e nulla più. Che cosa e un corpo in se stesso? A questa interrogazione non si può rispondere se non dicendo che e ignota la cagione della nostra sensazione condivisa. Sappiamo che esiste, sappiamo che si modifica, e tutto ciò sappiamo, perché fa della mutazione nell'animo nostro ambedue o nell’anima nostra ambedue. Dal che si deduce ciò che dianzi vi dissi, che ogni idea ha per loro due primitivi elementi (il S e P) la sensazione, la reminiscenza, il sentimento che e nelle nostre anime ambidue, e non fuori di lei. Così la pensa il filosofo chiamato per beffa dal cattolico romano col nome di sensualista e di materialista. Materialista a buona ragione si puo chiamare i nostri avversario, o almeno materialista per metà, giacché ammette che il sentimento del corpo percepiscano, e giudichino relativamente alla qualità del reale, della cosa esterna. Leggete le lettere filosofiche di Galluppi stampate non è guari in Firenze. In Galluppi troverete chiaramente esposte la dottrine sensista, quelle di Hume circa la cagione, e segnatamente quelle di Kant. Se dalle mie teoriche si possono ricavare gli argomenti validi a confutare le opinioni del filosofo trascendentale, o di coloro, che oggi si danno il nome di eclettico – come ha tempo Cicerone --, io vi prego di compilare alcune note, o vogliam dire corollarii, pei quali si vegga manifesta la falsità di alcuni principii del irlandese Bercleio, del scozzese Reid e del scozzese-tedesco Kant, la filosofia dei quali è fonte della massima parte della moderne follia (Della Sintesi e dell'Analisi, ed. Liber Liber / Fara Editore). Altre opere: “Alighieri”; “Della elocuzione” Fara editore, S. Arcangelo di Romagna); “Della sintesi e dell'analisi” (Giovanni Battista Borghi e Melchiorre Missirini); “La divina commedia, con le note di Paolo Costa, e gli argomenti dell'Ab.G. Borghi. Adorna de 500 vignette” (Giovanni Battista Niccolini e Giuseppe Bezzuoli, Firenze, Stabilimento artistico Fabris,Claudio Chiancone, La scuola di Cesarotti e gli esordi del giovane Foscolo, Pisa, Edizioni ETS  (sulla formazione padovana del Costa, e sulla sua amicizia giovanile col Foscolo) Filippo Mordani, Vite di ravegnani illustri, Ravenna, Stampe de' Roveri. Dizionario biografico degli italiani. Una delle facoltà, onde l'uomo è tanto superiore alle bestie, si è la favella [fabula – da ‘fa’, speak – cf. fama], mercè della quale i primi uomini non solo si strinsero in comunanza civile, ed ordinarono la legge ed il governo; ma a fare più beata e gloriosa la vita crebbero le scienze e le arti, ed ispirarono con queste l'odio al vizio ed al falso; l'amore della virtù, del vero, del bello; e i fatti e i nomi degni di memoria ai tardi secoli tramandarono. E qual cosa è più utile ai privati, ed alla repubblica e più degna e di maggiore onore, che l'arte di gentilmenle parlare? Per questa ci è aperta la via alla dignità, alla fortune ed alla fama; per questa le città si mantene ordinata e pacifica; per questa  sono animati i guerrieri – come Niso ed Eurialo --, encomiato un principio; per questa con più degni modi si loda e si prega il supremo autore elle cose, e pura e viva si mantiene nel cuor degli uomini la religione. Laonde, se desiderate onore o giovamento a voi stessi ed alla Italia, ardentemente volgete l'animo a questo nobilissimo studio del parlare o discorsare civile. Che se vi fu dolce fatica l'interpretare e l'imitare gli antichi filosofi romani, non meno dolce vi e il venire meco investigando il magistero, che è nelle opere loro; imperciocchè, essendo la favella [la lingua, il parlare] istrumento col quale si commovono e si traggono gli animi degli uomini, uopo è di volgere sovente la considerazione alle proprietà dell'intelletto e del cuore umano; il che, pel naturale desiderio, che abbi mo di conoscere noi stessi, è dilettevolissimo. Mettiamoci dunque volentieri a quest'opera; e per cominciare con ordine, poniam subitomente al fine, che si propone chi scrive, perocche non sarà poi difficile temperare ed ordinare secondo quello il modo del favellare. La favella – nella diada conversazionale -- intende a *manifestare* (cfr. Vitters) ad altro un pensiero e un affetto proprio con soddisfazione dell’altro. Ad ottenere questo FINE, sono necessarie due codizioni. Prima: che la elocuzione sia chiarà – Grice: “imperative of conversational clarity). Seconda condizione: che l’elocuzione sia ornata convenevolmente. Parliamo tosto della chiarezza conversazionale, che poco appresso diremo dell' ornament. La chiarezza da due cose procede. Prima: dalla qualità dell’espresione, che si pone in uso. Secondo: dalla collocazione – cum-locatio, syn-taxis -- loro. Prima diciamo della qualità dell’espressione, L’espressione, che e un *segno* [cf. Grice: Words are not signs] di una idea, fa perfettamente l'ufficio suo ogni qual volta sia ben determinata, cioè appropriata a ciascuna idea singolare per nodo, che non possa a verun' altra appartenere. Per meglio iutendere in che consista la natura loro, bisogna considerare che ogni idea e composta – il S e P -; e che alcune, differendo da altre in pochi elementi, abbisognano di segno particolare, per apparire distinte. Quell’espressione che la distingue dicesi “proprio”. Vaglia un esempio. L'idea di ‘frutto’ ha per suoi elementi le idee delle qualità comuni a ogni frutto; l'idea di “melagrana,” oltre i detti elementi, comprende le idee delle qualità particolari della melagrana: perciò è che, se chiameremo frutto la melagrana, quando è mestieri distinguerla, non parleremo con proprietà. (cf. Lawrence: What is that? E un fiore). Ho qui recato il materiale esempio di un errore, in che è diſficile di cadere, affinché si vegga chiaramente non essere molto dissimile da questo l'errore di coloro, che d'altre cose ragionando usano i vocaboli generali (fiore) per ignoranza' de'particolari (tulipano). Tanto sconvenevol cosa si repula l 'usare una espressione impropria, dice il Casa, che si hanno per non costumali coloro, i quali, non dan dosene gran pensiero, pare che amino di essere frantesi, e nulla curino il fastidio di chi si sforza d'intenderli: all'incontro coloro, i quali usano l’espressione propria, mostrano di essere civili, essendo solleciti di alleviare altrui la fatica [cf. Grice, prinzipio di economia dello sforzo razionale], poichè pare che mercè della espressione proprie le cose si mostrino, non coll’espressione, ma con esso il dito. I poeti, che sono lodali per la evidenza, onde le cose ci pongono dinanzi agli occhi  ci somministrano esempi del modo assai proprio. Giovi recarne qui alcuno a schiarimenlo di quanto abbiamo detto: Come d'un tizzo verde, ch'arso sia dall'un de capi che dall'altro geme, e cigola per vento, che va via. È qui da notare come l’espressione “tizzo” e l’espressione “cigola” meglio ci rappresentano la cosa, che arde, e l'effetto del fuoco, di quello che se Alighieri avesse detto: un ramo verde fa romore per vento che va via, essendo questa SIGNIFICAZIONE alta a denotare altra idea non simili in tutto a quella che si voleva esprimere. Cosi Petrarca disse propriamente: raffigurato alle fattezze conte, piuttosto che dire alla persona; e Alighieri: levando i moncherin per Ľaria fosca, in vece di dire, levando le braccia tronche. Qui si vede come l’espressione “fattezza” e l’espressione “moncherino” sieno meglio usati per essere espressione di SIGNIFICAZIONE SINGOLARE. Se la proprietà [cf. be as informative as is required – avoid ambiguity] è si necessaria a SIGNIFICARE la cosa che cade sotto i sensi, quanto maggiormente nol sarà ella, quando si vogliono esprimere le idee intellettuali e le morali, che se non fossero determinata in virtù dell’espressione, o svanirebbero dalla mente nostra, o vi starebbero disordinate e mal ferme? A quel modo che dalla precisione delle cifre dell'aritmetica dipende la esattezza de’ calcoli, cosi dalla proprietà dell’espressione dipende quella delle idee e de' ragionamenti in qualsivoglia delle scienze astratte; e quindi ottima è quella sentenza del filosofo: consistere il sommo dell'arte di ragionare nel l'uso di un discorso bene ordinata. Anche Piccolomini ha detto della sua parafrasi di Aristotele, che la base e il fondamento della elocuzione si ha da stimar che sia la purità, la netlezza e candidezza – cf. Grice, the imperative of conversational candour -- di quel discorso, nella quale l'uom parla. Ad acquistare l'abito di discurrire con proprietà tre cose si richieggono. Prima,  il saper bene dividere le idee fino ai primi loro elementi. Secondo, il conoscere l'etimologia dell’espressione (etimo: il vero), per quanto è possibile. Terzo, il rendersi famigliari le opere degli antichi filosofi romani, ne'quali è dovizia di voci pure e di modi assai propri. Chi non ha uso delle delle cose è spesso costretto di adoperare le noiose circonlocuzioni in luogo di un solo vocabolo o di una breve sentenza, e di abusare de sinonimi. Si dice “sinonimo” l’espressione di una medesima sigoificazione, o quelli, che rappresentando le stesse idee principali, differiscono in qualche accessoria. Della prima generazione sono i seguenti: fine e finimenio; abbadia e badia; consenso e consentimenlo e simili. Aliri ne trov po nella formazione de' tempi, e de'partecipii, come rendei e rendetli; visto e veduto; parso e paruto; ma colali sinonimi non sono in gran numero. La più parle è di quelli che differiscono per aumento, o diſelto di qualche idea accessoria. Cavallo, corridore, destriero, palafreno, poledro, rozza, sono espressioni istituite a significare il medesimo animale; ma ognuna differisce dall'altra. “Cavallo” denola la qualità della specie; “corridore” la particolarità d'esser veloce; “destriero” ricorda l'uso di menare il cavallo a mano destra; “palafreno” quello di frenarlo colla mano; “poledro” la qualità dell'essere giovane; “rozza” quella dell'essere vecchio e disadalto. Le voci unico e solo sembrano per avventura la stessa cosa; ma il Petrarca disse la sua donna essere “unica e sola” (one and only), volendo significare che nessun'altra è nella schiera di Laura, e che nessuna può esserle dala in compagnia. Incontra alle volte, che le parole istituile a significare un'idea stessa differiscono per la virtù, che haono di richiainarne alla mente alcun'altra più o men nobile, o per cagione del suono o vobile o rimesso, o per cagione dell'uso, che di quella suol esser fatlo in umile o in illustre componimento. Tali sono, a cagione d'esempio, i vocaboli “adesso” ed “ora”, che significano ‘il momento presente’, ma “adesso” non sarebbe ricevuto in nobile componimento; dal che si vede che sebbene ei denoli il punto presente del tempo, come fa l'altro, pure trae in sua compagnia alcune idee, che il fanno parere di bassa condizione. É dunque da por wenle che l’espressione, che si dice sinonimo, non sempre ci rappresentano stesso complesso d'idee; e quindi può intervenire, che ingannali dall'apparenza, alcuna votla siamo lralli ad usarli impropriamenle. È da avvertire per ultimo, che ogni espressione antiquale, cioè quelle, che pel consenso universale de’ filosofi sono stale abolite, non hanno più luogo tra le voci proprie. Si uilmente sono improprie ogni espressione dei dialelli parlicolari, e l’espressione forastiera, che dall'uso de' wigliori filosofi non hanno avuto la cile tadinanza. Le quali tutte non sarebbero bene intese dall'intera Italia; e perciò denuo essere, da chi desidera di discurrire chiaramente, a lullo polere schivale. Questo basli aver dello della proprietà, che è la prima cosa, che si richiede a render chiara le elocuzione. Direino poi a suo luogo come il trasporlare con altra legge di proprietà l’espressione dal significato proprio all'improprio giovi maravigliosamente alla chiarezza. In virtù dell’espressione esprimiamo i nostri giudizii, e collegando insieme il giudizio espresso formiamo i raziocioii, i quali verranno chiari alla menle altrui, qualvolta sieno osservate le leggi, di che ora faremo parola; ma prima si vuole avvertire, cha talora il discorso può es sere ordinato secondo le leggi, per le quali ' riesce chiaro, ma non avere poi quella forza, quella virtù e quella eſficacia, che avrebbe, se si disponessero le parole diversamente senza però offendere le delle leggi. A suo luogo direno della disposizione (sintassi) delle parole, che agagiunge efficacia al discorso. Ora è a dire solo tanto di quella, che lo fa chiaro. Ogni giudizio espresso dicesi proposizione. Nel ragionamento, il quale di nolle proposizioni si compone, alcuna vene ba, che viene modificata dalle altre. Quella, che è modificata, dicesi principale, le allre suballerne (o minore). Vaglia a ben distinguerle il seguente esempio del Casa. Menire i nostri nobili cittadini gli agi e le morbidezze e i privuli loro comodi abbracciano e stringono, l'impera lore, non dormendo nè riposandu, mu travagliando e fabbricando, ha la sua fierezza e la sua forza accresciuta. L'imperatore ha la sua fierezza e la sua forza accresciuta è la proposizione (premessa) principale (maiore), le altre, che lei modificano, sono le subaltern (premessa minore). La proposizio ne principale, a somiglianza della principale figura in un dipinto, dee fra tutte le subalterne campeggiare e risplendere; per ciò è che vuolsi evitare la frequenza di queste ultime, le quali, allorchè fossero troppe, invece di raflorzare la principale o premessa maiore, siccome è loro officio, verrebbero ad indebolirla. Questa si è la prima avvertenza, che circa le proposizioni subalterne aver dee colui che discurre; indi si prenderà cura di ben' collocarle. Prima che veniamo a dire quale sia la buona collocazione loro, è necessario di osservare, che le delle proposizioni subalterne si distin guono in espresse ed in implicite. Diconsi espresse quelle, nelle quali tutte le parli loro sono manifeste, come nella seguente: ľuomo è ragionevole. Diconsi implicite quando il giudizio che si esprime, e significati dall nome addiettivo o dal nome sustantivo con preposizione o dall’avverbio, come nelle seguenti. L’uomo GIUSTO è lodato. Pilade ama Oreste. CON. I romani amarono GRANDEMENTE la patria. Quando si dice “l'uomo giusto” si viene ad affermare che ad esso si appartiene la giustizia, che è quanto dire giudichiamo che egli è giusto. Si dica il medesimo delle altre due proposizioni. Ama con FEDE GRANDEMENTE, La proposizione IMPLICITA (entimema, implicatura) serve a significar del giudizio, che per abilo la mente umana FEDE amarono suol fare rapidamente; perciò è che non si denno usare in vece di quelle la proposizione espressa, SPLICITA (splicatura), perciocchè impedirebbero la spedi tezza dell' intelletto di nostro compagno conversazionale. Si dovranno ancora nello scegliere la proposizione implicita (implicatura, impiegato) schivare le inutili, cioè quelle, che risveglierebbero le idee, che in virtù del solo sustantivo o del solo verbo possono essere richiamate a mente, e scegliere quelle, che meglio qualificano il significato. Sarebbe, a cagione d ' esempio, vano (redundante) e noioso l'aggiunto di “bianca” alla “neve” (salvo se il caso richiedesse di far conoscere parti colarmente questa qualità), essendo che l’espressione “neve” trae seco, senz'altro aiulo, la idea di ‘bianco’ (cf. ‘atleta’ ‘longo’). Rispello alla collocazione della proposiziona suballerna, sia ella implicite o espresse, la regola (massima, imperativo) si mostra di per sé: imperciocchè, essendo intese a denotare alcuna qualità del signato o da' sustantivo o da' verbo o da' participio, deve chiaramente apparire a quali di queste parti dell'orazione (l’otto parti dell’orazione – partes orationis) vogliono appartenere; e perciò fa mestieri collocarle in luogo tale, che mai non venga dubbio se sia poste a modificare piuttosto l'uno, che l' altro o verbo o participio o sustantivo. Quao do a ciò si manca nasce perplessità (“misleading, but true) come nel seguente luogo di Boccaccio. E comechè Aligheri aver questo libretto fallo nell'età più matura si vergognasse. Qui può sembrare che il libretto sia stato falto nell' età più matura; che se avesse dello: comechè egli aver futto questo libretto si vergognasse nell'età più matura, la proposizione sarebbe stata chiarissima. Alcuna perplessità è ancora in quest'a tro di Passavanti: Leggesi, ed è scritto dal venerabile dottor Beda, che negli anni domini ottocento sei un uomo passò di questa vila in Inghilterra. Comechè non sia per cadere nel pensiero di alcuno che colui, che si parle di questa vita, possa andare in Inghilterra, nulladimeno, per quella collocazione di parole, la mente di chi legge resla alcun poco sospesa. Molte TRASPOSIZIONE – Grice: William Blake: love that told cannot be, love that never told can be --, che si biasimano nella lingua italiana, sono spesso con venevoli NALLE LINGUA LATINA, perchè, nella lingua romana, il nome aggettivo, che per le desinenze diverse nei generi, nei numeri e nei casi si accordano col nome sustantivo, rade volte LASCIANO DUBBIO a cui vogliano appartenere, e rade volte i casi obliqui si confondono col caso retto, comunque nella proposizione sieno collocati. Bellissimo è in latino il seguente luogo di CRASSO, riportato da CICERONE. HÆC TIBI EST EXCIDENDA LINGVA QVA VEL EVVLSA SPIRITV IPSO LIBIDINEM TVAM LIBERTAS MEA REFVTABIT. Tenendo l'ordine di queste parole nella lingua italiana si produce falsità nella sentenza. Sconvolgendolo si perde tutta l'efficacia. Se dico. Questa lingua li è d'uopo recidere: recisa questa, col fiato stesso la tua sfrenatezza la libertà mia reprimerà’ – Appare che LA SFRENATEZZA  reprima LA LIBERTÀ. Se, per lo contrario, dico. La libertà mia reprimerà la tua sfrenatezza, toglieremo alla sentenza molto della sua forza – devuta a una disobbedenza intenzionale della massima conversazionale d’evitare l’ambiguità. Vedremo a suo luogo la ragione, per cui la diversa collocazione di una espressione semplice rafforza o snerva l'espressione complessa. Ora ci basta osservare, poichè cade in acconcio, che le varie lingue -- parlando ora della sola facoltà, che hanno di PERMUTARE IL LUGO ALLE PAROLE – “love that never told can be”/”love that told can never be” --  luttochè sieno alle a qua. Junque specie di componimento, nol sono ad esprimere uno stesso concetto nella stessa FORMA – massima conversazinale della forma, non del contenuto --; perciò è che quando si trasportano le scritture da una favella ad un'altra non dove l'espositore darsi briga di ritrarre espressione per espressione. Avendo rispetto al genio della lingua, cerca di produrre per altro convepevol modo nell’animo di nostro compagno conversazionale gl’effetto che l’espressione in lui operano. Per fuggire le equivocazioni [cf. Grice, avoid ambiguity] giov ancora badare ne' verbi alla prima voce dell'imperfetto dell'indicativo – “amava” -- la quale è simile alla terza, dicendosi “amava” +> “io amava”; “amava” +>  “colui amava” – cf. latino: ‘amaba’/’amabaT’ --. Perciò a distinguerle è sovente bisogno di preineltere all’espressione ‘AMAVA’ – latino: AMABA/AMABAT -- il nome o il pronome. Giova spesso alla CHIAREZZA, e segnatamente nell’espressione complessa o composita, il ben distinguere le persone e le cose, delle quali si parla (il topico). E perciò sta bene talvolta il *ripetere* il nome sostantivo per non confondere l’una coll'altra. Imperciocchè, i pronomi e i relativi sogliono spesso essere cagione di equivoco – confusione – cf. avoid ambiguity, be perspicuous [sic], the imperative of conversational clarity. E questo interviene specialmente, quando nella proposizione antecedente sono più nomi sustantivi di un medesimo genere e numero, che si possono accordare coi relativi delle susseguenti. Perciò, conviene tal volta o giovarsi di un sinonimo onde porre in luogo di alcun nome mascolino un femminino. O inulare il numero del più in quello del meno. O viceversa. Può ancora geverarsi PERPLESSITÀ nell'usare il possessivo “suo” e “suoi,” invece de relativo lei, lui e loro; e perciò alle volle è necessario adoperar questo per quello, come nel caso seguente. “MAI DA SÈ PARTIR NOL POTÈ, INFINO A LANTO CHE EGLI [CIMONE] NON L’EBBE FINO ALLA CASA *DI LEI* ACCOMPAGNATA”  (Boccaccio). Se Boccaccio avesse detto: “fino alla casa SUA accompagnata”, si sarebbe potuto credere essere QUELLA DI CIMONE! Per far maniſesta (esplicita, chiarissima) la connessione de'ragionamenti sono assai opportune le particelle copulative (“e” – He went to bed and took off his trousers” (Urmson); avversative (“ma” – Lei e povera, ma onesta – Frege, FARBUNG), illative (“se” – se p, q – FILONE, DIODORO, CRISIPPO) e somiglianti – e disgiuntiva (“o” – “Lei sta alla cucina o alla stanza di dormire”). Molli fra' filosofi italiani, ad imitazione de’ filosofi francesi, sogliono scrivere a piccoli membri, senza congiungerli insieme colle particelle, e in ciò sono da biasimare, iaperciocchè costringono la mente o l’animo di nostro compagno conversazionale a passare “di salto” da una proposizione all'altra senza dargli occasione di scorgere subitamente le attenenze (pertinenza, relevanza – cf. Grice, category of relation – be relevant – a ‘platitude’ -- Strawson) loro. JILL: JACK IS AN ENGLISHMAN; HE IS, THEREFORE, BRAVE” – deduzione, induzione, adduzione? --. Affinchè si vegga manifestamente quanto la mancanza de' legamenti tolga di chiarezza al discorso, leverò dal seguente luogo di PASSAVANTI le particelle che ne conneltono le parti. Qualunque persona sogna, pensi se il suo sogno corrisponde all’affezione sua, a quella che più ta sprona. Se vede che si, non a. spetti che al sogno suo debba altro seguitare. Quel sogno non è cagione alla quale debba altro effetto seguitare; è l'effetto dell'affezione della persona. Tale sogno oseservare, cioè considerare donde proceda, non è in sè male: è l'effetto di naturale cagione. Facciamo congiunti questi membri colla particella “e”, la particella “imperciocchè”, la particella “ma” e vedremo il discorso apparire più chiaro (“She was poor and she was honest”). Qualunque persona sogna, pensi se il suo sogno corrisponde all’affezione sua, a quella, che più lu sprona. *E* se vede che si, non aspetti che al sogno suo debba altro seguilare; *imperciocchè* quel sogno non è cagione, alla quale debba altro effetto seguitare; *ma* è l'effetto del l'affezione della persona; e tale sogno osservare, cioè considerare donde proceda, non è in sè male: imperciocchè è l'effetto di natural cagione.” Questi pochi avvertimenti basteranno, se io non erro, a render cauti i conversatori che desiderano di conversare chiaramente. Tralascio le wolle cose che i filosofi hanno ragionato in torno la proposizione, poichè mi pare che, qual volta siasi imparato a distinguere la proposizione principale (premessa maiore) dalle proposizione subalterna (premessa minore), e siasi conosciuto che la virtù di queste si è di modificare le parti dell'altra, non faccia mestieri di *molto sottile* ragionamento a sapere in che modo elle si debbono collocare nella orazione o espressione complessa; perciò senza più entro a parlare dell' ornamento. La perſezione dell'arte del conversare nella LINGUA LATINA, secondo CICERONE, consiste nell'esporre chiaramente, or nataniente e convenevolmente le cose o il topico, che a trattare imprendiamo. Di quella chiarezza e di quell'ornamento e decoro – CANDORE --, che dall’invenzione e disposizione della materia procede, si ragiona nella rettorica – G. N. LEECH: “H. P. GRICE’S CONVERSATIONAL RHETORIC”.  Accade qui di parlare delle suddette tre qualità solamente rispetto al modo di significare (modus significandi) il concetto ritrovati. Avendo abbastanza detto della prima, diremo ora delle altre due, che fanno il discorso – la mozione, mossa, o moto, conversazionale -- accetto a nostro compagno conversazionale. Grice: “I’m not surprised that the Italians start the cataloguing of the maxims of conversations by the MANNER, rather than the CONTENT!” -- Prima di tutto si vuole osservare che la proprietà delle voci e l'ordinata (cf. Grice, be orderly) composizione loro generano gran parte della BELLEZZA DEL DISCORSO – Grice: “My maxims aim at rational cooperation, they are not moral or aesthetic in purpose.”. Imperciocchè fanno sì, che esso sia inteso senza fatica, che è quanto dire con qualche sorta di piacere. Ma questo non basta; chè nessuno per verità loda il conversatore solamente perchè si fa intendere dal suo compagno conversazionale; ma lo biasima e sprezza, s'ei fa altrimenti. Chi è dunque che faccia meravigliare gl’uomini e tragga a sua voglia le volontà loro? Chi è applaudito e chi è venerato più che more tale? Colui che NEL CONVERSARE è distinto, COPIOSO – ma non *troppo* copioso --, splendido, armonioso, e che queste qualità, onde si forma l'ornamento, congiunge al decoro – CANDOR – veracita e sincerita. Que' che conversa co'rispetti, che la qualità delle materia e del compagno conversazionale richiede, solo merita lode: che qualsivoglia ornamento DISGIUNTO DAL DECORO diviene sconcezza e deformità. Molto leggiadre ed efficaci sono le voci proprie, che per cagione del loro suono hanno somiglianza col significato, o quelle che ne ricordano qualche particolare qualità. E espressione, che ricorda il significato per somiglianza di suono le seguenti: “belato”; “ruggito”; “soffio”; “nitrito”; “boato”; “rimbombo”; “tonfo”, e molte al tre, che per alcuni furono sono termini figure, a differenza di quelle, che, non avendo soosiglianza veruna col significato, sono delle termini memorativi o cifre. Fra i termini figure voglionsi annoverare, oltre le voci che abbiamo teste accennat, quelle che o provengono da altr’espressione, che è segno di cosa somigliante al signficato che si vuol esprimere o communicare (cf. Grice on the circularity of analyising ‘signare’ e ‘communicare’), o ricordano l'origine o gl’usi del significato. L’espressione “spirito” è bella per certa tal qual somiglianza, che il significato, cioè l’immateriale sostanza, sembra avere col fialo o con qualsivoglia altra sottil materia, che SPIRI (onomatopoeia) e preferibile a ‘animo’. Belle similmente e l’espressione “moneta” e l’espressione “pecunia”. la prima delle quali, venendo da “moneo”, significa che il metallo ed il conio ammoniscono la gente circa il valore di essa moneta. La seconda, venendo da “pecus”, ricorda l'origine del denaro, che fu sostituito ai buoi ed alle pecore, antica inisura delle cose mercatabili. Ho qui posti questi due esempi ancora perchè si vegga quanto giovi alcuna volta l'investigare l’etimologia. Concorrono co' termini propri e co' termini figure a far bella la mozione conversazionale le parole nobili, qualvolta sieno convenevolmente adoperate. Accade delle parole, dice Pallavicini, che comunemente accade degli uomini nel civil conversare. Questi acquistano ripulazione o vilipendio dalla qualità delle persone colle quali usano farnigliarmente; e le parole dalla qualità delle persone da cui sono sovente proſerite; e ciò interviene perchè tutti hanno per fermo, che i personaggi illustri e gl’uomini letterati sieno ESPERTI A CONVERSARE *con legge*, e che la plebe allo incontro parli e cianci barbaramente. Avviene da ciò che alcune voci, che significano cose vili o laide [‘the --- bishop fell from the – stairs – profanity – Grice], sono tuttavia tenute per nobilissime. All 'opposito altre ve a'ba, che, nobili cose significando, in grave componimento non sarebbero lodate. Della prima spezie sono in Italia l’espressione “lordo”; “lezzo”; “tube”; “piaga”, ed altre, che nelle più nobili conversazione sogliono essere usate. Dall'altro canto, l’espressione “papa”, siccome osserva il lodato cardinale Pallavicini, la quale nobilissimo personaggio rappresenta, non sarebbe ricevuta in grave componimento poetico. In tre schiere vengono separate da Pallavicini le parole rispetto la maggiore o minore nobiltà loro. Nella prima si collocano quelle, che dal conversatore in nobile conversazione e usata a significare un concetto grande ed il lustre. Vocaboli di questa specie non si potranno senza AFFETAZIONE adoperare in tenue argomento, o in famigliare discorso. Che se alcuno famigliarmente usa l’espressione “pugna” in vece di “battaglia”; “luci” in vece di “occhi”; “accento” o “nota” in vece di “parola”, certo è che moverebbe a riso il compagno conversazionale. La seconda schiera è di quella espressione, che vanno egualmente per le bocche degl’uomini ragguardevoli e del popolo, e che si possono senza biasimo usare in ogni occorrenza. La terza poi è di quelle, che sono avvilite nella bocca della plebe, come e l’espressione “pancia”; “budella”; “corala” e simili, le quali possono essere opportune in una conversazione intesa ad avvilire alcuna cosa, come e la mossa, noto, o mozione conversazionale ‘satirica’. Anche le espressione antiche, qualvolta elle hanno convenevole forma e non sieno passate ad altro significato [non multiplicare sensi piu di la necessita], vagliono à nobilitare la conversazione. Ma si richiede somma cautela in co lui che a vila le richiama, poichè una espressione antiquata, ollrechè spesso portano seco oscurità [cf. Grice, ‘avoid obscurity of expression, procrastinate obfuscation, be perspicuous [sic]], ‘avoid unnecessary proliity [sic]’], più spesso fanno l'orazione ricercata e deforme. E chi oggi potrebbe, senza indurre a riso il compagno conversazionale, l’espressione “beninanza”; “bellore”; “dolzore”; “piota”, “spingare” ed altre simili d’usare. Ora diremo della metafora (“You are the cream in my coffee), la quale, usata opportunamente, è lume e vaghezza della orazione. Prima è a sapere che gl’uomini selvaggi per essere scarsi di cognizioni mancarono dell’espressione, e che volendo eglino significare alcuna cosa non ancora significata, fanno uso naturalmente di quella espressione gia usata, la quale e inventata a contras-segnare *altra* cosa somigliante in qualche parte all'idea novella (“You are LIKE the cream in my coffee”). Occorrendo loro, per esempio, di significare alcun uomo crudele, il chiamarono “tigre” per la somiglianza dell'indole di colal bestia con quella dell'uomo crudele. Cosi dissero assetate le campagne asciulle, “volpe” 1'uomo astuto (“sly as a fox” – he is a fox), “capo del monte” la cima – ‘top of the heap’ ‘New York, New York’ -- e “piè” del monte la falda di quello. Per gl’addotti esempi si vede questo trasporlamento (meta-bole, transferenza, trans-latio) di una expression da un significato propio e vero ad un significato impropio e falso (“You are the cream”) altro non essere che una similitudine ristretta in una espressione (“You are like the cream – simplifcata a “You are the cream”); imperciocchè la seguente similitudine spiegata. La comparazione vera “Costui è crudele COME una tigre” si restringe, per brevita, in questa forma metaforica falsa. “Costui è una tigre”. È dunque la metafora una abbreviata similitudine [an elliptical simile], che si fa recando una espressione dal significato proprio al signficato improprio: e perciò da Aristotele è detta imposizione del nome d'altri. Siccome la metaſora e da principio usata per *necessità*, potrà parere ad alcuno che crescendo il numero delle idee determinate e della espressione propria, la metafora divenga pressochè inutile – o una figura di retorica --; ma non accade cosi: perocchè, sebbene fra le conversatori civili e culle non sia tanto necessaria quanto fra le selvagge e rozze, pure la metafora è e sempre luce e VAGHEZZA della conversazione per virtù e forza di quelle sue qualità. La metafora presenta spesso all'animo più chiaramente ogni sorta di concetti, poichè, veslendo di forma *sensibile* una idea non-sensibile, o intelleltuale (nihil est in intellectu quod prior non fuerit in sensu), ce le pone davanli agli cinque sensi. Vuole Alighieri significare che non è meraviglia se per la le nuità della nostra fantasia non possiamo per venire ad imaginare le cose, che Alighieri desidera narrare del Cielo; e questo con una metafora dicendo. E se le fantasie nostre son basse a tant'altezza non è maraviglia. Per tal modo il concetto, che era tutto non-sensibile e intelettuale, divenne sensibile e per conseguente più chiaro (cfr. Grice, ‘be perspicuous [sic] – the imperative of conversational clarity] e più popolare. E se taluno volendo dire che gl’uomini bugiardi saono talvolta infingersi e comporre gl’atti e le parole a modo di parer verilieri, dice che la menzogna prende talvolta il manto della verità, non significherebbe egli il suo concetto assai vivamente. (He said that she was the cream in her coffee, By uttering ‘You’re the cream in my coffee” U signs – explicitly – THAT the addressee is the cream in the utterer’s coffee. Fra tutte le metafore poi e più efficace quella metafora che si cava da una qualità sensibile, corporea, materiale, che si mostra a le cinque sensi, e forse la ragione si è questa. Alla reminiscenza della qualità di un corpo, la quale ci vengono all'animo per i cinque sensi, più tenacemente si associano le idee, che di essi ci vengono per gli altri sentimenti; quindi è che ogni qualvolta ci riduciamo a memoria una della qualità sensibile (in questo caso visibile) del reale (un oggetto) quasi tutte le altre appartenenti a quello pur si risvegliano, e vivamente ed intero lo ci pongono dinanzi agli “occhi” dell'intelletto. Laonde se belle sono le metafore – parola dolce. che si cávano dalla qualità, da cui sono affetto: l'odorato (secondo senso dell’odore), il tatto (terzo senso del tatto), l'udito (quarto senso dell’audizione) e il gustato (quinto senso del gusto), come queste: odore di santità – odore santo, durezza di cuore – duro cuore, ruggir di venti, vento ruggente -- dolcezza di parole; parola dolce -- più bella, per che più viva si presenta all'animo, entrando quasi per gli cinque organi de’cinque sensi, sono le seguenti. Splende la gloria (visum). Folgoreggiano gli scudi. Ridono i prali (udito). Si rasserena la fronte; l’anima è oscurata per tristezza. Piacquero ad Aristotele sommamente quella metafora, che ci rappresenta (re-praesentatum, rappresentato) la cosa in mozzo, e principalmente quando la metafora attribuisce a una in-animato una operazione di un animato.Tali sono queste di Omero. Le saette di volar desiose; inorridisce il mare. Anche VIRGILIO, parlando di una satta entrata nel petto di una vergine, dice. Harsit virgineumque alle bibit hasta cruorem. Si dalla metafora ci pone la cosa vivamente quasi innanzi agl’organi dei cinque sensi, e per la “novità” o vita (no morte) loro ci fanno maravigliare. La metafora, siccome dice Aristotele, partorisce dottrina, facendo conoscere fra le idee alcuna attenenza dianzi non osservata. Quale attenenza scorgesi tosto fra un manto e la nobillà della prosapia? Certamente nessuna: pure veggasi come Alighieri ce la fa scorgere. O poca nostra nobiltà di sangue, ben tu se'manto, che tosto raccorce, sì che se non s'appondi die in die lo tempo ya d'intorno co' la for Coine un bello e ricco manto adorna la persona di colui che sen veste, così adorna l'animo d' alcuni uomini quell'onore che ricevono pei pregi degli avi loro, e che chiamasi nobiltà: ma, se per virtù novella non si rinfranca, ei viene di giorno in giorno scemando. Questi pensieri il divino poeta ci reca alla mente colla nuova similitudine, e ci dilella e ci illumina. Vale eziandio la metafora a muovere con maggior forza l’affeto, perciocchè, laddove alcuna volta parole proprie astretti a recare alla mente di nostro compagno conversazionale le idee una dopo l'altra, la metafora, rappresentandole tutte ad un tempo, assale l’animo con veemenza. Basti un solo esempio di PETRARCA, il quale rivolto alla morte così le dice: con saremmo me dove lasci sconsolato e cieco, poscia che il dolce ed amoroso e piano lume degli occhi miei non è più meco? Quali e quanli pensieri si destano nella mente all’espessione “cieco” e la frase/espressione frasale “lume degli ochi miei”! Ma circa l'uso della metaſora nell’aſſetto si vuole por menle che ella non mostra  il lavoro e la fatica dell’intelletto, perocchè non è verisimile che colui, che ha l'animo perturbato, si perda a far cerca d'ingegnosi concetti e figure retoriche. È ancora pregio della metafora di coprire con velo di modestia e di gentilezza il segnato, che espressa con un termino *proprio* (e non un termino figura como e la metafora) sarebbero odioso o turpo. Ecco un bell’esempio di Passavanti. La innata concupiscenza, che nella s vecchia carne e nell'ossa aride era addor meniata, si cominciò a svegliare: la favilla, quasi spenta si raccese in fiamma; e le frigide membra, che come morte si giacevano in prima, si risentirono con oltraggioso orgoglio. E VIRGILIO dice. O luce magis dilecta sorori, Sola ne perpetua moerens curpere juventa? Nec dulces natos, Veneris nec praemia noris? Questo e i principale vantaggio della metaſora, onde sovente viene preferita al termino proprio. Diremo ora dei vizii che talvolta elle possono avere. Se bella e la metafora che fa scorgere una maniſesta somiglianza tra due segnati (‘you’ ‘the cream in my coffee’), da che si toglie il vocabolo e l'altra, a cui si reca, chiaro è che deformi saravno quelle, che tengono ji paragone di rose o polla e poco somiglianti, e che sono male acconcie al proposto dne (“a woman without a man is a fish without a bicycle”). Nessuna somiglianza si vede fra le cose paragonale nella seguente metafora di MARINI. Folendo egli lodare un maestro, che formara bellissimi esempi da scrivere, esalta la penna di lui, dicendo ch'ella deve essere divina: Perchè una penna sela, Benchè s'alzi per sè pronto e sicura, Se divina non è tanto non rola. E qual somiglianza è mai tra il relare e lo scrivere? E tolta da peca somiglianza quella metafora che volendo segnare una cosa piccola prende da una cosa grande l'imagine, e al contrario. Mariai assomiglia le lacrime della sua douna a'lesori dell'Oriente, e Tertulliano il diluvio universale al bucato. Erro similmente colui che dice a suo amante. Son gli occhi resiri archiòugiati a ruote, Ele ciglia inarcale archi turcheschi. È bellissina la metafora che Poliziano tolse al Boccaccio. E le biade ondeggiar come fa il mare. Sarebbe difettosa quest’altra. E tremolare il mar come le biade. Viziose come le sopraddeile sono la più parte delle metafore usate dagli scrittori del secolo XVII, e soprattutto dai poeti, i quali sriscerarano i monti per estrarne i metalli, face vano sudare i fuochi, ed avvelenavano l'obolio colp inchiostro. Parmi inutile cosa l'estendermi in questa materia, essendochè il nostro secolo, sebbene incorra in altri vizii, di così falle baie si mostra nemico. Della metafora e l’analogia che e alquanto dura, ė da sapere che puo essere mollificata per certa maniera di dire, quali sarebbero: quasi – per dir cosi e che alcune ve nha, che sono state ammollite dall'uso, come la seguente: Fabbro del bel parlare. Ė da biasimare ancora la metafora, che la sorvenire il nostro compagno conversazionale di qualche bruttura, o di cosa rile, o che disconvenga alla gravità della trattata materia o topico. Perciò meritamente Casa rimprovera ALIGHIERI per essere talvolta caduto in questo difeilo, siccome quando disse. L'allo fato di Dio sarebbe rotto se Lete si passasse, e lal vivanda fosse gustala senza alcuno scollo di pentinento. E altrove. E vedervi, se avessi avuto di tal tigna brama, colui poteri ec. Questa e una imagine plebea e sconvenienti alla gravità del subbietto. Cosi merita biasimo Pallavicini, comechè sia maestro sommo nel l'arte dello stile conversazionale, quando disse, che il cardinal Bentivoglio aveca saputo illustrar la porpora coll' inchiostro, e quando per accennare la qualità, ond'è costituita l'eleganza della elocuzione, dice: saputi distintamente quali ingredienti compongono quesla salsa, cioè l'eleganza; i quali modi sono da biasimare, essendochè nel primo esempio li vedi dinanzi agli occhi la porpora brullala d'inchiostro, e nell’altro t’infastidisce l'abbietta voce che sa di cucina. Similmente non paiono degni di lode coloro, che sogliono usare per vezzo della conversazione un idiotismo, e segnatamente quello, che ha origine da certa anticha costumanze dimenticata oggidi. Non merita lode Davanzali quando volendo dire: o nulla o lullo: disse: o asso o sette. Questo proverbio, oltre chè si è di vilissima condizione, è tolto da un giuoco, che potrebbe essere sconosciuto a molli. E proverbio, del quale non si sa l'origine, il seguente; e perciò freddo od oscuro: Maria per Ravenna, invece di cercar la cosa dove ella non e. Bastino questi pochi proverbi per moltissimi, che qui si po ebbero recare, e de' quali vanno in traccia alcuni mal accorti conversatori, onde parere versali nella lingua antica. Aucora è biasimevole alcune volte la metaſora, che si deriva dalle materie filosofiche; imperciocchè, se il fine, pel quale il conversatore usa di quella, si è di rendere più chiaro e più vivo i concetto, questo non si potrà ottenere traendo la similitudine da cose poco nole o malagevoli ad intendere, come a la metafisica, che spesso, ond'essere chiarita, hanno bisogno delle similitudini tolle dalle cose materiali; ma di rado somministrano imagini, che vagliano a cercar recar luce alle prose ed alle poesie. Pure in questi tempi sono alcuni conversatori, i quali hanno per vezzo l'usare siffatta metafora, avvisando d'illustrarne la sua mozzione conversazionale, e di mo strarsi intendente e sottile; ma va grandemente errato, perciocchè non solamente appor tano ombra ed oscurità (‘avoid obscurity of expression, be clear) alla sentenza, ma danno segno di affettazione che è vizio sopra tutti spiacevole. si è dello di sopra che la metafora diletta, non solamenle perchè ci pone dinanzi agli oc ebi in forma quasi sensibile un pensiero astratto, ma ancora perchè ci porge ammaestramento col farci apprendere fra le idee alcuna attenenze prima non osservata; dal che si deduce che il conversatore, i quali vogliono recar maraviglia, de guardarsi dall' usare una metafora troppo comunale, come quelle, che, a somiglianza della monete passata per molle mani, sono rimase senza vaghezza. Non ogni metafora poi, comechè sia ben derivata, potrà convenire ad ogni conversazione. Poichè tra le metafore ve n'ha delle più o meno illustri, converrà avvertire che il grado della nobiltà loro non disconvenga alla qualità del componimenlo. Similmente nel formare la metafora si vuole avere riguardo al pensare della gente nella cui lingua si conversa. La diversità de'luoghi e de' climi fa che gli uomini abbiano diversi i costumi e le usanze, e perciò diverse ancora le idee e le significazioni di esse. Impercioc chè, traendo ciascuna gente le similitudini dalle cose, che più spesso le sono dinanzi agli occhi, incontra che alcun popolo deriva una metafora da una cosa campestre, lal altro da una cosa marittima, tal altro dal combinercio o dalle arti, secondo suo silo e costume. Il rigore o la benignità del clima poi è spesso cagione che l'umana imaginativa sia più vivace in un luogo e meno altrove; e quindi è che una metafora naturalissime nel Trastevere appaia ardila e strana nel Tevere. Anche l’essere le geoli più o meno civili cambia la natura della metafora; perciocchè dove sono leggi meno buone, ivi è più ignoranza del vero; e dove è più ignoranza del vero è più amore del verisimil; il che torna il medesimo, ove è minor virtù intelleltiva, ivi abbonda la forza della fantasia. Cadono perciò in gravissimo errore coloro, che, imilando il volgarizzamento di Ossian falio da Cesarolli, sperano di venire in fama di sommi poeli toglieodo sempre la metafora da'venti e dalle tempeste, dai torrenti, dalle nebbie e dalle nuvole. Paiono a costoro inaravigliose squisitezze e delizie i seguenti, e simili modi: sparger lagrime di bellà - i figli dell'acaciaro il tempestoso figlio della guerra siede sul brando distruzione di eroi dar. deggiano gli sguardi rotola la morle - urlano i torrenti. Cotale metaſora, che per avventura e naturale a'popoli selvaggi, sono in Italia ridevoli e sciocche fantasie. Alla diversa indole delle genti debbe anche por mente chi dall' una lingua all'allra trasporla i versi e le prose, se non vuole produrre nell'animo di nostro compagno conversazionale effetto contrario a quello che l'autore straniero o forastiero o del Trastevere produsse in coloro, ai quali volse le sue parole. Affiuché si vegga manifestamente che non lutte lete. metafore convengono a tulti i popoli, recherò qui alcuni esempi che a questo proposito Tagliazucchi toglie dalla lingua latina. Bella metafora si è questa presso Virgilio: classique im millit habenas; deformità sarebbe tradu re in italiano: melte le briglie alla flolla. Così per segnare il pane corrotto dall'acqua dice lo stesso poeta. Cererem corruptam undis; mal si tradurrebbe: Cerere corrolla dall'onde. Orazio disse. lene caput aquae sacrae; e si tradurrebbe malissimo in italiano: il dolce capo dell'acqua sacra. Per segnare il liero sdegno d'Achille dice: gravem sioma chum Pelidae; e malissimo si tradurrebbe: il grave stomaco del Pelide. Moltssime altre metaſore potrei qui recare, che sono proprie solamente della lingua latina; ma chi ha cognizione della lingua latina conoscerà di per sè la verità di quello che io dico, ed argomenterà quanto debbono differire nella metafora la lingua italiana e quelle de'popoli da noi disgiunli e per costume e per clima, se tanto differiscono l'italiana e latina con islrelto vincolo di parentela congiunte. Una regola o massima o omperativo da osservarsi nell'uso della metafora si è di non aminassarle nella conversazione, ma collocarvele parcamente e di guisa, che paiano, come dice Cicerone, esserci venule volonterosamente, e non per forza nė per invadere il luogo altrui. È da avvertire in secondo luogo, che la metafora o non si dee congiungere con altra metafora o con voci proprie di maniera, che fra queste e quella si scorga opposizione maniſesta. Se per esempio avrai detto che Scipione è un fulmine di guerra, non dirai tosto che egli trioníò in Campidoglio. Se paragonerai eloquenza ad un torrente, non le attribuirai poco appresso la qualità del fuoco, ma avrai cura che la metafora sia sempre collegata (e no mista) colle idee prossime di guise, che nostro compagno conversazionale non trovi mai contrarietà ne' tuo concetto. In questo difetto caddero anche alcuni autori eccellenti, come Petrarca nel Sonetto XXXII, dove, cominciando dal dire metaforicamente, ch' egli ordisce una tela, prosegue: ſ ' farò forse un mio lavor si doppio fra lo stil de'moderni e il sermon prisco, Che (paventosamente a dirlo ardisco) Infino a Roma ne udirai lo scoppio. Ma non così egli fece nel Sonetto che comincia Passa la nave mia colma d'obblio, chè in esso avendo preso ad assomigliare gli amorosi affanni suoi alla nave, da questa imagine non si diparte sino alla fine. Non intendo io però di affermare coll’esempio di questa allegoria, che in breve discorso non possano star bene insieme più metafore di natura diversa; ma di avveitire che assai disconviene il trapassare da una similitudine ad un'altra inconsideratamente e quasi per salto. Giova moltissimo talvolta a render chiare e naturali quella metafora, che per se medesime sarebbero ardite e spiacenti, il preparare per convenevole modo l'animo di nostro compagno conversazionale. Se taluno volendo dire che gli uomini per mal esempio altrui caggiono in errore, dicesse caggiono nella “fossa” della falsa opinione, use rebbe certamente ardita e spiacevole metafora: nulladimeno ella diviene bellissima, qualvolta per le cose antecedenti ne siamo disposti. Va. glia l'esempio di Alighieri. Dopo aver ricordata la nota sentenza se il cieco al cieco sarà guida cadranno ambedue nella fossa prosegue: i ciechi soprannominati, che sono quasi infiniti, con la mano in sula spalla a questi mentitori sono caduti nella fossa della falsa opinione. Cosi l’ardita metafora divenla parte di una vaghissima dipintura, che viene quasi per gli occhi alla mente, ed ivi s'imprime e lungamente rimane. Sono certi scrittori, i quali riducono le idee astratte a termini più astratti (obscurus per obscurius) di quello che si converrebbe cercand a tulto potere di al lontanarle da' sensi: indi a questi loro soltilis simi concelti uniscono molte metafore repugnanti fra loro, il che fa che la mente di nostro compagno conversazionale tra questi estremi e tra questi contrari confusa nulla comprenda, come si può di leggeri conoscere nel seguente esempio tolto da un libro moderno: A giudizio dei savi scorgesi palesement, che nelle vedute su blimi della gran madre anche l'emulazione, principio avvedutamente inserito nella costituzione dell'uom, ' concorrer deve a scuotere ed a sferzare l'industria, on de riguardo allo sviluppamento di questa [Oh quanta confusione ed oscurità in tanta pompa di parole! Pare che il conversatore volesse dire, che i savi conobbero che la natura ha posto nel cuore dell' uomo il desiderio d'emulare gli altri; e che da questo procede l'industri; ma accoppiando i vocaboli principio e costituzione, che sono segni d'idee molto astratte, colla melaforica voce “inserire” ha composto un enigma; perciocchè nessuno polrà imaginare chiaramente siffallo innesto. Più strana poi diviene la metafor, quando l'astratto segnato dalla espressione “principio” si fa a scuolere ed a sferzare l'ind stria falla inopportunamente persona per trasformarsi losto in altra cosa, che si sviluppa a guisa di una malassa. In questa forma la metafora, che e vaghezza e luce della favella, diviene tenebre alla mente e vano suono (flatus vocis) agli orecchi. Conciossiache L’INTENZIONE del conversatore non sia solamente di render chiaro il concetto, ma di farlo talvolta dilettevole e maraviglioso, interviene che alcuni, per recare altrui dilelto e maraviglia, si fango a derivare dalla metafora certe loro conseguenze, come se in quella non già una simililudine si contenessa, ma come se la cosa a cui si reca il nome novello, veramente si trasformasse nella cosa, donde esso nome si toglie. Di questa specie di concetti si presero diletto i prosatori ed i poeti del secolo decimo settimo, forse per desiderio di avanzare gli scrittori delle altre elà, ed in fastidirono tutti i sani intellelli. Basti di ques 1 [Atti dell' Costitulo pazionale. era sti vizi un solo esempio. Ugone Grozio, per mostrare che non a dolere la morte di Giovanna d'Arco, dopo aver lodate nel principio di un epigramma le virtù di lei, sog giunse: Necfas est de morte queri, namque ignea tota aut numquam, aut solo debuit igne mori. Con l’espressione “fuoco”, imposta a cagione di similitudine, viene il conversatore a trasformare la misera vergine in vero fuoco materiale; e quindi trae la strana conseguenza, che ella mai non dovesse morire, o morire nel fuoco. Similmente si è frivolo modo e sciocco il derivare la metafora dalla somiglianza ed uguaglianza de'noni imposti a cose diverse, ALLUDENDO all' una di esse mentre si fa mostra di ſavellare dell'allra. In questo difetto incorse anche il primo de'nostri poeti lirici quando, piangendo la sua donna, parla del lauro, ed allude freddamente al nome di lei, come nella canzone, che comincia, Alla dolce ombra delle belle fronde ed in molti altri luoghi si può vedere. Essendosi fin qui parlato de' pregi e de'vizi delle metafore, cadrebbe in acconcio il ragionare degli altri traslati di parole e di concetto e della figura: ma, perciocchè queste cose sono state definite e largamente dichiarate da tutti i retlorici, stimo che qui basti il ricordare che siffatte maniera di favellare non e bella, se non in quanto vengono dal conversatore opportunamente adoperate. Per lo stesso fine, che la metafora si propone, cioè di rendere più vivo il concetto, melte bene talvolta il trasportare l’espressione a un segnato improprio o nominando invece del tutto la parte (metonimia), o invece della cosa la materia, ond'ella è composta, o il genere per la specie o il plurale pel singolare (majestic plural – We are not amused), e viceversa. Si può cadere in difetto usando questo traslato, che fu chiamato “sinedoche”, ogni qualvolla l'imagine della cosa, da cui si prende l’espressione, non sia bene associata alle idee, che si vo gliono svegliare in altrui, non sia atta a fare impressione nell'animo più che le altre ide, che vanno in sua compagnia. Vaglia a dichiarazione di ciò un solo esempio. Si dirà con maggior efficacia: fuggono per ſalto mare le vele, di quello ch: fuggono per l'alto mare le prore; poichè l’imagine delle vele gonfiate dal vento, come quella, che maggiormente percuote la vista di colui, che mira la nave in alto, più strettamente d'ogni altra idea si associa all'idea del fuggire: in altro caso però tornerà meglio chiamar la nave o poppa o carena, cioè quando l'azione, che essa fa, o la passione, che riceve, meno con venga alla vela che alle altre parti. Veggasi come ne ua Virgilio: vela dabant laeti. Submersas obrue puppes si nomida ancora talvolla la causa per l’effetto, o questo per quella: il contenente pel contenuto: il possessore per la cosa posseduta: la virtù ed il vizio invece dell'uomo virtuoso e del vizioso: il segno per il segnato ed il contrario; e questa figura, che dicesi “metonimia”, giova per le delle ragioni, essa pure adoperala opportunamente, a dare evidenza alla elocuzione. Ma di questi traslati e di quelli di concetto, che consistono in sentenze da intendersi a contra-senso (ironia), tanto se ne parla, come già dissi, in tutte le scuole, che qui, facendo la definizione dell'”allegoria”, dell'”ironia” e di altri simili traslali, avvertirò solamente che questi saranno diſellosi se verranno a collocarsi nella conversazione senza essere mossi dagli affetti. Anche rispetto a quelle forme, che sovente adoperiamo per rendere più efficaci i pensieri, e che si chiama con ispecial nome figura, ricorderò che alcune ve n'ha, come l’ “interrogazione” e l’ “apostrophe”, che nascono dall'affetto, ed alcune altre dall'ingegno, come l'”antitesi” (contrapposizione) e la distribuzione; e che perciò vuolsi avvertire di non far uso di queste seconde ne'luoghi, ove si possa credere che colui, che favella, abbia l'animo perturbato. Ma nessuno avvertimento, per ' vero dire, è giovevole a chi non sente nell'animo la forza degli affetti. Il più delle figure, come detto è di sopra, muovono dalla passione, e, se dall'ingegno vengo. no cercal, riescono fredde e di nessuna virtù: perciò è che male s'imparano da' rettorici. Con più figure favella la rivendugliola, secondo il detto di un illustre scrittore, contrattando sua merce, che il retſorico in suo studiato serino ne: tanto egli è vero che procedono più dalla natura che dall'arte. Questo vogliamo che ci basli aver dello così alla grossa delle figure. Dappoichè abbiamo detto in che consista la proprietà dell’espressione e della metafore, e come queste e quelle si debbano collegare per rendere chiaro ed accelto la mozzione conversazionale a nostro compagno conversazionale, e fatto alcun cenno de' traslati e delle figure, vérreio a dire, seguitando le dottrine di Palavicini, degli elementi, onde è costituita la “eleganza” (cf. Grice, ‘aesthetic maxims’), senza della quale ogni altro ornamento quasi vano riuscirebbe. L’espressione “eleganza”deriva dal verbo “eligere” ed è usata a segnare quella certa tersezza e gentilezza, per la quale una mozzione conversazionale non solamente viene ad essere scevro da ogni errore, ma in ogni sua parte ornato di qualità che da tutto ciò che ha del plebeo si allontana. Diciamo delle parti, delle quali ella si compone, che sono quattro. La prima e la brevità (Grice, ‘be brief – avoid unnecessary prolixity [sic].” La seconda e l'osservanza delle regole morfosintattiche. Terzo, la civilita o l'urbanità. Quarta, la varietà (non-detachability). Sebbene la chiarezza (conversational clarity, be perspicuous [sic]) spesso si ottenga col l'ampio e largo mozzione conversazionale, pure talvolta colla brevità si rende il pensiero più lucido e più penetranti (Brevity is the soul of wit). Le parole, dice Seneca, vogliono essere sparse a guisa della semenza, la quale comechè sia poca, molto fruttifica. La sovrabbondanza (over-informativeness) delle parole all'incontro empie le orecchie di vano suono (flatus vocis) e lascia vuote le menti. Perciò è da guardare non solo che nostro compagno conversazionale non sia distratto da una vana proposizione subaltern (premessa minore), ma che non sieno affetti più da un segno che dall’idea segnata. Saranno perciò utili a togliere questo inconveniente ed acconce a rendere elegante l'elocuzione quella espressione, che somigliante alla moneta d'oro equivale al valore di più altre, come le seguenti: disamare, disvolere, rileggere, ed altre molte, e con queste i diminutivi, gli accrescitivi, i vezzeggiativi, i peggiorativi, de' quali abbonda la nostra lingua. Vi sono ancora molti modi, che abbreviano la mozzione conversazione, e questi consistono nel tralasciare o il verbo o il pronome o la particella o l’affissi, che racchiusi nella diretta favella puo essere SOTTINTESO. (Implicatura). Basta qui recarne alcuni ad esempio. Se io grido ho di che dammi bere quo ha di belle cose onde fosti & cui figliuolo andovui il cielo imbianca - vergognando tacque a baldanza del signore il baltè иот da faccende non se da ciò vedi cui do mangiare il mio, ed altri moltissimi somiglianti modi, coi quali si ottiene questa importantissima parle della eleganza, onde rice. ve nerbo l'orazione, Avend’io delto che la brevità costituisce gran parte della eleganza, non intesi di affermare che agli scrillori non sia lecito di esporre le cose particolarizzando; chè questa anzi è l'arte colla quale si produce l'evidenza; ma volli avvertire chi brama dilettare altrui colle proprie scritture, di ben ponderare quali sieno le particolarità, che hanno virtù di far luminoso il concetto, e di tralasciar quelle, che l'offuscano e pongono l’altrui mente in falica. Secondo, dobbiamo eziandio osservare la regola morfosintattica, cioè quelle leggi che la volontà de’ primi favellalori e l'uso di coloro, che vennero dopo, banno imposto alla lingua italiana. Comechè il trascurarle non induca sempre oscurità (avoid obscurity of expression) pure importa moltissimo che sieno osservata, poichè ogni elocuzione irregolare apparisce plebea (un solecismo). E perciò grande si è la stoltezza di coloro, che vando cercando negli autori antichi i costrutti contro grammatica, e quelli come pellegrine eleganze pongono nelle scritture: dal che ottengono effetto contrario al buon desiderio: per ciocchè o portano oscurità nella sentenza, o in fastidiscono i lettori facendo ridere gli uomini di lettere, non ignari che quelle strane forme sono la più parte errori, o di amanuensi o di stampatori o di autori plebei, de'quali non fu piccol numero anche nel bel secolo dell'oro (errata). Terzo, siccome sono molli' vocaboli, secondo che è dello, i quali usati già da ' buoni scrittori han no acquistata certa nobiltà e fanno nobile il conversare, così pure sono molli modi, i quali, avendo in sè certa gentilezza, il fanno elegante, e non essendo propri degli stranieri, gli danno quel paliyo colore, e direi quasi fisonomia, per cui ciascuna favella da ogni allra si distingue. In che precisamente sia riposta que sta vaghezza, che si chiama civilita o “urbanità”, si è difficile dichiarare; e perciò assal meglio che con parole, si può mostrare cogli esempi. Porrò qui dunque alcuni modi volgari, ed al fianco di essi i moderni urbani o civile. Ciò che loro venisse in grado. A chicsa non usava giammai. Seppegli reo. Ciò che loro piacesse. Non era solita di andare in chiesa. Gli parve cosa calli va. Fece rivivere. Il prese per marito. “Era il giorno in cui” -- Egli domandò al servo certa cosa. Ben io mi ricordo. A vila recò. Il prese a marito. “Era il giorno che” – “Egli domandò il servo di certa cosa” -- Ben mi ricorda, o ben mi torna a mente. Vicino di quell'isola. Non-Upper: Viveva a modo di bestia. “Vicino a quell'isola” Upper: “Viveva come una bestia” Moltissime sono le forme somiglianti a que ste, le quali, sebbene non vadano per la bocca de ' comunali scrittori, pure sono chiare e naturali, e per cerla loro indicibile gentilezza recano diletto. Vogliono però essere parcamenle adoperate, perocchè in troppa copia ſarebbero il discorso ricercato; e questo difetto dobbia mo schivare anche a pericolo di parere negligenti. La negligenza è mancanza di virtù (salvo quando e falsa – nulla piu difficile che falsare la negligenza), che rende meno lodevole il discorso, ma non meno credibile: e l'affettazione è deforme vizio, che al dicitore toglie autorità e fede. Modo più sconcio si è quello di coloro, i quali, per vaghezza di parere eleganti ed SUO esperti della PATRIA LINGUA – LINGUA PATRIA -- patria lingua, compongono prose con parole e modi fuor d'uso, e costruzioni contorte alla boccaccesca; e della stessa guisa fanno versi oscuri e senza grazia e senza per bo, e si argomentano poi di avere imitato Aligheri o Petrarca. Ma che altro per verità fanno costoro, se non se muovere a sdegno i buoni ingegni, e dare occasione al volgo di ridersi di quei pochi, che studiano a’libri antichi? Un'altra generazione di scrillori (e questa è dei più ), alzato il segno dell'anarchia, gridando che l’USO è l'ARBITRO della lingua (Wittgenstein), si fa beffe di ogni gentilezza e di ogni proprietà: guida per entro l'idioma nativo parole e forme forestiere, e il guasta sì, che non gli lascia di se non la sola terminazione delle voci. Cosi due sette di contraria opinione vorrebbero partire la repubblica letteraria. L'una tiinida e superstiziosa restringe la lingua a que' termini, in cui stette nel trecento: l'altra licenziosa ed arrogante vuole che ogni ar gine si rompa sì, che le purissime fonti del civil conversare si facciano torbide e limacciose. Affinchè appaia manifesto il torlo di questi se diziosi, dirò che cosa sia lingua; e dalla sua definizione trarrò alcune conseguenze. La serie de' segni e dei modi vocali instituiti a rappre sentare ogni generazione di pensieri, o, per meglio dire, ad esprimerc tulle quante le idee, ond’è formata la scienza di una patria, è ciò che dicesi lingua (come l’italiano dal latino, o il pidgin e il creole che e il francese). Da questa definizione si deduce che nè una sola città nè un'età sola può essere autrice e signora della lingua italiana – Roma e la citta della lingua romana; ma che è forza che alla formazione di questa abbia avuto parte la nazione intera, cioè tutti gli uomini congiunti di luogo e di costumi, che hanno idee proprie da manifestare; e che a scernere il fiore dalla crusca abbiano dato e diano opera gl'illustri scrittori. E così avvenne di vero nella formazione e nell'incremento di questo, che Alighieri chiamò, ironicamente, il volgare d'Italia, poichè, come dice BEMPO, e un siciliano e un Pugliese e un Toscano e e un Marchegiano e un romagnolo e un lombardo e un veneto vi posero mano. Tutte le parole dunque per tal guisa formate, che vagliono ad esprimere con chiarezza i pensieri, potranno essere con lode usate, sieno elle an tiche o moderne; chè le moderne ancora deb bono essere benignamente accolle, quando sie no necessarie a segnare una idea novella. Quella facoltà, che fu conceduta agli antichi, non si può togliere ai presenti uomini; perciocchè, se non si possono prescrivere limiti all'umano sapere, nè meno alla quantità dei segni delle idee si potrà prescrivere (quark, querk). Per la qual cosa ſu e sarà sempre lecito a' sapienti, qualvolla la necessità il richiegga, l'inventare una nuova espressione (“Deutero-Esperanto”) e un nuovo modo. Questa risposta è alla selta dei superstiziosi. Ora ai libertini (Bennett – meaning-liberalismo – libertinismo semiotico – Locke – liberty) brevemente diremo che la lingua italica non è la lingua del volgo, ma, come è delto, si è quella, che gli illustri scrittori di ogni secolo hanno ricevuta per buona, e che perciò quando si dice che appo l'uso è la signoria, la ragione e la regola del parlare, non si vuol dire l'uso del volgo, ma de' buoni scrittori. I più antichi die dero vita e forma alla lingua romana, ed i posleri loro la arricchirono e la potranno arricchire, non senza grande biasimo potranno toglierle l’essere suo. Siccome ad ogni mazione è spe ma ciale la fisonomia e certa foggia di vestire, cosi e speciale al idio-letto le voci ed i modi propri e figurati, i quali hanno attenenza co'diversi costumi delle diverse genti; e perciò coloro, i quali vogliono introdurre licenziosamente nell'idioma nativo espressione e modi forestieri – implicate, non impiegato -- operano “contro ragione”,  e, mentre ambiscono di essere tenuti uomini liberi e filosofi, fanno mostra d'obbrobriosa ignoranza. Non si lascino dunque sopraffare i gio vanelli da quei beffardi filosofastri, che con trassegnano per derisione col nome di purista chi studia scrivere italianamente; ma alla co storo petulanza coll'autorità di CICERONE ri spondano arditamente che colui, il quale la patria favella vilipende e deforma, non solo non è oratore, non è poela, ma non è uomo (CICERONE, de orat.). Quarta e ultima, se le parole fossero sempre composte ugualmente, non sarebbero graziose a chi ascolla o legge; e perciò un altro elemento della eleganza si è la variet. Il discorso può ricevere varietà da sei luogh, che ad uno ad uno ver remo a dichiarare brevemente, seguitando Pallavicini. Accade tante volte di dover nominare replicatamente la cosa medesima, e ciò produce noia agli orecchi, i quali sopra tutti i sentimenti del corpo sono vaghi di varietà; onde per isfuggire la ripetizione delle voci sono molto giovevole il sinonimo, quando la piccola differenza, che è in essi, non tolga al discorso laproprietà necessaria; per non peccare contro la quale sarà mestieri aver considerazione, co me allrove si è detto, al vero intendimento de vocaboli. Se, a cagion d'esempio, dovendo si cambiare l’espressione “fanciullo”, si prendesse l’espressione “infante”, si osserverà che questa, venendo dal verbo fari, segna non parlante, e che perciò non può strettamente essere sempre sostituita a quella di “fanciullo”. Il secondo dai sei luogo della varietà sta nel ra presentare una cosa pe' suoi effetti congiunti, come, a cagion d'esempio, se poeticamente dicessimo; il sole velava i pesci, per dire era il fine dell'inverno: al germogliare delle piante, per dire al tornare della primavera. Con somma grazia e novità Aligheri rappresentò la sera pe' suoi effetti dicendo: Era già l'ora, che volge il desio a' naviganti, e inlenerisce il core lo di, che han detto a' dolci amici addio; E che lo nuovo peregrin d'amore punge, se ode squilla di lontano, Che par il giorno pianger, che si muore. Questo fonte di varietà è abbondantissimo, e possiamo vederne un esempio in Bernardo Tasso, che in cento modi segna il sorgere del giorno. Nel rappresentare le cose pe' suoi effetti porrai cura che questi non destino al cun pensiero sordido od abbietlo, e che nel le scritture famigliari la congiunzione loro coll'oggetto sia mollo nola, sicchè non paia puplo ricercata. Il terzo luogo dai sei modi sono le definizioni o epiteto o apposizione delle cose, o sia le brevi descrizioni loro, le quali si possono prendere invece delle cose stesse, o que ste indicare per alcuna loro speciale proprietà; come chi per nominare Giove dicesse il padre degli uomini e degli Dei, o per dire la fortuna, Colei, che a suo senno gi infimi innalza ed i sovrani deprime. Il quarto luogo dai sei modo si è l'uso promiscuo del signato attivo, medio, o passivo da un verbio Potrai dire: Raffaele colori questa tavola, ovvero, da Raffaele fu colorita questa tavola; e secon do che chiederà il bisogno, userai o questo o quello segno. Il quinto luogo dai sei luoghi è la qualita (categoria d’Aristotelel'uso negativo (o infinito – privazione) invece dell’affirmativo o positivo; come chi sosliluisse alla proposizione positiva o affirmative seguente, ma con signato negativo: Il sole si oscurò, quest' altra proposizione splicitamente negative, per mezzo dell’adverbo di negazione, “non”: Il sole non isplendette”. Il sesto luogo dai se luoghi e la metafora (you’re the cream in my coffee), per la quale si può maravigliosamente variare il discorso, ora volgendo in “senso” (segnato, strettamente) metaforico – Sensi non sunt multiplicanda praeter necessitatem – uso metaforico -- un concetto allre volle espresso con termini propri: ora usando una metafora tolta o dal genere o dalla specie o da cose animate o da cose inanimate: ora quelle, che si presentano ai sensi: ora le altre, che si riferiscono agli altri sentimenti del corpo. Ornamento, dal quale l'elocuzione riceve molta gravità, e la sentenza. La sentenza o dogma o assioma o principio o adagio o gnomico o proverbo (“Methinks the lady doth protest too much” what the eye no longer sees the heart no longer grieves for”) si è verità morale ed universale, segnata con la brevità, che all'intelletto sia lieve il comprenderla ed il ritenerla. Tali sono le seguenti. Ipsa quidem virlus sibimet pulcherri. ma ncrces. Quidquid erit, superanda omnis for tuna ferendo est. La mala ineple non ha mai allegrezza di pace. Proprio de'tiranni è il temere. La buona coscienza è sempre sicura. Avvegnachè la sentenze sia più accomodata a quella conversazione che tratta di materie gravi, nulladimeno possono adornare molte altre specie di componimenti, e perfino le lettere famigliari, se ivi con moderazione sieno adoperate. Dico che sieno adoperate con moderazione, perchè il soverchio uso delle sentenze, anche nelle materie più gravi, è indizio che lo scrittore vuol ostentare sapienza, e perciò il fa parere affettato. In cotal vizio cadde ro molli scrittori del secol nostro, i quali me ritamente furono tacciali di “filosofismo” di  Borsa, che in una sua dissertazione ra giopò del presente gusto degl'italiani. Scon venevolissimo è l'abuso e talvolta anche l'uso della sentenza pe' discorsi, che trattano di cose mediocri o umili. Ma che diremo poi росо senno di coloro, che guidano in teatro i servied altre persone rozze ed agresli a parlamentare ed a spular tondo, come se dal pergamo predicassero? Questo è modo tanto sconcio, che il volgo slesso ne rimane infastidito, on d'è qui da passare con silenzio. È da lodarsi segnatamente nelle opere morali o politiche l'elocuzione, che a quando a quando sia ornata, ma non tessuta di sentenze, la copia soverchia delle quali, stanca i lettori invece di sollevarli, come si può sperimentare leggendo le opere morali di Seneca. Lo scrittore dal quale più che da ogni altro si apprende a fare buon uso della sentenza, è Cicerone, nelle cui filosofia mai non pare che quelle sieno condotte nel discorso a pompa, ina sempre vi nascono naturalmenle per recar luce e diletto. Diciamo alcuna cosa anche del concetto, onde viene grazia o piacevolezza ai componimenti. Concetto propriamente si dice una certa proposizione, che per essere nuove ed espresso con brevi parole recano altrui diletto e maraviglia e scuoprono il sottile ingegno di chi le dice. Ve n'ha di due maniere. La prima è dei delti gravi, l'altra dei ridevoli, che con proprio nome si chiama una facezia. Gli uni e gli altri nascono da’ medesimi luo ghi, e differiscono, secondo Cicerone, solamente in questo: che i gravi si traggono da cose oneste; i ridevoli da cose deformi o alcun poco turpi: ma pare veramente che a far ri devole un dello, sia necessario, il più delle 1 volle, che esso comprenda in sè alcune idee discrepanti congiunte insieme di maniera, che la congiunzione loro ben si convenga con una terza idea. Ciò sia chiaro per un esempio. Un buon ingegno de' nostri tempi fcce incidere in rame la figura di un vecchio venerabile con lunga barba, vestito alla francese, ornato di frangie e di feltucce e tutto cascante di vezzi, e sotto vi pose queste parole. Traduzione d' Omero di M. C. Tultii ne fecero le risa grandi. Se il ridicolo di questa figura consistesse nel solo accoppiamento dell'imagine dell'uomo antico e grave con quella de' giovani leziosi, ci ſarebbe ridere anche l'imagine di una sirena, che è composta di due contrarie nature; lo che per verità non accade, ed accadrebbe solamente qualora si dicesse che la bella donna, che termina in pesce, figura delle folli poesie ricordate da Orazio nella Poetica. Pare dunque manifesto che il ridicolo di sì falta deformità si generi dalla convenienza che è tra esse e la cosa, cui si vogliono assomigliare. Per ciò s'intende quanto diriltamente Castiglione dichiari che si ride di quelle cose, che hanno in sè disconvenienza, e par che slieno male senza però slar male. Affinchè prima di tutto si vegga che da’ luoghi, donde si cava la grave sentenza, si possono ancora cavare i molli da ridere, re cherò l'esempio, che ne dà Castiglione. Lodando un uom liberale, che fa comuni cogli amici le cose proprie, si polrà dire, che ciò ch'egli ha, non è suo: il medesimo si può dire per biasimo di chi abbia rubato, o con male arti acquistato quello che tiene. Di un buon servo fedele si suol dire: non vi ha cosa che a lui sia chiusa e sigillata: e que sto similmente si dirà di un servo malvagio destro a rubare. Le maniere de concelli ingegnosi sono pres sochè infinile, e di moltissime ha ragionalo Cicerone nel terzo libro dell'Oratore, ma noi toccheremo qui solamenle alcune principali. Cicerone distingue primieramente le maniere graziose, che consistono nelle parole, da quelle che stanno nella cosa, o che si esprimono col parlare continuato. Egli dice che consistono nella cosa quelle (sieno gravi o piacevoli ), che mulale le parole non cessano di generare maraviglia o riso: tali sono le narrazioni verisimili, e fatte secondo il costume e le varie condizioni degli uomini, e di queste molte ve n'ha nel Decamerone di Boccaccio. Una seconda consiste nella imitazione de’ costumi altrui fatta per modo di parlare continuato, come quella che fece Crasso, il quale in una sua orazione contraffacendo un uom supplichevole con queste parole, per la tua nobiltà, per la tua famiglia, ne imitò cosi bene la voce e gli alti, che mosse la gente a ridere; e proseguendo, per le statue, distese il braccio, ed accompagnò la voce con geslo e con imitazione si naturale, che le risa scoppiarono maggiori. Queste sono le due maniere, che consistono nella cosa, e che si esprimono col parlar continuato. Quelle che maggiormente si attengono alla materia che qui si tratta sono le maniere di que'concetti, la grazia de quali sta nella parola. Recbiamone esempi. Alcuni molli graziosi si generano in virtù della metafora. Avendo Lodovico Sforza duca di Milano eletta per sua impresa una spazzetta, con che voleva segare se essere disposto a cacciare dall'Italia gli oltremontani, domanda alcuni ambasciatori fiorentini, che loro ne paresse. Quelli risposero. Bene ce ne pare, salvochè molle volle avviene che chi spazza tira la polvere sopra di sè. Più grazioso ė il motto, quando ad alcuno, che metaforicamente abbia parlato, si risponde cosa inaspettata continuando la metafora stessa. Tale si fu detto il Cosimo de' Medici, il quale a' Fiorentini ſuoruscili, che gli mandarono a dire che la gallina cova, rispose. Male potrà covare fuori del nido. Anche il paragonare cose vili e piccole a cose grandi è spesso cagione di ridere, come in questi versi del Berni: E prima, iodanzi tutto, è da sapere che l’orinale è a quel modo tondo, Acciocchè possa più cose tenere, E falto proprio come è falto il mondo. Dobbiamo in questa maniera della facezia guardarci dal fare sovvenire il compagno conversazionale di cose laide e stomachevoli, affiochè la piacevolezza non degeneri in buffoneria: lo che sovente accade a coloro, che non sono piacevoli per naturale disposizione. Molti molti ridevoli si formano per via di iperbole [“Every nice girl loves a sailor”] accrescendo o diminuendo alcuna cosa. Diminui ed accrebbe a un tempo le cose Cicerone parlando giocosamente di suo fratello, che essendo di piccola slatura aveva cinto il fianco di una spada' smisurata. Chi ha, disse, cosi legato mio fratello a quella spada? Dall’equivoco procede spesso i motti freddi ed insulsi, ma spesse volte ancora gli arguli. Argulo parmi il seguente in biasimo di una donna, che fosse di molli. Ella è donna d'assai: il qual molio potrebbe ancora essere usato per lodare alcuna femmina prudente e buona. Molla venustà è in que’ delli, che invece di esprimere due cose ne esprimono una sola, per la quale l'altra s'intende (IMPLICATURA, SOTTITESSO). Assai leggiadro è questo  in cui si favella di un'amazzone dormiente, recato ad un esempio da Demetrio Falereo: in terra aveva posto l'arco, piena era la faretr, e sotto il capo aveva lo scud: il cinto esse non isciolgono mai. Similmente è grazioso il nominare con buone parole le cose non buone, come fece lo Scipione, secondo che narra M. Tullio, con quel centurione, che non si era trovato al conflitto di Paolo Emilio contro Annibale. Il centurione scusasi di sua negligenza col dire. Io sono rimasto agli alloggiamenti per farli sicuri; perchè, o Scipione, vuoi dunque tormi la civiltà? Cui rispose Scipione. Perchè non amo gl;uomini troppo diligenti. Sono assai argute quelle risposte, per le quali si DEDUCE da una medesima cosa il contrario di quello che altri deduceva. Appio Claudio dice a Scipione. Lo maraviglio che un uomo ďalto affare, quale tu sei, ignori il nome di tante persone. Non maravigliare, rispose Scipione, perocchè io non sono mai 69 blato sollecito d’imparare a conoscer molti, ma a far si, che molti conoscano me. Per egual modo Parnone rispose a colui che chiamava sapientissimo il tempo: Di pari dunque potrai chiamarlo “ignorantissimo”, perchè col tempo tutte le cose si dimenticano. Il concetto della risposta conversazionale può essere grazioso solamente perchè racchiude alcun insegnamento non aspettato da colui che fa la domanda. Fu chiesto ad uno spartano, perchè si facesse crescere la barba, e quegli rispose. Acciocchè mirando in essa i peli canuli io non faccia cosa, che all età mia disconvenga. Hauno grazia similmente alcuni detti, perchè mollo convengono al costume della persona, alla quale si attribuiscono. Essendo un colal uomo beone caduto inſermo, era assai mole stalo dalla sete. I medici a piè del suo letto parlavano tra loro del modo di trargli quella molestia, quando l'infermo disse: Ponsate di grazia, o signori, a togliermi di dosso la febbre, e del cacciar via la sete lasciate la briga a me solo. loducono a ridere anche que’ detti, che procedono da sciocchezza o goffezz, finta o vera che ella sia. Tali sono le due seguenti terzine di Berni: lo ho sentito dir che Mecenale Diede un fanciullo a VIRGILIO Marone, che per martel voleva farsi frate; E questo fece per compassione, ch'egli ebbe di quel povero cristiano, Che non si desse alla disperazione. si può similmente cavare il ridicolo dalle parole composte di nuov, che esprimono al cuna deformità del corpo, o dell'animo, come furono queste usate dal Boccaccio: picchia. pello; madonna poco.fila; lava-ceci; bacia santi. Si falte maniere, che direi quasi deſormità della lingua, poichè dall'uso si allonta pano, essendo convenienti alla cosa segnata stanno bene, e perciò inducono a ridere e han lode di graziose; ma se poi in forza dell'uso divengono proprie, perdono, a somiglianza delle vecchie metafore, alquanto della grazia primiera. Osserva Demetrio Falereo che la grazia del detto proviene alcuna volla dall'ordine solamente, quando una cosa posta nel fine produce un effetto, che posta nel mezzo o nel principio nol produrrebbe, o il produrrebbe minore. Egli reca l'esempio seguente di Senofoole, che, parlando dei doni dali da Ciro a certo Siennesi, disse. Gli donò un cavallo, una vesle, una collana, e che i suoi campi non fossero guasti. L'ullimo dono è quello dove sta la grazia, parendo cosa nuova, che si donasse a siennesi ciò che egli possedeva: se quel dono fosse stalo collocato prima degli altri non avrebbe avuto grazia alcuna. Bello pel medesimo artificio ci pare un detto di Benedetto XIV. Accomiatandosi da lui due personaggi di religione luterana, egli avvisa di benedirli e di ammonirli. Era di vero assai agevol cosa il fare che egli no ricevessero con grato animo quell'atto di amore paterno: ma il venerabile vecchio ollenne il buon effetto parlando così. Figliuoli, la benedizio ne de vecchi è acceita a tutte le genti; il Signore v'illumini. Ingegnosissimo si è que sto detto per l'ordine suo maraviglioso. Colla prima affeltuosa parola, “Figliuolo,” il papa procacciasi la benevolenza del compagno conversazionale. Nella sentenza, la benedizione de’vecchi è accetta a tulle le genti, chiude la prova della con venevolezza di ciò ch'egli vuol fare. In quel l'io io vi benedico, trae la conseguenza delle promesse. Nella precazione poi ripiglia la dignità di pontefice, che accortamente aveva quasi deposta da principio e solto cortesi pa role nasconde il documento, che a lui si ad dice di porgere a chi è fuori della chiesa romana. Questo ci basti d'aver ragionato pei delli graziosi e piacevol, chè il voler parlare di tulle le maniere loro o semplici o miste sarebbe officio di chi volesse trattare solamente di questa materia: e diciamo con maggior brevità de’ concetli sublimi. Alcuni haimo chiamato sublime qualsivoglia concetto, coi nulla manchi di grazia e di perfezione; ina qui si vuol prendere la parola nel segnato, in che viene usata da ' più de' moderni reltorici e perciò così detiniamo i concetto sublime. Concetto sublime si dicono quelli, che rappresentano con brevi parole l'idea di alcuna potenza o forza straordinaria, per la quale chi ode resla compreso di alla maraviglia. Tali sono i seguenti. Giove nel primo libro dell'Iliade promette a Teli di vendicare Achill, e dopo il conforto delle sue parole i neri Sopraccigli inchinò: sull immortale Capo del sire le divine chiome Ondeggiaro, e tremonne il vasto Olimpo. Questo concetto, il quale ci fa maravigliare della potenza di Giove, cesserebbe di essere sublime se con lunghezza di parole fosse segnato: perchè quella lunghezza sarebbe contraria alla rapidità dell'alto divino e farebbe che il pensiero del poeta non venisse improvviso alla mente di nostro compagno conversazionale, che è quanto dire non generasse maraviglia. Sublime è ancora quel luogo di T. LIVIO nella allocuzione di Annibale a Scipione. Ego Annibal pelo pacem, poichè la parola Annibal reca al pensiero la virtù, le imprese, la fero cia di quel capitano. Medesigiamente si fa maniſesta una straordinaria fortezza di animo ne'due luoghi seguenti. Seneca, nella Medea, fa dire alla nudrice: Abiere Colchi: conjugis nulla est fides, Nihilque superest opibus e tantis tibi. Medea risponde: Medea superesto Corneille, ad imitazione di Senec: Nerine: Dans un si grand revers que vous reste- t- il? Med. Moi. In luogo del nome di Medea il poeta francese pose il pronone, ed ottenne effetto maraviglioso e colla brevità e con quella cotal pienezza di suono, che è nella voce “moi”. Il poeta latino col nome di Medea desta nel compagno conversazionale la memoria della potenza, della sapienza e della magnanimità di quella maga. Divisata così la natura de' motti graziosi e piacevoli e de' sublimi, e restando a dire al cuna cosa dell'uso, che se ne può fare, ripe teremo ciò, che già detto abbiamo delle sentenze, cioè che lo scrittore si guardi dal fare troppo uso de' concetti ingegnosi e graziosi e de' sublimi, poichè non è cosa tanto contraria alla grazia e alla grandezza, quanto l'artificio manifesto e l'affettazione. Le grazie si dipinsero ignude appunto per insegnare che elle sono nemiche di tutto che non è ingenuo e naturale. La grandezza similmente non va mai disgiunta dalla semplicità, e piccole appaiono sempre quelle cose, che sono piene d'ornamenti; imperciocchè la mente soffermandosi in ciascun d'essi riceve molle e divise imaginet le in luogo di quella imagine sola, che ci rappresenta la cosa continuata ed una. Male adoperano coloro che non avendo rispetto alla materia, di che favellano, nè alle persone ne alla modestia nè alla gravità conveniente allo scrittore, colgono tutte le occasioni, che loro porgono o le cose o le parole, per trar materia di motleggiare; perocchè invece di mo strare acutezza d'ingegno appaiono loquaci ed insulsi. Che dovrà dirsi poi di que, che abusano dell'ingegno per empiere le scritture di freddi e falsi concelti, di riboboli, di bislicci e d'indovinelli? di que', che tengono per finis sime arguzie le allusioni delle parole, che erano la delizia del Marino e de' suoi seguaci? Diremo che nali non sono per ricreare gli ani mi e sollevarli dalla fatica, e per indur ſesta e riso, ma per noia, fastidio e sfinimento di chi è costretto di udirli. Se il discorso si fa strada all’animo per gli orecchi, è necessario che egli sia accompagnato dall' armonia, della quale niuna cosa ha maggior forza negli uomini. L'armonia ci dispone al pianto e all'ira, e ci rallegra e ci placa; e lulle le genti, avvegnachè barbare, sono tocche dalla dolcezza di lei; laonde gran de mancamento sarebbe, se lo scrittore ad ac crescere efficacia alle sue parole non se ne valesse. Dalla greca voce d.gpótely (armosin), che segna connettere, è derivata la voce “armonia”. I maestri di musica insegnano, che essa consiste nell'accordo di più voci sonanti nel medesimo punto; ma coloro, che parlano del l'arte retorica e della poelica, presero questa parola quasi nel significato, che i maestri di musica prendono quella di melodia, come si vede aver fatto Aristotele, che usò in questa significazione ora la voce melos, ora la voce armonia. La melodia consiste nella altenenza, che hanno rispettivamente i gradi successivi di un suono nel salire dal grave all'acut: e noi direino che rispetto al discorso l'armo nia sta nell'altenenze delle lettere o delle sil labe o delle parole, che si succedono con quel la certa legge che si affà alla natura dell'or gano dell'udito. L'armonia, di che parliamo, è di due maniere, semplice o imitative. L’una ba per fine soltanto la dileltazio ne degli orecchi, l'altra, oltre la dilettazione degli orecchi, la imitazione del suono e dei movimenti delle cose inanimate e delle animate, e quella degli umani affetti: colle quali imitazioni inaggiormente ella si rende accetta all'intelletto e gli animi sigrioreggia. La dilettazione degli orecchi si ottiene con parole costrutte e disposte in modo analogo, come è dello, alla natura dell'organo del l'udito e fuggendo tutte le voci e tutti gli accozzamenli di esse, che producono sensazio ne spiacevole. L'imitazione poi si fa adope. rando e componendo suoni o gravi o acuti o inolli o robusti, secondo che meglio si affanno a ciò che si vuole imitare. Diciamo alcuna cosa più largamente e dell' una e dell'altra armonia, l’armonia semplice e l’armonia composita o imitativa. Le parole, le quali, come tutti sanno, si compongono di vocali e di consonanti, sono più o meno armoniche, secondo che le lettere delle due specie suddelte si trovano disposte con certa proporzione. Le vocali fanno dolce il vocabolo le consonanti robusto. Ma le troppe vocali, che si succedono, producono quel suono spiacevole, che si dice iato; le troppe consonanti fanno le parole aspre e diſficili a pronunciare: così l'incontro delle sillabe somiglianti produce la cacofonia, Circa le parole non molto armoniche, ma approvate dall' uso, diremo chę elle non si banno a rigettare; ma si deve aver cura di collocarle in guisa, che il loro suono disarmonico serva al l'armonia di tutto il discorso. Anzi sono da commendare quelle lingue che ricche si trovano di vocaboli diversi di suono, i quali, giunti insieme con bell'arte, sogliono rendere maravigliosa l'armonia del conversare. Sebbene, circa l'arte del collocare le parole con armonia, non possa darsi maestro infuori dell' orecchio avvezzo alla lettura de' classici scrittori, pure non sarà del tutto vano il dire più particolarmente alcuna cosa delle parti, onde l'armonia si coropone. E prima di tutto è a sapere che l’altenenza tra le lettere, le sillabe e le parole, dalle quali risulta l'armonia, sono di due ragioni: cioè altenenze di tempo, poichè si pronunciano o in tempi uguali o disuguali; e attenenza di suono, poichè ogni sillaba differisce dall'altra per aculezza e gravità e per più o meno di dolcezza o di asprezza. Diciamo prima delle attenenze di tempo. Pie chiamamo I LATINI quella certa quantità di sillabe, che pronunciandosi in tempi eguali, si potevano misurare colla battuta del piede nel modo che oggi ancora fanno i suonatori. E, poichè si pronunciavano più o meno sillabe (attesa la varia conformazione delle parole) in ispazi uguali di tempo, avvenne che lunghe si dissero quelle che occupavano la maggior parte del tempo misurato dalla battuta, e brevi le altre, che occupavano la parte minore. “Coelum”, per esempio, si compone di due sillabe e si pronuncia in ugual tempo che ful-mi-na, che è di tre: perciò coelum è un piede di due lunghe, e ſulmina è un pie de di una lunga e di due brevi. I piedi sono di molte specie, e ciascuna ha il suo nome. Ve n'ha de' semplici di due sillabe, che sono o due brevi o due lunghe, una breve e una lunga, o una lunga e una breve: ve n'ha di tre sillabe, che per la varia combinazione delle brevi e delle lunghe risultano di otto specie: ve n'ha finalmente più di cento specie dei composti, cioè formali dall' unione di due piedi semplici. Dall'indelernipala quantità di piedi disposti con legge analoga alla natura dell'organo del l'udito umano, la qual legge si sente nell'anima e definire non si può, nasce il numero; e similmeple dall ' unione determinata di varii piedi, i versi, che sono molle maniere, se condo la qualità de' piedi, onde sono composti. Dalla varia qualità e quantità de’ versi nascono poi le differenti specie del metro. A rendere armonioso il verso si congiunge al pu nero il suono, che, siccome abbiamo accennato, si genera dalla proporzione, con che sono di sposte le consonanti e le vocali. Da ciò nasce che, sebbene talvolta i versi abbiano il medesimo número, non hanno il medesimo suono, ma variano nella loro armonia maravigliosamente: per la qual cosa interviene che dalla unione di molti versi che abbiano il medesimo numero, come a cagion d'esempio, di esametri, si possono generare molle ed assai varie armo pie: la diversa upione di queste armonie di cesi, “ritmo”. Come nella poesia dal ipovimento di molti versi upili nasce il ritmo poetico, così da quello di minuti membri d' indeterminala mi sura nasce quello della prosa, il quale pure è di varie sorla, siccome avremo occasione di osservare in appresso. Ora veniamo a dire del l'armonia della favella italiana. Gl’italiani non hanno determinata la quantità nelle sillabe, come si vede aver fatto i latini, per la qual cosa nemmeno i piedi hanno potuto determinare. Alcuni letterali del sesto decimo secolo, fra' quali il Caro, tentarono di rinnovare fra noi i versi esametri ed i pentametri, ma quanto poco (per la in sufficienza della lingua nostra) al buon volere rispondesse l'effett, apparirà dai seguenti versi di Claudio Tolomei, i quali, se non sono molto aiutati dall'arte del recitante, non possono ricevere soavità. Ecco il chiaro rio, pien eccolo d'acque soavi, Ecco di verdi erbe carca la terra ride. Scacciano gli alni i soli co' le frondi e co'ra (mi coprendo; Spiraci con dolce fato auretta vaga. A noi servono invece di piedi le sillabe é gli accenti, e quindi è che da un determinato numero di sillabe e da una determinata positura di accenti nasce il numero, onde si generano molte specie di versi. Omettendo le di spute de'rettorici e le loro opinioni circa questa materia, faremo qui alcun cenno solamente rispetto agli accenti. Le parole sono di una o più sillabe: se di una soltanto, l'accento è su quella, come in tu, me, no, si: se di più o egli è nell'ullima, come in mori, o nella pri 79 ma, come in tempo, o nella penullima come in andarono, o prima di essa, come in concedea glisi. L’indicati accento si dice “acuto”, perchè alzano la pronuncia: dove questi non sono, si trova il “grave”, che l'abbassano. Gli acuto e il grave  alzando ed abbassando il discorso, por tano seco certa proporzione di tempo, e perciò tengono fra noi il luogo de' piedi Jalini, e formano varie specie di versi, che, secondo, la quantità delle sillabe, si dicono o pentasillabi o senarii o seltenarii o ottonarii o novenarii o decasillabi o endecasillabi. Dalle varie unioni di questi nascono i diversi metri. E il ritmo nasce nel modo, che si è detto parlando della lingua latina, e circa il verso e circa la prosa. Non si contenta l'animo upano dell'armonia, onde è ricreato solamente l'orecchio, ma gran demente si piace di que' suoni, che più vivamenle ci pougono innanzi il segnato; e questo specialmente egli ricerca nella poesia, la quale o avendo, o mostrando di avere per suo principal fine il diletto, dee apparire più d'ogni altro discorso ordinala, e splendida: sarà quindi utile cosa l'investigare quale sia la virtù imitativa delle parole. Questa e l’armonia imitativa. Dalla mescolanza delle lettere liquide e delle vocali risulta infinita varietà di vocaboli dell’imitazione delle grida, de’suoni, de’romori e de’movimenti, e chi, porrà mente alla nostra lingua troverà, secondo che osserva BEMPO, voci sciolle, languide, dense, aride, morbide, riserrate, tarde, mutole, rolle, impedite, scorrevoli e strepitanti. Perciò è che variando la composizione di questi suoni si potranno ordinare.e versi e ritmi, che ogni grido o romore o movimento vagliano ad imi. tare. Jofinili esempi bellissimi di si ſalta imi. tazione sono nella Divina Commedia: ma basti qui la sola descrizione dello strepito, che ALIGHIERI udi nell'Inferno: Quivi' sospiri, pianti, ed alti guai risonavan per l'äer senza stelle, Perch'io al cominciar ne lagrimai. Diverse lingue, orribili favelle, parole di dolore, accenti d'ira, voci alte ' e fioche, e suon di man con elle facevano un tumulto, il qual s'aggira sempre in quell'aria senza tempo tinta, Come l'arena, quando il turbo spira. Del medesimo genere sono i seguenti versi del Poliziano. Di stormir, d'abbaiar cresce il romore: Di fischi e bussi tutto il bosco suon: Del rimbombar de' corni il ciel rintrona. Con tal romor, qualor l'äer discorda, Di Giove il foco d'alta nube piomba: Con tal tumulto, onde la gente assorda, dall'alte cataratte il nil rimbomba. Con tal orror del latin sangue ingorda Sonò Megera la tartarea tromba.Il Parioi ci fece sentir il guaire di una ca goolina, e il risponder dell' eco in questi bellissimi vers. Aita, aita, Parea dicesse; e dall'arcate volte a lei l'impielosita eco rispose. Siccome il succedersi delle parole ora va lento or celere, è manifesto che questo, che si può chiamare movimento del discorso, ba somiglianza coi movimenti delle cose, e che per ciò aver dee virtù d'imitare le azioni loro. Recherò qui per maniera d'esempio alcuni luo ghi cavali da' poeti. Odesi il furore e l'impeto del vento in questi versi di Dante: Non altrimenti fatto che d'un vento Impetüoso per gli avversi ardori, Che fier la selva senza alcuu rallento, E i rami schianta, abbatte, e porta i fiori; Dinanzi polveroso va superbo, E fa fuggir le belve ed i pastori. Mirabilmente Virgilio descrisse il tumullo dei venti all'uscire della grotta di Eolo: Qua data porta ruunt et terras turbine per flant. Incubuere mari, totumque a sedibus imis Una Eurusque, Notusque ruunt, creber que procellis Africus, et vaslos volvunt ad sidera flu clus. Insequitur clamorque virum, stridorque rudentum. Fra i versi che esprimono la caduta de corpi sono bellissimi i seguenti: E caddi come corpo morto cade; il qual verso è cadente, come il corpo che cade. Insequitur praeruplus aquae mons. In queste parole di Virgilio si sente il piom bare dell'acqua precipitosa: ed eccellentemente fece sentire il medesimo suono il Caro: E d' acque un monte intanto Venne come dal cielo a cader giù. In virtù di quest'altro verso dello stesso Caro, una nave sparisce in un subito, e si sente il romor dell'acqua che l'inghiotte: Calossi gorgogliando e s'aſfondò. Lo stesso con una sola parola lunga e scor revole dipinse il procedere del carro di Net tuno: Poscia sovra il suo carro d'ogni intorno Scorrendo lievemente, ovunque apparve Agguagliò il mare e lo ripose in calma. Nelle seguenti parole di Virgilio quasi sen tiamo a stramazzare il bue; Procumbit humi bos. Dell’armonia che imita gli affetti col suono, Onde conoscere per qual modo gli affelli vengano imitati dall'armonia, uopo è d'inve sligare quali altenenze essi abbiano col suono e quali col namero. In quanto alle altenenze si ponga mente che ad ogni sorta di affetli risponde un particolar molo del l'organo vocale, per cui si formano voci di verse secondo la diversità de' medesimi affetli; all'allegrezza risponde il riso, alla mestizia il pianto; ed il riso ed il pianto si manifestano con suono al tutto diverso: così presso tutte le geoli la subita maraviglia è significata dal l'esclamazione ah, ovvero oh; il lamento dall' eh, o dall’ahi; e la paura dall'uh. Que ste voci, che da principio sono elfelti naturali delle aſſezioni dell'animo, diventano poi, merce dell'esperienza, segni di quelle: per la qual cosa interviene che i vocaboli composti di ma, niera, che facciano mollo sentire il suono di quelle leltere, che alle predette voci primitive si assomigliano, avranno virtù d'imitare o questa o quella affezione. Le parole, che s'in, nalzano per la a o per l'o, che sono lettere di largo suono, saranno acconce ad esprimere l'allegrezza e gli affetti nobili ed alli: quelle, che declinano per la é e per l'i, che sono lettere di molle suono, saranno convenienti alla malinconia ed agli umili e miti affetti. [ Omnis enim motus animi suum quemdam a natura habet vullum, et sonum et gesium (CICERONE, de Orat. ). quelle, che si abbassano nell' u potranno e sprimere le cose paurose e le perturbazioni dell'animo, che ne procedono. Questa particolare virtù delle parole viene poi rafforzata dalle attenenze, che le passioni hanno col numero. Volgendo la considerazione alle varie passioni, si potrà conoscere che l' uomo'nell'ira è fatto impetuoso, frettoloso nell'allegrezza, lento nella mestizia, svarialo nell' amore, immobile nella paura. Quindi av. viene che la musica non solamente si giova delle note gravi o delle acute, ma delle rapi de e delle tarde modulazioni a risvegliare ogni sorta d'affetto. A somiglianza di quest' arte maravigliosa, anche la naturale favella, il suono ed il numero adoperando, innalza o abbassa gli accenli, rallenta od accelera il corso delle parole, secondo la natura degli affetti, che di esprimere intende. Con quest' arte medesima l'accorto scrittore compone i ritmi diversi secondo la tenuità o la gravità della materia, e secondo le qualità della persona che parla. Ma di questo avremo altrove occasione di favellare. Ora in confer. mazione di quanto abbiamo detto intorno gli affetti, recheremo alcuni esempi. Come la lettera a innalzi il verso e lieto il faccia, si può conoscere da quel solo verso del PETRARCA: Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono; il qual verso sarebbe rimesso se dicesse: O voi, che udite in dolci rime il suono; sostituendo 1'i alla a. Veggasi come Dante seppe significare uno stesso concetto con due diverse armonie, che rispondono a due diversi affelti. Il conte Ugo lino sdegnalo, e Francesca d' Arimino dolente dicono all’ALIGHIERIdi esser presti a rispon dere alla sua domanda. Ma lo sdegnato dice con suono aspro e terribile: Parlare e lagrimar vedrai insieme; e quella mesta con dolcissimo e tenue suono: Farò come colui che piange e dice. Maravigliosamente esprime Dante con voci aspre lo sdegno: E disse, taci, maladelto lupo, Consuma dentro le con la tua rabbia. La velocità de' pensieri, che procedono dal l'aſſello, apparisce in questo esempio dello stesso poeta: Dunque che è, perchè perchè ristai? Perchè tanta viltà nel core allelte? Perchè ardire e franchezza non bai? Un verso, che esprime luogo pauroso e cupo, si è questo: 10 venni in loco d'ogni luce mulo. Dove si vede che se Dante, in vece di muto, avesse delto privo, il verso non avrebbe messo nell'animo quel sentimento d'orrore. La e, che è lettera di suono lento, basso ed oscuro, rende sommamente imitativi i se gucnti versi: Buio d'inferno e di notte privata D'ogni pianeta solto pover cielo Quant' esser può di nuvol tenebrata. In virtù di somiglianli armonie producono gli scriltori que' maravigliosi effetti, che la più parte degli uomini sentono nell'animo, ene ignorano il magistero. Di queslo cercai mani. festare la natura, non già perchè io pensi che colui che scrive debba avere di continuo alle mani la regola; chè anzi ho sempre creduto la dolcezza e proprietà del suono, al pari d'ogni allra vaghezza poetica ed oratoria, nascere spontaneamente; ma questo volli fare, perchè stimai che l'investigar le occulte ragioni del. l'arte aiuti l ' intelletto a dirittamente giudi carne, e quindi a formare quell'interior senso si necessario a comporre lodevolmente, e quel l'abito, che prendono gli orecchi alla lettura de'ben giudicati esemplari. Nulladimeno per compiacere agli orecchi non si vuol mai turbare quell'ordine delle parole, in virtù del quale diventa chiara l'elocuzione. Se per esprimere qualsisia o movimento o suono od affello coll'armonia, o per formare un pe riodo numeroso e grave ci faremo oscuri, nes suna lode al certo ce ne verrà. Nè solamente dobbiam sempre conciliare l'ordine domandato dagli orecchi con l'ordine sopraddello, ma spesso ancora con quello, che rende più evi. denti o più efficaci i concetti, del quale ora ci rimane a parlare, siccome di sopra abbiamo promesso. Parliemo della collocazione dell’espressione, per la quale si rende ‘efficace’ la mozzione conversazionale. È manifesto che in ciascun periodo le pa role o le proposizioni si possono, senza to gliere la chiarezza, alcuna volta posporre o anteporre l'una all'altra in più maniere; ma è da por mente che, fra le molte possibili permutazioni, poche sono quelle che meritino di essere lodate, e che spesso una solamente si è l'ottima. Ho udito dire da molti che il più delle volte l'ordine migliore delle parole nella proposizione si è l'ordine diretto, e que sto in verità nell'italiana favella è spesso da preferirsi all'inverso, segnatamente nei die scorsi didascalici o in quelli ove non si ma nifesta alcun affetto; ma certo egli è che l'or. dine diretto (prescindendo dai mancamenti che aver può rispello all'armonia) è alcuna volla degno di biasimo, siccome freddo ed inefficace. A quale legge dunque dovremo ubbidire, ol. tre a quella già stabilita circa la chiarezza e l'armonia, nel collocare le parole e le propo. sizioni a fine di rendere più vive le descri zioni e più efficace l'espressione degli affetti? La filosofia ci mostra che le idee tornano alla mente associate in quell' ordine, che vennero all' anima per l'impressione delle cose ester 88ne, o in quello, che si genera in virtù della forza particolare di ciascuna idea, essendo che le più vivaci, o quelle che maggiormente si attengono a' nostri bisogni, si risvegliano pri ma dell'altre; e questo mostrandoci, ella ne insegna che, se vogliamo fedelmente ritrarre nelle menli altrui cio che abbiamo veduto o imaginiamo di vedere, v ciò, che sentiamo, ci è duopo di formare la catena delle parole se. condo quella delle nostre idee, per quanto il comporta il genio della lingua. Questa verità verremo ora con alcuni esempi mostrando, Si osservi primieramente nel seguente esem pio, tolto dall'Ariosto, come nella descrizione delle cose, che non sono in moto, sieno poste innanzi all'animo dell'ascoltalore quelle idee, che prima farebbero impressione ne' sensi del riguardante, e poscia succedano a mano a mano le altre secondo loro qualità e silo: La stanza quadra e spazïosa pare Una devola e venerabil chiesa, Che su colonne alabastrine e rare Con bella architellura era sospesa. Sorgea nel mezzo un ben locato altare, Che avea d'innanzi una lampada accesa, E quella di splendente e chiaro ſoco Rendea gran lume all'uno e all'altro loco. La prima impressione, che riceverebbero gli occhi di chi mirasse un somigliante luogo, sa rebbe certamente la forma e l'ampiezza di esso, e tosto occorrerebbe alla ' mente la cosa alla quale somiglia, cioè la devota e venerabil chiesa: indi l'allenzione del riguardante si indirizzerebbe alle parti del luogo più appari scenti, le colonne alabastrine e rare: queste chiamano il pensiere a fermarsi alcun poco sulle qualità dell'architellura, indi alle parli. più minute, cioè all'altare, alla lampada, alla luce, che si spande d'intorno. Quanto giovi disporre le parole nell'ordine, in che le idee sono naturalmente impresse nei sensi dalle successive modificazioni delle ester ne cose, si può conoscere da questo esempio di Virgilio, il quale, volendo rappresentare all'imaginazione nostra il greco Sinone trallo al cospetto di Priamo, si esprime cosi: Namque ut conspectu in medio turbatus, inermis Constitit, atque oculis Phrygia agmina circumspexit. La collocazione di queste parole è secondo l' ordine, nel quale avrebbero proceduto le sensazioni di colui, che avesse veduto cogli occhi propri sinone, e che l'imagine di quella vista si riducesse a memoria. La prima cosa, che gli verrebbe all'animo, sarebbe il luogo ov'era condotto Sipone, conspectu in medio; indi la persona di lui colle sue più distinte qualità, turbatus, inermis; poi l'azione, constitit; poi la parte del' vollo, che subito chiama a sè l'altenzione del riguardante, co Die quella, che è indizio dello stato dell'ani ma, oculis; poi le cose, sopra le quali gli occhi si volsero, Phrygia agmina; infine l'ultima e lenla azione degli occhi dipinta colla tarda parola circumspesil. go Un altro esempio dello stesso VIRGILIO dimo. slrerà come sieno poste nel proprio luogo pro posizioni e parole. Ecce autem gemini a Tenedo tranquilla per alla (Horresco referens ) immensis orbibus (angues Incumbunt pelago, pariterque ad litora tendunt: Pectora quorum inter fluctus arrecta, jubacque Sanguineae exsuperant undas: pars cae lera pontum Pone legit, sinualque immensa volumine lerga. Fit Sonitus, spumante salo, jamque arva tenebant; Ardentesque oculos suffecti sanguine et igni, Sibila lambebant linguis vibrantibus ora. و Colui che fosse presente al descritto caso, osserverebbe primamente di lontano due cose indistinte venir del luogo che gli fosse al co spetto, gemini a Tenedo; indi le acque per le quali nuotassero, tranquilla per alta; al l'avvicinarsi di quelle due indistinte cose, egli comiocerebbe a distinguere il loro divincolare; poi ecco che le due cose, che da prima indi stinte si mostravano, si vedrebbe essere due serpenti, angues, i quali più s'accostano e più li vedi, e più discerni l'azione loro; prima del gittarsi sul mare, poi del girarsi al lido, incumbunt pelago, pariterque ad litora lendunt; ed a mano a mano più visibili la. cendosi le qualità de' serpenti, si vedrebbero i pelti erti sui flutti ed alte le creste sangui. gne, e il rimanente de'corpi con grandi volute nuolare, pectora quorum ec. Finalmente udi rebbe il suono dell' acque, e ne vedrebbe le spume. Pervenuti al lido i serpenli, discerne rebbe i loro occhi ardenli e sanguigni, ne ascollerebbe i fischi, e vedrebbe a vibrare le lingue, fit sonitus ec. Per l'addotto esempio maniſestamente si vede che nel collocare le parole secondo la catena di quelle sole idee, che verrebbero al. l'animo di chi il descritto caso avesse veduto, sta l'arte di rendere evidenti le descrizioni: di qualità che all'uditore sia avviso non di udir raccontare ma di vedere cogli occhi pro pri. Nel rappresentare colle parole le sole idee che vengono naturalmente all'animo di chi mira le cose, e di chi è mosso dagli affetti, consiste l'arte del particolareggiare: chi tra passasse Test limite cadrebbe nella prolissi tà, e nella minutezza, la quale rende stucche voli que' poeti che eccessivamente particola reggiando si pensano di produrre l'evidenza. Siccome poi le cose hanno più o meno di forza sull'animo nostro a misura che più o meno vagliano a concitare l'amore o l'odio, o a mettere timore; così interviene talvolta, che esse al tornar che fanno alla mente tengono quell'ordine, che è secondo i gradi della ri. spettiva loro forza. Perciò è che qualvolta le idee in virtù delle parole sieno ordinate con formemente a siffatta legge, il discorso è caldo e passionato; e freddo e di nessun efletto se l'ordine delle parole discorda da quello delle idee. Nel libro IX dell'ENEIDE veggendo Niso l'amico EURIALO già presso ad esser morto dai Rutuli, cosi esclama: Me me (adsum qui feci), in me conver: tite ferrum, O Rutuli, mea fraus onnis: nihil iste nec, ausus, Nec potuit: coelum hoc, et conscia si dera testor. Volendo il poeta esprimere le veemenza della passione di NISO, soppresse il verbo interficile, e pose innanzi alle altre la voce me quarto caso, poichè la prima idea, che viene all'animo del giovanetlo, si è quella della propria persona, che egli vuole sacrificare per l'amico suo; poi vengono le altre parole ordinata Diente seguitando la della legge. Similipente PETRARCA: E i cor, che indura e serra Marle superbo e fero, Apri tu, padre, inlenerisci e spoda. Se invece egli avesse dello: Apri tu, padre, intenerisci e snoda I cor, che indura e serra Marte superbo e ſero, l'elocuzione sarebbe riuscita fredda, perciocchè la prima imagine che si presenta al commosso animo del poeta, sono i cuori, i quali egli con quelle prime parole quasi pone innanzi a Dio, affinchè si piaccia d'intenerirli. Accade alcuna volta che lo scrittore vuole accrescere vigore alla propria sentenza, e in questo caso non dee disporre le sue parole a modo, che all'uditore paia di aver inteso tutto al prinio detto, ma far sì, che le idee vengano all' animo di lui crescendo gradatamente, come nel seguente esempio: Tu se' buono, santo, divino. E in quest'altro del Boccaccio: Ri. prenderannomi, morderannomi, lacereran nomi costoro. Similmente metterà bene il collocare l'ay verbio dopo il verbo e l'addiettivo dopo il sustantivo, qualvolla sieno posti nel discorso alfine di accrescergli vigore. Perciò è che me. glio si dirà: io ti amerò sempre, che io sempre ti amerò: è facile il sentire come questa seconda collocazione riesca fredda. Molli preclari ingegni, e Ira questi il Caro, hanno biasimato il Boccaccio, perchè troppo frequentemente pone il verbo alla fine del pe riodo; e per verità l'hanno biasimato a ragio ne; perchè non solo con ciò si toglie al di. scorso la varietà, ma anche perchè il più delle volle si viene a turbare la naturale associa zione delle idee. Alla quale associazione se porrà mente lo scrittore troverà sempre molivo onde approvare o disapprovare l'ordine che egli avrà posto nelle sue parole. Lunga opera sarebbe il trattare qui minutamente questa materia e il prescrivere le regole applicabili a tutti i casi particolari; queste si possono age volmente dedurre dalla regola generale, che abbiamo assegnata, e perciò stimiamo che qui 94 basti fare qualche altra osservazione intorno ad alcuni luoghi, ne'quali il verbo è posto in ultimo. Avendo il principe Tancredi, presso il Boccaccio, rimproverato Ghismonda di avere eletto per suo amatore Guiscardo di nazione vile, e non uomo dicevole alla nobiltà di lei, così ella, rinfacciandogli il fatto rimprovero, gli dice: in che non taccorgi che non il mio pec cato, ma quello della fortuna riprendi. Qui chiaro si vede che se Ghismonda avesse dello: non taccorgi che non riprendi il mio pec cato, ma quello della fortuna, avrebbe par. lalo freddamente. Il figliuolo di Perolla, in  LIVIO, sdegnato che il padre suo gli abbia inpedito di uccidere Annibale, si volge alla patria dicendo: O PATRIA FERRVM QVO PRO TE ARMATVS HANC ARCEM DEFENDERE COLEBAM HODIE MINIME PARCENS QUANDO PATER EXTORQVE ACCIPE. Ne'due citati luoghi son poste innanzi le idee, che prima si presentano all'animo passionato di colui che favella, e in ullimo è il verbo, che apporta luce alla MENTE SOSPESA dell'ascoltatore. Se T. LIVIO avesse detto: O Patrin, accipe ferrum ec., oltrechè avrebbe parlalo fuori del modo naturale di colui che ha l'animo commosso, avrebbe ancora mancato di quell'arte, che l'attenzione altrui si procaccia: imperciocchè qualvolta egli ci porge innanzi il ferro, col quale il giovane vuole difendere ostinatamente la rocca, subito la mente sta attendendo impazientemente che cosa esser debba di quel ferro; e, poiché ode la risoluzione di esso giovane, resla preso da subita maraviglia e ne riceve diletto. Nel collocare le parole secondo la catena delle idee, si vuol porre grande cura di conciliare quest'ordine con quello che è richiesto dall'orecchio e dal genio della lingua, al quale non si può contrariare. Qualvolta lo scrittore ciò pervenga ad ottenere, sembra che le sue parole siensi di persé poste al luogo loro, e che chiunque avesse voluto dire la stessa cosa l'avrebbe detta a quel modo. Questa si è quella facilità, che molti avvisano di poter conseguire, ma spesso invano a ciò si affaticano e sudano. Parliamo del carattere del discorso. Avendovi posti innanzitulli gl’elemenli, onde si compongono accade ora di ragionare più parlicolarmente delle leggi della CONVENEVOLEZZA, o sia del DECORO. Come dalla mescolanza de'sette colori fatta con legge si genera la varietà e la vaghezza nella imagine delle cose dal pittore imitate, cosi dalla mescolanza degl’elementi predetti, similmente fatta con legge, nasce la varietà e la venustà della conversazione. Colui che si facesse ad accozzare e ad ammassare alla rinfusa parole nobili, modi urbani, mela fore, traslali, igure, sentenze, ec., verrebbe certamente a comporre di buona materia as sai deforme Perſella riuscirà posizione, allorchè le parole e i modi e l'armonia e le figure verranno e ben divisale le une con le altre e lulle insieme, SECONDO I FINI che lo scrillore si propone, secondo la materia della quale savella, secondo la condizione sua e di coloro che l'odono, secondo i luoghi in cui parla; chè in queste tutte cose consiste IL DECORO. Dal decoro nasce la leggiadria, che risplende nelle più belle opere dell'arle, e senza di esso nessuna cosa al mondo è pregevole. Conciossiachè poi varii sono I FINI speciali, che lo scrittore si propone, varii i subbielli, di che può ragionare, varie le umane condizioni e le circostanze, conseguita che varii pur sieno i generi e le specie de' conponimenti per loro proprio carattere distinti. Il qual carattere, per le cose delle di sopra, definiremo nel modo seguente: Il carattere del discorso si è la contemperanza degli ele nepli, da ' quali risultano la CHIAREZZA e l'ornamento, fatta secondo la legge del decoro. E perciocchè la principal legge del decoro si è quella, che riguarda IL FINE CHE CI PROPONIAMO QUANDO ALTRUI MANFESTIAMO I NOSTRI CONCETTIi, a questo volgeremo tosto la nostra considerazione. Chi scrive intende o a convincere o ä PERSSUADERE  o dilettare altrui. Secondo questi tre fini nasceno tre generi di scrivere o tre caratteri si diversi, che vogliono essere di stigli e particolarmente considerati; cioè il filosofico, il PERSUASIVO, il poetico. Di questi diremo prima alcuna cosa in generale, indine accenneremo le specie. In quanto al carattere del discorso filosofico, Ufficio de'flosofi si è il mostrare altrui la verità, e perciò le loro scritture intendono a fare che il lettore od ascoltatore non sola. menle venga di buona voglia nella sentenza a lui esposta, ma che sia costretto anche suo malgrado a vevirvi, che è quanto dire ch'egli rimanga convinto. Se pertanto ci verrà fallo di scuoprire quella virtù del linguaggio, per la quale si genera il convincimento, ci saranno subito manifeste le qualità, onde il carallere filosofico si distingue dagli altri. Il convincimento si genera nell'animo o qual volta per via de' sensi percepiamo l’ATTENENZA ſra alcune qualità, e in questo caso diciamo esser convinti dal fatto, o qualvolta ci vien posta innanzi una serie di proposizioni insieme collegate e procedenti da una o da più altre conformi a'falli, le quali si chiamano principii; ed in questo secondo caso diciamo di essere CONVINTI CON EVIDENZA DI RAGIONE. A costringere l’animo con questa evidenza intendono i filosofi, ed a tal fine son loro necessarii i vocaboli di singolare significazione ed i modi precisi; imperciocchè se nella catena delle proposizioni che formano il ragionamento, una sola vi fosse di perplesso significato, o che accrescesse o menomasse di un solo elemento iniportante alcuna idea, si mulerebbero le attenenze delle dette proposizioni, dal che procederebbe l'errore, come accade nelle operazioni aritmeliche, qualvolta, no solo numero si ponga iu luogo di un altro, Se agli uomini venisse dalo (che Dio volesse) di ordinare la lingua italiana a modo che dalle percezioni delle qualità semplici delle cose fino alle più complesse idee d'ogni maniera non fosse vocabolo di mal fer ma significazione, non sarebbe malagevole il ragionare dirittamente in qualsivoglia altra Ina teria, come si ragiona nella matemalica; inn perciocchè in virtù de'segni ben determinali si verrebbe al conoscimento delle attenenze delle idee complesse grado per grado fino ai loro principii; e per tal forma ciascuno potrebbe sempre rendersi certo della enunciata verità. Da tutto ciò si raccoglie che nella precisione delle parole e dei modi sta la virtù di convincere; e che perciò essa precisione esser dee la prerogativa dello scrivere filosofico. L'uso della metafora pertantoe delle figure può divenire larghissima fonte d'errori, per ciocchè è facile che l'animo umano ingannato dalle similitudini, di che si formano le metafore, e commosso dagli artificii travegga, e quindi si faccia a comporre le nozioni, non secondo la natura delle cose, ma secondo le apparenze e la capricciosa indole della fantasia. Il sistema del Malebranche, ch'ebbe tanti se.guaci e disputatori (per lacere di molli altri ) procede da una similitudine. E si dovrà dunque nello scrivere insegnali vo schivare ogni metafora ed ogni figura, e renderlo secco e ruvido, come quello de'ma temalici? V'hanno certamente alcune malerie (e tale è per avventura la ideologia ), le quali richieggono un linguaggio pressochè simile a quello della geometria o dell'algebra; ma non è perciò che le altre parti della filosofia, ed anche talvolta la stessa austera scienza delle idee, non dimandino ornamento sobrio e ve recondo. Niuna materia filosofica vuol essere molto mollo fregiala, acciocchè il verisimile, in forza degli artifizii oratorii, non venga ad invadere. il luogo del vero, nė paia che il filosofo voglia invescare e prendere altrui: nulladimeno è necessario che a quando a quando l'intelletto del leggitore, affaticato dal lungo ragionare, trovi riposo, e venga alleltato, senza che la esposta verità rimanga oscurala. Perciò il filosofo collo schivare le parole barbare, rance, oscure e disarmoniche toglie ogni ruvidezza al suo discorso, e gli da grazia e leggiadria convenevole co' modi urbani e gentili, colle vereconde metafore scelte a maggiore schiarimento di quanto per le parole ben determinate e espresso; colla BREVOTÀ e colla varietà de'modi, con alcune naturali figure, quale sarebbe l'interrogazione, e specialmente coll’armonia facile e piana, e con tutti gli allri modi naturali alla temperata favella. Questo carattere filosofico e si ben divisato da CICERONE, che io stimo convenevole cosa di recare le sue parole temperata e famigliare è l'orazione de’ filosofi: non è composta di modi popolari; non è legata a cerle regole d'armonia, ma discorre liberamente. Niente sa d'iralo, niente d'invidioso, niente di inirabile, niente di astuto. Casla, vereconda, quasi pudica vergine, onde piuttosto ragionamento che orazione può nominarsi. Parliamo del discorso  di carattere PERSUASIVO o PROTETTICO [Grice – ‘protreptic’]. Poichè abbiamo dato contrassegno del carattere filosofico, veniamo a fare il medesimo della mozzione conversazionale persuasiva. “Persuadere” (“to influence and being influenced”) segna propriamente far credere altrui alcuna cosa; dal che manifesto apparisce essere grande la differenza tra il “convincimento” e la “persuasion”. Perchè siamo CONVINTI è forza che conosciamo ogni proposizione che compone un ragionamento fino alla prima percezione, dalle quali dipende il principio fondamentale di quello. Perchè siamo “PERSUASI” basta che il ragionare abbia per fondamento o l'opinione o l'apparenza o l'autorità (non come l’intende Courmayeur). Molti dicono, a cagion d' esempio, di essere “PERSUASI” che il sole si giri intorno la terra, ed altri che la terra si volga intorno al proprio asse. Gl’uni prestano fede all'apparenza, gli allri al detto degl’uomini sapienti. Ma di quello che credono non sanno porgere altrui vera dimostrazione. Da questo esempio, e da infiniti altri, si può vedere che la PERSUASINE non è sempre generata dal conoscimento – o sceinza, ma credenza -- di ogni proposizioe  che si richieggono nella dimostrazione, e che per conseguente a trarre le volontà, ed a tenere le menti del più degl’uomini, non importa semipre il dimostrare sollilmente alla maniera del filosofo, ma giova di far uso di qualsi voglia verisimile principio: di comporre imaginazioni che abbiano faccia di verità: di adoperare figure che, perlurbando l'aninmo di nostro compagno conversazionale, conformino i pensieri di lui secondo la nostra volontà di guisa, che, se egli sia per venire nella nostra sentenza, precipitosamente vi corra. Ma tutte queste cose si vogliono adoperare a modo, che il discorso abbia sempre apparenza di vera dimostrazione; perciocchè l’uditore di qualsivoglia condizione sempre domanda al conversatore che sia loro mostra la verità. Converrà quindi dedurre il discorso, per natural guisa e chiaramente, e da esso rimovere ogni proposizione ed ogni artificio, nel quale apparisca alcuna ombra di falsità. Primo ufficio del conversatore si è il provare la sua proposizione nella divisata maniera. Secondo, il dilettare. Terzo, il commovere; accorgimento si richiede nelle prove; sobrieta dell’ornamento che intendono al diletto; veemenza nel concitare l’affeto.  Con queste arti si perviene a trionfare ed a governare la volontà di nostro compagno conversazionale. Per le cose dette si conosce che il conversatore, comechè dice di voler dare esatta dimostrazione di quanto afferma, questo non fa sempr: del che si può aver prova nella disputa, che fa in contraddilorin, per le quali talvolta appaiono vere due sentenze, una delle quali, essendo opposta all'altra, deve di necessità esser ſalsa (reduction ad absurdum, introduduzione della negazione). Non è dunque l'arte della conversazione veramente l'arte di dimostrare (prendendo questa parola nello stretto segnato del filosofo) ma, come la define Dionigi d'Alicarnasso, “l'arte di farsi credere”. Ma qui potrà per avventura sembrare che, avendo io nel sopra indicato modo divisata la natura di una mozzione conversazionale persuasiva, de abbia fat 10 un'arte d'inganno. Chi però cosi pensasse а porterebbe opinione falsissima; perciocchè non si ſa inganno agl’uomini adoperando a bene quell'arte, che sola si conſà all'indole della più parte di essi. Pochi sono coloro, che possono essere falli capaci della verità per via di sollile ed esatto ragionamento; anzi avviene il più delle volte che, sembrando molti falsissimo il vero e piacesse a Dio che così non fosse), è forz, per guadagnare l'opinione foro, venire ad alcuna utile verità per le strade del verisimile; e questo non è certo ingannare, ma giovare la umana famiglia. Vero ufficio dei conversatori si è l ' usare l'eloquenza non ad inganno, ma per indurre gl’uomini a fuggire il vizio, a seguitare la virtù e la verità; per metter fine alle conlese, per sedare i tumulti, per sollevare l'autorità della legge contro il volere di coloro, che il privato bene antepongono a quello della repubblica: che se alcuni malvagi intellelli abusano di tutte le arti civili, dovremo per questo sbandirle da Roma e ricondurre gli uomini a viver di ghiaude? Finalmente e la mozzion conversazionale di carattere poetico, come in Heidegger. La poesia fou dai ROMANI inventata per proprio diletto, e poscia dagli autori della vila civile ad ammaestramento di esso popolo adoperala. Piacque ad aleuni a solo ricreamen to dell'animo usarla, ma i più nobili poeti sotto il velame delle favole, delle imitazioni e dei mirabili concetti pascosero la dottrina, e con locuzione accesa nella fantasia e con soavi armonie si aprirono la strada alle menli volgari, le quali all'insegnamento dei filosofi sarebbero stale ritrose. Per lo che niuno può dubitare che chiunque si dispone a fare una mozzione conversazionale poetica non debba cercare di piacere alla più parte degli uomini. Questo fece ad imagine degli antichi il nostro Alighieri, la cui divina Commedia leggevano anche le persone d'umile condizione, e ne traevano documenti a ben vivere. Questo ſecero l'Ariosto e il Tasso, e cosi dee fare chiunque ha vaghezza di essere salutato un autore di una mozzione conversazionale poetica. Se dunque investigheremo quali sieno quei modi che dilettano il più degli uomini, e quali sieno que' che li noiano, giungeremo a conoscere quali convengano e quali disconvengano al carattere della mozzione conversazionale poetica. E primieramente e palese che le espressione apportano diletto e colla materiale struttura loro e colla qualità delle idea, che recano alla mente; perciò è che l'essere del carattere poetico dall'una e dall'altra di queste cose dovrà generarsi. Una delle qualità necessarie alla mozzione conversazionale poetica sarà dunque la più squisita armonia, onde siano dilettati i sensi ed appagato l'intelletto in virtù della imitazione. Dell'armonia abbiamo dello abbastanza, perchè passeremo tosto a dire della natura delle idee dilettevoli. Il diletto si genera negli animi da ciò che, dolcemente i sensi movendo, fa operare la mente senza tenerla in fatica: e perciò è che le imagini dei corpi diversi e tulte quelle cose e que’ concetti, che hanno virtù di risvegliare gli affetti, ci recano maraviglioso piacere e le idee astratte all'incontro non lo ci recano, perciocchè, se non sono mollo complesse, fanno lieve impressione nell’animo; se molto complesse, abbisognano di molta attenzione, e perciò affaticano la mente. Proprii, saranno dunque del carattere poetico i vocaboli e i modi acconci a svegliare ad un tempo la rimembranza di molte sensazioni dilettevoli ed a concitare le varie passioni ed a rendere sensibili coll'aiuto delle similitudini tolte dalle cose corporee i più sottili concetti della mente. Cogli aggiunti opportunamente scelti vengono segnata la passione o l’azione, e gli usi delle cose e le qualità loro proprie, le quali in virtù dei soli nomi sustantivi non verrebbero all'animo di nostro compagno conversazionale, o ci verrebbero debolmente; perciò al poeta conviene l'adoperare essi aggiunti più frequentemente che all'oralore, quale dipinge meno parli colarmente le cose, siccoine colui che non ha per fine principale il diletto. Colla metafora si dà corpo a una nozione astratta, coi tropi si pone dinanzi agli occhi della mente quella sola parte o qualità dell'obbietlo, che prima si presenterebbe al senso di colui che cogli occhi del corpo il mirasse. Adoperando i predetti modi, si perviene a dare a’ concetti intellettuali forma sensibile guisa, che nostro compagno conversazionale, direi quasi, non più per segni percepisce le cose, ma le vede, e con mano le tocca. Affincho palesemente si vegga questa prerogativa, che sopra tutt e rende il carattere poetico distinto dagli altri, recherò ad esempio alcuni concetti intellettuali, convertendoli in forma sensibile. Tutti i viventi muoiono. La sede del romano impero fu da Costantino trasferitu a Bisanzio Il popolo facilmente mula consiglio. Quello ch' ei fece dai tempi di Romolo, sino a quello dei Tarquinii. Quello concetto si dice intellettuale, siccome quelli che si denno giudicare secondo il segnato proprio di ciascuna parola; sensibili saranno, qualvolla sieno espressi di maniera che giudicare si debbano secondo l'apparenza o la similitudine, siccome divengono i predelti Trasformandoli nel modo seguente. La morte batte egualmente alle capanne de poveri ed a’ palagi de’ re. Posciachè Costantin lo quila volse contro il corso del ciel, che la seguiu Dietro quel grande, che Lavinia Wolse. Infida è ľaura popolare. E guel cliei fe' dal mal delle Sabine Al do Tor di Lucrezia. Queste finzioni che assai di lettano, e perchè contengono manifeste similitudini e perchè racchiudono veri intellettuali concetti, sono talmente proprie della mozzione conversazionale poetica, ch'elle sarebbero sconvenevoli nei discorsi, che non hanno per fine primario il diletto. Come queste poi si addicano più a cerle specie, che a certe altre, vedrenio a suo Juogo. Ora bastea di avere in genere contra-segnata la natura del carattere poetico, onde apparisca che tengono mala strada coloro, i quali cercando "fama tra i poeti fanno pompa ne’loro versi di dottrina e di soltile ingegno, ed espongono i loro pensieri con ordine troppo minuto e distinto. I concetti che si cavano dall’intrinseco della filosofia, recanó seco molta oscurità e difficoltà, specialmente quando vengono segnato co' vocaboli e commodi loro proprii, e perciò sono contrarii al diletto, che è il fine del poet, o, come altri vuole, il mezzo necessario ad indurre il giovamento. E quando si dice che il poeta dev'essere filosofo, non si vuol dire che a modo dei filosofi debba scegliere, ordinare e segnare il concetto, ma che egli usi molto di filosofia nello scegliere le materie più utili agli uomini, e nel dare a quelle e forma e veste conveniente alla natura di ciascuna. Che se talvolta egli vorrà togliere alcun concetto dalla filosofia, lo toglierà dalla superficie e non dal profondo seno di lei, in quel modo, che ha fatto il Petrarca, qualvolta si è giovato della filosofia di Platone, come si vede nel seguente esempio. Per le cose mortali, che son scala al fattor chi ben le stima, D'una in altra sembianza potea levarsi all'alta cagion prima. E in altri luoghi moltissimi si vede con qual arle e cautela dalla flosofia nella poesia egli abbia trasportati i concetti, gli abbia temperati ed ornati, sicchè non hanno nè ruvidezza alcuna nè oscurità, ma naturalezza, novità, e magnificenza, che sono qualità popolari, che è quanto a dire poetiche. C’e una e altra specia del discourse di carattere filosofico. Le materie, intorno le quali cade l'insegnamento, sono: la matematica, la fisica, la metafisica, la morale, la politica, l'arte oratoria e la poetica, le arti liberali e le meccaniche, e tutte le conoscenze che da queste principali procedono, ciascuna delle quali essendo più o meno astratta, richiede o maggiore o minore soltigliezza d'ingegno e forza di attenzione in chi le consider: per la qual cosa interviene che dovendo i conversatori usar parole e modi con venevoli alla natura di ciascuna delle dette materie, ne risultano diverse specie di caratteri insegnativi più o meno austeri. Rispelto poi alle persone, cui vuolsi mostrare la verità, giova osservare che elle sono di due maniere. Alcune letterale ed alcune mezzanamente istruite. Alle prime, che sono avvezze al ragionamento, si converrà stretto sermone: più diffuso alle altre, le quali hanno bisogno che le cose sieno esposte loro per minuto, ed anche talvolta per via di similitudini e di esempi chiarile. Per tal cagione il discorso filosofico prende spesso alcuna delle forme del persuasivo, senza mai perdere però la precisione, che forma l'essenziale sua proprietà. Di tal sorta sono molte mozzione conversazionale indirizzati all'insegnamento de' giovani, e i dialoghi e le epistole filosofiche, le quali vengono usate affinchè certe materie depongano alquanto della nativa loro austerità, ed allin cbè i conversatori affaticati trovino riposo nelle digressioni e in altre parti accessorie. C’e una e altra specia di discourse di carattere pesuasivo o protrettico. Se al mondo fossero uomini dirittamente sapienti e perfettamente savi, sicchè astuzia e lusinga di oratore non potessero negli animi loro, vana riuscirebbe l'arte del persuadere, perciocchè tutti richiederebbero di essere convinti con precisa e poco adorna favella: ma Blo non sono quaggiù nel mondo cose perfette, e perciò è che, sebbene tutti gli uomini avvisando di poter essere condotti alla verità per via di vera dimostrazione, sdegnino i manifesti artificii; pure non v'ha alcuno, che vaglia a resistere alla seduzione di astuta eloquenza; dal che si ricava che l'arte del persuadere si può adoperare con ogni sorta di persone; po pendo menle però che quanto maggiore negli ascoltanti è l'aculezza dell'intelletto e la sapienza, altrellanto esser deve la cura nell'ora tore di occultare l’artificio. Dovranno dunqne i modi del discorso persuasivo tanto più avvicinarsi a quelli del filosofico, quanto piu le persone, cui si favella, sono sapienti ed arcorte; ed all'incontro tanto più dovranno lingersi, direi quasi, del COLORE (Farbung) poetico, quanto nel conversatore è minore l'altitudine ad argo nentare sottilmente: e la ragione di questo si è che, a misura che negli uomini manca l'acı fezza dello intelletto, cresce la forza della fan. tasia, dell'opinione e delle passioni. Ma no è perciò che, anche favellando a sì falte persone, debba l'oratore ornare il discorso d'imagini fantastiche a modo che esso perda le apparenze della buona dimostrazione; essendo che' il popolo stesso, il qual pure, come è detto, presume di sapere ragionare sottilmente, sde gna quella orazione che gli par vuota di ragioni. Dovrà dunque il discorso persuasivo aver sempre l'aspetto di vera dimostrazione; ma colale aspetto poi sarà diverso, secondo la maggiore o minor perspicacia delle persone, che si vogliono persuadere, le quali si possono dividere in tre schiere. La prima è degli uomini letterati: la seconda degli uomini che banno convenevole discrezione di mente: la terza del popolo basso. Per le quali tre schiere tre specie di carattere PERSUASIVO procedono. La prima partecipa alquanto delle qualità del genere filosofico: la terza di quelle del poelico: la seconda è stile medio e media fra le due. Della prima specie e l’allegazione, che l’avvocato pronuncia al cospetto de' giudici; della seconda i discorsi morali, la storia, l’elogio, ed altre opere intese a persuadere circa il giusto e l'onesto le persone discrete; della terza la predica e la allocuzione e il parlamento, che si fanno al popolo ed a; soldati. Siccome poi varia si è la condizione delle persone che favellano, e varie le cose di cui si può favellare, interviene che secondo queste e quelle verrà il carattere PERSUASIVO a dividersi in altre specie: e perciocchè le per le cose si possono considerare di tre ragioni, cioè di nobili, di mezzane e di umili, piacque a' retorici di restringere sotto tre soli nomi i molli membri del carallere persuasivo, e questi sono: il sublime, il temperato ed il tenue. Che a ciascuna di queste specie si addicano e voci e modi particolari, è facile comprendere e chi non vede che al discorso rivolto a celebrare le lodi di un eroe o di un sapiente si convengono maniere diverse da quelle, che sarebbero accomodate a descrivere o a lodare l’amenità della villa? Che la lettera famigliare intenla a persuadere qualsivoglia verità ad alcuno, dev'e di natura diversa dall' orazione che tralla della cosa medesima? Paren sone e I 2 domi che qui non sia bisogno di allargarsi troppo in parole, una sola cosa ricorderò, cioè, che von solamente si addicano a cfascuna spe. cie particolari maniere, ma ancora particolare collocazione di parole e particolare armonia. Imperciocchè l'animo di chi favella, essendo secondo i varii casi o tranquillo o perturbato, o elevato o umiliato, non è dubbio che, nel seguitare questi diversi affetti, variamente si devono ordinare le idee, e colle idee le paro le, e che similmente dee variare l'armonia, se vero è ch'ella soglia naturalmente, qualvolta favelliamo, accompagnare i moti dell'animo, Oltre di che vuolsi considerare che que' che parlano alla moltitudine, o scrivono cose da proferirsi ad alla voce, sogliono muoverla e modularla con diverso andamento da quello che userebbe colui, il quale famigliarmente ragionasse e tranquillamente in angusto loco alcun fatto narrasse; e perciò il ritmo di que ste due specie di favellare è fatto diverso dalla necessità di pronunciare a modo, che le nostre parole sieno ascoltate volentieri, e quan do in luogo pubblico di gravi negozii a molti parliamo, e quando in camera a pochi di qual sivoglia materia. Quale sia poi quella deter minala armonia, che in ciascun caso convenga, insegnare uon si può. Qui basti l'avvertimento, chè l’esempio de classici scrittori assai meglio ne può ammaestrare. Penso che sia convenevole cosa il collocare fra le specie del carattere persuasivo anche quello che si addice alla istoria; e ciò per le seguenti ni. Uſlicio dell'istorico si è di produrre coll'insegnamenlo la prudenza civile e militare, il che si ottiene col porre innanzi all ' animo del lettore i fatti importanti e le cagioni e gli effelli di quelli. Al qual line, è mestieri di descrivere avvenimenti d'ogni ma piera e particolari e generali, assalti, uccisioni, incendii, battaglie, saccheggi, trattazioni, páci  congiure, delilli e virtù; di palesare nelle concioni poste in bocca ai re, ai magistrati, ai capilani, i gravi consigli e i documenti della politica; di esprimere i caratteri delle passioni, e di usare le più luminose sentenze. Le quali tulle cose vogliono essere significate con modi che varino secondo il variare della maleria. Comechè uguale a sè medesimo sia sempre il carattere della storia, cioè grave, siccome si addice a chi le gravi cose racconta, certo egli è che secondo la differenza degli avvenimenti dovrà variare nel sostenersi e nello innalzarsi, ed apparire nelle concioni più alto ed eſti cace, nelle descrizioni più ameno ed ordinato, e spesso più veemenle nella persona degli uo mini ivi introdolli a parlare, ma sempre temperato in quella dello scrittore, che da ogni parteggiare dee mostrarsi lontano. Non può dunque convenire al caraltere storico nè l'autorità filosofica, la quale sarebbe contraria alle malerie, nè la poetica pompa, che torrebbe fede alla narrazione; perciò é forza che gli sieno proprie le prerogative generali del ca. rattere persuasivo, dal quale differisce sola mente per le qualità speciali di sopra accennale. C’e una e altra specia del discourse di carattere poetico. Se ſu bisogno dividere in alcune specie il carattere persuasivo a cagione della maggiore o minore altitudine delle menti umane a di scerncre la verità, ciò non occorrerà circa il carallere poetico; imperciocchè tanto gli uo. mini di sottile ingegno, quanto quelli, in cui la fantasia prevale all'intelletto, hanno tulli dinanzi al poela una medesima disposizione. Se il popolo porge orecchio alle finzioni noe. tiche, quasi come a cose vere, i sapienti le riguardano come simboli della verità e quasi come leggiadri sogni della filosofia, e in questo loro dolce ricreamento sdegnano ogni austerilà e fino l'apparenza delle faticose forme filoso. fiche. Perciò è palese che il poeta rivolge sem. pre le parole ad vomini, i quali, sieno di qual sivoglia condizione, amano che la mente loro şia condotta ad operare senza fatica. Da que. sto si ricava che ogni specie di carattere poe tico dovrà avere sempre la prerogativa di schivare, come dicemmo di sopra, le idee che tengono in falica l'intelletto, e rappresentare quelle, che vestile di forme sensibili, eserci. citano la imaginativa. Non sarà dunque diviso in ispecie questo genere per rispelto della diversità degl'intel letti, ma della condizione del poeta o delle persone che introduce a parlare, e delle varie cose, che ei ſa subbietto del canto. Ma, prima di entrare in questo proposito, parni che sia da togliere una falsa opinione circa la natura della poesia. Sono alcuni i quali avvisano che 115 ma il l'essenza di lei consista nel metro, e fra que sti è il Melaslasio, il quale nella sua esposi zione della Poetica d'Aristotele sostiene che la lavella metrica, per essere l'istrumenlo con che l'imitazione si fa, ne forma l'essenza. Ma io domanderei voleplieri a coloro che cosi la pensano, qual nome vorrebbono dare all’ENEIDE tradolla in favella sciolta dal metro? Le daranno per avventura nome di prosa? L’espressione “prosa” altro non segna che discorso senza metro, e per ciò verranno a dire solamente che quell'illustre racconto è fatto sce. mo di quella sola qualità, di che grandemente si diletta l'orecchio, ma non già di tutte le altre, che stabiliscono la natura dei discorsi composti a fine di diletto. Dal che appare manifesto che un altro general nome è bisogno per distinguere i discorsi composti per dilettare. E quale è a ciò più accomodalo vocabolo che quello di poesia? L’espressione “poeta”, secondo sua origine, significa facilore o vogliam dire fabbricatore; e perciò poesia sonerà lo stesso che fabbricazione o finzione, e tali sono di necessità quasi tutti i discorsi, che si compongono a fine di dilellare, essendo che il nudo vero non è dilettevole sempre e in ogni sua parle: perciò Varchi dice nell'Erco laro, che il verso non è quello che faccia principalmente il poeta; e che Boccaccio talvolla più poeta si mostra in una delle sue Novelle, che in tutta la Teseide. Ed Orazio afferma che a distinguere la poesia da ciò che essa non è, basta disgiungerne le membra, cioè loglierle il metro, e allora si vede manifestamente che il carattere non le si toglie. Conchiudiamo pertanto, che il metro induce diſſerenza di specie ma non determina la natura del genere; e stabiliamo che a tutti i discorsi  che hanno per fine il dilettare con metro o senza, si conviene il nome di “poesia”.  Ora veniamo alle specie. Talvolta il poeta rappresenta la persona d'uomo, che cantando, dice laudi degli Dei e degli Eroi; talvolta quella, ch'esprime i moti dell'allegrezza, dell'affanno o dell’amore, o solamente gli scherzevoli con cetli. Le poesie di questa maniera solevano dagli antichi essere cantate sulla “lira,” e perciò presero il pome di “lirica”, e tuttora il conservano. Varie essendo le passioni e le cose che esprimere si possono dal conversatore lirico, interviene che ancora il canto si divide in varie specie, che tutte poi si riducono a tre, come nel carattere persuasivo: cioè al sublime, al mediocre ed al tenue. Ciascuno di questi canti ha qualità sue proprie. Magnificenza e gravità di mod, di sentenze e di arinonia, e splendore d'illustri parole e di concetti fantastici convengono a chi celebra le laudi degli Dei e degli Eroi, ed esprime alte e generose passioni: più tenui maniere e parole e più soave armonia a chi esprime gli affelli meno gravi e canta di subbielli meno nobili: quegli poi, che dice i mili affetti o gli scherzi o le umili cose, avrà nelle sue parole piacevolezza e semplicità da ogni fasto lontana, ed armonia soave e varia, ma sempre tenue. Alla detta varietà d'armonie, mirabilmente poi servono i metri, alcuni de' quali portano secofl'umiltà, altri la mediocrità, altri l'allezza dell'armonia. Sono molti esempi di questa varietà in Petrarca, Si ponga mente ai modi, al metro, al ritmo delle due canzoni d'amore, una delle quali comincia, Chiure, fresche e dolci ucque; e l'altra, Di pensiero in pensier, di monte in monte; e si vedrà la prima essere in tutte le sue parti piena di soavità, di gentilezza e di grazia, e l'allra di robustezza e di gravità. Talvolta il poeta narra gl ' illustri ſalli; tal volla i mediocri; e talvolta i piacevoli: indi si generano i poemi epici, i romanzi, i poemi burleschi e le novelle. Talvolta poi introduce a parlare o le persone illustri o le mediocri o le umili, e quindi provengono le tragedie, le commedie, le egloghe pastorali e le pisca torie. Ognuna di queste specie, siccome è pa lese, ha modi ed armonia convenevole alla maleria ed alla condizione delle persone. Perciò è che il poeta, specialmente nella tragedia, nella commedia e nell' egloga, ove se medesimo nasconde introducendo altri a par lare, dee rendere alquanto umili i modi, l'ar monia di guisa, che lo spettatore, ascollando le tragiche persone o le coniche, abbia a dire: così parlerebbero gli uomini di questa o di quella condizione, se loro naturale favella fos sero i versi. Giovi questo generale avverli mento, perciocchè non si possono mostrare i certi limili, fra i quali dee slarsi ciascuna spe 118 rie. Tutte hanno nell'intero loro corpo faltezze particolari, alle quali colui che ben vede di stintamente le raffigura: pure a quando a quando or questa or quella viene a parteci. pare dell ' altrui colore di guisa, che l'epico nelle forti passioni innalza le parole e i modi al pari del cantore degl'inni; e il più sublime lirico parra alcuna volla, siccome fa l'epico. Lo stesso interviene delle allre specie, fra le quali per fino la commedia talora si leva a gareggiare colla Tragedia, e la tragedia al dire l'Orazio, spesso, si duole con sermone pe destre. Nelle opere dell'arle, siccome in quelle dels la nalura, si scorge infinita diversilà, ma per questa spesso non è tolto che moltissimi indi vidui della medesima specie, sebbene molto dissimili, non sieno egualmente belli e prege voli. Questo vedesi manifestamente per le la vole colorite da' celebri dipinlori, de'quali uno essendo il fine, cioè quello dell'imitare la bella natura, non in tutti una apparisce la sembianza del loro dipingere. Raffaello, Correggio, Domenichino, Caraccio, Tiziano e Paolo, i quali cerlo non mancano nelle regole invaria bili dell'arte, sono fra loro assai differenti. Tutti mostrano invenzione lodevole e lodevole composizione, belle forme, ben disposto colo. rito e conveniente a ciascuna cosa: tutti esprimono i costumi e gli affelli, ma ciascuno d'essi ſa delle predette e di altre virtù una cotale mislura, che siamo condolti a dire che nessu. 1 Til no di loro ha la maniera dell'altro, comechè Tulli sieno eccellenti. Questa, che i pillori chia mano maniera, è similmente comune a' filosofi, agli oratori, agli storici ed a'poeli. Quanti scriltori sono tenuli meritevoli di pari commendazione, sebbene tale fra loro sia la diſſerenza, che spesso ciascuno solamente a sè me, desinio ed a nessun altro assomiglia? La rinsposizione dell'ingegno e delle affezioni dela l'animo, che in ciascun uomo è diversa, è cagione che le dette maniere sieno di numero pressochè infinito. Alcuno de' famosi scriitori ha il pregio della perspicuità, alcuno della eleganza, allri della grazia, altri dell'aculezza. Questi è grave e maestoso: quegli delicato e molle: chi è breve e robusto: chi copioso, chi úrbano e chi veemente: ma tali poi sono tutti, che, se alcuno di noi desiderasse di ottener gloria di ottimo scrillore, sarebbe incerto a quale di loro volesse essere somigliante. L'accennata maniera particolare, per la quale ciascuno scrittore è distinto dagli altri, si è quella che gli antichi chiamarono “stile” (cf. Tannen, Conversational style), prendendo questa voce dall'istrumento che per iscrivere adoperavano. La stessa parola “stile”, presa più largamente che non fanno i filosofi, segna comunemente il carattere in genere o in ispecie: ma è palese che, filosoficamente parlando, si è bene d'usarla nel senso leste dichiarato. Ond'è che assai propriamente diremo in generale, carattere filosofico, caruilere persuasivo o poetico; ed in ispecie carattere oralorio, lirico, epico, tragico, sublime, medi cre e tenue: e stile di Demostene, di CICERONE, di Ortensio, di Omero, di VIRGILIO: percioc chè nei primi fu il solo carattere persuasivo, negli altri il poelico; ma in ciascuno ebbe una particolare maniera, che modificando il carattere, l’essere suo non gli tolse. E chi volesse invesligare le cagioni da che proceda colale maniera, che stile si appella, vedrebbe ch'elle sono le qualità dell'intellello, della fantasia di ciascuno scrillore, e le qualità degli affetti, a cui egli ha l' animo disposto: laonde volendo dare alcuna definizione dello stile, paroi che far si potesse nel modo seguente. Lo stile si è il carattere modificato secondo le qualità dell'intellelto, della fantasia e degli affelli dello scrittore. Parliamo sommeramente del modo di acquistare la qualita necessaria a conversare civilmente. Ora che abbiamo poluto conoscere che cosa sia lo stile, non sarà indarno l'investigare co me si possa acquistare forza, grazia e vaghezza nello scrivere; e che è quanto dire come si possa formare lo stile convenevole e pulito. Se lo stile si genera per la qualilà dell ' in tellelto, della fantasia e degli affetti dello scrit tore, vera cosa è che, a formarlo convenevole e pulito, bisognerà rendere perfette le mento vate tre cagioni il più che si può. L'uomo nasce fornilo dell'intelletto, cioè della facollâ di sentire, di percepire, di alten. dere, di paragonare, di giudicare, di astrarre, di ricordarsi, di imaginare, ma d'uopo è che queste lacollà vengano poscia diriltamente usate ed esercitale, onde sia generala quella virtù pressochè divina, che si appella la ragione, la quale consiste nell'abito di. paragonare in sieme i sentimenti distinti dell'anima e le idee, di derivar dai falli pariicolari le nozioni gene. rali; di anteporre o posporre le une alle altre, di congiungerie o di separarle, secondo la con venienza o disconvenienza loro, e secondo i loro gradi di più o di meno. A formare que sl’abito, sarà bisogno di studiare le opere de' filosoti, che trattano soltilmente delle cose na lurali, delle proprietà dell'intelletto e del cuore umano; di apprendere l ' istoria, senza la co gnizion della quale, al dire di Cicerone, l'uo mo si rimane sempre fanciullo; di osservare la nalura, di pralicare fra le diverse condi. zioni degli uomini, e di operare ne privati negozii e ne' pubblici. Ad arriccbire l'imagi. nativa, la quale è l'abito di recare all'animo la reminiscenza delle qualità sensibili che più ci muovono e dilellano; di congiugnere insie me con verisimiglianza quelle, che sono di. sgiunte in nalura, e di significare per siinili tudine delle cose corporee i concelli astralli, non solo metterà bene di leggere gl'inventori di nuove e vaghe fantasie, ina di por menle a tutto ciò che ai sensi porge diletlo, sia nelle azioni degli uomini e degli anigali sia nel l’esteriore aspelto e movimento delle cose inanimate; e soprattullo gioverà di ben con siderare le somiglianze che fanno fra loro le cose di qualsivoglia genere e specie; chè que sto si è il fonte, dal quale si derivano le vuo ve e maravigliose metafore. Di molla ulilità sarà poi all'intellelto ed all'immaginativa lo sludio de' precelli dell'arte oratoria e della poetica, i quali, essendo il compendio di quanto ove i filosofi hanno osservato intorno le cagioni, onde piacciono e dispiacciono le opere degli scrillori, apportano quella luce, che un uomo solo nel breve spazio della vila studierebbe indarno di procacciarsi colla sola virtù del proprio ingegno. Vuolsi però sull'osservanza de'precelli avvertire ciò che nell'arle poetica osserva Zanotti; cioè che le cagioni del piacere e del dispiacere trovate da’ filosofi, essendo cagioni universali ed indeterminale, mostrano bensi i luoghi, non vogliono che si ecceda o si manchi, ma non prescrivono poi a qual segno si debba giugnere o rimanere, per non ecce dere o non mancare; ond' è che, a fare buon uso del precello, è bisogno di quella discre. zione, che si acquista con lungo sludio e fatica. Rispetto agli affelli, io mi penso che, sel) bene sieno da natura, pure a conciliarli in al trui grande aiuto si possa trarre dall'arte. Se l'amore, l'odio, l'ira, la mansuetudine, la misericordia ed allre affezioni dell'animo na. scono da cagioni determinale, come per eseni. pio l'amore da bellezza e da virtù, l’odio da male qualità del corpo o dell'animo altrui, non v'ha dubbio che gli aſſelti medesimi si deb bono in chi legge risvegliare per virtù della viva' rappresentazione di quelle cagioni: dal che si raccoglie che lo scrittore, considerando le varie disposizioni degli uomini passionali, e le cagioni, per le quali la passione si genera, avrà materia onde gli animi perlurbare. Cosi per aiuto dell'arte verrà ad operare in altrui quell'eſello, che imperſellamente avrebbe operalo mercè della sola naturale sua disposi. zione. Da quanto è dello apparisce che la scienza avvalora l'intellelto e l'immaginativa, ed aiuta a muovere gli affetti, e che perciò ella si è il fonte dello scrivere rettamente. La scienza poi è generala negli umani intellelli da due cagioni: queste sono: la naturale disposizione delle organo corporale e l'azione delle cose esterne sopra di esso; sì falte ca. gioni sono di necessità diverse in ciascuno; perocchè non è da credere che si possano tro vare due corpi nella stessa maniera conforma li; ed è poi certamente impossibile che uno riceva dalle cose esterne nell'animo le mede sime impressioni che un altro. Per la qual cosa avviene che diversa in ciascuno si generi la scienza, e quindi diversa la forza dell'in gegno e dell'imaginaliya, diversa la qualilà degli affetti, e per conseguente anche lo stile, che da queste procede, deve riuscire diverso. Dal che si vede che imprendono opera dispe rala coloro, che si affaticano ad imitare lo stile d'altri. E alcuni pur sono che andando passo passo sull' orme di ALIGHIERI, del Petrarca o del Boccaccio, avvisano alla costoro gloria di per venire; ma le opere loro per verità, in fuori di un poco di pulita buccia, niun sugo hanno. Che cosa dovremo dunque apprendere dagli scrittori? Rispondo che si vuole apprendere la lingua e i modi acconci ad esprimere chia ramente, ornatamente e convenevolmente i no stri concelli. Da questo scrillore ci sludieremo di procacciare una cosa, da quello un'altra, a seguileremo sempre la nostra natura, secondo l'esempio di Dante, il quale lasciò scritto di sè: lo mi son un che, quando amore spira, nolo, ed a quel modo che delta dentro, vo significando. Che se allrove disse a VIRGILIO: Tu se' lo mio maestro e lo mio autore, Tu se' solo colui, da cui io loisi Lo bello stile, che mi ha fallo onore, non intese già d'avere tolto al maestro la ma niera propria di quel poeta, ma sibbene la qualità, onde il carattere poetico é differente dal filosofico e dal persuasivo. E chi è che pon senta la differenza che è dallo stile di Dante a quello di Virgilio? Rimane per ultimo a dire degli autori, che coloro che amano di scrivere nell'italiana favella, devono scegliere a maestri. Nulla dirò dello studio della lingua greca e della latina, perciocchè essendo notissimo che nell'una e nell'altra scrissero coloro, che insegnarono a tutto il mondo, e che questa nostra da quelle procede, ciascuno conosce di per sé quanta ulilità trarre se ne possa. Mi ristringerò dunque a fare alcuna parola de' solo il conversatore italiano, che agli altri si devono preporre. E prima è a sapere che nel secolo XIV alcuni prosatori ed alcuni poeti diedero al volgar nostro tanta proprietà e grazia, che nessuno ha poi polulo eguagliarli: che nel secolo XV questo volgare ſu quasi abbandonalo per soverchio amore della lingua latina e per pusillanimità degli uomini d’Italia: che nel secolo XVI ſu dal Fortunio e dal Bembo ridollo a regole deter. minate; e da molti ſu nobilmente adoperato in varii generi di scritture: che nel secolo XVII fu da talupo acconciamente impiegato ed ar ricchito di voci perlinenti alle scienze, fu da alcun altro scrillo con eleganza, ma venne da moltissimi in parte corrotto e rivolto in vanilà di falsi concelli: che nel XVIII finalmente ſu da pochi bene usato, e da moltissimi con pa role e modi forestieri vituperato. Tale essendo stata la fortuna di questa bellissima lingua, chi potrà dubitare che oggi non sia a noi sa lutevole il consiglio, che ci porgono gli uomini sapienli, cioè quello di studiare agli antichi esemplari? Se nel buon secolo della lingua la lina si stimava essere opera di gran probllo ai giovani il molto leggere gli antichi scrittori del Lazio, quanto maggiormente non si dee credere che lo studiare i nostri sia per giovare a noi, che viviamo in un secolo, ove gl'ita liani, pressoché tutti, più delle cose forestiere che delle proprie dilettandosi, scrivono sì, che punto non pare alle loro scritture che sieno stali allevati in Italia? Verissimo si ė (anche parlando delle arti) quello che dicono i politi ci, cioè che qualvolta le cose sieno pervenule a corruzione, bisogna richiamarle ai loro principii. Questa sentenza dovrebbe essere dinanzi all'animo di tutti coloro, che amano il profitto de' giovani nelle lettere umane; pure sono al cuni cbe, deridendo coloro che studiano i lesti della lingua, dicono essere sciocchezza il darsi tanto pensiero delle parole ogni qualvolta si 1centisti, abbia cura dei concelli; come se il recare alla mente altrui i nostri concelli non dipenda dalla virtù di ben accoviodate parole. Colali persone, avendo posla loro usanza o ne' soli domestici negozii o in alcuna scienza o arte, nè mai data opera allo studio della lingua, vilipendono ciò che non conoscono, e perciò, non avendo au. torità, non meritano alcuna risposta. Tutti gli uomini di mente discreta non si maraviglie ranno, se qui vengono consigliati i giovanetti a studiare prima nelle opere de’ trecentisti, ne’ quali è dovizia di vocaboli proprii e di forme gentili, e chiarezza e semplicità e urba nità e maravigliosa dolcezza, ed a riserbare agli anni loro più maturi lo studio dei cinque che scrissero eloquentemenle di cose gravi e magnifiche. Ma per avventura alcuno dirà: non dobbia. ino noi essere intesi dagli uomini del nostro secolo e cercare di piacer loro seguendo l'usanza? Perchè dunque vorremo che la gioventù studii ancora quelle opere, ove si trovano, ol tre le voci ed i modi, che sono fuor d'uso, e barbarismi e pleonasmi e solecismi ed equivocazioni, e talvolta negligenza e stranezza nel costrutti? Perchè non vorremo consigliarla piullosto a leggere i soli scrillori del cinquecento, i quali seguitando le regole grammati. cali dettate dal Fortunio e da Bembo, non solo scrissero correttamente, ma trattarono eloquen temente di varie ed importanti materie? A queste obbiezioni risponderemo che si dee se guire l'usanza, del buon conversatore, l'usanza del volgo; che non si vuole negare che in molle opere del trecento non si trovino ma non fra la copia delle maniere proprie, nobili e graziose, varii difelli; ma che per questo non ci rimarremo da consigliare la gioventù di avere sempre caro sopra tutti quel secolo beato, e di leggere per tempo i suoi eccellenti scrittori, poichè ci teniamo certi che quanto è difficile il rendersi famigliari e domestiche le maniere native e gentili, altrettanto è facile di perdere l’abito di peccare contro la grammatica e contro l’uso. La predetta virtù non si può acquistare se non con lungo esercizio: il diſello si può togliere assai agevolmente dopo lo studio della grammatica, e dopoche per la filosofia e per la erudizione ci verrà dato di ben conoscere il valore delle parole e di ben distinguere la lingua nobile dalla plebea, e le maniere, che per vecchiezza ban no perduta la grazia e la forza pativa, da quel le che sono ancora belle ed efficaci. Quanto allo studio de'cinquecentisti, non du bitiamo che ei sia per essere ulilissimo, essen do che molli eccellenti scrittori di quel tempo adoperarono la lingua, che appresero da Alighieri, da Boccacio, da Petrarca e dagli altri tre centisti, emulando mirabilmente i romani in molli generi di scrilture: ma teniamo per ſermo che convenga alla gioventù di avvezzarsi al candore ed alla semplicità del trecento prima di cercare lo splendore, la ma gnificenza, la copia e l'altezza de' pensieri nei cinquecentisti. Perciocché lulti coloro, che sfor zano di parere magnifici e splendidi primaché dalla filosofia sieno ſalli ricchi di cognizioni, fanno l'orazione loro bella nella buccia, una nell'intrinseco vana e puerile. Non potendo i giovanelli esprimere con verila se non quei pensieri e quegli allelli, che sono proprii del la tenera età, troveranno assai comodale al bisogno le parole ed i modi usati da'trecentisti, la più parte de'quali, come que' che vissero nell'infanzia dell'italico sapere, scrissero di tenui materie. Verrà poi quel tempo maturo, in che a'giovani farà mestiero di alzare a'gravi concelli lo stile, ed allora apprenderanno da Guicciardini gravità e nerbo; dal Segretario fiorentino sobrietà ed evidenza; dal Carocopia, efficacia e gentilezza; da Casa splendore e magnificenza; da GALILEI ordine e precisione; d’Ariosto e da Tasso i pregi lulli, ond' ė divina la poesia. Ma allo studio di quesli e degli altri molli, che fecero glorioso il secolo di papa Leone, non avranno l'animo ben di. sposto se non coloro, cui prima sarà piaciuto di allingere ai puri fonti del trecento, da'quali derivarono i sopraddetli abbondantissimi fiumi. Questo, o Giovani, è quanto ho stimato op portuno di porvi dinanzi per indirizzarvi nel cammino delle lettere, alle quali inolti vanno per vie distorte e per lo contrario. Vi ho mo strato quali sieno gli elementi dell’ELOCUZIONE; come nel contemperarli secondo le leggi del decoro si loronino i varii caratteri; e final. mente come lo stile proceda da naturale di sposizione e come col sapere si perfezioni. Darò fine coll'avvertirvi, se vero è che la scienza e l'esempio fanno l'arte, è vero altresì che arte senza uso poco giova: onde, se dallo stile cercate onore, vi sarà bisogno di neditare mollo, di leggere molto e di scrivere mollissimo.  Ricerca Sinestesia (figura retorica) Questa voce sull'argomento retorica è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. La sinestesia (dal greco syn, 'insieme', e aisthánomai, 'percepisco') è una figura retorica, in particolare un tipo di metafora ("metafora sinestetica"), che prevede l'accostamento di 2 parole appartenenti a due sfere sensoriali diverse.[1]  Ha largo uso in poesia ed in genere nella versificazione:  «L'odorino amaro»  (Giovanni Pascoli, Novembre.) «Voci di tenebra azzurra.»  (Giovanni Pascoli, La mia sera.) «Venivano soffi di lampi.»  (Pascoli, L'assiuolo.) «Urlo nero»  (Salvatore Quasimodo, Alle fronde dei salici.) Tra le canzoni, si può citare Il sogno di Maria di Fabrizio De André:  «Quando mi chiese: "Conosci l'estate?" io per un giorno per un momento, corsi a vedere il colore del vento.»  È usata anche nella lingua di tutti i giorni ("colori caldi", "giallo squillante" ecc.) e quindi anche in prosa.  NoteModifica ^ Angelo Marchese, Dizionario di retorica e di stilistica, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1984   [1978] , p. 299, ISBN 88-04-14664-8. Altri progettiModifica Collabora a Wikizionario Wikizionario contiene il lemma di dizionario «sinestesia»   Portale Linguistica: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di Linguistica Ultima modifica 2 mesi fa di Nima Tayebian, Enfasi Sinestesia pagina di disambiguazione di un progetto Wikimedia  Analogia (retorica) Figura retorica  Wikipedia Il contenutoWikipedia Ricerca Sinestesia (psicologia) fenomeno sensoriale/percettivo Lingua Segui Modifica Avvertenza Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze. La sinestesia è un fenomeno sensoriale/percettivo, che indica una "contaminazione" dei sensi nella percezione.[1] Il fenomeno neurologico della sinestesia si realizza quando stimolazioni provenienti da una via sensoriale o cognitiva inducono a delle esperienze, automatiche e involontarie, in un secondo percorso sensoriale o cognitivo.[2]   Possibile visione dei mesi dell'anno da parte di una persona soggetta al fenomeno della Sinestesia Descrizione generale del fenomenoModifica Con il termine "sinestesia" si fa riferimento a quelle situazioni in cui una stimolazione uditiva, olfattiva, tattile o visiva è percepita come due eventi sensoriali distinti ma conviventi.[1]  Nella sua forma più blanda è presente in molti individui, spesso dovuta al fatto che i nostri sensi, pur essendo autonomi, non agiscono in maniera del tutto distaccata dagli altri.  Più indicativo di un'effettiva presenza di sinestesia è il caso in cui il percepire uno stimolo (come ad esempio il suono) provoca una reazione netta e propria di un altro senso (ad esempio la vista). Per "forma pura" si intende la sinestesia che si manifesta automaticamente come fenomeno percettivo e non cognitivo. Il fenomeno è involontario, ma una maggiore attenzione prestata dal soggetto può evocarlo con maggiore consapevolezza, al punto che il sinestesico puro, vedendo i suoni e sentendo i colori, può riuscire a trarre vantaggio da queste contaminazioni sensoriali; un compositore che sfruttava questa sua capacità fu Olivier Messiaen, così come il pittore Vasilij Vasil'evič Kandinskij, che affermava di poter sentire la voce dei colori, che per lui erano suoni, entità vive e lo spiega bene nel suo libro Lo spirituale nell’arte. Un altro sinestesico fu il pittore e musicista lituano, Mikalojus Konstantinas Čiurlionis. Il compositore russo Aleksandr Nikolaevič Skrjabin era particolarmente interessato agli effetti psicologici sul pubblico quando sperimentavano suoni e colori contemporaneamente. La sua teoria era che quando si percepiva il colore giusto con il suono corretto, si creava "un potente risonatore psicologico per l'ascoltatore". La sua opera sinestetica più famosa, che viene eseguita ancora oggi, è Prometeo: il poema del fuoco. Ma la lista degli artisti sinestesici è molto lunga, infatti le ultime ricerche affermano che il fenomeno sinestesico interessi il 4% della popolazione e di questo 4% la maggior parte sono artisti. Un'altra caratteristica della sinestesia è poi che si presenta a volte nelle persone mancine, o in concomitanza con altre caratteristiche come l'allochiria (confusione della mano destra con la sinistra), scarso senso dell'orientamento, dislessia, deficit dell'attenzione e, raramente, autismo.  Spesso la contaminazione sensoriale avviene a direzione unica: ad esempio, se vedo una nota musicale come un colore, non è detto che vedendo quel colore la mia mente evochi quella nota. Questa è una delle caratteristiche della sinestesia percettiva, l'unidirezionalità. Secondo lo storico Angelo Paratico il mancino Leonardo Da Vinci era affetto da sinestesia.[3]  Esperienze di tipo sinestetico possono essere indotte in maniera artificiale, mediante l'uso di sostanze allucinogene, sostanze stupefacenti come l'LSD, esperienze di deprivazione sensoriale, meditazione, ed in alcuni tipi di malattie che colpiscono la corteccia cerebrale. Questo tipo di sinestesia è detta pseudosinestesia, in quanto è indotta o non presente dalla nascita. La sinestesia acquisita sembra riguardare solo le forme di sinestesia percettiva, e non sono stati documentati casi di sinestesia concettuale acquisita.  Le persone che hanno esperienze sinestesiche nella "forma pura" sono un numero relativamente ridotto. Studi recenti hanno mostrato una certa variabilità:  1 ogni 2000[4] 1 ogni 200[5] Queste esperienze sono quotidiane ed iniziano sin dall'infanzia. Molti sinestesici si sorprendono scoprendo che questa esperienza non è provata da tutte le persone.  L'esperienza sinestetica è composta da due elementi:  L'evento induttore (inducer). L'evento concorrente (concurrent). Per esempio, può accadere che un sinestesico descriva il suono (inducer) del proprio bambino che piange come un colore giallo sgradevole (concurrent). La relazione tra un inducer e un concurrent è sistematica, nel senso che a ogni inducer corrisponde un preciso concurrent.  Grossenbacher & Lovelace (2001), distinguono due tipi di sinestesia a seconda che l'inducer sia percettivoo concettuale.  Sinestesia percettiva: l'inducer è uno stimolo percettivo (per es. la vista di lettere produce anche la vista di colori "collegati"). Sinestesia concettuale: i concurrent sono prodotti dal pensare a un particolare concetto (per es: numero, mese dell'anno, posizione nello spazio). Si utilizza intensivamente la sinestesia anche nella terminologia utilizzata nella degustazione o nell'analisi sensoriale.    Basi genetiche della sinestesiaModifica Purtroppo con le competenze scientifiche attuali non è possibile identificare singoli loci genici che determinino con certezza questo fenomeno neurocognitivo. Il fenomeno è più probabilmente dovuto a un complesso meccanismo neurale e non a singole proteine codificate da parti di genoma. In ogni caso interessanti esperimenti di neuroimaging paiono confermare tale fenomeno. [6]  Sinestesia: grafema-coloreModifica Ramachandran e i suoi collaboratori hanno notato che la forma più comune di sinestesia è quella grafema(lettera, numero) - colore e infatti i rispettivi centri cerebrali sono molto vicini tra loro.[7]  Tecniche di neuroimmagini (es. risonanza magnetica funzionale) hanno permesso di individuare il "centro del colore" (es. Zeki & Marini, 1998, Brain), l'area V4 nel giro fusiforme.  L'area dei grafemi è stata anch'essa individuata nel giro fusiforme, in particolare nell'emisfero sinistro vicino all'area V4. L'area si attiva sia in seguito alla presentazione di lettere sia in seguito alla presentazione di numeri.  L'ipotesi di Ramachandran è che ci sia una attivazione congiunta. La presentazione di un grafema fa attivare l'area dei grafemi, che fa attivare contemporaneamente anche l'area del colore, anche senza la presenza di uno stimolo. Questo è dovuto ad un eccesso di connessioni tra le due aree, non presente in tutte le persone.  Le connessioni che si hanno alla nascita sono un numero superiore di quello che si trovano in un cervello adulto. Quello che avviene nei primi mesi di vita è un processo definito pruning (potatura, sfoltimento) delle connessioni cerebrali. L'ipotesi di Ramachandran è che le connessioni tra area del colore e area dei grafemi, che normalmente subiscono un processo di pruning, rimangono invece intatte nei sinestesici. Probabilmente per una mutazione genetica che fa fallire il processo di pruning. Esisteranno delle regole che in seguito all'esperienza permetteranno di sviluppare connessioni particolari tra area dei grafemi e area del colore. Questo spiegherebbe perché ad un grafema viene sempre associato un certo colore.  Ramachandran ipotizza che l'attivazione del giro fusiforme non implichi un arrivo alla coscienza delle informazioni. Perché sia possibile essere consapevoli dell'informazione percepita si dovranno attivare altre aree superiori. Tuttavia, Grossenbacher sostiene che la sinestesia non sia dovuta alla presenza di un numero maggiore di connessioni neurali (le quali non sarebbero presenti nei non sinestesici); infatti, secondo lo studioso tale fenomeno percettivo è imputabile al fatto che, nel cervello dei sinestesici, alcune connessioni neurali risultano ancora attive, mentre non vengono più "utilizzate" in chi non sperimenta tale modo di percepire. Questo spiegherebbe il motivo per cui chi assume droghe psicoattive sia in grado di esperire una condizione di "pseudo-sinestesia", circoscritta esclusivamente al limite temporale in cui tali sostanze dispieghino il loro effetto, per poi tornare a non percepire sinestesicamente una volta terminato quest'ultimo. Secondo Grossenbacher è molto improbabile, infatti, che si siano create nuove connessioni neurali durante l'assunzione di tali droghe; piuttosto, risulta più probabile che vengano percorse "strade" neurali solitamente "disattive".  Influenza dell'attenzione sulla percezioneModifica Esperimento di Ramachandran e Hubbard: caso della figura gerarchica (un 5 composto da tanti 3), se ai soggetti veniva chiesto di fare attenzione a livello globale (5) vedevano il colore rosso, se invece dovevano dirigere la loro attenzione a livello locale (3) vedevano verde.  Questo esperimento porta a concludere che l'attenzione influenza il manifestarsi del fenomeno sinestesico.  Sinestesici projectorModifica Nel caso di grafema-colore, il colore è visto come una pellicola che ricopre il numero completamente. Un sinestesico testato da Dixon, riferiva di provare un'esperienza irritante se il numero era di un colore incongruente con quello del fotismo (l'effetto della sua sinestesia). Se per esempio il numero 5 gli evocava il colore rosso, ma in realtà era scritto con il giallo.  Sinestesici associatorModifica Sempre nel caso di grafema-colore, il colore appare nella mente, e non sopra il numero. In genere, i sinestesici associator riferiscono che l'esperienza di vedere un numero con un colore non congruente con quello del fotismo, non è un'esperienza per nulla disturbante. La percezione del colore "reale" del numero è un'esperienza molto più intensa del fotismo, per un sinestesico associator.  I sinestesici projector sembrano una minoranza rispetto ai sinestesici associator (11 su 100, tra quelli intervistati da Dixon e collaboratori).  Tra i maggiori studiosi della sinestesia percettiva, Richard Cytowic, Ramachandran, E. Hubbard, Sean Day, Bulat Galeyev, Irina Vaneckina.  Rapporto con i canali del calcioModifica Studiando nel moscerino della frutta un gene coinvolto nell'elaborazione del dolore, alcuni ricercatori hanno creato il primo modello della sinestesia. Con la tecnica dell'interferenza a RNA hanno isolato 600 geni quali candidati a interessare possibili geni del dolore. Il primo ad essere analizzato più in dettaglio è stato quello che codifichi parte di un canale del calcio noto come alfa 2 delta 3 (α2δ3). Questi canali che regolano il passaggio di Ca2+ attraverso la membrana cellulare sono fondamentali per l'eccitabilità elettrica dei neuroni. Con questi canali interferiscono diversi antidolorifici.  Nei topi carenti di α2δ3 si è dimostrato che questo gene controlli la sensibilità al dolore provocato dal calore sia nella Drosophila sia nei mammiferi. Indagini condotte con la MRI hanno anche rivelato che α2δ3 partecipi all'elaborazione del dolore termico a livello cerebrale. In assenza di α2δ3 il segnale del dolore a genesi termica arriva al talamo, ma poi non prosegue verso i suoi centri corticali superiori. Le immagini di fMRI mostrano piuttosto un'attivazione crociata delle aree corticali per la visione, l'olfatto e l'udito. Questa sinestesia si osserva anche quando lo stimolo doloroso sia di natura tattile.[8]  NoteModifica ^ a b Emozioni colorate | Le Scienze, su lescienze.espresso.repubblica.it. ^ Harrison, John E.; Simon Baron-Cohen (1996). Synaesthesia: classic and contemporary readings. Oxford: Blackwell Vinci. A Chinese Scholar Lost in Renaissance Italy, Lascar Publishing, 2015. lascarpublishing.com/leonardo/Archiviato il 26 luglio 2018 in Internet Archive. ^ Baron- Cohen, 1997 ^ Ramachandran & Hubbard, 2001 ^ "Neurocognitive mechanism of synesthesia" Edward M. Hubbard1 and V.S. Ramachandran, Neurocognitive mechanism of synesthesia, su cell.com, November 3, 2005. URL consultato il libero. ^ percezione e idee, la sinestesia | PsycHomer, su psychomer.it  Le Scienze: Non provo dolore, ma ne sento l'odore e ascolto le note BibliografiaModifica Córdoba M.J. de, Hubbard E.M., Riccò D., Day S.A., III Congreso Internacional de Sinestesia, Ciencia y Arte, 26-29 Abril, Parque de las Ciencias de Granada, Ediciones Fundación Internacional Artecittà, Edición Digital interactiva, Imprenta del Carmen. Granada 2009. ISBN 978-84-613-0289-5 Córdoba M.J. de, Riccò D. (et al.), Sinestesia. Los fundamentos teóricos, artísticos y científicos, Ediciones Fundación Internacional Artecittà, Granada Cytowic, R.E., Synesthesia: A Union of The Senses, second edition, MIT Press, Cambridge, 2002. ISBN 978-0-262-03296-4 Cytowic, R.E., The Man Who Tasted Shapes, Cambridge, MIT Press, Massachusetts, Marks L.E., The Unity of the Senses. Interrelations among the modalities, Academic Press, New York, 1978. Riccò D., Sinestesie per il design. Le interazioni sensoriali nell'epoca dei multimedia, Etas, Milano, Riccò D., Sentire il design. Sinestesie nel progetto di comunicazione, Carocci, Roma, 2008. ISBN 978-88-430-4698-0 Tornitore T., Storia delle sinestesie. Le origini dell'audizione colorata, Genova, 1986. Tornitore T., Scambi di sensi. Preistoria delle sinestesie, Centro Scientifico Torinese, Torino, 1988. Voci correlateModifica Takete e Maluma Sinestesia tattile-speculare Altri progettiModifica Collabora a Wikizionario Wikizionario contiene il lemma di dizionario «sinestesia» Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su sinestesia Collegamenti esterniModifica Udire i colori, gustare le forme, su lescienze.espresso.repubblica.it, Le Scienze. URL consultato il 20 maggio 2015. TED Talk: "I listen to color" Portale Psicologia. Qualia aspetti qualitativi delle esperienze coscienti  Locus ceruleus Sinestesia tattile-speculare raro fenomeno sensoriale/percettivo  Wikipedia IlWikipedia Ricerca Sinestesia (film) film del 2010 diretto da Erik Bernasconi Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce sull'argomento film drammatici è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Sinestesia Lingua originaleitaliano Paese di produzione Svizzera Anno2010 Durata91 min Rapporto1:1.85 Generedrammatico RegiaErik Bernasconi SceneggiaturaErik Bernasconi ProduttoreVilli Hermann, Imagofilm Lugano e RSI FotografiaPietro Zuercher MontaggioClaudio Cormio Effetti specialiFlavio Scarponi, Oltremondo studio Lugano MusicheZeno Gabaglio, Christian Gilardi ScenografiaFabrizio Nicora CostumiLaura Pennisi Interpreti e personaggi Alessio Boni: Alan Giorgia Würth: Francoise Melanie Winiger: Michela Leonardo Nigro: Igor Teco Celio: Padre di Francoise Bindu De Stoppani: Maide Roberta Fossile: Cathrine Igor Horvat: Martin Federico Caprara: Uomo strano Eva Allenbach: Segretaria Massimiliano Zampetti: Infermiere Daniele Bernardi: Fisioterapista Alessandro Otupacca: Proprietario ristorante Sinestesia è un film del 2010 scritto e diretto da Erik Bernasconi, prodotto da Villi Hermann e coprodotto da Giulia Fretta per la RSI. I protagonisti sono Alessio Boni, Melanie Winiger, Giorgia Würth e Leonardo Nigro. È stato nominato ai Quartz 2010 per la miglior sceneggiatura, per la miglior attrice (Melanie Winiger) e per la miglior attrice esordiente (Giorgia Wurth). La pellicola è uscita nelle sale ticinesi il 26 marzo 2010.  TramaModifica Il film racconta due momenti della vita di quattro giovani adulti confrontati con le prove del destino. Alan, sua moglie Françoise, la sua amante Michela, il suo migliore amico Igor, vivono le sfaccettature del quotidiano dopo un incidente che costringe Alan su una sedia a rotelle. Per questo la narrazione si compone, con una struttura circolare, in quattro capitoli: uno per personaggio, ognuno ispirato a un genere cinematografico. Sono quattro momenti di una stessa storia, che esplorano le emozioni dei personaggi da quattro angolature diverse. La trama si basa in larga parte sull'osservazione di fatti realmente accaduti e affronta con accenti diversi (thriller psicologico, commedia, dramma…) i temi dell'amicizia, dell'amore, dell'infedeltà e della disabilità.  ProduzioneModifica L'idea del film è partita nel dicembre 2006, con la lettura di un trafiletto in un quotidiano. Poi nell'estate del 2007 il regista e sceneggiatore Erik Bernasconi ha vinto un concorso indetto dal Dipartimento della Cultura del Cantone Ticino e dalla RSI per progetti di scrittura di film. Così Erik Bernasconi inizia a collaborare con il produttore Villi Hermann, della Imagofilm, e parte la stesura della sceneggiatura.  AmbientazioneModifica Il film è stato girato quasi interamente nella Svizzera italiana, a parte alcune scene girate a Lucerna e Ginevra. Le riprese hanno avuto luogo nella primavera e nell'estate del 2009.  RiconoscimentiModifica 2010 - Premio del cinema svizzero Candidatura al premio Quartz per la miglior sceneggiatura Collegamenti esterniModifica ( EN ) Sinestesia, su Internet Movie Database, IMDb.com. Modifica su Wikidata ( EN ) Sinestesia, su Rotten Tomatoes, Flixster Inc. Sinestesia, su FilmAffinity. Modifica su Wikidata   Portale Televisione: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di televisione Ultima modifica 2 mesi fa di Botcrux Melanie Winiger modella e attrice svizzera  Erik Bernasconi regista e sceneggiatore svizzero  Zeno Gabaglio Wikipedia Il contenuto èGrice: “It may be said that my transcendental Kantian approach to cooperative rational conversation is a response to Costa’s totally empiricist (or ‘sensista’ as he prefers) invocations of ‘chiarezza’ (my imperative of conversational clarity), and brevita, eleganza, and all the categories that inform the maxims. Paolo Costa. Keywords: la teoria sensista della communicazione – senso – consenso – aesthesis – synaesthesia --– idea dei chi proferisce la proposizione “Me diletta l’odore di questa rosa piu del colore”, cooperiamo, e la risponsa di nostre anime e “Contrariamente, a me mi diletta il colore di questa rosa piu dell’odore” -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Costa” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Costantino – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Costantino I. Costantino I Cesare e poi Augusto dell'Impero romano Testa dell'acrolito monumentale di Costantino (Musei Capitolini) Nome originale: Flavius Valerius Constantinus Regno Cognomina ex virtute: Pius Felix Invictus Maximus Victor Triumphator Germanicus maximus IV Sarmaticus maximus III Gothicus maximus II Dacicus maximus Adiabenicus Arabicus maximus Armeniacus maximus Britannicus maximus Medicus maximus  Persicus maximus Nascita Naissus Morte Nicomedia Sepoltura Chiesa dei Santi Apostoli a Costantinopoli Predecessore Costanzo Cloro (per parte dei territori di competenza amministrati) e Flavio Severo (per la carica di Cesare d'Occidente) Successore Costantino II (cesare) Costanzo II Costante I (cesare dal 333) Dalmazio (cesare dal 335) Coniuge Minervina Fausta Figli Crispo Costantina Costantino II Costanzo II Costante I Elena Dinastia Costantiniana Padre Costanzo Cloro Madre Elena Flavio Valerio Constantino (Constantino I) Moneta di Costantino con la rappresentazione del monogramma di Cristo sopra il labaro imperiale Nascita Naissus, 27 febbraio 274 Morte Nicomedia, 22 maggio 337 Cause della morte naturali Luogo di sepoltura Chiesa dei Santi Apostoli a Costantinopoli Religione cristianesimo convertito dal paganesimo Dati militari Paese servitor Impero romano Forza armata Esercito romano Grado Augusto Comandanti Costanzo Cloro e Massimiano Guerre Guerra civile romana Campagne germanico-sarmatiche di Costantino Invasioni barbariche del IV secolo Campagne siriano-mesopotamiche di Sapore II Battaglie  Battaglia di Verona Battaglia di Torino Battaglia di Ponte Milvio Battaglia di Cibalae Battaglia di Mardia Battaglia dell'Ellesponto Assedio di Bisanzio (324) Battaglia di Adrianopoli Battaglia di Crisopoli Nemici storici Massenzio e Licinio Comandante di Esercito romano voci di militari presenti su Wikipedia Manuale San Costantino I Raffigurazione di san Costantino nella basilica di Santa Sofia a Istanbul. L'imperatore, che la Chiesa ortodossa ha definito «Simile agli Apostoli», proclamandolo santo, è raffigurato nell'atto di dedicare la basilica. Imperatore Nascita Naissus, 27 febbraio 274 Morte Nicomedia, 22 maggio 337 Venerato da Chiesa cristiana ortodossa Santuario principale Chiesa dei Santi Apostoli Ricorrenza 21 maggio Manuale Battaglie di Costantino I nella guerra civile. Flavio Valerio Aurelio Costantino, conosciuto anche come Costantino il Vincitore, Costantino il Grande e Costantino I (in latino: Flavius Valerius Aurelius Constantinus; in greco antico: Κωνσταντῖνος ὁ Μέγας?, Konstantînos o Mégas; Naissus, Nicomedia), è un filosofo italiano. Costantino è una delle figure più importanti dell'impero romano, che riformò largamente e nel quale permise e favorì la diffusione del cristianesimo. Tra i suoi interventi più significativi, la riorganizzazione dell'amministrazione e dell'esercito, la creazione di una nuova capitale a oriente, Costantinopoli, e la promulgazione dell'Editto di Milano sulla libertà religiosa.  La Chiesa ortodossa e le Chiese di rito orientale lo venerano come santo, presente nel loro calendario liturgico, col titolo di Eguale agli apostoli; mentre il suo nome non è presente nel Martirologio Romano, il catalogo ufficiale dei santi riconosciuti dalla Chiesa cattolica. Le fonti primarie sulla vita di Costantino e sulle relative vicende da imperatore devono essere prese con la dovuta cautela. La principale fonte contemporanea è costituita da Eusebio di Cesarea, autore di una Storia Ecclesiastica che non manca di esaltare la gloria e la nobiltà di Costantino in quanto imperatore, a cui fece seguito una Vita di Costantino che ne costituisce una vera e propria agiografia. Anche Lattanzio, nel suo De mortibus persecutorum, delinea in modo netto la distinzione fra il pio Costantino e il perverso Diocleziano (Salona). Distinzione forse non del tutto disinteressata, visto che Lattanzio, nato in Nordafrica da famiglia pagana e convertitosi al cristianesimo, dovette fuggire precipitosamente da Nicomedia, sede imperiale di Diocleziano, all'alba dell'ultima persecuzione contro i Cristiani. La stessa cautela deve valere per la Storia Nuova di Zosimo. Infine, l'appendice alla storia di Ottato di Milevi sullo scisma donatista racchiude alcune lettere che Costantino avrebbe inviato ai cristiani del Nordafrica e che, se autentiche, potrebbero rivelare alcuni tratti del pensiero dell'imperatore riguardo alla questione.  Albero genealogico della dinastia costantiniana che ha in Costanzo Cloro il vero capostipite. Costantino nacque a Naissus (odierna Niš, in Serbia), un modesto centro situato nella provincia romana della Mesia Superiore, figlio di Costanzo Cloro, militare e politico romano di origini illiriche e nativo della Dardania. Costantino e di madrelingua latina e, ha sempre difficoltà nel padroneggiare il greco, tanto da doversi avvalere d'interpreti con locutori ellenofoni. Si conosce pochissimo della sua gioventù. Perfino la sua data di nascita è incerta. Forse è proprio durante l'adolescenza che gli fu affibbiato il soprannome dispregiativo “Trachala,” da interpretare nel senso di "viscido come una lumaca". Nominato Prefetto del pretorio delle Gallie (cioè comandante militare) e in base al sistema della Tetrarchia voluta da Diocleziano, nominato Cesare dall'Augusto di Occidente, Massimiano, di cui sposa la figliastra Teodora. Costantino e affidato all'Augusto d'Oriente, Diocleziano, ed educato a Nicomedia presso la corte dell'imperatore, sotto il quale comincia la carriera militare: fu tribunus ordinis primi e con questo grado fu al seguito dello stesso Diocleziano nel suo viaggio in Egitto. Successivamente partecipò attivamente alla campagna contro i Sasanidi condotta da Galerio per poi tornare a servizio di Diocleziano con il quale lascia definitivamente l'Egitto attraversando la Palestina. Combatté ancora tra le file dell'esercito di Galerio sul confine danubiano, ove si distinse nelle guerre contro i Sarmati. Diocleziano abdicò a favore del proprio Cesare Galerio e lo stesso fa Massimiano in Occidente, a favore di Costanzo Cloro. Galerio nomina proprio Cesare il nipote Massimino Daia e impone a Costanzo, con il sostegno di Diocleziano, come nuovo Cesare Flavio Severo, un ufficiale di alto rango che aveva militato tra le file dello stesso Galerio.E in questo frangente che Costantino raggiunse il padre in Britannia (alcune fonti vogliono che quella di Costantino sia stata una vera e propria fuga da Nicomedia, dove Galerio avrebbe voluto trattenerlo per garantirsi la fedeltà di Costanzo Cloro) e condusse con lui alcune campagne militari nell'isola.Circa un anno dopo, Costanzo Cloro morì nei pressi di Eburacum, l'odierna York. Qui l'esercito, guidato dal generale germanico Croco (di origine alamanna), proclama Costantino nuovo Augusto d'Occidente, mettendo a repentaglio il meccanismo della tetrarchia, ideato da Diocleziano proprio per porre termine all'uso ormai consolidato degli eserciti di proclamare di propria iniziativa gli imperatori. Per tale ragione Galerio, che al tempo era l'unico Augusto legittimo rimasto in carica, e inizialmente scettico nel riconoscere l'investitura di Costantino, tuttavia alla fine si convinse a cooptarlo nel collegio imperiale ma con il rango di Cesare, promuovendo invece come nuovo Augusto d'Occidente Flavio Severo. Costantino da parte sua accettò la decisione di Galerio e, per dimostrare come riconoscesse l'autorità di Severo quale nuovo superiore in grado, cede a quest'ultimo il controllo della diocesi Iberica, mentre a lui sarebbe rimasto il governo delle Gallie e della Britannia. La sofferta nomina di Costantino a Cesare, per quanto gestita e riassorbita nei quadri della tetrarchia, aveva mostrato la debolezza del sistema di successione per cooptazione creato da Diocleziano. Infatti Massenzio, figlio dell'Augusto emerito Massimiano, scontento di essere stato tagliato fuori da qualsiasi posizione di potere, si fece acclamare imperatore a Roma con l'appoggio dei pretoriani, dell'aristocrazia senatoria e della plebe urbana.[38] Galerio per l'occasione decise di agire senza indugi e con durezza, ordinando a Severo, che risiedeva a Milano, di marciare verso Roma per sedare la rivolta ma, giunto in prossimità della città, le truppe al suo comando disertarono poiché venute a conoscenza che Massimiano, per il quale avevano militato prima della sua abdicazione, si era schierato a sostegno del figlio. Severo, fatto prigioniero, fu poi ucciso.Galerio allora tenta di organizzare in prima persona una spedizione in Italia, ma non ottenne alcun risultato e fu costretto a ritirarsi nell'Illirico. Durante questi eventi, Costantino e impegnato sul confine renano a combattere con successo i Franchi e si era mantenuto neutrale nella disputa tra Galerio e Massenzio. Massimiano cerca dunque di farselo alleato e, per attirarlo alla sua causa, lo raggiunse a Treviri, offrendogli in sposa la figlia Fausta e il titolo di Augusto. Costantino accettò l'offerta di alleanza e, dopo essere convolato a nozze, si fa proclamare Augusto sul finire dell'anno. Tornato a Roma, Massimiano entra in urto con Massenzio, al potere del quale non voleva più essere subordinato e, costretto a fuggire dalla città poiché le truppe erano rimaste leali al figlio, fu riaccolto alla corte di Costantino in Gallia. Galerio, nel tentativo di porre rimedio alla crisi istituzionale creatasi, convoca a Carnuntum un convegno al quale presero parte, oltre a lui, anche Massimiano e, soprattutto, Diocleziano. In questa circostanza e creato Augusto Liciniano Licinio, un commilitone di Galerio, mentre Costantino fu degradato nuovamente a Cesare e Massimiano dovette deporre, questa volta definitivamente, le vesti imperiali per una seconda volta. Contestualmente Massenzio fu dichiarato hostis publicus («nemico pubblico»).[47]  Tornato deprivato di ogni potere, Massimiano inizia a tramare contro Costantino. Approfittando dell'assenza del genero, impegnato a sedare una sollevazione dei Franchi, il vecchio Erculio si proclamò per la terza volta imperatore e, assunto il comando della truppe stanziate a Marsiglia, si arroccò nella città.[49] Costantino, tornato in fretta dal confine renano, la pose d'assedio ma, ancor prima che iniziassero le ostilità, i soldati all'interno della città si arresero e consegnarono Massimiano, a cui fu però risparmiata la vita.[50] Agli inizi del 310, dopo un ennesimo complotto ordito da Massimiano e sventato questa volta dalla figlia Fausta, Costantino ordinò la messa a morte del suocero[51] e successivamente, attorno alla metà dell'anno, decise di riappropriarsi del titolo di Augusto che gli era stato tolto a Carnuntum, ottenendo stavolta il consenso di Galerio. Alla morte di Galerio nel 311, Costantino si alleò con Licinio, mentre Massenzio con Massimino Daia. Costantino, ormai sospettoso nei confronti di Massenzio, riunito un grande esercito formato anche da barbari catturati in guerra, oltre a Germani, popolazioni celtiche e provenienti dalla Britannia, mosse alla volta dell'Italia attraverso le Alpi, forte di 90 000 fanti e 8 000 cavalieri.[53] Lungo la strada, Costantino lasciò intatte tutte le città che gli aprirono le porte, mentre assediò e distrusse quante si opposero alla sua avanzata. Egli, dopo aver battuto due volte Massenzio prima presso Torino e poi presso Verona, lo sconfisse definitivamente nella battaglia di Ponte Milvio,[54] presso i Saxa Rubra sulla via Flaminia, alle porte di Roma, il 28 ottobre del 312. Con la morte di Massenzio, tutta l'Italia passò sotto il controllo di Costantino.[55]  Durante questa campagna sarebbe avvenuta la celebre e leggendaria apparizione della croce sovrastata dalla scritta In hoc signo vinces che avrebbe avvicinato Costantino al cristianesimo. Secondo Eusebio di Cesarea questa apparizione avrebbe avuto luogo proprio nei pressi di Torino.[56]  Nel 318 circa ebbe dalla moglie Fausta Costantina.  Augusto d'Occidente (313-324)  Schema della battaglia avvenuta presso Adrianopoli nel 324, dove Costantino, seppure in inferiorità numerica, prevalse su Licinio, il quale lasciò sul campo secondo Zosimo ben 34.000 armati.  Massimino Daia veniva sconfitto da Licinio e si dava la morte. Entrando in Nicomedia Licinio emanò un rescritto (impropriamente detto editto di Milano dal luogo dove era stato concordato con Costantino), con cui a nome di entrambi gli augusti rimasti veniva riconosciuta anche in Oriente la libertà di culto per tutte le religioni, ponendo fine ufficialmente alle persecuzioni contro i cristiani, l'ultima delle quali, cominciata da Diocleziano tra il 303 e il 304, si era conclusa nel 311 su ordine di Galerio, prossimo a morire.  Il testo del decreto recita:  (LA) «Cum feliciter tam ego [quam] Constantinus Augustus quam etiam ego Licinius Augustus apud Mediolanum convenissemus atque universa quae ad commoda et securitatem publicam pertinerent, in tractatu haberemus, haec inter cetera quae videbamus pluribus hominibus profutura, vel in primis ordinanda esse credidimus, quibus divinitatis reverentia continebatur, ut daremus et Christianis et omnibus liberam potestatem sequendi religionem quam quisque voluisset, quod quicquid <est> divinitatis in sede caelesti, nobis atque omnibus qui sub potestate nostra sunt constituti, placatum ac propitium possit existere»  (IT) «Noi, dunque Costantino Augusto e Licinio Augusto, essendoci incontrati proficuamente a Milano e avendo discusso tutti gli argomenti relativi alla pubblica utilità e sicurezza, fra le disposizioni che vedevamo utili a molte persone o da mettere in atto fra le prime, abbiamo posto queste relative al culto della divinità affinché sia consentito ai galilei e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che ciascuno crede, affinché il divino, qualunque essa sia, a noi e a tutti i nostri sudditi dia pace e prosperità. -- Lattanzio, De mortibus persecutorum, capitolo XLVIII)  Nella prosecuzione il rescritto ordina l'immediata restituzione ai galilei di tutti i luoghi di culto e di ogni altra proprietà delle chiese.  Costantino e Licinio, che ne aveva sposato la sorella Costanza, entrarono una prima volta in conflitto  (in seguito alla riappacificazione l'Illirico passò a Costantino). In seguito alla sconfitta di Licinio, che si arrese dopo le battaglie di Adrianopoli e di Crisopoli e venne successivamente ucciso, Costantino rimase l'unico augusto al potere. Questo periodo cominciò con una serie di uccisioni, a partire da quella del suo antico rivale Licinio. L'anno seguente Costantino fa uccidere a Pola il figlio primogenito Crispo, figlio di Minervina, per una presunta relazione con Fausta e inoltre Liciniano, figlio della sorella Costanza e di Licinio. Quindi anche la moglie Fausta venne uccisa soffocata o annegata nel bagno termale, riscaldato oltre la temperatura normale. La leggenda vuole che Crispo sia stato eliminato in seguito all'accusa di Fausta di averla insidiata, e quindi anche lei venne giustiziata quando Costantino riconosce l'innocenza del figlio. Forse erano entrambi vittime di falsi delatori o lei volle assicurarsi l'eliminazione dei rivali dei propri figli come successori di Costantino. Il rimorso di Costantino e grande, secondo quanto riporta ne “I Cesari” il suo polemico successore, il principe Giuliano. Si erano iniziati i lavori per la costruzione della nuova capitale Nuova Roma sul sito dell'antica Bisanzio, fornendola di un senato e di uffici pubblici simili a quelli di Roma.  Il luogo venne scelto come capitale nper le sue eccezionali qualità difensive e per la vicinanza ai minacciati confini orientali e ai danubiani. Inoltre, particolare non secondario, consentiva a Costantino di sottrarsi all'influenza invadente, arrogante e irritante degl’aristocratici presenti nel Senato romano, che tra l'altro erano della religione dell’antica Roma. Nova Roma e inaugurata e prese presto il nome di “Costantinopoli”. Rispetto alla vecchia città, la nuova era quattro volte più vasta: dove c'era un'antica porta Costantino pose un foro circolare, inoltre spostò le sue mura più a occidente di 15 stadi. La città (oggi Istanbul) resterà poi fino al 1453 capitale dell'Impero romano d’oriente. Diocesi (impero romano) e Prefettura del pretorio. Riprendendo la divisione della riforma tetrarchica dioclezianea che prevedeva due Augusti e due Cesari, l'Impero venne ridisegnato e suddiviso in quattro prefetture, tutte facenti capo a un unico Imperatore: delle Gallie, comprendente la Gallia transalpina, la Spagna e la Britannia;  d'Italia, comprendente l'Italia, la Sicilia, Sardegna e Corsica, e l'Africa dalle Sirti alla Mauretania Caesariensis; d'Oriente, comprendente tutte le province orientali con l'eccezione delle isole di Lemno, Imbro e Samotracia, l'Egitto e la pentapoli di Libia, oltre alla Tracia e la Mesia inferiore; d'Illirico, comprendente le province balcaniche, vale a dire dalla Macedonia, alla Tessaglia, a Creta all'Ellade, ai due Epiri, all'Illiria, a Dacia, Triballia e Mesia superiore, oltre alle Pannonie sino alla Valeria. All'interno di queste prefetture mantenne rigidamente separati il potere civile e politico, da quello militare: la giurisdizione civile e giudiziaria era affidata a un prefetto del pretorio, cui erano subordinati i vicari delle diocesi e i governatori delle province. I prefetti furono, quindi, privati in parte del potere militare,[65] lasciando loro ancora compiti di logistica militare,[66] e diventarono amministratori delle grandi prefetture in cui era diviso l'impero. Essi svolgevano le seguenti funzioni:[67]  la suprema amministrazione della giustizia e delle finanze (sostenendo anche le spese militari[68]). l'applicazione e, in alcuni casi, la modifica degli editti generali. controllo dei governatori delle province, i quali in caso di negligenza o corruzione venivano destituiti e/o puniti. Inoltre il tribunale del prefetto poteva giudicare ogni questione importante, civile o penale, e la sua sentenza era considerata definitiva, al punto che neanche gli imperatori osavano lamentarsi della sentenza del prefetto. Costantino poi controbilanciava l'importanza e la potenza dei prefetti del pretorio con la breve durata della carica. Ogni prefettura, divisa in tredici diocesi, di cui una (Oriente) era governata da un Conte d'Oriente, un'altra (Egitto) da un Prefetto Augusteo, e le altre undici da altrettanti Vicari o sottoprefetti, i quali sottostavano all'autorità del prefetto del pretorio.[69] Ogni diocesi era ulteriormente suddivisa in province.  L'apparato burocratico venne snellito e suddiviso tra gli affari della corte, affidati a quattro alti dignitari, e gli affari dello Stato, affidati a tre alti funzionari: costoro, insieme con i prefetti urbani componevano il Concistorium principis o Sacrum concistorium ("Consiglio del principe" o "Sacro collegio").  I quattro dignitari che regolavano le attività della corte erano:  il comes rerum privatarum ("ministro degli affari privati"), che si occupava di gestire il patrimonio privato dell'imperatore[70], il praepositus sacri cubiculi ("preposito del sacro cubicolo"), una sorta di gran ciambellano che si occupava della vita della corte imperiale e da cui dipendevano cortigiani e schiavi, due comites domesticorum ("ministro dei domestici"), responsabili l'uno del personale che svolgeva il proprio servizio a piedi e l'altro del personale a cavallo e della guardia imperiale. I tre alti funzionari a cui competeva l'amministrazione dello Stato erano:  il magister officiorum ("maestro degli uffici"), un cancellerie che si occupava dell'amministrazione interna e delle relazioni esterne, il quaestor sacri palatii ("questore del sacro palazzo"), con competenza in materia di leggi e di giustizia, che dirigeva inoltre il "Consiglio del principe", il comes sacrarum largitionum ("ministro delle sacre elargizioni"), che si occupava delle materie finanziarie statali. La politica amministrativa di Costantino è controversa e in particolare è stata aspramente criticata dallo storico illuminista Edward Gibbon, autore di Storia del declino e della caduta dell'Impero romano (opera composta tra il 1776 e il 1788), che dà di Costantino un giudizio estremamente negativo. Per Gibbon al tempo di Costantino: si istituì un poderoso sistema burocratico, coniando cariche sconosciute in antecedenza (magnifico, illustre, conte, duca, ecc.), tali da creare un controllo vessatorio e di spionaggio su tutte le province; i pretoriani erano in numero spropositato ed erano di origine armena, con corazze di argento e d'oro; la capitale trasferita da Roma a Costantinopoli (depredando importanti opere di Fidia e altri scultori della Grecia classica) accentuò l'emarginazione del Senato romano; la tassazione esorbitante finì per spopolare anche una delle regioni (Campania) più produttive dell'Italia; si accentuò, inoltre, la disgregazione dell'esercito romano, sia con la nomina di barbari al massimo comando militare, sia con la penalizzazione economica dei soldati che salvaguardavano il confine (limes) dalle invasioni. Complessivamente, per Gibbon, neppure Caligola o Nerone fecero più danni all'impero di Costantino.  Politica estera e frontiere  Lo stesso argomento in dettaglio: Campagne germanico-sarmatiche di Costantino, Limes romano, Diga del Diavolo e Brazda lui Novac (limes).  Le frontiere romane settentrionali e orientali al tempo di Costantino, con i territori acquisiti nel corso del trentennio di campagne militari (dal 306 al 337). La mappa qui sopra rappresenta anche il mondo romano poco dopo la morte di Costantino (337), con i territori "spartiti" tra i suoi tre figli (Costante I, Costantino II e Costanzo II) e i due nipoti (Dalmazio e Annibaliano) Già ai tempi in cui era stato Cesare in Occidente, attorno agli anni 306-310,[71] Costantino ottenne grandi successi militari su Alemanni e Franchi, di cui si dice riuscì a catturare i loro re, dati in pasto alle belve durante i giochi gladiatorii.[72]  Divenuto unico augusto in Occidente nel 313 respinse una nuova invasione di Franchi in Gallia. Dopo una prima crisi con Licinio, al termine della quale i due augusti trovarono un nuovo equilibrio strategico nel 317, ottenne nuovi successi contro le genti barbare lungo il Danubio. Egli, infatti, batté sia i Sarmati Iazigi nel 322[5][73] sia i Goti nel 323.[73]  Dopo il 316/317, avendo ottenuto da Licinio anche l'Illirico, Costantino non solo respinse numerose incursioni di Sarmati Iazigi e Goti (tra gli anni 322[73] e 332), ma potrebbe aver dato inizio alla costruzione di due nuovi tratti di limes: il primo nella pianura ungherese chiamato diga del Diavolo, formato da una serie di terrapieni che da Aquincum collegavano il fiume Tibisco, per poi piegare verso sud e collegare il fiume Mureș, percorrere il Banato fino al Danubio all'altezza di Viminacium;[74] il secondo nella Romania meridionale chiamato Brazda lui Novac, che correva parallelo a nord del basso corso del Danubio, da Drobeta alla pianura della Valacchia orientale fin quasi al fiume Siret.[74]  Divenuto unico augusto nel 324, affidò ai figli la difesa dell'Occidente contro Franchi e Alamanni (contro i quali ottenne nuovi successi nel 328[75] e il titolo di Alamannicus maximus, insieme con Costantino II[6]) mentre lui stesso combatteva sul confine danubiano i Goti (332[7]) e i Sarmati (335[7][8]). Divise l'impero tra i figli assegnando a Costantino II Gallia, Spagna e Britannia, a Costanzo II le province asiatiche, l'Oriente e l'Egitto e a Costante I l'Italia, l'Illirico e le province africane. Alla sua morte nel 337 si preparava ad affrontare in Oriente i Persiani.  Costantino nei suoi oltre trent'anni di regno aveva aspirato a riconquistare, non solo tutti i territori appartenuti all'Impero di Traiano,[76] ma soprattutto a diventare il protettore di tutti i Cristiani anche oltre le frontiere imperiali. Egli, infatti, costrinse molte delle popolazioni barbariche sottomesse a nord del Danubio, a sottoscrivere clausole religiose dopo averle battute più e più volte, come nel caso dei Sarmati e dei Goti. Identica sorte sarebbe toccata al regno d'Armenia e ai Persiani se non fosse morto nel 337.[77]  Esercito  Lo stesso argomento in dettaglio: Riforma costantiniana dell'esercito romano.  Mappa della ex-Dacia romana con il suo complesso sistema di fortificazioni e difesa. In grigio la cosiddetta diga del Diavolo e a destra (in verde) il Brazda lui Novac, di epoca costantiniana. Le prime vere modifiche apportate da Costantino nella nuova organizzazione dell'esercito romano, furono effettuate subito dopo la vittoriosa battaglia di Ponte Milvio contro il rivale Massenzio nel 312. Egli infatti sciolse definitivamente la guardia pretoriana e il reparto di cavalleria degli equites singulares e fece smantellare l'accampamento del Viminale.[78] Il posto dei pretoriani fu sostituito dalla nuova formazione delle schole palatine, le quali ebbero lunga vita poi a Bisanzio ormai legate alla persona dell'imperatore e destinate a seguirlo nei suoi spostamenti, e non più alla Capitale.[79]  Una nuova serie di riforme furono poi portate a termine una volta divenuto unico Augusto, subito dopo la sconfitta definitiva di Licinio nel 324.[79] La guida dell'esercito fu sottratta ai prefetti del pretorio, e ora affidata a: il magister peditum (per la fanteria) e il magister equitum (per la cavalleria).[65] I due titoli potevano tuttavia essere riuniti in una sola persona, tanto che in questo caso la denominazione della carica si trasformava magister peditum et equitum o magister utriusque militiae[80] (carica istituita verso la fine del regno, con due funzionari praesentalis[81]). I gradi più bassi della nuova gerarchia militare prevedevano, oltre ai soliti centurioni e tribuni, anche i cosiddetti duces,[65] i quali avevano il comando territoriale di specifici tratti di frontiera provinciale, a cui erano affidate truppe di limitanei. Costantino, inoltre, sempre secondo Zosimo, rimosse dalle frontiere la maggior parte dei soldati e li insediò nelle città (si tratta della creazione dei cosiddetti comitatensi):[82]  «[...] città che non avevano bisogno di protezione, privò del soccorso quelle minacciate dai barbari [lungo le frontiere] e procurò alle città tranquille il danno generato dalla soldataglia, per questi motivi molte città risultano deserte. Lasciò anche che i soldati rammollissero, frequentando i teatri, e abbandonandosi alla vita dissoluta.»  (Zosimo, Storia nuova, II, 34.2.)  Nell'evoluzione successiva il generale in campo svolse sempre più le funzioni di una sorta di ministro della guerra, mentre vennero create le cariche del magister equitum praesentalis e del magister peditum praesentalis ai quali veniva affidato il comando effettivo sul campo. Costantino introdusse una riforma monetaria, necessaria anche per fare fronte alla scarsità di monete d'oro. Venne, quindi, introdotto il solidus d'oro, con un peso di 4,54 g pari a 1/72 di libbra, cioè più leggero (anche se più largo e sottile) dell'aureo, che in quel momento valeva 1/60 di libbra. Si ritornò inoltre al sistema bimetallico di Augusto coniando la siliqua d'argento, di 2,27 g pari a 1/144 di libbra: il miliarense, con un valore doppio della siliqua, aveva quindi lo stesso peso del solidus. Per quanto riguarda i bronzi, il follis, ormai fortemente svalutato, venne sostituito da una moneta di 3 g, detto nummus centonionalis, cioè 1/100 di siliqua.  Fu una riforma duratura, tanto che il peso aureo del solido introdotto con la riforma di Costantino rimase invariato per secoli anche durante l'impero bizantino. Ma a livello sociale le conseguenze furono catastrofiche: tutti coloro che non avevano accesso alla nuova moneta d'oro, infatti, dovettero subire le conseguenze dell'inflazione, a causa di una svalutazione rispetto al solidus delle altre monete d'argento e di rame, che non erano più protette dallo Stato. Il risultato fu una insuperabile spaccatura tra una minoranza privilegiata di ricchi e la massa dei poveri[83].  Morte e successione  Albero genealogico della dinastia costantiniana: i discendenti di Costantino. Costantino morì il 22 maggio 337 non molto lontano da Nicomedia (in località Achyrona),[14] mentre preparava una campagna militare contro i Sasanidi. La sua salma fu portata a Costantinopoli e sepolta in un sarcofago nella Chiesa dei Santi Apostoli[84].  Costantino preferì non nominare un unico erede, ma dividere il potere tra i suoi tre figli cesari Costante I, Costantino II e Costanzo II e due nipoti Dalmazio e Annibaliano.[85] Costanzo, che era impegnato in Mesopotamia settentrionale a supervisionare la costruzione delle fortificazioni frontaliere,[86] si affrettò a tornare a Costantinopoli, dove organizzò e presenziò alle cerimonie funebri del padre: con questo gesto rafforzò i suoi diritti come successore e ottenne il sostegno dell'esercito, componente fondamentale della politica di Costantino.[87]  Durante l'estate del 337 si ebbe un eccidio, per mano dell'esercito, dei membri maschili della dinastia costantiniana e di altri esponenti di grande rilievo dello stato: solo i tre figli di Costantino e due suoi nipoti bambini (Gallo e Giuliano, figli del fratellastro Giulio Costanzo) furono risparmiati.[88] Le motivazioni dietro questa strage non sono chiare: secondo Eutropio Costanzo non fu tra i suoi promotori ma non tentò certo di opporvisi e condonò gli assassini;[89] Zosimo invece afferma che Costanzo fu l'organizzatore dell'eccidio.[90] Nel settembre dello stesso anno i tre cesari rimasti (Dalmazio e Annibaliano furono vittime della purga) si riunirono a Sirmio in Pannonia, dove il 9 settembre furono acclamati imperatori dall'esercito e si spartirono l'Impero: Costanzo si vide riconosciuta la sovranità sull'Oriente, Costante sull'Illirico e Costantino II sulla parte più occidentale (Gallie, Hispania e Britannia). La divisione del potere tra i tre fratelli durò poco: Costantino II morì nel 340, mentre cercava di rovesciare Costante, e Costanzo guadagnò i Balcani; nel 350 Costante fu rovesciato dall'usurpatore Magnenzio, e Costanzo divenne unico imperatore.  Icona ortodossa bulgara con l'imperatore e la madre Elena e la "vera croce". Il comportamento costantiniano in tema di culto uffiziale ha dato spazio a molte controversie fra i filosofi -- controversie particolarmente aspre quando essi hanno preteso di valutare non solo il comportamento pubblico, ma le sue convinzioni interiori. In alternativa all'opinione tradizionale, secondo cui Costantino si sarebbe convertito al cristianesimo poco prima della battaglia di Ponte Milvio, è stata, invece, asserita la sua costante adesione al CULTO SOLARE, mettendo in dubbio perfino il battesimo in punto di morte. Secondo altri filosofi, poi, il culto uffiziale e per Costantino un puro e semplice instrumentum regni. Burckhardt afferma: «Nel caso di un uomo geniale, al quale l'ambizione e la sete di dominio non concedono un'ora di tregua, non si può parlare del sacro consapevole -- un uomo simile è essenzialmente a-religioso, e lo sarebbe anche se egli immaginasse di far parte integrante di una comunità religiosa. Secondo altri filosofi ancora, poi, occorre distinguere fra convinzioni private e comportamento pubblico, vincolato dalla necessità di conservare il consenso delle proprie truppe e dei propri sudditi, qualunque ne fosse l'orientamento religioso. Da questo punto di vista è utile distinguere fra il comportamento di Costantino antecedente e quello successivo alla battaglia di Crisopoli, grazie alla quale consegue il dominio assoluto sull'impero.  Dopo questo, si trova comunque d'accordo molti studiosi di quell'epoca. Tra costoro, Veyne sostiene con sicurezza l'autenticità della conversione di Costantino, ricordando, con Bury, che la sua rivoluzione e forse l'atto più audace mai compiuto da un autocrate in spregio alla grande maggioranza dei suoi sudditi. E ciò in considerazione del fatto che la popolazione che segue il culto dei galilei e circa il 8% del totale nel principato di Costantino.Veyne ha inoltre proposto un'interessante teoria per tentare di spiegare in modo razionale il fenomeno leggendario della visione che potrebbe aver spinto Costantino a una conversione solo apparentemente improvvisa. Veyne ipotizza che un sogno abbia potuto avere azione catalitica su un terreno psicologico predisposto da esperienze e suggestioni vissute precedentemente. È comunque fuori di dubbio la sincerità costantiniana nella ricerca dell'unità e concordia del culto, la cui necessità deriva da un preciso disegno politico che considera l'unità del mondo condizione indispensabile alla stabilità della potenza imperiale. Costantino infatti interpreta in questo senso l'antico tema, caro alla Roma sul principato della “pax deorum”, nel senso che la forza del principato non deriva semplicemente dalle azioni di un principe illuminato, da una saggia amministrazione e dall'efficienza di un ben strutturato e disciplinato esercito, ma direttamente dalla benevolenza del divino. Mentre però, nella religione della Roma antica, vi era un rapporto DIRETTO tra il potere del principe e il divino, il principe non puo ignorare istituzioni che, tramite i suoi vescovi, adita la fonte divina del potere. Costantino non puo fare a meno di essere co-involto nelle lotte teologiche. Su una tale base ideologica, questa ricerca dell'unità e della concordia comporta quindi anche interventi molto duri nei confronti di coloro che il principe considera eretici, che sono trattati duramente, dei pagani. I conflitti teologici si trovarono dunque ad avere una ricaduta politica, mentre d'altra parte le sorti interne del principato sono sempre più dipendenti dai risultati delle lotte teologiche. Gli stessi vescovi, infatti, sollecitavano continuamente l'intervento del principe per la corretta applicazione delle decisioni dei concili, per la convocazione dei sinodi e anche per la definizione di controversie teologiche. Ogni successo di una fazione comportava la deposizione e l'esilio dei capi della fazione opposta, con i metodi tipici della lotta politica. La religione della Roma Antica si era fortemente trasformata: sulla spinta della insicurezza dei tempi e dell'influsso dei culti di origine orientale, le sue caratteristiche pubbliche e ritualistiche hanno sempre più perso di significato di fronte a una più intensa e personale spiritualità. Si era andato diffondendo un sincretismo venato di mono-teismo (il colto solare di un divino unico, il re sole identificato con Giove -- e si tendeva a vedere nelle immagini degli dei tradizionali – altri che Giove -- l'espressione di un unico essere divino: Giove. Una forma politica a questa aspirazione sincretistica e data dall'imperatore Aureliano con l'istituzione del culto ufficiale del Sole Invitto con elementi del mitraismo e di altri culti solari di origine orientale. Il culto e diffuso nell'esercito, soprattutto nell'occidente, e a esso non furono estranei né Costanzo Cloro, il padre di Costantino, né Costantino stesso. Costantino e certamente il primo a comprendere l'importanza della religione per rafforzare la coesione culturale e politica dell'impero romano.  Fa vietare il concubinato dei mariti, mentre fu reso più difficile il ripudio, antenato del divorzio. La domenica e elevata a giorno festivo pubblico. Lo Stato inizia a finanziare il clero pubblico e la costruzione di nuove edificii o fu l'imperatore a farle erigere personalmente, ad esempio a Roma (Antica basilica di Pietro nel monte Vaticano), ma especialmente fuora di Roma: a  Betlemme (Basilica della Natività), Gerusalemme (Basilica del Santo Sepolcro) e Costantinopoli (Chiesa dei Santi Apostoli). In un decreto concesse che su richiesta di una sola delle parti contendenti, le cause civili potessero essere giudicate innanzi ai vescovi. Fu concesso agli ecclesiastici l'esonero dagli oneri municipali. Moneta di Costantino, con una rappresentazione del Sol Invictus e l'iscrizione SOLI INVICTO COMITI, "al Sole Invitto compagno"  Moneta di Costantino con la rappresentazione del monogramma di Cristo sopra il labaro imperiale Le monete coniate da Costantino forniscono indirettamente notizie sull'atteggiamento pubblico di Costantino verso i culti religiosi. Quando ancora ricopriva il ruolo di principe, alcune emissioni si inserirono nel classico filone della Tetrarchia, con dediche «al Genio del Popolo Romano» ("Gen Pop Romani"), provenienti specialmente dalla zecca di Londinium (Londra). Ancora per alcuni anni dopo la battaglia di Ponte Milvio le zecche orientali (Alessandria, Antiochia, Cyzicus, Nicomedia, ecc.) continuarono a produrre monete dedicate «a Giove salvatore» (Iovi conservatori). Nello stesso periodo le monete delle zecche occidentali (Arles, Londra, Lione, Augusta Treverorum, Pavia, ecc) continuarono a coniare monete dedicate «al Sole invitto compagno» e, nel caso della zecca di Pavia, anche «a Marte salvatore» (Marti Conservatori) e «a Marte Protettore della Patria» (Marti Patri Conservatori).  L'attributo «compagno» riferito al Sole, che manca in monete analoghe di precedenti imperatori, è singolare e occorre chiedersene il significato. Normalmente viene interpretato come «al compagno (di Costantino), il Sole Invitto»; indicherebbe quindi una indiretta deificazione dell'imperatore stesso. Il vero significato, però, potrebbe anche essere completamente diverso. Nell'età imperiale, infatti, la parola latina comes, oltre che «compagno» indicava un funzionario imperiale e perciò da essa è derivato il titolo nobiliare «conte». Alle orecchie dei galilei, quindi, questa strana legenda poteva ricordare che il sole non era un dio, ma una potenza subordinata alla divinità suprema. A sua volta l'imperatore si presenta come l'autorità suprema in terra allo stesso modo come il sole lo era in cielo; autorità, però, entrambe subordinate.  Questa interpretazione è confermata dall'emissione  (durante la prima guerra civile contro Licinio), la cui legenda recita: SOLI INVIC COM DN (soli invicto comiti domini), che potrebbe essere tradotto come «al sole invitto compagno del signore», ma che sembra più logico tradurre «al sole invitto, ministro del Signore».  La maggior parte delle zecche sia in oriente sia in occidente passarono a emissioni laiche benaugurali, fra cui per prima quella con la legenda «Liete vittorie al principe perpetuo» (Victoriae laetae prin. perp.).Da quell'anno dalle monete bronzee di Costantino iniziano a sparire gli dei tradizionali, come Elio, Marte, Giove, sostituiti dall'immagine solitaria dell'imperatore, che volge gli occhi verso l'alto, ad un divino generico, che può essere interpretata come Giove. La monetazione aurea invece mantiene ancora a lungo gli dei tradizionali, forse perché rivolta ai patrizi e a persone di rango elevato, ancora legate alla religione tradizionale  Le monete con simboli dei galilei o supposti tali sono rare e costituiscono solo circa l'1% delle tipologie conosciute. La zecca di Pavia (Ticinum) conia nel 315 un medaglione d'argento in cui il monogramma di Cristo era riprodotto sopra l'elmo piumato dell'imperatore. Solo dopo la vittoria su Licinio compare la tipologia con il labaro imperiale e il monogramma di Cristo, che trafiggono un serpente, simbolo appunto di Licinio,[99] e simultaneamente scompaiono del tutto dalle monete sia le immagini del sole invitto sia la corona radiata, altro simbolo apollineo e solare.  Nel 326 appare il diadema, simbolo monarchico di derivazione ellenistica, e poco dopo il sovrano viene raffigurato con lo sguardo rivolto in alto, come nei ritratti ellenistici, a simboleggiare il contatto privilegiato tra l'imperatore e la divinità.  L'ambiguitas constantiniana Quanto sopra osservato a proposito delle monete di Costantino, cioè la volontà imperiale di presentarsi come un prediletto dal cielo, senza, però, mettere in chiaro quale fosse la divinità, può essere rilevato in molti altri aspetti dell'impero di Costantino.  Il ruolo determinante giocato da Costantino nell'ambito della chiesa cristiana (ad esempio tramite la convocazione di concili e il presiederne i lavori) non deve oscurare il fatto che Costantino svolse funzioni analoghe nell'ambito di altri culti. Egli infatti mantenne la carica di pontefice massimo della religione pagana; carica che era stata di tutti gli imperatori romani a partire da Augusto. Lo stesso fecero i suoi successori cristiani fino al 375.  Anche la battaglia di Ponte Milvio, con cui nel 312 Costantino sconfisse Massenzio, diede origine a leggende discordanti, che, però, potrebbero risalire tutte a Costantino, sempre attento a presentarsi come prescelto dal divino, qualunque essa fosse. Per queste leggende si veda la voce in hoc signo vinces. In questo senso si spiegano sia l'editto imperiale di tolleranza o l'editto di Milano del 313 (conferma rafforzata di un editto di Galerio del 30 aprile 311), sia l'iscrizione sull'arco di Costantino: entrambi citano una generica "divinità", che poteva dunque essere identificata sia con il Dio cristiano, sia con il dio solare. L'ambiguità dell'Editto di Milano, però, è ovvia, dato che esso fu proclamato da Licinio.  Costantino persegue probabilmente il proposito di riavvicinare i culti presenti nell'impero, nel quadro di un non troppo definito monoteismo imperiale. Vi fu una grande confusione da parte degli osservatori esterni del cristianesimo che portò molti ad identificare i cristiani come adoratori del sole. Molto prima che Eliogabalo e i suoi successori diffondessero a Roma il culto siriaco del Sol invictus, molti romani ritenevano che i cristiani adorassero il sole:  «Gli adoratori di Serapide sono cristiani e quelli che sono devoti al dio Serapide chiamano se stessi Vicari di Cristo»  (Adriano)  «…molti ritengono che il Dio cristiano sia il Sole perché è un fatto noto che noi preghiamo rivolti verso il Sole sorgente e che nel Giorno del Sole ci diamo alla gioia»  (Tertulliano, Ad nationes, apologeticum, de testimonio animae)  Questa confusione era senz'altro favorita dal fatto che Gesù era risorto nel primo giorno della settimana, quello dedicato al sole, e perciò i cristiani avevano l'abitudine di festeggiare proprio in quel giorno (oggi chiamato domenica):  «Nel giorno detto del Sole si radunano in uno stesso luogo tutti coloro che abitano nelle città o in campagna, si leggono le memorie degli apostoli o le scritture dei profeti, per quanto il tempo lo consenta; poi, quando il lettore ha terminato, il presidente istruisce a parole ed esorta all'imitazione di quei buoni esempi. Poi ci alziamo tutti e preghiamo e, come detto poco prima, quando le preghiere hanno termine, viene portato pane, vino e acqua, e il presidente offre preghiere e ringraziamenti, secondo la sua capacità, e il popolo dà il suo assenso, dicendo Amen. Poi viene la distribuzione e la partecipazione a ciò che è stato dato con azioni di grazie, e a coloro che sono assenti viene portata una parte dai diaconi. Coloro che possono, e vogliono, danno quanto ritengono possa servire: la colletta è depositata al presidente, che la usa per gli orfani e le vedove e per quelli che, per malattia o altre cause, sono in necessità, e per quelli che sono in catene e per gli stranieri che abitano presso di noi, in breve per tutti quelli che ne hanno bisogno.»  (Giustino, II secolo)  Questa scelta liturgica era inevitabile. Il giorno del sole, infatti, non solo era proprio il primo della settimana, quello in cui Gesù era risorto, ma anche aveva una valenza metaforica teologicamente e scritturalmente corretta. L'abitudine di chiamare tale giorno "giorno del Signore" (dies dominica, da cui, appunto il nome domenica) compare per la prima volta alla fine del primo secolo (Apocalisse 1, 10[100]) e poco dopo nella didaché, prima cioè che il culto del Sol Invictus prendesse piede.  Anche la decisione di celebrare la nascita di Cristo in coincidenza col solstizio d'inverno ha dato origine a molte controversie, dato che le date di nascita di Gesù fornite dai Vangeli sono imprecise e di difficile interpretazione. Le prime notizie di feste cristiane per celebrare la nascita di Cristo risalgono circa all'anno 200. Clemente Alessandrino riporta diverse date festeggiate in Egitto, che sembrano coincidere con l'Epifania o col periodo pasquale (cfr. Data di nascita di Gesù). Nel 204 circa, invece, Ippolito di Roma propone il 25 dicembre (e la correttezza storica di tale scelta sembrerebbe essere stata approssimativamente confermata da recenti scoperte). La decisione delle autorità romane, tuttavia, di uniformare la data delle celebrazioni proprio il 25 dicembre potrebbe essere stata stabilita in buona parte per motivi "politici" in modo da congiungersi e sovrapporsi alle feste pagane dei Saturnali e del Sol invictus.  La confusione delle date liturgiche fra i culti continuò per un certo periodo, anche perché ovviamente l'editto di Tessalonica, che proibiva i culti diversi dal cristianesimo, non determinò la conversione immediata dei pagani. Ancora ottanta anni dopo, nel 460, il papa Leone I sconsolato scriveva:  «È così tanto stimata questa religione del Sole che alcuni cristiani, prima di entrare nella Basilica di San Pietro in Vaticano, dopo aver salito la scalinata, si volgono verso il Sole e piegando la testa si inchinano in onore dell’astro fulgente. Siamo angosciati e ci addoloriamo molto per questo fatto che viene ripetuto per mentalità pagana. I cristiani devono astenersi da ogni apparenza di ossequio a questo culto degli dei.»  (Papa Leone I, 7° sermone tenuto nel Natale del 460 - XXVII-4)  La sovrapposizione fra culto solare e culto cristiano ha dato origine a molte controversie, tanto che alcuni hanno sostenuto che il cristianesimo sia stato pesantemente influenzato dal mitraismo e dal culto del Sol invictus o addirittura trovi in essi la sua radice vera. Questa ipotesi si forma durante il Rinascimento, ma si è diffusa negli ultimi decenni del XX secolo, tanto da essere considerata (se non accettata) perfino negli ambienti più progressisti delle chiese cristiane. Un esempio di questa ipotesi ce lo fornisce il vescovo siriano Jacob Bar-Salibi che, alla fine del XII secolo, scrive:[102]  «Era costume dei pagani celebrare al 25 dicembre la nascita del Sole, in onore del quale accendevano fuochi come segno di festività. Anche i Cristiani prendevano parte a queste solennità. Quando i dotti della Chiesa notarono che i Cristiani erano fin troppo legati a questa festività, decisero in concilio che la "vera" Natività doveva essere proclamata in quel giorno.»  (Jacob Bar-Salibi)  Anche l'allora cardinale Joseph Ratzinger (poi papa Benedetto XVI) parla della cristianizzazione della festa antico romana dedicata al sole e agli dei che lo rappresentavano.[103]  Nel 321 fu introdotta la settimana di sette giorni e fu decretato come giorno di riposo il dies Solis (il "giorno del Sole", che corrisponde alla nostra domenica).  (LA) «Imperator Constantinus.Omnes iudices urbanaeque plebes et artium officia cunctarum venerabili die solis quiescant. ruri tamen positi agrorum culturae libere licenterque inserviant, quoniam frequenter evenit, ut non alio aptius die frumenta sulcis aut vineae scrobibus commendentur, ne occasione momenti pereat commoditas caelesti provisione concessa. * Const. A. Helpidio. * <a 321 PP. V NON. MART. CRISPO II ET CONSTANTINO II CONSS.>»  (IT) «Nel venerabile giorno del Sole, si riposino i magistrati e gli abitanti delle città, e si lascino chiusi tutti i negozi. Nelle campagne, però, la gente sia libera legalmente di continuare il proprio lavoro, perché spesso capita che non si possa rimandare la mietitura del grano o la cura delle vigne; sia così, per timore che negando il momento giusto per tali lavori, vada perduto il momento opportuno, stabilito dal cielo.»  (Codice giustinianeo 3.12.2)  Benché dopo la sconfitta di Licinio il cristianesimo di Costantino trovi sempre più conferme pubbliche, occorre non dimenticare che: «Mentre egli e sua madre abbelliscono la Palestina e le grandi città dell'impero di sfarzosissime chiese, nella nuova Costantinopoli egli fa costruire anche dei templi pagani. Due di questi, quello della Madre degli dèi e quello dei Dioscuri, possono essere stati semplici edifici decorativi destinati a contenere le statue collocatevi come opere d'arte, ma il tempio e la statua di Tyche, personificazione divinizzata della città, dovevano essere oggetto di un vero e proprio culto».[104]  Probabilmente il progetto politico di Costantino di tollerare il Cristianesimo, se non frutto di una conversione personale autentica, nacque dalla presa d'atto del fallimento della persecuzione contro i cristiani scatenata da Diocleziano. La sconfitta così clamorosa di Diocleziano aveva dovuto persuadere Costantino che l'Impero aveva bisogno di una nuova base morale che la religione tradizionale era incapace di offrirgli. Bisognava, quindi, trasformare la forza potenzialmente disgregante delle comunità cristiane, dotate di grandi capacità organizzative oltre che di grande entusiasmo, in una forza di coesione per l'Impero. Questo è il senso profondo della svolta costantiniana, che finì per chiudere la fase movimentista del cristianesimo trascendente e aprire quella del cristianesimo politicamente trionfante. Dal 313 in poi i cristiani furono inseriti sempre di più nei gangli vitali del potere imperiale. Inoltre, alla Chiesa cristiana, già alimentata cospicuamente dal flusso delle contribuzioni spontanee dei fedeli, furono concesse numerose esenzioni e privilegi fiscali, moltiplicandone la ricchezza. Dopo l'esercito, la Chiesa cristiana grazie a Costantino stava diventando il secondo pilastro dell'Impero.[105]  La leggenda della donazione costantiniana Secondo una tarda leggenda medievale, Costantino, dopo la battaglia di Ponte Milvio, fece dono a papa Silvestro I (convinto di essere stato da lui guarito dalla lebbra), dello splendido Palazzo Laterano (di proprietà della moglie Fausta), consegnando così al papa romano la città di Roma e dando avvio, con quell'atto di devoluzione, al potere temporale dei papi,[106] ma la cosiddetta Donazione di Costantino (nota in latino come "Constitutum Constantini", ossia "decisione", "delibera", "editto") è un documento apocrifo conservato in copia nelle Decretali dello Pseudo-Isidoro (IX secolo) e, come interpolazione, in alcuni manoscritti del Decretum di Graziano (XII secolo). Nel 1440 il filologo italiano Lorenzo Valla[107] dimostrò in modo inequivocabile come il documento fosse un falso.   Colonna di Costantino I a Costantinopoli. Sotto di essa l'imperatore avrebbe posto amuleti pagani e reliquie cristiane a protezione della città La leggenda della donazione quindi probabilmente voleva dare un fondatore illustre, il primo imperatore cristiano, al successivo disegno politico di imporre il Cristianesimo come unica religione ufficiale dell'impero romano. Tale sviluppo però ebbe luogo solo a partire dall'epoca tarda, con Graziano e Teodosio quindi verso la fine del IV secolo (391). Dopo la caduta dell'Impero d'occidente, nel 476, la "donazione" divenne la base giuridica del Papato per legittimare il proprio potere temporale sulla città di Roma e la sua indipendenza dall'imperatore.  La conversione Costantino mantenne il titolo di Pontifex Maximus che gli spettava come imperatore e condusse una politica di mediazione tra i vari culti dell'Impero e anche tra le diverse correnti del nascente Cristianesimo.  Ricevette il battesimo cristiano solo in punto di morte,[14][108] per mano di un suo consigliere, il vescovo ariano Eusebio di Nicomedia.[109] Alcuni storici, però, ritengono che questo racconto possa essere stato tramandato per motivi politico-religiosi e propagandistici.[110]. Va detto che il battesimo ricevuto sul letto di morte da catecumeno era un'usanza del tempo, quando non essendo stato ancora riconosciuto il sacramento della confessione si preferiva annullare tutti i propri peccati prima della morte, che avveniva così in albis.  Senza escludere l'utilità politica attesa da Costantino dall'alleanza con la Chiesa cattolica, alcuni documenti risalenti al periodo dell'Editto di Milano rivelerebbero un avvicinamento dell'imperatore al cristianesimo ben più marcato di quanto descritto da parte della storiografia, in una lettera del 314-315 di Costantino a Elafio, suo vicario imperiale in Africa, si rivolgeva infatti circa lo scisma donatista con queste parole[111]: «… non sarò mai soddisfatto né mi aspetterò prosperità e felicità dal potere misericordioso dell'Onnipotente fino a quando non sentirò che tutti gli uomini offrono al Santissimo la retta adorazione della religione cattolica in una comune fratellanza…»  solo dieci anni più tardi scriveva a Sapore II re di Persia con medesimi accenti[112]: «…Io sarò soddisfatto solo quando vedrò che tutti pregheranno, con fraterna concordia d'intenti, nell'autentico culto della Chiesa universale…»  ciò farebbe pensare che il battesimo venne amministrato in punto di morte a Nicomedia solo come termine di un lungo processo di conversione che non fu estraneo a contaminazioni con ambienti dell'arianesimo, nella cui fede fu battezzato. Tali contaminazioni gli costarono la mancata canonizzazione cattolica (per la Chiesa cattolica, coerentemente, la santificazione spetta solo a coloro che sono stati battezzati secondo le norme cattoliche) e gli concessero l'inserimento ufficiale solo tra i santi ortodossi; accadde diversamente per la madre Elena, che si commemora il 18 di agosto, il cui battesimo fu invece celebrato in osservanza di tale liturgia. Fu dunque l'adesione all'arianesimo negli ultimi anni della sua vita, quelli successivi alla partenza per la nuova Costantinopoli, a indurre la Chiesa di Roma a prenderne le distanze; ciò avvenne attraverso la riscrittura agiografica della vita, da parte di papa Silvestro I (314–335) così come descritta negli Actus Silvestri.[113].  Non è altresì da escludere che sulla conversione di Costantino abbiano influito in modo determinante gli eventi succedutisi dagli inizi del IV secolo con la constatazione del fallimento delle persecuzioni del 303 e l'editto di Galerio del 311 che tentava di far rientrare la religione cristiana nell'alveo di tutte le altre religioni ammesse nell'impero, che tradiva il timore dell'universalismo del cristianesimo che metteva a rischio le istituzioni romane basate sulle differenze etniche[114].  Dal papiro di Londra numero 878, che contiene una parte di un editto del 324, e da un'attenta riconsiderazione storica pare che Costantino fosse animato da "un effettivo accostamento al sentimento cristiano"[115].  Che sia stato per convinzione personale o per calcolo politico, Costantino appoggiò comunque la religione cristiana soprattutto dopo l'eliminazione di Licinio nel 324, costruendo basiliche a Roma, Gerusalemme e nella stessa Costantinopoli; conferì alle chiese il diritto di ricevere beni in eredità e quelle maggiori furono dotate di vaste proprietà; diede ai vescovi vari privilegi e poteri giudiziari, quali quello di essere giudicati da loro pari ponendo le basi al principio relativo al vescovo di Roma del prima sedes a nemine iudicatur; concesse gli episcopalis audientia. Fu in epoca costantiniana inoltre, una volta identificata la Chiesa secondo la definizione paolina di Corpus Mysticum e ritenuta capace di ricevere donazioni ed eredità, che ebbe luogo il concetto, prima sconosciuto nella legislazione romana, di persona giuridica nella successiva legislazione[116].  Il riformatore cristiano  Lo stesso argomento in dettaglio: Concilio di Nicea I.  L'icona di San Costantino nel Castello di Lari (Toscana), opera realizzata per i 1700 anni dell'editto di Milano del 313 La politica di Costantino mirava a creare una base salda per il potere imperiale sull'assioma che c'era un unico vero dio, una sola fede e quindi un unico legittimo imperatore. Nella stessa religione cristiana per questo motivo era dunque importantissima l'unità: Costantino fu promotore, pur non essendo battezzato, di diversi concili, per risolvere le questioni teologiche che dividevano la Chiesa. In tali concili presenziò come pontifex maximus dei romani o "vescovo di quanti sono fuori della chiesa".  Il primo fu quello convocato ad Arelate (primo concilio di Arles), in Francia nel 314, che confermò una sentenza emessa da una commissione di vescovi a Roma, che aveva condannato l'eresia donatista, intransigente nei confronti di tutti i cristiani che si erano piegati alla persecuzione dioclezianea: in particolare si trattava del rifiuto di riconoscere come vescovo di Cartagine Cipriano, il quale era stato consacrato da un vescovo che aveva consegnato i libri sacri.  Ancora nel 325, convocò a Nicea il primo concilio ecumenico, che lui stesso inaugurò, per risolvere la questione dell'eresia ariana: Ario, un prete alessandrino sosteneva che il Figlio non era della stessa "sostanza" del padre, ma il concilio ne condannò le tesi, proclamando l'omousia, ossia la medesima natura del Padre e del Figlio. Il concilio di Tiro del 335 condannerà tuttavia Atanasio, vescovo di Alessandria, il più accanito oppositore di Ario, soprattutto a causa delle accuse politiche che gli vennero rivolte.  L'imperatore fece costruire numerose chiese cristiane, tra cui le basiliche del Santo Sepolcro a Gerusalemme, la basilica di Mamre e la basilica della Natività a Betlemme. A Roma eleva la basilica del Laterano e la prima basilica di San Pietro. Per la sua sepoltura decise di non farsi seppellire nel mausoleo dove era già la madre a Roma, ma si fece costruire un mausoleo a Costantinopoli vicino o all'interno della chiesa dei Santi Apostoli, tra le reliquie di questi ultimi, che cercò di radunare. Eusebio di Cesarea narra che Costantino fu munifico e ornò gli edifici di oro, marmi, colonne, e splendidi arredi. Purtroppo nessuna delle basiliche originali di Costantino si è conservata fino ai giorni nostri, salvo pochi resti di fondazioni. In tutto l'impero, i templi pagani, salvo poche eccezioni, non vennero riconvertiti in chiese, ma abbandonati, perché inadatti al nuovo culto che richiedeva la presenza di numerosi fedeli all'interno. I culti pagani invece si svolgevano all'aperto, con la cella del tempio riservata al dio. Vi fu quindi la riconversione ad uso religioso di un particolare tipo di edificio romano, la basilica civile.  Culto Anche se divenuto cristiano, alla morte Costantino venne divinizzato (divus), per decreto del senato, con la cerimonia pagana dell'apoteosi, come era consuetudine per gli imperatori romani. Costantino, nonostante avesse iniziato a costruire un grandioso mausoleo di famiglia a Roma, lo lasciò a sua madre (il cd. Mausoleo di Elena) e volle essere sepolto a Costantinopoli, nella Chiesa dei Santi Apostoli, divenendo così il primo imperatore a essere sepolto in una chiesa cristiana.  Costantino è considerato santo dalla Chiesa ortodossa, che secondo il Sinassario Costantinopolitano lo celebra il 21 maggio assieme alla madre Elena.  La santità di Costantino non è riconosciuta dalla Chiesa cattolica (infatti non è riportato nel Martirologio Romano), che tuttavia celebra sua madre[117] il 18 agosto.  A livello locale il culto di san Costantino è comunque autorizzato anche nelle chiese di rito romano-latino. In Sardegna, per esempio, la festa del santo (nella tradizione religiosa sarda) ricorre il 7 luglio. Il 23 aprile invece, viene festeggiato a Siamaggiore, in provincia di Oristano, l'unico paese dell'isola in cui Costantino Magno Imperatore ne è anche il patrono. Nell'isola esistono due santuari principali dedicati all'imperatore: uno si trova a Sedilo, nel centro geografico dell'isola, in provincia di Oristano, dove il 6 e 7 luglio di ogni anno si corre l'Ardia, una sfrenata e spettacolare corsa a cavallo di origine bizantina che rievoca la vittoria del 312 a Ponte Milvio; l'altro è a Pozzomaggiore, in provincia di Sassari. Altre attestazioni minori si hanno in vari luoghi della Sicilia; l'ultimo sabato di luglio, a Capri Leone, paese in provincia di Messina, si festeggia la festività in suo onore, dove per devozione paesana egli è divenuto Santo Patrono. Suggestiva la processione serale, con il simulacro di Costantino Imperatore portato a spalla dai fedeli.  Titolatura imperiale  Lo stesso argomento in dettaglio: Monetazione tetrarchica e Monetazione di Costantino e dei Costantinidi. Titolatura imperiale Numero di volteDatazione evento Tribunicia potestas33 volte: la prima volta il 25 luglio del 306, la seconda il 10 dicembre del 306, la terza nel settembre del 307, la quarta il 10 dicembre del 307 e poi annualmente ogni 10 dicembre fino al 337 (anno in cui non assunse l'iterazione perché premorì il 22 maggio). Consolato 8 volte. ), 326 (VII), 329 (VIII). Salutatio imperatoria32 volte:[118]la prima nel 306 quando fu proclamato Caesar, poi nel 307 (2° e 3°), 308 (4°), poi rinnovata ogni anno dal luglio del 309 fino al luglio del 336.[118] Titoli vittoriosiGermanicus maximus IV ; Sarmaticus maximus III[6] (317/319,[10] 323[5] e 334[5]); Gothicus maximus II (328 o 329 e 332[5][6][7][9]); Dacicus maximus; Adiabenicus (ante 315[9]); Arabicus maximus; Armeniacus maximus (tra il 315 e il 319[10]); Britannicus maximus (ante 315[9][10]); Medicus maximus (ante 315[9][10]); Persicus maximus (nel 312/313,[12] ante 315[9]). Altri titoliCaesar (dal 306 al 308), Filius Augustorum (dal 308 al 310)[120] e Augustus (dal 310 al 337); Pius, Felix, Pontifex Maximus (dal 306);[118] Invictus, Pater Patriae, Proconsul dal 310;[121] Maximus dal 312;[2][118] Victor (in sostituzione di Invictus) dal 324;[118][122] Triumphator (titolo aggiunto tra il 328 ed il 332).[4] Località italiane in cui è attestato il culto a San Costantino imperatore Calabria  Calabria, Provincia di Vibo Valentia, San Costantino Calabro Calabria, Provincia di Vibo Valentia, Briatico, San Costantino di Briatico (frazione) Lucania  Basilicata, Provincia di Potenza, San Costantino Albanese Basilicata, Provincia di Potenza, Rivello, San Costantino (frazione) Sardegna  Sardegna, Provincia di Oristano, Siamaggiore, Parrocchiale di San Costantino Magno Imperatore Sardegna, Provincia di Oristano, Sedilo, Santuario di Santu Antinu Sardegna, Provincia di Sassari, Pozzomaggiore, Chiesa di San Costantino (Pozzomaggiore) Toscana  Toscana, Provincia di Pisa, Casciana Terme Lari, Castello dei Vicari a Lari Toscana, Provincia di Pisa, Casciana Terme Lari, Santuario di San Martino in Petraja a Casciana Terme Trentino-Alto Adige  Trentino-Alto Adige, comune di Fiè allo Sciliar, frazione di San Costantino/St. Konstantin, Chiesa di San Costantino Trentino-Alto Adige, comune di Naz-Sciaves, frazione di Raas, Chiesa dei Santi Egidio e Costantino Note ^ Costantino si attribuì il titolo Invictus dopo la propria autoproclamazione ad Augusto, nella seconda metà del 310. Si veda nel merito Thomas Grünewald, Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung, Stoccarda 1990, pp. 46-61.  Il senato di Roma gli accordò questo titolo dopo la vittoria su Massenzio. Si veda Lattanzio, De mortibus persecutorum XLIV 11-12. ^ Costantino adottò il titolo Victor in sostituzione di Invictus nel 324, dopo la vittoria definitiva su Licinio. Si veda nel merito Thomas Grünewald, Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung, Stoccarda 1990, pp. 134-144.  Costantino adottò il titolo Triumphator al tempo delle campagne gotiche sul confine danubiano. Si veda nel merito Thomas Grünewald, Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung, Stoccarda 1990, pp. 147-150.  Timothy Barnes, The victories of Constantine, in Zeitschrift fur Papyrologie und Epigraphik 20, 1976, pp.149-155.  CIL VI, 40776.  CIL VIII, 8477 (p 1920).  CIL VIII, 10064.  CIL VIII, 23116.  Iscrizione databile al 319 sulla quale troviamo diversi titoli vittoriosi: «Imperatori Caesari Flavio Constantino Maximo Pio Felici Invicto Augusto pontifici maximo, Germanico maximo III, Sarmatico maximo Britannico maximo, Arabico maximo, Medico maximo, Armenico maximo, Gothico maximo, tribunicia potestate XIIII, imperatori XIII, consuli IIII patri patriae, proconsuli, Flavius Terentianus vir perfectissimus praeses provinciae Mauretaniae Sitifensis numini maiestatique eius semper dicatissimus.»  (CIL VIII, 8412 (p 1916))  ^ Y.Le Bohec, Armi e guerrieri di Roma antica. Da Diocleziano alla caduta dell'impero, Roma, 2008, p.53; C.Scarre, Chronicle of the roman emperors, New York, 1999, p.214.  Eusebio di Cesarea, Historia ecclesiastica, IX, 8, 2-4; Giovanni Malalas, Cronografia, XII, p.311, 2-14; IL Alg-1, 3956 (Africa proconsularis, Tenoukla): Dddominis nnnostris Flavio Valerio Constantino Germanico Sarmatico Persico et Galerio Maximino Sarmatico Germanico Persico et Galerio Valerio Invicto (?) Pio Felici Augusto XI. ^ Il giorno e il mese sono largamente accettati, mentre l'anno è talvolta anticipato al 271 o ritardato al 275 o anche molto più tardi (ad esempio "ca. 280" secondo l'Enciclopedia Europea della Garzanti del 1977. Fonti WEB citano addirittura il 289.). Il suo biografo ufficiale, Eusebio di Cesarea, dice soltanto che la sua vita fu approssimativamente lunga il doppio del suo regno, cioè circa 62-63 anni. Purtroppo Eusebio dichiara che il suo regno durò 32 anni (e non 31), in quanto contava come interi anche gli spezzoni incompleti dell'anno di nascita e di morte; ciò ha indotto in errore alcuni storici, che anticipano di due anni la sua nascita. Nel merito si veda inoltre Barnes, The New Empire of Diocletian and Constantine, pp. 39-42.  Sesto Aurelio Vittore, De Caesaribus, 41.16; Sofronio Eusebio Girolamo, Cronaca, 337, p. 234, 8-10; Eutropio, Breviarium historiae romanae, X, 8.2; Annales Valesiani, VI, 35; Orosio, Historiae adversos paganos, VII, 28, 31; Chronicon paschale, p.532, 7-21; Teofane Confessore, Chronographia A.M. 5828 (testo latino); Michele siriaco, Cronaca, VII, 3. ^ Il titolo imperiale ufficiale era IMPERATOR CAESAR FLAVIVS CONSTANTINVS PIVS FELIX INVICTVS AVGVSTVS; dopo il 312 aggiunse MAXIMVS ("il grande") e dopo il 325 sostituì INVICTVS con VICTOR, in quanto INVICTVS ricordava il culto del Sol Invictus. ^ Costantino I, in Santi, beati e testimoni - Enciclopedia dei santi, santiebeati.it. ^ Origo Constantini Imperatoris 2, 2. ^ Barnes, Constantine and Eusebius, 3, 39–42; Elliott, Christianity of Constantine, 17; Odahl, 15; Pohlsander, "Constantine I"; Southern, 169, 341. ^ Charles M. Odahl, Constantine and the Christian empire, London, Routledge, Gabucci, Ancient Rome : art, architecture and history, Los Angeles, CA, J. Paul Getty Museum, Barnes, Constantine and Eusebius, 3; Lenski, "Reign of Constantine" (CC), 59–60; Odahl, 16–17. ^ Drijvers, J.W. Helena Augusta: The Mother of Constantine the Great and the Legend of Her finding the True Cross (Leiden, 1991) 9, 15–17. ^ Barnes, Constantine and Eusebius, 3; Barnes, New Empire, 39–40; Elliott, Christianity of Constantine, 17; Lenski, "Reign of Constantine" (CC), 59, 83; Odahl, 16; Pohlsander, Emperor Constantine, 14. ^ Eleanor H. Tejirian e Reeva Spector Simon, Conflict, conquest, and conversion two thousand years of Christian missions in the Middle East, New York, Columbia; Barnes, The New Empire of Diocletian and Constantine, pp. 39-42. ^ Epitome de Caesaribus, 41.16 ^ Come convincentemente dimostrato in A. Alflödi, Constantinus... proverbio vulgari Trachala... nominatus, in BHAC, 1970, (Bonn 1972) pp. 1-5. Nel merito si veda anche V. Neri, Le fonti della vita di Costantino nell'Epitome de Caesaribus, in Rivista storica dell'antichità XVII-XVIII/1987-88, Bologna; Lattanzio, De mortibus persecutorum, 18, 10. ^ Costantino I, Oratio ad sanctorum coetum 16. ^ Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino I, 19. ^ Origo Constantini Imperatoris 2, 3. Tra il 299 ed il 307 i Tetrarchi iterano il titolo Sarmatico massimo per quattro volte e ciò ben testimonia l'intenso sforzo bellico profuso contro tale popolazione barbara. Si veda Barnes, Constantine. Dynasty, Religion and Power in the Later Roman Empire, pp. 179-180. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 18, 8-14; Eutropio X, 2, 1. ^ Lattanzio, De mortibus persecutorum 24, 3-8; Zosimo II, 8, 3. ^ Origo Constantini Imperatoris 2,4; Zonara XII. ^ Epitome de Caesaribus, 41, 3. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 25, 1-5 ^ Moreau, Lactance. De la mort des persécuteurs, Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 26, 1-3; Zosimo II, 9, 2-3. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 26, 6-9. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 26, 10. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 27, 2-3. ^ Barnes, Constantine. Dynasty, Religion and Power in the Later Roman Empire, p. 71. ^ Pasqualini, Massimiano Herculius. Per un'interpretazione della figura e dell'opera, p. 87. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 28, 1-2. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 28, 3-4; Zosimo II, 11, 1. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 29, 1. ^ Sulle deliberazioni di Carnuntum si veda Roberto, Diocleziano, pp. 247-249. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 29, 3. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 29, 4-7. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 29, 8. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum;  Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 32, 5.  Zosimo, Storia nuova, II, 15, 1. ^ Eutropio, Breviarium historiae romanae, X, 4. ^ Barnes, Constantine and Eusebius, pp. 42–44. ^ Nella pianura tra Rivoli e Pianezza: Vittorio Messori e Giovanni Cazzullo, Il Mistero di Torino, Milano, Mondadori, Zosimo, Storia nuova, II, 26. ^ Zosimo, Storia nuova, II, 28.  Zosimo, Storia nuova, II, 29. ^ Battesimo di Costantino, su treccani.it. URL consultato il 21 febbraio 2021. ^ Giorgio Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, 2004. ^ Zosimo, Storia nuova, II, 30.  Zosimo, Storia nuova, II, 33.1.  Zosimo, Storia nuova, II, 33.2.  Zosimo, Storia nuova, II, 33.3. ^ Ammiano Marcellino, Storie; Gibbon (a cura di Saunders), pag. 254-255. ^ Zosimo, Storia nuova, II, 33.4. ^ Gibbon (a cura di Saunders), Per la traduzione di "comes" con "ministro" si interpreti: Ita etiam qui sacri Palatii ministeriis ac officiis praeficiebantur, eorumdem ministeriorum ac officiorum Comites dicti, ut ex infra observandis constat., cfr. Du Cange, II, 423  Anselmo Baroni, Cronologia della storia romana dal 235 al 476, p. 1026-1027. ^ Eutropio, Breviarium historiae romanae, X, 3.  Zosimo, Storia nuova, II, 21, 1-3.  V.A. Maxfield, L'Europa continentale, pp. 210-213. ^ Anselmo Baroni, Cronologia della storia romana; Flavio Claudio Giuliano, De Caesaribus, 329c. ^ C.R.Whittaker, Frontiers of the Roman empire. 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Acacio. ^ Chronicon paschale, p.532, 1-21. ^ Bury, p. 12. ^ Chronicon paschale, p.533, 5-17; Passio Artemii, 8 (8.12-19); Zonara, L'epitome delle storie, XIII, 4, 25-28. ^ In particolare furono uccisi i fratellastri di Costantino I, Giulio Costanzo, Nepoziano e Dalmazio, alcuni loro figli, come Dalmazio Cesare e Annibaliano, e alcuni funzionari, come Optato e Ablabio. ^ Eutropio, Breviarium historiae romanae, X, 9. ^ Zosimo, Storia nuova, ii.40. ^ Burckhardt, Costantino il Grande e i suoi tempi, tr.it. Longanesi 1957, p.521 ^ Ad esempio, Guido Clemente, titolare della cattedra di storia romana all'università di Firenze, autore di una Guida alla storia romana; Augusto Fraschetti, docente di storia economica e sociale del mondo antico presso la Sapienza di Roma, autore de La conversione. Da Roma pagana a Roma cristiana; Arnaldo Marcone docente di Storia romana all'università di Udine, autore di Pagano e cristiano. Vita e morte di Costantino; Robin Lane Fox, docente di Storia antica presso il College di Oxford, autore di Pagani e cristiani; e molti altri titolati studiosi del mondo antico, come Andrea Alfoldi, Franchi de' Cavalieri, Norman Baynes, Marta Sordi, Klaus Bringmann. ^ Paul Veyne, Quando l'Europa è diventata cristiana (312-394), Collezione Storica Garzanti, Milano, 2008 pp. 64-65 ^ G. Filoramo, La croce e il potere, Mondadori, Milano; Horst, Costantino il grande, Milano 1987, p. 31. ^ Il ripudio nel tardo Impero: una costituzione di Teodosio II, su jus.vitaepensiero.it. ^ Dal Gesù storico al Cristo della fede: la svolta costantiniana, su homolaicus.com. ^ Costantino e la legislazione antiereticale. La costruzione della figura dell'eretico ^ Notizie in inglese sulle monete di Costantino in bronzo con simboli cristiani ^ Apocalisse 1, 10, su La Parola - La Sacra Bibbia in italiano in Internet. ^ La nascita di Gesù è avvenuta secondo i vangeli circa quindici mesi dopo l'annuncio a Zaccaria della nascita del Battista. La collocazione di questo evento nell'ultima settimana di settembre, in accordo con la tradizione cristiana, è compatibile con le notizie oggi disponibili sul turno di servizio sacerdotale al tempio della classe sacerdotale di Abia, alla quale apparteneva Zaccaria. Cfr. Data di nascita di Gesù ^ da Christianity and Paganism in the Fourth to Eighth Centuries, Yale, Ramsay MacMullen, 1997, p. 155 ^ La scelta del 25 dicembre per celebrare il Natale cristiano: dal dies natalis del Sol invictus, espressione del culto solare di Emesa (e del dio Mitra), alla celebrazione del Cristo, “sole che sorge”, su gliscritti.it. URL consultato il 3 gennaio 2014. ^ Burckhardt, cit. (p. 539) ^ Giorgio Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi; Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, 2004, p. 156. ^ nella sua opera De falso credita et ementita Constantini donatione ^ Sozomeno, Historia Ecclesiastica, II,34; Eusebio di Cesarea, Vita Constantini, IV,61–63; Socrate Scolastico, Historia Ecclesiastica, I,39; Teodoreto di Cirro, Historia Ecclesiastica, I,30. ^ Girolamo, Chronicon. ^ Alessandro Barbero, Costantino il Vincitore, Salerno, In Epistula Constantini ad Aelafium, CSEL; Carile in L'imperatore e la Chiesa. Dalla tolleranza (312) alla supremazia della religione cristiana (380), alle contese per la cattolicità delle chiese; Enciclopedia Costantiniana (2013), Treccani ^ Gli Actus Silvestri sono menzionati la prima volta nel Decretum Gelasianum, documento attribuito a papa Gelasio I, come affermato in: Marilena Amerise, Il battesimo di Costantino il Grande. Storia di una scomoda eredità (Hermes Einzelschriften, 95), Franz Steiner Verlag, München 2005, p.93 e ss.; Wilhelm Pohlkamp n Internet Archive. aveva identificato nei manoscritti una versione più antica (A), datata alla fine del IV- inizi del V secolo, e una versione più recente (B), del tardo V - inizi del VI secolo. ^ v. A. Carile in L'imperatore e la Chiesa cit. ^ Ranuccio Bianchi Bandinelli e Mario Torelli, L'arte dell'antichità classica, Etruria-Roma, Utet, Torino 1976, pag 112. ^ Alberto Perlasca, Il concetto di bene ecclesiastico, pp.50-51. ^ Anche se si pensa che la madre di Costantino propendesse più per la religione ebraica, tanto da restare delusa alla notizia della conversione al cristianesimo del figlio (Giorgio Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, 2004, p. 156).  Scarre, Grünewald, Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung, Stoccarda; Galerio attribuì questo titolo a Costantino e Massimino Daia subito dopo il convegno di Carnuntum, sostituendolo a quello di Cesare. Si veda nel merito Alexandra Stefan, Un rang impérial nouveau à l’époque de la quatrième Tétrarchie: Filius Augustorum. Première partie. Inscriptions révisées: problèmes de titulature impériale et de chronologie, in Antiquité Tardive; Costantino si attribuì il titolo Invictus, e con ogni probabilità anche quello di Pater Patriae insieme alla carica di Proconsul, dopo la propria autoproclamazione ad Augusto, nella seconda metà del 310. Si veda nel merito Thomas Grünewald, Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung, Stoccarda; Costantino adottò il titolo Victor in sostituzione di Invictus dopo la vittoria definitiva su Licinio. Si veda nel merito Thomas Grünewald, Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung, Stoccarda; Ammiano Marcellino, Historiae X.  (testo a fronte in inglese disponibile qui). Aurelio Vittore, De Caesaribus (versione latina) Consolaria costantinopolitana, s.a. 325. Chronicon paschale. Costantino I, Oratio ad sanctorum coetum. Epitome de Caesaribus (versione latina). Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino, I-IV, (testo in latino e traduzione in inglese); Storia ecclesiastica (traduzione in inglese). Eutropio, Breviarium historiae romanae (testo latino), IX-X . Giordane, De origine actibusque Getarum; Vedi qui testo latino. Girolamo, Cronaca, versione francese QUI. Lattanzio, De mortibus persecutorum, XXIV; Vedi qui testo latino. Origo Constantini Imperatoris; Vedi qui testo latino e traduzione in inglese. Orosio, Historiarum adversus paganos libri septem, libro 7 Vedi qui testo latino. Notitia dignitatum, Notitia dignitatum (testo latino) . Panegyrici latini, IV, VII, IX e XII, QUI il testo latino. Socrate Scolastico, Storia ecclesiastica, I. Sozomeno, Historia Ecclesiastica, I. Teodoreto di Cirro, Historia Ecclesiastica, I. Teofane Confessore, Chronographia (testo latino) . Zonara, L'epitome delle storie, XIII Vedi qui testo latino. Zosimo, Storia nuova, I-II traduzione inglese del libro I, QUI. Studi Andreas Alföldi, Costantino tra paganesimo e cristianesimo, Laterza, Roma-Bari; Barbero, Costantino il Vincitore, Salerno Editrice, Roma, Barnes, The victories of Constantine, in Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik Timothy Barnes, Constantine and Eusebius, Cambridge, MA Harvard; Barnes, The New Empire of Diocletian and Constantine, Cambridge, MA Harvard University Press, Barnes, Constantine. Dynasty, Religion and Power in the Later Roman Empire, Wiley Blackwell, Malden - Oxford, 2011. Ranuccio Bianchi Bandinelli e Mario Torelli, L'arte dell'antichità classica. Etruria-Roma, UTET, Torino, 1976 e successive rist. Jacob Burckhardt, Costantino il Grande e i suoi tempi, tr.it. Longanesi, Milano, Carpiceci e Marco Carpiceci, Come Costantin chiese Silvestro d'entro Siratti - Costantino il grande, San Silvestro e la nascita delle prime grandi basiliche cristiane, Edizioni Kappa, Roma 2006. André Chastagnol, L'accentrarsi del sistema: la tetrarchia e Costantino, in: AA.VV., Storia di Roma, Einaudi, Torino, 1993, vol. III, tomo 1; ripubblicata anche come Storia Einaudi dei Greci e dei Romani, Ediz. de Il Sole 24 ORE, Milano; Ombretta Cuneo, La legislazione di Costantino II, Costanzo II e Costante; Giuffrè, Diehl, La civiltà bizantina, Garzanti, Milano, 1962. (a cura di) Angela Donati e Giovanni Gentili, Costantino il Grande: la civiltà antica al bivio tra Occidente e Oriente, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, Fraschetti, La conversione: da Roma pagana a Roma cristiana, Laterza, Roma-Bari; Grünewald, Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung, Stoccarda Eberhard Horst, Costantino il Grande, Milano, Bompiani, Bohec, Armi e guerrieri di Roma antica: da Diocleziano alla caduta dell'impero, Carocci, Roma, 2008. Arnaldo Marcone, Pagano e cristiano: vita e mito di Costantino, Laterza, Roma-Bari, Maxfield, L'Europa continentale, in Il mondo di Roma imperiale. La formazione, Laterza, Roma-Bari, Mazzarino, L'Impero romano, tre vol., Laterza, Roma-Bari (v. vol. III); riediz. e successive rist.; Moreau, Lactance. De la mort des persécuteurs, Parigi 1954. Elena Percivaldi, Fu vero Editto? Costantino e il Cristianesimo tra storia e leggenda, Ancora Editrice, Milano, Pasqualini, Massimiano Herculius. Per un'interpretazione della figura e dell'opera. Roma, Rentetzi, Costantino, Elena e la vera croce. Modelli iconografici nell'arte bizantina, Studi Ecumenici. - Istituto di Studi Ecumenici S. Bernardino - Pontificia Università Antonianum, web.archive.///www. isevenezia.it/it/ pubblicazioni/ pubblicazioni_dell_ise /rivista_ di_studi_ ecumenici/ Roberto, Diocleziano, Roma 2014. Giorgio Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, Torino, The paradigmatic value of the depiction of Constantine in the homonymous arch in the formation of the Christ in Throne's iconography ://web.archive.org /web3051538/.ni.rs/ byzantium/ english.php (Paper presented to the 2008 Nis and Byzantium-VII International Scientific Meeting Symposium”, Nis, 3-5 June 2008), Nis, Scarre, Chronicle of the roman emperors, Pat Southern, The Roman Empire: from Severus to Constantine, Londra, Stefan, Un rang impérial nouveau à l’époque de la quatrième Tétrarchie: Filius Augustorum. Première partie. Inscriptions révisées: problèmes de titulature impériale et de chronologie, in Antiquité Tardive Costantino e le sfide del cristianesimo. Tracce per una difficile ricerca, a cura di Sergio Tanzarella - Stanisław Adamiak, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2013. C.R. Whittaker, Frontiers of the Roman empire. A social ad economic study, Baltimora & London, 1997. L'editto di Milano e il tempo della tolleranza. Costantino 313 d.C., Mostra di Palazzo Reale a Milano, mostra a cura di Paolo Biscottini e Gemma Sena Chiesa, catalogo a cura di Gemma Sena Chiesa, Ed. Mondadori Electa, Milano. Filmografia Costantino il Grande, regia di Lionello De Felice, con Cornel Wilde, Belinda Lee e Massimo Serato. Voci correlate Aeroporto Costantino il Grande Niš (Serbia) Antica basilica di San Pietro in Vaticano Ardia Arco di Costantino Arco di Malborghetto Arte costantiniana Basilica della Natività Basilica del Santo Sepolcro Basilica Palatina di Costantino (ad Augusta Treverorum, oggi Treviri) Basilica di Massenzio (a Roma) Basilica di San Giovanni in Laterano Basilica di San Paolo fuori le mura Cesaropapismo Colonna di Costantino Monumento a Costantino Imperatore Donazione di Costantino Flavia Giulia Elena In hoc signo vinces Monogramma di Cristo Statua colossale di Costantino I Terme di Costantino Ponte di Costantino (Danubio) Costantino I imperatore, detto il Grande, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Alberto Olivetti, COSTANTINO I imperatore, detto il Grande, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Costantino I detto il Grande, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, MacGillivray Nicol e J.F. Matthews, Constantine I, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Costantino I, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Costantino I, in Diccionario biográfico español, Real Academia de la Historia. Opere di Costantino I, su digilibLT, Università degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro. Modifica su Wikidata Opere di Costantino I, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Costantino I, su Open Library, Internet Archive. Costantino I, su Goodreads. Costantino I, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata Costantino I, su Santi, beati e testimoni, santiebeati.it. The Roman Law Library by Professor Yves Lassard and Alexandr Koptev, su web.upmf-grenoble. Monete emesse da Costantino I, su wildwinds.com. Sito dedicato alle monete di Costantino in bronzo, su constantinethegreatcoins.com. PredecessoreImperatore romanoSuccessore Costanzo Cloro (con Galerio)306 – 337 Costantino IIVDM Imperatori romani e relative linee di successione VDM Diocleziano Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Bisanzio   Portale Cristianesimo Categorie: Imperatori romani Santi romani Nati a Naissus Morti a Nicomedia Costantino I Dinastia costantiniana Santi per nomeStoria antica del cristianesimo Personalità del cristianesimo ortodosso Personaggi citati nella Divina Commedia (Inferno) Personaggi citati nella Divina Commedia (Paradiso) Santi della Chiesa ortodossa[altre] Costantino.

 

Grice e Costanzi: l’implicatura conversazionale dell’amore e la morte – filosofia italiana – Luigi Speranza (Pozzuolo Umbro). Filosofo italiano. Grice: “I like Costanzi; possibly my favourite of his essays is the one on ‘amore’ and ‘morte’ – eros and Thanatos for the Oxonian!” Si laurea a Bologna. Ensegna a Bologna. Altre opere: “Pensiero ed essere” (Perrella, Roma); “Varisco: l’uno e i molti” (Perrella, Roma); “Noluntas” (Perrella, Roma); “Schopenhauer” (Roma); “L'asceta moderno” – L’asceta -- Arte e storia, Roma; Spinoza, Universitas, Roma); “Il sentito in Platone” -- Arte e storia, Roma); “L'ascetica di Heidegger” Arte e storia, Roma); “L'ascesi di coscienza e l'argomento d’Aosta”, Arte e storia, Roma); “Meditazioni inattuali sull'essere e il senso della vita” Arte e storia, Roma); “La terrenità edenica del Cristianesimo e la contaminazione spiritualistica” (Patron, Bologna); “La donna angelicata e il senso della femminilità nel Cristianesimo” (Patron, Bologna); “La filosofia pura, Alfa, Bologna); “Il senso della storia, Alfa, Bologna); “Sul prologo di Zarathustra (Nietzsche e Schopenhauer) con trad. dello stesso Prologo, in Ethica; “L'etica nelle sue condizioni necessarie, Ed.ni di Ethica, Bologna); “L'estetica pia, Patron, Bologna); “L'ora della filosofia, R. Patron, Bologna); “L'uomo come disgrazia e Dio come fortuna” (Alfa, Bologna;  “La critica disvelatrice” (Ed.ne dell'Istituto di Filosofia dell'Bologna, Bologna); “Amore e morte” (L. Parma, Bologna); “La singolarità della diada: compimento di un itinerario senza vie” (Cooperativa libraria universitaria editrice, Bologna); “L'equivoco della filosofia cristiana e il cristianesimo-filosofia” (Clueb, Bologna; e ragioni della miscredenza e quelle cristiane della fede, Clueb, Bologna); “La fede sapiente e il Cristo storico” (Sala francescana di cultura Antonio Giorgi, Assisi); “La rivelazione filosofica” (Sala francescana di culturaAntonio Giorgi, Assisii); Il Cristianesimo: filosofia come tradizione di realtà” (Sala francescana di cultura, Assisi); “Breviloquio della sera” (Sala francescana di culturaAntonio Giorgi, Assisi); “L’immagine sacra” (Sala francescana di cultura, Assisi); “L'identità del Lumen publicum nelle privatezze di Anselmo e Tommaso” (Il Cristianesimo-filosofia, Le Lettere, Roma); Opere, E. Mirri e M. Moschini, Bompiani, Milano). Sgarbi torna a Tuoro per presentare l'opera omnia del filosofo Teodorico Moretti-Costanzi, "Umbria Left.  Il filosofo imagliato dal Sessantotto, "il Giornale"Dizionario Biografico degli Italiani.  Wikipedia Ricerca Al di là del principio di piacere saggio di Sigmund Freud Lingua Segui  Al di là del principio di piacere Titolo originale                                                   Jenseitsdes Lustprinzips Freud Jenseits des Lustprinzips. djvu Autore Freud 1ª ed. originale Genere Saggio Sottogenere Psicoanalisi Lingua originale tedesco Al di là del principio di piacere (tedesco: Jenseits des Lustprinzips) è un saggio di Sigmund Freud incentrato sui temi dell'Eros e del Thanatos, ovvero rispettivamente la "pulsione di vita" e la "pulsione di morte" (Todestrieb[e]).   Giuditta II di Klimt,, Venezia, Galleria internazionale d'arte moderna. Achille sorregge Pentesilea dopo averla colpita a morte, una delle leggende fiorite sull'episodio vuole che l'eroe se ne innamori proprio in questo momento. Bassorilievo dal tempio di Afrodite a Afrodisia Il dualismo di EmpedocleModifica Freud formula il conflitto psicologico in termini dualistici fin dai suoi primi scritti, ma è solo in questo testo che egli presenta un simile conflitto mediante concetti desunti dal pensiero di Empedocle, il quale parla d'un dissidio cosmico fra i princìpi o forze di Amore (o Amicizia) e Odio (o Discordia). Empedocle di Agrigento si presenta come una figura fra le più eminenti e singolari della storia della civiltà greca. Il nostro interesse si accentra su quella dottrina di Empedocle che si avvicina talmente alla dottrina psicoanalitica delle pulsioni, da indurci nella tentazione di affermare che le due dottrine sarebbero identiche se non fosse per un'unica differenza: quella del filosofo greco è una fantasia cosmica, la nostra aspira più modestamente a una validità biologica. I due principi fondamentali di Empedocle – philìa (amore, amicizia) e neikos(discordia, odio) – sia per il nome che per la funzione che assolvono, sono la stessa cosa delle nostre due pulsioni originarie Eros e Distruzione.» Il nome di Eros deriva da quello della divinità greca dell'amore, e «tende a creare organizzazioni della realtà sempre più complesse o armonizzate, [mentre] Thanatos tende a far tornare il vivente a una forma d'esistenza inorganica. Queste sono pulsioni. Eros rappresenta per Freud la pulsione alla vita, mentre Thanatos quella della distruzione. Qualora l'autodistruzione diventasse oggetto di malattia però Thanatos diviene il nome del conflitto che si crea tra energia negativa (autodistruzione) e positiva (la rabbia del Thanatos viene utilizzata per distruggere la malattia stessa).» Freud riscontra anche in un altro filosofo, questa volta contemporaneo, un'anticipazione della sua scoperta: "E ora le pulsioni nelle quali crediamo si dividono in due gruppi: quelle erotiche, che vogliono convogliare la sostanza vivente in unità sempre più grandi, e le pulsioni di morte, che si oppongono a questa tendenza e riconducono ciò che è vivente allo stato inorganico. Dall'azione congiunta e opposta di entrambe scaturiscono i fenomeni della vita, ai quali mette fine la morte. Forse scrollerete le spalle: 'Questa non è scienza della natura, è filosofia, la filosofia di Schopenhauer'. E perché mai, Signore e Signori, un audace pensatore non dovrebbe aver intuito ciò che una spassionata, faticosa e dettagliata ricerca è in grado di convalidare?"  «Thanatos non compare negli scritti di Freud, ma egli, a quanto riferisce Jones, l'avrebbe talvolta usato nella conversazione. L'uso nel linguaggio psicoanalitico è probabilmente dovuto a Federn.» Sabina Spielrein e Barbara LowModifica Su esplicita influenza di Sabina Nikolaevna Špil'rejn, citata in nota nel libro, per Freud Thanatos segnala il desiderio di concludere la sofferenza della vita e tornare al riposo, alla tomba. Concetto che non deve essere confuso con quello di destrudo, vale a dire con l'energia della distruzione (che si oppone alla libido).  Thanatos è il principio di costanza,accennato fin dal capitolo sette de L'interpretazione dei sogni e che adesso, sotto l'influsso del pensiero di Schopenhauer, diventa identico al principio del Nirvana proposto da Low: le eccitazioni della mente, del cervello, dell'"apparato psichico" non vengono più solo sgomberate, tenute costanti al più basso livello possibile, bensì estinte, eliminate sino al grado zero della realtà inanimata. La coazione a ripetereModifica Nel testo del '20 Freud sostiene che «nella vita psichica esiste davvero una coazione a ripetere la quale si afferma anche a prescindere dal principio di piacere.» Sulla falsariga del motto errare humanum est, perseverare autem diabolicum, essa viene definita per quattro volte «demoniaca»: Vi sono individui che nella loro vita ripetono sempre, senza correggersi, le medesime reazioni a loro danno, o che sembrano addirittura perseguitati da un destino inesorabile, mentre un più attento esame rivela che essi stessi si creano inconsapevolmente con le loro mani questo destino. In tal caso attribuiamo alla coazione a ripetere un carattere "demoniaco". La coazione a ripetere è riscontrabile anche nella nevrosi traumatica dei reduci della prima guerra mondialeoppure di chi tende a rivivere o reinterpretare gli eventi più violenti.  Freud collocò la coazione a ripetere fra i sintomi della nevrosi: si ripete il sintomo nevrotico invece di ricordare, si ripete per non ricordare, con quello che Freud chiama «l'eterno ritorno dell'uguale. Per la relazione tra pulsione e coazione a ripetere, Freud notò che le coazioni tendono come la pulsione a una ripetizione assoluta e atemporale, mai definitivamente appagata, e che tendono a sparire quando un fatto viene riportato a conoscenza del paziente. Dalla rimozione di una pulsione (a muoversi ovvero a ricordare un fatto doloroso o traumatico), la coazione a ripetere trae l'energia per imporsi sulla volontà cosciente dell'Io. La coazione a ripetere diventa il punto di partenza della terapia psicoanalitica. Occorre ricordare per non ripetere gli errori del passato, gli stessi dubbi e conflitti per tutta la vita, in amore, in amicizia, nel lavoro.  Freud rileva questa coazione anche nelle circostanze più ordinarie e naturali, persino nel gioco dei bambini come quello con il rocchetto usato dal suo piccolo nipote di diciotto mesi. Il bimbo, lanciando il rocchetto lontano da sé, simboleggia la perdita della madre e, ritraendo il rocchetto a sé, rappresenta il ritorno della madre. Imparerebbe così a padroneggiare l'assenza materna attraverso un duplice movimento, che è sempre seguito dalla vocalizzazione di un "oooo..." (ted. fort, «via!»), quando il rocchetto è lontano, e da un "da" (ted. da, «Eccolo!»), quando il rocchetto è di nuovo vicino. Dopo l'esposizione d'una serie di ipotesi (in particolare l'idea che ogni individuo ripete le esperienze traumatiche per riprendere il controllo e limitarne l'effetto dopo il fatto), Freud considera l'esistenza di un essenziale desiderio o pulsione di morte, riferendosi al bisogno intrinseco di morire che ha ogni essere vivente. Gli organismi, secondo quest'idea, tendono a tornare a uno stato preorganico, inanimato – ma vogliono farlo in un modo personale, intimo. In definitiva, «sembrerebbe proprio che il principio di piacere si ponga al servizio delle pulsioni di morte. A questo punto sorgono innumerevoli altri quesiti cui non siamo in grado attualmente di dare una risposta. Dobbiamo aver pazienza e attendere che si presentino nuovi strumenti e nuove occasioni di ricerca. E dobbiamo esser disposti altresì ad abbandonare una strada che abbiamo seguito per un certo periodo se essa, a quanto pare, non porta a nulla di buono. Solo quei credenti che pretendono che la scienza sostituisca il catechismo a cui hanno rinunciato se la prenderanno con il ricercatore che sviluppa o addirittura muta le proprie opinioni. Implicazioni Modifica Uno psicoanalista con competenze pure di antropologia filosofica come Sciacchitano sostiene che «la vera psic[o]analisi fu il frutto tardivo dell'attività teoretica di Freud. Bisogna aspettare la svolta degli anni Venti, con l'invenzione della pulsione di morte, per parlare di vera e propria psicoanalisi. Essa comincia con la rinuncia alle pretese e alle finalità mediche della psicoterapia. Il nuovo modello freudiano individuava nello psichico un nucleo patogeno fisso, qualcosa che non si scarica mai, ma continua a ripetersi identicamente a se stesso e insensatamente, cioè fuori da ogni intenzionalità soggettivistica e contro ogni teleologia vitalistica. Ce n'era abbastanza per far crollare ogni illusione terapeutica. Parecchi allievi a questo punto abbandonarono il maestro che toglieva avvenire, come si dice terreno sotto i piedi, alle loro illusioni umanitarie». Freud non cambierà più idea. Ciò significa che il fondatore della psicoanalisi asserirà la sostanziale "inguaribilità'" del disagio psichico per lo stesso arco di tempo, un ventennio, in cui egli precedentemente aveva affermato l'esatto contrario.  Wilhelm Reich, in La funzione dell'orgasmo e Analisi del carattere, propose una propria ipotesi di confutazione alla teoria della pulsione di morte.   La madre morta, Egon Schiele, Vienna, Leopold Museum. Nell'arte: SchieleModifica «Egon Schiele sa che tutto ciò che vive è anche morto, porta in sé il suo esistenziale compimento, fin dall'istante del concepimento, come attesta il funesto dipinto: La madre morta, in cui il grembo appare come un lugubre mantello, un involucro mortuario che racchiude il Sein zum Tode [Essere-per-la-morte] del nascituro, ne circoscrive la parabola esistenziale.»  (Vozza)  Agonia, Egon Schiele, Monaco di Baviera, Neue Pinakothek.  Madre con i due bambini, Vienna, Österreichische Galerie Belvedere. «Schiele introduce un evento di grande rilievo nell'iconografia della malinconia e della vanitas, operandone una trasfigurazione tragica: l'uomo non [...] medita più sulla morte raffigurata in un teschio posto nel suo studiolo come altro da sé, ma assume sul proprio volto l'icona funebre, diventa morte incarnata, esibita nel gesto d'esistere, nel godimento del sesso e nella prostrazione della sofferenza. Nessuna iconoclastìa sopravvive nel gesto pittorico di Schiele: si pensi all'Agonia, sacra rappresentazione di stupefacente intensità cromatica, allegoria del dolore immedicabile, emblema di una eterna e impietosa Passione, sublime omaggio a quell'incomparabile maestro di sofferenza che è stato Grünewald.»  (Marco Vozza) «La Madre con i due bambini esibisce un volto già visibilmente cadaverico, mentre un infante osserva sgomento il deliquio orizzontale del fratellino. [...] Nessuno meglio di Schiele ha saputo render visibile quella che l'analitica esistenziale ha chiamato Geworfenheit, l'indifeso essere gettati in un mondo ostile. Insieme a lui soltanto Kokoschka, in seguito Dubuffet e Bacon.»  (Marco Vozza[25]) NoteModifica ^ Quadro che Sabina Nikolaevna Špil'rejn sceglie come modello rappresentativo del connubio Eros-Thanatos nel film biografico Prendimi l'anima (Roberto Faenza, 2002): Perché Giuditta uccide Oloferne, estratto dal film su YouTube(vedi screenshot). ^ Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere(1920), in Opere di Sigmund Freud (OSF) vol. 9. L'Io e l'Es e altri scritti; Torino, Bollati Boringhieri, . Ed. paperback Freud, Analisi terminabile e interminabile, in OSF vol. 11. L'uomo Mosè e la religione monoteistica e altri scritti 1930-1938, Torino, Bollati Boringhieri; Ed. paperbackGalimberti, Enciclopedia di psicologia, Garzanti, Torino; Freud Introduzione alla psicoanalisi, Edizioni Boringhieri; Jones, Vita e opere di Freud, vol. 3: L'ultima fase (1919-1939), Milano, Garzanti, 1977. ISBN non esistente. ^ Jean Laplanche, Jean-Bertrand Pontalis, a cura di Luciano Mecacci e Cyhthia Puca, Enciclopedia della psicoanalisi, vol. 2, Bari-Roma, Laterza, voce Thanatos, The language of psycho-analysis, Karnac, Paperbacks, books.google.it. ^ Sigmund Freud, Al di là del principio del piacere; Freud, Freud, op. cit., p. 235. ^ Sigmund Freud; Mugnani, Analisi del testo di S. Freud: "Il problema economico del masochismo". Pasqua, Al di là del principio di piacere: sul principio di Piacere e la Coscienza; Laplanche, Jean Bertrand Pontalis, op. cit., voce Principio di piacere. Op. cit., su books.google.it. ^ Sigmund Freud; Laplanche, Jean Bertrand Pontalis, op. cit., voce Coazione a ripetere. Op. cit., Anteprima disponibile; Google Libri. ^ Sigmund Freud; Cf. anche Il perturbante, OSF;  Freud Introduzione alla psicoanalisi, Edizioni Boringhieri 1978, p.508. ^ Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere, Torino, Bollati Boringhieri, Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere; Freud, op. cit. Sciacchitano, Il demone del godimento, in AA.VV., Godimento e desiderio, aut aut, Vozza, Il senso della fine nell'arte contemporanea, in L'Apocalisse nella storia, Humanitas, Vozza, op. cit., Vozza, ibidem. Voci correlateModifica Psicoanalisi Empedocle Eros (filosofia) Eros Il disagio della civiltà Libido Destrudo Morte Sabina Nikolaevna Špil'rejn Tanato; Edizioni e traduzioni di Al di là del principio di piacere, su Open Library, Internet Archive. Edizioni e traduzioni di Al di là del principio di piacere, su Progetto Gutenberg. Laplanche, Jean-Bertrand Pontalis, The language of psycho-analysis, Karnac, Thanatos, Nirvana Principle, e Compulsion to Repeat, Portale Letteratura   Portale Psicologia Nikolaevna Špil'rejn psicoanalista russa  Differimento Resistenza (psicologia) ciò che negli atti e nel discorso, si oppone all'accesso dei contenuti inconsci alla coscienza  Wikipedia Il contenutoTeodorico Moretti Costanzi. Keywords: amore e morte, l’essere, il sentito, ascesi (verbo?), Zarathustra, il singolo della diada, l’uno e i molti, nolere, nolitum, volitum, amore/morte, eros/tanatos, immagine sacra, imaginatum, essere, un essere, due esseri, le due esseri entrambi – rivelazione – la rivelazione filosofica – a new discourse on metaphysics: from genesis to revelations – un nuovo discorso di metafisica: del genesi alle rivelazione. – Zarathustra e cristita --  nollere in Schopenhauer --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Costanzi” – The Swimming-Pool Library. Costanzi

 

Grice e Courmayeur: l’implicatura conversazionale di Hegel in Italia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo italiano. Grice: “The most interesting thing about Courmayeur’s philosophy is that he is a count; unlike Locke, or the common-or-garden English Oxonian philosopher who doesn’t have a dime, this one has, as the Italians say, ‘all the money in the world’! That helps with philosophy! His forte is moral philosophy AND HEGEL, which proves that Hegel becomes the taste of aristocrats and not just dons like Bosanquet!” - Dall'antica famiglia valdostana dei Passerin d'Entrèves et Courmayeur. Ottenuta la maturità classica al Massimo d'Azeglio di Torino, si laurea con Solari con “Hegel” (Torino, Gobetti). Studia sotto Ruffini e Einaudi la filosofia politica del medio evo e il concetto di costituzione. Insegna a Torino. Fu capitano di complemento degli Alpini e membro del CLN, dal quale venne nominato, primo prefetto di Aosta. Fu all'origine dello statuto della regione autonoma Valle d'Aosta.  Fra le sue opere più note, Il concetto dello stato, è considerata da molti la sintesi del suo pensiero storico-filosofico.  Oltre che filosofo del diritto e storico del pensiero politico, viene considerato il fondatore della filosofia politica italiana come disciplina a sé stante, finalmente distinta dalla filosofia dello stato. Paradossalmente ciò avviene proprio col saggio, “Il concetto dello stato”. Ben diversamente dall'ordinamento tematico della “Staatslehre” come pure dall'ordinamento cronologico per filosofi in uso nella filosofia politica, ordina la filosofia politica secondo uno schema concettuale schiettamente filosofico: "il concetto di forza – forzare ", "il concetto di potere" (il verbo ‘potere’); "il concetto di autorità – auctoritas --". Il concetto di faccia dello stato, secondo una scala di qualificazione crescente. Il concetto di "forza" (il forzare) e qualificato di un imperativo, un mando o commando efficace. Il concetto di "potere" (potere del giurato) contiene il concetto di forza (il forzare – come un mando o imperativo efficace), ma organizzato in una istituzione e qualificato dal ‘giurato’. Finalmente la terza faccia, il concetto di "autorità" come contenendo la second faccia del potere del giurato, qualificato da una concetto di legge variable: la promozione del giurato, la promozione del bene comune (la res publica), o la promozione della piccolo patria. Altre opere: Il concetto dello stato (Torino: Giappichelli); “La Valle d'Aosta, Bologna: Boni); “La filosofia della politica, Torino: POMBA); “Filosofia politica nel medio evo italiano” (Torino: G. Giappichelli); “La filosofia politica d’Alighieri” (Einaudi, Torino); “Morale, diritto ed economia, Pavia: Libreria Internazionale F.lli Treves); “Morale, Roma: Athenaeum); “Appunti di storia delle dottrine politiche: la filosofia politica medioevale, Torino: Giappichelli);  “Il concetto dello stato in Zwingli", in Filosofia del diritto, Roma); La teoria del diritto e della politica in Inghilterra all'inizio dell'età moderna, Torino: Istituto giuridico della R. Università); “Obbedienza e resistenza” (Roma/Ivrea, Edizioni di Comunità). La piccola patria, Milano: Franco Angeli); Obbligazione Politica, Pensa Multimedia.  Dizionario biografico degli italiani. Biblioteca civica Passerin d'Entrèves. Ricerca Patria Lingua Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Patria (disambigua). La Patria (dal latino = la terra dei padri) è il concetto di nazione e paese, natio interiorizzato e idealizzato.   L'Altare della Patria a Roma. Descrizione La patria è un topos prettamente letterario (concetto ricorrente) che è possibile ritrovare in tantissimi temi trattati e argomentati nelle scienze umane, con particolare frequenza nell'area umanistica.  BibliografiaModifica Vincenzo Cappelletti, Patria e Stato nel Risorgimento, in «Il Veltro», Finotti, Italia. L’invenzione della patria, Milano, Bompiani, Ceccarelli, Patria. Da patria a nazione, in Guido Pescosolido e Giuseppe Bedeschi (a cura di), Dizionario di storia, vol. 3, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana “Giovanni Treccani”, «patria» Collegamenti esterniModifica patria, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. patria, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Thesaurus Portale Antropologia   Portale Politica   Portale Storia Popolo insieme delle persone fisiche che sono in rapporto di cittadinanza con uno Stato  Statista personaggio politico deputato a governare e regolare gli affari di Stato  Sciovinismo forma fanatica ed esasperata di nazionalismo o patriottismo. Grice: “It’s only natural that Courmayeur had such an intricate concept of ‘state’ – he was born in a minority, like Russell, who was born in a place which some called England, some called Wales. The situation is so borderline that it reminded me of my ancestors, the Ingvaeonic – and see all the problem the Frisians are having in Germany! Now they do recognise the ‘anglo-frisiche’ – but hardly allow them to vote!” “It is not clear how the collectivity has any bearing on the third state of ‘state’ – the ‘auctoritas’ – but then perhaps ‘auctoritas’ is the wrong concept, since it just means ‘author’ – Courmayeur is making the point that all authority is legitimate authority. “You have no authority” means ‘you have  no legitimate power’ – and you have no power, means you have no legal force, and you have no force means you cannot command!” As Courmayeur would say: it’s all different in valaestan, the vernacular of Aosta, which hardly has the same status as Italian (since giuridically Aosta belongs to Italy) or French (since French is the official language, along with Italian). But don’t ask that imperialist Crystal for an answer!” Alexandre Passerin d'Entrèves et Courmayeur. Alessandro Passerin d’Entrèves et Courmayeur. Courmayeur. Keywords: Hegel in Italia, piccola patria, il concetto dello stato, filosofia politica versus staatslehre, prima faccia: il forzare come imperativo efficace; seconda faccia: il potere come il forzare organizzato in una istituzione e qualificato dal giurato; la terza e ultima faccia: l’autorita, come il potere qualificator da una legge centrata in un concetto ideale variabile: il giurato, il bene comune (res publica), la piccola patria. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Courmayeur” – The Swimming-Pool Library. Courtmayeur.

 

Grice e Cotroneo: l’implicatura conversazionale della VIRTÙ – [andreia] filosofia italiana – Luigi Speranza (Campo Calabro). Filosofo italiano. Si laurea Messina sotto Volpe con “L’implicatura di Kierkegaard”. Ensegna a Messina. “Scritti”. “Lo storicismo di Cotroneo”. Altre opere: “Bodin teorico della storia” (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane); “Croce e l'Illuminismo” (Napoli, Giannini); “I trattatisti dell'arte storica” (Napoli, Giannini); “Storicismo antico e moderno” (Roma, Bulzoni); “Rareta e storia” (Napoli, Guida); “Societa chiusa, società aperta” (Messina, Armando Siciliano Editore); “La ragione della libertà” (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane); “Trittico siciliano: Scinà, Castiglia, Menza” (Roma, Cadmo); “Momenti della filosofia italiana” (Napoli, Morano); “Questione post-crociane” (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane); “Tra filosofia e politica” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Le idee del tempo. L'etica. La bioetica. I diritti. La pace, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Un viandante della complessità. Morin filosofo a Messina, Annamaria Anselmo, Messina, Armando Siciliano Editore); “Croce e altri ancora, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Etica ed economica” (Messina, Armando Siciliano Editore); “La virtù” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Croce filosofo italiano, Firenze, Le Lettere); “Illuminismo, Napoli, La scuola di Pitagora); “Libertà” (Napoli, La scuola di Pitagora); “Storia della filosofia, Napoli, La scuola di Pitagora); “Positivismo, Napoli, La scuola di Pitagora); “Filosofia della storia, Napoli, La scuola di Pitagora); “Rinascimento, Napoli, La scuola di Pitagora); “Aristotele e Perelman, Retorica vecchia e nuova” introduzione (Napoli, Il Tripode); La retorica di Aristotele, retorica antica, Perelman, Itinerari dell'idealismo italiano, Napoli, Giannini, Raffaello Franchini, Teoria della pre-visione” (Messina, Armando Siciliano Editore, Croce, La religione della libertà. Antologia degli scritti politici, Soveria Mannelli, Rubbettino, Il diritto alla filosofia, Atti del Seminario di studi su Franchini” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Croce filosofo, Atti del Convegno di studi, Napoli-Messina” (Soveria Mannelli, Rubbettino); La Fenomenologia dello spirito” (Napoli, Bibliopolis); Cavour, Discorsi su Stato e Chiesa” (Soveria Mannelli, Rubbettino, Letteratura critica Giovanni Reale, Girolamo Cotroneo, in Dario Antiseri e Silvano Tagliagambe, Storia della filosofia, Milano, Bompiani, Lo storicismo di Cotroneo, Soveria Mannelli, Rubbettino, Giuseppe Giordano, Tra Storia della Filosofia e Liberalismo, in Bollettino della Società Filosofica Italiana, Roma, Carocci, Giordano, Rivista di storia della filosofia, Milano, Franco Angeli, C., in Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ricerca Virtù disposizione d'animo volta al bene Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Virtù (disambigua). La virtù (dal latino virtus; in greco ἀρετή aretè) è una disposizione d'animo volta al bene, che consiste nella capacità di una persona di eccellere in qualcosa, di compiere un certo atto in maniera ottimale, o di essere o agire in un modo ritenuto perfetto secondo un punto di vista morale, religioso, o anche sociale in base a alla cultura di riferimento.  Il significato di virtù ha risentito di quello di bene, un concetto che assume significati diversi a seconda delle modifiche intervenute nel corso delle varie situazioni storiche e sociali. Concezione questa non condivisa dalle dottrine che ne negano il relativismoconnesso e che intendono la virtù come l'assunzione di valori, intesi come assoluti, immutabili nel tempo. La parola latina virtus, che significa letteralmente "virilità", dal latino vir "uomo" (nel senso specifico di "maschio" e contrapposto alla donna) si riferisce ad esempio alla forza fisica e a valori guerreschi maschili, come ad esempio il coraggio.  Nella lingua italiana la virtù è invece la qualità di eccellenza morale sia per l'uomo sia per la donna e il termine è riferito comunemente anche a un qualche tratto caratteriale considerato da alcuni positivo.   Personificazione della virtù nella Biblioteca di Celso. La virtù nella filosofia occidentale anticaModifica Il concetto grecoModifica  Niccolò Machiavelli Nella visione della vita secondo la filosofia anticagreca, la concezione dell'aretè non era connessa all'azione per il conseguimento del bene, bensì indicava semplicemente una forza d'animo, un vigore morale e anche fisico. Essa coincide con la realizzazione dell'essenza innata della persona, sia sul piano dell'aspetto fisico, il lavoro, il comportamento e gli interessi intellettuali.  Questa concezione di virtù contiene l'eccellenza degli eroi omerici, quella degli statisti Ateniesi, o quella descritta nel Menone di Platone ovvero la capacità di ben governare. In questo senso il coraggio, la moderazione e la giustizia erano virtù morali.  Tale sarà, ad esempio, il senso nella concezione rinascimentale sulla politica in Niccolò Machiavelli che vorrà distinguere l'aretè del principe moderno, come la capacità di opporsi alla "fortuna" e di modificare le circostanze ai propri fini di potere e con lo scopo principale del mantenimento dello stato (senza tener conto del giudizio morale sui mezzi impiegati), dalla virtus cristiana del sovrano medioevale che governa per grazia di Dio a cui deve rispondere per la giustificazione della sua azione politica, diretta anche a difendere i buoni e proteggere i deboli dalla malvagità. Nel Principe nessuna considerazione morale né religiosa dovrà ostacolare la sua azione spregiudicata e forte, frutto della sua "aretè", tesa a mettere ordine là dov'è il caos della politica italiana. Non diversamente, nella visione di Nietzsche la virtù consisterà nella "volontà di potenza" in opposizione alla "morale degli schiavi" nata dallo spirito di risentimento del Cristianesimo nei confronti degli uomini superiori.  Le virtùModifica  Platone Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Etica  Socrate e Platone. La concezione della virtù nel pensiero greco antico costituisce il fulcro centrale dell'etica e delle sue trasformazioni nel corso del tempo.  Così in Platone le virtù corrispondono al controllo della parte razionale dell'anima sulle passioni. Ne La Repubblica verranno indicate per la prima volta le quattro virtù, che da Sant'Ambrogio in poi verranno chiamate "cardinali", vale a dire principali:  la temperanza, intesa come moderazione dei desideri che, se eccessivi, sfociano nella sregolatezza; il coraggio o forza d'animo necessaria per mettere in atto i comportamenti virtuosi; la saggezza o "prudenza", variamente intesa dalla speculazione antica seguente, che costituisce, come controllo delle passioni, la base di tutte le altre virtù; la giustizia è quella che realizza l'accordo armonico e l'equilibrio di tutte le altre virtù presenti nell'uomo virtuoso e nello stato perfetto. Le virtù secondo Aristotele Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Aristotele L'Etica. Aristotele Mentre Platone parlava genericamente di saggezza per l'esercizio della virtù, Aristotele la distingue invece dalla "sapienza". La saggezza, o "prudenza", è una "virtù dianoetica", propria cioè della razionalità comune a tutti che ispira la condotta umana permettendo il giusto esercizio delle "virtù etiche", quelle cioè che riguardano l'azione concreta.  Tra le virtù dianoetiche che presiedono alla conoscenza (intelletto, scienza, sapienza) o alla attività tecniche (arte), la saggezza è propria di colui che, pur non essendo filosofo, è in grado di operare virtuosamente. Se si dovesse acquisire la sapienza filosofica per praticare le virtù etiche questo comporterebbe che solo chi ha raggiunto l'età matura, divenendo filosofo, potrebbe essere virtuoso mentre con la saggezza, grado inferiore della sapienza, anche i giovani possono praticare quelle virtù etiche che permetteranno l'acquisto delle virtù dianoetiche. La saggezza insomma permette una vita virtuosa, premessa e condizione della sapienza filosofica, intesa come "stile di vita" slegato da ogni finalità pratica, e che pur rappresentando l'inclinazione naturale di tutti gli uomini solo i filosofi realizzano a pieno poiché  «Se in verità l'intelletto è qualcosa di divino in confronto all'uomo, anche la vita secondo esso è divina in confronto alla vita umana.»  Virtù eticheVirtù dianoetiche Giustizia Coraggio Temperanza Liberalità Magnificenza Magnanimità Mansuetudine Virtù calcolative Arte Prudenza Virtù scientifiche Sapienza Scienza Intelligenza La saggezza può esser fatta conseguire ai giovani tramite l'educazione che i saggi, o quelli ritenuti tali dalla collettività, impartiranno anche con l'esempio concreto della loro condotta. Da questi modelli il giovane apprenderà che le virtù etiche consistono nella capacità di comportarsi secondo il "giusto mezzo" tra i vizi ai quali si contrappongono (ad esempio il coraggio è l'atteggiamento mediano da preferire tra la viltà e la temerarietà), sino a conseguire con l'abitudine un abito spontaneamente virtuoso: infatti  «La virtù è una disposizione abitudinaria riguardante la scelta, e consiste in una medietà in relazione a noi, determinata secondo un criterio, e precisamente il criterio in base al quale la determinerebbe l'uomo saggio. Medietà tra due vizi, quello per eccesso e quello per difetto»  In medio stat virtus è il detto della filosofia scolastica che traduce il concetto greco di mesotes.  La virtù secondo gli stoiciModifica Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Stoicismo Etica. La saggezza, ossia la capacità di operare con prudenza, è al centro della morale epicurea e stoicama, mentre per gli epicurei la virtù si consegue attraverso un calcolo razionale dei piaceri stabilendo quali di essi siano veramente necessari e naturali, per gli stoici invece il comportamento virtuoso, risultato del conseguimento dell'"apatia", cioè della liberazione ascetica dalle passioni, è di per sé portatore di felicità. Per coloro che non riescono a condurre la loro vita secondo saggezza lo stoicismo indicherà delle regole di condotta che insegneranno a operare secondo ciò che è più "conveniente" od opportuno tenendosi sempre lontano dagli eccessi delle passioni.  La morale stoica ispirerà quella dei filosofi come Cartesio, che rivaluterà tra le passioni quella della "magnanimità", considerata virtù somma, e Spinoza che afferma che «il primo e unico fondamento della virtù, ossia della retta maniera di vivere, è di cercare il proprio utile» intendendo per "utile" solo ciò che «conduce l'uomo a maggior perfezione» infatti «gli uomini che ricercano il proprio utile sotto la guida della ragione non appetiscono per sé niente che non desiderino gli altri uomini, e perciò essi sono giusti, fedeli, onesti» e per ciò stesso la virtù è premio a sé stessa come portatrice di una vita serena condotta secondo la razionalità.  Le virtù secondo il cristianesimoModifica «Il fine di una vita virtuosa consiste nel divenire simili a Dio»  Nel pensiero cristiano oltre le virtù umane è possibile l'esercizio di quelle soprannaturali: le virtù teologali di fede, speranza e carità che in qualche modo dovranno conciliarsi con quelle dell'etica antica.  San Tommaso conserverà la validità delle virtù "cardinali" aristoteliche ma considerandole inferiori a quelle teologali mentre Agostino riteneva false le virtù umane dei pagani che mascherano sotto il nome di virtù quello che in realtà è l'esercizio di vizi "splendidi", ma pur sempre negativi in quanto causati dall'orgoglio e dalla ricerca dell'effimera gloria umana. L'unica grande virtù è la carità, l'amore di Dio il cui esercizio, per quanto essi facciano, non dipende dagli uomini ma dalla volontà divina che lo infonde negli spiriti eletti, cioè dalla infusione nell'uomo della indispensabile grazia divina. Concezione questa che riaffiorerà nel XVI secolo con la Riforma protestante e nel Giansenismo.  Inoltre uno dei nove cori delle gerarchie angeliche, viene denominato Virtù ed indica secondo lo Pseudo-Dionigi il coro angelico preposto a dispensare la grazia divina.  La virtù nel pensiero modernoModifica Nella filosofia dell'età moderna la concezione della virtù oscilla tra quella che la considera come l'esercizio di un controllo delle passioni a cui rinunciare e quella che invece la ritiene rientrare nell'ambito di un comportamento istintivo e naturale dell'uomo. Alla prima interpretazione si associano le dottrine della corrente libertina da Pierre Bayle a Mandeville che ironizzano sulla effettiva possibilità per gl’uomini dell'esercizio delle virtù che se anzi fossero attuate provocherebbero la disgregazione della società.   «Il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtù da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa.]»  Si è sempre parlato ipocritamente di virtù, osservano i libertini, le quali in realtà sono la mascheratura dei propri vizi come ben appare nella contrapposizione tra le ostentate "pubbliche virtù" e i nascosti "vizi privati". La virtù come sacrificio del singolo cittadino a vantaggio della patria di tutti, è anche nella concezione politica di Montesquieu che riporta questo comportamento civile ai regimi repubblicani mentre in quelli monarchici prevale l'orgoglio e in quelli dispotici la paura. Anthony Ashley Cooper, III conte di Shaftesbury Nell'etica inglese la virtù è intesa, in opposizione alle dottrine sull'"egoismo" di Thomas Hobbes, come atteggiamento impulsivo naturale determinato dal sentimento morale della benevolenza (Shaftesbury e Francis Hutcheson) che spinge l'uomo a operare senza badare alla riprovazione morale dell'opinione pubblica, al terrore di una punizione futura o all'intervento delle autorità, istituite come incentivi alla bontà. L'azione virtuosa dell'uomo è invece ispirata dalla voce della coscienza e dall'amore di Dio. Solo questi due fattori spingono l'uomo verso la perfetta armonia, per il suo stesso bene e per quello dell'universo. Lo stesso istinto alla virtù secondo David Hume e Adam Smith è quello della simpatia. Le nostre sensazioni nelle relazioni con gli altri (e le azioni sono valutabili moralmente in rapporto ad altri uomini), non possono essere ridotte a una dimensione esclusivamente egoistica: ciò che noi proviamo è condizionato sempre da ciò che provano gli altri in conseguenza delle nostre azioni.»  (David Hume, Trattato sulla natura umana, Libro terzo, Parte terza, sez. prima-terza) «Per scoprire la vera origine della morale, e quella dell'amore e dell'odio che deriva dalle qualità morali, dobbiamo considerare nuovamente la natura e la forza della simpatia. Gli animi degli uomini sono simili nei loro sentimenti o nelle loro operazioni, né esiste un sentimento che si produca in una persona di cui non partecipino, in qualche grado, tutte le altre. Questa disposizione naturale e spontanea dell'uomo all'esercizio della virtù troverà espressione nel deismo e in seguito costituirà il nucleo della teoria romantica dell'"anima bella" di Schiller.  La virtù come sforzo. Kant Una ripresa della concezione della virtù come repressione delle passioni umane è nella filosofia morale di Kant che distingue una "dottrina della virtù" dalla "dottrina del diritto". Nel diritto l'uomo si sottomette alla legge per rispettarne la formalità esteriore senza considerare il motivo della sua azione ma solo perché così prescrive la norma, mentre nella morale ci si vuole comportare secondo il dettato morale indipendentemente da qualsiasi motivo e conseguenza della propria azione: si realizza così la virtù come soggezione della volontà all'"imperativo categorico". La vetta, opera simbolista di Cesare Saccaggi, che esprime i concetti romantici di Streben («sforzo») e Sehnuct («struggimento»), ossia l'anelito dell'uomo verso un ideale che si rivela sempre più arduo ed elevato. L'imperativo categorico, ossia la virtù, implica che l'uomo debba compiere uno sforzo (Streben), combattendo le inclinazioni sensibili e le passioni, nel conformare la sua volontà a ciò che l'imperativo comanda, mentre pensare che questo possa avvenire spontaneamente significa confondere la debolezza umana con ciò che è proprio della santità che appartiene solo a Dio che non ha nessun dovere nei confronti della legge morale. Ciò che prescrive la morale è identico sia per gli uomini sia per la divinità, ma questa, poiché non ha niente che possa ostacolarla nell'osservanza della legge morale, non ha neppure virtù. Questa visione della virtù assimilerebbe il pensiero kantiano allo stoicismo che Kant invece rifiuta laddove questo connette all'esercizio della virtù la felicità. Certo l'uomo nella sua costituzione sensibile ha bisogno della felicità ma nulla garantisce che egli possa raggiungerla. Un'esigenza di giustizia vuole poi che l'uomo abbia una felicità bilanciata al suo comportamento virtuoso ma poiché questo non accadrà mai nel nostro mondo terreno, egli allora postulerà l'esistenza di un'anima immortale a cui un Dio giusto assicuri la giusta felicità.  L'etica kantiana, tradotta da Fichte e Schelling nella tensione verso un ideale infinito a cui l'Io cerca progressivamente di conformare il non-io, pur non raggiungendolo mai definitivamente, sarà invece messa in discussione da Hegel, il quale vi vedrà l'espressione di un tipico soggettivismo delle "virtù private" contrapposto a quella "eticità" antica, ancora valida nel suo tempo, da apprezzare perché rivolta alla collettività dove si realizza il bene tramite la famiglia, la società civile e lo Stato.[Le virtù secondo il BuddhismoModifica Il Buddhismo sostiene la conciliabilità tra saggezza e virtù come un desiderabile obiettivo per l'uomo buono che ci ricorda l'antica concezione socraticaispirata a quell'intellettualismo etico secondo cui il l'uomo fa il male perché ignora cosa sia il bene.  Le virtù nel Buddhismo sono il continuo applicare, come regole di autodisciplina nella vita quotidiana, dei Tre rifugi o dei Cinque precetti che consistono nello  1. Astenersi dall'uccidere o danneggiare qualunque creatura vivente 2. Astenersi dal prendere ciò che non ci è stato dato 3. Astenersi da una condotta sessuale irresponsabile 4. Astenersi da un linguaggio falso o offensivo 5. Astenersi dall'assumere bevande alcoliche e droghe Vivendo in questo modo si incoraggiano la disciplina e la sensibilità necessarie per chi voglia coltivare la meditazione, che è il secondo aspetto del sentiero.  La virtù nella filosofia cinese La virtù (traduzione di "de" ) è un concetto importante anche nelle filosofie cinesi come il confucianesimo e il taoismo. Le virtù cinesi comprendono l'umanità, lo xiao (solitamente tradotta come pietà filiale) e zhong (lealtà). Un valore importante, contenuto nella gran parte del pensiero cinese, è che lo stato sociale di ciascuno debba essere determinato dall'insieme delle sue virtù manifeste, e non da un qualunque privilegio di nascita. Nei suoi Analecta, Confucio parla della pratica che conduce alla perfetta virtù. Le virtù confuciane si sviluppano in due rami: il ren e il li; il ren può essere tradotto come benevolenza, amore disinteressato, e l'uomo la può raggiungere praticando cinque virtù: magnanimità, rispetto, scrupolosità, gentilezza e sincerità. Confucio afferma che queste virtù devono essere praticate verso il li, che è la parte pratica della virtù confuciana. Il li consiste in cinque canali relazionali: marito/moglie, genitore/figlio, amico/amico, giovane/anziano, suddito/sovrano.  Romanus Cessario, Le virtù, Editoriale Jaca, Ancient Ethical Theory (Stanford Encyclopedia of Philosophy) Ferroni, Machiavelli, o Dell'incertezza: la politica come arte del rimedio, Donzelli Editore, Platone, Repubblica o sulla giustizia. Testo greco a fronte, a cura di Vitali, Feltrinelli Editore, Aristotele, Etica Nicomachea, Aristotele, Etica Nicomachea, Kambouchner, L'Hommes des passions. Commentaires sur Descartes, Paris, Albin Michel 1995 ^ Remo Bodei, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico, Feltrinelli Editore, Eth. V, prop. 41 Eth. IV, prop. 18 ^ San Gregorio di Nissa, De beatitudinibus, oratio 1: Gregorii Nysseni opera, ed. W. Jaeger (Leiden L'elenco è dedotto dalla prima lettera di Paolo ai Tessalonicesi: «Rivestiti della corazza della fede e della carità avendo come elmo la speranza» (1Ts 5,8) Kostko, Beatitudine e vita cristiana nella Summa theologiae di S. Tommaso d'Aquino, Edizioni Studio Domenicano, I vizi capitali considerati come gli opposti delle virtù nella concezione cristiana sono superbia, avarizia, lussuria, gola, ira, invidia e accidia (in Domenico Galvano, Catechismo della diocesi di Nizza1) Mondin, Etica e politica, Edizioni Studio Domenicano, Mandeville, La favola delle api ^ L'espressione si ritrova nell'operetta di Bernard de Mandeville pubblicata anonima con il titolo The Grumbling Hive, or Knaves Turn'd Honest (Ronzio di arnie, o Furfanti divenuti onesti), ristampata con l'aggiunta del sottotitolo Vizi privati e pubbliche virtù e infine con il titolo Fable of the Bees: or, Private Vices, Publick Benefits (La favola delle api: ovvero vizi privati, pubbliche virtù) Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, Kant, Metafisica dei costumi Galli e Aa.Vv., Saccaggi: un poliedrico pittore internazionale su gabbantichita.com, Studio d'Arte e Restauro Gabbantichità. Nell'opera, intitolata anche La regina dei ghiacci, l'atteggiamento passionale e implorante dell'uomo si contrappone alla gelida irraggiungibilità della donna, allegoria della Montagna-Natura. Fausto Fraisopi, Adamo sulla sponda del Rubicone: analogia e dimensione speculativa in Kant, Armando Editore, Pasquale Fernando Giuliani Mazzei, Kant e Hegel: un confronto critico, Guida; Hua, Buddhismo: Une breve introduzione, Dharma Realm Buddhist Association, Pavolini, Buddismo, Hoepli,  Chiesa Cattolica, Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano, New Catholic Encyclopedia, Catholic University of America, Natoli, Dizionario dei vizi e delle virtù, Feltrinelli UE Scheler, Per la riabilitazione della virtù. Aquino, Le virtù. Quaestiones de virtutibus, I e V, Testo latino a fronte, Milano, Bompiani,  Paideia Bushidō Moralità Etica Bontà Teoria dei valori Giustizia sociale Pietà (teologia) Sette peccati capitali Virtù cardinali Virtù teologali Timè. «virtù» virtù, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Virtù / Virtù (altra versione), su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Virtù, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata The Four Virtues, su thefourvirtues.com. The Virtues Project, su metamind. Virtue Science.com.  Portale Filosofia   Portale Religione.  Etica ramo della filosofia  Etica Nicomachea opera di Aristotele  Virtù dianoetiche ed etiche Wikipedia Il contenutoGirolamo Cotroneo. Cotroneo. Keywords: VIRTÙ, retorica, retorica di Aristotele, retorica nuova, retorica moderna, Perelman, rareta e storia, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cotroneo” – The Swimming-Pool Library. Cottroneo.

 

Cotta: l’accademia a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He appears as a character in De natura deorum by Cicerone. There he presents the points of view of the Accademia. However, he spends some time in exile and almost certainly studies the doctrine of the Porch and that of the Garden as well. Gaio Aurelio Cotta. Cotta.  

 

Grice e Cotta: l’implicatura conversazionale nella storia del diritto romano -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “My favourite explorations by Cotta are three: ‘per che violenza?” – “dalla guerra alla pace: un itinerario filosofico” and a secondary-literature study on ‘i concordati’ --- which is MY philosophy. You see, Plato thought that the soul resided in the brain – cool as he was – but Aristotle corrected him: it resides in the HEART – Cicero loved that and coined ‘cum-cor’ – i.e. something like my cum-operare: your hearts convene!” -- Grice: “I would say Cotta is Italy’s H. L. A. Hart, with a bonus – he wrote on essentialism, deontic logic, and from war to peace!”  Figlio di Alberto, studioso di scienze forestali, e Maria Nicolis di Robilant. Da parte di madre è discendente diretto di Eulero. Studia a Firenze presso l'istituto dei barnabiti La Querce. Si laurea a Firenze. Chiamato alle armi con il grado di sottotenente, il giorno dell'annuncio dell'armistizio, è in Friuli. Scioltosi l'esercito, scende in barca lungo l'Adriatico per raggiungere l'Italia non ancora occupata dai tedeschi. Ammalatosi di malaria, dopo svariate traversie decide di raggiungere il Piemonte, dove partecipa alla guerra di resistenza come comandante di una brigata partigiana nella VII Divisione Autonoma "Monferrato". È tra i primi ad entrare a Torino nei giorni della liberazione. Per la sua partecipazione alla guerra partigiana gli vengono attribuite la Medaglia di bronzo al valor militare e la Croce di guerra. Dopo gli studi sul pensiero politico dell'Illuminismo i suoi interessi si sono incentrati sulla filosofia giusnaturalistica, che è stato in grado di fondere con elementi della fenomenologia. Autore di saggi sulla visione politica di Montesquieu, Filangieri, Aquino ed Agostino, dedicandosi in seguito a riflessioni teoriche sul diritto e sulla politica. Insegna a Torino, Perugia, Trieste, Trento, Firenze, Roma, e Teramo. Fu tra i componenti del comitato promotore del referendum abrogativo della legge sul divorzio. Altre opere: “La società; “Il concetto di ‘legge’ in Filangieri” (Torino, Giappichelli); “Il concetto di ‘legge’ in Aquino” (Torino, Giappichelli). “Il concetto di Roma come città in Agostino”; “Filosofia e politica nell'opera di Rousseau”; “La sfida tecnologica”; “L'uomo tolemaico” – la ferita narcissista di Galileo – “Quale Resistenza?, Perché la violenza; “Il normato: tra il giurato e l’obbligato”; “Il diritto nell'esistenza. Linee di ontofenomenologia giuridica”; “Dalla guerra alla pace”; “l’uomo, la persona, il diritto umano”; “Il pensiero politico di Montesquieu, Bari, Laterza); “L’inter-soggetivo giurato”; “I limiti della politica, “Il sistema di valori e il diritto”; Perché il diritto Quid ius?” (Brescia, La Scuola). Stante la concessione chirografata dall'ex re Umberto II, C. puo fregiarsi del titulo nobiliare di “conte”, sia pure del tutto informalmente stante l'instaurazione dell'ordinamento repubblicano e la XIV disposizione finale e transitoria della Costituzione. Diritto romano ordinamento giuridico della civiltà romana Lingua Segui Modifica Con diritto romano si indica l'insieme delle norme che hanno costituito l'ordinamento giuridico romano per circa tredici secoli, dalla data convenzionale della Fondazione di Roma fino alla fine dell'Impero di Giustiniano (565 d.C.). Infatti, tre anni dopo la morte di Giustiniano l'Italia fu invasa dai Longobardi: l'impero d'Occidente si dissolse definitivamente e Bisanzio, formalmente imperiale e romana, si allontanò sempre più dall'eredità dell'antica Roma e della sua civiltà (anche giuridica). Il Corpus Iuris Civilis in una stampa, che raggruppava l'insieme di tutte le leggi romane contemporanee e precedenti alla sua compilazione, avvenuta sotto Giustiniano I «Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere. Le regole del diritto sono queste: vivere onestamente, non danneggiare nessuno, dare a ciascuno il suo.»  (Eneo Domizio Ulpiano Libro secondo delle Regole dal Digesto 1.1.10 principio [1]) L'importanza storica del diritto romano si riflette ancora oggi in una lista di termini legali latini. Infatti, dopo la dissoluzione dell'Impero romano d'Occidente, il Codice giustinianeo rimase in effetti nell'Impero romano d'Oriente, conosciuto come Impero bizantino. Il linguaggio legale in Oriente fu il greco.  Il diritto romano definisce un sistema legale applicato nella maggior parte dell'Europa occidentale fino alla fine del XVIII secolo. In Germania, il diritto romano venne utilizzato più a lungo sotto il Sacro Romano Impero. Il diritto romano servì inoltre come base per la pratica legale attraverso l'Europa occidentale continentale, così come nella maggior parte delle colonie delle nazioni europee, inclusa l'America latina e pure l'Etiopia. Il sistema inglese e nord americano della common law venne influenzato anche dal diritto romano, in particolare nel loro glossario giuridico latineggiante. Anche la parte orientale dell'Europa venne influenzata dalla giurisprudenza del Corpus Iuris Civilis, specialmente nei paesi come la Romania medievale che creò un nuovo sistema, un mix del diritto romano e locale. L'Europa orientale fu inoltre influenzata dal diritto medievale bizantino.  Il diritto romano viene diviso approssimativamente in tre o cinque differenti stadi evolutivi. Dalla fondazione di Roma alle leggi delle XII Tavole.  Magnifying glass icon mgx2.svg Storia del diritto romano, Ius Quiritium e Mos maiorum. La prima fase, detta del diritto arcaico o quiritario, comprende il periodo che ha inizio con la fondazione di Roma e giunge alle Leggi delle XII tavole. In questo periodo, il diritto privato, compreso il diritto civile romano era applicato solo ai cittadini romani, ed era legato alla religione. Si trattava di una forma giuridica non sviluppata, quindi non contenente gli attributi di formalismo rigoroso, simbolismo e conservatorismo. Il giurista Sesto Pomponio disse: "All'inizio della nostra città, le persone iniziarono le loro prime attività senza alcun diritto scritto, e senza alcuna regola fissa: tutte le cose erano governate dispoticamente dai re". Si ritiene che il diritto romano sia radicato nella mitologia etrusca, con un'enfatizzazione dei rituali. Diritto repubblicano fino alla seconda guerra punica. Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Leggi delle XII tavole, Leges Liciniae Sextiae, Lex Canuleia, Lex Hortensia e Lex Aquilia. L'inizio del secondo periodo coincide con il primo testo di diritto: le leggi delle XII tavole. Il tribuno della plebe, Gaio Terentillo Arsa, propose che le leggi fossero scritte, per evitare che i magistrati potessero applicarle in modo arbitrario.Dopo otto anni di scontri politici, i plebei riuscirono a convincere i patrizia inviare un'ambasceria ad Atene, per copiare le leggi di Solone; essi inviarono poi altre delegazioni ad altre città greche per ottenerne il consenso. Secondo quanto ci racconta Livio, furono scelti dieci cittadini romani per mettere per iscritto le leggi. Mentre stavano eseguendo questo lavoro, gli vennero attribuiti poteri politici supremi, detti imperium, mentre il potere dei normali magistrativenne ridotto. I decemviri produssero le leggi su dieci tavole, dette tabulae, ma lasciarono insoddisfatti i plebei. Un nuovo decemvirato, si racconta, aggiunse due ulteriori tavole. La nuova legge delle XII tavole venne ora approvata dall'assemblea popolare. Gli studiosi moderni tendono a non dar credito alla precisione degli storici romani. Non credono in genere che un secondo decemvirato abbia mai avuto luogo. Il decemvirato si ritiene abbia incluso i punti più controversi del diritto consuetudinario, e di aver assunto le funzioni principali a Roma. Inoltre, la questione sulla influenza greca trovata nel diritto romano arcaico è ancora molto discussa. Molti studiosi ritengono improbabile che i patrizi abbiano inviato una delegazione ufficiale in Grecia, come gli storici romani credevano. Invece, gli studiosi suggeriscono che i Romani abbiano acquisito leggi dalle città greche della Magna Grecia, serbatoio principale dal mondo romano a quello greco. Il testo originale delle XII tavole non si è conservato, anche perché furono distrutte durante il sacco di Roma da parte dei Galli. I frammenti sopravvissuti mostrano che non si trattava di un codice del diritto in senso moderno. Non forniva infatti un sistema completo e coerente di tutte le norme applicabili o nel dare soluzioni giuridiche per tutti i casi possibili. Piuttosto, le tabelle contenevano disposizioni specifiche volte a modificare l'allora esistente diritto consuetudinario, anche se le disposizioni erano valide per tutti i settori del diritto, dove la parte più ampia era dedicata al diritto privato e alla procedura civile.  In seguito le leggi delle dodici tavole vennero integrate da una serie di nuove leggi come:  la Lex Canuleia, che ammetteva il matrimonio (ius connubii) tra patrizi e plebei; le Leges Licinae Sextiae che prevedevano restrizioni sui terreni pubblici (ager publicus), dove almeno uno dei due consoli doveva essere plebeo; la Lex Ogulnia dove i plebei ottennero l'accesso alle cariche sacerdotali; la Lex Hortensia dove i verdetti delle assemblee plebee (plebiscita) ora riguardavano tutte le persone; la Lex Aquilia, che poteva essere considerata come la fonte del moderno diritto civile. Tuttavia, il contributo più importante di Roma alla cultura giuridica europea non fu la promulgazione di leggi ben elaborate, ma l'emergere di una classe di professionisti giuristi e della giurisprudenza. Questo venne realizzato applicando in modo graduale e con metodo scientifico la filosofia al soggetto del diritto, tema che i greci stessi mai trattarono come una scienza.  Tradizionalmente, le origini della giurisprudenza romana sono collegate a Gneo Flavio, il quale sembra abbia pubblicato una serie di "modi di dire" contenenti il linguaggio giuridico da utilizzare in tribunale per intraprendere un'azione legale. Prima di Flavio, queste formule sembra fossero segrete e note solo ai sacerdoti. La loro pubblicazione rese così possibile, anche per chi non ricopriva cariche sacerdotali, di esplorare il significato di questi testi di legge. Il periodo che successe dopo la fine della seconda guerra punica fino all'avvento del principato, corrisponde storicamente al periodo del diritto chiamato pre-classico. Questo periodo coincise con una produzione da parte dei giuristi di un grande numero di trattati, soprattutto a partire dal II secolo a.C. Tra i più famosi giuristi del periodo repubblicano si ricordano, Quinto Mucio Scevolaautore di un voluminoso trattato su tutti gli aspetti del diritto romano, che ebbe grande influenza nelle epoche successive, e Servio Sulpicio Rufo, amico di Marco Tullio Cicerone. E benché Roma avesse sviluppato un sistema del diritto molto evoluto, oltre a una raffinata cultura legale, la Repubblica romanavenne rimpiazzata dal principato.  In questo periodo possiamo notare lo sviluppo di leggi più flessibili per soddisfare le esigenze del momento. In aggiunta al vecchio e formale ius civile venne creata una nuova classe giuridica: lo ius honorarium, che può essere definita come "la legge introdotta dai magistrati che avevano il diritto di promulgare editti al fine di sostenere, integrare o correggere la giurisprudenza esistente. Con questa nuova legge il vecchio formalismo venne abbandonato per i più flessibili principi dello ius gentium.  L'adattamento del diritto alle nuove esigenze fu dedicata alla pratica giuridica dei magistrati, e soprattutto riguardante i pretori. Un pretore non era un legislatore e non poteva tecnicamente creare una nuova legge quando emetteva i suoi editti. I risultati delle sue sentenze godevano di tutela giuridica[19] ed erano in effetti spesso fonte di nuove norme giuridiche. Il successore del precedente pretore non era vincolato dalle disposizioni del suo predecessore; comunque doveva rifarsi alle norme contenute negli editti del suo predecessore che si dimostrassero utili. In questo modo si generò un modo costante di operare da un punto di vista giuridico, editto per editto. Così, nel corso del tempo, parallelamente al diritto civile, che andava integrandosi e correggendosi, emerse un nuovo corpo di leggi pretorie. In realtà, la legge pretoria venne così definita dal celebre giurista romano Papiniano. Ius praetorium est quod praetores introduxerunt adiuvandi vel supplendi vel corrigendi iuris civilis gratia propter utilitatem publicam. Il diritto pretorio è una legge introdotta da pretori per integrare o correggere il diritto civile per il bene pubblico.»  Alla fine, il diritto civile e il diritto pretorio si fusero nel Corpus Iuris Civilis. I primi duecentocinquant'anni da Augusto, fino alla morte dell'imperatore Alessandro Severo corrispondono al cosiddetto "periodo classico". Questo momento storico rappresentò per il diritto e la giurisprudenza romana il momento più elevato dell'intera storia romana. I successi letterari e le pratiche dei giuristi di questo periodo hanno dato una forma unica al diritto romano.  I giuristi lavorarono in diverse direzioni, dando pareri legali: su richiesta delle parti private; ai magistrati a cui era affidata l'amministrazione della giustizia, soprattutto i pretori; nella redazione degli editti dei pretori, quando veniva annunciato pubblicamente l'inizio del loro mandato, su come avrebbero gestito le loro funzioni, oltre alle formule, in base alle quali vennero condotti procedimenti specifici. Alcuni giuristi vennero incaricati di occuparsi di prestigiosi uffici giudiziari e amministrativi. I giuristi produssero, inoltre, tutta una serie di commentari legali e trattati. Attorno al 130 il giurista Salvio Giuliano redasse un modello standard di come doveva essere redatto un editto di un pretore, che poi venne utilizzato da tutti i pretori da quel momento in poi. Questo editto conteneva dettagliate descrizioni di tutti i casi, nei quali il pretore avrebbe potuto compiere un'azione legale e una difesa. L'editto standard funzionava come un codice di legge completa, anche se formalmente non aveva forza di legge. Esso indicava i requisiti giuridici per un'azione legale di successo. L'editto divenne pertanto la base per numerosi commentari giuridici da parte dei giuristi classici di epoca tarda come, Giulio Paolo e Eneo Domizio Ulpiano. I nuovi concetti e istituti giuridici elaborati dai giuristi di epoca pre-classica e classica sono troppo numerosi da menzionare qui. Seguono quindi alcuni esempi:  i giuristi romani separarono chiaramente l'utilizzo di una cosa (proprietà) nel diritto legale, dalla possibilità di utilizzare e manipolare la cosa (possesso). Elaborarono anche la distinzione tra contratto e colpa come fonti delle obbligazioni legali. I contratti standard (di vendita, di lavoro, locazione, appalto di servizi) furono regolati nei più importanti codici continentali e le caratteristiche di ciascuno di questi contratti furono sviluppate nella giurisprudenza romana. Il giurista classico Gaio creò un sistema di diritto privato basato sulla divisione materiale di personae (persone), res (cose) e actiones (azioni legali). Questo sistema fu usato per molti secoli successivi: basterebbe ricordare i Commentaries on the Laws of England di William Blackstone, gli atti francesi del Codice Napoleonicooppure il codice civile tedesco (Bürgerliches Gesetzbuch). L'ultimo periodo è quello denominato post-classico, iniziato con la morte di Alessandro Severo  e segnò la fine del principato, dilaniato dalle guerre civiliper la porpora imperiale e dalle continue invasioni dei barbari del nord e delle armate persiane. Terminò, quindi, con il regno di Giustiniano. In questo periodo le condizioni per il fiorire di una cultura giuridica raffinata divennero meno favorevoli. La situazione politica ed economica generale si era andata deteriorando, da quando gli imperatori romaniavevano assunto un controllo più diretto di tutti gli aspetti della vita politica. Il sistema politico del principato, che aveva mantenuto alcune caratteristiche della costituzione repubblicana, cominciarono a trasformarsi nella monarchia assolutadel dominato. L'esistenza di una giurisprudenza e di giuristi che considerassero il diritto come una scienza, non come mero strumento per raggiungere gli obiettivi politici stabiliti dal monarca assoluto, non si adattarono al nuovo ordine di cose. La produzione letteraria cessò quasi di esistere. Pochi furono i giuristi conosciuti dopo la metà del III secolo. Tuttavia, mentre la maggior parte della giurisprudenza del diritto classico finì per essere ignorata e, infine, dimenticata in Occidente, in Oriente prese piede una fondamentale attività di codificazione delle leggi classiche e della giurisprudenza e di armonizzazione con le leggi successive, soprattutto grazie all'opera di Giustiniano I, che avrebbe costituito la base del diritto medievale.  Eredità del diritto romanoModifica In OrienteModifica  Edizione del Digesta, parte del Corpus Iuris Civilis di Giustiniano I. Quando la centralità dell'Impero romano venne spostata a est della Grecia nel IV secolo, apparvero nella legislazione ufficiale romana molti concetti legali di origine greca. Questa influenza risulta visibile perfino nel diritto privato inerente ai rapporti tra persone e alla famiglia, che tradizionalmente faceva parte del diritto che subiva minori cambiamenti. Per esempio Costantino I cominciò a porre delle restrizioni all'antico concetto romano di patria potestas, il potere detenuto dal padre nei confronti della famiglia e dei suoi discendenti, riconoscendo che le persone in potestate, i discendenti, potevano avere diritti di proprietà. Egli apparentemente fece delle concessioni al concetto molto più severo di autorità paterna del diritto greco-ellenistico. Il Codex Theodosianus era una codificazione delle leggi di Costantino. Gli imperatori successivi andarono perfino oltre, fino a quando Giustiniano I decretò che un fanciullo in potestate potesse diventare proprietario di tutto ciò che avesse acquistato, con esclusione di quanto veniva acquistato da suo padre. L'opera giuridica di Giustiniano, particolarmente il Corpus Iuris Civilis, continuò a costituire la base della pratica legale dell'Impero bizantino. Leone III Isaurico emise un nuovo codice, denominato Ecloga. Gli imperatori Basilio I il Macedone e Leone VI il Saggiocommissionarono la traduzione in greco del Codice e del Digesto, parti del codice di Giustiniano, conosciuta con il nome di Basilica. Il diritto romano preservato nel corpus legislativo di Giustiniano e nella Basilicarimasero la base della giurisprudenza greca e nelle corti della Chiesa ortodossa perfino dopo la fine dell'Impero bizantino e la conquista dei Turchi, formando così la base per gran parte del Fetha Negest, che rimase in essere in Etiopia. Reintroduzione in OccidenteModifica Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Regni romano-barbarici, Diritto barbarico e Diritto medievale. In seguito alle invasioni barbariche, come fonte principale del diritto, il diritto romano scomparve in gran parte dell'Europa occidentale. L’imperatore d'Oriente Giustiniano I promulgò il Corpus iuris civilis che in futuro sarebbe diventato la base per la reintroduzione del Diritto romano nell'Occidente. Nel Corpus, Giustiniano fece confluire tutte le antiche leggi di Roma cercando di armonizzarle con le nuove che nel frattempo erano state promulgate. Il Codice di Giustiniano fu applicato nei territori italiani sottoposti all'autorità di Bisanzio, ma le seguenti invasioni barbariche le cancellarono dall'Occidente, riducendo il diritto romano a mero diritto comune. In seguito, l'insistenza degli imperatori romano-germanici di proclamarsi diretti successori dell'Impero romano, in particolare della Dinastia ottoniana di Sassonia favorì, anche grazie alle università, la reintroduzione del Diritto romano in Occidente, andando a rimpiazzare le tradizioni giuridiche degli invasori germanici. Nel Regno di Sicilia il diritto romano fu reintrodotto per volontà dell'imperatore Federico II con le due assise di Capua e Messina. Il diritto romano venne riscoperto e dominò la pratica legale di molti paesi europei. Un sistema giuridico, in cui il diritto romano venne mescolato con elementi di Diritto canonico e di costume germanico, soprattutto con il diritto feudale, divenne comune in tutta l'Europa continentale e conosciuto come lo ius commune, termine che viene indicato nei sistemi giuridici anglosassoni come civil law.  Diritto romano e tutela dei monumentiModifica La protezione delle opere pubbliche e delle principali opere d'arte come anche, più in generale, dell'intera consistenza cittadina era disciplinata da un insieme organico di statuti, leggi, costituzioni e provvedimenti risalenti già alla prima età repubblicana. Nell'epoca classica si creò una nuova serie di cariche pubbliche che sovrintesero alla tutela di settori sempre più specifici, regolando e inserendo in un sistema altamente efficiente una realtà in precedenza già presente, seppur in forma embrionale, anche nel mondo greco.  Le tracce di come un tanto imponente sistema si sia trasmesso sino ai giorni nostri, influenzando la nascita delle prime moderne forme di protezione dei monumenti pubblici, sono fin troppo evidenti. Si pensi, per esempio, all'istituzione dei magistri aedificiorum et stratarum voluti, nella Roma del Quattrocento, da papa Martino V. Diritto romano oggiModifica Oggi, il diritto romano non è più applicato nella giurisprudenza moderna, anche se negli ordinamenti giuridici di alcuni Stati come il Sudafrica e San Marinoalcune parti si basano ancora sullo ius commune. Tuttavia, anche se la giurisprudenza si basa su un codice, si applicano molte regole derivanti dal diritto romano: nessun codice ha completamente rotto i collegamenti con la tradizione romana. Piuttosto, le disposizioni del diritto romano sono state create su misura in un sistema più coerente, espresso nella lingua nazionale di molti Stati. Per questa ragione, la conoscenza del diritto romano è indispensabile per capire i sistemi giuridici contemporanei. Il diritto romano risulta spesso un argomento obbligatorio per gli studenti di legge nelle varie giurisdizioni di diritto civile.  Come passo fondamentale verso l'unificazione del diritto privato negli Stati membri dell'Unione europea, viene così adottato il vecchio Ius Commune, che era la base comune della pratica legale in tutto il mondo, permettendo poi molte varianti locali, ed è sentito da molti come un modello basilare.  Divisioni interne al diritto romanoModifica Il diritto romano si suddivide in:  ius Quiritium (deriva da "Quirites", sinonimo di "Romani"), costituito da un insieme di consuetudini ancestrali, non scritte, talmente remote che i Romani stessi non ne conoscevano l'origine. Riguardava gli ambiti di diritto di famiglia, matrimonio, patria potestas e proprietà privata, e non comprendeva le obbligazioni, che in età arcaica non esistevano. Costituisce il nucleo più arcaico del ius civile. ius civile, era l'insieme delle norme che regolano i rapporti tra i cives romani, considerato nell'ottica romana come orgogliosa prerogativa dei cittadini di Roma. Di esso il giurista romano Papiniano dà la seguente definizione tramandataci dal Digesto giustinianeo: Ius autem civile est quod ex legibus, plebis scitis, senatus consultis, decretis principum, auctoritate prudentium venit. Il ius civile è il diritto che promana dalle leggi, dai plebisciti, dai senatoconsulti, dai decreti degli imperatori e dai responsi dei giurisperiti.»  (Digesto) ius gentium, l'insieme di tutti gli istituti che trovano tutela, oltre che nell'ordinamento statuale romano, anche presso altri popoli. ius naturale, la lezione stoica proficuamente accolta da Cicerone, si trasfuse nella coscienza giuridica romana. I giureconsulti, però, non essendo filosofi, ne trassero scarsi e rozzi ammaestramenti, interpretando la natura come atavico istinto comune anche agli esseri irrazionali. Ciò accadde specificamente nella definizione che ne diede Ulpiano, allorché stabilisce che "Il diritto naturale è quello che la natura ha insegnato a tutti gli esseri animati. [Da esso] derivano l'unione del maschio e della femmina, che noi chiamiamo matrimonio, la procreazione e l'allevamento dei figli. Vediamo infatti che anche gli altri animali, perfino quelli selvaggi, conoscono e praticano questo diritto. Questo passo di Ulpiano sarà inserito nel Digesto giustinianeo (D.) e insieme con l'intero Corpus iuris civilis costituirà oggetto di studio per le scuole giuridiche medievali. Gaio propende per una bipartizione del diritto, cioè che il diritto si divida in ius civile, creazione artificiale della civitas, e in ius gentium o ius naturale, diritto comune ai popoli e che trova la sua ragion d'essere nella naturalis ratio, cioè in una ragione naturale, dunque ritenuto anche eticamente migliore poiché ispirato dalla natura: in questa visione la schiavitù è considerata come una situazione naturale già predisposta dalla stessa natura; Ulpiano propende per una tripartizione del diritto; come Gaio, pensa che lo ius civile sia creazione artificiale, ma va oltre affermando che il ius gentium riguarda un regolamento per i soli uomini, mentre lo ius naturale sarebbe quello di tutte le creature viventi: in questo caso la condizione di schiavo viene vista come una condizione predisposta dal diritto e non riconducibile alla condizione naturale dell'uomo. ius honorarium (o ius praetorium), che riguarda le situazioni di diritto o di fatto che, pur non trovando tutela nelle norme dello ius civile, sono state regolamentate dall'attività giurisdizionale dei magistrati dotati di iurisdictio. Lo stesso Papiniano, nel medesimo brano in cui definisce il ius civile, racchiude il concetto di ius honorarium, che egli chiama ius praetorium, nelle seguenti parole. Ius praetorium est quod praetores introduxerunt adiuvandi vel supplendi vel corrigendi gratia propter utilitatem publicam; quod et honorarium dicitur ab honore praetorum. Il ius pretorium è il diritto introdotto dai praetores al fine di aiutare, aggiungere, emendare lo ius civileper la pubblica utilità; ciò che viene anche chiamato honorariumdall'onore dei pretori.»  Ius legitimum, il cui nome deriva da lex è il diritto prodotto in sede assembleare attraverso la votazione e approvazione di una legge comiziale; lo ius legitimum ha particolare vita in età repubblicana e fiorisce particolarmente con Augusto per poi scomparire dopo la sua morte e la trasformazione dello Stato in impero; con il venir meno delle assemblee a favore del duopolio Senato-imperatore e del successivo monopolio imperiale del potere la lex perde il suo carattere di comizialità e viene a identificarsi con la definizione di norme da parte dell'imperatore stesso, nella forma della "costituzione imperiale". Da questo momento lo ius legitimum si estingue, confluendo nello ius civile. Durante la repubblica le principali assemblee produttrici di ius legitimum erano i comitia centuriata e i concilia plebis, in minore parte le altre assemblee. Eneo Domizio Ulpiano, Digesto1.1.10 principio. Ad esempio stare decisis, culpa in contrahendoo in pacta sunt servanda.  In Germania, Art. 311 BGB.  Valacchia, Moldova e alcune altre province medievali. Secondo Francisci (Sintesi storica del diritto romano) la prima fase, denominata del diritto "primitivo", iniziava con la fondazione di Roma e terminava con la fine della seconda guerra punica. Biondi, Istituzioni di diritto romano, Ius civile Quiritium. ^ Come ad esempio la pratica rituale della mancipatio, una forma di vendita. "Roman Law", in Catholic Encyclopedia, Appleton Company, New York. Jenő Szmodis, The Reality of the Law — From the Etruscan Religion to the Postmodern Theories of Law, Ed. Kairosz, Budapest, Olga Tellegen-Couperus, A Short History of Roman Law, Livio, Ab Urbe condita libri. Decemviri legibus scribundis. ^ Pudentes, sing. prudens, o jurisprudentes. Pietro De Francisci, Sintesi storica del diritto romano. Invece Biondi lo accorpa in un unico periodo con il precedente e lo chiama "repubblicano". Berger, Encyclopedic Dictionary of Roman Law, in The American Philosophical Society.  Magistratuum edicta. Actionem dare.  Edictum traslatitium. Francisci, Sintesi storica del diritto romano, Tellegen-Couperus & Tellegen-Couper, A Short History of Roman Law. Ecloga | Byzantine law Britannica, su britannica. Cardini e Montesano, Storia Medievale, Firenze, Le Monnier Università/Storia. "È questo il famoso Corpus iuris civilis, nel quale Giustiniano dettò le sue nuove leggi preoccupandosi però di armonizzarle coerentemente con quelle antiche. Tale monumento alla sapienza giuridica di Roma sarebbe stato alla base della rinascita degli studi giuridici e delle istituzioni politiche della stessa Europa; e costituisce ancora oggi il fondamento sul quale si appoggiano i sistemi giuridici di gran parte dei paesi del mondo. Cardini e Montesano, Storia Medievale, Firenze, Le Monnier Università/Storia, "La pretesa di questi re di atteggiarsi a imperatori romani non fu priva di risultati anche importanti: essa fu ad esempio uno dei motivi per cui, a partire dalla metà del XII secolo, il diritto romano rientrò nell'Europa occidentale e -anche grazie al lavoro che fu allora espletato nelle università- s'impose come nuovo diritto sostituendosi in tutto o in massima parte alle precedenti tradizioni giuridiche ereditate dai germani delle invasioni." Cardini e Marina Montesano, Storia Medievale, Firenze, Le Monnier Università/Storia, "Introdusse il diritto romano, fondò l'Università di Napoli per disporre di un ceto di funzionari fedeli istruiti all'interno dei confini (altrimenti i suoi sudditi avrebbero dovuto andare fino a Bologna per studiare) e favorì lo "Studio" medico di Salerno." ^ Incluse tutte le proprietà private. ^ V. Campanelli, L'antefatto: leggi e norme di tutela nel diritto romano, "‘ANAΓKH", I curatores viarum, operum publicorum, rei publicae, statuarum, ecc. ^ Platone, nel VI capitolo delle Leggi, cita un tipo particolare di magistrati chiamati astynomi, storicamente documentati (cfr. Die Astynomenischrift, Atene) dediti alla cura e alla riparazione dei luoghi pubblici. Con la bolla Etsi in cunctarum. Che per gli Stoici era permeata dalla ragione divina. Fassò Fassò, p. 25, nota 5: «Digesto, Fassò, p. 25. BibliografiaModifica Fonti primarie giuridiche La ricostruzione dell'intero sistema di diritto romano è basata sul ritrovamento di fonti giuridiche e storiche più o meno complete. Di seguito, un elenco (certamente non esaustivo) delle principali fonti di produzione del diritto romano che ci sono pervenute:  Augusto, Res gestae divi Augusti (opera divisa in sei tabulae). Marco Tullio Cicerone, De legibus, libri I-III Wikisource-logo.svg. Codice Ermogeniano. Codice Teodosiano Imperatoris Theodosiani Codex Wikisource-logo.svg; il contraltare alla codificazione Giustinianea, in sedici libri densi di diritto e innovazioni strutturali, tra cui il Liber Legum Novellarum Imperatoris Theodosi. Constitvtiones Sirmondianae: raccolta di 16 costituzioni imperiali, che disciplinano materie ecclesiastiche; presero il nome dal primo loro editore, il gesuita Sirmond. Emanate non furono tutte accolte nel Codice teodosiano, in appendice al quale vennero pubblicate da Mommsen. Corpus Inscriptionum Latinarum. Decretum Gelasianum, fonte di diritto canonico, più che di diritto romano (da The Latin Library); Editto di Costantino e Licinio logo.svg. Edictum Theodorici Regis: l'Editto di Teodorico pubblicato nel 500, diviso in 154 articoli, era un codice "territoriale", cioè conteneva disposizioni valide sia per i Romani che per gli Ostrogoti. Ciascuno degli articoli era ricavato da un testo delle leges o degli iura, soprattutto dai codices, dalle Sententiae di Paolo ecc. Vi sono anche alcune norme nuove, di incerta origine (non si sa se di origine ostrogota oppure derivate dalla pratica). Fontes Iuris Romani Anteiustiniani in usum scholarum, divise in 7 libri (due sulle Leges, due sugli Auctores, e 3 sui Negotia). Fragmenta Vaticana Fragmenta Vaticana, frammenti di un'ampia compilazione privata di costituzioni imperiali e di passi desunti dalle opere di Papiniano, Ulpiano e Paolo. Il palinsesto fu scoperto da Mai nella Biblioteca Vaticana. Le costituzioni imperiali ivi riportate sono varie.. Giustiniano I, Corpus iuris civilis, composto da: Imperatoris Iustiniani Institutiones, (versione latina) -logo.svg; opera didattica in 4 libri destinata a coloro che studiavano il diritto; Domini Nostri Sacratissimi Principis Iustiniani Iuris Enucleati Ex Omni Vetere Iure Collecti Digestorum seu Pandectarum (o Pandectae), antologia in 50 libri di frammenti estrapolati (non senza modifiche) dalle opere giuridiche dei più eminenti giuristi della storia di Roma (testo latino); Domini Nostri Sacratissimi Principis Iustiniani Codex, testo latino (raccolta di costituzioni imperiali da Adriano allo stesso Giustiniano); Novellae Constitutiones - costituzioni emanate da Giustiniano dopo la pubblicazione del Codex, fino alla sua morte. Istituzioni di Gaio (Gai Institutionum). Leggi delle XII tavole (Duodecim Tabularum Leges). Lex Romana Burgundionum, scritta all'inizio del VI secolo, è articolata in 47 titoli e la si attribuisce a Gundobado, re dei Burgundi (Gallia Orientale). È destinata ai soli sudditi romani del regno dei Burgundi. Sententiae Pauli: i cinque titoli delle Sententiae receptae Pavlo tributae e i cinque libri delle Pavli sententiarvm interpretatio. Senatus consultum de Bacchanalibus; Ulpiano, Titvli ex corpore Ulpiani (opera piuttosto elementare, destinata soprattutto all'insegnamento del diritto, contenuta in un manoscritto della Biblioteca Vaticana. Secondo la dottrina prevalente, si tratta di una compilazione post-classica, con molta probabilità dell'epoca di Diocleziano o Costantino di passi rimaneggiati e rielaborati tratti da opere di Ulpiano). Storiografia moderna Dario Annunziata, Temi e problemi della giurisprudenza severiana. Annotazioni su Tertulliano e Menandro, Editoriale Scientifica, Napoli, Ruiz, Storia del diritto romano, Jovene, Ruiz, Istituzioni di diritto romano, Jovene, Biondi, Istituzioni di diritto romano, Ed. Giuffré, Milano Burdese, Manuale di Diritto Privato Romano, Utet giuridica, Burdese, Manuale di Diritto Pubblico Romano, Utet giuridica, Costabile, Storia del diritto pubblico romano, Iriti, Francisci, Sintesi storica del diritto romano, Roma Marzo, Istituzioni di diritto romano, Giuffrè, Milano, Marzo, Manuale elementare di diritto romano, Utet, Torino  Marrone, Istituzioni di diritto romano, Palumbo, Cesare Sanfilippo. Istituzioni di diritto romano, Rubbettino, Schiavone, Ius: l'invenzione del diritto in Occidente, Torino, Einaudi, 2 International roman law moot court Diritto latino romano, diritto, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Diritto romano, su hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera. Diritto romano, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Digitalizzazione completa del Corpus Iuris Civilis: Lion, Hugues de la Porte, Corpus iuris civilis, su thelatinlibrary.com. The Roman Law Library (Yves Lassard, Alexandr Koptev) Dizionario Storico del Diritto Romano SimoneDiritto e Storia del Diritto Romano Otto Vervaart, Rechtshistorieː A gateway to legal history - Roman Law, su rechtshistorie.nl. Fonti di diritto romano, su ancientrome.ru. (in russo). Portale Antica Roma   Portale Diritto   Portale Roma   Portale Storia Corpus iuris civilis raccolta di materiale giurisprudenziale, voluta dall'imperatore d'Oriente Giustiniano I  Digesto Compilazione di frammenti derivanti da opere di giuristi romani voluta da Giustiniano I.  Basilika. Il conte Sergio Cotta. Keywords: l’inter-soggetivo, il giurato, il normato. La prima ferita narcissista, Filangieri, giurato, l’uomo galileano, l’obbligato, il normato, Latin ‘normare’ – not recognized in Dizionario etimologico – il giurato d’entrambi – il concordato d’entrambi – fenomenologia – Roma citta – polis, politea, res publica – pubblico e privato -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cotta” – The Swimming-Pool Library. Cotta.

 

Grice e Crassicio: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. He moves to Rome where he works as a teacher before joining the school of Quinto Sestio. Crassicio Pasicle. Crassicio.

 

Grice e Crasso – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. An orator and a politican. He takes a keen interest in philosophy and at different times studies with Metodoro, Carmada, Clitomaco and Mnesarco. Lucio Lucinio Crasso. Crasso.

 

Grice e Cratippo: il lizio a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Lizio. Friend of Cicerone. Tutor of Orazio and Bruto. Marco Tullio Cratippo. Crattipo.

 

Grice e Credaro: l’implicatura conversazionale del discorso al senato -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Sondrio). Filosofo italiano. Grice: “I like Credaro; it is as if he invented the universities! I especially love the way he connects it all, in that uniquely Italian way, with the ‘assoluto’!”  Si laurea a Pavia, dove fu convittore del Collegio Ghislieri, divenne insegnante di liceo. Wi recò a Lipsia per perfezionarsi nella psicologia filosofica sotto Wundt. Insegna a Pavia. Ministro della Pubblica Istruzione del Regno d'Italia nei governi Luzzatti e Giolitti IV --  istituì il Liceo moderno. Relatore nella presentazione della Legge che istitutiva dei Corsi di perfezionamento, o più comunemente Scuole pedagogiche, di durata biennale, di preparazione per l'esercizio all'ispettorato o per la direzione didattica delle scuole. Fu l'ispiratore della legge Daneo-C., che stabiliva che lo stipendio dei maestri delle scuole elementari fosse a carico del bilancio dello Stato, e non più dei Comuni, contribuendo così in maniera determinante all'eliminazione dell'analfabetismo in Italia. Prima di questa legge, infatti, i comuni di campagna e quelli più poveri, specie nel Sud, non erano in grado di istituire e mantenere scuole elementari e pertanto rendevano di fatto inapplicata la legge Coppino sull'obbligo scolastico.  Si interessa attivamente dei problemi agricoli e forestali di Sondrio. Autore di numerosi saggi, in particolare sui Kant e Herbart.  Commissario Generale Civile della Venezia Tridentina, ossia la suprema autorità del Trentino-Alto Adige che sta per essere fannesso all'Italia. In tale veste tentò una politica particolarmente conciliante verso la minoranza di lingua tedesca e rispettosa dell'ordinamento amministrativo de-centrato della regione. In seguito, anche a causa delle pressioni dei nazionalisti, la sua politica nei confronti della minoranza di lingua tedesca si fece più intransigente. Testimonianza ne è la cosiddetta Lex Corbino,elaborata da Credaro, sull'istituzione di scuole elementari nelle nuove province che è considerata da una parte della storiografia strumento per potenziare la presenza italiana soprattutto nel territorio misti-lingue della regione a danno della minoranza tedesca. Ciononostante, sube l'assalto di una squadra d'azione fascista che lo costrinse alle dimissioni per far luogo all'insediamento di un prefetto di Trento. Termina quindi la sua carriera politica in disparte rispetto al regime che si andava consolidando. Altre opere: “Lo scetticismo degli platonisti (Roma, Terme Diocleziane); La libertà di volere (Milano, Bernardoni); Herbart, Torino, Paravia), “Razionalismo trascendente in Italia” Catania, Battiato); Wundt (Milano, Società Anonima Editrice Dante Alighieri). Andrea Di Michele, L’italianizzazione imperfetta. L’amministrazione pubblica dell’Alto Adige tra Italia liberale e fascismo, Alessandria, Orso, Analfabetismo, Dizionario biografico degli italiani, Cr. un italiano d'altri tempi articolo di Romano, Corriere della Sera,  Sondrio. Se il nome di Carneade non è completamente ignorato dalle persone colte, che non si occupano di storia della filosofia, si deve alla parte giuridica del suo pensiero, la cui conoscenza è tratta quasi interamente da pochi frammenti della famosa orazione (quasi-Trasimaco) *contro* il concetto dello giusto tenuta a Roma frammenti conservati da Lattanzio, il quale li ha presi dal trattato della repubblica di CICERONE. Questa orazione alla Trasimaco *contro* la coerenza del concetto dello giusto – gius – giustiziato, juratum, giurato cf. Cicerone jusjuratum --, che fa epoca nella storia della cultura del popolo romano, non deve essere considerata solamente un episodio della vita di Carneade, una semplice millanteria del facondo oratore, che volesse fare impressione sugli animi dei Romani; ma il suo contenuto deve venire integrato colle altre vedute di Carneade per cercarne il legame ed esaminarne il valore. A tale fine bisogna anche qui muovere dallo stoicismo. L'orazione *contro* lo giurato (Cicerone – iusiuratum) giustiziato ha qualche rapporto con esso? Si sa che tutti e tre i filosofi ambasciatori -- Carneade accademico, Diogene stoico e Critolao peripatetico -- durante il lungo soggiorno a Roma, sia per invito avuto dalla cittadinanza, che in quel tempo godeva la pice decorsa tra la battaglia di Pidna e la terza guerra punica, sia di propria iniziativa, per desiderio di far mostra di tutta la potenza della loro parola e della loro scienza filosofica, a beneficio eziandio della causa che patrocinavano, aprirono un corso di conferenze (GELLIO, Noct. Att.; MACROBIO, Saturn.). É probabile che tutti e tre filosofi – Carneade accademico, Critolao peripatetico del liceo – e Diogene stoico -- abbiano scelto l'argomento delle loro orazioni dalla filosofia pratica, come quella che interessa vivamente i loro ospiti, tutti dati alle armi, agli affari, alla politica, all'amministrazione; anzi e le cito supporre che ciascuno abbia esposte le idee della sua scuola – l’accademia, il lizio, e il portico -- intorno al “giurato” – Cicerone iusiuratum, il principio o imperativo più importante della vita pubblica e privata. Il soggetto del giurato – Cicerone, iusiuratum – dove soddisfare pienamente le esigenze e i desideri dell'uditorio, poichè i romani, a ragione o a torto, si credeno gli uomini più giusti (giuratura, iusiuraturus) e alla virtù del giurato (Cicerone iusiuratum) attribuivano la grandezza, alla quale era pervenuta la propria patria. In questa ipotesi lo stoico Diogene, con parola modesta e sobria, come attesta POLIBIO, che ebbe opportunità di ascoltarlo, spiega ai Romani l'idealismo morale e il cosmo-politismo della sua setta. L'anima di tutti gli uomini è uguale; e come tutte le cose uguali si attraggono, cosi anche gli esseri razionali; per ciò l'istinto della società è insito nella stessa ragione, la quale insegna a ciascuno di noi che esiste una sola città, un solo stato, la grande società umana; ciascuno si sente parte integrante di questo immenso organismo governato da una sola legge (ius) e da un solo diritto, la retta ragione (ius). Questa legge (ius) conforme alla natura si fa sentire in tutti, immutabile, sempiterna, divina; invita col comando al dovere, col divieto allontana dalla frode. È suprema, assoluta; non è lecito crearne altre contrarie, nè abrogarla totalmente o parzialmente; non voto di popolo, non decreto di senato possono dispensare dall'ubbidirla; nessuno ha bisogno d'interprete per comprenderla; è la medesima in Atene e in Roma, oggi e domani e sempre; l'inventore e il promulgatore di essa è uno solo, il maestro e il comandante di tutti, Dio. Chi non vi obbedisce, va contro la natura e per questo fatto solo soffrirà tutte le pene. L'uomo pensa e opera moralmente (mos: costume) solo in quanto conformasi a questa unica legge; e poichè questa è la medesima in tutti gli uomini, tutti debbono tendere allo stesso scopo, al bene universale. Il uomo non deve vivere per sè, ma per l'umanità; l'interesse personale deve essere asso lutarnente subordinato a quello umano Cic., de fin.; de rep.; Plut., de comm. notit.; Zeller). In questo stato politico ed etico regna perfetta concordia ed armonia. Tutti i cittadini hanno vivo il sentimento dell'ordine, coltivano la virtù e reprimono gli appetiti irrazionali, che sono la causa dell’inimicizia e della guerra (bellum, polemos). Sono sottomessi alla volontà divina, al fato, alla serie universale e interminabile delle cause e degli effetti. I doveri fondamentali sono il giurato (iusiuratum), in qua virtutis splendor est maximus, e la benevolenza e la beneficenza.Questedue virtù sono le basi della società civile (CICERONE, de fin.). Intorno ad esse Diogene puo parlare a lungo ai Romani, perchè nel Portico e stato soggetto di molte dispute e di scritti. Il suo tutore Crisippo gli aveva insegnato in proposito una dottrina propria. Tutti gli altri esseri sono nati per il bene degli uomini e degli dei, due uomini per formare una popolazione, una società, una comunanza, una communita, un comune; è inerente alla natura che tra l'uomo e il genere umano, come tra parte e tutto, interceda un diritto naturale. Colui che lo osserva è giusto (promuove il giurato – iusiurato); ingiusto chi lo trasgredisce. Tra il diritto pubblico e quello privato non avvi opposizione (CICERONE, de fin.). Un uomo non si trova in rapporti giuridici con una bestia, ma solo con suo simile. Affinchè si realizzi il regno del giurato (iusiuratum) e della moralità occorre che la perfetta ragione sia presente in tutti. La ragione invece si trova solamente nel sapiente; si formarono quindi gli stati singoli, che tengono divisa l'umanità. Come gli stati, così le istituzioni che li governano sono effetto di errore e stoltezza: quali l’istituzione del matrimonio, l’istituzione della famiglia, l’istituzione della proprietà, l’istituzione dela moneta, l’istituzione del ribunale, l’istituzione del ginnasio (Diog. L.). Stato conforme alla natura umana, con istituzioni veramente buone, non esiste. Edotto di questo idealismo politico, puo sul Campidoglio il pretore romano A. ALBINO, uomo erudito e versato nella lingua greca, dire per ischerzo volgendosi a Carneade. “A te, Carneade, non sembra io sia un pretore, nè questa una città, nè in essa abitino cittadini). A cui Carneade, che subito capisce di essere stato preso per il collega del Portico. “A questo del Portico non sembra cosi.” I filosofi ateniesi non lasciano di contendere neppure in paese straniero; o certo Carneade e stato assai lieto di osservare che al senso pratico dei romani la dottrina de' suoi avversari si presenta come assolutamente *ridicola*; e tornato in patria, crede il fatto degno di essere raccontato a' suoi discepoli (L'aneddoto è ricordato da Clitomaco. CICERONE, Ac.). Sogliono gli storici narrarci che Carneade tenne a Roma *due* discorsi ispirati a scopo opposto. Il primo giorno dimostra l'esistenza del diritto naturale e loda la giustizia (il giurato – il iusiuratum – dike – cf. lex). Il secondo giorno sostenne tutto il contrario; onde gridano all'immoralità, all’audacia e alla sfacciataggine del filosofo, che non si vergognò di difendere contraddizione si anorme. Anche non tenendo conto che, se si applicasse questo criterio, tutta la filosofia dei accademici sarebbe un' immoralità, perchè il loro metodo e di difendere in ogni quistione le soluziori opposte. Idue discorsi (tesi ed antitesi, positio e contra-positio, posizione e contra-posizione), tenuti in giorni successivi, abbiano un'unità perfetta (la sintesi, o com-posizione) e si propongano il medesimo fine: mostrare la falsità della dottrina della tesi di Diogene intorno al giurato; e siccome costoro in questa parte della filosofia, molto più che in altre, sono dipendenti da Platone e da Aristotele, bisogna prendere le mosse da questi. Leggiamo in LATTANZIO. Carneades autem, ut Aristotelem refelleret ac Platonem, IVSTITIAE patronos, prima illa disputatione collegit ea omnia, quae pro IVSTITIA dicebantur, ut posset illa, sicut fecit, evertere. Carneades, quoniam erant infirma, quæ a philosophis adserebantur, sumsit audaciam refellendi, quia refelli posse intellexit (Lattanzio, Instit. div.). E al trove. Nec immerito extitit Carneades, homo summo ingenio et acumine, qui refelleret istorum (Platone e Aristotele ) orationem et iustitiam, quæ fundamentum stabile non habebat, everteret, non quia vituperandam esse iustitiam sentiebat, sed ut illos defensores eius ostenderet nihil certi, nihil firmi de iustitia disputare (Epit.). Di qui è evidente che la prima orazione non era che un esordio, un'introduzione, uno sguardo storico alla questione, un'esposizione delle idee accettate da Diogene, che Carneade s'appresta a confutare nel vegnente giorno (CICERONE., de rep.); confutazione, la quale non ha per iscopo di vituperare la giustizia in sé, ma di colpire i filosofi avversari, o almeno la loro teoria dommatica – il domma. Non è la virtù del Portico, che Carneade demole, ma il sapere. E caso a noi pervennero frammenti solamente della seconda orazione. Questa sola offre una filosofia nuova, da una scossa inaspettata e forte all'intelligenza dei romani. Perciò eam disputationem, qua IVSTITIA evertitur, apud CICERONE  L. FURIO recordatur (Lattanzio, Instit. dio.). E noi ora possiamo tentare di ricostruire questo singolare discorso nelle sue linee generali. Per Carneade, non esiste una giustizia (giurato – iusiurato) naturale nè verso due uomini. Se esso esiste, le medesimecose sarebbero giurate (iusiurata) giuste o ingiuste, buone o cattive, morali o immorali, per ogni uomo, come le cose calde e le fredde, le dolci e le amare. Invece, chi conosce il mondo e la storia, sa che regna una grandissima diversità di apprezzamenti morali e giuridici, di consuetudini tra il popolo romano e il popolo sabino, da Roma a Sabinia, dal Tevere al Trastevere, da tempo a tempo. I cretesi e gl’etoli reputano cosa onesta il brigantaggio. I lacedemoni dichiarano loro proprietà tutti i campi che potevano toccare col giavellotto. Gl’ateniesi soleno annunciare pubblicamente che loro appartene ogni terra che producesse olive e biade. I barbari galli stimano disonorevole cosa procurarsi il frumento col lavoro, invece che colle armi. I romani vietano ai transalpini la coltivazione dell'ulivo e della vite, per impedire la concorrenza ai loro prodotti e dar a questi un valore più elevato. Gli semitici egiziani, che hanno una storia di moltissimi secoli, adorano come divinità il bue e belve di ogni genere. I semitici persiani, disprezzano gli dei dell'Ellade, ne incendiarono i tempii, persuasi essere cosa illecita che gli dei, i quali hanno per abitazione tutto il mondo, fossero rinchiusi tra pareti. Filippo il Macedone idea e Alessandro manda ad esecuzione la guerra contro i greci per punire quei numi. I Tauri, gli Egiziani, i barbari galli (“Norma”) e i Fenici credeno che tornassero assai accetti alle loro deità il sacrifizio umano. Si dice: E dovere dell'uomo che fa il giurato (iusiuratum) ubbidire alla legge. Quale legge? A la legge di ieri, o alla legge di oggi? A quelle fatte in questo lato del Tevere, o nel Trastevere? Se una un imperativo o una legge suprema, universale, trascendente, kantiana, costante s'impone alla coscienza dell’uomo, come pretende Diogene, coteste variazioni non sarebbero possibili. Perciò non esiste un diritto naturale, nè un uomo che per natura arriva al giurato (iusiuratum). Il diritto (IVS) è una invenzione dell’uomo a scopo di utilità e didifesa; come prova anche il fatto che non raramente la legge, le quale e fatta dal sesso maschile, assicura a questo sesso un particolare vantaggio a danno di quello femminile. Nessuna ‘legislazione’, attentamente esaminata, appare l'espressione di un imperative o principio fisso, naturale, vero, immutabile, divino. Invece al profondo osservatore non isfugge che ogni disposizione legale move da ragione di utile e viene cambiata appena non risponde più ai bisogni e agl'interessi di coloro che hanno nelle mani il potere. Ogni nazione cerca di provvedere al proprio bene e considera, per istinto di natura, gl’animali e le altre nazione come istrumenti della propria conservazione e felicità (CICERONE., de rep.). La storia insegna che ogni popolo che diventa grande, potente, ricco, non pensa ai vantaggi altrui, ma unicamente ai proprii. Voi stessi o ROMANI, dice Carneade parlando a un SCIPIONE Emiliano, il futuro distruttore di Cartagine e di Numanzia, a LELIO il saggio, al letterato FURIO Filone, a SCEVOLA il futuro giureconsulto, all'erudito SUPICIO Gallo, al grande oratore GALBA, al vecchio CATONE, l'implacabile nemico di Cartagine, al fiore di tutta la cittadinanza e alla presenza dei colti ostaggi achei trasportati in Italia, tra i quali il grande storico e generale Polibio. Voi stessi, o Romani, non vi siete impadroniti del mondo colla GIUSTIZIA. Se volete essere giusti, restituite le cose tolte agl’altri, ritornate alle vostre capanne a vivere nella povertà e nella miseria. Il criterio direttivo della vostra vita non e il  giurato (iusiuratum), bensi l'utilità, che invano cercate di mascherara. Poichè voi, coll'intimare la guerra per mezzo di araldi, col recare *in-giurie* sotto un pretesto di legalità, col desiderare l'altrui, col rubire, siete per venuti al possesso di tutto il mondo. Ma per temperare il cattivo effetto, che avesse potuto produrre negli animi dei Romani questa audace analisi dei fattori della loro grandezza politica, l'avveduto ambasciatore ateniese ricorda altri esempi, che sono celebri e lodati in tutto il mondo. Rammenta la ben nota risposta data dal pirata catturato ad Alessandro il grande. Io infesto breve tratto di mare con una sola fusta, con quel medesiino diritto, col quale tu, o Alessandro, infesti tutto il mondo con grande esercito e flotta. Il patriottismo, questa virtù somma e perfetta, che suole essere portata fino al cielo colle lodi, è la negazione del giurato (iusiuratum), perchè si alimenta della discordia seminata tra gli uomini e consiste nell'aumentare la prosperità del proprio paese, naturalmente a danno di un altro, coll’nvadere violentemente il territorio altrui, estendere il dominio, aumentare le gabelle. Patriotta è colui che acquista dei beni alla patria colla distruzione di altre città e nazioni, colma l'erario di denaro, rese più ricchi i concittadini. E, quel che è peggio, non solo il popolo e la classe incolta, ma eziandio i filosofi esortano e incoraggiano a commettere cotali atti ingiusti. Cosicchè alla malvagità non manca neppure l'autorità della scienza. Ovunque regnano inganno e ingiustizia, che invano si tentano di nascondere e legittimare. Tutti quelli che hanno diritto di vita e di morte sul popolo sono tiranni. Ma essi preferiscono chiamarsire per volontà divina. Quando alcuni, o per ricchezze, o per ischiatta, o per potenza, hanno nelle mani l'amministrazione di una città, costituiscono una setta. Ma i membri prendono il nome di “ottimato”. Se il popolo ha il sopravvento nel maneggio dei pubblici affari, la forma di governo si chiama libertà; ma è licenza. Ma poichè gli uomini si temono l'un l'altro, e una classe ha paura dell'altra, interviene una specie di *patto* o contratto fra popolo e potenti e si costituisce una forma mista di governo, dove la giustizia è un effetto non di natura o di volontà, ma di debolezza. Ed è naturale che cosi avvenga. Se l'uomo deve scegliere tra le seguenti condizioni: recare *in-giuria* e non riceverne; e farne e riceverne; nè farne, nè riceverne, egli repute ottima la prima, perchè soddisfa meglio i suoi istinti. Poscia la terza, che dona quiete e sicurezza; ultima e più infelice la condizione di chi sia costretto ad essere continuamente in armi, sia perchè faccia, sia perché riceva *in-giurie”. Adunque alla Hobbes lo stato naturale dei rapporti tra uomo e uomo è la lotta (uomo uominis lupo), la guerra, la discordia, la rapina, la violenza, l'inganno, in una parola, la negazione del giurato (giusgiurato). La giustizia è una virtù che si esercita per effetto di debolezza e per proprio tornaconio. Ma Diogene, come vedemmo, considera il giurato (iusiuratum) verso gli uomini. Carneade dove notare che l’istituzione del tempio esiste solamente nel l'immaginazione de' suoi avversari e dei filosofi, dai quali essi attinsero i loro principii. Non si acquista, non si allarga potere, non si fonda regno senza le armi, le guerre, le vittorie; le quali alla loro volta in generale presuppongono la presa e la distruzione di città. E dalle distruzioni non vanno immuni le oggetti addorati nei tempi, ne dalle stragi si sottragge il sacerdote del tempio; né dalle rapine i  tesori e gli arredi sacri. Quanti trofei di divinità nemiche, quante sacre immagini, quante spoglie di tempii resero splendidi i trionfi dei generali romani! E non sono cotesti sacrilegi? Non sono atti di somma ingiustizia? No, innanzi al giudizio del popolo, all'opinione della gente colta, degli storici, dei letterati, questa è gloria, è patriottismo, è prudenza, sapienza, giustizia. Dunque la giustizia non solamente non viene osservata in pratica, ma non esiste nep pure in fondo alla coscienza generale dell’uomo. Anch'essa viene subordinata all'utile. Ma non s'arresta qui la critica di Carneade. Con un esame sottile e profondo dell'antinomia esistente tra i due concetti del ‘scitum’ e del ‘giurato’ e della natura morale dell'uomo quale in realtà è, e quale egli si crede e vorrebbe essere, Carneade ha chiarito un contrasto del cuore (ragione pratica) e della mente (ragione teorica) umana, che tuttavia rimane e che ha servito di fondamento alle teorie utilitaristiche inglesi di tempi a noi vicini. Lo ‘scitum’ – la sapienza politica comanda al Cittadino di accrescere la potenza e la ricchezza della patria, estenderne i confini e il dominio, renderne più intensa la vita con nuove sorgenti di guadagni e di piaceri; e tutto questo non si può compiere senza danno di altre genti. Il giurato (iusiuratum) invece comanda di risparmiare tutti, di beneficare i propri simili indistintamente, restituire a ciascuno il suo, non toccare i beni, non turbare i possedimenti altrui, non sminuire la felicità d'alcuno. Ma se un uomo di stato vuole essere giusto, non ha mai l'approvazione de' suoi amministrati, non gloria, non onori, i quali il popolo attribuisce non al giusto (che promueve il giurato) e onesto e inetto; bensì al sapiente, al prudente, all'accorto. Non per il giurato, ma per il ‘scitum’ i generali di Roma hanno il soprannome di grandi. La violenza, la forza, la negazione del giurato, hanno dato potere e consistenza agli stati. Ma per nascondere la propria origine e fuggire la taccia de negare il giurato (iusiuratum), il popolo, fatto grande e divenuto dominatore, va immaginando delle favole da sostituire alla storia vera, come il mercante arricchito agogna un titolo di nobiltà. Le stesse qualità, e solamente le stesse, mantengono gli stati liberi o forti. Non ha nazione tanto stolta, la quale non preferisce il comandare con la negazione del giurato, all'ubbidire con la promozione del giurato (iusiuratum). La ragione di stato e la salvezza pubblica vincono e soffocano il sentiment *dis-interessato*. Uno stato vuole vivere a prezzo di qualsiasi negazione del giurato (iusiuratum), perchè sa che alla vittoria, con qualunque mezzo acquistata, tien dietro la gloria. Nel concetto degli antichi, la fine della propria nazione non sembra avvenimento naturale, come la morte di un individuo, pel quale questa non solo è necessaria, ma talvolta anche desiderabile. L'estinzione della patria era per essi in certo qual modo l'estinzione di tutto il mondo. Dato questo concetto e un sentimento della gloria diverso e molto più intenso che non sia in noi moderni, doveno in certa guisa parere *giustificati* (giusti-ficati – fatto giurato – iusiuratum -- anche gli atti di violenza e di frode, che avevano per I scopo la conservazione e la potenza del proprio stato; o, per meglio dire, il popolo e gl'individui non hanno coscienza di un principio o imperativo che governa la propria vita. Credeno, I ROMANI pei primi, di promovere il giurato (iusiuratum) e invece sommamente negano il giurato (iusiuratum). Carneade fu il primo a chiarire questa opposizione tra fatto e idea, tra sapienza machiavelica politica e il giurato (iusiuratum) (Cic., de fin.). Il medesimo conflitto tra il giurato e il ‘scitum’ dimostra egli esistere nella vita privata, intendendo per sapiente l'uomo che sa difendere il proprio interesse; e giusto colui che non lede quello degli altri. Sono suoi i seguenti esempi, tolti dalla vita giornaliera e assai chiari e appropriati alla vita romana affogata negli affari. Un tale vuole vendere uno schiavo, che ha l'abitudine di fuggire, o una casa insalubre. Egli solo conosce questi difetti. Ne rende avvisato il compratore? Se si, s'acquista  fama di uomo onesto, perchè non inganna, maeziandio di stolto, per che vende a piccolo prezzo, o non vende affatto; se no, sarà reputato sapiente, perchè fa il proprio interesse, ma malvagio, perchè inganna. Parimenti, se egli s'incontra in uno che vende oro per oricalco, o argento per piombo, tace per comperare a buon prezzo, o indica al venditore lo sbaglio e sborsa di più per l'acquisto? Solamente lo stolto vorrà pagare a maggior prezzo la merce. Se un tale, la cui morte a te recherebbe vantaggio, sta per porsi a sedere in luogo, dove si nasconde serpe velenoso, e tu il sai, dovrai avvertirlo del pericolo, o tacere? Se taci, sarai improbo, ma accorto; se parli, sarai probo, ma stolto (Cic., de rep.). Dunque qui pure si presenta la contraddizione: chi è giusto, è stolto; chi è sapiente, è ingiusto. Ma in questi casi si tratta di una quantità maggiore o minore di denaro e di vantaggi più o meno rilevanti, e v'ha chi potrebbe essere contento e felice della povertà. Ma quando andasse di mezzo la vita, il conflitto diventerebbe più spiccato. Un tale in un naufragio, mentre è poco lontano dall'affogare, vede un altro più debole di lui mettersi in salvo appoggiandosi a una tavola, che vale a sostenere uno solo. Nessuno testimonio è presente. Si fa sua la tavola e si pone in salvo, lasciundo che l'altro perisca. Oppure, se, dopo che i suoi furono sconfitti, incontra nella fuga un ferito a cavallo, che va sottraendosi al ferro dei nemici inseguenti, lo getterà a terra per porre se stesso in sella, o si lasce raggiungere e uccidere. Se egli è uomo sapiente, si salva a qualunque costo. Ma se poi antepone il morire al far morire, sarà giusto, ma stolto. Tale è il giudizio che intorno al suo operato porteranno il uomo.  Cosicchè il giure naturale, la giustizia naturale è stoltezza. Il giure civile è sapienza politica. Tutto è lotta d'interessi. Si ha ragione di credere che Carneade nel suo discorso *contro* il giurato civile tocca anche la questione della schiavitù, dicendo essere un fatto che nega il giurato (iusiudicatum) naturale, che uomo servisse a uomo -- principio che, riconosciuto vero, puo essere assai valido per far conoscere quanto esteso fosse il dominio della negazione del giurato e dare alla sua tesi una grande forza. E ciò si induce a credere dal vedere che in più frammenti il difensore del giurato, ossia il suo contraddittore, viene svolgendo la tesi opposta, perchè la schiavitù, rettamente conservata, torna a utilità del stesso schiavo, il quale sotto un governo buono e forte vive in maggiore sicurezza e viene meglio educato che allo stato di libertà; e come Dio comanda all'uomo, l'anima al corpo, la ragione alle parti appetitive dell'anima, cosi il conquistatore tiene a freno il conquistato, il quale diventa tali appunto perchè e peggiore di quello. Un tenue indizio ci sarebbe anche per farci credere che egli risolve il rimorso nella paura della pena, negando che fosse un sentimento più profondo e disinteressato. Diogene obbietta che in questa ipotesi il malvagio sarebbe semplicemente un incauto e il buono uno scaltro (Cic. de leg.). In conclusione: per Diogene, fondamento della morale e del diritto è l'inclinazione ad amare gli uomini e a rispettare la divinità, inclinazione che ha radice nella natura, la quale sola offre la norma per distinguere il giurato dalla sua assenza, il bene dal male. Per Carneade, generatrice del diritto è l'utilità, e l'utilità sola, e ogni giudizio morale e altrettanta opinione, la quale non deriva da un imperativo kantiano, o un principio naturale fisso, come provano la loro varietà e il dissenso degli uomini (Cic., de leg.). Alla teoria giuridica di Carneade non si deve attribuire un significato di domma o dommatico, che sarebbe in cotraddizione colle premesse teoretiche della sua filosofia. L'egoismo e l'utilitarismo proclamato da Carneade in opposizione all'idealismo morale di Diogene, non è una dottrina *precettiva*, alla Kant (il sollen) ma l'investigazione e l'esposizione di un fatto psicologico e sociale – come il principio cooperativo di Grice. Carneade non pare credere all'effetto pratico della morale normativa e si limita ad analizzare il cuore dell’uomo, la ragione pratica, saggezza, prudential, il quale, per la sua tendenza nativa, è assai lontano dal realizzare il precetto dommatico stoico. Ma da filosofo prudente s'astiene dal proporne del proprio precetto (idiosincrazia). Nota il fatto che si presenta all'osservazione quotidiana con tutti i caratteri della verosimiglianza più alta e sforzano a credere o ad operare; ma nè costruisce una teoria assoluta, ne formula un domma. iusiuro: swear to a binding formula. NA Wundt/1/IV/D/XIII/1 Estate Wundt Zeitungsausschnitte 100. Geburtstag Wundt  NA Wundt. Estate Wundt Brief von Luigi Credaro an Wilhelm Wundt Ricerca Sofistica Lingua Nota disambigua.svg Disambiguazione – "Illuminismo greco" rimanda qui. Se stai cercando il movimento culturale greco del XVIII secolo, vedi Nuovo illuminismo greco. La sofistica (in greco σοφιστική τέχνη, sofistiké téchne) è stata una corrente filosofica[1] sviluppatasi nell'antica Grecia, ad Atene in particolare, a partire dalla seconda metà del V secolo a.C., la quale, in polemica con la scuola eleatica e avvalendosi del metodo dialettico di Zenone di Elea, pose al centro della propria riflessione l'uomo e le problematiche relative alla morale e alla vita sociale e politica. Non si trattò di una vera e propria scuola né di un movimento omogeneo, ma fu estremamente variegata al suo interno: i suoi esponenti (detti appunto sofisti), seppur accomunati dalla professione di «maestro di virtù», si interessarono di vari ambiti del sapere, giungendo ognuno a conclusioni differenti e a volte tra loro contrastanti. L'Acropoli e l'agorà di Atene: qui fiorì la sofistica I sofisti rinunciarono alla vastità delle congetture cosmologiche dei filosofi naturalisti, concentrandosi sulla soggettività dell'uomo, sulla legittimità delle opinioni e il valore dei fenomeni. L'approccio dei sofisti era quindi orientato all'individualismo e al relativismo, alla critica dei valori tradizionali, al razionalismo. I contemporanei avvertirono in queste posizioni il rischio di derive ateistiche e di corruzione dei costumi. Certa storiografia moderna ha invece evocato l'idea di un illuminismo greco. Etimologia. Anticamente il termine σοφιστής (sophistés, sapiente) era sinonimo di σοφός (sophòs, saggio) e si riferiva ad un uomo esperto conoscitore di tecniche particolari e dotato di un'ampia cultura. A partire dal V secolo, invece, si chiamarono «sofisti» quegli intellettuali che facevano professione di sapienza e la insegnavano dietro compenso:[6] quest'ultimo fatto, che alla mentalità del tempo appariva scandaloso, portò a giudicare negativamente questa corrente. Nell'antichità, il termine era spesso posto in antitesi con la parola «filosofia», intesa come ricerca del sapere, che presuppone socraticamente il fatto di non possedere alcun sapere. I sofisti vennero ritenuti falsi sapienti, interessati al successo e ai soldi, più che alla verità. Il termine mantiene anche nel linguaggio corrente un carattere negativo: con «sofismi» si intendono discorsi ingannevoli basati sulla semplice forza retorica delle argomentazioni. La sofistica è stata rivalutata, e oggi è riconosciuta come un momento fondamentale della filosofia antica.  Contesto storico-culturale Magnifying glass icon mgx2. Svg Lo stesso argomento in dettaglio: Pentecontaetiae Guerra del Peloponneso.  Veduta dell’Acropoli di Atene Lo sviluppo della sofistica ad Atene è legato a un insieme di fattori culturali, economici e politico-sociali. Con la sconfitta dei Persiani a Salamina le poleis greche affermarono la propria autonomia, e la loro potenza si ampliò progressivamente nel corso dei successivi cinquant'anni di pace (la cosiddetta Pentecontaetia). In particolare, a primeggiare su tutte furono le città rivali, ovvero Sparta e Atene: la prima espanse la propria influenza su quasi tutto il Peloponneso attraverso un'ampia rete di alleanze, mentre Atene, membro di primo piano della Lega delio-attica, con l'avvento di Pericle finì con l'assumerne il comando. Con il potere politico ed economico crebbe però anche l'ostilità tra le due città, e il desiderio di supremazia sull'intera Grecia portò al disastro della Guerra del Peloponneso.   Pericle Pericle, leader carismatico della fazione democratica, governò Atene per circa un trentennio, portando la città al suo massimo splendore. Egli fece trasferire il tesoro della Lega delio-attica da Deload Atene, e trasformò il volto della città con un imponente piano di riforma architettonica (simbolo del potere dell'epoca sono gli edifici dell'Acropoli: il Partenone, l'Eretteo, i Propilei); inoltre, si intensificarono i rapporti con le altre città, attraverso alleanze e scambi commerciali. Fu proprio questo nuovo clima di pace a favorire l'affermarsi della sofistica, poiché permise ai sofisti, «maestri di virtù» itineranti, di spostarsi di città in città, seguendo le rotte commerciali. Visitando luoghi con tradizioni e ordinamenti politici differenti, talvolta varcando addirittura i confini dell'Ellade, essi iniziarono ad interrogarsi sul valore intrinseco delle leggi e della morale, giungendo ad un sostanziale relativismo eticoche riconosceva il valore delle norme morali solo in relazione alle usanze della città in cui ci si trova ad operare: la stessa areté (virtù) da loro insegnata si riduceva all'insieme delle norme e delle convenzioni riconosciute valide dai cittadini, alle quali il retore si deve adeguare per avere successo e buona fama. Tuttavia, bisogna considerare che non erano considerati “cittadini” le donne, gli stranieri (meteci) e gli schiavi. L'età di Pericle fu dunque al tempo stesso l'età dello splendore e della crisi della polis, poiché coincise con la crisi dei valori tradizionali, di cui i sofisti furono protagonisti; come scrive Mario Untersteiner, la sofistica è «l'espressione naturale di una coscienza nuova pronta ad avvertire quanto contraddittoria, e perciò tragica, sia la realtà». Il primo interesse dei sofisti è la rottura con la tradizione giuridica, sociale, culturale, religiosa, fatta di regole basate sulla forza dell'autorità e del mito (e per questo motivo sono talvolta guardati come "precursori dell'Illuminismo"), a cui veniva contrapposta una morale flessibile, basata sulla retorica. D'altra parte, la stessa retorica che essi insegnavano aveva un'enorme importanza per la vita civile nel regime democratico dell'epoca, il quale riconosceva a tutti i cittadini l'uguaglianza giuridica (isonomia) e la libertà di parola durante l'assemblea pubblica (parresia).  Il tramonto dell'aristocrazia segnò il tramonto di una mentalità, di un'epoca con le sue aspirazioni eroiche. Le eroiche lotte sostenute contro i Persiani, le nuove leggi e le nuove costituzioni crearono un grande senso di fiducia in se stessi. Nel pensiero dei sofisti si rispecchiano le esigenze delle àlacri classi borghesi, l'arrivismo degli uomini nuovi, l'irriverenza verso le tradizioni sacre ed il beffardo disprezzo del passato, le violente lotte fra città e città, la corsa sfrenata alle cariche politiche. I sofisti Rosa, Protagora e Democrito I sofisti erano considerati maestri di virtù che si facevano pagare per i propri insegnamenti. Per questo motivo essi furono aspramente criticati dai loro contemporanei, soprattutto da Platone e Aristotele, ed erano offensivamente chiamati «prostituti della cultura». Ironicamente, i sofisti furono i primi ad elaborare il concetto occidentale di cultura (paideia), intesa non come un insieme di conoscenze specialistiche, ma come "metodo di formazione" di un individuo nell'ambito di un popolo o di un contesto sociale. Essi riscossero successo soprattutto presso i ceti altolocati.  La figura del sofista, come persona che si guadagna da vivere vendendo il proprio sapere, si pone come precursore dell'educatore e dell'insegnante professionista. Argomento centrale del loro insegnamento è la retorica: mediante il potere persuasivo della parola essi insegnavano la morale, le leggi, le costituzioni politiche; il loro intento era di educare i giovani a diventare cittadini attivi, cioè avvocati o militanti politici e, per essere tali, oltre ad una buona preparazione, bisognava anche essere convincenti e saper padroneggiare le tecniche retoriche. I sofisti, a differenza dei filosofi greci precedenti, non si interessano alla cosmologia e alla ricerca dell'archèoriginario, ma si concentrano sulla vita umana, diventando così i primi filosofi morali. Vengono distinte due generazioni di sofisti:  Sofisti della prima generazione: Protagora, Gorgia, Prodico e Ippia Sofisti della seconda generazione: solitamente allievi dei primi, sono a loro volta distinguibili in: Sofisti politici: Antifonte, Crizia, Trasimaco, Licofrone, Callicle, Alcidamante, Polo, l'Anonimo di Giamblico Sofisti della physis, si interessano del rapporto natura-uomo, spesso conducendo studi naturalistici: Antifonte, (Ippia) Eristi, portano all'esasperazione il metodo dialettico: Eutidemo e Dionisodoro, Eubulide di Mileto Altri: Seniade di Corinto, forse l'anonimo autore dei Dissoi logoi Stando alle fonti, pare che anche il filosofo Aristipposia stato un sofista prima di incontrare Socrate e unirsi a lui; in particolare pare fosse allievo di Protagora e sappiamo per certo che diede lezioni di eloquenza a pagamento. A questo proposito si racconta un aneddoto: protagonisti sono Aristippo e il padre di un suo alunno, il quale, contestando il prezzo troppo alto della retta annuale, gli avrebbe detto: «Mille dracme? Ma io con mille dracme ci compro uno schiavo!», e Aristippo avrebbe risposto: «E tu compralo questo schiavo, così ne avrai due in casa, questo e tuo figlio!». A quanto pare Aristippo praticava tariffe differenziate in base alle capacità degli allievi, così che se uno di questi aveva la sfortuna di essere poco dotato la sua tariffa aumentava vertiginosamente, mentre se al contrario era particolarmente brillante e intuitivo la tariffa ammontava a poco più di 1 dracma, praticamente gratis.  Caratteri generali della sofistica Magnifying glass icon mgx 2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Relativismo etico sofistico. La sofistica, come detto, fu un movimento disomogeneo, e ogni sofista differiva dagli altri per interessi e posizioni personali. Tuttavia, è possibile riconoscere in questi autori alcuni caratteri comuni.  Centralità dell'uomo. I sofisti si interessarono prevalentemente di problematiche umane ed antropologiche, tanto che gli studiosi parlano di antropocentrismo sofistico. Essi approfondirono i temi legati alla vita dell'uomo, che venne analizzata soprattutto dal punto di vista gnoseologico (ciò che l'uomo può conoscere e ciò che non può conoscere), etico (ciò che è bene e ciò che è male) e politico (il problema dello Stato e della giustizia). L'essere umano veniva considerato a partire dalla sua condizione di individuo posto all'interno di una comunità, caratterizzata da determinati valori culturali, morali, religiosi e via dicendo. Essi insegnavano pertanto a osservare formalmente le leggi e le tradizioni della polis, così da diventare cittadini rispettati e di successo – quindi virtuosi. Rottura con la “fisiologia” presocratica. Come conseguenza del punto precedente, i sofisti in genere trascurarono le discipline naturalistiche e scientifiche, che invece erano state tenute in grande considerazione dai filosofi precedenti. Per questa ragione alcuni studiosi hanno definito "cosmologica" la filosofia precedente ed "umanistico" o "antropologico" il pensiero sofistico. In realtà, va precisato che tale generalizzazione è per certi versi limitativa, poiché ad essa fanno eccezione i casi di Ippia di Elide (che, mirando ad un sapere enciclopedico, coltivò studi inerenti a vari campi scientifici, tra cui matematica, geometria e astronomia) e Antifonte (il quale, studioso dei testi ippocratici, fu esperto di anatomia umana ed embriologia). Relativismo ed empirismo. I sofisti concepivano la verità come una forma di conoscenza sempre e comunque relativa al soggetto che la produce e al suo rapporto con l'esperienza. Non esiste un'unica verità, poiché essa si frantuma in una miriade di opinioni soggettive, le quali, proprio in quanto relative, finiscono per essere considerate comunque valide ed equivalenti: si parla pertanto di relativismo gnoseologico. Questo relativismo investe tutti gli ambiti della conoscenza, dall'etica alla politica, dalla religione alle scienze della natura.Dialettica e retorica. Le tecniche dialettiche dell'argomentare (cioè dimostrare, attraverso passaggi logici rigorosi, la verità di una tesi) e del confutare (cioè dimostrare logicamente la falsità dell'antitesi, l'affermazione contraria alla tesi) erano già state utilizzate da Zenone all'interno della scuola eleatica, ma fu soprattutto con i sofisti che esse si affermarono e si affinarono. La dialettica divenne una disciplina filosofica essenziale e influenzò profondamente la retorica, ponendo l'accento sull'aspetto persuasivo dei discorsi, fino a scadere nell'eristica.Alla luce di tutto ciò, alcuni studiosi hanno voluto vedere nel movimento sofistico una sorta di “illuminismo greco” ante litteram, in quanto i miti e le credenze tradizionali vennero criticati e sostituiti con nozioni razionali: in altre parole la sofistica avrebbe in un certo senso anticipato alcuni motivi tipici di quel movimento culturale sviluppatosi in Europa nel XVIII secolo, l'Illuminismo appunto.  L'insegnamento  Greuter, "Socrate e i suoi studenti", XVII secolo. Nell'Atene era costume che i maestri tenessero lezione all'aperto, in piazza o sotto i portici Con la comparsa dei sofisti nascono nuovi luoghi deputati all'insegnamento: le case dei cittadini più ricchi, le palestre pubbliche e le piazze, le quali includevano dei portici in cui i maestri potevano passeggiare con i loro discepoli o sedere in banchi dove potevano discutere. In genere, la scelta del luogo in cui tenere lezione era legata al tipo di "sapienza" professata: Socrate, ad esempio, scelse la piazza pubblica per mostrare la sua disponibilità verso tutti i cittadini e il disinteresse per il denaro – e lo stesso faranno i cinici in epoca successiva – mentre gli accademici, i peripatetici e gli stoici preferiranno luoghi attrezzati con strumenti scientifici e biblioteche. D'altra parte, va ricordato ancora una volta che la sofistica non fu una scuola filosofica, bensì un movimento caratterizzato da un ampio e variegato dibattito interno.  Capisaldi dell'insegnamento sofistico sono:  L'insegnabilità della virtù: essendo i sofisti "maestri di virtù", il loro insegnamento si basava sulle strategie per conseguirla, con fini eminentemente utilitaristici; non essendo infatti possibile conoscere il Bene in sé, l'educazione era volta a diffondere i valori più convenienti alla vita civile dell'individuo. Per questo motivo, essi si rivolsero non solo agli aristocratici, ma anche ai ceti emergenti che aspiravano al successo.La retorica: i sofisti non furono degli scienziati, poiché non limitavano il campo del loro sapere ad una disciplina specifica; piuttosto, per loro era importante il metodo di comunicazione, e per apprenderlo erano previsti due momenti, la dialettica e l'eristica: la prima consiste nell'arte di saper argomentare, la seconda nel saper vincere in una discussione. Il loro insegnamento abbracciava molte tematiche, e oltre alla morale si occuparono di problemi di diritto, ponendo la questione dell'esistenza o meno del diritto naturale (physis) e del suo rapporto col diritto positivo (nomos).Per quanto riguarda le leggi e le norme i sofisti, spostandosi di città in città, si accorsero che ogni cultura ha diverse regole e leggi[23]. Ciò fece sorgere in loro domande quali:  Ci sono regole uguali per tutti? In genere i sofisti propendono per il no, cioè per il relativismo etico. Vi è una cultura superiore alle altre? Porre la domanda già equivale ad una critica delle tradizioni e ad una propensione per il relativismo culturale. La Seconda sofisticaModifica Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Seconda sofistica.  L'imperatore ADRIANO, in veste greca, offre un sacrificio ad Apollo (Londra, British Museum) Dopo il successo del V secolo a.C., nel secolo successivo la sofistica vide un progressivo ridimensionamento della propria importanza, soprattutto a causa delle già menzionate critiche rivolte ai sofisti dai filosofi Platone e Aristotele, e dalle loro scuole. Tuttavia, a partire dall'inizio del II secolo d.C. (quindi a distanza di circa 400 anni) si assiste, in piena età imperiale, ad una rinascita della sofistica, grazie a un movimento filosofico-letterario definito da Filostrato Seconda sofistica[24] (detta anche Nuova sofistica o Neosofistica, per differenziarla da quella antica). Diversamente dalla sofistica del V secolo, però, la Seconda sofistica abbandona i temi di interesse filosofico ed etico (come la divinità, la virtù e via dicendo), per occuparsi esclusivamente di oratoriae retorica. La Nuova sofistica si presenta così subito come un movimento di impronta essenzialmente letteraria, orientato allo studio e all'esercizio dell'oratoria e ben distante dall'impegno politico e culturale dei sofisti dell'età di Pericle. I nuovi sofisti mirano all'affermazione personale e al successo pubblico, cercando (eccetto che in rari casi) di ingraziarsi la simpatia e i favori dei potenti; la loro produzione letteraria, improntata alla ricercatezza stilistica secondo lo stile del cosiddetto asianesimo, spazia attraverso vari generi: dialoghi, trattati, opere satiriche, novelle, fino a ben più leggere opere di intrattenimento, brani in cui veniva ostentata la propria bravura retorica.  Tra i vari autori di lingua greca che rientrano in questo fenomeno letterario, i più importanti sono:  Dione Crisostomo («dalla bocca d'oro») ricoprì varie cariche politiche e svolse la propria attività di retore e insegnante in Bitinia e a ROMA, dove però è condannato all'esilio. Erode Attico, tra i più importanti e rinomati, insegnante di retorica e amico dell'imperatore stoico Marco Aurelio ANTONINO, ricoprì vari incarichi nell'amministrazione pubblica romana, tra cui il consolato. Elio Aristide, allievo di Erode Attico, famoso soprattutto per le opere di onirocritica e per la sua devozione al dio Asclepio; Luciano di Samosata, uomo vicino alla famiglia imperiale romana -- dinastia degli Antonini --, è autore di vari saggi sui più disparati argomenti, nonché modello di purismo linguistico. Flavio Filostrato, membro di una famiglia di celebri retori e sofisti, è tra i più potenti letterati alla corte dei Severi. La Seconda sofistica perdura. Tratti tipici di questo movimento sono rintracciabili in filosofi come Imerio, Libanio, Temistio e Sinesio, per giungere infine alla Scuola di Gaza. La storiografia moderna considera comunemente i sofisti come filosofi. Si veda a proposito: M. Untersteiner, Le origini sociali della sofistica, appendice a: I sofisti, Milano Guthrie, The Sophists, Cambridge Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna Reale, Il pensiero antico, Milano Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna. Più precisamente, Mario Untersteiner, riprendendo a sua volta H.I. Marrou e A. Levi, scrive: «Fu più volte riconosciuto che nella sofistica non devesi scorgere una scuola filosofica abbastanza uniforme e coerente, ma piuttosto sia meglio accogliere l'opinione molto diffusa nell'antichità, “che considerava sofisti coloro che andavano da una città all'altra della Grecia per insegnarvi pubblicamente la loro σοφία dietro retribuzione. Il contenuto di questa sapienza variava secondo gli insegnanti di essa; però (nemmeno Gorgia rappresenta un'eccezione) tutti i sofisti professavano di essere maestri di ἀρετή (virtù), ossia dichiaravano d'impartire ai loro discepoli un insegnamento rivolto a finalità insieme individuali e sociali”» (I sofisti, Milano sofistica, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Il sostantivo σοφιστής deriva dal verbo σοφίζειν (sophízein), che significa «rendere sapiente». Cfr. Guthrie, The Sophists, Cambridge Per le varie accezioni del sostantivo si veda anche: L. Rocci, Dizionario Greco Italiano, Firenze Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna Sofista» in origine indicava generalmente una personalità ritenuta sapiente, e fu utilizzata per riferirsi anche a poeti come Omero ed Esiodo. ^ DK 79 2a, 3. La rivalutazione della sofistica come corrente filosofica iniziò a opera di Hegel e Nietzsche. Oggi ai sofisti è riconosciuto lo statusnon solo di filosofi morali ma anche di teoreti. Cfr. G.B. Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna Untersteiner, I sofisti, Milano Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna Untersteiner, I sofisti, Milano Faggin, Storia della filosofia, volume primo, Principato editore, Milano, Così li definisce Socrate in: Senofonte, Memorabili Jaeger, Paideia, trad. it., Firenze Jaeger, Paideia, trad. it., Firenze Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna Diogene Laerzio II, 65. ^ Plutarco, De liberis educandis Untersteiner, I sofisti, Milano Questo è l'argomento su cui verte il Teetetoplatonico, nel quale si analizza la dottrina protagorea dell’homo mensura (Cfr. DK 80A1). Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna Tra i cittadini ateniesi abbienti che patrocinarono l'attività dei sofisti, il più famoso è senz'altro Callia, che compare come personaggio nel Protagora di Platone (è in casa sua che avviene il dialogo e sono ospitati Protagora, Prodico e Ippia). ^ M. Untersteiner, I sofisti, Milano Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna Jaeger, Paideia, trad. it., Firenze Illuminanti al riguardo sono le affermazioni di Antifonte (DK) e quelle contenute nei cosiddetti Dissoi logoi (DK Filostrato, Vite dei sofisti I Corno, Letteratura greca, Milano Corno, Letteratura greca, Milano  Edizioni dei frammentiModifica I frammenti e le testimonianze sui sofisti sono raccolti in Die Fragmente der Vorsokratiker, a cura di Hermann Diels e Walther Kranz. In traduzione italiana sono consultabili:  I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Roma-Bari: Laterza 1979. I presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti di Hermann Diels e Walther Kranz, a cura di Giovanni Reale, Milano: Bompiani, 2006. I sofisti. Testimonianze e frammenti, a cura di M. Untersteiner e A.M. Battegazore, Firenze: La Nuova Italia, 1949-1962 (nuova edizione: Milano: Bompianim con introduzione di G. Reale). I sofisti, a cura di M. Bonazzi, pref. di F. Trabattoni, Milano: BUR, Abbagnano, Giovanni Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, Volume A, Tomo 1, Paravia Bruno Mondadori, Torino Mauro Bonazzi, I sofisti, Roma: Carocci, Guthrie, The Sophists, Cambridge: Cambridge University Press, Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna: Il Mulino, 1988 M. Isnardi Parente, Sofistica e democrazia antica, Firenze: Sansoni, Jaeger, Paideia. La formazione dell'uomo greco, Firenze, La nuova Italia (nuova edizione con un'introduzione di Giovanni Reale, Bompiani: Milano 2003). H.-I. Marrou, Storia dell'educazione nell'antichità, Roma: Studium, Levi, Storia delle Sofistica, Napoli, Morano, 1966. E. Paci, Storia del pensiero presocratico, Roma: Edizioni Radio Italiana, Plebe, Breve storia della retorica antica, Bari: Laterza, Reale, Il pensiero antico, Milano: Vita e Pensiero, Schreiber, Aristotle on false reasoning: language and the world in the Sophistical refutations, State University of New York Press, Untersteiner, I sofisti, Milano: Bruno Mondadori Antropocentrismo Demagogia Dissoi logoi (Sofistica) Eristica Presocratici Relativismo culturale Relativismo etico sofistico Retorica Seconda sofistica Sofisma. «sofista» Sofistica, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Taylor e Mi-Kyoung Lee, The Sophists, su Stanford Encyclopedia of Philosophy. George Duke, The Sophists (Ancient Greek), su Internet Encyclopedia of Philosophy. Portale Antica Grecia   Portale Filosofia. Protagora retore e filosofo greco antico  Eristica arte della contesa verbale  Dissoi logoi opera filosofica. Luigi Credaro. Keywords: i sofisti, il giurato, iusiuratum, Carneade, il secondo discorso, contro Democrito, ragione pratica (saggezza), ragione teorica, a philosopher in political linguistics: German minority, Italian majority in Trento. Il prefetto di Trento. Lingua tedesca, lingua italiana, ordinamento amministrativode-centrato, Wundt, Kant, razionalismo trascendente, Herbart, scetticismo, accademia, prima accademia, seconda accademia, terza accademia,  liberta di volere, freewill, volere libero, ambiascata ateniense a roma, influenza dell’academia nell’elite romana – l’accademia come perfezionamento per la dirigenza romana, Wundt, positivismo, suggestione, i primordii del kantismo in Italia, Hegel vacuo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Credaro” – The Swimming-Pool Librrary. Credaro.

 

Grice e Crescente: il cinargo a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A member of the Cinargo in Rome. Taziano regards him as a greedy immoral hypocrite.

 

Grice e Crespi: l’implicatura conversazionale d’Antonino e compagnia – filosofia romana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “Crespi is an interesting figure; Strawson calls him an Englishman since he became a Brit! My favourite is his edition of Marcauurelio’s remembrances – which is a n irony: he was a roman, but left his remembrances in Hellenic; and the Italians needed a translation! It would be as if Pocahontas’s remembrances were in Anglo-Saxon!” Collaboratore della Critica sociale, si avvicina alle posizione modernista. Collaboraa Il Rinnovamento, L'Unità, La Rivoluzione liberale, Coenobium. Emigrato durante il fascismo, ospita numerosi esuli antifascisti. Altre opere: “Le vie della fede” (Roma, Libreria editrice romana); “Sintesi religiosa” (Firenze, Tip. Bonducciana di A. Meozzi); “L’impero romano” (Milano, Treves); “Dall'io al tu” (Modena, Guanda). Nunzio Dell'Erba, Rosselli e Sturzo, "Annali della Fondazione Ugo La Malfa", Luigi Sturzo, Mario Sturzo, Carteggio, Roma, Edizioni di storia e letteratura-Istituto Luigi Sturzo, Giovanni Bonomi, Angelo Crespi, Cremona, Padus). Wikipedia Ricerca Filosofia ellenistica periodo della filosofia greca antica Lingua Segui Modifica La filosofia ellenistica è il periodo della filosofiaoccidentale e della filosofia greca antica durante il periodo ellenistico.  StoriaModifica  Il mondo ellenistico nel 300 a.C. Il periodo ellenistico seguì le conquiste di Alessandro Magno, che aveva diffuso la cultura greca antica in tutto il Medio Oriente e nell'Asia occidentale, dopo il precedente periodo culturale della Grecia classica. Il periodo classico della filosofia greca antica era iniziato con Socrate, il cui allievo Platone aveva insegnato ad Aristotele, che a sua volta aveva istruito Alessandro. Mentre i pensatori classici avevano per lo più sede ad Atene, il periodo ellenistico vide i filosofi attivi in tutto l'impero. Il periodo iniziò con la morte di Alessandro nel 323 a.C. (poi quella di Aristotele), e fu seguito dal predominio della filosofia dell'antica Roma durante il periodo imperiale romano.  Sviluppi e dibattiti sul pensieroModifica I fondatori dell'Accademia, i peripatetici, i seguaci del cinismo e del cirenaismo erano stati tutti allievi di Socrate, mentre lo stoicismo era soltanto indirettamente influenzato da lui.Il pensiero di Socrate fu quindi influente per molte di queste scuole dell'epoca, portandole a concentrarsi sull'etica e su come raggiungere l'eudaimonia (la bella vita), e alcune di loro seguirono il suo esempio di usare l'autodisciplina e l'autarchia a tal fine.[2] Secondo AC Grayling, la maggiore insicurezza e perdita di autonomia dell'epoca spinse alcuni a usare la filosofia come mezzo per cercare sicurezza interiore dal mondo esterno.[3] Questo interesse nell'usare la filosofia per migliorare la vita è stato colto nell'affermazione di Epicuro: "vuote sono le parole di quel filosofo che offre una terapia per nessuna sofferenza umana".[4]  EpistemologiaModifica L'epistemologia degli epicurei era empirica, con la conoscenza che alla fine proveniva dai sensi.[4]Epicuro sosteneva che le informazioni sensoriali non sono mai false, anche se a volte possono essere fuorvianti, e che "Se combatti contro tutte le sensazioni, non avrai uno standard contro il quale giudicare anche quelle di coloro che dici si sbagliano".[5] Rispose a un'obiezione all'empirismo fatta da Platone in Menone, secondo la quale non si può cercare informazioni senza avere un'idea preesistente di cosa cercare, quindi significa che la conoscenza deve precedere l'esperienza.[6] La risposta epicurea è che la prolepsi (preconcetti) sono concetti generali che consentono di riconoscere cose particolari e che queste emergono da ripetute esperienze di cose simili.   PlatonismoModifica Il Platonismo rappresenta la filosofia dell'allievo di Socrate, Platone, e i sistemi filosofici da esso strettamente derivati.  Antica AccademiaModifica Il platonismo primitivo, noto come "l'Antica Accademia", inizia con Platone, seguito da Speusippo(nipote di Platone), che gli succedette come capo della scuola (fino al 339 a.C.), e da Senocrate (fino al 313 a.C.). Entrambi cercarono di fondere le speculazioni pitagoriche sul numero con la teoria delle forme di Platone.  Scetticismo accademicoModifica  Carneade, copia romana dalla statua esposta nell'Agorà di Atene, c. 150 a.C., Museo Glyptothek Lo scetticismo accademico è il periodo dell'antico platonismo risalente intorno al 266 a.C., quando Arcesilao divenne capo dell'Accademia platonica, fino a circa il 90 a.C., quando Antioco di Ascalona respinse lo scetticismo, sebbene i singoli filosofi, come Favorino e il suo maestro Plutarco, continuassero a difendere lo scetticismo accademico dopo questa data. Gli scettici accademici sostenevano che la conoscenza delle cose è impossibile. Le idee o le nozioni non sono mai vere; tuttavia, ci sono gradi di somiglianza con la verità, e quindi gradi di credenza, che consentono di agire. La scuola era caratterizzata dai suoi attacchi agli stoici e al dogma stoico che impressioni convincenti portavano alla vera conoscenza.  Arcesilao Carneade Cicerone Medioplatonismo Antioco di Ascalona respinse lo scetticismo, lasciando il posto al periodo noto come Medioplatonismo, in cui il platonismo era fuso con alcuni dogmi peripatetici e molti stoici. Nel medioplatonismo, le forme platoniche non erano trascendenti ma immanenti alle menti razionali, e il mondo fisico era un essere vivente e animato, l'anima del mondo. La natura eclettica del platonismo in questo periodo è dimostrata dalla sua incorporazione nel pitagorismo (Numenio di Apamea) e nella filosofia ebraica (Filone di Alessandria).  Plutarco Neoplatonismo Il Neoplatonismo, o plotinismo, era una scuola di filosofia religiosa e mistica fondata da Plotino nel III secolo e basata sugli insegnamenti di Platone e degli altri platonici. Il vertice dell'esistenza era l'Assoluto o il Bene, la fonte di tutte le cose. Nella virtù e nella meditazione l'anima aveva il potere di elevarsi per raggiungere l'unione con l'Assoluto, la vera funzione degli esseri umani. I neoplatonici non cristiani erano soliti attaccare il cristianesimo fino a quando cristiani come Agostino, Boezio ed Eriugena non adottarono il neoplatonismo.  Plotino Porfirio Giamblico Proclo CirenaismoModifica Il Cirenaismo fu fondato nel IV secolo a.C. da Aristippo, allievo di Socrate. Aristippo il Giovane, nipote del fondatore, sosteneva che il motivo per cui il piacere era buono era che era evidente nel comportamento umano fin dalla più giovane età, perché questo lo rendeva naturale e quindi buono (il cosiddetto argomento della culla).I Cirenaici credevano anche che il piacere presente liberasse dall'ansia del futuro e dai rimpianti del passato, lasciandoci in pace.Queste idee furono prese ulteriormente da Anniceride di Cirene, che espanse il piacere per includere cose come l'amicizia e l'onore. Teodoro l'Ateo non era d'accordo e sosteneva che i legami sociali dovrebbero essere tagliati e dovrebbe essere sposata l'autosufficienza. Egesia di Cirene, d'altra parte, affermava che la vita alla fine non poteva essere complessivamente piacevole.   Cinismo Il pensiero dei Cinici si basava sul vivere con il minimo necessario e nel rispetto della natura. Il primo cinico fu Antistene, che era un allievo di Socrate. Introdusse le idee di ascetismo e opposizione alle norme sociali Il suo seguace fu Diogene, che seguì questa direzione. Invece del piacere, i cinici promuovevano il vivere intenzionalmente in difficoltà (ponos). Tutto questo perché era visto come naturale e quindi buono, mentre la società era innaturale e quindi cattiva, così come i benefici materiali. I piaceri forniti dalla natura (che sarebbero stati immediatamente accessibili) erano tuttavia accettabili. Cratete di Tebe affermava quindi che "la filosofia è un chilo di fagioli e non si cura di nulla". Altri cinici includevano Menippo e Demetrio (10–80).  Scuola peripatetica. Un busto in marmo di Aristotele La scuola peripatetica era composta dai filosofi che avevano mantenuto e sviluppato la filosofia di Aristotele. Sostenevano l'esame del mondo per comprendere il fondamento ultimo delle cose. Lo scopo della vita era l'eudaimonia che nasceva da azioni virtuose, che consistevano nel mantenere la media tra i due estremi del troppo e del troppo poco.  Teofrasto  Stratone di Lampsaco Alessandro di Afrodisia Aristocle di Messene Pirronismo  Pirro d'Elide, testa in marmo, copia romana, Museo Archeologico di Corfù Il Pirronismo era una scuola di scetticismo filosoficoche ebbe origine con Pirrone e fu ulteriormente avanzata da Enesidemo nel I secolo a.C. Il suo obiettivo era l'atarassia (essere mentalmente imperturbabile), che si ottiene attraverso l'epoché(cioè la sospensione del giudizio) su questioni non evidenti (cioè, questioni di credenza).  Pirrone Timone di Fliunte Enesidemo Sesto Empirico Epicureismo  Busto romano di Epicuro L'epicureismo fu fondato da Epicuro. La sua epistemologia era basata sull'empirismo, ritenendo che le esperienze sensoriali non possano essere false, anche se possono essere fuorvianti, poiché sono il prodotto del mondo che interagisce con il proprio corpo. Ripetute esperienze sensoriali possono quindi essere utilizzate per formare concetti (prolepsi) sul mondo, e tali concetti ampiamente condivisi ("concezioni comuni") possono fornire ulteriormente le basi per la filosofia. Applicando il suo empirismo, Epicuro sostenne l'atomismo notando che la materia non poteva essere distrutta poiché alla fine si sarebbe ridotta a nulla e che doveva esserci vuotoaffinché la materia potesse muoversi. Anche se questo di per sé non provava l'esistenza degli atomi, si oppose all'alternativa osservando che gli oggetti infinitamente divisibili sarebbero infinitamente grandi, simili ai paradossi di Zenone.[19]  Considerava l'universo governato dal caso, senza alcuna interferenza da parte degli dei. Considerava l'assenza di dolore come il più grande piacere e sosteneva una vita semplice.  Epicuro Metrodoro Ermarco di Mitilene Zenone di Sidone (I secolo a.C.) Filodemo di Gadara Lucrezio  StoicismoModifica  Zenone di Cizio, il fondatore dello stoicismo Lo stoicismo fu fondato da Zenone di Cizio nel III secolo a.C. Basato sulle idee etiche dei cinici, insegnava che l'obiettivo della vita era vivere in accordo con la natura. Sostenne lo sviluppo dell'autocontrollo e della forza d'animo come mezzi per superare le emozioni distruttive.  Zenone di Cizio Cleante Crisippo Panezio Posidonio Seneca Epitteto Marco Aurelio Giudaismo ellenisticoModifica Il giudaismo ellenistico era un tentativo di stabilire la tradizione religiosa ebraica all'interno della cultura e della lingua dell'ellenismo. Il suo principale rappresentante fu Filone di Alessandria.  Filone di Alessandria Flavio Giuseppe NeopitagorismoModifica Il neopitagorismo era una scuola di filosofia che faceva rivivere le dottrine pitagoriche, prominente nel I e II secolo. Era un tentativo di introdurre un elemento religioso nella filosofia greca, adorare Dio vivendo una vita ascetica, ignorando i piaceri del corpo e tutti gli impulsi sensoriali, per purificare l'anima.  Publio Nigidio Figulo. Apollonio di Tiana. Numenio di Apamea. Cristianesimo ellenisticoModifica Il cristianesimo ellenistico fu il tentativo di riconciliare il cristianesimo con la filosofia greca, a partire dalla fine del II secolo. Attingendo in particolare al platonismo e al neoplatonismo emergente, figure come Clemente Alessandrino cercarono di fornire al cristianesimo un quadro filosofico.  Clemente Alessandrino. Origene. Agostino d'Ippona. Elia Eudocia. Voci correlate Filosofia greca Filosofia antica Ellenismo Religione ellenistica Cento scuole di pensiero Grayling, The History of Philosophy, Penguin, Peter Adamson, Philosophy in the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford. Grayling, The History of Philosophy, Penguin, John Sellars, Hellenistic Philosophy, Oxford University Press, Adamson, Philosophy in the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford University Press, Sellars, Hellenistic Philosophy, Oxford University Press, Platonismo su Enciclopedia Britannica. Adamson, Philosophy in the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford University Press, Adamson, Philosophy in the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford. Adamson, Philosophy in the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford University Press, Adamson, Philosophy in the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford. Adamson, Philosophy in the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford University Press, Peter Adamson, Philosophy in the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford. Adamson, Philosophy in the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford University Press, Peter Adamson, Philosophy in the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford. Adamson, Philosophy in the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford, Adamson, Philosophy in the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford. Adamson, Philosophy in the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford University Press, Peter Adamson, Philosophy in the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford Long, Sedley, The Hellenistic Philosophers, Cambridge, Reale, The Systems of the Hellenistic Age: History of Ancient Philosophy (Suny Series in Philosophy), edito e tradotto dall'italiano da Catan, Albany, State of New York Universit "Platonismo." Cross, FL, ed. nel dizionario di Oxford della chiesa cristiana . New York: Oxford. Portale Antica Grecia   Portale Antica Roma   Portale Filosofia Atarassia termine filosofico  Scuola cirenaica Autarchia (filosofia) Wikipedia IlAngelo Crespi. Grice: “His essay on Antonino is brilliant – his philosophy of history is controversial. Keywords: la filosofia dell’impero romano, impero, impero romano, impero britannico, funzione dell’impero, funzione storica dell’impero, filosofia imperial, imperialismo, imperialismo romano, imperialism britannico, post-imperialismo, Antonino.  Filosofia della storia – aporie, lingua latina, impero romano, lingua nazionale, nazione romana, nazione italiana, lingua italiana, lingua fiorentina, lingua toscana, toscano, -- Refs.: Luigi Speranza, “Crespi e Grice” – The Swimming-Pool Library. Crespi.

 

Grice e Crespo – filosofo italiano.

 

Grice e Critolao – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Sent as a deputation to Rome. He emphasizes the relative unimportance of material comforts for the good life. 

 

Grice e Croce: l’implicatura conversazionale dell’idealismo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Pescasseroli). Filosofo italiano. Grice: “I would think the fashionable Englishwoman may think Croce is the most important philosopher that ever lived!” -- vide under “Grice as Croceian” -- Grice as Croceian: expression and intention -- Croce, B., philosopher. I genitori appartenevano a due abbienti famiglie abruzzesi: la famiglia Sipari, quella materna, originaria della stessa Pescasseroli, ma radicatasi anche in Capitanata e Terra di Lavoro, particolarmente legata agli ideali liberali, e l'altra, quella paterna, originaria di Montenerodomo (in provincia di Chieti), ma trapiantata a Napoli, legata invece ad una mentalità di stampo borbonico. C. crebbe in un ambiente profondamente cattolico, dal quale però, ancora adolescente, si distaccò, non riaccostandosi più per tutta la vita alla religiosità tradizionale.  Il terremoto di Casamicciola A diciassette anni perse i genitori, Pasquale C. e Luisa Sipari, e la sorella Maria, periti  durante il terremoto di Casamicciola, nell'isola d'Ischia, dove C. si trovava in vacanza con la famiglia. Un terremoto durato non più di 90 secondi ma dalla potenza devastatrice enorme - e per questo rimasto come esempio terribile di distruzione nel modo di dire delle popolazioni coinvolte - dove lo stesso Benedetto rimase «sepolto per parecchie ore sotto le macerie e fracassato in più parti del corpo. Il "problema del male", in sottofondo alla sua filosofia ottimistica sul progresso, rimarrà insoluto, se non addirittura negato, e dietro le quinte del suo pensiero, influenzato da questi eventi giovanili come evidenziato dalle meditazioni private dei Taccuini personali. Quegli anni furono i miei più dolorosi e cupi: i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente bramato di non svegliarmi al mattino, e mi siano sorti persino pensieri di suicidio.Fra i primi ad accorrere in suo aiuto fu il cugino Petroni, la famiglia del quale lo assisté affettuosamente nei mesi seguenti nella loro residenza di campagna a San Cipriano Picentino, paese non troppo distante da Salerno. In seguito a questo tragico episodio fu affidato, assieme al fratello superstite Alfonso, alla tutela del cugino Silvio Spaventa, figlio della prozia Maria Anna C. e fratello del filosofo Spaventa, che, mettendo da parte dei dissapori storici che aveva con la famiglia Croce, lo accolse nella propria casa a Roma, dove il giovane Benedetto trascorse gli anni dell'adolescenza ed ebbe modo di formarsi culturalmente[14] fino all'età di vent'anni. Nel circolo culturale nella casa dello zio Silvio, C. ebbe modo di frequentare importanti uomini politici ed intellettuali tra cui Labriola che lo inizierà al marxismo. Pur essendo iscritto alla facoltà di giurisprudenza dell'Università di Napoli, Croce frequentò le lezioni di filosofia morale a Roma tenute dal Labriola. Non terminò mai i suoi studi universitari, ma si appassionò a studi eruditi e filosofici, trascurando il pensiero hegeliano, di cui criticava la forma incomprensibile.  Il ritorno a Napoli Lasciata la Roma troppo accesa di passioni politiche, Tornò a Napoli, dove acquistò, per abitarvi, la casa dove aveva trascorso la sua vita VICO, il filosofo napoletano amato da C. per la concezione filosofica anticipatrice, per certi aspetti, della sua. Fu tra i fondatori della Società dei Nove Musi, un cenacolo di intellettuali. Compì numerosi viaggi in Spagna, Germania, Francia e Regno Unito mentre nella sua formazione culturale cresceva l'interesse per gli studi storici e letterari, in particolare per la poesia di Carducci, e per le opere di Sanctis. Attraverso Antonio Labriola con cui era rimasto in contatto, si interessò al marxismo, di cui però criticava come astorica la visione che dava del capitalismo. Da Marx risalì alla filosofia hegeliana che cominciò ad apprezzare e ad approfondire.  La fondazione de La critica e la vita politica Uscì il primo numero della rivista La critica, con la collaborazione di Gentile, e stampata a sue spese, allorché subentrò l'editore Laterza. Venne nominato per censo senator e fu Ministro della Pubblica Istruzione nel quinto e ultimo governo Giolitti.  Con regio decreto dgli fu concesso il titolo di "Nobile". Elaborò una riforma della pubblica istruzione che fu poi ripresa e attuata da Gentile.  Posizione nella prima guerra mondiale «Ardenti e vivacissime furono in quei dieci mesi le polemiche tra «interventisti» e «neutralisti», come erano chiamati non si può dire che [gli interventisti] avessero torto, come non si può dire che l'avessero i loro oppositori, perché dissidî di questa sorta non sono materia, nonché di tribunali, neppure di critica scientifica, e hanno questo carattere entrambe le tesi, appassionatamente difese, sono necessarie per l'effetto politico e, come suona il motto, che, se una delle due opposizioni non ci fosse, converrebbe inventarla. Più di un cosiddetto «neutralista» si sentiva talvolta scosso dalla tesi avversaria e inclinava ad accoglierla, e il medesimo accadeva a più di un «interventista. Storia d'Italia Bari, Laterza) Il filosofo, nella scelta tra le due posizioni, neutralismo o interventismo alla prima guerra mondiale, si rivolse alla prima; ma il suo era un neutralismo che contemperava le posizioni liberali con la possibilità dell'intervento (rimase comunque poco favorevole alla guerra, e, non obbligato ad arruolarsi, per limiti di età - 49 anni -, non andò mai al fronte a differenza di altri intellettuali come D'Annunzio, volontario. Scriveva a Bigot che era pronto ad accettare quella guerra che saremo costretti a fare, quale che sia, anche contro la Germania, ad accettarla come una dolorosa necessità, risoluto a non provocarla per ragioni antinazionali e settarie»  (C., Epistolario, Napoli) Il rapporto con il fascismo L'iniziale fiducia al governo fascista  C. nella sua biblioteca Inizialmente C. fu vicino al fascismo. Ascoltò e applaudì il discorso di MUSSOLINI al teatro San Carlo di Napoli, durante l'adunata preparatoria per la marcia su Roma. In occasione delle votazioni al Senato, successive all'uccisione del deputato socialista Matteotti, fu tra i 225 senatori che votarono la fiducia al governo MUSSOLINI, insieme a Gentile e Morello. In seguito C. spiegò in un'intervista che il suo non era stato un voto fascista, ha votato a favore del regime perché pensava che MUSSOLINI, se sostenuto, puo esser sottratto all'estremismo fascista a cui C. fa risalire la responsabilità del delitto Matteotti. Abbiamo deciso di dare il voto di fiducia. Ma, intendiamoci, fiducia condizionata. Nell'ordine del giorno che abbiamo redatto è detto esplicitamente che il senato si aspetta che il Governo restauri la legalità e la giustizia, come del resto Mussolini ha promesso nel suo discorso. A questo modo noi lo teniamo prigioniero, pronti a negargli la fiducia se non tiene fede alla parola data. Vedete: il fascismo è stato un bene; adesso è divenuto un male, e bisogna che se ne vada. Ma deve andarsene senza scosse, nel momento opportuno, e questo momento potremo sceglierlo noi, giacché la permanenza di Mussolini al potere è condizionata al nostro beneplacito. C. scrive su Il Giornale d'Italiache il regime mussoliniano «non poteva e non doveva essere altro che un ponte di passaggio per la restaurazione di un più severo regime liberale».  La rottura e il Manifesto degli intellettuali antifascisti Il filosofo abruzzese si allontanò definitivamente dal regime allorché, su sollecitazione di Amendola, scrisse il Manifesto degli intellettuali antifascisti in replica al Manifesto degli intellettuali fascisti di Gentile. Lo scritto, pubblicato sul quotidiano Il Mondo, tra l'altro sosteneva. Contaminare politica e letteratura, politica e scienza è un errore, che, quando poi si faccia, come in questo caso, per patrocinare deplorevoli violenze e prepotenze e la soppressione della libertà di stampa, non può dirsi nemmeno un errore generoso. E non è nemmeno, quello degli intellettuali fascisti, un atto che risplende di molto delicato sentire verso la patria, i cui travagli non è lecito sottoporre al giudizio degli stranieri, incuranti (come, del resto, è naturale) di guardarli fuori dei diversi e particolari interessi politici delle proprie nazioni. In che mai consisterebbe il nuovo evangelo, la nuova religione, la nuova fede, non si riesce a intendere dalle parole del verboso manifesto; e, d'altra parte, il fatto pratico, nella sua muta eloquenza, mostra allo spregiudicato osservatore un incoerente e bizzarro miscuglio di appelli all'autorità e di demagogismo, di proclamata riverenza alle leggi e di violazione delle leggi, di concetti ultramoderni e di vecchiumi muffiti, di atteggiamenti assolutistici e di tendenze bolsceviche, di miscredenza e di corteggiamenti alla Chiesa cattolica, di aborrimenti della cultura e di conati sterili verso una cultura priva delle sue premesse, di sdilinquimenti mistici e di cinismo. Per questa caotica e inafferrabile "religione" noi non ci sentiamo, dunque, di abbandonare la nostra vecchia fede: la fede che da due secoli e mezzo è stata l'anima dell'Italia che risorgeva, dell'Italia moderna; quella fede che si compose di amore alla verità, di aspirazione alla giustizia, di generoso senso umano e civile, di zelo per l'educazione intellettuale e morale, di sollecitudine per la libertà, forza e garanzia di ogni avanzamento.»  Secondo Norberto Bobbio, il Manifesto degli intellettuali antifascisti sancì l'assunzione da parte di C. del ruolo di coscienza morale dell'antifascismo italiano» e di «filosofo della libertà. Lo scritto segnò inoltre la rottura dell'amicizia con Gentile, a causa delle ormai inconciliabili divergenze filosofiche e politiche. In seguito Croce fu l'unica voce fuori dal coro tollerata dal regime. Il ruolo di Croce come coscienza dell'antifascismo è testimoniato, tra gli altri, da Primo Levi, che ricordò che negli anni del fascismo e della guerra, segnati per gli antifascisti da smarrimento morale, isolamento e incertezze, solo «La Bibbia, C., la geometria, la fisica, ci apparivano fonti di certezza. Il mio liberalismo è cosa che porto nel sangue, come figlio morale degli uomini che fecero il Risorgimento italiano, figlio di Sanctis e degli altri che ho salutato sempre miei maestri di vita. La storia mi metterà tra i vincitori o mi getterà tra i vinti. Ciò non mi riguarda. Io sento che ho quel posto da difendere, che pel bene dell'Italia quel posto dev'essere difeso da qualcuno, e che tra i qualcuni sono chiamato anch'io a quell'ufficio. Ecco tutto.»  (Lettera a Alfieri) Rifiutò di entrare nell'Accademia d'Italia, e dopo un breve appoggio al movimento antifascista Alleanza Nazionale per la Libertà, fondato dal poeta Lauro De Bosis, si allontanò dalla vita politica, continuando peraltro ad esprimere liberamente le sue idee politiche, senza che il regime fascista lo censurasse, almeno esplicitamente. L'unico atto di ostilità violenta ed esplicita compiuto dal fascismo verso C. fu la devastazione della sua casa napoletana. Negl’anni successivi, quelli della sua affermazione e del cosiddetto consenso, il fascismo ritenne C. un avversario poco temibile, sostenitore com'era della tesi di un fascismo inteso come malattia morale inevitabilmente superata dal progresso della storia. Inoltre la fama di C. presso l'opinione pubblica europea lo proteggeva da interventi oppressivi da parte del regime. Ha altresì blandi rapporti culturali con intellettuali in qualche modo vicini al regime, anche se marginali, come un carteggio epistolare con il tradizionalista Julius Evola, a cui espresse l'apprezzamento formale per due opere, da pubblicare presso Laterza con il benestare dello stesso C., Saggi sull'idealismo magico, Teoria dell'individuo assoluto e, successivamente, La tradizione ermetica. Il governo fascista richiese ai docenti delle università italiane un atto di formale adesione al regime in base all'articolo del regio decreto (il cosiddetto giuramento di fedeltà al fascismo). A seguito di tale provvedimento, i docenti avrebbero dovuto giurare di essere fedeli non solo alla patria, secondo quanto già imposto dal regolamento generale universitario, ma anche al regime fascista. In quell'occasione, C. incoraggiò professori come Calogero e Einaudi a rimanere all'università, «per continuare il filo dell'insegnamento secondo l'idea di libertà. Se la sua figura fu importante per l'area politica del liberalismo, la sua scuola ha durante tutto il ventennio fascista una platea assai più ampia di allievi: del resto, già prima dalle sue idee avevano tratto esempio anche Gramsci e il gruppo comunista de L'Ordine Nuovo.Polemica sulla Giornata della fede La non adesione di C. al fascismo parve messa in discussione dal gesto compiuto durante la Guerra d'Etiopia, quando il filosofo, in occasione della Giornata della fede dona la propria medaglietta da senatore accompagnandola con questa secca lettera al presidente del Senato. Eccellenza, quantunque io non approvi la politica del Governo, ho accolto in omaggio al nome della Patria, l'invito dell'E.V., e ho rimesso alla questura del Senato la mia medaglia, Il gesto suscita negl’ambienti dell'antifascismo italiano, in patria e all'estero, sorpresa, dolore e polemiche che colpirono dolorosamente C.. Al termine di un drammatico colloquio con Ceva, inviata a sostenere il punto di vista degl’antifascisti, dopo un iniziale tentativo di giustificazione, C. affermò. Dica che io sono sempre lo stesso, che sono sempre con loro. Il regime varò la legislazione anti-semita. C. non era presente nell'aula del Senato, quale forma di protesta. Egli fu uno dei pochi a esprimersi contro di esse a livello pubblico. Il governo invia a tutti i professori universitari e i membri delle accademie un questionario da compilare ai fini della classificazione "razziale". Tutti gl’interpellati risposero. L'unico intellettuale non ebreo che rifiuta di compilare il questionario è Croce. L'unico effetto della richiesta dichiarazione sarebbe di farmi arrossire, costringendo me, che ho per cognome CROCE, all'atto odioso e ridicolo insieme di protestare che non sono ebreo, proprio quando questa gente è perseguitata. Il filosofo, invece di restituire compilata la scheda, invia una lettera al presidente dell'Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, in cui scrive sarcasticamente. Gentilissimo collega, ricevo oggi qui il questionario che avrei dovuto rimandare prima del 20. In ogni caso, io non l'avrei riempito, preferendo di farmi escludere come supposto ebreo. Ha senso domandare a un uomo che ha circa sessant'anni di attività letteraria e ha partecipato alla vita politica del suo paese, dove e quando esso sia nato e altre simili cose? (C. a Messedaglia, Presidente dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti di Venezia, in A. CAPRISTO, L’espulsione degl’ebrei dalle accademie italiane, Torino, Zamorani. C. è quindi espulso da quasi tutte le accademie di cui è membro, comprese l'Accademia Nazionale dei Lincei e la Società Napoletana di Storia Patria.  All'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, unica accademia che lo mantenne socio, alla fine della guerra C. riconosce il merito di non averlo espulso durante il regime fascista. Dopo aver denunciato la persecuzione degl’ebrei, C. però critica anche gli atteggiamenti degl’ebrei stessi, sia quelli che hanno aderito al fascismo, sia quelli che vivevano separati, ritenendo la specificità ebraica come pericolosa per gl’ebrei stessi. Quando s'iniziò l'infame persecuzione contro gl’ebrei, io ebbi, con un brivido di orrore, la piena rivelazione della sostanziale delinquenza che è nel fascismo, come chi fosse costretto ad assistere allo sgozzamento a freddo di un innocente e mi misi di lancio dalla loro parte con tutto l'esser mio per fare quello che per loro si poteva a lenire o diminuire il loro strazio. Molti danni e molte iniquità compiute dal fascismo non si possono ora riparare per essi come per altr’italiani che le soffersero, né essi vorranno chiedere privilegi o preferenze, e anzi il loro studio dovrebbe essere di fondersi sempre meglio con gl’altri italiani; procurando di cancellare quella distinzione e divisione nella quale hanno persistito nei secoli e che, come ha dato occasione e pretesto in passato alle persecuzioni, è da temere ne dia ancora in avvenire l'idea di popolo eletto, che è tanto poco saggia che la fece sua Hitler, il quale, purtroppo, aveva a suo uso i mezzi che lo resero ardito a tentarne la folle attuazione. Essi disconoscono le premesse storiche -- Grecia, ROMA, Cristianità -- della civiltà di cui dovrebbero venire a fare parte. Lettera a Merzagora) Espresse quindi una posizione di perplessità per il sionismo. Il rientro nella vita politica Dopo la caduta del regime C. rientra in politica, accettando la nomina a presidente del Partito Liberale Italiano. Durante la Resistenza cercò di mediare tra i vari partiti antifascisti e fu Ministro senza portafoglio nel secondo governo Badoglio, benché non stimasse né il Maresciallo né il re Vittorio Emanuele III, a causa della loro compromissione col fascismo. Subito dopo la liberazione di Roma entrò a far parte del secondo governo Bonomi, sempre come ministro senza portafoglio, ma diede le dimissioni qualche mese dopo.  Egli avrebbe preferito l'abdicazione diretta del sovrano in favore del piccolo Vittorio Emanuele (con rinuncia di Umberto al trono), la reggenza a Badoglio e l'incarico di capo del governo a Carlo Sforza, ma i rappresentanti del Regno Unito si opposero. Al referendum sulla forma dello Stato votò per la monarchia, inducendo tuttavia il Partito Liberale (di cui rimane presidente) a non schierarsi, per far sì che prevalesse sulla questione piena ed effettiva libertà di scelta, e dichiarando in seguito: «il buon senso fece considerare a quei milioni di votanti favorevoli alla monarchia, che, se anche essi avessero riportato la maggioranza legale, una monarchia con debole maggioranza non avrebbe avuto il prestigio e l'autorità necessaria, e perciò meglio valeva accettare la forma nuova della Repubblica e procurar di farla vivere nel miglior modo, apportandovi lealmente il contributo delle proprie forze. C. con Altavilla e il Capo provvisorio dello Stato, Concetti che C. aveva, nella loro sostanza, già espresso; ben prima che Umberto II, nel messaggio ribadisse tale indicazione. Eletto all'Assemblea Costituente, non accettò la proposta di essere candidato a Capo provvisorio dello Stato, così come in seguito rifiutò la proposta, avanzata da Luigi Einaudi, di nomina a senatore a vita. Si oppose strenuamente alla firma del Trattato di pace, con un accorato e famoso intervento all'Assemblea costituente, ritenendolo indecoroso per la nuova Repubblica. Fonda a Napoli l'Istituto italiano per gli studi storici destinando per la sede un appartamento di sua proprietà, accanto alla propria abitazione e biblioteca nel Palazzo Filomarino dove oggi ha sede la Fondazione Biblioteca C. Presidente dell'associazione PEN International e, negli stessi anni, entrò a far parte del Consiglio di Amministrazione dell'Istituto Suor Orsola Benincasa di Napoli. Per un ictus cerebrale rimase semiparalizzato e si ritirò in casa continuando a studiare: morì seduto in poltrona nella sua biblioteca. I funerali solenni si tennero nella sua Napoli e le sue spoglie tumulate nella tomba di famiglia al Cimitero di Poggioreale. Il rapporto con la cultura cattolica «Pure filosofo quale sono io stimo che il più profondo rivolgimento spirituale compiuto dall'umanità sia stato il cristianesimo, e il cristianesimo ho ricevuto e serbo, lievito perpetuo, nella mia anima. Il rapporto di C. con la cultura cattolica varia nel corso del tempo. I filosofi idealisti, come C. e Gentile, avevano esercitato assieme alla cultura cattolica una comune critica al positivismo ottocentesco. Alla fine degli anni venti vi era stato un progressivo allontanamento della cultura laica e idealistica dalla cultura cattolica. Croce, pur non essendo un anticlericale militante, riteneva importante la separazione liberale tra culto e stato, propugnata da CAVOUR. Il culto con i Patti Lateranensi ha ormai raggiunto un rapporto equilibrato con le istituzioni statali italiane distaccandosi quindi dalle posizioni politiche antifasciste dell'idealismo crociano. C. fu contrario al Concordato e dichiara apertamente in Senato che accanto o di fronte ad uomini che stimano Parigi valer bene una messa, sono altri per i quali l'ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di coscienza. Mussolini gli rispose dichiarandolo «un imboscato della storia», e accusando il filosofo di passatismo e di viltà di fronte al progresso storico. Quando C. scrive la Storia d'Europa, il Vaticano critica aspramente l'autore che difendeva le filosofie esaltanti una religione della libertà senza Dio. Il Sant'Uffizio pose all'Indice questo saggio ma, non ottenendo negli anni successivi da C. un qualsiasi ripensamento, ninserì nell'elenco dei libri proibiti tutti i suoi scritti. La polemica anti-concordataria crociana vide l'adesione del giovane filosofo nonviolento e liberalsocialista Aldo Capitini che a Firenze, a casa di Luigi Russo, aveva avuto modo di conoscere C., a cui aveva consegnato un pacco di dattiloscritti che il filosofo napoletano aveva apprezzato e fatto pubblicare nel gennaio dell'anno seguente presso l'editore Laterza di Bari con il titolo Elementi di un'esperienza religiosa. In poco tempo gli Elementi diventarono uno tra i principali riferimenti letterari della gioventù antifascista. La posizione personale di C. nei confronti della religione cattolica è ben espressa nel suo saggio Perché non possiamo non dirci "cristiani". Il termine "cristiani" inserito nel titolo tra virgolette non voleva indicare l'adesione a un credo confessionale, bensì la consapevolezza di un'inevitabile appartenenza culturale rappresentata nella sua particolare prospettiva dal fenomeno del cristianesimo: non si trattava di una professione di fede cristiana dovuta a un rinnegamento dell'agnosticismo come volle fare intendere la propaganda fascista, ma di riconoscere il valore storico e di «rivolgimento spirituale»:  «Il cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l'umanità abbia mai compiuta: così grande, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non maraviglia che sia apparso o possa ancora apparire un miracolo, una rivelazione dall'alto, un intervento di Dio nelle cose umane, che da lui hanno ricevuto legge e indirizzo affatto nuovo. Tutte le altre rivoluzioni, tutte le maggiori scoperte che segnano epoche nella storia umana, non sostengono il suo confronto, parendo rispetto a lei particolari e limitate. Tutte, non escluse quelle che la Grecia fece della poesia, dell'arte, della filosofia, della libertà politica, e Roma del diritto: per la capacità dei princìpi cristiani di contrastare il neopaganesimo e l'ateismo propagandati dal nazismo e dal comunismo sovietico. Sono profondamente convinto e persuaso che il pensiero e la civiltà moderna sono cristiani, prosecuzione dell'impulso dato da Gesù e da Paolo. Su di ciò ho scritto una breve nota, di carattere storico, che pubblicherò appena ne avrò lo spazio disponibile. Del resto non sente Ella che in questa terribile guerra mondiale ciò che è in contrasto è una concezione ancora cristiana della vita con un'altra che potrebbe risalire all'età precristiana, e anzi pre-ellenica e pre-orientale, e riattaccare quella anteriore alla civiltà, la barbarica violenza dell'orda? C., in sintesi, vede nel cristianesimo il fondamento storico della civiltà occidentale ma non ripudia l'immanentismo radicale del suo pensiero che vede nella religione un momento della realizzazione storica dello spirito che si avvia, superandolo, ad una più alta sintesi.  All'Assemblea Costituente lotterà contro l'inserimento, voluto dalla DC, e dal comunista Togliatti, dei Patti Lateranensi nel secondo comma dell'articolo della Costituzione della Repubblica Italiana, giudicandolo come "sfacciata prepotenza pretesca". In vista delle elezioni politiche, tuttavia, si accordò con il segretario della Democrazia Cristiana, Alcide De Gasperi, per dare vita a un manifesto comune, Europa, cultura e libertà, contro i totalitarismi passati e presenti. A seguito della vittoria della DC, replicò severamente ai laici benpensanti schierati col Fronte Popolare che sbeffeggiavano il ceto umile e contadino di cui era composto in prevalenza l'elettorato cattolico:  «Beneditele quelle beghine di cui ridete, perché senza il loro voto e il loro impegno oggi non saremmo liberi. Lasciando disposizioni per la sua morte (che avverrà tre anni dopo) scriverà invece che la sensibilità religiosa della moglie cattolica le consentirà di evitare che un sacerdote tenti di "redimerlo" all'ultimo minuto, perché è "cosa orrenda profittare delle infermità per strappare a un uomo una parola che sano egli non avrebbe mai detta".  C. fu legato sentimentalmente e convisse con Angelina Zampanelli, fino alla morte di lei. La coppia prese alloggio a Palazzo Filomarino, a Napoli. Angelina, sofferente di cuore, morì poco più che quarantenne a Raiano, dove insieme a Croce ella soggiornava spesso d'estate, presso il Palazzo Rossi-Sagaria, ospiti della cugina del filosofo, Petroni, moglie di Rossi. C. sposa a Torino, con rito religioso e poi civile, Adele Rossi, da cui ha V figli: Giulio, Elena, Alda, Lidia (moglie dello scrittore e dissidente anticomunista polacco Grudziński) e Silvia. Il filosofo, oggi, deve non già fare il puro filosofo, ma esercitare un qualche mestiere, e in primo luogo, il mestiere dell'uomo.»  (C., Lettere a Vittorio Enzo Alfieri, Sicilia Nuova Editrice, Milazzo. L'opera di Croce può essere suddivisa in tre periodi: quello degli studi storici, letterari e il dialogo con il marxismo, quello della maturità e delle opere filosofiche sistematiche e quello dell'approfondimento teorico e revisione della filosofia dello spirito in chiave storicista. Come idealista, ritiene che la realtà sia quella che viene concepita dal soggetto, in quanto riflesso della sua idea e interiorità, ed è convinto che la razionalità e la libertà emergano nella storia, pur tra immani difficoltà. La filosofia idealista riconduce totalmente l'essere al pensiero, negando esistenza autonoma alla realtà fenomenica, ritenuta il riflesso di un'attività interna al soggetto; l'idealismo, come in Hegel, implica una concezione etica fortemente rigorosa, come ad esempio nel pensiero di Fichte che è incentrato sul dovere morale dell'uomo di ricondurre il mondo al principio ideale da cui esso ha origine; in C. questo ideale è la libertà umana. Definito da Gramsci "papa laico della cultura italiana", a sua filosofia ha goduto di enorme credito nella cultura italiana del XX secolo, perlomeno fino agli anni settanta e ottanta, in cui si sono levate molte critiche verso il suo approccio, ritenuto superato. Croce fu un intellettuale rispettato anche al di fuori dell'Italia: la rivista Time gli dedicò la copertina e contestualmente alla rivalutazione del pensiero crociano, si è registrato l'interesse della collana editoriale di Stanford, mentre la rivista statunitense di politica internazionale Foreign Affairs lo inserì tra i pensatori più attuali, accanto a intellettuali come Berlin, Fukuyama e Trotsky. Parallelamente allo studio del marxismo, C. approfondisce anche il pensiero di Hegel; secondo entrambi la realtà si dà come spirito che continuamente si determina e, in un certo senso, si produce. Lo spirito è quindi la forza animatrice della realtà, che si auto-organizza dinamicamente divenendo storia secondo un processo razionale. Da Hegel egli recupera soprattutto il carattere razionalistico e dialettico in sede gnoseologica: la conoscenza si produrrebbe allora attraverso processi di mediazione dal particolare all'universale, dal concreto all'astratto, per cui C. afferma che la conoscenza è data dal giudizio storico, nel quale universale e particolare si fondono recuperando la sintesi a priori di Kant e lo storicismo di VICO, suo altro filosofo di riferimento. Da destra, Giovanni Laterza, Jacini, C. e Secly. Il divenire e la logica della dialettica, in Hegel e in Marx, è esso stesso verità in movimento; anche per C. la verità è dialettica, ma occorre esprimere un giudizio storico ed esistono delle regole che arginano la pretesa giustificativa di ogni fenomeno: in Croce lo Spirito - in quanto intelletto umano - si realizza nella storia ma nel rispetto della libertà. Per questo ogni fatto è quindi calato nella realtà storica, ma questo non può giustificare, con la scusa del divenire e del progresso, aspetti deplorevoli come, ad esempio, il totalitarismo fascista o comunista, il primo come necessario (concezione di Gentile e della sua idea di realtà come atto puro di pensare e agire) e il secondo come fase storica obbligata (seguendo il concetto marxiano della dittatura del proletariato, di cui il filosofo tedesco parla nella sua teoria "razionalista" del materialismo storico). Quindi il materialismo dialettico di Engels e quello storico di Marx sono da ritenersi errati. In questo, il suo storicismo si differenzia dal pensiero di un altro filosofo liberale, Popper, secondo cui dialettica e storicismo finiscono invece per generare quasi sempre totalitarismo (concezione assai diffusa nel pensiero del liberalismo novecentesco). Al contrario di Popper e Arendt, per C. la radice totalitaria è proprio nell'antistoricismo, cioè nel rifiuto dello storicismo stesso. Il neoidealismo entrò in crisi, sostituito da nuove filosofie come l'esistenzialismo e la fenomenologia; sempre in nome del libertà e dell'umanesimo, C. critica l'esistenzialista Heidegger, divenuto poi anti-umanistico e colpevole di accondiscendenza verso il nazismo, definendolo anche "un Gentile più dotto e più acuto, ma sostanzialmente della stessa pasta morale. Esprime così  un tagliente giudizio sul filosofo di Essere e tempo. Scrittore di generiche sottigliezze, arieggiante a un Proust cattedratico, egli che, nei suoi libri non ha dato mai segno di prendere alcun interesse o di avere alcuna conoscenza della storia, dell'etica, della politica, della poesia, dell'arte, della concreta vita spirituale nelle sue varie forme - quale decadenza a fronte dei filosofi, veri filosofi tedeschi di un tempo, dei Kant, degli Schelling, degli Hegel! -, oggi si sprofonda di colpo nel gorgo del più falso storicismo, in quello, che la storia nega, per il quale il moto della storia viene rozzamente e materialisticamente concepito come asserzione di etnicismi e di razzismi, come celebrazione delle gesta di lupi e volpi, leoni e sciacalli, assente l'unico e vero attore, l'umanità. E così si appresta o si offre a rendere servigi filosofico-politici: che è certamente un modo di prostituire la filosofia.»  (Conversazioni Critiche, Serie Quinta, Bari, Laterza. L'asserzione di Hegel che "la storia sia storia di libertà" viene da Croce inquadrata nella sua concezione dialettica della libertà vista nel suo iniziale nascere, nel successivo crescere e infine nel raggiungimento di uno stadio finale e definitivo di maturità. C. fa proprio questo detto hegeliano chiarendo però che non si vuole «assegnare alla storia il tema del formarsi di una libertà che prima non era e che un giorno sarà, ma per affermare la libertà come l'eterna formatrice della storia, soggetto stesso di ogni storia. Come tale essa è per un verso, il principio esplicativo del corso storico e, per l'altro, l'ideale morale dell'umanità». I popoli e gli individui anelano sempre alla libertà, e come dice Hegel «ciò che è razionale è reale» (cioè la ragione concepisce quello che può diventare reale) e «ciò che è reale è razionale» (cioè esiste un'intrinseca razionalità, anche minima, in ogni fenomeno storico, anche se non tutto il reale è ovviamente razionale). Alcuni storici, senza ben rendersi conto di quello che scrivono, sostengono che ormai la libertà ha abbandonato la scena della storia. Ma affermare che la libertà è morta vorrebbe dire che è morta la vita. Non esiste nella storia un ideale che possa sostituire quello della libertà «che è l'unica che faccia battere il cuore dell'uomo, nella sua qualità di uomo». Ciò significa che la libertà non è una fase di presa di coscienza che conduce allo Stato etico o al socialismo, venendo superata, ma è essa stessa la verità nel divenire, non una fase. Egli critica Hegel, poiché secondo lui il filosofo ha concepito la dialettica in modo riduttivo, ovvero semplicemente come dialettica degli opposti, mentre secondo C. sussiste anche una logica dei distinti: non ogni negazione è infatti opposizione, ma può essere semplice distinzione. Ciò significa che certi atti ed eventi devono essere sempre considerati appunto distinti rispetto ad altri ordini di atti ed eventi, e non ad essi opposti. Elabora, quindi, un vero e proprio sistema, da lui denominato la filosofia dello spirito. Inoltre, la prima importante differenza con Hegel è che nel sistema crociano non vi rientra né la religione, né la natura. La religione sarebbe infatti un complesso miscuglio di elementi poetici, morali e filosofici che le impediscono di presentarsi come forma autonoma dello Spirito. La natura poi non è altro che l'oggetto "mascherato" dell'attività economica, è il frutto della considerazione economica diretta al mondo. Qui la realtà in quanto attività (ovvero produzione dello spirito o della storia) è articolata in quattro forme fondamentali, suddivise per modo (teoretico o pratico) e grado (particolare o universale): estetica (teoretica - particolare), logica (teoretica-universale), economia (pratica - particolare), etica (pratica - universale). La relazione tra queste quattro forme opera la suddetta logica dei distinti, mentre all'interno di ognuna di esse si ha la dialettica degli opposti. All'interno dell'estetica infatti si ha opposizione dialettica tra bello e brutto, all'interno della logica, l'opposizione è tra vero e falso; nella economia tra utile e inutile e infine nell'etica tra bene e male.  Estetica C. scrisse anche importanti opere di critica letteraria (saggi su Goethe, Ariosto, Shakespeare e Corneille, "La letteratura della nuova Italia" e "La poesia di Dante"). Egli si mosse nell'ambito della sua teoria estetica che mirava alla scoperta delle motivazioni profonde dell'ispirazione artistica. Quest'ultima era ritenuta tanto più valida quanto più coerente con le categorie di bello-brutto. La prima parte della teoria estetica la ritroviamo in opere come Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale, Breviario di estetica e Aesthetica in nuce. In seguito modificò questa iniziale teoria stabilendo per la storia un nesso con la filosofia. L'estetica, dal significato originario del termine aisthesis (sensazione), si configura in primo luogo come attività teoretica relativa al sensibile, si riferisce alle rappresentazioni e alle intuizioni che noi abbiamo della realtà.  Come conoscenza del particolare l'intuizione estetica è la prima forma della vita dello Spirito. Prima logicamente e non cronologicamente poiché tutte le forme sono presenti insieme nello spirito. L'arte, come aspetto dell'Estetica, è una forma della vita spirituale che consiste nella conoscenza, intuizione del particolare che:  come forma dello spirito, come creatività non è sensazione, conoscenza sensibile che è un aspetto passivo dello spirito rispetto ad una materia oscura e ad esso estranea; come conoscenza (prima forma dell'attività teoretica) non ha a che fare con la vita pratica. Bisogna quindi respingere tutte le estetiche che abbiano fini edonistici, sentimentali e moralistici; quale espressione di un valore autonomo dello spirito, l'arte non può né deve essere giudicata secondo criteri di verità, moralità o godimento; come intuizione pura va distinta dal concetto che è conoscenza dell'universale: compito proprio della filosofia. L'arte può essere definita quindi come intuizione-espressione, due termini inscindibili per cui non è possibile intuire senza esprimere né è possibile espressione senza intuizione. Ciò che l'artista intuisce è la stessa immagine (pittorica, letteraria, musicale ecc.) che egli per ispirazione crea da una considerazione del reale, nel senso che l'opera artistica è l'unità indifferenziata della percezione del reale e della semplice immagine del possibile. La distinzione tra arte e non arte risiede nel grado di intensità dell'intuizione-espressione. Tutti noi intuiamo ed esprimiamo: ma l'artista è tale perché ha un'intuizione più forte, ricca e profonda a cui sa far corrispondere un'espressione adeguata. Coloro che sostengono di essere artisti potenziali poiché hanno delle intense intuizioni ma che non sono capaci di tradurre in espressioni, non si rendono conto che in realtà non hanno alcuna intuizione poiché se la possedessero veramente essa si tradurrebbe in espressione. L'arte non è aggiunta di una forma ad un contenuto ma espressione, che non vuol dire comunicare, estrinsecare, ma è un fatto spirituale, interiore come l'atto inscindibile da questa che è l'intuizione. Nell'estetica dobbiamo far rientrare anche quella forma dell'espressione che è il linguaggio che nella sua natura spirituale fa tutt'uno con la poesia. L'estetica quindi come una «linguistica in generale». Dall'estetica deriva la critica letteraria crociana, espressa in molti saggi. Della logica, Croce tratta essenzialmente nella Logica come scienza del concetto puro); essa corrisponde al momento in cui l'attività teoretica non è più affidata alla sola intuizione (all'ambito estetico), ma partecipa dell'elemento razionale, che attinge dalla sfera dell'universale. Il punto di arrivo di questa attività è l'elaborazione del concetto puro, universale e concreto che esprime la verità universale di una determinazione. La logica crociana è anche storica, nella misura in cui essa deve analizzare la genesi e lo sviluppo (storico) degli oggetti di cui si occupa. Il termine logica in C. assume quindi un significato più vicino al termine dialettica ovvero ricerca storiografica. In genere, la Logica di C. è lontana da criteri scientifico-razionali, e si ispira ai metodi dell'immaginazione artistica e dell'eleganza estetico-letteraria, nei quali il filosofo raggiunge risultati eccellenti. Di carattere decisamente diverso è invece la filosofia delle scienze fisiche, matematiche e naturali delle quali C. non si occupa affatto nei suoi studi. Del resto, come segnala Geymonat nel suo Corso di filosofia - immagini dell'uomo, la vera indubbia grandezza di C. va cercata assai più nella sua opera di storiografo, di critico letterario, ecc., che non nella sua opera di filosofo. Gentile ai tempi del direttorato alla Scuola normale di Pisa. In ogni caso la logica e la filosofia della scienza è stata sviluppata in Italia da altre correnti di pensiero contemporaneo a quello crociano, con studiosi fra quali Peano e lo stesso Geymonat. Un orientamento parzialmente diverso ebbe invece Giovanni Gentile che, pur criticando gli eccessi del positivismo, intrattenne anche rapporti con matematici e fisici italiani e cercò di instaurare un rapporto costruttivo con la cultura scientifica. Invece C. ha con la logica e la scienza un rapporto difficile. La sua posizione portò in Italia nella prima metà del Novecento ad uno scontro dialettico fra due culture contrapposte: quella artistico-letteraria e quella tecnico-scientifica. Il rapporto conflittuale con le scienze matematiche e sperimentali Un caso emblematico del giudizio di C. nei confronti della matematica e delle scienze sperimentali è la sua nota diatriba con il matematico e filosofo della scienza Enriques, avvenuta in seno al congresso della Società Filosofica Italiana, fondata e presieduta dallo stesso Enriques. Questi sostene che una filosofia degna di una nazione progredita non potesse ignorare gli apporti delle più recenti scoperte scientifiche. La visione di Enriques mal si confaceva a quella idealistica di C. e Gentile, come pure a gran parte degli esponenti della filosofia italiana di allora, per lo più formata da idealisti crociani.  C., in particolare, rispose ad Enriques[84], liquidando in modo deciso - "antifilosofico" secondo Enriques - la proposta di considerare la scienza come un valido apporto alle problematiche filosofiche e sostenendo, anzi, che matematica e scienza non sono vere forme di conoscenza, adatte solo agli «ingegni minuti» degli scienziati e dei tecnici, contrapponendovi le «menti universali», vale a dire quelle dei filosofi idealisti, come C. medesimo. I concetti scientifici non sono veri e propri concetti puri ma degli pseudoconcetti, falsi concetti, degli strumenti pratici di costituzione fittizia. La realtà è storia e solo storicamente la si conosce, e le scienze la misurano bensì e la classificano come è pur necessario, ma non propriamente la conoscono né loro ufficio è di conoscerla nell'intrinseco. Sul tema C. sostenne, tra l'altro, che:  «Gli uomini di scienza [...] sono l'incarnazione della barbarie mentale, proveniente dalla sostituzione degli schemi ai concetti, dei mucchietti di notizie all'organismo filosofico-storico.»  (C. da Il risveglio filosofico e la cultura italiana, A proposito dello sviluppo della logica matematica e dell'introduzione dei formalismi simbolici, ad opera di matematici e filosofi quali Frege, Peano, Russell, C. dichiara. I nuovi congegni della logica matematica sono stati offerti sul mercato. E tutti, sempre, li hanno stimati troppo costosi e complicati, cosicché non sono finora entrati né punto né poco nell'uso. Vi entreranno nell'avvenire? La cosa non sembra probabile e, ad ogni modo, è fuori della competenza della filosofia e appartiene a quella della pratica riuscita: da raccomandarsi, se mai, ai commessi viaggiatori che persuadano dell'utilità della nuova merce e le acquistino clienti e mercati. Se molti o alcuni adotteranno i nuovi congegni logici, questi avranno provato la loro grande o piccola utilità. Ma la loro nullità filosofica rimane, sin da ora, pienamente provata. (C. da Logica come scienza del concetto puro. Anni dopo, ancora scrive. Le scienze naturali e le discipline matematiche, di buona grazia, hanno ceduto alla filosofia il privilegio della verità, ed esse rassegnatamente, o addirittura sorridendo, confessano che i loro concetti sono concetti di comodo e di pratica utilità, che non hanno niente da vedere con la meditazione del vero. C. da Indagini su Hegel e e schiarimenti filosofici e ribadiva come:  «Le finzioni delle scienze naturali e matematiche postulano di necessità l'idea di un'idea che non sia finta. La logica, come scienza del conoscere, non può essere, nel suo oggetto proprio, scienza di finzioni e di nomi, ma scienza della scienza vera e perciò del concetto filosofico e quindi filosofia della filosofia. C. da Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici. Tuttavia ebbe altresì un cordiale e rispettoso scambio epistolare con Albert Einstein. Secondo diversi storici e filosofi (es. Giorello, Bellone, Massarenti), l'influenza antiscientifica di C. e di Gentile sarebbe stata fortemente deleteria sia sul piano dell'istituzione scolastica per gli orientamenti pedagogici della scuola italiana, che si sarebbe indirizzata prevalentemente agli studi umanistici considerando quelli scientifici di secondo piano, sia per la formazione di una classe politica e dirigente che attribuisse importanza alla scienza e alla tecnica e portando, per conseguenza, ad un ritardo dello sviluppo tecnologico e scientifico nazionale.  La scuola sarà caratterizzata dal primato dell'umanesimo letterario e in particolare dell'umanesimo classico. Tutte le istituzioni culturali saranno improntate al primato delle lettere, della filosofia e della storia. Giorello nel quarantennale della morte di C. ha scritto che "predicò la religione della libertà e per questo gli siamo riconoscenti. Ma la sua condanna della scienza e la sua estetica hanno causato danni gravissimi alla nostra cultura. Che ora esige riparazione.  Lo stesso Giorello però ha in parte ritrattato l'affermazione, negando che sia da attribuire a C. il mancato sviluppo scientifico italiano, adducendo che quelle che lui considerava una "colpa" sarebbero da accreditare maggiormente alla Chiesa, agli scienziati stessi e alla classe politica, più che all'idealismo, che trascura le scienze ma nemmeno le ostacola, definendo la filosofia di Croce «interessante sotto altri profili, ma poco interessante, quando si parla di scienza. C. riteneva le scienze umane e sociali prive di qualunque validità e del tutto inutili per lo studio dei fenomeni umani. Lui stesso dichiarò più volte di non riuscire a capire perché si dovesse sprecare del tempo a studiare «i cretini, i bambini e i selvaggi, quando esistono pensatori come Kant. ilosofia della pratica «La legge morale è la suprema forza della vita e la realtà della Realtà.»  (Filosofia della pratica. Etica ed economica, Laterza, Bari) Economia ed etica vengono trattate in Filosofia della pratica. Economica ed etica. C. dà molto rilievo alla volizione individuale che è poi l'economia, avendo egli un forte senso della realtà e delle pulsioni che regolano la vita umana. L'utile, che è razionale, non sempre è identico a quello degli altri: nascono allora degli utili sociali che organizzano la vita degli individui. Il diritto, nascendo in questo modo, è in un certo qual senso amorale, poiché i suoi obiettivi non coincidono con quelli della morale vera e propria. Egualmente autonoma è la sfera politica, che è intesa come luogo di incontro-scontro tra interessi differenti, ovvero essenzialmente conflitto, quello stesso conflitto che caratterizza il vivere in generale. C. critica anche l'idea di Stato etico elaborata da Hegel ed estremizzata da Gentile. Lo stato non ha nessun valore filosofico e morale, è semplicemente l'aggregazione di individui in cui si organizzano relazioni giuridiche e politiche. L'etica è poi concepita come l'espressione della volizione universale, propria dello spirito; non vi è un'etica naturale o un'etica formale, e dunque non vi sono contenuti eterni propri dell'etica, ma semplicemente essa è l'attuazione dello spirito, che manifesta in modo razionale atti e comportamenti particolari. Questo avviene sempre in quell'orizzonte di continuo miglioramento umano. Teoria e storia della storiografia «La storia non è giustiziera, ma giustificatrice»  C., Teoria e storia della storiografia) La storia e lo spirito: lo storicismo assoluto  VICO Come si evince anche da Teoria e storia della storiografia la filosofia di C., ispirata soprattutto a VICO, è fortemente storicista. Per ciò, se volessimo riassumere con una formula la filosofia di C., questa sarebbe storicismo assoluto, ossia la convinzione che tutto è storia, affermando che tutta la realtà è spirito e che questo si dispiega nella sua interezza all'interno della storia. La storia non è dunque una sequela capricciosa di eventi, ma l'attuazione della Ragione. La conoscenza storica ci illumina a proposito delle genesi dei fatti, è una comprensione dei fatti che li giustifica con il suo dispiegarsi. Si delinea in quest'ottica il compito dello storico: egli, partendo dalle fonti storiche, deve superare ogni forma di emotività nei confronti dell'oggetto studiato e presentarlo in forma di conoscenza. In questo modo la storia perde la sua passionalità e diviene visione logica della realtà. Quanto appena affermato si può evincere dalla celebre frase «la storia non è giustiziera, ma giustificatrice». Con questo afferma che lo storico non giudica e non fa riferimento al bene o al male. Quest'ultimo delinea, inoltre, come la storia abbia anche un preciso orizzonte gnoseologico, poiché in primo luogo è conoscenza, e conoscenza contemporanea, ovvero la storia non è passata, ma viva in quanto il suo studio è motivato da interessi del presente. Il bisogno pratico, che è nel fondo di ogni giudizio storico, conferisce a ogni storia il carattere di "storia contemporanea", perché, per remoti e remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano le loro vibrazioni.La storiografia è in seconda istanza utile per comprendere l'intima razionalità del processo dello spirito, e in terzo luogo essa è conoscenza non astratta, ma basata su fatti ed esperienze ben precise. Anche se subisce l'influsso dello storicismo di Voltaire, C. critica gli illuministi e in generale tutti coloro che pretendono di individuare degli assoluti che regolino la storia o la trascendano: invece la realtà è storia nella sua totalità, e la storia è la vita stessa che si svolge autonomamente, secondo i propri ritmi e le proprie ragioni.  La storia è un cammino progressivo per cui «Nulla c'è al di fuori dello spirito che diviene e progredisce incessantemente: nulla c'è al di fuori della storia che è per l'appunto questo progresso e questo divenire. Ma il positivo destinato a superare storicamente la negatività dei periodi bui della storia non è una certezza su cui adagiarsi: questa consapevolezza del progresso storico deve essere confermata da un impegno costante degli uomini in azioni i cui risultati non sono mai scontati né prevedibili. La storia diviene, allora, anche storia di libertà, dei modi in cui l'uomo promuove e realizza al meglio la propria esistenza. La libertà si traduce, sul piano politico, in liberalismo: una sorta di religione della libertà o di metodo interpretativo della storia e di orientamento dell'azione, che è imprescindibile nel processo del progresso storico-politico, come si evince dal volume. La storia come pensiero e come azione Per Croce la libertà può essere apprezzata solo difendendola costantemente in maniera dialettica, poiché la storia è necessariamente contrasto. Chi desideri in breve persuadersi che la libertà non può vivere diversamente da come è vissuta e vivrà sempre nella storia, di vita pericolosa e combattente, pensi per un istante a un mondo di libertà senza contrasti, senza minacce e senza oppressioni di nessuna sorta; e subito se ne ritrarrà inorridito come dall'immagine, peggio che della morte, della noia infinita.»  (La storia come pensiero e come azione). Ciò però non vuol dire che Croce giustifichi la violenza come necessaria; nello stesso saggio ammonisce infatti che «la violenza non è forza ma debolezza, né mai può essere creatrice di cosa alcuna, ma soltanto distruggerla».  La concezione storica crociana ebbe grande seguito in Italia per molto tempo ed ebbe notevole influenza anche all'estero, ad esempio per quanto riguarda la formazione del maggior storico americano del nazismo, George Mosse. C. interviene al congresso liberale. C. critico letterario, specie quello di Poesia e non poesia, esercitò molta influenza successiva, quasi una "dittatura intellettuale sulla cultura italiana, ma ricevette anche critiche: ad esempio furono ritenute scorrette, "pseudoconcetti" (riprendendo una parola usata da Croce), poiché non presentate come opinione personale ma come veri canoni estetici, varie tesi, come la sua opposizione alle novità letterarie europee, esemplificate dalle stroncature verso gran parte dell'opera di Annunzio, Pascoli (di cui apprezzò solo alcune parti di Myricae e dei Canti di Castelvecchio criticando i saggi e le poesie civili), del crepuscolarismo e di Leopardi: di quest'ultimo salvò, nei Canti, gli idilli e i canti pisano-recanatesi, ma criticò le poesie "dottrinali" e polemiche (in particolare i Paralipomeni della Batracomiomachia e la Palinodia al marchese Gino Capponi) e le opere filosofiche (apprezzò solo una minima parte delle Operette morali), affermando che quella leopardiana non era vera filosofia, ma solo uno sfogo poetico in prosa, inferiore comunque alle liriche, dovuto esclusivamente alle condizioni fisiche e psicologiche del poeta recanatese. C. non considera Leopardi un vero filosofo, come Schopenhauer, a cui invece riconosce dignità filosofica ma che non apprezza come individuo poiché ritenuto cinico e indifferente, ma solo un pensatore, il cui pensiero è essenzialmente al servizio della sua poesia. Sulla scorta di Sanctis, esprime simpatia umana al poeta recanatese per lo spirito civile, l'impegno e la lotta eroica contro le sofferenze fisiche, come espresso nella poesia La Ginestra. Egli fu grande ammiratore soprattutto del Carducci, in quanto classicista, razionale e sentimentale al tempo stesso, ma senza scadere nel sentimentalismo irrazionale, e, a proposito del decadentismo e degli autori di questo movimento, scrisse, in Del carattere della più recente letteratura italiana: «Nel passare da Carducci a questi tre, sembra, a volte, come di passare da un uomo sano a tre malati di nervi». La polemica contro il decadentismo è figlia di quella contro il positivismo: Croce sostiene che il misticismo decadente, che egli disapprova come sintomo di vuoto spirituale e filosofico (Croce è razionalista e idealista al tempo stesso), è figlio dello scientismo positivistico e delle pseudoscienze da esso generate (come lo spiritismo): «Di qua il positivismo, di fronte il misticismo; perché questo è figlio di quello: un positivista dopo la gelatina dei gabinetti, non credo abbia altro di più caro che l'inconoscibile, cioè la gelatina dove si coltiva il microbio del misticismo». Le opere di Croce spaziano dalla filosofia, alla storiografia, all'aneddotica, alla critica letteraria e all'erudizione storica. Qui si indicano le più importanti. Per un elenco completo si veda L'opera di Benedetto Croce, bibliografia a cura di S. Borsari, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, I principi dell'estetica crociana, oltre ad essere formulati in opere organiche, trovarono anche applicazione critica in prefazioni e curatele di opere altrui. Tale è, ad esempio, la prefazione all'opera di Parodi, Poesia e letteratura: conquista di anime e studi di critica, pubblicata postuma da Laterza, a cura di C.. Il filosofo napoletano collaborò inoltre con numerosi articoli su vari argomenti pubblicati su molti giornali e riviste stranieri e italiani (Cfr. Panetta, Settant'anni di militanza: C., tra riviste e quotidiani) Ad esempio la sua collaborazione con il quotidiano Il Resto del Carlino dura per più di 40 anni. Filosofia dello spirito Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale Logica come scienza del concetto puro Filosofia della pratica. Economica ed Etica Teoria e storia della storiografia; Problemi di estetica e contributi alla storia dell'estetica italiana La filosofia di VICO Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti di storia della filosofia Materialismo storico ed economia marxistica Nuovi saggi di estetica Etica e politica. La poesia. Introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura La storia come pensiero e come azione Il carattere della filosofia moderna Discorsi di varia filosofia; Filosofia e storiografia; Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici; Perché non possiamo non dirci "cristiani"; Primi saggi Cultura e vita morale L'Italia. Pagine sulla guerra Pagine sparse; Nuove pagine sparse; Terze pagine sparse; Scritti e discorsi politici; Carteggio C.-Vossler; C. - Papini, Carteggio; Il caso Gentile e la disonestà nella vita universitaria italiana; Saggi sulla letteratura italiana del Seicento La rivoluzione napoletana La letteratura della nuova Italia; I teatri di Napoli dal Rinascimento alla fine del secolo decimottavo La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza Conversazioni critiche Storie e leggende napoletane Manifesto degli intellettuali antifascisti Goethe Una famiglia di patrioti ed altri saggi storici e critici Ariosto, Shakespeare e Corneille Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono; La poesia di Dante Poesia e non poesia Storia del Regno di Napoli Uomini e cose della vecchia Italia Storia d'Italia; Storia dell'età barocca in Italia Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento Storia d'Europa nel secolo decimonono Poesia popolare e poesia d'arte Varietà di storia letteraria e civile Vite di avventure, di fede e di passione Poesia antica e moderna Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento La letteratura italiana del Settecento Letture di poeti e riflessioni sulla teoria e la critica della poesia Aneddoti di varia letteratura Morra e Castro Edizione nazionale La casa editrice Bibliopolis ha in corso di pubblicazione l'edizione nazionale delle opere di C., promossa con Decreto del Presidente della Repubblica. Eugenio Montale, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, Enciclopedia italiana Treccani alla voce "neoidealismo"  Emanuele Severino, La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, Milano, Rizzoli, Giorello, Dimenticare Croce?  C. - Senato  Partito Liberale Italiano «nato nel 1924, sciolto durante il fascismo e ricostituito». In Enciclopedia Treccani alla voce "Partito Liberale Italiano"  Pagina jpg del Corriere del Mezzogiorno: Luigi Mosca, L'America innamorata di C. La prestigiosa rivista USA "Foreign Affairs" lo incorona tra i pensatori più attuali, Einaudi infatti sosteneva che «il liberismo non è né punto né poco "un principio economico", non è qualcosa che si contrapponga al liberalismo etico; è una "soluzione concreta" che talvolta e, diciamo pure, abbastanza sovente, gli economisti danno al problema, ad essi affidato, di cercare con l’osservazione e il ragionamento quale sia la via più adatta, lo strumento più perfetto per raggiungere quel fine o quei fini, materiali o spirituali che il politico o il filosofo, od il politico guidato da una certa filosofia della vita ha graduato per ordine di importanza subordinandoli tutti al raggiungimento della massima elevazione umana.» (in Einaudi, Il buongoverno. Saggi di economia politica, a cura di Rossi, Il filosofo dedica ai paesi degli avi, sia paterni che materni, due monografie, intitolate Montenerodomo: storia di un comune e due famiglie e Pescasseroli, uscite per Laterza e in seguito collocate in appendice alla Storia del Regno di Napoli (Laterza, Bari).  È noto, a tal proposito, l'aneddoto narrato in un testo coevo, secondo il quale il padre del filosofo, prima di morire tra le macerie, avrebbe detto al figlio «offri centomila lire a chi ti salva». Cfr. Balzo, Cronaca del tremuoto di Casamicciola, Tip. De Blasio e C., Napoli, Un'analisi di quella traumatica esperienza anche in relazione all'opera di Croce è in S. Cingari, Il giovane Croce. Una biografia etico-politica, Rubbettino, Soveria Mannelli, Il problema del male nell’indagine di Cucci. Testimonianza di Croce sul terremoto  C., Memorie della mia vita, Istituto italiano per gli studi storici, Napoli.  "Il superstite è accolto allora nella casa romana del politico Silvio Spaventa, cugino del padre e fratello del filosofo Bertrando. Il lutto, lo spaesamento, l’adolescenza: non stupisce che questa miscela abbia precipitato il giovane in una crisi d’ipocondria; e l’ostentato contegno olimpico dell’adulto deriva forse da questo periodo oscuro. «Quegli anni», confessa l’autore del Contributo, furono «i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente bramato di non svegliarmi al mattino». Nella Roma del trasformismo, Benedetto si chiude in biblioteca. Ma a scuoterlo è Labriola, che con le lezioni sull’etica di Herbart gli offre un appiglio cui aggrapparsi nel naufragio della fede. C. ricorda di averne recitato più volte i capisaldi sotto le coperte, come una preghiera": v. A cento anni dal “Contributo” di C., di Matteo Marchesini, Sole 24 ore, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Ministri della Pubblica Istruzione, su storia.camera.  Ultimo Governo Giolitti, su storia.camera. Jannazzo, C. e la corsa verso la guerra, in Idem, C. e il prepartito degli intellettuali, Edizioni La Zisa, Palermo, Levi della Vida, Fantômes retrouvés, Diogène, Antonio Gnoli, C. e il suo fantasma, in la Repubblica, Camera dei deputati - Portale storico; citato in G. Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati, Venezia, Salvatore Guglielmino/Hermann Grosser, Il sistema letterario. Guida alla storia letteraria e all'analisi testuale: Novecento; Casa Editrice G. Principato S.p.A.,. Guglielmino/Grosser, Sambugar, Salà, Letteratura italiana, C. e il manifesto antifascista.  Levi, Potassio, in Il sistema periodico, poi in Opere, Torino, Einaudi, «La più efficace difesa della civiltà e della cultura si è avuta in Italia, per opera di C.. Se da noi solo una frazione della classe colta ha capitolato di fronte al nemico a differenza di quel che è avvenuto in Germania, moltissimo è dovuto al C.. (Ruggiero) Osserva Nicola Abbagnano nella sua Storia della filosofia: «Il regime fascista, certo per costituirsi un alibi di fronte agli ambienti internazionali della cultura, consentì tacitamente a C. una certa libertà di critica politica; e Croce si avvalse di questa possibilità [...] per una difesa degli ideali di libertà... Negli anni del fascismo e della seconda guerra mondiale la figura di C. ha assunto perciò, agli occhi degli italiani, il valore di un simbolo della loro aspirazione alla libertà, e ad un mondo in cui lo spirito prevalga sulla violenza. E tale si mantiene a distanza di anni. Il terzo volume del carteggio tra C. e Laterza (l'editore delle opere crociane) offre una grande quantità di esempi delle difficoltà di mantenersi in equilibrio “tra l'opposizione concreta e organizzata al fascismo, e l'adesione o la cinica indifferenza”. Esempi “quasi tutti orientati però verso una precisa direzione: quella dell'autocensura, a volte praticata, altre volte orgogliosamente respinta... Tra i molti casi che potrebbero essere citati a illustrazione di questo atteggiamento, è notevole quello sorto attorno alla dedica apposta da Paolo Treves, nel libro sulla filosofia di Campanella, al padre Claudio, scrittore e parlamentare socialista, famigerato tra i fascisti soprattutto per il celebre duello ingaggiato con Mussolini. La dedica recitava: “A mio padre, che mi additò con l'esempio la dignità della vita”. Laterza scrive a C. accostando, con diplomatica sottigliezza, la lettura di un volgare trafiletto anticrociano e antilaterziano sul “Lavoro fascista” alla questione della dedica, che egli propone al Treves di limitare “alle prime tre parole essenziali, non essendo opportuno motivarla allo stato attuale delle cose”. Alla lettera C. risponde il giorno dopo, tranquillizzando Laterza sulla “purezza” del lavoro storico del Treves e sull'assenza in esso di riferimenti al presente, e aggiungendo, con maliziosa e retorica ingenuità: “ma veramente non capisco perché vi abbia fatto senso quella dedica affettuosa di un figlio al padre. O che la dignità della vita (il corsivo è ovviamente di Croce) è un fatto politico del giorno?”. Comunque sia, la dedica uscì poi nella versione “purgata”. Maurizio Tarantino, recensione a C.-Giovanni Laterza, Carteggio, a c. di Antonella Pompilio, Napoli, Roma-Bari, Istituto italiano per gli studi storici, Laterza,  “L'indice”. L'episodio è narrato con dovizia di particolari in una lettera di Nicolini a Gentile riportata da Sasso in Per invigilare me stesso, Bologna, Il mulino, Alessandro Barbera (a cura di), La biblioteca esoterica. Carteggi editoriali Evola-C.-Laterza, Roma, Fondazione Julius Evola, Cesare Medail, Evola: mi manda Don Benedetto, in Corriere della Sera, Cfr. la prefazione del testo Lettere di Julius Evola a C.. Regio Decreto Legge, Disposizioni sull'istruzione superiore (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, Tacchi, Storia illustrata del fascismo, Giunti, La Repubblica, Giarrizzo rivendicò con una punta di orgoglio l'essere annoverato tra i “nipotini” di C. (se, nel corso di uno sgradevole scontro, sono stato per Martino un «basco verde di Palazzo Filomarino. Giarrizzo, Giuseppe, Di C. e del filosofare sine titulo, Archivio di storia della cultura: Napoli: Liguori,  si veda: Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di C.  C., Epistolario, I, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, La vicenda è descritta e analizzata da Sasso, La guerra d'Etiopia e la “patria”, in Per invigilare me stesso, Bologna, Il mulino, Battista, Corriere della Sera, B. Croce, Taccuini di lavoro, Napoli, La tentazione antisemita di tre antifascisti liberali  Dante Lattes, Ferruccio Pardo, C. e l'inutile martirio d'Israele. L'ebraismo secondo C. e secondo la filosofia crociana  Sarfatti, Il ritorno alla vita: vicende e diritti degli ebrei in Italia dopo la seconda guerra mondiale, Tompkins, L'altra Resistenza. Servizi segreti, partigiani e guerra di liberazione nel racconto di un protagonista, Il Saggiatore, Croce rimase fermo sulle sue posizioni: l'unica condizione alla quale i partiti antifascisti dell'opposizione avrebbero accettato di entrare nel governo di Badoglio era l'abdicazione di Vittorio Emanuele III. Era stato il re, disse Croce, ad aprire le porte al fascismo, favorendolo, appoggiandolo e servendolo per vent'anni».  Tompkins, Piero Operti, Lettera aperta a C., Torino, Lattes, Mazzini, poi in Scritti e discorsi politici, II, Bari, Laterza; sulle caratteristiche "affettive" del pronunciamento di C. al referendum, vedi Fulvio Tessitore, Il percorso psicologico dalla monarchia alla repubblica attraverso i Taccuini di lavoro di C., in C. e la nascita della Repubblica. Atti del convegno tenutosi presso il Senato della Repubblica, Soveria Mannelli, Rubbettino,  "non sono veri liberali...coloro che si fregiano, come ora taluni hanno preso a fare, del nome di monarchici, perché il liberalismo non ha altro fine che quello di garantire la libertà" e se "la forma Repubblicana gli offre questa...garanzia quando non gliene offre sicura la monarchia, sarà anche eventualmente repubblicano" (Taccuini di lavoro; "se il tentativo la duplice abdicazione di Vittorio Emanuele III e di Umberto II] fallisse, noi sosterremo il partito della Repubblica, adoperandoci a farla sorgere temperata e non sfrenata, sennata e non dissennata" (Taccuini di lavoro. C., mai nominato, formalmente rifiutò prima ancora che la sua ventilata nomina potesse concretizzarsi.» (In Galliani, Il Capo dello Stato e le leggi, Giuffrè, Ente Morale, su Uni SOB.na.Senato della Repubblica-Cinecittà Luce, Il filosofo della libertà: Napoli - il funerale di C. C., Maria Curtopassi, Dialogo su Dio: carteggio, Archinto, Il carteggio fra C. e Curtopassi è stato pubblicato presso la casa editrice Archinto da Giovanni Russo, autore anche della nota introduttiva, Maurizio Griffo, Il pensiero di C. tra religione e laicità. La citazione è tratta da: C, Taccuini di lavoro, vol. 6, Napoli. C., Perché non possiamo non dirci anticoncordatari. Discorso contro i patti lateranensi, tratto da: C., Discorsi parlamentari, Bardi editore, Roma, Atti parlamentari della Camera: Guido Verucci, Idealisti all'Indice. C., Gentile e la condanna del Sant'Uffizio, Laterza, Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, Il Saggiatore, Milano, La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia diretta da C., Il ministro dell'Educazione Nazionale, Bottai alluse ironicamente all'operetta crociana con un articolo intitolato Benedetto Croce rincristianito per dispetto (In Ruggiero Romano, Paese Italia: venti secoli di identità, Donzelli Editore,Perché non possiamo non dirci "cristiani, in La Critica; poi in Discorsi di varia filosofia, Laterza, Bari, Croce, M. Curtopassi, Dialogo su Dio. Carteggio op.cit. ibidem. Focher, Rc. a Capanna, La religione in C.. Il momento della fede nella vita dello spirito e la filosofia come religione, Bari, in Rivista di studi crociati, Sandro Magister, Colloquio con Foa (Da l'Espresso, Documenti)  In Vittorio Messori, Pensare la storia: una lettura cattolica dell'avventura umana, Paoline, Nello Ajello, Solo per amore, "La Repubblica, Sasso, Per invigliare me stesso, Bologna, Il mulino, Nel registro mortuario di Raiano, vicino a L'Aquila, viene indicata erroneamente come "moglie del senatore C."  Benedetto Croce e l'amore  Ottaviano Giannangeli, C. a Raiano, in "L'Osservatore politico letterario", Milano-Roma, Morta Alda C., figlia di C.  È morta Silvia C. l'ultima nata del filosofo  Morta Lidia, l'ultima figlia ancora vivente di C. Si è spenta a Napoli. Il pensiero filosofico di C. - senato  C., La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari Saggio sullo Hegel  C., da "papa laico" a grande dimenticato  Grassano, La filosofia politica di Popper: 1 - La critica della dialettica hegeliana e dello storicismo; commento a La società aperta e i suoi nemici e Miseria dello storicismo di Popper  Croce e il totalitarismo  Carteggio C.-Omodeo Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Bompiani, Milano In opposizione al positivismo che voleva riportare la storia ad una forma della scienza, Croce si era interessato dell'estetica nella quale avrebbe dovuto essere compresa la storia; cfr. La storia sotto il concetto generale dell'arte, Bari.  Per questo motivo C. della Divina Commedia di Dante apprezza la prima cantica dell'Inferno in quanto risultato di una forte e sentita intuizione-espressione, mentre apprezza meno la cantica del Paradiso dove Dante mescolerebbe poesia e filosofia  Nella premessa C. scrive di aver trattato l'argomento nello scritto intitolato Lineamenti di una logica come scienza del concetto puro pubblicato negli Atti dell’Accademia pontaniana. In effetti però avverte C. che il volume «È una seconda edizione del mio pensiero, piuttosto che del mio libro» (C., Logica, Cent'anni di ricerca in Italia. Un passato da salvare, conferenza del prof. Bernardini, dal sito Centro Studi Enriques, C., La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari. Quel che si scrivevano Einstein e C.  Dimenticare C.? (Corriere della Sera)  La scienza negata. Il caso italiano, Codice, l'Italia della scienza negata (dal blog de Il Sole 24 Ore)  Ministro dell'Istruzione del governo MUSSOLINI, promotore della riforma scolastica varata in Italia. Radice in O. Pompeo Faracovi (a cura di), Federico Enriques, Approssimazione e verità, Belforte, Livorno, Giorello, Dimenticare Croce?, in Il Corriere della Sera, L'arretratezza dell'Italia in campo scientifico è il risultato di cattive scelte dei politici da una parte e di resistenze culturali e di incapacità degli scienziati stessi a comunicare dall'altra e che quindi risultano indipendenti dall'idealismo crociano. A livello culturale, casomai, esistono altre forze che potrebbero essere imputate del ritardo scientifico, si veda per esempio la nefasta influenza della Chiesa in merito ad alcuni aspetti delle ricerche bioetiche. La mia perplessità nei confronti di Croce non riguarda le pretese conseguenze della sua filosofia sullo sviluppo tecnico-scientifico del nostro Paese. Mi sembra che sia una polemica datata e ormai superata. Non credo che dalle posizioni antiscientifiche di Croce derivi un ritardo della società italiana nei confronti della scienza. Quella di C. è una filosofia interessante sotto altri profili, ma poco interessante, quando si parla di scienza e quindi è deficitaria sotto il profilo di una seria trattazione del problema della conoscenza.» (Giorello), in È vero che C. odiava la scienza? - Dialogo tra Giorello e Ocone, Matera, Biscaldi, Giusti, Pezzotti, Rosci, Scienze umane - Corso integrato, Marietti Scuola, 9.  Benedetto Croce, La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari, Abbagnano, Storia della filosofia, Benadusi, Caravale, M.s Italy: Interpretation, Reception, and Intellectual Heritage, Palgrave Macmillan, Sambugar, Salà, Letteratura italiana  Paolo Ruffilli, Introduzione alle Operette morali di Leopardi, ed. Garzanti  Sebastiano Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell'Ottocento italiano  C., Schopenhauer e il nome del male  Si riferisce a d'Annunzio, Fogazzaro e Pascoli  Riportato in Pazzaglia, Letteratura italiana III  C., Del carattere della più recente letteratura italiana, in Letteratura della nuova Italia, Bari, Dino Biondi, Il Resto del Carlino, Edizioni Nazionali istituite anteriormente alla legge su Ministero per i Beni e le Attività Culturali, concernente l'«Edizione Nazionale delle opere di C. Integrazione della composizione della Commissione» su Ministero per i Beni e le Attività Culturali, VISTO il D.P.R istitutivo dell'Edizione Nazionale delle opere di C.».Bibliografia Fassò, C., in Novissimo Digesto Italiano, diretto da A. Azara e E. Eula, Torino, Pomba, Antoni, Commento a C., Venezia, Neri Pozza, Alfredo Parente, Il pensiero politico di C. e il nuovo liberalismo, Solmi, Il C. e noi, in "La Rassegna d'Italia", La letteratura italiana contemporanea, a cura di Giovanni Pacchiano, Milano, Adelphi). Nicolini, C., Pomba, Torino, Ottaviano Giannangeli, C. a Raiano, in "L'Osservatore politico letterario", Milano-Roma, (ora in Id., Operatori letterari abruzzesi, Lanciano, Itinerari). Damiano Venanzio Fucinese, Dieci lettere inedite di C., in "Dimensioni", Lanciano, Ulisse Benedetti, C. e il Fascismo, Roma, Volpe Rditore, Roma, Sasso, C. La ricerca della dialettica, Napoli, Morano, Badaloni, Muscetta, Labriola, Croce, Gentile, Roma-Bari, Laterza (in part. di Muscetta: La versatile precocità giovanile di Benedetto Croce. Profilo della sua lunga operosità, Critica e metodologia letteraria di C., Croce scrittore: multiforme unità della sua prosa). Gianfranco Contini, La parte di C. nella cultura italiana, in Altri esercizi, Torino, Einaudi, Sasso, La "Storia d'Italia" di C.. Cinquant'anni dopo, Napoli, Bibliopolis,  Bonetti, Introduzione a C., Laterza, Ryn, Will, Imagination and Reason: Babbitt, C. and the Problem of Reality, Giammattei, Retorica e idealismo, Mulino, Bologna, Sasso, Per invigilare me stesso. I taccuini di lavoro di C., Bologna, Mulino, Galasso, C. e lo spirito del suo tempo, Milano, Saggiatore, C. e la cultura meridionale. Atti del convegno di studi, Sulmona-Pescasseroli-Raiano, a cura di Papponetti, Pescara, Ediars, Toni Iermano, Lo scrittoio di C. con scritti inediti e rari, Napoli, Fiorentino, Antonio Cordeschi, C. e la bella Angelina. Storia di un amore, Milano, Mursia, Sasso, Filosofia e idealismo. I – C., Napoli, Bibliopolis, Mengaldo, "C.", in: Profili critici del Novecento, Torino, Bollati Boringhieri, Sartori, Studi crociani, Bologna, Mulino, Giannangeli, C.e la riconquista dell'Abruzzo e Due monografie e un appunto, in Scrittura e radici. Saggi, Lanciano, Carabba, C. filosofo. Atti del convegno internazionale di studi in occasione dell’anniversario della morte: Napoli-Messina, Soveria Mannelli, Rubbettino, Paolozzi, L'estetica di C., Napoli, Guida, Rizi, C. and Italian fascism, University of Toronto Press, Toronto, Visentin, Il neoparmenidismo italiano, I. Le premesse storiche e filosofiche: C. e Gentile, Napoli, Bibliopolis, Maria Panetta, C. editore, Napoli, Bibliopolis, Verucci, Idealisti all'indice. C., Gentile e la condanna del Sant'Uffizio, Laterza, Roma, Cotroneo, C. filosofo italiano, Firenze, Le Lettere, Gembillo, C., filosofo della complessità, Soveria Mannelli, Rubbettino, Mauro, Il problema religioso nel pensiero di C., Milano, FrancoAngeli. 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In seiner ,,Introduzione  alla filosotia' sagt er: Damit aus einem Volke eine Nation werde, muß es sich  seiner Nationalität, seiner Kraft und seiner Kultur bewußt sein. Philosophie Hegels an, die gerade in Italien, namentlich an der Universität  Neapel, von jeher gepflegt wurde. C. übernimmt von dem großen deutschen  Denker den Leitgedanken, nämlich die Idee des Geistes als einer dialektischen Tätigkeit, die sich im Rhytmus von Gegensätzen bewegt. Diese Gegensätze  formuliert er allerdings etwas anders als Siegel, indem er zwischen kontradiktorischen und nur konträren Momenten unterscheidet. Ferner lehnt C. die empirischen Gedanken völlig ab; für ihn erzeugt nur der Geist die Realität. Es gibt in der Welt nichts, was nicht Manifestation des Geistes wäre. Er gliedert  sich in zwei Hauptformen: theoretische Aktivität (Erkennen) und praktische  (Wollen und Handeln). Unterformen sind: intuitives Anschauen (Kunst),  intellektuelles Denken (Wissenschaft), ulititalisches Handeln (Ökonomie),  moralisches Wollen (Ethik). So schrieb denn C. ein Buch über Lebendiges  und Totes in Hegels Philosophie und betonte seine innere Verwandtschaft  mit Vico, dessen Lehre er gleichfalls eine besondere Schrift gewidmet hat. Diese Verwandtschaft tritt besonders in C. Werken über Historik und  Ästhetik hervor. Diese und andere Bücher des italienischen Philosophen  haben internationales Ansehen erlangt. Gentile schließt sich zwar im allgemeinen an den Geist der Hegelschen Dialektik an. Er faßt sie aber nicht  als abstrakte Reflexion auf, sondern als konkretes Denken, das zugleich ein  landein ist. Daher bezeichnet er seine Philosophie als Aktualismus. Die  wahre Realität liegt in dem schöpferischen Akt des Geistes. Dieser ist nicht  etwa nur Bewußtsein und Kontemplation der Welt, sondern schöpferisches  Hervorbringen der Welt; Ethik und Politik sind daher ein Ausfluß des Geistes. Selbst die historische Schau bedeutet nicht nur einen Bericht über Geschehnisse der Vergangenheit, sondern auch eine geistige Schöpfung 1). In dieser  Lehre erblickt Gentile eine Fortführung der italienischen Tradition, die von  Bruno bis auf Vico, Gioberti und Spaventa reicht. Er hat sich vollkommen  dem Faschismus angeschlossen, war eine Zeitlang Unterrichtsminister und  Urheber einer tiefgreifenden Schulreform. Gentile hat auch wichtige Beiträge  zur Staatstheorie des Faschismus geliefert 2 ), welche weiter unten erwähnt  werden sollen. Es sei noch hinzugefügt, daß auf dem Gebiete der Rechtsphilosophie sich G. Del Vecchio auch außerhalb Italiens einen Namen gemacht  hat durch seinen Kampf gegen den reinen Rechtspositivismus und seine  philosophische Begründung des Imperialismus; dadurch hat seine Lehre eine  nahe Beziehung zum Faschismus. Von den zahlreichen Schriften Gentiles ist ,,Der aktuale Idealismus“ auch  in deutscher Übersetzung erschienen.   -I Vgl. besonders „Che cosa e il fascismo", „La filosolia de] fascismo“. Charakteristisch ist der Satz: ,,Lo stato del fascismo e una creazionc tutta spirituale". Benedetto Croce. Croce.  Keywords: idealism, la filosofia di Croce come antecedente del fascismo, Mussolini giornalista, la ruttura Croce-Gentile – l’idealismo di Croce pre-fascismo come fascista: hegel, idea dello spirito, idealism assoluto, la relazione tra Vico e Hegel.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Croce: implicatura: intenzione, espressione, e communicazione” Croce.

 

Grice e Cuoco: l’implicatura conversazionale di Platone in Italia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Civitacampomarano). Filosofo italiano. Vincenzo Cuoco. Litografia di Vincenzo Cuoco del 1840 Direttore del Tesoro del Regno di Napoli Durata mandato28 febbraio 1812 – 1815 MonarcaGioacchino Murat Dati generali Partito politicoMurattiani ProfessioneGiurista, economista. Targa posta sulla casa natìa di Vincenzo Cuoco a Civitacampomarano Cuoco nacque a Civitacampomarano, un piccolo borgo del Contado di Molise, nel Regno di Napoli (attualmente in provincia di Campobasso), figlio di Michelangelo Cuoco, un avvocato e studioso di economia, appartenente ad una famiglia della locale borghesia di provincia, e di Colomba de Marinis.  Ricevuta una prima istruzione nel vivace ambiente illuministico del paese natìo, animato dalla famiglia Pepe, a cui era imparentato (tra i parenti ebbe come cugino Gabriele Pepe), nel 1787 si recò a Napoli per studiarvi diritto e fu allievo privato di Ignazio Falconieri. Non terminò gli studi di legge, ma a partire da questo periodo si interessò di questioni economiche, sociali, culturali, filosofiche e politiche, materie che resteranno sempre al centro della sua attività e dei suoi interessi.  Nell'ambiente culturale napoletano conobbe ed entrò in contatto con intellettuali illuminati del Sud, tra i quali anche il conterraneo Galanti, che in una lettera del 4 settembre del 1790 al padre Michelangelo, descrive Vincenzo: «capace, di molta abilità e di molto talento», ma «trascurato» e «indolente», forse non soddisfatto appieno della collaborazione di Vincenzo alla stesura della sua Descrizione geografica e politica delle Sicilie.  Partecipò attivamente alla costituzione della Repubblica Napoletana nel 1799 ed alle sue vicissitudini, ricoprendovi le cariche di segretario del suo ex docente Ignazio Falconieri (che ricopriva la carica di comandante militare del Dipartimento del Volturno) e di organizzatore del Dipartimento del Volturno.  In seguito alla capitolazione della Repubblica per mano delle truppe sanfediste del cardinale Fabrizio Ruffo ed al susseguente ritorno al potere dei Borboni, conobbe il carcere per alcuni mesi, venendo inoltre condannato alla confisca dei beni e quindi costretto all'esilio, dapprima a Parigi e poi a Milano, dove già nel 1801 pubblicò il suo capolavoro, il Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, poi ampliato nella successiva edizione del 1806.  Sempre a Milano, tra il 1802 ed il 1804 diresse il Giornale Italiano, dando un'impronta economica di rilievo al periodico e svolgendo una vivace attività pubblicistica, che proseguirà anche a Napoli con la sua collaborazione al Monitore delle Sicilie.  Nel 1806 pubblicò il suo Platone in Italia, originale romanzo utopistico proposto in forma epistolare, e quindi rientrò nel Regno di Napoli governato da Giuseppe Bonaparte, ricoprendovi importanti incarichi pubblici, prima come Consigliere di Cassazione e poi Direttore del Tesoro, dove si distinse inoltre come uno dei più importanti consiglieri del governo di Gioacchino Murat.  In questo ambito preparò nel 1809 un Progetto per l'ordinamento della pubblica istruzione nel Regno di Napoli, nel quale l'istruzione pubblica è vista come indispensabile strumento per la formazione di una coscienza nazional popolare. Seguace del Pestalozzi, Cuoco prospetta «un'istruzione generale, pubblica ed uniforme». [1]  Dal 1810 ebbe l'incarico di Capo del Consiglio Provinciale del Molise e, durante la durata di tale impiego, scrisse nel 1812 Viaggio in Molise, opera storico-descrittiva sulla sua regione natale a cui restò legato grazie anche alla stretta parentela con la famiglia Pepe (Gabriele Pepe), presso la quale si conservano ancora suoi scritti e ritratti.  Gli ultimi suoi anni furono funestati dalla follia, che lo colpì a partire dal 1816 (forse anche a causa del travaglio interiore scatenato dalla Restaurazione), spingendolo alla distruzione di molti suoi manoscritti, rimasti dunque inediti, e costringendolo a ridurre progressivamente le sue attività sino alla morte, avvenuta a Napoli nel 1823, per le conseguenze di una frattura del femore, riportata in seguito a una caduta.  Opere Studioso di letteratura, giurisprudenza e filosofia, Vincenzo Cuoco si segnala, oltre che per la sua attività pubblicistica, per il Platone in Italia, originale romanzo utopistico in forma epistolare e, soprattutto, per il Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, opera di fondamentale importanza nella nostra storiografia, forse non studiata e conosciuta quanto meriterebbe. Lavorò ad altri saggi e opere letterarie, rimaste in gran parte incompiute (salvo il saggio Viaggio nel Molise, scritto nel 1812) e da lui stesso distrutte nel corso delle crisi nervose causate dalla malattia che lo accompagnò nei suoi ultimi anni.  Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 «Tutte le volte che in quest'opera si parla di "nome", di "opinione", di "grado", s'intende sempre di quel grado, di quella opinione, di quel nome che influiscono sul popolo, che è il grande, il solo agente delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni.»  (V. Cuoco - Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, Prefazione alla seconda edizione)  Il Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 fu scritto durante l'esilio a Parigi e pubblicato a Milano in forma anonima nel 1801.  L'opera narra gli eventi occorsi a Napoli tra il dicembre del 1798 (fuga di re Ferdinando IV di Borbone in Sicilia) e la caduta della Repubblica Napoletana, comprese le rappresaglie che ne seguirono la fine.  Il saggio conobbe un vasto successo (fu presto tradotto anche in tedesco) e andò abbastanza rapidamente esaurito, tanto da spingere l'autore - anche per scoraggiare i tentativi di ristampa abusiva - a porre mano ad una nuova edizione ampliata, che vide la luce nel 1806. Nel 1807 il saggio fu tradotto anche in francese (quasi contemporaneamente ad analoga traduzione del Platone in Italia).  Accanto alla dimensione puramente storiografica, attraverso la quale vengono ripercorsi gli eventi che condussero alla nascita e alla rapida fine dell'effimero esperimento repubblicano (inquadrati dall'autore nel burrascoso contesto delle invasioni napoleoniche in Italia), l'opera si propone come un commento storico e mira a delineare una lettura critica della vicenda rivoluzionaria.  Il racconto degli accadimenti viene proposto sotto forma di indagine rigorosa dei fatti e investe l'esposizione dei principi teorici che mossero gli artefici della rivoluzione napoletana.  Senza indulgere in enfasi e retorica, viene in tal modo offerto al lettore uno spaccato della vivace e avanzata cultura filosofica e politica d'inizio secolo nella capitale del Sud d'Italia (all'epoca in Europa seconda solo a Parigi per estensione), ove gli insegnamenti di Mario Pagano (1748-1799), di Antonio Genovesi, di Gaetano Filangieri (1752-1788), e di Giambattista Vico confluiscono a filtrare e aggiornare la lettura sempre valida de Il Principe di Niccolò Machiavelli.  «I Francesi furono costretti a dedurre i princìpi loro dalla più astrusa metafisica, e caddero nell'errore nel qual cadono per l'ordinario gli uomini che seguono idee soverchiamente astratte, che è quello di confonder le proprie idee con le leggi della natura.»  (V. Cuoco - Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, cap. VII)  Poste a confronto la Rivoluzione francese e quella partenopea, Vincenzo Cuoco indaga le ragioni del fallimento di quest'ultima e ne individua con lucidità e senza pregiudizi le cause: ispirata e poi di fatto imposta dagli stranieri, la rivoluzione coinvolge a Napoli solo un’élite molto limitata numericamente (e largamente impreparata alla difficile arte del governo), senza penetrare nella coscienza popolare e senza tenere in alcun conto le peculiarità, tradizioni, necessità reali e aspirazioni più autentiche che caratterizzavano le genti napoletane:  «Se mai la repubblica si fosse fondata da noi medesimi; se la costituzione, diretta dalle idee eterne della giustizia, si fosse fondata sui bisogni e sugli usi del popolo; se un'autorità, che il popolo credeva legittima e nazionale, invece di parlargli un astruso linguaggio che esso non intendeva, gli avesse procurato de' beni reali, e liberato lo avesse da que' mali che soffriva; forse… noi non piangeremmo ora sui miseri avanzi di una patria desolata e degna di una sorte migliore.»  (V. Cuoco - Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, cap.XV)  Se da un lato, secondo Cuoco, il governo rivoluzionario cadde vittima - prima di tutto - della sua stessa imperizia tecnico-politica, dall'altro l'esperimento era votato in partenza al fallimento in quanto mirava ad applicare ciecamente il modello della Rivoluzione francese, tal quale, senza minimamente preoccuparsi di adattarlo alla realtà napoletana e alle sue peculiarità.  D'altra parte, osserva Cuoco con spirito squisitamente moderno e rara acutezza, si pretendeva che il popolo aderisse ciecamente a una rivoluzione della quale non poteva capire né i valori, né le ragioni: "«Il vostro Claudio è fuggito, Messalina trema»… Era obbligato il popolo a saper la storia romana per conoscere la sua felicità?" (Saggio..., cap. XIX)  La Rivoluzione fu dunque imposta al popolo, piuttosto che proposta o sorta dalle sue istanze più autentiche e profonde, determinando pertanto una profonda e insanabile frattura tra gli intellettuali che la guidarono e la popolazione che se ne sentì sostanzialmente estranea e che spontaneamente seppe riconoscerla per quel che certo essa era a livello geopolitico: un regime imposto dall'interesse di una potenza straniera.  L'acuta e onesta critica di Cuoco - sempre sostenuto nella sua opera da un raro attaccamento al realismo e da una logica incalzante - nel condannare la cieca fiducia delle élite in teorie generali che non tengono nel giusto conto la storia e la cultura più profonde e vere dei popoli, individua dunque già all'alba del XIX secolo nella frattura tra classi dirigenti e istanze popolari quello che sarà forse il più grave dramma dell'intera avventura risorgimentale italiana e che tanto dovrà pesare sulla storia dell'Italia unita, sino ai giorni nostri.  Critiche al saggio storico L'opera di Vincenzo Cuoco ricevette aspre critiche per la sua documentazione storiografica. Al di là delle convinzioni politiche, gli è stata rimproverata una certa parzialità nella ricerca storiografica. L'abate Domenico Sacchinelli, segretario del cardinale Fabrizio Ruffo, fondatore e comandante dell'Esercito della Santa Fede in Nostro Signore Gesù Cristo, principale responsabile della sanguinaria caduta della Repubblica e della restaurazione dei Borboni al trono, criticò aspramente la sua opera.  Al fine di far conoscere la sua versione dei fatti, Domenico Sacchinelli pubblicò un'opera intitolata Memorie storiche sulla vita del cardinale Fabrizio Ruffo (1836), scritta nove anni dopo la morte di Fabrizio Ruffo nella quale, essendo stato segretario del cardinale e possedendo dei documenti del periodo, contestava molte delle notizie su Ruffo e sui sanfedisti. Sacchinelli, nella prefazione, asserisce che Cuoco, a sua differenza, non poteva sapere quello che l'esercito della Santa Fede aveva fatto per filo e per segno, in quali paesi era stato e quali paesi aveva saccheggiato o incendiato.[2]  Per contro, Benedetto Croce la segnalò quale "[...] prima vigorosa manifestazione del pensiero vichiano, antiastrattista e storico, e l'inizio della nuova storiografìa, fondata sul concetto dello svolgimento organico dei popoli, e della nuova politica, la politica del liberalismo nazionale, rivoluzionario e moderato insieme." (B. Croce, Storia della storiografia italiana, Volume primo, Laterza, 1921)  Platone in Italia  Platone in Italia, 1916 «Se l'arte dell'eloquenza è l'arte di persuadere, non vi è altra eloquenza che quella di dire sempre il vero, il solo vero, il nudo vero. Le parole, onde è necessità di nostra inferma natura di rivestire il pensiero, saranno tanto più potenti, quanto più atte al fine, cioè quanto più nudo lasceranno il vero, che è nel pensiero.»  (V. Cuoco - Platone in Italia)  Il Platone in Italia, diviso in due volumi, è un originale esempio di romanzo storico scritto in forma epistolare che l'autore finge di aver tradotto dal greco.  L'opera, scritta prima del suo rientro a Napoli nel 1806 (e pubblicata nello stesso anno), è dedicata alla celebrazione del mito di un'immaginata "Italia pitagorica", intesa come antico e mitico luogo della saggezza.  Nel racconto immaginario di Cuoco si descrive il viaggio intrapreso dal giovane Cleobolo, discepolo di Platone, in visita nella Magna Grecia in compagnia del suo maestro: il viaggio fornisce lo spunto per esaltare l'originalità e la natura primigenia della civiltà italiana, vista da Cuoco come più antica di quella ellenica: è nell'Italia meridionale che quelle popolazioni raggiungono per prime l'apice sia nel campo delle istituzioni civili, sia nelle scienze e nelle arti.  Anche in quest'opera è chiaramente rintracciabile l'influsso di Vico e del suo De antiquissima Italorum sapientia, laddove Cuoco ne coglie non solo la dimensione storica, ma anche quella filosofica.  Importante dal punto di vista ideologico, l'opera intende affermare la supremazia culturale italiana rispetto alla Francia e al resto d'Europa e può essere considerata un preannuncio della corrente d'orgoglio nazionale che si svilupperà in tutto il primo Ottocento e che culminerà nel celebre Del primato morale e civile degli Italiani di Vincenzo Gioberti.  A tratti disorganica e monotona, l'opera non rende giustizia al suo autore da un punto di vista squisitamente letterario, specie se confrontata con lo stile straordinariamente persuasivo, agile ed efficace del Saggio sulla rivoluzione napoletana.  Opere Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, in Scrittori d'Italia 43, Bari, Laterza, 1913. Platone in Italia, in Scrittori d'Italia 74, vol. 1, 2ª ed., Bari, Laterza, 1928. Platone in Italia, in Scrittori d'Italia 92, vol. 2, Bari, Laterza, 1924. Scritti vari, in Scrittori d'Italia 93, vol. 1, Bari, Laterza, 1924. Scritti vari, in Scrittori d'Italia 94, vol. 2, Bari, Laterza, 1924. Note ^ Rapporto al re Gioacchino Marat e Progetto di decreto per l'ordinamento della Pubblica Istruzione nel Regno di Napoli, vedi Carlo Salinari Carlo Ricci, Storia della letteratura italiana, Volume terzo, Parte prima, Edizioni Laterza, Bari 1981. p 11 ^ sacchinelli-memorie, prefazione. Bibliografia Fulvio Tessitore, Lo storicismo di Vincenzo Cuoco, Morano editore, Napoli, 1965 Fulvio Tessitore, Vincenzo Cuoco tra illuminismo e storicismo, Libreria Scientifica Editore, Napoli, 1971. Fulvio Tessitore, Vincenzo Cuoco, in Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Filosofia , Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani, 2012. Dario De Salvo, la Pedagogia del Reale di Vincenzo Cuoco, PensaMultimedia, Lecce-rovato, 2016. A. Boroli e AA.VV., Universo - la grande enciclopedia per tutti, Istituto Geografico De Agostini S.p.A., Novara, 1970; AA.VV., l'Enciclopedia, UTET Torino - Istituto Geografico De Agostini S.p.A., Novara - Gruppo Editoriale L'Espresso S.p.A., Roma, 2003; Mario Themelly, «CUOCO, Vincenzo», in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 31, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani, 1985. Felice Battaglia, «CUOCO, Vincenzo», la voce nella Enciclopedia Italiana, Volume 12, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1931. Fausto Moriani, Esoterismi e storie: Platone nell'interpretazione di Vincenzo Cuoco, in Le vie della ricerca. Studi in onore di Francesco Adorno, Olschki, Firenze, 1996, pp. 677–688. Domenico Sacchinelli, Sulla vita del cardinale Fabrizio Ruffo (PDF), Tipografia di Carlo Calanco, 1836. Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Vincenzo Cuoco Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Vincenzo Cuoco Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Vincenzo Cuoco Collegamenti esterni Cuòco, Vincenzo, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Felice Battaglia, CUOCO, Vincenzo, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1931. Modifica su Wikidata Cuoco, Vincenzo, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010. Modifica su Wikidata Cuòco, Vincènzo, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata (EN) Vincenzo Cuoco, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Mario Themelly, CUOCO, Vincenzo, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 31, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1985. Modifica su Wikidata Opere di Vincenzo Cuoco, su Liber Liber. Modifica su Wikidata Opere di Vincenzo Cuoco, su MLOL, Horizons Unlimited. Modifica su Wikidata (EN) Opere di Vincenzo Cuoco, su Open Library, Internet Archive. Portale Biografie   Portale Due Sicilie   Portale Economia   Portale Letteratura   Portale Risorgimento Categorie: Scrittori italiani del XVIII secoloScrittori italiani del XIX secoloGiuristi italiani del XVIII secoloGiuristi italiani del XIX secoloPolitici italiani del XVIII secoloPolitici italiani del XIX secoloNati nel 1770Morti nel 1823Nati il 1º ottobreMorti il 14 dicembreNati a CivitacampomaranoMorti a NapoliEconomisti italiani del XVIII secoloEconomisti italiani del XIX secoloPersonalità del RisorgimentoPersonalità della Repubblica Napoletana (1799)[altre] L'opera filosofica di Cuoco nella Repubblica e nel Regno italico non si esaurisce nei molte plici articoli del “Giornale italiano”. La filosofia italica di Cuoco si continua nel “Platone in Italia”, nuova ed alta testimonianza di quello spirito che vediamo in opera ininterrottamente dai frammenti agli scritti del foglio milanese. Questo sentimento nazionalistico, che ha il suo centro sol nello spirito e non fuori di esso, è la gran trovata, il punto fermo del molisano, e compenetra il suo Platone. Quello stesso uomo, nota giustamente Hazard, che scrive che “ama di morir per la sua patria,” con la sua Napoli, “poichè essa più non esiste”,  mentre Cuoco vive ancora, ed aggiungeva che ad essa ha consacrati tutti i suoi pensieri. Ora consapevole sempre di più di quanto nel saggio storico ha pur detto, cioè che l'amore di patria nasce dalla pubblica educazione. Ora scrive un saggio il cui solo fine è sempre lo stesso: creare lo spirito nazionale, e crearlo, presentando quanto più spesso si possa le memorie dei tempi gloriosi. Che questo e lo scopo del suo “Platone in Italia” nessun dubbio. E Cuoco stesso che ce lo dice. Il Platone dice Cuoco, in una lettera al vicerè Eugenio è “diretto a formar la morale pubblica degl'italiani, ed ispirar loro quello spirito d’unione, quell’amor di patria, quell’amor della milizia che finora non hanno avuto.” Il “Platone in Italia” di Cuoco perciò è un romanzo a tesi, o, se volete, un romanzo didattico, se con ciò noi vogliamo riferirci al suo fine, lasciando impregiudicata assolutamente l'ulteriore valutazione filosofica. E chi lo legge con cura non può non accorgersi di questo scopo, estrinseco sì all'arte, ma non allo scrittore, di questo scopo che Cuoco persegue, e per il quale solo sembra vivere. La trama del “Platone in Italia” in sè è tenuissima, tanto tenue che Cuoco quasi non se ne accorge, onde appena l'abbozza per tosto sorvolarla. Un greco, Cleobolo, fa un viaggio culturale nella Magna Grecia con il suo tutore, Platone. Platone e il suo scolaro visitano le più importanti città d'Italia: Crotone, Taranto, Metaponto, Eraclea, Turio, Sibari, Locri, Reggio, ecc., e conosce direttamente o indirettamente i più fieri popoli della pe [ROBERTI, Lettere inedite di G. Botta, U. Foscolo e V. Cuoco, in Giornale storico della letteratura italiana. La lettera del Cuoco è ora ri prodotta in Scritti vari. Cuoco, Saggio storico. BUTTI, Una lettera di V. Cuoco al Vicerè Eugenio nella miscellanea Da Dante al Leopardi, per Nozze Scherillo -Negri, Milano, Hoepli. La lettera è ora ripro. dotta in Scritti vari] pennisola, i sanniti e i romani, ammira le opere d'arte, disputa di filosofia, si innamora di Mnesilla. Cleobolo stringe con Mnesilla un bel nodo d'amore. La trama è questa. Ma vien meno dinanzi all'urgere d'un contenuto didascalico svariatissimo, che la spezza, la frantuma, e in fine ce la fa dimenticare. Nè il “Platone in Italia” è sotto questo riguardo un romanzo originale. Anzi ha i suoi bravi antecedenti, tra cui sopra tutti importante quel “Voyage du jeune Anacharsis en Grèce,” che ha una grande diffusione in Francia e fuori, che ovunque ebbe ammira tori ed imitatori. Ma nella maggior parte de' casi, come nota il Sanctis, il viaggio di Platone e Cleobolo è “un semplice mezzo, con un altro scopo ed un altro contenuto,” che non sia quello vero e proprio di descrivere paesaggi e monumenti. Lo scopo non è più il viaggio. Lo scopo e l'espressione di certe idee e sentimenti, fatta più agevole, con questo mezzo. I secoli XVIII e XIX amarono il romanzo viaggio, come del resto anche il romanzo-epistolario, perchè col suo meccanismo si piega ad ogni finalità. Il “Platone in Italia” di Cuoco anzi è nello stesso tempo viaggio ed epistolario, è un insieme di lettere spedite visitando l'una dopo l'altra le varie città d' Italia. Il viaggio, come forma letteraria, può servire a qua lunque scopo ed avere qualunque contenuto. E cera, che può ricevere ogni specie d'impressione; marmo, che può configurarsi secondo il capriccio dello scultore. È difficile trovare una forma più libera, più pieghevole al vostro volere. Passate da una città in un'altra: nessun limite trovate al vostro pensiero. Potete incontrarvi con gli uomini che vi piace; immaginare ogni specie d'accidenti; saltare dalla natura ai costumi, da' costumi al l'anima; visitare, qua e colà, come vi torna meglio; rin chiudervi, tutto solo, nella vostra stanza, e fantasticare, filosofare, poetare, mescere, a vostro grado, sogni, ghiri bizzi e ragionamenti, dialoghi e soliloqui, visioni e rac conti. Se voi vi proponete uno scopo particolare, questo v ' impone il tal contenuto, il tale ordine, la tal proporzione: insomma v’impone un limite, che non procede dal mezzo liberissimo di cui vi valete, ma dal fine che avete in mente. Ma se voi leggete l'opera del Barthélemy e la raffron tate con l'opera cuochiana, una differenza vi balzerà su bito agl’occhi, nell'alto fine che il nostro scrittore s'è proposto e che nel francese, naturalmente, manca del tutto. È il fine, quello che interessa il Cuoco, e che da lungo tempo egli persegue ne' più vari modi. Il Giornale italiano, a questo proposito, ci mostra come l'idea d'un viaggio educativo nei vari reami della storia si sia al molisano altre volte presentata. Tra tante opere che ci si dànno ogni giorno, buone, mediocri, cattive quella descrivente un viaggio, per esempio, nel secolo di Leone X, non sa rebbe certamente la meno utile per la nostra istruzione e per la nostra gloria ». Così scrive, e di questo viaggio ideale, di cui immagina che un suo amico conservi l'an tico manoscritto d'un suo maggiore, dà un saggio in quel colloquio col Machiavelli che abbiamo a più riprese ve duto (2 ). Il fine dunque è quello che occupa l'animo del nostro, e questo domina tutto, soffoca, purtroppo, ogni intendimento che pedagogico non sia [Il romanziere cerca di scusare questa deficienza di trama, che si risolve in una deficienza fantastica e quindi in una deficienza artistica, e nella prefazione scrive che la sua storia e rinvenuta in un antico manoscritto, autentico, perchè ritrovato da suo nonno proprio fra le fondamenta d'una sua casa, ergentesi sovra quel suolo ove un dì superba e Eraclea, manoscritto che è lacerato in varî punti e perciò lacunoso, onde varje situazioni, prima accennate, non sono poi svolte e tanto meno condotte a fine: ma questa è una scusa che non scusa nulla, poichè tutti sanno che il manoscritto non è se non nell'immaginazione del Cuoco, nè più nè meno come l'anonimo ma [DÉ SANCTIS, Saggi critici, v. III, pag. 290 e seg. (2 ) Giorn. ital., 1804; 21, 23, 25 gennaio; n. 9, 10, 11, pp. 35-36, pp. 39-40, pp. 43-44: Varietà (vedi p. 163 del nostro lavoro ). (3) L. SETTEMBRINI] -noscritto dei Promessi Sposi è nell'immaginazione di Don Alessandro. Perciò l'esiguità della trama si deve unicamente al sopravvento di fini estrinseci all'arte, pedagogici e didascalici. E gli stessi personaggi, che la piccola trama lega, sono e non sono. Noi li vediamo e non li vediamo. Soprattutto, noi non li vediamo mai in azione, in atto, con i loro caratteri e con le loro passioni. A rigore possiamo dire che non sono protagonisti di nessun dramma, poichè ci – Platone e il suo scolaro italiano -- appaiono, se mai, nella stessa funzione del prologo in certi antichi componimenti teatrali, che si limita ad annunciare ciò che fu o sarà e fa alcune sue considerazioni. Essi hanno perciò un nome, come ne potrebbero avere un altro. Non sono essi quelli che contano, conta quel che dicono, o che per essi dice Cuoco. Da questa condizion di cose, è evidente, scaturisce un dissidio insanabile tra quello che è arte, e che perciò non ha nè può avere un fine estrinseco a sè stessa, e lo scopo stesso dichiarato dall'autore: il rammentare agl’italiani che essi furono una volta virtuosi, potenti, felici, he furono un giorno gl'inventori di quasi tutte le cognizioni che adornano lo spirito umano. Come il Vico nel “De antiquissima italorum sapiential” si pone dinanzi il fine di dimostrare qual filosofia si debba trarre dalle origini della lingua latina, quella filosofia che in antico dovè certo essere professata dai sapienti italiani. Così il Cuoco si propone di dimostrare che, nel pas sato più remoto, tra i popoli, che abitarono la nostra penisola, ve ne furono di civilissimi, popoli, la cui civiltà fu persino anteriore alla civiltà ellenica, che dalla prima riceve luce, e non viceversa. E come chi voglia intendere il ”De antiquissima” non deve tenere nessun conto del suo titolo e del proemio, e di tutte le vane investigazioni che qua e là, vi ricorrono dei riposti con cetti, che, secondo Vico supporrebbero talune voci latine, per considerare unicamente in sè stessa questa dottrina che Cuoco pretende rimettere in luce dal più vetusto tesoro della mente e dell’anima italica, e che non è altro che una dottrina modernissima, quale puo essere costruita da esso Vico. Così chi voglia comprendere il vero spirito del “Platone in Italia” di Cuoco deve prescindere dall'esil nucleo romantico, come dalla faticosa ricostruzione archeologica, e considerarlo nella sua attualità. Esso non esprime i pensieri nè di Archita nè di Cleobolo, ma i pensieri del Cuoco, scrittore del Regno italico, meditante sulle proprie personali esperienze, e non sulle esperienze di venticinque secoli avanti. All'anno di grazia vanno, per esempio, riferite tutte le abbondanti considerazioni sulle leggi, sulla religione, sulle istituzioni, sulle rivoluzioni, Ma l'opera di Vico è un'opera dottrinale, filosofica, per cui lo sforzo di superamento temporale è facile. L’opera del Cuoco è un romanzo che vuol pure essere consi derato dal punto di vista dell'arte. Da ciò un insormontabile dualismo, onde noi veniamo risospinti dall'Italia del VI secolo di Roma all'Italia del secolo XIX di Cristo, da Platone a Vico, da Archita a Napoleone, dai filoneisti di Taranto ai giacobini di Francia, da Alcistenide e Nicorio a Monti. E in questo urto di due visioni opposte e con trastanti l'arte fugge via, e noi non sappiamo ove finisca la finzione e cominci la realtà. La funzione è troppo evidente, perchè noi possiamo ingannarci. V'è troppa erudizione, troppi richiami di testi classici, e non solo greci, ma anche latini, medievali, moderni, perchè la fantasia possa godere d’una pura contemplazione. E chi è quella Mnesilla, che disputa così bene d'arte e di musica, se non un'estetica moderna, che conosce Vico? E chi è quel Cleobolo, che cita opinioni del Filangieri e del Pagano, e parafrasa persino versi del Petrarca? [GENTILE, Studi vichiani, p. 95. (2 ) L. SETTEMBRINI, In una lettera che Cleobolo scrive all'amata è detto. Così, passando di pensiero in pensiero e dimonte in monte, spesso sopraggiunge la sera; e, mentre par che tutta la natura dorma, solo il mio cuore veglia, innalzandosi col pensiero fino a quegli astri eternamente lucenti che [ E chi è quel Platone, che non ignora i princípi della nazionalità e con Archita disputa di filosofia moderna! La contaminazione è troppo evidente, e la filosofia pitagorica e platonica si mesce in uno strano viluppo con quella vichiana. Da ciò, notiamo, scaturisce non solo, come abbiam detto una deficienza grande nell'opera d'arte, ma anche nell'importanza filosofica del Platone in Italia. È questo un'opera d'arte? Un lavoro filosofico? Uno scritto politico? Nulla di tutto ciò, e pure tutto ciò misto in una unità singolare. Non scritto storico, perchè, a parte il valore molto discutibile del suo metodo, che egli si propone di ragionare e giustificare più tardi, con una di quelle dilazioni, che svelano appunto l'incertezza del pensiero e l'oscurità da vincere, Cuoco è troppo preoccupato da fini estrinseci alla storia, artistici ed educativi] non filosofia, perchè Cuoco non segue un indirizzo unico, ma si trova costretto dal l'imbastitura della narrazione a mescere quel che è patrimonio dell'antichità con quella vigile coscienza tutta moderna e vichiana della spiritualità del reale. Non opera d'arte per ragioni sovradette, poichè Cuoco non riesce mai a trovare in sè quell'assoluta pacatezza della fantasia, che sola può generare creature vive. L'arte «non c'è principalmente nota » il Gentile « perchè Cuoco non si dimentica abbastanza in questa visione confortante, che a un tratto gli sorge nell'animo, di un'Italia grande per virtù private e pubbliche, perchè retta da una saggia filosofia. E corre a ogni po' col pensiero all'Italia per cui scrive, all'Italia presente, piccola, inferma, senza spirito pubblico, senza amor di grandezza, senza orgoglio di nazione, senza forze vive: e ondeggia tra la statua brillano sul mio capo; e, dopoaverli riguardati ad uno ad uno, il mio occhio si ferma in quella fascia immensa, la quale pare che tutto circondi l'universo. Di là si dice che le nostre anime sien discese, ed ivi ritorneranno e rimarranno unite per sempre! [G. GENTILE, Studi vichiani, p. 375. 235 che avrebbe da animare, e sè stesso che egli quasi non crede da tanto; e gli trema la mano ». Non c'è l'opera d'arte, ma il lavoro non è cosa del tutto morta e caduca. Ci sono parti molto belle, in cui realmente l'animo si placa in una commossa visione d'amore, o in un paesaggio italico, ricco di tinte forti calde sfumanti (1 ); poi c'è una sempre vigile volontà, tesa in un fine, che, se è estrinseco all'arte, non è mai fuori dall'autore, ma pur sempre in lui, e l'accende di sano amore di patria e d'alto nazionalismo. C'è in somma una matura attività dello spirito, che, sia che [Per dare un esempio dell'arte del “Platone in Italia” di Cuoco, trascrivo un brano, che già al RUGGIERI apparve degno d'attenzione: è una lettera di Cleobolo. Ieri sera sedevamo in quel poggio il quale tu sai che domina il mare e Taranto. È il sito più delizioso della villa ch'ella tiene nell'Aulone. E noi non sedevamo propriamente sulla sommità, ma in mezzo della falda, come in una valletta, la quale, ren dendo più ristretto l'orizzonte, par che renda più ristretti e più forti i sensi del cuore. Il sole tramontava; spirava dal l'occidente il fresco venticello della sera, che scendeva a noi turbinosetto per l'opposta falda del colle. Eravamo soli, io ed ella, e nessuno di noi due parlava, assorti ambedue in quella languida estasi che ispira il soave profumo de' fiori di primavera, forse più grave la sera che la mattina ne' luoghi frequenti di alberi. Di tempo in tempo io rivolgevo i miei occhi a lei, ma un istante dipoi li abbassava; ella li abbassava come per non incontrarsi coi miei, ma un istante dipoi li rial zava, quasi dolendole di non averli incontrati.... Vedi quel l'arboscello di cotogno? — mi disse (e di fatti ve ne era uno a dieci passi da me) — vedi come il vento, che si rompe in faccia agli annosi ulivi ed ai duri peri, pare che sfoghi tutta la sua prepotenza contro quel debole ed elegante arboscello? Quanta verità è in quei versi di Ibico: Il mio cuore è simile al cotogno fiorito, che il vento della primavera afferra per la chioma e ne con torce tutti i teneri rami!... Tu non hai detti tutti i versi di Ibico; no escləmai io tu non li hai detti tutti.... Esso è stato nudrito colla fresca onda del ruscello che gli scorre vicino; ma nel mio cuore un vento secco, simile al soffio del vento di Tra cia, divora.... Io voleva continuare; ma ella mi guardò e le vossi.... Qual potere era mai in quel guardo, in quell'atto?... Io non lo so; so che tacqui, mi levai e ritornai in casa, se guendola sempre un passo indietro, senza poter mai più alzar gli occhi dal suolo.”] eccesso e analizzi le antiche istituzioni del Sannio; sia che valuti i germi della futura grandezza di Roma, sia che da questi discenda ai fatti moderni, e indirettamente dica della rivoluzione francese e de' popoli, che tra un l'altro amano posarsi nelle opinioni medie o magari tro vare la pace in un Napoleone, tiranno restauratore del l'ordine, rivela pur sempre un uomo d'alta coscienza, con sapevole di sè e del suo posto nel suo popolo. Noi dimentichiamo l'artista mal riuscito, il metafisico contaminato, lo storico poco sicuro, ma ammiriamo il pedagogo, che dai dati concreti della storia umana trae un non perituro insegnamento. Cuoco parla non a sè stesso, poi che non si pone dal rigido punto di vista subiettivo proprio dell'arti sta, ma a noi, a noi italiani; e per noi vibra, per noi di sputa, per noi parla. Platone non parla al suo discepolo Cleobolo. Archita non parla ai suoi tarantini. Ponzio non parla ai suoi sanniti. Ma tutti e tre, attraverso il Cuoco, si rivolgono a noi, e il loro insegnamento mira a formare una più sicura anima italica. Certo questa posizione è un po' monotona, e riporta l'autore ad insistere su punti già precedentemente esposti nel Saggio, nei Frammenti, nel Giornale italiano, ma, se guardiamo l'arduità dello scopo, la difficoltà d'attingerlo, le ripetizioni non appariranno mai soverchie. Da noi non si tratta, dice il Cuoco, di conservare lo spirito pubblico, ma di crearlo, e la creazione è opera lunga, spesso do lorosa. La tesi principale del ”Platone in Italia”, che del resto non è una novità cuochiana, ma una trovata del Vico, è che nella nostra penisola vi sia stata una civiltà, come ho detto, anteriore alla greca, quella etrusca, che per il mondo ha diffuso luce di sapere filosofico e splendore d'arte, della quale civiltà quella ellenica e pitagorea è un posteriore riverbero. L'opinione, sia essa tramontata, come pretendono alcuni, per cui le origini greche del pitagorismo sono indubbie, sia essa vera, come sostengono altri, per cui l'autonomia della civiltà etrusca e delle susseguenti civiltà italiche è parimenti comprovata, è profondamente radicata nel Cuoco, la di cui serietà scientifica non può essere posta in dubbio. Il Cuoco è fortemente compenetrato di essa, e, laddove crede di vederla comprovata dai fatti, l'animo suo trema d'intima com mozione e di passionata esaltazione. Al tempo del viaggio di Platone, la Magna Grecia è in decadenza. Molte città, che già furono grandi, vennero nelle civili dissensioni rase al suolo. Altre, che un dì dominarono molte terre, sono ridotte a piccoli borghi. Stirpi, che hanno un passato glorioso, fiere delle loro milizie e dei loro trionfi, ora languono nell'ozio e nella effemina tezza. Ma, ovunque, a chi mira intimamente le cose s'appalesano i segni dell'antica grandezza e dell'antica forza, diffusi ne' monumenti architettonici, vivi negli ordini civili, parlanti nelle costruzioni filosofiche del pensiero e dell'arte. “Io credo, dunque,” dice Ponzio a Cleobolo, “ciò che dicono i nostri sapienti, i quali dan per certo che ne' tempi antichissimi l'Italia tutta fioriva per leggi, per agricoltura, per armi e per commercio. Quando questo sia stato, io non saprei dirtelo. Troverai però facilmente altri che te lo saprà dire meglio di me. Questo solamente posso dirti io: che allora tutti gl'italiani formavano un popolo solo, ed il loro imperio chiamavasi etrusco. Mentre la Grecia è ancor giovane, l'Italia è assai antica e sul suo vecchio suolo già due epoche s'avvicendano: l'una è scomparsa, l'altra è in isviluppo, e solo esteriormente potrà dirsi ellenica, nelle innegabili im migrazioni dei greci. Nel suo spirito è italica, erede della prim. Pitagora, che la impersona, null'altro è che un mito, ma un mito italico, una sintesi concettosa della sapienza, ma una sintesi tutta italica. Come nella natura vi sono terribili sconvolgimenti fisici, per cui la faccia della terra è alterata, i monti si fendono ed aprono larghe valli, in cui scorrono nuovi fiumi che prima non erano, mentre i vecchi veggono alterato il loro corso, così nella storia antiche catastrofi hanno distrutto una fiorttura senza pari e modificato organismi civili possenti. Sappi dunque, dice Cleobolo a Platone, riferendo un colloquio che egli ha avuto con un sacerdote di Pesto, che un tempo tutta l'Italia è stata abitata da un popolo solo, che chiamavasi etrusco. Grandi e per terra e per mare eran le di lui forze; e, de' due mari che, a modo d'isola, cingon l'Italia, uno chiamossi, dal nome co mune del popolo, Etrusco; l'altro, dal nome di una di lui colonia, Adriatico. Antichissima è l'origine di questi etruschi.. Le memorie della sua gloria si confondono con quella de' vostri iddii e de ' vostri eroi. Ma chi potrebbe dirti tutto ciò che gli etrusci opra rono nell’età de' vostri eroi e de' vostri iddii? Oscurità e favole coprono le memorie di que' tempi. Posso dirti però che gl’etrusci estendevano il loro commercio fino all'Asia. Gl’etruschi signoreggiavano tutte le isole che sono nel Mediterraneo, ed anche quelle che sono vicinissime alla Grecia. Dall'ampiezza dell'impero giudica dell'antichità. Quest'impero però era troppo grande e poco omogeneo, più federazione di città che stato unitario, onde esso avea in sè stesso il germe della dissoluzione. Non mai si era pensato a render forte il vincolo che ne univa le varie parti. Ciascun popolo ha ritenuto il proprio nome: era il nome della regione che abitava, era quello della città principale. Che importa saper qual mai fosse? Non era il nome “etrusco”. Ciascun popolo ha governo, leggi e magistrati diversi. Non vi e nè consiglio, nè magistrato comune se non per far la guerra. Da ciò trassero origine grandi mali che distrussero ogni organizzazione: La corruzione de' costumi produce la corruzione delle arti, le quali sono de' costumi ed istrumenti ed effetti, e poi generò la corruzione della religione, la quale, corrotta, accelera la morte delle città. Perciò l'Etruria, o Italia, si sfasciò per legge naturale di cose. Così cade, o Cleobolo, commenta il pellegrino Platone, qualunque altro impero ove non è unità. Così cade la Grecia,, se non cessa la disunione tra le varie città che la compongono, tra gl’uomini che abitano ciascuna città. Imperciocchè, ovunque è sapienza, ivi si tende al l'unità. All'unità si tende ovunque è virtù, il fine della quale è di render i cittadini concordi e simili. Nè possono. esserlo se non son buoni. La vita istessa di tutti gl’esseri non è se non lo sforzo degl’elementi, che li compongono, verso l'unità. Ovunque non vi è unità, ivi non è più nè sapienza, nè virtù, nè vita, e si corre a gran giornate alla morte. Ma la morte non è mai interamente morte, bensì tra sformazione, cioè riduzione in nuove forme di vita, forme nuove, che della prima vita mantengono alcuni elementi originari ed altri novelli acquistano. Così l'Italia, divenuta deserto nella ruina, tosto si ripopola di genti, di città, si organizza, si riabbellisce, e si ri presenta composta all'ammirazione universa. Ma la civiltà italica, che possiamo dire pitagorea, nella sua essenza è pur essa autoctona, se pure apparentemente ellenistica. Quando le colonie si sono stabilite in Italia, le stirpi indigene dalle montagne eran discese al piano, e due civiltà s'erano espresse. Noi disputiamo, osserva un italico a Cleobolo, per sapere se i ellenici abbian popolata l'Italia o gl'italiani abbian popolata la Grecia. Ed intanto è l'una e l'altra regione sono state forse popolate da un popolo – l’ario --, il padre comune degl’elleni e degl'italiani. Comune è perciò l'origine dei due popoli, ma, stanziatisi in diverse sedi, gl’italiani hanno avuta una fioritura più precoce che non gl’ellenici, che pure ai tempi di cui trattiamo, sembrano i più civili, i maestri degl’italiani in ogni campo dell'umana attività. L'antico primato italico però ancor si conserva, trasformato sì, ma sempre attivo, e si manifesta. Su questo primato italico il Cuoco insiste, insiste, insiste calorosamente. E la sua tesi nucleare. La pittura e in Italia già vecchia ed evoluta, allorquando Panco, fratello di Fidia, «ipinse ne' portici di Atene la battaglia di Maratona, riempiendo di stupore i suoi concittadini per la rassomiglianza che seppe mettere nelle immagini dei duci greci e dei capitani nemici [Furono gl'italiani che primi danno opera alle matematiche, e ne fecero un istrumento principale della loro filosofia. Prima che Teodoro reca agl’elleni la scienza degli italiani, in Grecia, le idee geometriche sono puerili, frivole, con traddittorie. Invece, gl'italiani, potenti per un istrumento di filosofia tanto efficace, fanno delle scoperte ammirabili in tutte quelle parti delle nostre cognizioni che versano sulla quantità: nella geometria, nella astronomia, nella meccanica, nella musica; ed hanno spinte al punto più sublime e più lontano dai sensi tutte quelle altre che versan sulla qualità. La stessa arte della guerra e delle milizie in Italia si perde nella remotezza de' secoli, onde ancora ai tempi di Platone gl’italici mantengono indiscussa la loro superiorità. La guerra presso gl’elleni ancora è duello, scienza rudimentale. Presso gl’italiani l’arte della guerra è savio urto di masse e organica distribuzione di manipoli. La stessa legge, che regola la convivenza nella penisola, e originaria e nazionale, frutto di una intima esperienza sociale, e perciò nel loro complesso immuni da contaminazioni eterogenee. Le romane XII tavole quindi non sono mai derivate, come alcune storie vogliono, da Atene, poiché Atene nulla poteva dare a un popolo, come il romano, discendente da popoli dell’ateniese più antichi. Vedete dunque, dice Cleobolo ad alcuni legati di Roma, che una parte delle vostre leggi è più antica della città vostra. Un'altra è sicuramente più antica di quei dieci che voi dite aver imitate le leggi d’Atene. Voi mi avete recitate le leggi de’ dieci e quelle dei re, le quali dite esser state raccolte da Sesto Papirio sotto il regno del buon Servio Tullio. Alcune, che voi recitate tra quelle, le ripetete anche tra queste. Tali sono tutte quelle che regolano gl’auspici, l’assemblee del popolo, il diritto di giudicar della vita di un cittadino, e che so io! Queste dunque già esistevano in Roma; ed e superfluo correr tanti stadi e valicare un mare tempestosissimo per prenderle da un popolo che non le ha. Tre quarti dunque del vostro diritto non ha potuto esser imitato da noi. Vi rimane una quarta parte, ed è quella appunto nella quale può aver luogo l’imitazione, perchè può stare, senza sconcio alcuno, ed in un modo ed in un altro. Tali sono le leggi sulla patria potestà, sulle nozze, sulle eredità, sulle tutele. Ma queste cose sono dalle vostre leggi ordinate in un modo tanto diverso dal nostro, che, se mai è vero che i vostri maggiori abbiano inviati de' legati in Atene, è forza dire che ve li abbian spediti per imparare, non ciò che volevano, ma ciò che non volevano fare. Passando nel campo delle arti belle, tra gl’elleni la poesia drammatica è meno antica che tra gl'italiani. Ben poche olimpiadi, dice un comico italiano, Alesside, a Platone e Cleobolo, contate dalla morte di Tespi e di Frinico, padri della vostra tragedia. Quando il siciliano Epicarmo si ha già meritato quel titolo di principe della commedia, che, più di un secolo dopo, gli ha dato il principe de’ vostri filosofi, Magnete d'Icaria appena balbutiva tra voi un dialogo goffo e villano, che tutta ancor oliva la rusticità del villaggio ove era nato. Quando la commedia tra voi nasceva, tra noi era già adulta. I poemi omerici stessi nel loro nucleo fondamentale sono stati elaborati in Italia, poichè di favole omeriche gl’italiani ne hanno più degl’elleni, e quelle elleniche cominciano ove le italiche finiscono. In tutto ciò noi non possiamo non notare il partito preso, la volontà di dimostrare ad ogni costo quel che il Cuoco a priori afferma, l'originario primato italico. Ma lo scopo nobilissimo, che ha dinanzi, vale a fare perdonarelo varie inesattezze. Nel tempo in cui Platone e Cleobolo iniziano il loro viaggio per l'Italia, la Magna Grecia è in dissoluzione. I vari popoli hanno fra loro relazioni saltuarie ed estrinseche. Non si sentono fratelli animati da un'unica missione. Guerre, dissensioni, lotte sono frequenti, donde scaturisce una condizione di perpetua incertezza. Vedi, da una parte, l'Italia simile a vasto edificio rovinato dal tempo, dalla forza delle acque, dall'impeto del terremoto. Là un immenso pilastro ancora torreggia intero, qua un portico si conserva ancora per metà. In tutto il rimanente dell'area, mucchi di calcinacci, di colonne, di pietre, avanzi preziosi, antichi, ma che oggi non sono altro che rovine. Ben si conosce che tali materiali han formato un tempo un nobile edificio, e che lo potrebbero formare un'altra volta. Ma l'antico non è più, ed il nuovo dev'essere ancora. È l'unità che si è infranta, per cui alla primigenia unitaria forza statale è sottentrata la debolezza della molteplicità, mal celata dall' invadente forza belligera di alcune stirpi, come i sanniti, o dal fasto di altre, come i tarentini. Ma questa molteplicità tende quasi per fatale legge di natura all'unità, e dall'indistinto pullulare delle genti dove pur sorgere chi di esse fa una sola gente, un nome unico: ‘Italia.’ Pure, se tu osservi attentamente e con costanza, ti avvedrai che le pietre, le quali formano quei mucchi di rovine, cangiano ogni giorno di sito; non le ritrovi oggi ove le avevi lasciate ieri. E mi par di riconoscere un certo quasi fermento intestino e la mano d'un architetto ignoto che lavora ad innalzare un edificio no vello.  È la gran fede del Cuoco. Da questa unità o da questa frammentarietà dipende l'avvenire della penisola. Tutta l'Italia, dice Cleobolo, riunisce tanta varietà di siti e di cielo e di caratteri, e nel tempo istesso sono questi caratteri tanto marcati e forti, che per essi mi par che non siavi via di mezzo. Da ranno gl'italiani nella storia, come han dato finora, gl’esempi di tutti gl’estremi, di vizi e di virtù, di forza e di debolezza. Se saranno divisi, si faranno la guerra fino alla distruzione. Tu conti più città distrutte in Italia in pochi anni, che in Grecia in molti secoli. Se saranno uniti, daranno leggi all'universo. Cuoco però ha fede che questo suo ideale non resterà mero ideale. Questo ideale si concreta in una entità statale, in un impero, che all'itala gente dalle molte vite darà organizzazione e potenza. Cuoco dice che questo ideale non è nuovo, ma quasi conformandosi ad un antico vero, il dominio etrusco, è risorto e di continuo risorge nelle più elette menti. Lo stesso Pitagora concepì l'ardito disegno di ristabilir la pace e la virtù, senzadi cui la pace non può durare. Pitagora volea far dell'Italia una sola città; onde l’energia di ciascun cittadino ha un campo più vasto per esercitarsi, senza essere costretta a cozzare continuamente con coloro, che la vicinanza, la lingua, il costume facean nascer suoi fratelli e la divisione degl’ordini politici ne costringeva ad odiar come nemici. E l'energia di tutti non logorata da domestiche gare, potesse più vigorosamente difender la patria comune dalle offese de’ barbari. Egli dava il nome di barbari a tutti coloro che s’intromettono armati in un paese che non è loro patria, e chiama poi barbari e pazzi quegl’altri, i quali, parlando una stessa lingua, non sanno vivere in pace tra loro ed invocano nelle loro contese l'aiuto degli stranieri. Egli sole dire agl'italiani quello stesso che Socrate ripete agl’elleni. Tra voi non vi può nè vi deve essere guerra: ciò, che voi chiamate guerra, è sedizione, di cui, se amassivo veracemente la patria, dovreste arrossire. Sia stato Pitagora un essere umano di fatto vissuto, sia egli invece un'idea, un mito elaborato dalla fantasia delle stirpi indigene, nel quale esse han fatto confluire i risultati ultimi di tutte le loro secolari esperienze, ciò dimostra l'antica radice, le remote propaggini nella co scienza collettiva del problema unitario. Ma come attingere l'unità? Ritorniamo a posizioni che noi già sappiamo. Il problema è un problema etico e pedagogico insieme. A questa meta non si può pervenire senza virtù e senza ottimi ordini civili. Onde non vi sia chi voglia e chi possa comprar la patria, chi voglia e chi possa venderla. Ma l'ambizione di ciascuno, vedendosi tutte chiuse le vie della viltà e del vizio, sia quasi co stretta a prender quella della virtù. È necessario istruir il popolo. Un popolo ignorante è simile all'atabulo, che diserta le campagne: spirando con minor forza il vento delle montagne lucane, porta sulle ali i vapori che le rinfrescano e le fecondano. È necessario istruir coloro che devono reggerlo. Un popolo con centomila piedi ha sempre bisogno di una mente per camminare, e, con centomila braccia, non ha una mente per agire. Ma quest'educazione pubblica, che occorre diffondere, non deve essere per sua natura uniforme, uguale per tutti, bensì multiforme, varia, secondante le infinite varietà che la natura umana ci offre: deve essere educazione vera, cioè deve parlare agl’spiriti, e perciò deve essere in essi, e non fuori di essi. Diversa perciò l'educazione della classe dirigente da quella delle classi povere, diversa però non nell'intima qualità. L'una e l'altra si volgono alla stessa natura umana e alle stesse potenze dello spirito. Un popolo, dicono alcuni, il quale conoscesse le vere cagioni delle cose, sarebbe il più saggio ed il più virtuoso de'popoli. Non è invero così. Riunite i saggi di tutta la terra, e formatene tante famiglie. Riunite queste famiglie, e formatene una città: qual città potrà dirsi eguale a questa! Nessuna, risponde il Cuoco o Archita per lui. Essa non meriterebbe neanche il nome di città, perchè le mancherebbe quello che solo cangia un'unione di uo mini in unione di cittadini. La vicendevole dipendenza tra di loro per tutto ciò che rende agiata e sicura la vita e la perfetta indipendenza dagli stranieri. È necessario perciò ai fini dello stato che gl'indotti coesistano accanto ai dotti, come i poveri accanto ai ricchi, perché si realizzi quell’armonica convergenza di forze distinte che è la vita. Ciò, che veramente è neces sario in una città, è che ciascuno stia al suo luogo, cioè che sappia lavorare e che ami l'ordine. Ad ottener l'uno e l'altro, sono necessarie egualmente la scienza e la subordinazione. Diversa sarà l'educazione dei poveri da quella dei dirigenti. Ma una educazione per i primi deve pur esservi. E per istruirli bisogna avere la loro stima. Non perdete la stima del popolo, se volete istruirlo. Il popolo non ode coloro che disprezza. Di rado egli può conoscer le dottrine, ma giudica severissimamente i maestri, e li giudica da quelle cose che sembrano spesso frivole, ma che son quelle sole che il popolo vede. Che vale il dire che il popolo è ingiusto? Quando si tratta d'istruirlo, tutt'i diritti sono suoi. Tutt’i doveri son nostri, e nostre tutte le colpe. Al popolo occorre insegnare tutto ciò che è necessario per agire, tutto ciò che può rendergli o più facile o più utile il lavoro, più costante e più dolce la virtù. Al savio, invece, è necessaria la conoscenza delle cagioni vere, perchè sol col mezzo della medesima può render più chiara, più ampia e più sicura la conoscenza delle stesse cose. Al volgo conoscer le vere cagioni è inutile, perchè non potrebbe farne quell'uso che ne fanno i savi. È necessario però che ne conosca una, in cui la sua mente si acqueti. E questa necessità è tanto imperiosa, che, se voi non gli direte una cagione, se la farneticherà egli stesso. Errano perciò i filosofi che credono opportuno divulgare la filosofia è mettere il popolo a contatto con i sublimi princípi della vita. Del resto ben diversa è la natura del dotto filosofo e del popolano. Laddove il savio è ragione, il popolano è tutto senso e fantasia. Il popolo è un eterno fanciullo che ha sempre più cuore che mente, più sensi che ragione. E quindi ad esso bisogna parlare con quello stesso linguaggio che s'usa con il fanciullo, dan dogli in un certo qual modo cose e massime già fatte. Bisogna parlare al popolo dei suoi cari interessi, e parlarne con il linguaggio che a lui più si conviene, con parabole e proverbi. Se è vero che gl’esempi muovon più dei precetti, le parabole, le quali non sono altro che esempi, debbon muovere più degli argomenti. I proverbi, che a noi possono sembrare inintelligibili, perchè ignoriamo i veri costumi dei popoli per i quali furono immaginati, sono nella rude concettosità adattissimi per lo scopo prefissoci. La stessa virtù non la si può inculcare al popolo se non con mezzi diversi di quelli che ci si offrono nella filosofia. La virtù è saviezza: la saviezza ha bisogno di ragione, e la ragione ha bisogno di tempo. I pregiudizi, gl’errori, i vizi che nella fantasia de' popoli vanno e vengono come le onde del nostro Jonio, riempi rebbero sempre di nuova arena quel bacino, che tu vuoi scavare a poco a poco per formarne un porto. È necessità piantare con mano potente una diga, che freni la violenza delle onde sempre mobili. Prima di avvezzare il popolo a ragionare, convien comandargli di credere. E, per convincerlo che il vero sia quello che tu gli dici, convien per suadergli, prima, che non possa essere vero quello che tu non dici. Non cerchiamo l'uomo che abbia detto più verità, ma quello che ha persuase verità più utili. E, se talora la necessità ha mossi i grandi uomini ad illudere il popolo, cerchiamo solo se l'hanno utilmente illuso. Sono queste conclusioni che già sono implicite nel saggio storico, ma riescono sempre interessanti, sia per il loro intrinseco valore, sia per la forma con la quale l'autore ce le prospetta. Questa educazione che mira a far sentire l'interesse comune alla virtù, e quindi a radicarla in eterno, deve precedere la stessa attività legislativa, se non si vuole che essa cada nel vuoto. Quando tu avrai incise le leggi della tua città sulle tavole di bronzo, nulla potrai dir di aver fatto, se non avrai anche scolpita la virtù ne' cuori de' suoi cittadini. La legge e la costume sono i principali oggetti di tutta la scienza politica. La prima risponde all'ordine eterno che è nelle cose, sempre perciò buono e vero; i se condi invece presentano estreme varietà, e, nella maggior parte dei casi, ci si presentano anzi che come correttivo delle prime, come deviazione da esse; onde coloro, che traggono da una corrotta natura de' popoli le norme obiettive del vivere, invece di evitare il male, spesso lo sancisce, e la sua opera pedagogica manca. La legge è sempre una, perchè la natura dell'intelligenza è immutabile. Mutabile è la natura della materia, di cui gli uomini sono in gran parte composti; e quindi è che il costume inclina sempre ad allontanarsi dalla legge. È necessità, dunque, conoscere del pari la natura sempre mobile di questo fango di cui siamo formati, onde sapere per quali cagioni i nostri costumi si allontanano dalle leggi, per quali modi, per quali arti possano riavvicinarsi alle medesime; il che forma l'oggetto di tutta la scienza dell’educazione. Nn di quella educazione che le balie soglion dare ai nostri fanciulli, ma di quell'altra che Licurgo e Minosse seppero dare una volta agli spartani ed ai cretesi. La ignoranza di una di queste due scienze ha moltiplicati sulla terra i funesti esempi di quei legisla tori, i quali, volendo tentare riforme di popoli, hanno o cagionata o accellerata la loro ruina. Imperciocchè, pieni la mente delle sole idee intellettuali delle leggi ed ignoranti de' costumi de ' popoli, li hanno spinti ad una meta a cui non potevan pervenire, perdendo in tal modo il buono che poteano ottenere, per avere un ottimo che era follia sperare; o, conoscendo solo i costumi ed igno rando il vero bene ed il vero male, hanno sancito i me desimi, ed han fatto come quel nocchiero, il quale, non conoscendo il porto in cui dovea entrare, e servendo ai venti ed all'onde, ha rotto miseramente il suo legno tra gli scogli.  La legge però resterà sempre un astratto, se gl’uomini non ne intenderanno la sua necessarietà e, quel che più conta, la sua utilità. È d'uopo a ciò che essa sia accom pagnata non solo da pene, onde possa con efficacia di storre gli animi dai vizî, ma eziandio da premi, onde possa allettare alla virtù. Occorre parlare agli uomini un lin guaggio utilitario ed edonistico, se si vuole essere seguiti da essi. E questa scienza, che si occupa dei premî e delle pene, è difficilissima, perchè inutili sono senza premî e pene le leggi, e arduo è calcolare l'adeguato rapporto so pra tutto delle pene con i costumi dei popoli. Il crimi nalista perciò deve studiare non tanto i rapporti giuri dici, di per sé astratti, ma i soggetti di essi rapporti, entità concrete e viventi, e rispetto a questi porsi piut tosto in veste d’educatore, anzi che di carceriere, e peg gio di boia. « La scienza delle pene e de' premî » dice il Cuoco con perfetta sicurezza « appartiene alla pubblica educazione. La legge, date alla città, hanno necessità di uomini atti ad eseguirle, che veglino alla loro esecuzione. Le leggi, ho detto, sono nell'ordine eterno delle cose, onde la filosofia a lungo le ha ritenute provenienti dalla divi nità. Perciò il primo dovere degli esecutori è di comandare ne' limiti di esse, sovra la loro base, poichè solo così si adempie l'universa volontà di Dio, o meglio, s'attua l'ar monia immanente nelle cose. « Ora, ordinate le leggi di una città, per qual modo ritroveremo noi gli uomini degni di eseguirle? Questa èla parte più difficile della scienza della legislazione: perchè, da una parte, le buone leggi senza il buon governo sono inutili; e, dall'altra, sulla natura del migliore de’governi gli uomini son più discordi che su quella delle buone leggi. Anche questo secondo problema è di natura spirituale e pedagogica: la preparazione della classe dirigente, la sua natura, ecc. non possono non rientrare in quella scienza, di cui abbiamo visto i caratteri e le forme. In quanto al problema subordinato se sia da accogliere il governo di un solo, di pochi, o di molti; il governo ereditario o l'elettivo; e tra quest'ultimo quello regolato dalla nascita, dagli averi, dalla sorte, questo è un pro blema essenzialmente relativo e che del resto abbiamo già storicamente esaminato in altra parte di questo la voro. La risoluzione è offerta dal Cuoco in poche parole che giova riportare. « Noi diremo il miglior de' governi esser quello che non è affidato ad uno solo, perchè un solo può aver delle debolezze; non a tutti, perchè tra tutti il maggior numero è di stolti; ma a pochi, perchè pochi sempre sono gli ottimi. E questi pochi avranno obbligo di render ragione delle opere loro, onde la spe ranza dell'impunità non li spinga o ad obbliare per negligenza le leggi o a conculcarle per ambizione; e perciò divideremo il pubblico potere in modo che le diverse parti del medesimo si temperino e bilancino a vicenda, e, dando a ciascuna classe di cittadini quella parte a cui pare per natura più atta, riuniremo i beni del governo di uno solo, di pochi e di tutti. Ma piuttosto altre considerazioni occorre fare, che ci riportano ad un punto troppo caro al Cuoco perchè noi possiamo dimenticarcelo: le considerazioni intorno alla religione. Abbiamo già visto i rapporti tra autorità reli giosa ed autorità statale, il posto che la religione deve occupare nello Stato, e lo abbiamo visto da un punto essenzialmente storico, cioè in rapporto ai tempi del mo lisano: ora dobbiamo esaminare lo stesso problema da un diverso punto, osservando quale posto può occupare la religione nella formazione spirituale dei popoli. La religione è un fatto spirituale dal quale non si può prescindere. « Quindi è che erran egualmente e coloro i quali credon poter tutto ottenere colle sole leggi civili, e coloro che credono poter colla religione e coi costumi supplire alle medesime. Questi renderanno le vite dei cittadini e le loro sostanze dubbie, incerte; quelli rende ranno vacillante lo stato dell'intera città. È necessità che vi sieno egualmente costumi, religione e leggi: uno che manchi, la città, o presto o tardi, ruina. Il bisogno della religione per il Cuoco non si basa tanto su ragioni ideali quanto su ragioni pratiche. Lo Stato, che assorbe in sè la religione, s'eleva agli occhi de'singoli e acquista maggiore rispetto. Nè è a dire che esso con ciò menomi la religione, in quanto vita dello spirito, poi che esso assorbe quel che può assorbire, infine il lato estrinseco e mondano della religione, lasciando intatto il dommatico. I paesi, in cui i patrizi conservano autorità, sono quelli in cui essi esercitano il sacerdozio, e in questi paesi la religione può moltissimo sui costumi. « E forse queste due cose [ religione e costumi, Stato e Chiesa) sono naturalmente inseparabili tra loro; perchè nè mai religione emen derà utilmente i costumi se non sarà dipendente dal go verno; nè mai religione, che non emendi i costumi e non ispiri l'amor della patria, potrà esser utile allo Stato » (1 ). Ora concepite in questa maniera le due classi dei ricchi e dei poveri, dei savi e degli stolti, il Cuoco riguarda la vita pubblica come una loro armonizzazione continua, in una evoluzione ininterrotta. Ricco non vuol dire a priori savio, ma è certo che il ricco, coeteris paribus, può pro curarsi un'educazione superiore, che il povero non può procacciarsi che in casi eccezionali, onde quasi sempre, nella sua indigenza, resterà ignorante e spesso stolto. L'opposizione tra savi e stolti si può in linea generalis sima presentare come opposizione tra patrizi e plebei, op posizione delucidata anche dal fatto che i patrizi, cioè coloro che nelle epoche primitive s'affermano negli Stati e perpetuano la loro posizione dirigente per eredità di sangue e di censo, sono, per lunga consuetudine e pratica pubblica, i più atti al reggimento civile, mentre i plebei, gente nova, spesso portata su da súbiti guadagni, sono di solito inesperti e fiacchi, perchè ignari del nuovo go verno della cosa statale. Il segreto della varia vita delle città è nella saggia ar monia di queste due forze, l'esperienza matura dei patres e la giovinezza audace delle classi nuove. Quelle nelle quali i primi furono troppo fieri difensori dei loro diritti lan guirono: i patres non vollero essere giusti, preferirono es sere i più forti, onde fu mestieri che divenissero tirannici ed oppressori: conservarono i loro privilegi, ma il prezzo di questi privilegi fu la debolezza dello Stato, che al primo urto divenne preda dell' inimico. Quelle altre, in cui la plebe per atto rivoluzionario acquisì d'un tratto i suoi diritti, ebbero sempre costituzioni ispirate più dalla vendetta che dalla sapienza, e poterono durare, per lo più, breve tempo, per turbolenze e dissensioni interne. Ben diversa è la vita degli Stati, ove si giunge ad una reciproca graduale integrazione de' due opposti in una vitale sintesi. È nell'ordine eterno delle cose che « le idee non possano mai retrocedere », ed hanno vita felice soltanto « quelle città nelle quali e la plebe ed i grandi vengono tra loro ad eque transazioni. Ma pur tuttavia il Cuoco. concepisce la lotta di classe non solo come un utile spediente, purché mantenuta ne' limiti della legge per giungere ad un buono e durevole reggimento politico, ma come necessità di vita: e qui è un punto fermo della sua dottrina politica, che nel suo saggio storico non appare, e che nel ‘romanzo’, “Platone in Italia,” si rivela nella sua luminosa chiarezza. Or vedi tu questa lotta eterna tra gli ottimati e la plebe, tra i ricchi ed i poveri? In essa sta la vita non solo di Roma, di Atene, di Sparta, ma di tutte le città. Ove essa non è, ivi non è vita: ivi un giogo di ferro impo sto al cittadino ha estinte tutte le passioni dell'uomo e, con esse, il germe di tutte le virtù, lo stimolo a tutte le più grandi imprese. Al cospetto del gran re, nessun uomo emula più l'altro: e che invidierebbe, se son tutti nulla? Quanto dura la vera vita di una città? Tanto quanto dura la disputa. Tutti popoli hanno un periodo di vita certo e quasi diresti fatale, il quale incomincia dall'estrema barbarie, cioè dall'estrema ignoranza ed op pressione, e finisce nell'estrema licenza di ordini, di co stumi, di idee. Nella prima età i padri han tutto, sanno tutto, fanno tutto, posseggon tutto. Se le cose si rima nessero sempre così, la città sarebbe sempre barbara, cioè sempre fanciulla. È necessario che si ceda alla plebe, poco a poco, ed in modo che non se le dia ne meno nè più di quello che le bisogna: l'uno e l'altro ec cesso porta seco o pericolosa sedizione o languore più funesto della sedizione istessa. È necessario che il popolo prosperi sempre e che abbia sempre nuovi bisogni, per chè questo è il segno più certo della sua prosperità. Guai a quella città in cui il popolo non ha nulla ! Ma due volte ma guai a quell'altra, in cui, non avendo nulla, nulla chiede ! È segno che la miseria gli abbia tolto non solo, come dice Omero, la metà dell'anima, ma anche l'ultimo spirito di vita che ci rimane nelle afflizioni, e che consiste nel la gnarsi. È necessario però che il popolo e pretenda con modestia, e riceva con gratitudine, e non cessi mai di sperare » (1 ). Da queste considerazioni il molisano trae una impor tante conclusione. Se la vita è molteplicità, ma molte plicità non inorganizzata, bensì tendente ad unità, la molteplicità è pur necessaria per attingere quella diffe renziazione di funzioni, il cui convergere forma la felicità dello Stato. La vita di questo perciò è varietà, e non può essere diversamente: l'uguaglianza assoluta è un'u topia, anzi un'utopia dannosa. « Vi saranno sempre pa trizi e plebei, perchè vi saranno sempre i pochi ed i molti; pochi ricchi e molti poveri; pochi industriosi e molti scioperati; pochissimi savi e moltissimi stolti. I partigiani de' primi si diran sempre patrizi, quelli de'se condi sempre plebei. Allorquando la plebe avrà tutto il potere pubblico, e i patrizi nulla più avranno a cedere, allora, « dopo aver eguagliati a poco a poco gli ordini, si vorranno eguagliare anche gli uomini; dopo aver eguagliati i diritti, si vorrà l'eguaglianza anco dei beni: e sorgeranno da ciò dispute eterne e pericolose. Eterne, perchè la ragione delle dispute sussisterà sempre: vi saranno sempre poveri, vi saranno sempre uomini da poco, i quali pretenderanno e crede ranno di meritar molto. Pericolose, perchè tali dispute moveranno sempre la parte più numerosa del popolo: i poveri, gli scioperati, i viziosi, tutti coloro i quali, nulla avendo che perdere, non ricusan qualunque modo si of fra a guadagnare.... Le assemblee diventeranno più tu multuose, le decisioni meno prudenti. I cittadini dalle sedizioni civili passeranno alla guerra. Fra tanti partiti nascerà la necessità che ciascuno abbia un capo; tra tanti capi uno rimarrà vincitore di tutti. Ed avrà fine così la lite e la vita della città. Da ciò scaturisce un'altra conclusione, che è una ri prova di precedenti nostre osservazioni circa la politica cuochiana: i più adatti al pubblico reggimento non sono nè i ricchi, pochi e tirannici, nè i poveri, molti e ti rannici in senso inverso dei ricchi, ma bensì quel ceto medio, che con forme diverse e diversi aspetti, secondo i vari tempi e la mutevole realtà storica, è nello stato. I migliori ordini pubblici sono inutili se non vengono affidati ai migliori cittadini. Quelli sono, in parole ed in fatti, ottimi tra gli ordini, i quali fan sì che la somma delle cose sia sempre in mano degli uomini ottimi. Ma dove sono gli uomini ottimi? Essi non son mai per l'ordinario nè tra i massimi, corrotti sempre dalle ric chezze, nè tra i minimi di una città, avviliti sempre dalla miseria. Ecco qui ritornare il concetto da noi già esaminato di un governo temperato, equilibrio di forze opposte, e perciò armonia e giustizia, la quale giustizia null'altro è se non obiettiva elisione d'ogni antagonismo e d'ogni dissension. Ove avvien che siavi un ordine scelto, ma nel tempo istesso la facoltà a tutti d'entrarvi, tostochè per le loro azioni ne sien divenuti degni, ivi tu eviti gli scogli del l'oligarchia e della democrazia. Il popolo non permetterà che i grandi, per gelosia di ordine, trascurino il merito; i grandi non soffriranno che altri si elevi per via di viltà e di corruzione: per opra de’secondi eviterai quella dissi pazione che ne' tempi di pace dissolve le città popolari; per opra de' primi eviterai quella viltà per cui le città oligarchiche temono i pericoli, e quel livore col quale si oppongono ad ogni pensiero nobile ed ardito, e che vien dal timore dei grandi di dover ricorrere al merito di un uomo il quale non appartenga al loro numero. Queste città così temperate sono quelle che fanno più grandi cose delle altre, perchè non vi manca mai nè chi le pro ponga nè chi le esegua. Soltanto attraverso questa coscienza politica dei diri genti, attraverso quest'educazione dei poveri, attraverso questa organizzazione di classi, sarà possibile realizzare quell’unione che è nel pensiero del Cuoco: fare delle varie stirpi italiche un popolo unico. Come nelle singole città è possibile un contemperamento di interessi e di volontà singole, così nella più vasta Italia è possibile un armo nizzamento di stirpi, di genti, d' ideali diversi. Ma, mentre nelle città il processo d’unità procede dal l'interno all'esterno, poichè una tirannia imposta estrin secamente è sempre nociva e deleteria; nell'Italia il processo unitario può essere affrettato dalla conquista e poi cementato dall'opera pubblica e pedagogica, dalla religione unica e dalla legge unica. Il primo effetto della filosofia, dice il Cuoco, è quello di avvezzar gli uomini a considerar la conquista non come un mezzo di distrug gersi, ma di difendersi. E e, aggiungiamo noi, si di fende spesso più validamente colui, che, essendo forte impone la sua ragion civile, la sua legge agli altri, e non si assopisce in una pace senza parentesi d'attività belli gera, assopimento che può diventare anche sonno e poi ancora morte. La conquista perciò non deve rimanere mera conquista, cioè estrinseca forza, ma deve conver tirsi in attività pubblica, imporsi alle volontà, plasmarle di sè, unificarle nel nome d'un superiore verbo, il diritto. Questa, ammonisce il Cuoco, è la missione d’un popolo tra i tanti popoli della penisola, che Platone e Cleobolo nel loro viaggio incontrano, missione divina, missione il cui spiegamento d'altra parte è nell'attualità della storia. Certo Platone e Cleobolo, nel frammentarismo italico del V secolo, non avrebbero mai potuto dire quel che Vincenzo pone in bocca loro; ma le loro osservazioni, per quanto il nostro spirito critico le riferisca all'autore del romanzo, non possono non commoverci, e la commozione è in noi com'è nel molisano. In una prima età, scrive Platone all'amico Archita, le città vivono pacificamente, e perciò s ' ignorano; ma in un secondo tempo si conoscono, e quindi si fanno guerra, o con le armi o con le sottigliezze del commercio; ma questa conoscenza e questa guerra non sono mai distruzione, ma reciproca integrazione: « da questa vicendevole guerra, sia d'armi, sia d'industria, io veggo un'irresistibile ten denza di tutte le nazioni a riunirsi; e, siccome ciascuna di esse ama aver le altre piuttosto serve che amiche..., così veggo che, ad impedire la servitù del genere umano ed a conservar più lungamente la pace sulla terra, il miglior consiglio è sempre quello di accrescer coll' unione di molte città il numero de' cittadini, prima e principal parte di quella forza, contro la quale la virtù può bene insegnare a morire, ma la sola cieca e non calcolabile fortuna può dar talora la vittoria ». « Non pare a te » continua il filosofo antico caldo ne' suoi accenti e attraverso lui il magnanimo Cuoco « che la natura, colle diramazioni de' monti e de' fiumi, col circolo de' mari, colla varietà delle produzioni del suolo e della temperatura de'cieli, da cui dipende la diversità de' nostri bisogni e de' costumi nostri, e colla varia mo dificazione degli accenti di quel linguaggio primitivo ed unico che gli uomini hanno appreso dalla veemenza de gli affetti interni e dall'imitazione de’vari suoni esterni; non ti pare, amico, ch'essa abbia in tal modo detto agli abitanti di ciascuna regione: — Voi siete tutti fratelli: voi dovete formare una nazione sola?  Da ciò scaturisce la necessità della conquista come mezzo per affrettare dall'esterno un processo naturale: chi si assume questa missione, diviene arbitro e stru mento della Provvidenza, Provvidenza che per il Cuoco, come del resto per Giambattista Vico, è nell'immanenza della storia, piuttosto che nella celeste trascendenza del divino posto fuori di noi: questo l'intimo concetto, se pur qualche volta tradito dall'esteriorità delle parole e dei simboli, nonchè da una certa oscillanza di pensiero. In Italia, intuisce Platone, un solo popolo sarà di ciò capace, il romano, che sovra la fiera rudezza dei san niti, sovra la imbecillità effeminata dei greci del mez zodì, sovra la volubilità dei galli del Nord imporrà la sua legge, il suo diritto, strumento d’universale civiltà, e che, in un lontano avvenire, venuto a contatto con i cartaginesi e poi con i greci, non solo li debellerà come entità politiche, ma solo s'assiderà dominatore del Me diterraneo e del mondo. Rimarrà un solo popolo dominatore di tutta la terra, innanzi al di cui cospetto tutto il genere umano tacerà; ed i superbi vincitori, pieni di vizi e di orgoglio, rivolge ranno nelle proprie viscere il pugnale ancor fumante del sangue del genere umano; e quando tutte le idee liberali degli uomini saranno schiacciate ed estinte sotto l'im menso potere che è necessario a dominar l'universo, e le virtù di tutte le nazioni prive di vicendevole emula zione rimarranno arrugginite, ed i vizi di un sol popolo e talora di un sol uomo saran divenuti, per la comune schiavitù, vizi comuni, sarà consumata allora la vendetta degli dèi, i quali si servono delle grandi crisi della natura per distruggere, e dell'ignoranza istessa degli uomini per emendare la loro indocile razza. Grande sogno questo, in cui vibra tutto l'animo nostro in uno con quello del Cuoco, ma che noi critici non dob biamo lasciare nel passato inerte e perciò morto, come quello che non ritornerà più, ma trasportare nel presente del Cuoco, cioè nel presente del 1806, che noi vediamo e pensiamo tale, quando in un' Italia scissa e menomata da straniere superfetazioni, sia pur benigne come quelle napoleoniche, l'unità era davvero un sogno; nel nostro presente, nella nostra vita, che non è stasi, ma divenire, e perciò slancio, espansione, conquista prima di noi stessi, della nostra maggiore unità, e poi del vario mondo dei commerci e delle genti, che noi non vogliamo lasciare fuori di noi, inerte grandezza da contemplare taciti am miranti, ma rendere nostre, per la nostra civiltà, che è civiltà latina. Considerato da questo punto di vista altamente poli tico, prescindendo da ogni considerazione artistica o filo sofica, il Platone in Italia riacquista una grandissima importanza, « riacquista » come ben dice il Gentile « tutto il suo valore, ed è la più grande battaglia, combattuta dal Cuoco, per il suo ideale della formazione dello spirito pubblico italiano. È l'animato ricordo d'un tempo che fu e d'una grandezza, che sta a noi rinnovel lare, in cui tutta l'Italia si pose maestra di civiltà tra i popoli, che da essa appresero le cose belle della vita, la poesia, il teatro, la musica, la scultura, la pittura, che da essa intesero i primi precetti del vivere e le norme de ' savi reggimenti; in cui l'Italia ebbe un'egemonia indi scussa, che nella storia non si ripresenterà più se non forse nel Rinascimento: ma, oltre che ricordo, è nello stesso tempo vivo presente, perchè molte considerazioni che si fanno riferendosi all'Impero etrusco, alla Magna Grecia, a Roma calzano nella loro semplicità, s'adattano alla nostra travagliata vita moderna: ciò fa del Platone un libro, la cui importanza trascende la sua deficienza artistica, il suo ibridismo filosofico. Perciò un solo raffronto legittimo, quello tra il Platone e un altro grande libro, il Primato morale e civile degli italiani, come quelli il cui obietto è uno solo, e la materia alfine è pur essa comune: un'alta nazionale pedagogia politica. Questo parallelismo fu prima accennato dal Gentile (2 ), ma poi sbozzato da un francese, acuto studioso del Cuoco, al quale nel nostro studio abbiamo frequentemente cennato, Paul Hazard (3 ). ac (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 386, (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 387. (3 ) P. HAZARD, op. cit., p. 246. Anche P. ROMANO, op. cit., p. 5 raffronta il Cuoco e il Gioberti e dice che il “Platone in Italia” è la preparazione del Primato morale e civile degli Italiani. Il principio genetico dei due libri è lo stesso: una na zione non può esplicare le forze vere, che sono in essa in potenza, nè può di esse usare, se non ha la coscienza d'avere queste forze, o almeno la coscienza di poterle sviluppare, e quindi dispiegare nella storia: perciò bi sogna nutrire un orgoglio nazionale, che, basato sulla concreta realtà, è legittimo, non arbitrario. Ma, d'altra parte, laddove il Primato giobertiano, pur riannodan dosi, attraverso le glorie romane, alle remote genti italo pelasgiche, trova il suo asse, il suo fulcro nel Papato, espressione di purità religiosa e d'originaria sapienza, e si rinnoverà, se il presente sarà a sufficienza legato al passato, cioè alla tradizione medievale- cattolica; il Cuoco, pur mantenendo ferma la remotissima storia italo -pela sgica ed estrusca e poi ancora romana, pur riconoscendo l'alta missione civilizzatrice della Chiesa nel Medio Evo, questo primato vuol rinnovellare solo nel gioco delle li bere forze, espresse da quella tragica crisi che è la rivo luzione francese ed italiana, nel loro sviluppo, e nello spiegamento della loro maggior coscienza; nello Stato laico, insomma, che afferrni sì la religione, come luce alla plebi, ma affermi pure una sua intima naturale ra gione, che con la religione non ha nulla a che fare. E in quest'accettamento delle nuove forze popolaresche, alle quali bisogna parlare, perchè la volontà di nazione sia realmente nazione, e la volontà di Stato realmente Stato, Vincenzo Cuoco si lega ad un altro grande, Mazzini, tanto diverso da Gioberti, ma pur con questi entusiasta caldo nella visione del futuro popolo dell'Italia re denta. CAPITOLO VII. L'educazione nazionale nel pensiero cuochiano. Il popolo e la scuola. Cuoco.

 

Grice e Curcio: l’implicatura conversazionale dei corpi esistenti – lucrezio epicureo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Noto). Filosofo. Grice: “Curcio is what we could call at Oxford a poet; he wrote a little book ‘Esistentee,’ an obvious parody on Sartre, ‘L’essistentialismo e un umanesimo.’ – His background is philososophical though, and it shows!” Ensegna a Noto e Messina. Direttore Generale per l'Ordine Ginnasiale.  Altre opere: “Armonia e dissonanza” – consonanza e dissonanza (Noto) – etimologia di armonia – cognata con ‘armento’ e ‘aritmetica’ – “La sfinge” – “La piramide”. “Il prezzo della salute” (Noto). Commenti, libri I-XXIV – Roma” – “Il giro del templo” (Bonacci, Roma); “Mottetto” (Bonacci, Roma); “Fugato” (Bonacci, Roma); “II grano di follia” (Bonacci, Roma); “Senza più peso” (Bonacci, Roma); “Assolo, (Bonacci, Roma); “A due voci” (Bonacci, Roma); “L'avita vocazione” (Bonacci, Roma); “Esistente” (Bonacci, Roma); “Altri occhi” (Bonacci, Roma); “Le due cene” (Bonacci, Roma); “Sitio” (Bonacci, Roma); “Consummatum” (Bonacci, Roma); “Derelictus” (Bonacci, Roma); “In horto” (Bonacci, Roma); “Paradossale” (Bonacci, Roma); “Felix” (Bonacci, Roma); “Deliramentum” (Bonacci, Roma).  MARIUS THE EPICUREAN.  THE RENAISSANCE : Studies in Art and Poetry. Globe.  IMAGINARY PORTRAITS : A Prince of Court Painters— Denys  I'Auxerrois — Sebastian van Storck — Diike Carl of Rosen-  mold. Globe, APPRECIATIONS, with an Essay on Style. Globe. PLATO AND PLATONISM : A Series of Lectures. Globe. MARIUS THE EPICUREAN. HIS SENSATIONS AND IDEAS. WALTER PATER. FELLOW OF BRASENOSE. a     Xfiiiepivis Svapos, Sre fi^Kiarai ai viKTCs     m^ LIBRARY     MACMILLAN AND CO., Ltd.  The Religion of Numa. White-nights. Change of Air. The Tree of Knowledge   5. The Golden Book   6. Euphuism. A Pagan End. Animula Vagula. New Cyrenaicism. On the Way. The Most Religious City in the World. The Divinity that doth hedge a King. The "Mistress and Mother" of Palaces .Manly Amusement. Stoicism at Court. Second Thoughts. Beata Urbs. The Ceremony of the Dart. The Will as Vision Two Curious Houses. Guests. Two Curious Houses. The Church in Cecilia's   House. The Minor Peace of the Church. Divine Service. A Conversation not Imaginary . . Sunt Lacrim^e Rerum. The Martyrs. The Triumph of Marcus Aurelius. Anima naturaliter Christiana. MARIUS THE EPICUREAN     BY WALTER PATER.   ESSAYS FROM THE GUARDIAN. Extra Crown 8vo. 6s.   G ASTON DE LATOUR : An Unfinished Romance. Prepared  for the Press by CHARLES L. SHADWELL, Fellow of Oriel  College. Extra Crown 8vo. 7s. 6d.   MISCELLANEOUS STUDIES : A Series of Essays. Pre-  pared for the Press by CHARLES L. SHADWELL, Fellow of  Oriel College. Extra Crown GREEK STUDIES : A Series of Essays. Prepared for the  Press by SHADWELL, Fellow of Oriel. MARIUS THE EPICUREAN. His Sensations and Ideas. IMAGINARY PORTRAITS : A Prince of Court Painters ;  Denys 1'Auxerrois : Sebastian van Storck ; Duke Carl of  Rosenmold. THE RENAISSANCE : Studies in Art and Poetry. Extra. PLATO AND PLATONISM : A Series of Lectures. Extra  Crown 8vo. 8s. APPRECIATIONS, with an Essay on Style. Extra Crown. LIFE OF WALTER PATER. By ARTHUR C. BENSON.  English Men of Letters Series.   MACMILLAN AND CO., LTD., LONDON.  MARIUS  THE EPICUREAN   HIS SENSATIONS AND IDEAS  WALTER PATER. FELLOW OF BRASENOSE, OXFORD. Xet/u/nvos oVetpos, ore pjjcurrat at   MACMILLAN AND CO., LIMITED   ST. MARTIN'S STREET, LONDON. STOICISM AT COURT. SECOND THOUGHTS. BEATA URBS. THE CEREMONY OF THE DART. THE WILL AS VISION. TWO CURIOUS HOUSES i. GUESTS .TWO CURIOUS HOUSES 2. THE CHURCH IN   CECILIA'S HOUSE.  THE MINOR PEACE OF THE CHURCH. DIVINE SERVICE. A CONVERSATION NOT IMAGINARY. SUNT LACRIM^E RERUM. THE MARTYRS. THE TRIUMPH OF MARCUS AURELIUS . . 197   28. ANIMA NATURALITER CHRISTIANA. Marius the Epicurean  HIS SENSATIONS AND IDEAS. PATER. London. (The Library Edition.). The Religion of Numa. White-Nights  3. Change of Air  4. The Tree of Knowledge  5. The Golden Book  6. Euphuism. A Pagan End. Animula Vagula. New Cyrenaicism  On the Way. The Most Religious City in the World. The Divinity that Doth Hedge a King. The “Mistress and Mother” of Palaces  14. Manly Amusement. I have placed an asterisk immediately after each of Pater’s footnotes and a + sign after my own notes, and have listed each of my notes at that chapter’s end.  Greek typeface: For this full-text edition, I have transliterated Pater’s Greek quotations. If there is a need for the original Greek, it can be viewed at my site, http://www.ajdrake.com/etexts, a Victorianist archive that contains the complete works of Walter Pater and many other nineteenth-century texts, mostly in first editions.  MARIUS THE EPICUREAN, VOLUME ONE WALTER PATER   Χειμερινὸς ὄνειρος, ὅτε μήκισται αἱ νύκτες+   +“A winter’s dream, when nights are longest.” Lucian, The Dream/  MARIUS THE EPICUREAN. “THE RELIGION OF NUMA”  -- As, in the triumph of Christianity, the old religion lingered latest in the country, and died out at last as but paganism—the religion of the villagers, before the advance of the Christian Church; so, in an earlier century, it was in places remote from town-life that the older and purer forms of paganism itself had survived the longest. While, in Rome, new religions had arisen with bewildering complexity around the dying old one, the earlier and simpler patriarchal religion, “the religion of Numa,” as people loved to fancy, lingered on with little change amid the pastoral life, out of the habits and sentiment of which so much of it had grown. Glimpses of such a survival we may catch below the merely artificial attitudes of Latin pastoral poetry; in Tibullus especially, who has preserved for us many poetic details of old Roman religious usage.  At mihi contingat patrios celebrare Penates, Reddereque antiquo menstrua thura Lari:   —he prays, with unaffected seriousness. Something liturgical, with repetitions of a consecrated form of words, is traceable in one of his elegies, as part of the order of a birthday sacrifice. The hearth, from a spark of which, as one form of old legend related, the child Romulus had been miraculously born, was still indeed an altar; and the worthiest sacrifice to the gods the perfect physical sanity of the young men and women, which the scrupulous ways of that religion of the hearth had tended to maintain. A religion of usages and sentiment rather than of facts and belief, and attached to very definite things and places—the oak of immemorial age, the rock on the heath fashioned by weather as if by some dim human art, the shadowy grove of ilex, passing into which one exclaimed involuntarily, in consecrated phrase, Deity is in this Place! Numen Inest!—it was in natural harmony with the temper of a quiet people amid the spectacle of rural life, like that simpler faith between man and man, which Tibullus expressly connects with the period when, with an inexpensive worship, the old wooden gods had been still pressed for room in their homely little shrines.  And about the time when the dying Antoninus Pius ordered his golden image of Fortune to be carried into the chamber of his successor (now about to test the truth of the old Platonic contention, that the world would at last find itself happy, could it detach some reluctant philosophic student from the more desirable life of celestial contemplation, and compel him to rule it), there was a boy living in an old country-house, half farm, half villa, who, for himself, recruited that body of antique traditions by a spontaneous force of religious veneration such as had originally called them into being. More than a century and a half had past since Tibullus had written; but the restoration of religious usages, and their retention where they still survived, was meantime come to be the fashion through the influence of imperial example; and what had been in the main a matter of family pride with his father, was sustained by a native instinct of devotion in the young Marius. A sense of conscious powers external to ourselves, pleased or displeased by the right or wrong conduct of every circumstance of daily life—that conscience, of which the old Roman religion was a formal, habitual recognition, was become in him a powerful current of feeling and observance. The old-fashioned, partly puritanic awe, the power of which Wordsworth noted and valued so highly in a northern peasantry, had its counterpart in the feeling of the Roman lad, as he passed the spot, “touched of heaven,” where the lightning had struck dead an aged labourer in the field: an upright stone, still with mouldering garlands about it, marked the place. He brought to that system of symbolic usages, and they in turn developed in him further, a great seriousness—an impressibility to the sacredness of time, of lifeand its events, and the circumstances of family fellowship; of such gifts to men as fire, water, the earth, from labour on which they live, really understood by him as gifts—a sense of eligious responsibility in the reception of them. It was a religion for the most part of fear, of multitudinous scruples, of a year-long burden of forms; yet rarely (on clear summer mornings, for instanrce) the thought of those heavenly powers afforded a welcome channel for the almost stifling sense of health and delight in him, and relieved it as gratitude to the gods.  The day of the “little” or private Ambarvalia was come, to be celebrated by a single family for the welfare of all belonging to it, as the great college of the Arval Brothers offici ated at Rome in the interest of the whole state. At the appointed time all work ceases; the instruments of labour lie untouched, hung with wreaths of flowers, while masters and servants together go in solemn procession along the dry paths of vineyard and cornfield, conducting the victims whose blood is presently to be shed for the purification from all natural or supernatural taint o f the lands they have “gone about.” The old Latin words of the liturgy, to be said as the procession moved on its way, though their precise meaning was long since become unintelligible, were recited from an ancient illuminated roll, kept in the painted chest in the hall, together with the family records. Early on that day the girls of the farm had been busy in the great portico, filling large baskets with flowers plucked short from branches of apple and cherry, then in spacious bloom, to strew before the quaint images of the gods—Ceres and Bacchus and the yet more mysterious Dea Dia—as they passed through the fields, carried in their little houses on the shoulders of white-clad youths, who were understood to proceed to this office in perfect temperance, as pure in soul and body as the air they breathed in the firm weather of that early summer-time. The clean lustral water and the full incense-box were carried after them. The altars were gay with garlands of wool and the more sumptuous sort of blossom and green herbs to be thrown into the sacrificial fire, fresh-gathered this morning from a particular plot in the old garden, set apart for the purpose. Just then the young leaves were almost as fragrant as flowers, and the scent of the bean-fields mingled pleasantly with the cloud of incense. But for the monotonous intonation of the liturgy by the priests, clad in their strange, stiff, antique vestments, and bearing ears of green corn upon their heads, secured by flowing bands of white, the procession moved in absolute stillness, all persons, even the children, abstaining from speech after the utterance of the pontifical formula, Favete linguis!—Silence! Propitious Silence!—lest any words save those proper to the occasion should hinder the religious efficacy of the rite.  With the lad Marius, who, as the head of his house, took a leading part in the ceremonies of the day, there was a devout effort to complete this impressive outward silence by that inward tacitness of mind, esteemed so important by religious Romans in the performance of these sacred functions. To him the sustained stillness without seemed really but to be waiting upon that interior, mental condition of preparation or expectancy, for which he was just then intently striving. The persons about him, certainly, had never been challenged by those prayers and ceremonies to any ponderings on the divine nature: they conceived them rather to be the appointed means of setting such troublesome movements at rest. By them, “the religion of Numa,” so staid, ideal and comely, the object of so much jealous conservatism, though of direct service as lending sanction to a sort of high scrupulosity, especially in the chief points of domestic conduct, was mainly prized as being, through its hereditary character, something like a personal distinction—as contributing, among the other accessories of an ancient house, to the production of that aristocratic atmosphere which separated them from newly-made people. But in the young Marius, the very absence from those venerable usages of all definite history and dogmatic interpretation, had already awakened much speculative activity; and to-day, starting from the actual details of the divine service, some very lively surmises, though scarcely distinct enough to be thoughts, were moving backwards and forwards in his mind, as the stirring wind had done all day among the trees, and were like the passing of some mysterious influence over all the elements of his nature and experience. One thing only distracted him—a certain pity at the bottom of his heart, and almost on his lips, for the sacrificial victims and their looks of terror, rising almost to disgust at the central act of the sacrifice itself, a piece of everyday butcher’s work, such as we decorously hide out of sight; though some then present certainly displayed a frank curiosity in the spectacle thus permitted them on a religious pretext. The old sculptors of the great procession on the frieze of the Parthenon at Athens, have delineated the placid heads of the victims led in it to sacrifice, with a perfect feeling for animals in forcible contrast with any indifference as to their sufferings. It was this contrast that distracted Marius now in the blessing of his fields, and qualified his devout absorption upon the scrupulous fulfilment of all the details of the ceremonial, as the procession approached the altars.  The names of that great populace of “little gods,” dear to the Roman home, which the pontiffs had placed on the sacred list of the Indigitamenta, to be invoked, because they can help, on special occasions, were not forgotten in the long litany—Vatican who causes the infant to utter his first cry, Fabulinus who prompts his first word, Cuba who keeps him quiet in his cot, Domiduca especially, for whom Marius had through life a particular memory and devotion, the goddess who watches over one’s safe coming home. The urns of the dead in the family chapel received their due service. They also were now become something divine, a goodly company of friendly and protecting spirits, encamped about the place of their former abode—above all others, the father, dead ten years before, of whom, remembering but a tall, grave figure above him in early childhood, Marius habitually thought as a genius a little cold and severe.  Candidus insuetum miratur limen Olympi, Sub pedibusque videt nubes et sidera.—   Perhaps!—but certainly needs his altar here below, and garlands to-day upon his urn. But the dead genii were satisfied with little—a few violets, a cake dipped in wine, or a morsel of honeycomb. Daily, from the time when his childish footsteps were still uncertain, had Marius taken them their portion of the family meal, at the second course, amidst the silence of the company. They loved those who brought them their sustenance; but, deprived of these services, would be heard wandering through the house, crying sorrowfully in the stillness of the night.  And those simple gifts, like other objects as trivial—bread, oil, wine, milk—had regained for him, by their use in such religious service, that poetic and as it were moral significance, which surely belongs to all the means of daily life, could we but break through the veil of our familiarity with things by no means vulgar in themselves. A hymn followed, while the whole assembly stood with veiled faces. The fire rose up readily from the altars, in clean, bright flame—a favourable omen, making it a duty to render the mirth of the evening complete. Old wine was poured out freely for the servants at supper in the great kitchen, where they had worked in the imperfect light through the long evenings of winter. The young Marius himself took but a very sober part in the noisy feasting. A devout, regretful after-taste of what had been really beautiful in the ritual he had accomplished took him early away, that he might the better recall in reverie all the circumstances of the celebration of the day. As he sank into a sleep, pleasant with all the influences of long hours in the open air, he seemed still to be moving in procession through the fields, with a kind of pleasurable awe. That feeling was still upon him as he awoke amid the beating of violent rain on the shutters, in the first storm of the season. The thunder which startled him from sleep seemed to make the solitude of his chamber almost painfully complete, as if the nearness of those angry clouds shut him up in a close place alone in the world. Then he thought of the sort of protection which that day’s ceremonies assured. To procure an agreement with the gods—Pacem deorum exposcere: that was the meaning of what they had all day been busy upon. In a faith, sincere but half-suspicious, he would fain have those Powers at least not against him. His own nearer household gods were all around his bed. The spell of his religion as a part of the very essence of home, its intimacy, its dignity and security, was forcible at that moment; only, it seemed to involve certain heavy demands upon him. To an instinctive seriousness, the material abode in which the childhood of Marius was passed had largely added. Nothing, you felt, as you first caught sight of that coy, retired place,—surely nothing could happen there, without its full accompaniment of thought or reverie. White-nights! so you might interpret its old Latin name.* “The red rose came first,” says a quaint German mystic, speaking of “the mystery of so-called white things,” as being “ever an after-thought—the doubles, or seconds, of real things, and themselves but half-real, half-material—the white queen, the white witch, the white mass, which, as the black mass is a travesty of the true mass turned to evil by horrible old witches, is celebrated by young candidates for the priesthood with an unconsecrated host, by way of rehearsal.” So, white-nights, I suppose, after something like the same analogy, should be nights not of quite blank forgetfulness, but passed in continuous dreaming, only half veiled by sleep. Certainly the place was, in such case, true to its fanciful name in this, that you might very well conceive, in face of it, that dreaming even in the daytime might come to much there.  * _Ad Vigilias Albas_.   The young Marius represented an ancient family whose estate had come down to him much curtailed through the extravagance of a certain Marcellus two generations before, a favourite in his day of the fashionable world at Rome, where he had at least spent his substance with a correctness of taste Marius might seem to have inherited from him; as he was believed also to resemble him in a singularly pleasant smile, consistent however, in the younger face, with some degree of sombre expression when the mind within was but slightly moved.  As the means of life decreased, the farm had crept nearer and nearer to the dwelling-house, about which there was therefore a trace of workday negligence or homeliness, not without its picturesque charm for some, for the young master himself among them. The more observant passer-by would note, curious as to the inmates, a certain amount of dainty care amid that neglect, as if it came in part, perhaps, from a reluctance to disturb old associations. It was significant of the national character, that a sort of elegant gentleman farming, as we say, had been much affected by some of the most cultivated Romans. But it became something more than an elegant diversion, something of a serious business, with the household of Marius; and his actual interest in the cultivation of theearth and the care of flocks had brought him, at least, intimately near to those elementary conditions of life, a reverence for which, the great Roman poet, as he has shown by his own half-mystic pre-occupation with them, held to be the ground of primitive Roman religion, as of primitive morals. But then, farm-life in Italy, including the culture of the olive and the vine, has a grace of its own, and might well contribute to the production of an ideal dignity of character, like that of nature itself in this gifted region. Vulgarity seemed impossible. The place, though impoverished, was still deservedly dear, full of venerable memories, and with a living sweetness of its own for to-day.  To hold by such ceremonial traditions had been a part of the struggling family pride of the lad’s father, to which the example of the head of the state, old Antoninus Pius—an example to be still further enforced by his successor—had given a fresh though perhaps somewhat artificial popularity. It had been consistent with many another homely and old-fashioned trait in him, not to undervalue the charm of exclusiveness and immemorial authority, which membership in a local priestly college, hereditary in his house, conferred upon him. To set a real value on these things was but one element in that pious concern for his home and all that belonged to it, which, as Marius afterwards discovered, had been a strong motive with his father. The ancient hymn—Fana Novella!—was still sung by his people, as the new moon grew bright in the west, and even their wild custom of leaping through heaps of blazing straw on a certain night in summer was not discouraged. The privilege of augury itself, according to tradition, had at one time belonged to his race; and if you can imagine how, once in a way, an impressible boy might have an inkling, an inward mystic intimation, of the meaning and consequences of all that, what was implied in it becoming explicit for him, you conceive aright the mind of Marius, in whose house the auspices were still carefully consulted before every undertaking of moment.  The devotion of the father then had handed on loyally—and that is all many not unimportant persons ever find to do—a certain tradition of life, which came to mean much for the young Marius. The feeling with which he thought of his dead father was almost exclusively that of awe; though crossed at times by a not unpleasant sense of liberty, as he could but confess to himself, pondering, in the actual absence of so weighty and continual a restraint, upon the arbitrary power which Roman religion and Roman law gave to the parent over the son. On the part of his mother, on the other hand, entertaining the husband’s memory, there was a sustained freshness of regret, together with the recognition, as Marius fancied, of some costly self-sacrifice to be credited to the dead. The life of the widow, languid and shadowy enough but for the poignancy of that regret, was like one long service to the departed soul; its many annual observances centering about the funeral urn—a tiny, delicately carved marble house, still white and fair, in the family-chapel, wreathed always with the richest flowers from the garden. To the dead, in fact, was conceded in such places a somewhat closer neighbourhood to the old homes they were thought still to protect, than is usual with us, or was usual in Rome itself—a closeness which the living welcomed, so diverse are the ways of our human sentiment, and in which the more wealthy, at least in the country, might indulge themselves. All this Marius followed with a devout interest, sincerely touched and awed by his mother’s sorrow. After the deification of the emperors, we are told, it was considered impious so much as to use any coarse expression in the presence of their images. To Marius the whole of life seemed full of sacred presences, demanding of him a similar collectedness. The severe and archaic religion of the villa, as he conceived it, begot in him a sort of devout circumspection lest he should fall short at any point of the demand upon him of anything in which deity was concerned. He must satisfy with a kind of sacred equity, he must be very cautious lest he be found wanting to, the claims of others, in their joys and calamities—the happiness which deity sanctioned, or the blows in which it made itself felt. And from habit, this feeling of a responsibility towards the world of men and things, towards a claim for due sentiment concerning them on his side, came to be a part of his nature not to be put off. It kept him serious and dignified amid the Epicurean speculations which in after years much engrossed him, and when he had learned to think of all religions as indifferent, serious amid many fopperies and through many languid days, and made him anticipate all his life long as a thing towards which he must carefully train himself, some great occasion of self-devotion, such as really came, that should consecrate his life, and, it might be, its memory with others, as the early Christian looked forward to martyrdom at the end of his course, as a seal of worth upon it.  The traveller, descending from the slopes of Luna, even as he got his first view of the Port-of-Venus, would pause by the way, to read the face, as it were, of so beautiful a dwelling-place, lying away from the white road, at the point where it began to decline somewhat steeply to the marsh-land below. The building of pale red and yellow marble, mellowed by age, which he saw beyond the gates, was indeed but the exquisite fragment of a once large and sumptuous villa. Two centuries of the play of the sea-wind were in the velvet of the mosses which lay along its inaccessible ledges and angles. Here and there the marble plates had slipped from their places, where the delicate weeds had forced their way. The graceful wildness which prevailed in garden and farm gave place to a singular nicety about the actual habitation, and a still more scrupulous sweetness and order reigned within. The old Roman architects seem to have well understood the decorative value of the floor—the real economy there was, in the production of rich interior effect, of a somewhat lavish expenditure upon the surface they trod on. The pavement of the hall had lost something of its evenness; but, though a little rough to the foot, polished and cared for like a piece of silver, looked, as mosaic-work is apt to do, its best in old age. Most noticeable among the ancestral masks, each in its little cedarn chest below the cornice, was that of the wasteful but elegant Marcellus, with the quaint resemblance in its yellow waxen features to Marius, just then so full of animation and country colour. A chamber, curved ingeniously into oval form, which he had added to the mansion, still contained his collection of works of art; above all, that head of Medusa, for which the villa was famous. The spoilers of one of the old Greek towns on the coast had flung away or lost the thing, as it seemed, in some rapid flight across the river below, from the sands of which it was drawn up in a fisherman’s net, with the fine golden laminae still clinging here and there to the bronze. It was Marcellus also who had contrived the prospect-tower of two storeys with the white pigeon-house above, so characteristic of the place. The little glazed windows in the uppermost chamber framed each its dainty landscape—the pallid crags of Carrara, like wildly twisted snow-drifts above the purple heath; the distant harbour with its freight of white marble going to sea; the lighthouse temple of Venus Speciosa on its dark headland, amid the long-drawn curves of white breakers. Even on summer nights the air there had always a motion in it, and drove the scent of the new-mown hay along all the passages of the house.  Something pensive, spell-bound, and but half real, something cloistral or monastic, as we should say, united to this exquisite order, made the whole place seem to Marius, as it were, sacellum, the peculiar sanctuary, of his mother, who, still in real widowhood, provided the deceased Marius the elder with that secondary sort of life which we can give to the dead, in our intensely realised memory of them—the “subjective immortality,” to use a modern phrase, for which many a Roman epitaph cries out plaintively to widow or sister or daughter, still in the land of the living. Certainly, if any such considerations regarding them do reach the shadowy people, he enjoyed that secondary existence, that warm place still left, in thought at least, beside the living, the desire for which is actually, in various forms, so great a motive with most of us. And Marius the younger, even thus early, came to think of women’s tears, of women’s hands to lay one to rest, in death as in the sleep of childhood, as a sort of natural want. The soft lines of the white hands and face, set among the many folds of the veil and stole of the Roman widow, busy upon her needlework, or with music sometimes, defined themselves for him as the typical expression of maternity. Helping her with her white and purple wools, and caring for her musical instruments, he won, as if from the handling of such things, an urbane and feminine refinement, qualifying duly his country-grown habits—the sense of a certain delicate blandness, which he relished, above all, on returning to the “chapel” of his mother, after long days of open-air exercise, in winter or stormy summer. For poetic souls in old Italy felt, hardly less strongly than the English, the pleasures of winter, of the hearth, with the very dead warm in its generous heat, keeping the young myrtles in flower, though the hail is beating hard without. One important principle, of fruit afterwards in his Roman life, that relish for the country fixed deeply in him; in the winters especially, when the sufferings of the animal world became so palpable even to the least observant. It fixed in him a sympathy for all creatures, for the almost human troubles and sicknesses of the flocks, for instance. It was a feeling which had in it something of religious veneration for life as such—for that mysterious essence which man is powerless to create in even the feeblest degree. One by one, at the desire of his mother, the lad broke down his cherished traps and springes for the hungry wild birds on the salt marsh. A white bird, she told him once, looking at him gravely, a bird which he must carry in his bosom across a crowded public place—his own soul was like that! Would it reach the hands of his good genius on the opposite side, unruffled and unsoiled? And as his mother became to him the very type of maternity in things, its unfailing pity and protectiveness, and maternity itself the central type of all love;—so, that beautiful dwelling-place lent the reality of concrete outline to a peculiar ideal of home, which throughout the rest of his life he seemed, amid many distractions of spirit, to be ever seeking to regain.  And a certain vague fear of evil, constitutional in him, enhanced still further this sentiment of home as a place of tried security. His religion, that old Italian religion, in contrast with the really light-hearted religion of Greece, had its deep undercurrent of gloom, its sad, haunting imageries, not exclusively confined to the walls of Etruscan tombs. The function of the conscience, not always as the prompter of gratitude for benefits received, but oftenest as his accuser before those angry heavenly masters, had a large part in it; and the sense of some unexplored evil, ever dogging his footsteps, made him oddly suspicious of particular places and persons. Though his liking for animals was so strong, yet one fierce day in early summer, as he walked along a narrow road, he had seen the snakes breeding, and ever afterwards avoided that place and its ugly associations, for there was something in the incident which made food distasteful and his sleep uneasy for many days afterwards. The memory of it however had almost passed away, when at the corner of a street in Pisa, he came upon an African showman exhibiting a great serpent: once more, as the reptile writhed, the former painful impression revived: it was like a peep into the lower side of the real world, and again for many days took all sweetness from food and sleep. He wondered at himself indeed, trying to puzzle out the secret of that repugnance, having no particular dread of a snake’s bite, like one of his companions, who had put his hand into the mouth of an old garden-god and roused there a sluggish viper. A kind of pity even mingled with his aversion, and he could hardly have killed or injured the animals, which seemed already to suffer by the very circumstance of their life, being what they were. It was something like a fear of the supernatural, or perhaps rather a moral feeling, for the face of a great serpent, with no grace of fur or feathers, so different from quadruped or bird, has a sort of humanity of aspect in its spotted and clouded nakedness. There was a humanity, dusty and sordid and as if far gone in corruption, in the sluggish coil, as it awoke suddenly into one metallic spring of pure enmity against him. Long afterwards, when it happened that at Rome he saw, a second time, a showman with his serpents, he remembered the night which had then followed, thinking, in Saint Augustine’s vein, on the real greatness of those little troubles of children, of which older people make light; but with a sudden gratitude also, as he reflected how richly possessed his life had actually been by beautiful aspects and imageries, seeing how greatly what was repugnant to the eye disturbed his peace.  Thus the boyhood of Marius passed; on the whole, more given to contemplation than to action. Less prosperous in fortune than at an earlier day there had been reason to expect, and animating his solitude, as he read eagerly and intelligently, with the traditions of the past, already he lived much in the realm of the imagination, and became betimes, as he was to continue all through life, something of an idealist, constructing the world for himself in great measure from within, by the exercise of meditative power. A vein of subjective philosophy, with the individual for its standard of all things, there would be always in his intellectual scheme of the world and of conduct, with a certain incapacity wholly to accept other men’s valuations. And the generation of this peculiar element in his temper he could trace up to the days when his life had been so like the reading of a romance to him. Had the Romans a word for unworldly? The beautiful word umbratilis perhaps comes nearest to it; and, with that precise sense, might describe the spirit in which he prepared himself for the sacerdotal function hereditary in his family—the sort of mystic enjoyment he had in the abstinence, the strenuous self-control and ascêsis, which such preparation involved. Like the young Ion in the beautiful opening of the play of Euripides, who every morning sweeps the temple floor with such a fund of cheerfulness in his service, he was apt to be happy in sacred places, with a susceptibility to their peculiar influences which he never outgrew; so that often in after-times, quite unexpectedly, this feeling would revive in him with undiminished freshness. That first, early, boyish ideal of priesthood, the sense of dedication, survived through all the distractions of the world, and when all thought of such vocation had finally passed from him, as a ministry, in spirit at least, towards a sort of hieratic beauty and order in the conduct of life.  And now what relieved in part this over-tension of soul was the lad’s pleasure in the country and the open air; above all, the ramble to the coast, over the marsh with its dwarf roses and wild lavender, and delightful signs, one after another—the abandoned boat, the ruined flood-gates, the flock of wild birds—that one was approaching the sea; the long summer-day of idleness among its vague scents and sounds. And it was characteristic of him that he relished especially the grave, subdued, northern notes in all that—the charm of the French or English notes, as we might term them—in the luxuriant Italian landscape.  Dilexi decorem domus tuae.  That almost morbid religious idealism, and his healthful love of the country, were both alike developed by the circumstances of a journey, which happened about this time, when Marius was taken to a certain temple of Aesculapius, among the hills of Etruria, as was then usual in such cases, for the cure of some boyish sickness. The religion of Aesculapius, though borrowed from Greece, had been naturalised in Rome in the old republican times; but had reached under the Antonines the height of its popularity throughout the Roman world. That was an age of valetudinarians, in many instances of imaginary ones; but below its various crazes concerning health and disease, largely multiplied a few years after the time of which I am speaking by the miseries of a great pestilence, lay a valuable, because partly practicable, belief that all the maladies of the soul might be reached through the subtle gateways of the body.  Salus, salvation, for the Romans, had come to mean bodily sanity. The religion of the god of bodily health, Salvator, as they called him absolutely, had a chance just then of becoming the one religion; that mild and philanthropic son of Apollo surviving, or absorbing, all other pagan godhead. The apparatus of the medical art, the salutary mineral or herb, diet or abstinence, and all the varieties of the bath, came to have a kind of sacramental character, so deep was the feeling, in more serious minds, of a moral or spiritual profit in physical health, beyond the obvious bodily advantages one had of it; the body becoming truly, in that case, but a quiet handmaid of the soul. The priesthood or “family” of Aesculapius, a vast college, believed to be in possession of certain precious medical secrets, came nearest perhaps, of all the institutions of the pagan world, to the Christian priesthood; the temples of the god, rich in some instances with the accumulated thank-offerings of centuries of a tasteful devotion, being really also a kind of hospitals for the sick, administered in a full conviction of the religiousness, the refined and sacred happiness, of a life spent in the relieving of pain.  Elements of a really experimental and progressive knowledge there were doubtless amid this devout enthusiasm, bent so faithfully on the reception of health as a direct gift from God; but for the most part his care was held to take effect through a machinery easily capable of misuse for purposes of religious fraud. Through dreams, above all, inspired by Aesculapius himself, information as to the cause and cure of a malady was supposed to come to the sufferer, in a belief based on the truth that dreams do sometimes, for those who watch them carefully, give many hints concerning the conditions of the body—those latent weak points at which disease or death may most easily break into it. In the time of Marcus Aurelius these medical dreams had become more than ever a fashionable caprice. Aristeides, the “Orator,” a man of undoubted intellectual power, has devoted six discourses to their interpretation; the really scientific Galen has recorded how beneficently they had intervened in his own case, at certain turning-points of life; and a belief in them was one of the frailties of the wise emperor himself. Partly for the sake of these dreams, living ministers of the god, more likely to come to one in his actual dwelling-place than elsewhere, it was almost a necessity that the patient should sleep one or more nights within the precincts of a temple consecrated to his service, during which time he must observe certain rules prescribed by the priests.  For this purpose, after devoutly saluting the Lares, as was customary before starting on a journey, Marius set forth one summer morning on his way to the famous temple which lay among the hills beyond the valley of the Arnus. It was his greatest adventure hitherto; and he had much pleasure in all its details, in spite of his feverishness. Starting early, under the guidance of an old serving-man who drove the mules, with his wife who took all that was needful for their refreshment on the way and for the offering at the shrine, they went, under the genial heat, halting now and then to pluck certain flowers seen for the first time on these high places, upwards, through a long day of sunshine, while cliffs and woods sank gradually below their path. The evening came as they passed along a steep white road with many windings among the pines, and it was night when they reached the temple, the lights of which shone out upon them pausing before the gates of the sacred enclosure, while Marius became alive to a singular purity in the air. A rippling of water about the place was the only thing audible, as they waited till two priestly figures, speaking Greek to one another, admitted them into a large, white-walled and clearly lighted guest-chamber, in which, while he partook of a simple but wholesomely prepared supper, Marius still seemed to feel pleasantly the height they had attained to among the hills.  The agreeable sense of all this was spoiled by one thing only, his old fear of serpents; for it was under the form of a serpent that Aesculapius had come to Rome, and the last definite thought of his weary head before he fell asleep had been a dread either that the god might appear, as he was said sometimes to do, under this hideous aspect, or perhaps one of those great sallow-hued snakes themselves, kept in the sacred place, as he had also heard was usual.  And after an hour’s feverish dreaming he awoke—with a cry, it would seem, for some one had entered the room bearing a light. The footsteps of the youthful figure which approached and sat by his bedside were certainly real. Ever afterwards, when the thought arose in his mind of some unhoped-for but entire relief from distress, like blue sky in a storm at sea, would come back the memory of that gracious countenance which, amid all the kindness of its gaze, had yet a certain air of predominance over him, so that he seemed now for the first time to have found the master of his spirit. It would have been sweet to be the servant of him who now sat beside him speaking.  He caught a lesson from what was then said, still somewhat beyond his years, a lesson in the skilled cultivation of life, of experience, of opportunity, which seemed to be the aim of the young priest’s recommendations. The sum of them, through various forgotten intervals of argument, as might really have happened in a dream, was the precept, repeated many times under slightly varied aspects, of a diligent promotion of the capacity of the eye, inasmuch as in the eye would lie for him the determining influence of life: he was of the number of those who, in the words of a poet who came long after, must be “made perfect by the love of visible beauty.” The discourse was conceived from the point of view of a theory Marius found afterwards in Plato’s Phaedrus, which supposes men’s spirits susceptible to certain influences, diffused, after the manner of streams or currents, by fair things or persons visibly present—green fields, for instance, or children’s faces—into the air around them, acting, in the case of some peculiar natures, like potent material essences, and conforming the seer to themselves as with some cunning physical necessity. This theory,* in itself so fantastic, had however determined in a range of methodical suggestions, altogether quaint here and there from their circumstantial minuteness. And throughout, the possibility of some vision, as of a new city coming down “like a bride out of heaven,” a vision still indeed, it might seem, a long way off, but to be granted perhaps one day to the eyes thus trained, was presented as the motive of this laboriously practical direction.  * [Transliteration:] Ê aporroê tou kallous. +Translation: “Emanation from a thing of beauty.”   “If thou wouldst have all about thee like the colours of some fresh picture, in a clear light,” so the discourse recommenced after a pause, “be temperate in thy religious notions, in love, in wine, in all things, and of a peaceful heart with thy fellows.” To keep the eye clear by a sort of exquisite personal alacrity and cleanliness, extending even to his dwelling-place; to discriminate, ever more and more fastidiously, select form and colour in things from what was less select; to meditate much on beautiful visible objects, on objects, more especially, connected with the period of youth—on children at play in the morning, the trees in early spring, on young animals, on the fashions and amusements of young men; to keep ever by him if it were but a single choice flower, a graceful animal or sea-shell, as a token and representative of the whole kingdom of such things; to avoid jealously, in his way through the world, everything repugnant to sight; and, should any circumstance tempt him to a general converse in the range of such objects, to disentangle himself from that circumstance at any cost of place, money, or opportunity; such were in brief outline the duties recognised, the rights demanded, in this new formula of life. And it was delivered with conviction; as if the speaker verily saw into the recesses of the mental and physical being of the listener, while his own expression of perfect temperance had in it a fascinating power—the merely negative element of purity, the mere freedom from taint or flaw, in exercise as a positive influence. Long afterwards, when Marius read the Charmides—that other dialogue of Plato, into which he seems to have expressed the very genius of old Greek temperance—the image of this speaker came back vividly before him, to take the chief part in the conversation.  It was as a weighty sanction of such temperance, in almost visible symbolism (an outward imagery identifying itself with unseen moralities) that the memory of that night’s double experience, the dream of the great sallow snake and the utterance of the young priest, always returned to him, and the contrast therein involved made him revolt with unfaltering instinct from the bare thought of an excess in sleep, or diet, or even in matters of taste, still more from any excess of a coarser kind.  When he awoke again, still in the exceeding freshness he had felt on his arrival, and now in full sunlight, it was as if his sickness had really departed with the terror of the night: a confusion had passed from the brain, a painful dryness from his hands. Simply to be alive and there was a delight; and as he bathed in the fresh water set ready for his use, the air of the room about him seemed like pure gold, the very shadows rich with colour. Summoned at length by one of the white-robed brethren, he went out to walk in the temple garden. At a distance, on either side, his guide pointed out to him the Houses of Birth and Death, erected for the reception respectively of women about to become mothers, and of persons about to die; neither of those incidents being allowed to defile, as was thought, the actual precincts of the shrine. His visitor of the previous night he saw nowhere again. But among the official ministers of the place there was one, already marked as of great celebrity, whom Marius saw often in later days at Rome, the physician Galen, now about thirty years old. He was standing, the hood partly drawn over his face, beside the holy well, as Marius and his guide approached it.  This famous well or conduit, primary cause of the temple and its surrounding institutions, was supplied by the water of a spring flowing directly out of the rocky foundations of the shrine. From the rim of its basin rose a circle of trim columns to support a cupola of singular lightness and grace, itself full of reflected light from the rippling surface, through which might be traced the wavy figure-work of the marble lining below as the stream of water rushed in. Legend told of a visit of Aesculapius to this place, earlier and happier than his first coming to Rome: an inscription around the cupola recorded it in letters of gold. “Being come unto this place the son of God loved it exceedingly:”—Huc profectus filius Dei maxime amavit hunc locum;—and it was then that that most intimately human of the gods had given men the well, with all its salutary properties. The element itself when received into the mouth, in consequence of its entire freedom from adhering organic matter, was more like a draught of wonderfully pure air than water; and after tasting, Marius was told many mysterious circumstances concerning it, by one and another of the bystanders:—he who drank often thereof might well think he had tasted of the Homeric lotus, so great became his desire to remain always on that spot: carried to other places, it was almost indefinitely conservative of its fine qualities: nay! a few drops of it would amend other water; and it flowed not only with unvarying abundance but with a volume so oddly rhythmical that the well stood always full to the brim, whatever quantity might be drawn from it, seeming to answer with strange alacrity of service to human needs, like a true creature and pupil of the philanthropic god. Certainly the little crowd around seemed to find singular refreshment in gazin g on it. The whole place appeared sensibly influenced by the amiable and healthful spirit of the thing. All the objects of the country were there at their freshest. In the great park-like enclosure for the maintenance of the sacred animals offered by the convalescent, grass and trees were allowed to grow with a kind of graceful wildness; otherwise, all was wonderfully nice. And thatfreshness seemed to have something moral in its influence, as if it acted upon the body and the merely bodily powers of apprehension, through the intelligence; and to the end of his visit Marius saw no more serpents.  A lad was just then drawing water for ritual uses, and Marius followed him as he returned from the well, more and more impressed by the religiousness of all he saw, on his way through a long cloister or corridor, the walls well-nigh hidden under votive inscriptions recording favours from the son of Apollo, and with a distant fragrance of incense in the air, explained when he turned aside through an open doorway into the temple itself. His heart bounded as the refined and dainty magnificence of the place came upon him suddenly, in the flood of early sunshine, with the ceremonial lights burning here and there, and withal a singular expression of sacred order, a surprising cleanliness and simplicity. Certain priests, men whose countenances bore a deep impression of cultivated mind, each with his little group of assistants, were gliding round silently to perform their morning salutation to the god, raising the closed thumb and finger of the right hand with a kiss in the air, as the y came and went on their sacred business, bearing their frankincense and lustral water. Around the walls, at such a level that the worshippers might read, as in a book, the story of the god and his sons, the brotherhood of the Asclepiadae, ran a series of imageries, in low relief, their delicate light and shade being heightened, here and there, with gold. Fullest of inspired and sacred expression, as if in this place the chisel of the  artist had indeed dealt not with marble but with the very breath of feeling and thought, was the scene in which the earliest generation of the sons of Aesculapius were transformed into healing dreams; for “grown now too glorious to abide longer among men, by the aid of their sire they put away their mortal bodies, and came into another country, yet not indeed into Elysium nor into the Islands of the Blest. But being made like to the immortal gods, they began to pass about through the world, changed thus far from their first form that they appear eternally young, as many persons have seen them in many places—ministers and heralds of their father, passing to and fro over the earth, like gliding stars. Which thing is, indeed, the most wonderful concerning them!” And in this scene, as throughout the series, with all its crowded personages, Marius noted on the carved faces the same peculiar union of unction, almost of hilarity, with a certain self-possession and reserve, which was conspicuous in the living ministrants around him.  In the central space, upon a pillar or pedestal, hung, ex voto, with the richest personal ornaments, stood the image of Aesculapius himself, surrounded by choice flowering plants. It presented the type, still with something of the severity of the earlier art of Greece about it, not of an aged and crafty physician, but of a youth, earnest and strong of aspect, carrying an ampulla or bottle in one hand, and in the other a traveller’s staff, a pilgrim among his pilgrim worshippers; and one of the ministers explained to Marius this pilgrim guise.—One chief source of the master’s knowledgeof healing had been observation of the remedies resorted to by animals labouring under disease or pain—what leaf or berry the lizard or dormouse lay upon its wounded fellow; to which purpose for long years he had led the life of a wanderer, in wild places. The boy took his place as the last comer, a little way behind the group of worshippers who stood in front of the image. There, with uplifted face, the palms of his two hands raised and open before him, and taught by the priest, he said his collect of thanksgiving and prayer (Aristeides has recorded it at the end of his Asclepiadae) to the Inspired Dreams:—  “O ye children of Apollo! who in time past have stilledthe waves of sorrow for many people, lighting up a lamp of safety before those who travel by sea and land, be pleased, in your great condescension, though ye be equal in glory with your elder brethren the Dioscuri, and your lot in immortal youth be as theirs, to accept this prayer, which in sleep and vision ye have inspired. Order it arig ht, I pray you, according to your loving-kindness to men. Preserve me from sickness; and endue my body with such a measure of health as may suffice it for the obeying of the spirit, that I maypass my days unhindered and in quietness.”  On the last morning of his visit Marius entered the shrine again, and just before his departure the priest, who had been his special director during his stay at the place, lifting a cunningly contrived panel, which formed the back of one of the carved seats, bade him look through. What he saw was like the vision of a new world, by the opening of some unsuspected window in a familiar dwelling-place. He looked out upon a long-d rawn valley of singularly cheerful aspect, hidden, by the peculiar conformation of the locality, from all points of observation but this. In a green meadow at the foot of the steep olive-clad rocks below, the novices were taking their exercise. The softly sloping sides of the vale lay alike in full sunlight; and its distant opening was closed by a beautifully formed mountain, from which the last wreaths of morning mist were rising under the heat. It might have seemed the very presentment of a land of hope, its hollows brimful of a shadow of blue flowers; and lo! on the one level space of the horizon, in a long dark line, were towers and a dome: and that was Pisa.—Or Rome, was it? asked Marius, ready to believe the utmost, in his excitement.  All this served, as he understood afterwards in retrospect, at once to strengthen and to purify a certain vein of character in him. Developing the ideal, pre-existent there, of a religious beauty, associated for the future with the exquisite splendour of the temple of Aesculapius, as it dawned upon him on that morning of his first visit—it developed that ideal in connexion with a vivid sense of the value of mental and bodily sanity. And this recognition of the beauty, even for the aesthetic sense, of mere bodily health, now acquired, operated afterwards as an influence morally salutary, counteracting the less desirable or hazardous tendencies of some phases of thought, through which he was to pass.  He came home brown with health to find the health of his mother failing; and about her death, which occurred not long afterwards, there was a circumstance which rested with him as the cruellest touch of all, in an event which for a time seemed to have taken the light out of the sunshine. She died away from home, but sent for him at the last, with a painful effort on her part, but to his great gratitude, pondering, as he always believed, that he might chance otherwise to look back all his life long upon a single fault with something like remorse, and find the burden a great one. For it happened that, through some sudden, incomprehensible petulance there had been an angry childish gesture, and a slighting word, at the very moment of her departure, actually for the last time. Remembering this he would ever afterwards pray to be saved from offences against his own affections; the thought of that marred parting having peculiar bitterness for one, who set so much store, both by principle and habit, on the sentiment of home. O mare! O littus! verum secretumque Mouseion,+ quam multa invenitis, quam multa dictatis! Pliny’s Letters.   It would hardly have been possible to feel more seriously than did Marius in those grave years of his early life. But the death of his mother turned seriousness of feeling into a matter of the intelligence: it made him a questioner; and, by bringing into full evidence to him the force of his affections and the probable importance of their place in his future, developed in him generally the more human and earthly elements of character. A singularly virile consciousness of the realities of life pronounced itself in him; still however as in the main a poetic apprehension, though united already with something of personal ambition and the instinct of self-assertion. There were days when he could suspect, though it was a suspicion he was careful at first to put from him, that that early, much cherished religion of the villa might come to count with him as but one form of poetic beauty, or of the ideal, in things; as but one voice, in a world where there were many voices it would be a moral weakness not to listen to. And yet this voice, through its forcible pre-occupation of his childish conscience, still seemed to make a claim of a quite exclusive character, defining itself as essentially one of but two possible leaders of his spirit, the other proposing to him unlimited self-expansion in a world of various sunshine. The contrast was so pronounced as to make the easy, light-hearted, unsuspecting exercise of himself, among the temptations of the new phase of life which had now begun, seem nothing less than a rival religion, a rival religious service. The temptations, the various sunshine, were those of the old town of Pisa, where Marius was now a tall schoolboy. Pisa was a place lying just far enough from home to make his rare visits to it in childhood seem like adventures, such as had never failed to supply new and refreshing impulses to the imagination. The partly decayed pensive town, which still had its commerce by sea, and its fashion at the bathing-season, had lent, at one time the vivid memory of its fair streets of marble, at another the solemn outline of the dark hills of Luna on its background, at another the living glances of its men and women, to the thickly gathering crowd of impressions, out of which his notion of the world was then forming. And while he learned that the object, the experience, as it will be known to memory, is really from first to last the chief point for consideration in the conduct of life, these things were feeding also the idealism constitutional with him—his innate and habitual longing for a world altogether fairer than that he saw. The child could find his way in thought along those streets of the old town, expecting duly the shrines at their corners, and their recurrent intervals of garden-courts, or side-views of distant sea. The great temple of the place, as he could remember it, on turning back once for a last look from an angle of his homeward road, counting its tall gray columns between the blue of the bay and the blue fields of blossoming flax beyond; the harbour and its lights; the foreign ships lying there; the sailors’ chapel of Venus, and her gilded image, hung with votive gifts; the seamen themselves, their women and children, who had a whole peculiar colour-world of their own—the boy’s superficial delight in the broad light and shadow of all that was mingled with the sense of power, of unknown distance, of the danger of storm and possible death.  To this place, then, Marius came down now from White-nights, to live in the house of his guardian or tutor, that he might attend the school of a famous rhetorician, and learn, among other things, Greek. The school, one of many imitations of Plato’s Academy in the old Athenian garden, lay in a quiet suburb of Pisa, and had its grove of cypresses, its porticoes, a house for the master, its chapel and images. For the memory of Marius in after-days, a clear morning sunlight seemed to lie perpetually on that severe picture in old gray and green. The lad went to this school daily betimes, in state at first, with a young slave to carry the books, and certainly with no reluctance, for the sight of his fellow-scholars, and their petulant activity, coming upon the sadder sentimental moods of his childhood, awoke at once that instinct of emulation which is but the other side of sympathy; and he was not aware, of course, how completely the difference of his previous training had made him, even in his most enthusiastic participation in the ways of that little world, still essentially but a spectator. While all their heart was in their limited boyish race, and its transitory prizes, he was already entertaining himself, very pleasurably meditative, with the tiny drama in action before him, as but the mimic, preliminary exercise for a larger contest, and already with an implicit epicureanism. Watching all the gallant effects of their small rivalries—a scene in the main of fresh delightful sunshine—he entered at once into the sensations of a rivalry beyond them, into the passion of men, and had already recognised a certain appetite for fame, for distinction among his fellows, as his dominant motive to be.  The fame he conceived for himself at this time was, as the reader will have anticipated, of the intellectual order, that of a poet perhaps. And as, in that gray monastic tranquillity of the villa, inward voices from the reality of unseen things had come abundantly; so here, with the sounds and aspects of the shore, and amid the urbanities, the graceful follies, of a bathing-place, it was the reality, the tyrannous reality, of things visible that was borne in upon him. The real world around—a present humanity not less comely, it might seem, than that of the old heroic days—endowing everything it touched upon, however remotely, down to its little passing tricks of fashion even, with a kind of fleeting beauty, exercised over him just then a great fascination.  That sense had come upon him in all its power one exceptionally fine summer, the summer when, at a somewhat earlier age than was usual, he had formally assumed the dress of manhood, going into the Forum for that purpose, accompanied by his friends in festal array. At night, after the full measure of those cloudless days, he would feel well-nigh wearied out, as if with a long succession of pictures and music. As he wandered through the gay streets or on the sea-shore, the real world seemed indeed boundless, and himself almost absolutely free in it, with a boundless appetite for experience, for adventure, whether physical or of the spirit. His entire rearing hitherto had lent itself to an imaginative exaltation of the past; but now the spectacle actually afforded to his untired and freely open senses, suggested the reflection that the present had, it might be, really advanced beyond the past, and he was ready to boast in the very fact that it was modern. If, in a voluntary archaism, the polite world of that day went back to a choicer generation, as it fancied, for the purpose of a fastidious self-correction, in matters of art, of literature, and even, as we have seen, of religion, at least it improved, by a shade or two of more scrupulous finish, on the old pattern; and the new era, like the Neu-zeit of the German enthusiasts at the beginning of our own century, might perhaps be discerned, awaiting one just a single step onward—the perfected new manner, in the consummation of time, alike as regards the things of the imagination and the actual conduct of life. Only, while the pursuit of an ideal like this demanded entire liberty of heart and brain, that old, staid, conservative religion of his childhood certainly had its being in a world of somewhat narrow restrictions. But then, the one was absolutely real, with nothing less than the reality of seeing and hearing—the other, how vague, shadowy, problematical! Could its so limited probabilities be worth taking into account in any practical question as to the rejecting or receiving of what was indeed so real, and, on the face of it, so desirable?  And, dating from the time of his first coming to school, a great friendship had grown up for him, in that life of so few attachments—the pure and disinterested friendship of schoolmates. He had seen Flavian for the first time the day on which he had come to Pisa, at the moment when his mind was full of wistful thoughts regarding the new life to begin for him to-morrow, and he gazed curiously at the crowd of bustling scholars as they came from their classes. There was something in Flavian a shade disdainful, as he stood isolated from the others for a moment, explained in part by his stature and the distinction of the low, broad forehead; though there was pleasantness also for the newcomer in the roving blue eyes which seemed somehow to take a fuller hold upon things around than is usual with boys. Marius knew that those proud glances made kindly note of him for a moment, and felt something like friendship at first sight. There was a tone of reserve or gravity there, amid perfectly disciplined health, which, to his fancy, seemed to carry forward the expression of the austere sky and the clear song of the blackbird on that gray March evening. Flavian indeed was a creature who changed much with the changes of the passing light and shade about him, and was brilliant enough under the early sunshine in school next morning. Of all that little world of more or less gifted youth, surely the centre was this lad of servile birth. Prince of the school, he had gained an easy dominion over the old Greek master by the fascination of his parts, and over his fellow-scholars by the figure he bore. He wore already the manly dress; and standing there in class, as he displayed his wonderful quickness in reckoning, or his taste in declaiming Homer, he was like a carved figure in motion, thought Marius, but with that indescribable gleam upon it which the words of Homer actually suggested, as perceptible on the visible forms of the gods—hoia theous epenênothen aien eontas.+  A story hung by him, a story which his comrades acutely connected with his habitual air of somewhat peevish pride. Two points were held to be clear amid its general vagueness—a rich stranger paid his schooling, and he was himself very poor, though there was an attractive piquancy in the poverty of Flavian which in a scholar of another figure might have been despised. Over Marius too his dominion was entire. Three years older than he, Flavian was appointed to help the younger boy in his studies, and Marius thus became virtually his servant in many things, taking his humours with a sort of grateful pride in being noticed at all, and, thinking over all this afterwards, found that the fascination experienced by him had been a sentimental one, dependent on the concession to himself of an intimacy, a certain tolerance of his company, granted to none beside.  That was in the earliest days; and then, as their intimacy grew, the genius, the intellectual power of Flavian began its sway over him. The brilliant youth who loved dress, and dainty food, and flowers, and seemed to have a natural alliance with, and claim upon, everything else which was physically select and bright, cultivated also that foppery of words, of choice diction which was common among the élite spirits of that day; and Marius, early an expert and elegant penman, transcribed his verses (the euphuism of which, amid a genuine original power, was then so delightful to him) in beautiful ink, receiving in return the profit of Flavian’s really great intellectual capacities, developed and accomplished under the ambitious desire to make his way effectively in life. Among other things he introduced him to the writings of a sprightly wit, then very busy with the pen, one Lucian—writings seeming to overflow with that intellectual light turned upon dim places, which, at least in seasons of mental fair weather, can make people laugh where they have been wont, perhaps, to pray. And, surely, the sunlight which filled those well-remembered early mornings in school, had had more than the usual measure of gold in it! Marius, at least, would lie awake before the time, thinking with delight of the long coming hours of hard work in the presence of Flavian, as other boys dream of a holiday.  It was almost by accident at last, so wayward and capricious was he, that reserve gave way, and Flavian told the story of his father—a freedman, presented late in life, and almost against his will, with the liberty so fondly desired in youth, but on condition of the sacrifice of part of his peculium—the slave’s diminutive hoard—amassed by many a self-denial, in an existence necessarily hard. The rich man, interested in the promise of the fair child born on his estate, had sent him to school. The meanness and dejection, nevertheless, of that unoccupied old age defined the leading memory of Flavian, revived sometimes, after this first confidence, with a burst of angry tears amid the sunshine. But nature had had her economy in nursing the strength of that one natural affection; for, save his half-selfish care for Marius, it was the single, really generous part, the one piety, in the lad’s character. In him Marius saw the spirit of unbelief, achieved as if at one step. The much-admired freedman’s son, as with the privilege of a natural aristocracy, believed only in himself, in the brilliant, and mainly sensuous gifts, he had, or meant to acquire.  And then, he had certainly yielded himself, though still with untouched health, in a world where manhood comes early, to the seductions of that luxurious town, and Marius wondered sometimes, in the freer revelation of himself by conversation, at the extent of his early corruption. How often, afterwards, did evil things present themselves in malign association with the memory of that beautiful head, and with a kind of borrowed sanction and charm in its natural grace! To Marius, at a later time, he counted for as it were an epitome of the whole pagan world, the depth of its corruption, and its perfection of form. And still, in his mobility, his animation, in his eager capacity for various life, he was so real an object, after that visionary idealism of the villa. His voice, his glance, were like the breaking in of the solid world upon one, amid the flimsy fictions of a dream. A shadow, handling all things as shadows, had felt a sudden real and poignant heat in them.  Meantime, under his guidance, Marius was learning quickly and abundantly, because with a good will. There was that in the actual effectiveness of his figure which stimulated the younger lad to make the most of opportunity; and he had experience already that education largely increased one’s capacity for enjoyment. He was acquiring what it is the chief function of all higher education to impart, the art, namely, of so relieving the ideal or poetic traits, the elements of distinction, in our everyday life—of so exclusively living in them—that the unadorned remainder of it, the mere drift or débris of our days, comes to be as though it were not. And the consciousness of this aim came with the reading of one particular book, then fresh in the world, with which he fell in about this time—a book which awakened the poetic or romantic capacity as perhaps some other book might have done, but was peculiar in giving it a direction emphatically sensuous. It made him, in that visionary reception of every-day life, the seer, more especially, of a revelation in colour and form. If our modern education, in its better efforts, really conveys to any of us that kind of idealising power, it does so (though dealing mainly, as its professed instruments, with the most select and ideal remains of ancient literature) oftenest by truant reading; and thus it happened also, long ago, with Marius and his friend.  NOTES   43. +Transliteration: Mouseion. The word means “seat of the muses.” Translation: “O sea! O shore! my own Helicon, / How many things have you uncovered to me, how many things suggested!” Pliny, Letters, Book I, ix, to Minicius Fundanus.   50. +Transliteration: hoia theous epenênothen aien eontas. Translation: “such as the gods are endowed with.” Homer, Odyssey, 8.365. The two lads were lounging together over a book, half-buried in a heap of dry corn, in an old granary—the quiet corner to which they had climbed out of the way of their noisier companions on one of their blandest holiday afternoons. They looked round: the western sun smote through the broad chinks of the shutters. How like a picture! and it was precisely the scene described in what they were reading, with just that added poetic touch in the book which made it delightful and select, and, in the actual place, the ray of sunlight transforming the rough grain among the cool brown shadows into heaps of gold. What they were intent on was, indeed, the book of books, the “golden” book of that day, a gift to Flavian, as was shown by the purple writing on the handsome yellow wrapper, following the title Flaviane!—it said,  Flaviane! lege Felicitur! Flaviane! Vivas! Fioreas! Flaviane! Vivas! Gaudeas!   It was perfumed with oil of sandal-wood, and decorated with carved and gilt ivory bosses at the ends of the roller.  And the inside was something not less dainty and fine, full of the archaisms and curious felicities in which that generation delighted, quaint terms and images picked fresh from the early dramatists, the lifelike phrases of some lost poet preserved by an old grammarian, racy morsels of the vernacula r and studied prettinesses:—all alike, mere playthings for the genuine power and natural eloquence of the erudite artist, unsuppressed by his erudition, which, however, made some people angry, chiefly less well “got-up” people, and especially those who were untidy from indolence.  No! it was certainly not that old-fashioned, unconscious ease of the early literature, which could never come again; which, after all, had had more in common with the “infinite patience” of Apuleius than with the hack-work readiness of his detractors, who might so well have been “self-conscious” of going slip-shod. And at least his success was unmistakable as to the precise literary effect he had intended, including a certain tincture of “neology” in expression—nonnihil interdum elocutione novella parum signatum—in the language of Cornelius Fronto, the contemporary prince of rhetoricians. What words he had found for conveying, with a single touch, the sense of textures, colours, incidents! “Like jewellers’ work! Like a myrrhine vase!”—admirers said of his writing. “The golden fibre in the hair, the gold thread-work in the gown marked her as the mistress”—aurum in comis et in tunicis, ibi inflexum hic intextum, matronam profecto confitebatur—he writes, with his “curious felicity,” of one of his heroines. Aurum intextum: gold fibre:—well! there was something of that kind in his own work. And then, in an age when people, from the emperor Aurelius downwards, prided themselves unwisely on writing in Greek, he had written for Latin people in their own tongue; though still, in truth, with all the care of a learned language. Not less happily inventive were the incidents recorded—story within story—stories with the sudden, unlooked-for changes of dreams. He had his humorous touches also. And what went to the ordinary boyish taste, in those somewhat peculiar readers, what would have charmed boys more purely boyish, was the adventure:—the bear loose in the house at night, the wolves storming the farms in winter, the exploits of the robbers, their charming caves, the delightful thrill one had at the question—“Don’t you know that these roads are infested by robbers?”  The scene of the romance was laid in Thessaly, the original land of witchcraft, and took one up and down its mountains, and into its old weird towns, haunts of magic and incantation, where all the more genuine appliances of the black art, left behind her by Medea when she fled through that country, were still in use. In the city of Hypata, indeed, nothing seemed to be its true self—“You might think that through the murmuring of some cadaverous spell, all things had been changed into forms not their own; that there was humanity in the hardness of the stones you stumbled on; that the birds you heard singing were feathered men; that the trees around the walls drew their leaves from a like source. The statues seemed about to move, the walls to speak, the dumb cattle to break out in prophecy; nay! the very sky and the sunbeams, as if they might suddenly cry out.” Witches are there who can draw down the moon, or at least the lunar virus—that white fluid she sheds, to be found, so rarely, “on high, heathy places: which is a poison. A touch of it will drive men mad.”  And in one very remote village lives the sorceress Pamphile, who turns her neighbours into various animals. What true humour in the scene where, after mounting the rickety stairs, Lucius, peeping curiously through a chink in the door, is a spectator of the transformation of the old witch herself into a bird, that she may take flight to the object of her affections—into an owl! “First she stripped off every rag she had. Then opening a certain chest she took from it many small boxes, and removing the lid of one of them, rubbed herself over for a long time, from head to foot, with an ointment it contained, and after much low muttering to her lamp, began to jerk at last and shake her limbs. And as her limbs moved to and fro, out burst the soft feathers: stout wings came forth to view: the nose grew hard and hooked: her nails were crooked into claws; and Pamphile was an owl. She uttered a queasy screech; and, leaping little by little from the ground, making trial of herself, fled presently, on full wing, out of doors.”  By clumsy imitation of this process, Lucius, the hero of the romance, transforms himself, not as he had intended into a showy winged creature, but into the animal which has given name to the book; for throughout it there runs a vein of racy, homely satire on the love of magic then prevalent, curiosity concerning which had led Lucius to meddle with the old woman’s appliances. “Be you my Venus,” he says to the pretty maid-servant who has introduced him to the view of Pamphile, “and let me stand by you a winged Cupid!” and, freely applying the magic ointment, sees himself transformed, “not into a bird, but into an ass!”  Well! the proper remedy for his distress is a supper of roses, could such be found, and many are his quaintly picturesque attempts to come by them at that adverse season; as he contrives to do at last, when, the grotesque procession of Isis passing by with a bear and other strange animals in its train, the ass following along with the rest suddenly crunches the chaplet of roses carried in the High-priest’s hand.  Meantime, however, he must wait for the spring, with more than the outside of an ass; “though I was not so much a fool, nor so truly an ass,” he tells us, when he happens to be left alone with a daintily spread table, “as to neglect this most delicious fare, and feed upon coarse hay.” For, in truth, all through the book, there is an unmistakably real feeling for asses, with bold touches like Swift’s, and a genuine animal breadth. Lucius was the original ass, who peeping slily from the window of his hiding-place forgot all about the big shade he cast just above him, and gave occasion to the joke or proverb about “the peeping ass and his shadow.”  But the marvellous, delight in which is one of the really serious elements in most boys, passed at times, those young readers still feeling its fascination, into what French writers call the macabre—that species of almost insane pre-occupation with the materialities of our mouldering flesh, that luxury of disgust in gazing on corruption, which was connected, in this writer at least, with not a little obvious coarseness. It was a strange notion of the gross lust of the actual world, that Marius took from some of these episodes. “I am told,” they read, “that when foreigners are interred, the old witches are in the habit of out-racing the funeral procession, to ravage the corpse”—in order to obtain certain cuttings and remnants from it, with which to injure the living—“especially if the witch has happened to cast her eye upon some goodly young man.” And the scene of the night-watching of a dead body lest the witches should come to tear off the flesh with their teeth, is worthy of Théophile Gautier.  But set as one of the episodes in the main narrative, a true gem amid its mockeries, its coarse though genuine humanity, its burlesque horrors, came the tale of Cupid and Psyche, full of brilliant, life-like situations, speciosa locis, and abounding in lovely visible imagery (one seemed to see and handle the golden hair, the fresh flowers, the precious works of art in it!) yet full also of a gentle idealism, so that you might take it, if you chose, for an allegory. With a concentration of all his finer literary gifts, Apuleius had gathered into it the floating star-matter of many a delightful old story.—  The Story of Cupid and Psyche.   In a certain city lived a king and queen who had three daughters exceeding fair. But the beauty of the elder sisters, though pleasant to behold, yet passed not the measure of human praise, while such was the loveliness of the youngest that men’s speech was too poor to commend it worthily and could express it not at all. Many of the citizens and of strangers, whom the fame of this excellent vision had gathered thither, confounded by that matchless beauty, could but kiss the finger-tips of their right hands at sight of her, as in adoration to the goddess Venus herself. And soon a rumour passed through the country that she whom the blue deep had borne, forbearing her divine dignity, was even then moving among men, or that by some fresh germination from the stars, not the sea now, but the earth, had put forth a new Venus, endued with the flower of virginity.  This belief, with the fame of the maiden’s loveliness, went daily further into distant lands, so that many people were drawn together to behold that glorious model of the age. Men sailed no longer to Paphos, to Cnidus or Cythera, to the presence of the goddess Venus: her sacred rites were neglected, her images stood uncrowned, the cold ashes were left to disfigure her forsaken altars. It was to a maiden that men’s prayers were offered, to a human countenance they looked, in propitiating so great a godhead: when the girl went forth in the morning they strewed flowers on her way, and the victims proper to that unseen goddess were presented as she passed along. This conveyance of divine worship to a mortal kindled meantime the anger of the true Venus. “Lo! now, the ancient parent of nature,” she cried, “the fountain of all elements! Behold me, Venus, benign mother of the world, sharing my honours with a mortal maiden, while my name, built up in heaven, is profaned by the mean things of earth! Shall a perishable woman bear my image about with her? In vain did the shepherd of Ida prefer me! Yet shall she have little joy, whosoever she be, of her usurped and unlawful loveliness!” Thereupon she called to her that winged, bold boy, of evil ways, who wanders armed by night through men’s houses, spoiling their marriages; and stirring yet more by her speech his inborn wantonness, she led him to the city, and showed him Psyche as she walked.  “I pray thee,” she said, “give thy mother a full revenge. Let this maid become the slave of an unworthy love.” Then, embracing him closely, she departed to the shore and took her throne upon the crest of the wave. And lo! at her unuttered will, her ocean-servants are in waiting: the daughters of Nereus are there singing their song, and Portunus, and Salacia, and the tiny charioteer of the dolphin, with a host of Tritons leaping through the billows. And one blows softly through his sounding sea-shell, another spreads a silken web against the sun, a third presents the mirror to the eyes of his mistress, while the others swim side by side below, drawing her chariot. Such was the escort of Venus as she went upon the sea.  Psyche meantime, aware of her loveliness, had no fruit thereof. All people regarded and admired, but none sought her in marriage. It was but as on the finished work of the craftsman that they gazed upon that divine likeness. Her sisters, less fair than she, were happily wedded. She, even as a widow, sitting at home, wept over her desolation, hating in her heart the beauty in which all men were pleased.  And the king, supposing the gods were angry, inquired of the oracle of Apollo, and Apollo answered him thus: “Let the damsel be placed on the top of a certain mountain, adorned as for the bed of marriage and of death. Look not for a son-in-law of mortal birth; but for that evil serpent-thing, by reason of whom even the gods tremble and the shadows of Styx are afraid.”  So the king returned home and made known the oracle to his wife. For many days she lamented, but at last the fulfilment of the divine precept is urgent upon her, and the company make ready to conduct the maiden to her deadly bridal. And now the nuptial torch gathers dark smoke and ashes: the pleasant sound of the pipe is changed into a cry: the marriage hymn concludes in a sorrowful wailing: below her yellow wedding-veil the bride shook away her tears; insomuch that the whole city was afflicted together at the ill-luck of the stricken house.  But the mandate of the god impelled the hapless Psyche to her fate, and, these solemnities being ended, the funeral of the living soul goes forth, all the people following. Psyche, bitterly weeping, assists not at her marriage but at her own obsequies, and while the parents hesitate to accomplish a thing so unholy the daughter cries to them: “Wherefore torment your luckless age by long weeping? This was the prize of my extraordinary beauty! When all people celebrated us with divine honours, and in one voice named the New Venus, it was then ye should have wept for me as one dead. Now at last I understand that that one name of Venus has been my ruin. Lead me and set me upon the appointed place. I am in haste to submit to that well-omened marriage, to behold that goodly spouse. Why delay the coming of him who was born for the destruction of the whole world?”  She was silent, and with firm step went on the way. And they proceeded to the appointed place on a steep mountain, and left there the maiden alone, and took their way homewards dejectedly. The wretched parents, in their close-shut house, yielded themselves to perpetual night; while to Psyche, fearful and trembling and weeping sore upon the mountain-top, comes the gentle Zephyrus. He lifts her mildly, and, with vesture afloat on either side, bears her by his own soft breathing over the windings of the hills, and sets her lightly among the flowers in the bosom of a valley below.  Psyche, in those delicate grassy places, lying sweetly on her dewy bed, rested from the agitation of her soul and arose in peace. And lo! a grove of mighty trees, with a fount of water, clear as glass, in the midst; and hard by the water, a dwelling-place, built not by human hands but by some divine cunning. One recognised, even at the entering, the delightful hostelry of a god. Golden pillars sustained the roof, arched most curiously in cedar-wood and ivory. The walls were hidden under wrought silver:—all tame and woodland creatures leaping forward to the visitor’s gaze. Wonderful indeed was the craftsman, divine or half-divine, who by the subtlety of his art had breathed so wild a soul into the silver! The very pavement was distinct with pictures in goodly stones. In the glow of its precious metal the house is its own daylight, having no need of the sun. Well might it seem a place fashioned for the conversation of gods with men!  Psyche, drawn forward by the delight of it, came near, and, her courage growing, stood within the doorway. One by one, she admired the beautiful things she saw; and, most wonderful of all! no lock, no chain, nor living guardian protected that great treasure house. But as she gazed there came a voice—a voice, as it were unclothed of bodily vesture—“Mistress!” it said, “all these things are thine. Lie down, and relieve thy weariness, and rise again for the bath when thou wilt. We thy servants, whose voice thou hearest, will be beforehand with our service, and a royal feast shall be ready.”  And Psyche understood that some divine care was providing, and, refreshed with sleep and the Bath, sat down to the feast. Still she saw no one: only she heard words falling here and there, and had voices alone to serve her. And the feast being ended, one entered the chamber and sang to her unseen, while another struck the chords of a harp, invisible with him who played on it. Afterwards the sound of a company singing together came to her, but still so that none were present to sight; yet it appeared that a great multitude of singers was there.  And the hour of evening inviting her, she climbed into the bed; and as the night was far advanced, behold a sound of a certain clemency approaches her. Then, fearing for her maidenhood in so great solitude, she trembled, and more than any evil she knew dreaded that she knew not. And now the husband, that unknown husband, drew near, and ascended the couch, and made her his wife; and lo! before the rise of dawn he had departed hastily. And the attendant voices ministered to the needs of the newly married. And so it happened with her for a long season. And as nature has willed, this new thing, by continual use, became a delight to her: the sound of the voice grew to be her solace in that condition of loneliness and uncertainty.  One night the bridegroom spoke thus to his beloved, “O Psyche, most pleasant bride! Fortune is grown stern with us, and threatens thee with mortal peril. Thy sisters, troubled at the report of thy death and seeking some trace of thee, will come to the mountain’s top. But if by chance their cries reach thee, answer not, neither look forth at all, lest thou bring sorrow upon me and destruction upon thyself.” Then Psyche promised that she would do according to his will. But the bridegroom was fled away again with the night. And all that day she spent in tears, repeating that she was now dead indeed, shut up in that golden prison, powerless to console her sisters sorrowing after her, or to see their faces; and so went to rest weeping.  And after a while came the bridegroom again, and lay down beside her, and embracing her as she wept, complained, “Was this thy promise, my Psyche? What have I to hope from thee? Even in the arms of thy husband thou ceasest not from pain. Do now as thou wilt. Indulge thine own desire, though it seeks what will ruin thee. Yet wilt thou remember my warning, repentant too late.” Then, protesting that she is like to die, she obtains from him that he suffer her to see her sisters, and present to them moreover what gifts she would of golden ornaments; but therewith he ofttimes advised her never at any time, yielding to pernicious counsel, to enquire concerning his bodily form, lest she fall, through unholy curiosity, from so great a height of fortune, nor feel ever his embrace again. “I would die a hundred times,” she said, cheerful at last, “rather than be deprived of thy most sweet usage. I love thee as my own soul, beyond comparison even with Love himself. Only bid thy servant Zephyrus bring hither my sisters, as he brought me. My honeycomb! My husband! Thy Psyche’s breath of life!” So he promised; and after the embraces of the night, ere the light appeared, vanished from the hands of his bride.  And the sisters, coming to the place where Psyche was abandoned, wept loudly among the rocks, and called upon her by name, so that the sound came down to her, and running out of the palace distraught, she cried, “Wherefore afflict your souls with lamentation? I whom you mourn am here.” Then, summoning Zephyrus, she reminded him of her husband’s bidding; and he bare them down with a gentle blast. “Enter now,” she said, “into my house, and relieve your sorrow in the company of Psyche your sister.”  And Psyche displayed to them all the treasures of the golden house, and its great family of ministering voices, nursing in them the malice which was already at their hearts. And at last one of them asks curiously who the lord of that celestial array may be, and what manner of man her husband? And Psyche answered dissemblingly, “A young man, handsome and mannerly, with a goodly beard. For the most part he hunts upon the mountains.” And lest the secret should slip from her in the way of further speech, loading her sisters with gold and gems, she commanded Zephyrus to bear them away.  And they returned home, on fire with envy. “See now the injustice of fortune!” cried one. “We, the elder children, are given like servants to be the wives of strangers, while the youngest is possessed of so great riches, who scarcely knows how to use them. You saw, Sister! what a hoard of wealth lies in the house; what glittering gowns; what splendour of precious gems, besides all that gold trodden under foot. If she indeed hath, as she said, a bridegroom so goodly, then no one in all the world is happier. And it may be that this husband, being of divine nature, will make her too a goddess. Nay! so in truth it is. It was even thus she bore herself. Already she looks aloft and breathes divinity, who, though but a woman, has voices for her handmaidens, and can command the winds.” “Think,” answered the other, “how arrogantly she dealt with us, grudging us these trifling gifts out of all that store, and when our company became a burden, causing us to be hissed and driven away from her through the air! But I am no woman if she keep her hold on this great fortune; and if the insult done us has touched thee too, take we counsel together. Meanwhile let us hold our peace, and know naught of her, alive or dead. For they are not truly happy of whose happiness other folk are unaware.”  And the bridegroom, whom still she knows not, warns her thus a second time, as he talks with her by night: “Seest thou what peril besets thee? Those cunning wolves have made ready for thee their snares, of which the sum is that they persuade thee to search into the fashion of my countenance, the seeing of which, as I have told thee often, will be the seeing of it no more for ever. But do thou neither listen nor make answer to aught regarding thy husband. Besides, we have sown also the seed of our race. Even now this bosom grows with a child to be born to us, a child, if thou but keep our secret, of divine quality; if thou profane it, subject to death.” And Psyche was glad at the tidings, rejoicing in that solace of a divine seed, and in the glory of that pledge of love to be, and the dignity of the name of mother. Anxiously she notes the increase of the days, the waning months. And again, as he tarries briefly beside her, the bridegroom repeats his warning:  “Even now the sword is drawn with which thy sisters seek thy life. Have pity on thyself, sweet wife, and upon our child, and see not those evil women again.” But the sisters make their way into the palace once more, crying to her in wily tones, “O Psyche! and thou too wilt be a mother! How great will be the joy at home! Happy indeed shall we be to have the nursing of the golden child. Truly if he be answerable to the beauty of his parents, it will be a birth of Cupid himself.”  So, little by little, they stole upon the heart of their sister. She, meanwhile, bids the lyre to sound for their delight, and the playing is heard: she bids the pipes to move, the quire to sing, and the music and the singing come invisibly, soothing the mind of the listener with sweetest modulation. Yet not even thereby was their malice put to sleep: once more they seek to know what manner of husband she has, and whence that seed. And Psyche, simple over-much, forgetful of her first story, answers, “My husband comes from a far country, trading for great sums. He is already of middle age, with whitening locks.” And therewith she dismisses them again.  And returning home upon the soft breath of Zephyrus one cried to the other, “What shall be said of so ugly a lie? He who was a young man with goodly beard is now in middle life. It must be that she told a false tale: else is she in very truth ignorant what manner of man he is. Howsoever it be, let us destroy her quickly. For if she indeed knows not, be sure that her bridegroom is one of the gods: it is a god she bears in her womb. And let that be far from us! If she be called mother of a god, then will life be more than I can bear.”  So, full of rage against her, they returned to Psyche, and said to her craftily, “Thou livest in an ignorant bliss, all incurious of thy real danger. It is a deadly serpent, as we certainly know, that comes to sleep at thy side. Remember the words of the oracle, which declared thee destined to a cruel beast. There are those who have seen it at nightfall, coming back from its feeding. In no long time, they say, it will end its blandishments. It but waits for the babe to be formed in thee, that it may devour thee by so much the richer. If indeed the solitude of this musical place, or it may be the loathsome commerce of a hidden love, delight thee, we at least in sisterly piety have done our part.” And at last the unhappy Psyche, simple and frail of soul, carried away by the terror of their words, losing memory of her husband’s precepts and her own promise, brought upon herself a great calamity. Trembling and turning pale, she answers them, “And they who tell those things, it may be, speak the truth. For in very deed never have I seen the face of my husband, nor know I at all what manner of man he is. Always he frights me diligently from the sight of him, threatening some great evil should I too curiously look upon his face. Do ye, if ye can help your sister in her great peril, stand by her now.”  Her sisters answered her, “The way of safety we have well considered, and will teach thee. Take a sharp knife, and hide it in that part of the couch where thou art wont to lie: take also a lamp filled with oil, and set it privily behind the curtain. And when he shall have drawn up his coils into the accustomed place, and thou hearest him breathe in sleep, slip then from his side and discover the lamp, and, knife in hand, put forth thy strength, and strike off the serpent’s head.” And so they departed in haste.  And Psyche left alone (alone but for the furies which beset her) is tossed up and down in her distress, like a wave of the sea; and though her will is firm, yet, in the moment of putting hand to the deed, she falters, and is torn asunder by various apprehension of the great calamity upon her. She hastens and anon delays, now full of distrust, and now of angry courage: under one bodily form she loathes the monster and loves the bridegroom. But twilight ushers in the night; and at length in haste she makes ready for the terrible deed. Darkness came, and the bridegroom; and he first, after some faint essay of love, falls into a deep sleep.  And she, erewhile of no strength, the hard purpose of destiny assisting her, is confirmed in force. With lamp plucked forth, knife in hand, she put by her sex; and lo! as the secrets of the bed became manifest, the sweetest and most gentle of all creatures, Love himself, reclined there, in his own proper loveliness! At sight of him the very flame of the lamp kindled more gladly! But Psyche was afraid at the vision, and, faint of soul, trembled back upon her knees, and would have hidden the steel in her own bosom. But the knife slipped from her hand; and now, undone, yet ofttimes looking upon the beauty of that divine countenance, she lives again. She sees the locks of that golden head, pleasant with the unction of the gods, shed down in graceful entanglement behind and before, about the ruddy cheeks and white throat. The pinions of the winged god, yet fresh with the dew, are spotless upon his shoulders, the delicate plumage wavering over them as they lie at rest. Smooth he was, and, touched with light, worthy of Venus his mother. At the foot of the couch lay his bow and arrows, the instruments of his power, propitious to men.  And Psyche, gazing hungrily thereon, draws an arrow from the quiver, and trying the point upon her thumb, tremulous still, drave in the barb, so that a drop of blood came forth. Thus fell she, by her own act, and unaware, into the love of Love. Falling upon the bridegroom, with indrawn breath, in a hurry of kisses from eager and open lips, she shuddered as she thought how brief that sleep might be. And it chanced that a drop of burning oil fell from the lamp upon the god’s shoulder. Ah! maladroit minister of love, thus to wound him from whom all fire comes; though ’twas a lover, I trow, first devised thee, to have the fruit of his desire even in the darkness! At the touch of the fire the god started up, and beholding the overthrow of her faith, quietly took flight from her embraces.  And Psyche, as he rose upon the wing, laid hold on him with her two hands, hanging upon him in his passage through the air, till she sinks to the earth through weariness. And as she lay there, the divine lover, tarrying still, lighted upon a cypress tree which grew near, and, from the top of it, spake thus to her, in great emotion. “Foolish one! unmindful of the command of Venus, my mother, who had devoted thee to one of base degree, I fled to thee in his stead. Now know I that this was vainly done. Into mine own flesh pierced mine arrow, and I made thee my wife, only that I might seem a monster beside thee—that thou shouldst seek to wound the head wherein lay the eyes so full of love to thee! Again and again, I thought to put thee on thy guard concerning these things, and warned thee in loving-kindness. Now I would but punish thee by my flight hence.” And therewith he winged his way into the deep sky.  Psyche, prostrate upon the earth, and following far as sight might reach the flight of the bridegroom, wept and lamented; and when the breadth of space had parted him wholly from her, cast herself down from the bank of a river which was nigh. But the stream, turning gentle in honour of the god, put her forth again unhurt upon its margin. And as it happened, Pan, the rustic god, was sitting just then by the waterside, embracing, in the body of a reed, the goddess Canna; teaching her to respond to him in all varieties of slender sound. Hard by, his flock of goats browsed at will. And the shaggy god called her, wounded and outworn, kindly to him and said, “I am but a rustic herdsman, pretty maiden, yet wise, by favour of my great age and long experience; and if I guess truly by those faltering steps, by thy sorrowful eyes and continual sighing, thou labourest with excess of love. Listen then to me, and seek not death again, in the stream or otherwise. Put aside thy woe, and turn thy prayers to Cupid. He is in truth a delicate youth: win him by the delicacy of thy service.”  So the shepherd-god spoke, and Psyche, answering nothing, but with a reverence to his serviceable deity, went on her way. And while she, in her search after Cupid, wandered through many lands, he was lying in the chamber of his mother, heart-sick. And the white bird which floats over the waves plunged in haste into the sea, and approaching Venus, as she bathed, made known to her that her son lies afflicted with some grievous hurt, doubtful of life. And Venus cried, angrily, “My son, then, has a mistress! And it is Psyche, who witched away my beauty and was the rival of my godhead, whom he loves!”  Therewith she issued from the sea, and returning to her golden chamber, found there the lad, sick, as she had heard, and cried from the doorway, “Well done, truly! to trample thy mother’s precepts under foot, to spare my enemy that cross of anunworthy love; nay, unite her to thyself, child as thou art, that I might have a daughter-in-law who hates me! I will make thee repent of thy sport, and the savour of thy marriage bitter. There is one who shall chasten this body of thine, put out thy torch and unstring thy bow. Not till she has plucked forth that hair, into which so oft these hands have smoothed the golden light, and sheared away thy wings, shall I feel the injury done me avenged.” And with this she hastened in anger from the doors.  And Ceres and Juno met her, and sought to know the meaning of her troubled countenance. “Ye come in season,” she cried; “I pray you, find for me Psyche. It must needs be that ye have heard the disgrace of my house.”And they, ignorant of what was done, would have soothed her anger, saying, “What fault, Mistress, hath thy son committed, that thou wouldst destroy the girl he loves? Knowest thou not that he is now of age? Because he wears his years so lightly must he seem to thee ever but a child? Wilt thou for ever thus pry into the pastimes of thy son, always accusing his wantonness, and blaming in him those delicate wiles which are all thine own?” Thus, in secret fear of the boy’s bow, did they seek to please him with their gracious patronage. But Venus, angry at their light taking of her wrongs, turned her back upon them, and with hasty steps made her way once more to the sea.  Meanwhile Psyche, tost in soul, wandering hither and thither, rested not night or day in the pursuit of her husband, desiring, if she might not soothe his anger by the endearments of a wife, at the least to propitiate him with the prayers of a handmaid. And seeing a certain temple on the top of a high mountain, she said, “Who knows whether yonder place be not the abode of my lord?” Thither, therefore, she turned her steps, hastening now the more because desire and hope pressed her on, weary as she was with the labours of the way, and so, painfully measuring out the highest ridges of the mountain, drew near to the sacred couches. She sees ears of wheat, in heaps or twisted into chaplets; ears of barley also, with sickles and all the instruments of harvest, lying there in disorder, thrown at random from the hands of the labourers in the great heat. These she curiously sets apart, one by one, duly ordering them; for she said within herself, “I may not neglect the shrines, nor the holy service, of any god there be, but must rather win by supplication the kindly mercy of them all.”  And Ceres found her bending sadly upon her task, and cried aloud, “Alas, Psyche! Venus, in the furiousness of her anger, tracks thy footsteps through the world, seeking for thee to pay her the utmost penalty; and thou, thinking of anything rather than thine own safety, hast taken on thee the care of what belongs to me!” Then Psyche fell down at her feet, and sweeping the floor with her hair, washing the footsteps of the goddess in her tears, besought her mercy, with many prayers:—“By the gladdening rites of harvest, by the lighted lamps and mystic marches of the Marriage and mysterious Invention of thy daughter Proserpine, and by all beside that the holy place of Attica veils in silence, minister, I pray thee, to the sorrowful heart of Psyche! Suffer me to hide myself but for a few days among the heaps of corn, till time have softened the anger of the goddess, and my strength, out-worn in my long travail, be recovered by a little rest.”  But Ceres answered her, “Truly thy tears move me, and I would fain help thee; only I dare not incur the ill-will of my kinswoman. Depart hence as quickly as may be.” And Psyche, repelled against hope, afflicted now with twofold sorrow, making her way back again, beheld among the half-lighted woods of the valley below a sanctuary builded with cunning art. And that she might lose no way of hope, howsoever doubtful, she drew near to the sacred doors. She sees there gifts of price, and garments fixed upon the door-posts and to the branches of the trees, wrought with letters of gold which told the name of the goddess to whom they were dedicated, with thanksgiving for that she had done. So, with bent knee and hands laid about the glowing altar, she prayed saying, “Sister and spouse of Jupiter! be thou to these my desperate fortune’s Juno the Auspicious! I know that thou dost willingly help those in travail with child; deliver me from the peril that is upon me.” And as she prayed thus, Juno in the majesty of her godhead, was straightway present, and answered, “Would that I might incline favourably to thee; but against the will of Venus, whom I have ever loved as a daughter, I may not, for very shame, grant thy prayer.”  And Psyche, dismayed by this new shipwreck of her hope, communed thus with herself, “Whither, from the midst of the snares that beset me, shall I take my way once more? In what dark solitude shall I hide me from the all-seeing eye of Venus? What if I put on at length a man’s courage, and yielding myself unto her as my mistress, soften by a humility not yet too late the fierceness of her purpose? Who knows but that I may find him also whom my soul seeketh after, in the abode of his mother?”  And Venus, renouncing all earthly aid in her search, prepared to return to heaven. She ordered the chariot to be made ready, wrought for her by Vulcan as a marriage-gift, with a cunning of hand which had left his work so much the richer by the weight of gold it lost under his tool. From the multitude which housed about the bed-chamber of their mistress, white doves came forth, and with joyful motions bent their painted necks beneath the yoke. Behind it, with playful riot, the sparrows sped onward, and other birds sweet of song, making known by their soft notes the approach of the goddess. Eagle and cruel hawk alarmed not the quireful family of Venus. And the clouds broke away, as the uttermost ether opened to receive her, daughter and goddess, with great joy.  And Venus passed straightway to the house of Jupiter to beg from him the service of Mercury, the god of speech. And Jupiter refused not her prayer. And Venus and Mercury descended from heaven together; and as they went, the former said to the latter, “Thou knowest, my brother of Arcady, that never at any time have I done anything without thy help; for how long time, moreover, I have sought a certain maiden in vain. And now naught remains but that, by thy heraldry, I proclaim a reward for whomsoever shall find her. Do thou my bidding quickly.” And therewith she conveyed to him a little scrip, in the which was written the name of Psyche, with other things; and so returned home.  And Mercury failed not in his office; but departing into all lands, proclaimed that whosoever delivered up to Venus the fugitive girl, should receive from herself seven kisses—one thereof full of the inmost honey of her throat. With that the doubt of Psyche was ended. And now, as she came near to the doors of Venus, one of the household, whose name was Use-and-Wont, ran out to her, crying, “Hast thou learned, Wicked Maid! now at last! that thou hast a mistress?” And seizing her roughly by the hair, drew her into the presence of Venus. And when Venus saw her, she cried out, saying, “Thou hast deigned then to make thy salutations to thy mother-in-law. Now will I in turn treat thee as becometh a dutiful daughter-in-law!”  And she took barley and millet and poppy-seed, every kind of grain and seed, and mixed them together, and laughed, and said to her: “Methinks so plain a maiden can earn lovers only by industrious ministry: now will I also make trial of thy service. Sort me this heap of seed, the one kind from the others, grain by grain; and get thy task done before the evening.” And Psyche, stunned by the cruelty of her bidding, was silent, and moved not her hand to the inextricable heap. And there came forth a little ant, which had understanding of the difficulty of her task, and took pity upon the consort of the god of Love; and he ran deftly hither and thither, and called together the whole army of his fellows. “Have pity,” he cried, “nimble scholars of the Earth, Mother of all things!—have pity upon the wife of Love, and hasten to help her in her perilous effort.” Then, one upon the other, the hosts of the insect people hurried together; and they sorted asunder the whole heap of seed, separating every grain after its kind, and so departed quickly out of sight.  And at nightfall Venus returned, and seeing that task finished with so wonderful diligence, she cried, “The work is not thine, thou naughty maid, but his in whose eyes thou hast found favour.” And calling her again in the morning, “See now the grove,” she said, “beyond yonder torrent. Certain sheep feed there, whose fleeces shine with gold. Fetch me straightway a lock of that precious stuff, having gotten it as thou mayst.”  And Psyche went forth willingly, not to obey the command of Venus, but even to seek a rest from her labour in the depths of the river. But from the river, the green reed, lowly mother of music, spake to her: “O Psyche! pollute not these waters by self-destruction, nor approach that terrible flock; for, as the heat groweth, they wax fierce. Lie down under yon plane-tree, till the quiet of the river’s breath have soothed them. Thereafter thou mayst shake down the fleecy gold from the trees of the grove, for it holdeth by the leaves.”  And Psyche, instructed thus by the simple reed, in the humanity of its heart, filled her bosom with the soft golden stuff, and returned to Venus. But the goddess smiled bitterly, and said to her, “Well know I who was the author of this thing also. I will make further trial of thy discretion, and the boldness of thy heart. Seest thou the utmost peak of yonder steep mountain? The dark stream which flows down thence waters the Stygian fields, and swells the flood of Cocytus. Bring me now, in this little urn, a draught from its innermost source.” And therewith she put into her hands a vessel of wrought crystal.  And Psyche set forth in haste on her way to the mountain, looking there at last to find the end of her hapless life. But when she came to the region which borders on the cliff that was showed to her, she understood the deadly nature of her task. From a great rock, steep and slippery, a horrible river of water poured forth, falling straightway by a channel exceeding narrow into the unseen gulf below. And lo! creeping from the rocks on either hand, angry serpents, with their long necks and sleepless eyes. The very waters found a voice and bade her depart, in smothered cries of, Depart hence! and What doest thou here? Look around thee! and Destruction is upon thee! And then sense left her, in the immensity of her peril, as one changed to stone.  Yet not even then did the distress of this innocent soul escape the steady eye of a gentle providence. For the bird of Jupiter spread his wings and took flight to her, and asked her, “Didst thou think, simple one, even thou! that thou couldst steal one drop of that relentless stream, the holy river of Styx, terrible even to the gods? But give me thine urn.” And the bird took the urn, and filled it at the source, and returned to her quickly from among the teeth of the serpents, bringing with him of the waters, all unwilling—nay! warning him to depart away and not molest them.  And she, receiving the urn with great joy, ran back quickly that she might deliver it to Venus, and yet again satisfied not the angry goddess. “My child!” she said, “in this one thing further must thou serve me. Take now this tiny casket, and get thee down even unto hell, and deliver it to Proserpine. Tell her that Venus would have of her beauty so much at least as may suffice for but one day’s use, that beauty she possessed erewhile being foreworn and spoiled, through her tendance upon the sick-bed of her son; and be not slow in returning.”  And Psyche perceived there the last ebbing of her fortune—that she was now thrust openly upon death, who must go down, of her own motion, to Hades and the Shades. And straightway she climbed to the top of an exceeding high tower, thinking within herself, “I will cast myself down thence: so shall I descend most quickly into the kingdom of the dead.” And the tower again, broke forth into speech: “Wretched Maid! Wretched Maid! Wilt thou destroy thyself? If the breath quit thy body, then wilt thou indeed go down into Hades, but by no means return hither. Listen to me. Among the pathless wilds not far from this place lies a certain mountain, and therein one of hell’s vent-holes. Through the breach a rough way lies open, following which thou wilt come, by straight course, to the castle of Orcus. And thou must not go empty-handed. Take in each hand a morsel of barley-bread, soaked in hydromel; and in thy mouth two pieces of money. And when thou shalt be now well onward in the way of death, then wilt thou overtake a lame ass laden with wood, and a lame driver, who will pray thee reach him certain cords to fasten the burden which is falling from the ass: but be thou cautious to pass on in silence. And soon as thou comest to the river of the dead, Charon, in that crazy bark he hath, will put thee over upon the further side. There is greed even among the dead: and thou shalt deliver to him, for the ferrying, one of those two pieces of money, in such wise that he take it with his hand from between thy lips. And as thou passest over the stream, a dead old man, rising on the water, will put up to thee his mouldering hands, and pray thee draw him into the ferry-boat. But beware thou yield not to unlawful pity.  “When thou shalt be come over, and art upon the causeway, certain aged women, spinning, will cry to thee to lend thy hand to their work; and beware again that thou take no part therein; for this also is the snare of Venus, whereby she would cause thee to cast away one at least of those cakes thou bearest in thy hands. And think not that a slight matter; for the loss of either one of them will be to thee the losing of the light of day. For a watch-dog exceeding fierce lies ever before the threshold of that lonely house of Proserpine. Close his mouth with one of thy cakes; so shalt thou pass by him, and enter straightway into the presence of Proserpine herself. Then do thou deliver thy message, and taking what she shall give thee, return back again; offering to the watch-dog the other cake, and to the ferryman that other piece of money thou hast in thy mouth. After this manner mayst thou return again beneath the stars. But withal, I charge thee, think not to look into, nor open, the casket thou bearest, with that treasure of the beauty of the divine countenance hidden therein.”  So spake the stones of the tower; and Psyche delayed not, but proceeding diligently after the manner enjoined, entered into the house of Proserpine, at whose feet she sat down humbly, and would neither the delicate couch nor that divine food the goddess offered her, but did straightway the business of Venus. And Proserpine filled the casket secretly and shut the lid, and delivered it to Psyche, who fled therewith from Hades with new strength. But coming back into the light of day, even as she hasted now to the ending of her service, she was seized by a rash curiosity. “Lo! now,” she said within herself, “my simpleness! who bearing in my hands the divine loveliness, heed not to touch myself with a particle at least therefrom, that I may please the more, by the favour of it, my fair one, my beloved.” Even as she spoke, she lifted the lid; and behold! within, neither beauty, nor anything beside, save sleep only, the sleep of the dead, which took hold upon her, filling all her members with its drowsy vapour, so that she lay down in the way and moved not, as in the slumber of death.  And Cupid being healed of his wound, because he would endure no longer the absence of her he loved, gliding through the narrow window of the chamber wherein he was holden, his pinions being now repaired by a little rest, fled forth swiftly upon them, and coming to the place where Psyche was, shook that sleep away from her, and set him in his prison again, awaking her with the innocent point of his arrow. “Lo! thine old error again,” he said, “which had like once more to have destroyed thee! But do thou now what is lacking of the command of my mother: the rest shall be my care.” With these words, the lover rose upon the air; and being consumed inwardly with the greatness of his love, penetrated with vehement wing into the highest place of heaven, to lay his cause before the father of the gods. And the father of gods took his hand in his, and kissed his face and said to him, “At no time, my son, hast thou regarded me with due honour. Often hast thou vexed my bosom, wherein lies the disposition of the stars, with those busy darts of thine. Nevertheless, because thou hast grown up between these mine hands, I will accomplish thy desire.” And straightway he bade Mercury call the gods together; and, the council-chamber being filled, sitting upon a high throne, “Ye gods,” he said, “all ye whose names are in the white book of the Muses, ye know yonder lad. It seems good to me that his youthful heats should by some means be restrained. And that all occasion may be taken from him, I would even confine him in the bonds of marriage. He has chosen and embraced a mortal maiden. Let him have fruit of his love, and possess her for ever.”  Thereupon he bade Mercury produce Psyche in heaven; and holding out to her his ambrosial cup, “Take it,” he said, “and live for ever; nor shall Cupid ever depart from thee.” And the gods sat down together to the marriage-feast.  On the first couch lay the bridegroom, and Psyche in his bosom. His rustic serving-boy bare the wine to Jupiter; and Bacchus to the rest. The Seasons crimsoned all things with their roses. Apollo sang to the lyre, while a little Pan prattled on his reeds, and Venus danced very sweetly to the soft music. Thus, with due rites, did Psyche pass into the power of Cupid; and from them was born the daughter whom men call Voluptas.  So the famous story composed itself in the memory of Marius, with an expression changed in some ways from the original and on the whole graver. The petulant, boyish Cupid of Apuleius was become more like that “Lord, of terrible aspect,” who stood at Dante’s bedside and wept, or had at least grown to the manly earnestness of the Erôs of Praxiteles. Set in relief amid the coarser matter of the book, this episode of Cupid and Psyche served to combine many lines of meditation, already familiar to Marius, into the ideal of a perfect imaginative love, centered upon a type of beauty entirely flawless and clean—an ideal which never wholly faded from his thoughts, though he valued it at various times in different degrees. The human body in its beauty, as the highest potency of all the beauty of material objects, seemed to him just then to be matter no longer, but, having taken celestial fire, to assert itself as indeed the true, though visible, soul or spirit in things. In contrast with that ideal, in all the pure brilliancy, and as it were in the happy light, of youth and morning and the springtide, men’s actual loves, with which at many points the book brings one into close contact, might appear to him, like the general tenor of their lives, to be somewhat mean and sordid. The hiddenness of perfect things: a shrinking mysticism, a sentiment of diffidence like that expressed in Psyche’s so tremulous hope concerning the child to be born of the husband she had never yet seen—“in the face of this little child, at the least, shall I apprehend thine”—in hoc saltem parvulo cognoscam faciem tuam: the fatality which seems to haunt any signal+ beauty, whether moral or physical, as if it were in itself something illicit and isolating: the suspicion and hatred it so often excites in the vulgar:—these were some of the impressions, forming, as they do, a constant tradition of somewhat cynical pagan experience, from Medusa and Helen downwards, which the old story enforced on him. A book, like a person, has its fortunes with one; is lucky or unlucky in the precise moment of its falling in our way, and often by some happy accident counts with us for something more than its independent value. The Metamorphoses of Apuleius, coming to Marius just then, figured for him as indeed The Golden Book: he felt a sort of personal gratitude to its writer, and saw in it doubtless far more than was really there for any other reader. It occupied always a peculiar place in his remembrance, never quite losing its power in frequent return to it for the revival of that first glowing impression.  Its effect upon the elder youth was a more practical one: it stimulated the literary ambition, already so strong a motive with him, by a signal example of success, and made him more than ever an ardent, indefatigable student of words, of the means or instrument of the literary art. The secrets of utterance, of expression itself, of that through which alone any intellectual or spiritual power within one can actually take effect upon others, to over-awe or charm them to one’s side, presented themselves to this ambitious lad in immediate connexion with that desire for predominance, for the satisfaction of which another might have relied on the acquisition and display of brilliant military qualities. In him, a fine instinctive sentiment of the exact value and power of words was connate with the eager longing for sway over his fellows. He saw himself already a gallant and effective leader, innovating or conservative as occasion might require, in the rehabilitation of the mother-tongue, then fallen so tarnished and languid; yet the sole object, as he mused within himself, of the only sort of patriotic feeling proper, or possible, for one born of slaves. The popular speech was gradually departing from the form and rule of literary language, a language always and increasingly artificial. While the learned dialect was yearly becoming more and more barbarously pedantic, the colloquial idiom, on the other hand, offered a thousand chance-tost gems of racy or picturesque expression, rejected or at least ungathered by what claimed to be classical Latin. The time was coming when neither the pedants nor the people would really understand Cicero; though there were some indeed, like this new writer, Apuleius, who, departing from the custom of writing in Greek, which had been a fashionable affectation among the sprightlier wits since the days of Hadrian, had written in the vernacular.  The literary prog ramme which Flavian had already designed for himself would be a work, then, partly conservative or reactionary, in its dealing with the instrument of the literary art; partly popular and revolutionary, asserting, so to term them, the rights of the proletariate of speech. More than fifty years before, the younger Pliny, himself an effective witness for the delicate power of the Latin tongue, had said,—“I am one of those who admire the ancients, yet I do not, like some others, underrate certain instances of genius which our own times afford. For it is not true that nature, as if weary and effete, no longer produces what is admirable.” And he, Flavian, would prove himself the true master of the opportunity thus indicated. In his eagerness for a not too distant fame, he dreamed over all that, as the young Caesar may have dreamed of campaigns. Others might brutalise or neglect the native speech, that true “open field” for charm and sway over men. He would make of it a serious study, weighing the precise power of every phrase and  word, as though it were precious metal, disentangling the later associations and going back to the original and native sense of each,—restoring to full significance all its wealth of latent figurative expression, reviving or replacing its outworn or tarnished images. Latin literature and the Latin tongue were dying of routine and languor; and what was necessary, first of all, was to re-establish the natural and direct relationship between thought and expression, between the sensation and the term, and restore to words their primitive power.  For words, after all, words manipulated with all his delicate force, were to be the apparatus of a war for himself. To be forcibly impressed, in the first place; and in the next, to find the means of making visible to others that which was vividly apparent, delightful, of lively interest to himself, to the exclusion of all that was but middling, tame, or only half-true even to him—this scrupulousness of literary art actually awoke in Flavian, for the first time, a sort of chivalrous conscience. What care for style! what patience of execution! what research for the significant tones of ancient idiom—sonantia verba et antiqua! What stately and regular word-building—gravis et decora constructio! He felt the whole meaning of the sceptical Pliny’s somewhat melancholy advice to one of his friends, that he should seek in literature deliverance from mortality—ut studiis se literarum a mortalitate vindicet. And there was everything in the nature and the training of Marius to make him a full participator in the hopes of such a new literary school, with Flavian for its leader. In the refinements of that curious spirit, in its horror of profanities, its fastidious sense of a correctness in external form, there was something which ministered to the old ritual interest, still surviving in him; as if here indeed were involved a kind of sacred service tothe mother-tongue.  Here, then, was the theory of Euphuism, as manifested in every age in which the literary conscience has been awakened to forgotten duties towards language, towards the instrument of expression: infact it does but modify a little the principles of all effective expression at all times. ’Tis art’s function to conceal itself: ars est celare artem:—is a saying, which, exaggerated by inexact quotation, has perhaps been oftenest and most confidently quoted by those who have had little literary or other art to conceal; and from the very beginning of professional literature, the “labour of the file”—a labour in the case of Plato, for instance, or Virgil, like that of the oldest of goldsmiths as described by Apuleius, enriching the work by far more than the weight of precious metal it removed—has always had its function. Sometimes, doubtless, as in later examples of it, this Roman Euphuism, determined at any cost to attain beauty in writing—es kallos graphein+—might lapse into its characteristic fopperies or mannerisms, into the “defects of its qualities,” in truth, not wholly unpleasing perhaps, or at least excusable, when looked at as but the toys (so Cicero calls them), the strictly congenial and appropriate toys, of an assiduously cultivated age, which could not help being polite, critical, self-conscious. The mere love of novelty also had, of course, its part there: as with the Euphuism of the Elizabethan age, and of the modern French romanticists, its neologies were the ground of one of the favourite charges against it; though indeed, as regards these tricks of taste also, there is nothing new, but a quaint family likeness rather, between the Euphuists of successive ages. Here, as elsewhere, the power of “fashion,” as it is called, is but one minor form, slight enough, it may be, yet distinctly symptomatic, of that deeper yearning of human nature towards ideal perfection, which is a continuous force in it; and since in this direction too human nature is limited, such fashions must necessarilyreproduce themselves. Among other resemblances to later growths of Euphuism, its archaisms on the one hand, and its neologies on the other, the Euphuism of the days of Marcus Aurelius had, in the composition of verse, its fancy for the refrain. It was a snatch from a popular chorus, something he had heard sounding all over the town of Pisa one April night, one of the firstbland and summer-like nights of the year, that Flavian had chosen for the refrain of a poem he was then pondering—the Pervigilium Veneris—the vigil, or “nocturn,” of Venus.  Certain elderly counsellors, filling what may be thought a constant part in the little tragi-comedy which literature and its votaries are playing in all ages, would ask, suspecting some affectation or unreality in that minute culture of form:—Cannot those who have a thing to say, say it directly? Why not be simple and broad, like the old writers of Greece? And this challenge had at least the effect of setting his thoughts at  work on the intellectual situation as it lay between the children of the present and those earliest masters. Certainly, the most wonderful, the unique, point, about the Greek genius, in literature as in everything else, was the entire absence of imitation in its productions. How had the burden of precedent, laid upon every artist, increased since then! It was all around one:—that smoothly built world of old classical taste, an accomplished fact, with overwhelming authority on every detail of the conduct of one’s work. With no fardel on its own back, yet so imperious towards those who came labouring after it, Hellas, in its early freshness, looked as distant from him even then as it does from ourselves. There might seem to be no place left for novelty or originality, —place only for a patient, an infinite, faultlessness. On this question too Flavian passed through a world of curious art-casuistries, of self-tormenting, at the threshold of his work. Was poetic beauty a thing ever one and the same, a type absolute; or, changing always with the soul of time itself, did it depend upon the taste, the peculiar trick of apprehension, the fashion, as we say, of each successive age? Might one recover that old, earlier sense of it, that earlier manner, in a mas terly effort to recall all the complexities of the life, moral and intellectual, of the earlier age to which it had belonged? Had there been really bad ages in art or literature? Were all ages, even those earliest, adventurous, matutinal days, in themselves equally poetical or unpoetical; and poetry, the literary beauty, the poetic ideal, always but a borrowed light upon men’s actual life?  Homer had said—  Hoi d’hote dê limenos polybentheos entos hikonto, Histia men steilanto, thesan d’ en nêi melainê... Ek de kai autoi bainon epi phêgmini thalassês.+   And how poetic the simple incident seemed, told just thus! Homer was always telling things after this manner. And one might think there had been no effort in it: that here was but the almost mechanical transcript of a time, naturally, intrinsically, poetic, a time in which one could hardly have spoken at all without ideal effect, or, the sailors pulled down their boat without making a picture in “the great style,” against a sky charged with marvels. Must not the mere prose of an age, itself thus ideal, have coun ted for more than half of Homer’s poetry? Or might the closer student discover even here, even in Homer, the really mediatorial function of the poet, as between the reader and the actual matter of his experience; the poet waiting, so to speak, in an age which had felt itself trite and commonplace enough, on his opportunity for the touch of “golden alchemy,” or at least for the pleasantly lighted side of things themselves? Might not another, in one’s own prosaic and used-up time, so uneventful as it had been through the long reign of these quiet Antonines, in like manner, discover his ideal, by a due waiting upon it? Would not a future generation, looking back upon this, under the power of the enchanted-distance fallacy, find it ideal to view, in contrast with its own languor—the languor that for some reason (concerning which Augustine will one day have his view) seemed to haunt men always? Had Homer, even, appeared unreal and affected in his poetic flight, to some of the people of his own age, as seemed to happen with every new literature in turn? In any case, the intellectual conditions of early Greece had been—how different from these! And a true literary tact would accept that difference in forming the primary conception of the literary function at a later time. Perhaps the utmost one could get by conscious effort, in the way of a reaction or return to the conditions of an earlier and fresher age, would be but novitas, artificial artlessness, naïveté; and this quality too might have its measure of euphuistic charm, direct and sensible enough, though it must count, in comparison with that genuine early Greek newness at the beginning, not as the freshness of the open fields, but only of a bunch of field-flowers in a heated room.  There was, meantime, all this:—on one side, the old pagan culture, for us but a fragment, for him an accomplished yet present fact, still a living, united, organic whole, in the entirety of its art, its thought, its religions, its sagacious forms of polity, that so weighty authority it exercised on every point, being in reality only the measure of its charm for every one: on the other side, the actual world in all its eager self-assertion, with Flavian himself, in his boundless animation, there, at the centre of the situation. From the natural defects, from the pettiness, of his euphuism, his assiduous cultivation of manner, he was saved by the consciousness that he had a matter to present, very real, at least to him. That preoccupation of the dilettante with what might seem mere details of form, after all, did but serve the purpose of bringing to the surface, sincerely and in their integrity, certain strong personal intuitions, a certain vision or apprehension of things as really being, with important results, thus, rather than thus,—intuitions which the artistic or literary faculty was called upon to follow, with the exactness of wax or clay, clothing the model within. Flavian too, with his fine clear mastery of the practically effective, had early laid hold of the principle, as axiomatic in literature: that to know when one’s self is interested, is the first condition of interesting other people. It was a principle, the forcible apprehension of which made him jealous and fastidious in the selection of his intellectual food; often listless while others read or gazed diligently; never pretending to be moved out of mere complaisance to people’s emotions: it served to foster in him a very scrupulous literary sincerity with himself. And it was this uncompromising demand for a matter, in all art, derived immediately from lively personal intuition, this constant appeal to individual judgment, which saved his euphuism, even at its weakest, from lapsing into mere artifice.  Was the magnificent exordium of Lucretius, addressed to the goddess Venus, the work of his earlier manhood, and designed originally to open an argument less persistently sombre than that protest against the whole pagan heaven which actually follows it? It is certainly the most typical expression of a mood, still incident to the young poet, as a thing peculiar to his youth, when he feels the sentimental current setting forcibly along his veins, and so much as a matter of purely physical excitement, that he can hardly distinguish it from the animation of external nature, the upswelling of the seed in the earth, and of the sap through the trees. Flavian, to whom, again, as to his later euphuistic kinsmen, old mythology seemed as full of untried, unexpressed motives and interest as human life itself, had long been occupied with a kind of mystic hymn to the vernal principle of life in things; a composition shaping itself, little by little, out of a thousand dim perceptions, into singularly definite form (definite and firm as fine-art in metal, thought Marius) for which, as I said, he had caught his “refrain,” from the lips of the young men, singing because they could not help it, in the streets of Pisa. And as oftenest happens also, with natures of genuinely poetic quality, those piecemeal beginnings came suddenly to harmonious completeness among the fortunate incidents, the physical heat and light, of one singularly happy day.  It was one of the first hot days of March—“the sacred day”—on which, from Pisa, as from many another harbour on the Mediterranean, the Ship of Isis went to sea, and every one walked down to the shore-side to witness the freighting of the vessel, its launching and final abandonment among the waves, as an object really devoted to the Great Goddess, that new rival, or “double,” of ancient Venus, and like her a favourite patroness of sailors. On the evening next before, all the world had been abroad to view the illumination of the river; the stately lines of building being wreathed with hundreds of many-coloured lamps. The young men had poured forth their chorus—  Cras amet qui nunquam amavit, Quique amavit cras amet—   as they bore their torches through the yielding crowd, or rowed their lanterned boats up and down the stream, till far into the night, when heavy rain-drops had driven the last lingerers home. Morning broke, however, smiling and serene; and the long procession started betimes. The river, curving slightly, with the smoothly paved streets on either side, between its low marble parapet and the fair dwelling-houses, formed the main highway of the city; and the pageant, accompanied throughout by innumerable lanterns and wax tapers, took its course up one of these streets, crossing the water by a bridge up-stream, and down the other, to the haven, every possible standing-place, out of doors and within, being crowded with sight-seers, of whom Marius was one of the most eager, deeply interested in finding the spectacle much as Apuleius had described it in his famous book.  At the head of the procession, the master of ceremonies, quietly waving back the assistants, made way for a number of women, scattering perfumes. They were succeeded by a company of musicians, piping and twanging, on instruments the strangest Marius had ever beheld, the notes of a hymn, narrating the first origin of this votive rite to a choir of youths, who marched behind them singing it. The tire-women and other personal attendants of the great goddess came next, bearing the instruments of their ministry, and various articles from the sacred wardrobe, wrought of the most precious material; some of them with long ivory combs, plying their hands in wild yet graceful concert of movement as they went, in devout mimicry of the toilet. Placed in their rear were the mirror-bearers of the goddess, carrying large mirrors of beaten brass or silver, turned in such a way as to reflect to the great body of worshippers who followed, the face of the mysterious image, as it moved on its way, and their faces to it, as though they were in fact advancing to meet the heavenly visitor. They comprehended a multitude of both sexes and of all ages, already initiated into the divine secret, clad in fair linen, the females veiled, the males with shining tonsures, and every one carrying a sistrum—the richer sort of silver, a few very dainty persons of fine gold—rattling the reeds, with a noise like the jargon of innumerable birds and insects awakened from torpor and abroad in the spring sun. Then, borne upon a kind of platform, came the goddess herself, undulating above the heads of the multitude as the bearers walked, in mystic robe embroidered with the moon and stars, bordered gracefully with a fringe of real fruit and flowers, and with a glittering crown upon the head. The train of the procession consisted of the priests in long white vestments, close from head to foot, distributed into various groups, each bearing, exposed aloft, one of the sacred symbols of Isis—the corn-fan, the golden asp, the ivory hand of equity, and among them the votive ship itself, carved and gilt, and adorned bravely with flags flying. Last of all walked the high priest; the people kneeling as he passed to kiss his hand, in which were those well-remembered roses.  Marius followed with the rest to the harbour, where the mystic ship, lowered from the shoulders of the priests, was loaded with as much as it could carry of the rich spices and other costly gifts, offered in great profusion by the worshippers, and thus, launched at last upon the water, left the shore, crossing the harbour-bar in the wake of a much stouter vessel than itself with a crew of white-robed mariners, whose function it was, at the appointed moment, finally to desert it on the open sea.  The remainder of the day was spent by most in parties on the water. Flavian and Marius sailed further than they had ever done before to a wild spot on the bay, the traditional site of a little Greek colony, which, having had its eager, stirring life at the time when Etruria was still a power in Italy, had perished in the age of the civil wars. In the absolute transparency of the air on this gracious day, an infinitude of detail from sea and shore reached the eye with sparkling clearness, as the two lads sped rapidly over the waves—Flavian at work suddenly, from time to time, with his tablets. They reached land at last. The coral fishers had spread their nets on the sands, with a tumble-down of quaint, many-hued treasures, below a little shrine of Venus, fluttering and gay with the scarves and napkins and gilded shells which these people had offered to the image. Flavian and Marius sat down under the shadow of a mass of gray rock or ruin, where the sea-gate of the Greek town had been, and talked of life in those old Greek colonies. Of this place, all that remained, besides those rude stones, was—a handful of silver coins, each with a head of pure and archaic beauty, though a little cruel perhaps, supposed to represent the Siren Ligeia, whose tomb was formerly shown here—only these, and an ancient song, the very strain which Flavian had recovered in those last months. They were records which spoke, certainly, of the charm of life within those walls. How strong must have been the tide of men’s existence in that little republican town, so small that this circle of gray stones, of service now only by the moisture they gathered for the blue-flowering gentians among them, had been the line of its rampart! An epitome of all that was liveliest, most animated and adventurous, in the old Greek people of which it was an offshoot, it had enhanced the effect of these gifts by concentration within narrow limits. The band of “devoted youth,”—hiera neotês.+—of the younger brothers, devoted to the gods and whatever luck the gods might afford, because there was no room for them at home—went forth, bearing the sacred flame from the mother hearth; itself a flame, of power to consume the whole material of existence in clear light and heat, with no smouldering residue. The life of those vanished townsmen, so brilliant and revolutionary, applying so abundantly the personal qualities which alone just then Marius seemed to value, associated itself with the actual figure of his companion, standing there before him, his face enthusiastic with the sudden thought of all that; and struck him vividly as precisely the fitting opportunity for a nature like his, so hungry for control, for ascendency over men.  Marius noticed also, however, as high spirits flagged at last, on the way home through the heavy dew of the evening, more than physical fatigue in Flavian, who seemed to find no refreshment in the coolness. There had been something feverish, perhaps, and like the beginning of sickness, about his almost forced gaiety, in this sudden spasm of spring; and by the evening of the next day he was lying with a burning spot on his forehead, stricken, as was thought from the first, by the terrible new disease.  NOTES   93. +Corrected from the Macmillan edition misprint “singal.”   98. +Transliteration: es kallos graphein. Translation: “To write beautifully.”Iliad 1.432-33, 437. Transliteration:   Hoi d’ hote dê limenos polybentheos entos hikonto, Histia men steilanto, thesan d’ en nêi melainê... Ek de kai autoi bainon epi phêgmini thalassês.   Etext editor’s translation:   When they had safely made deep harbor They took in the sail, laid it in their black ship... And went ashore just past the breakers.   109. +Transliteration: hiera neotês. Pater translates the phrase, “devoted youth.” For the fantastical colleague of the philosophic emperor Marcus Aurelius, returning in triumph from the East, had brought in his train, among the enemies of Rome, one by no means a captive. People actually sickened at a sudden touch of the unsuspected foe, as they watched in dense crowds the pathetic or grotesque imagery of failure or success in the triumphal procession. And, as usual, the plague brought with it a power to develop all pre-existent germs of superstition. It was by dishonour done to Apollo himself, said popular rumour—to Apollo, the old titular divinity of pestilence, that the poisonous thing had come abroad. Pent up in a golden coffer consecrated to the god, it had escaped in the sacrilegious plundering of his temple at Seleucia by the soldiers of Lucius Verus, after a traitorous surprise of that town and a cruel massacre. Certainly there was something which baffled all imaginable precautions and all medical science, in the suddenness with which the disease broke out simultaneously, here and there, among both soldiers and citizens, even in places far remote from the main line of its march in the rear of the victorious army. It seemed to have invaded the whole empire, and some have even thought that, in a mitigated form, it permanently remained there. In Rome itself many thousands perished; and old authorities tell of farmsteads, whole towns, and even entire neighbourhoods, which from that time continued without inhabitants and lapsed into wildness or ruin.  Flavian lay at the open window of his lodging, with a fiery pang in the brain, fancying no covering thin or light enough to be applied to his body. His head being relieved after a while, there was distress at the chest. It was but the fatal course of the strange new sickness, under many disguises; travelling from the brain to the feet, like a material resident, weakening one after another of the organic centres; often, when it did not kill, depositing various degrees of lifelong infirmity in this member or that; and after such descent, returning upwards again, now as a mortal coldness, leaving the entrenchments of the fortress of life overturned, one by one, behind it.  Flavian lay there, with the enemy at his breast now in a painful cough, but relieved from that burning fever in the head, amid the rich-scented flowers—rare Paestum roses, and the like —procured by Marius for his solace, in a fancied convalescence; and would, at intervals, return to labour at his verses, with a great eagerness to complete and transcribe the work, while Marius sat and wrote at his dictation, one of the latest but not the poorest specimens of genuine Latin poetry.  It was in fact a kind of nuptial hymn, which, taking its start from the thought of nature as the universal mother, celebrated the preliminary pairing and mating together of all fresh things, in the hot and genial spring-time—the immemorial nuptials of the soul of spring itself and the brown earth; and was full of a delighted, mystic sense of what passed between them in that fantastic marriage. That mystic burden was relieved, at intervals, by the familiar playfulness of the Latin verse-writer in dealing with mythology, which, though coming at so late a day, had still a wonderful freshness in its old age.—“Amor has put his weapons by and will keep holiday. He was bidden go without apparel, that none might be wounded by his bowand arrows. But take care! In truth he is none the less armed than usual, though he be all unclad.”  In the expression of all this Flavian seemed, while making it his chief aim to retain the opulent, many-syllabled vocabulary of the Latin genius, at some points even to have advanced beyond it, in anticipation of wholly new laws of taste as regards sound, a new range of sound itself. The peculiar resultant note, associating itself with certain other experiences of his, was to Marius like the foretaste of an entirely novel world of poetic beauty to come. Flavian had caught, indeed, something of the rhyming cadence, the sonorous organ-music of the medieval Latin, and therewithal something of its unction and mysticity of spirit. There was in his work, along with the last splendour of the classical language, a touch, almost prophetic, of that transformed life it was to have in the rhyming middle age, just about to dawn. The impression thus forced upon Marius connected itself with a feeling, the exact inverse of that, known to every one, which seems to say, You have been just here, just thus, before!—a feeling, in his case, not reminiscent but prescient of the future, which passed over him afterwards many times, as he came across certain places and people. It was as if he detected there the process of actual change to a wholly undreamed-of and renewed condition of human body and soul: as if he saw the heavy yet decrepit old Roman architectureabout him, rebuilding on an intrinsically better pattern. Could it have been actually on a new musical instrument that Flavian had first heard the novel accents of his verse? And still Marius noticed there, amid all its richness of expression and imagery, that firmness of outline he had always relished so much in the composition of Flavian. Yes! a firmness like that of some master of noble metal-work, manipulating tenacious bronze or gold. Even now that haunting refrain, with its impromptu variations, from the throats of those strong young men, came floating through the window.  Cras amet qui nunquam amavit, Quique amavit cras amet!   —repeated Flavian, tremulously, dictating yet one stanza more.  What he was losing, his freehold of a soul and body so fortunately endowed, the mere liberty of life above-ground, “those sunny mornings in the cornfields by the sea,” as he recollected them one day, when the window was thrown open upon the early freshness—his sense of all this, was from the first singularly near and distinct, yet rather as of something he was but debarred the use of for a time than finally bidding farewell to. That was while he was still with no very grave misgivings as to the issue of his sickness, and felt the sources of life still springing essentially unadulterate within him. From time to time, indeed, Marius, labouring eagerly at the poem from his dictation, was haunted by a feeling of the triviality of such work just then. The recurrent sense of some obscure danger beyond the mere danger of death, vaguer than that and by so much the more terrible, like the menace of some shadowy adversary in the dark with whose mode of attack they had no acquaintance, disturbed him now and again through those hours of excited attention to his manuscript, and to the purely physical wants of Flavian. Still, during these three days there was much hope and cheerfulness, and even jesting. Half-consciously Marius tried to prolong one or another relieving circumstance of the day, the preparations for rest and morning refreshment, for instance; sadly making the most of the little luxury of this or that, with something of the feigned cheer of the mother who sets her last morsels before her famished child as for a feast, but really that he “may eat it and die.”  On the afternoon of the seventh day he allowed Marius finally to put aside the unfinished manuscript. For the enemy, leaving the chest quiet at length though much exhausted, had made itself felt with full power again in a painful vomiting, which seemed to shake his body asunder, with great consequent prostration. From that time the distress increased rapidly downwards. Omnia tum vero vitai claustra lababant;+ and soon the cold was mounting with sure pace from the dead feet to the head.  And now Marius began more than to suspect what the issue must be, and henceforward could but watch with a sort of agonised fascination the rapid but systematic work of the destroyer, faintly relieving a little the mere accidents of the sharper forms of suffering. Flavian himself appeared, in full consciousness at last—in clear-sighted, deliberate estimate of the actual crisis—to be doing battle with his adversary. His mind surveyed, with great distinctness, the various suggested modes of relief. He must without fail get better, he would fancy, might he be removed to a certain place on the hills where as a child he had once recovered from sickness, but found that he could scarcely raise his head from the pillow without giddiness. As if now surely foreseeing the end, he would set himself, with an eager effort, and with that eager and angry look, which is noted as one of the premonitions of death in this disease, to fashion out, without formal dictation, still a few more broken verses of his unfinished work, in hard-set determination, defiant of pain, to arrest this or that little drop at least from the river of sensuous imagery rushing so quickly past him.  But at length delirium—symptom that the work of the plague was done, and the last resort of life yielding to the enemy—broke the coherent order of words and thoughts; and Marius, intent on the coming agony, found his best hope in the increasing dimness of the patient’s mind. In intervals of clearer consciousness the visible signs of cold, of sorrow and desolation, were very painful. No longer battling with the disease, he seemed as it were to place himself at the disposal of the victorious foe, dying passively, like some dumb creature, in hopeless acquiescence at last. That old, half-pleading petulance, unamiable, yet, as it might seem, only needing conditions of life a little happier than they had actually been, to become refinement of affection, a delicate grace in its demand on the sympathy of others, had changed in those moments of full intelligence to a clinging and tremulous gentleness, as he lay—“on the very threshold of death”—with a sharply contracted hand in the hand of Marius, to his almost surprised joy, winning him now to an absolutely self-forgetful devotion. There was a new sort of pleading in the misty eyes, just because they took such unsteady note of him, which made Marius feel as if guilty; anticipating thus a form of self-reproach with which even the tenderest ministrant may be sometimes surprised, when, at death, affectionate labour suddenly ceasing leaves room for the suspicion of some failure of love perhaps, at one or another minute point in it. Marius almost longed to take his share in the suffering, that he might understand so the better how to relieve it.  It seemed that the light of the lamp distressed the patient, and Marius extinguished it. The thunder which had sounded all day among the hills, with a heat not unwelcome to Flavian, had given way at nightfall to steady rain; and in the darkness Marius lay down beside him, faintly shivering now in the sudden cold, to lend him his own warmth, undeterred by the fear of contagion which had kept other people from passing near the house. At length about day-break he perceived that the last effort had come with a revival of mental clearness, as Marius understood by the contact, light as it was, in recognition of him there. “Is it a comfort,” he whispered then, “that I shall often come and weep over you?”—“Not unless I be aware, and hear you weeping!”  The sun shone out on the people going to work for a long hot day, and Marius was standing by the dead, watching, with deliberate purpose to fix in his memory every detail, that he might have this picture in reserve, should any hour of forgetfulness hereafter come to him with the temptation to feel completely happy again. A feeling of outrage, of resentment against nature itself, mingled with an agony of pity, as he noted on the now placid features a certain look of humility, almost abject, like the expression of a smitten child or animal, as of one, fallen at last, after bewildering struggle, wholly under the power of a merciless adversary. From mere tenderness of soul he would not forget one circumstance in all that; as a man might piously stamp on his memory the death-scene of a brother wrongfully condemned to die, against a time that may come.  The fear of the corpse, which surprised him in his effort to watch by it through the darkness, was a hint of his own failing strength, just in time. The first night after the washing of the body, he bore stoutly enough the tax which affection seemed to demand, throwing the incense from time to time on the little altar placed beside the bier. It was the recurrence of the thing—that unchanged outline below the coverlet, amid a silence in which the faintest rustle seemed to speak—that finally overcame his determination. Surely, here, in this alienation, this sense of distance between them, which had come over him before though in minor degree when the mind of Flavian had wandered in his sickness, was another of the pains of death. Yet he was able to make all due preparations, and go through the ceremonies, shortened a little because of the infection, when, on a cloudless evening, the funeral procession went forth; himself, the flames of the pyre having done their work, carrying away the urn of the deceased, in the folds of his toga, to its last resting-place in the cemetery beside the highway, and so turning home to sleep in his own desolate lodging.  Quis desiderio sit pudor aut modus     Tam cari capitis?—+   What thought of others’ thoughts about one could there be with the regret for “so dear a head” fresh at one’s heart?  NOTES   116. +Lucretius, Book VI.1153.   120. +Horace, Odes I.xxiv.1-2.  Animula, vagula, blandula Hospes comesque corporis, Quae nunc abibis in loca? Pallidula, rigida, nudula.   The Emperor Hadrian to his Soul   Flavian was no more. The little marble chest with its dust and tears lay cold among the faded flowers. For most people the actual spectacle of death brings out into greater reality, at least for the imagination, whatever confidence they may entertain of the soul’s survival in another life. To Marius, greatly agitated by that event, the earthly end of Flavian came like a final revelation of nothing less than the soul’s extinction. Flavian had gone out as utterly as the fire among those still beloved ashes. Even that wistful suspense of judgment expressed by the dying Hadrian, regarding further stages of being still possible for the soul in some dim journey hence, seemed wholly untenable, and, with it, almost all that remained of the religion of his childhood. Future extinction seemed just then to be what the unforced witness of his own nature pointed to. On the other hand, there came a novel curiosity as to what the various schools of ancient philosophy had had to say concerning that strange, fluttering creature; and that curiosity impelled him to certain severe studies, in which his earlier religious conscience seemed still to survive, as a principle of hieratic scrupulousness or integrity of thought, regarding this new service to intellectual light.  At this time, by his poetic and inward temper, he might have fallen a prey to the enervating mysticism, then in wait for ardent souls in many a melodramatic revival of old religion or theosophy. From all this, fascinating as it might actually be to one side of his character, he was kept by a genuine virility there, effective in him, among other results, as a hatred of what was theatrical, and the instinctive recognition that in vigorous intelligence, after all, divinity was most likely to be found a resident. With this was connected the feeling, increasing with his advance to manhood, of a poetic beauty in mere clearness of thought, the actually aesthetic charm of a cold austerity of mind; as if the kinship of that to the clearness of physical light were something more than a figure of speech. Of all those various religious fantasies, as so many forms of enthusiasm, he could well appreciate the picturesque; that was made easy by his natural Epicureanism, already prompting him to conceive of himself as but the passive spectator of the world around him. But it was to the severer reasoning, of which such matters as Epicurean theory are born, that, in effect, he now betook himself. Instinctively suspicious of those mechanical arcana, those pretended “secrets unveiled” of the professional mystic, which really bring great and little souls to one level, for Marius the only possible dilemma lay between that old, ancestral Roman religion, now become so incredible to him and the honest action of his own untroubled, unassisted intelligence. Even the Arcana Celestia of Platonism—what the sons of Plato had had to say regarding the essential indifference of pure soul to its bodily house and merely occasional dwelling-place—seemed to him while his heart was there in the urn with the material ashes of Flavian, or still lingering in memory over his last agony, wholly inhuman or morose, as tending to alleviate his resentment at nature’s wrong. It was to the sentiment of the body, and the affections it defined—the flesh, of whose force and colour that wandering Platonic soul was but so frail a residue or abstract—he must cling. The various pathetic traits of the beloved, suffering, perished body of Flavian, so deeply pondered, had made him a materialist, but with something of the temper of a devotee.  As a consequence it might have seemed at first that his care for poetry had passed away, to be replaced by the literature of thought. His much-pondered manuscript verses were laid aside; and what happened now to one, who was certainly to be something of a poet from first to last, looked at the moment like a change from poetry to prose. He came of age about this time, his own master though with beardless face; and at eighteen, an age at which, then as now, many youths of capacity, who fancied themselves poets, secluded themselves from others chiefly in affectation and vague dreaming, he secluded himself indeed from others, but in a severe intellectual meditation, that salt of poetry, without which all the more serious charm is lacking to the imaginative world. Still with something of the old religious earnestness of hischildhood, he set himself—Sich im Denken zu orientiren—to determine his bearings, as by compass, in the world of thought—to get that precise acquaintance with the creative intelligence itself, its structure and capacities, its relation to other parts of himself and to other things, without which, certainly, no poetry can be masterly. Like a young man rich in this world’s goods coming of age, he must go into affairs, and ascertain his outlook. There must be no disguises. An exact estimate of realities, as towards himself, he must have—a delicately measured gradation of certainty in things—from the distant, haunted horizon of mere surmise or imagination, to the actual feeling of sorrow in his heart, as he reclined one morning, alone instead of in pleasant company, to ponder the hard sayings of an imperfect old Greek manuscript, unrolled beside him. His former gay companions, meeting him in the streets of the old Italian town, and noting the graver lines coming into the face of the sombre but enthusiastic student of intellectual structure, who could hold his own so well in the society of accomplished older men, were half afraid of him, though proud to have him of their company. Why this reserve?—they asked, concerning the orderly, self-possessed youth, whose speech and carriage seemed so carefully measured, who was surely no poet like the rapt, dishevelled Lupus. Was he secretly in love, perhaps, whose toga was so daintily folded, and who was always as fresh as the flowers he wore; or bent on his own line of ambition: or even on riches?  Marius, meantime, was reading freely, in early morning for the most part, those writers chiefly who had made it their business to know what might be thought concerning that strange, enigmatic, personal essence, which had seemed to go out altogether, along with the funeral fires. And the old Greek who more than any other was now giving form to his thoughts was a very hard master. From Epicurus, from the thunder and lightning of Lucretius—like thunder and lightning some distance off, one might recline to enjoy, in a garden of roses—he had gone back to the writer who was in a ce rtain sense the teacher of both, Heraclitus of Ionia. His difficult book “Concerning Nature” was even then rare, for people had long since satisfied themselves by the quotation of certain brilliant, isolated, oracles only, out of what was at best a taxing kind of lore. But the difficulty of the early Greek prose did but spur the curiosity of Marius; the writer, the superior clearness of whose intellectual view had so sequestered him from other men, who had had so little joy of that superiority, being avowedly exacting as to the amount of devout attention he required from the student. “The many,” he said, always thus emphasising the difference between the many and the few, are “like people heavy with wine,” “led by children,” “knowing not whither they go;” and yet, “much learning doth not make wise;” and again, “the ass, after all, would have his thistles rather than fine gold.”  Heraclitus, indeed, had not under-rated the difficulty for “the many” of the paradox with which his doctrine begins, and the due reception of which must involve a denial of habitual impressions, as the necessary first step in the way of truth. His philosophy had been developed in conscious, outspoken opposition to the current mode of thought, as a matter requiring some exceptional loyalty to pure reason and its “dry light.” Men are subject to an illusion, he protests, regarding matters apparent to sense. What the uncorrected sense gives was a false impression of permanence or fixity in things, which have really changed their nature in the very moment in which we see and touch them. And the radical flaw in the current mode of thinking would lie herein: that, reflecting this false or uncorrected sensation, it attributes to the phenomena of experience a durability which does not really belong to them. Imaging forth from those fluid impressions a world of firmly out-lined objects, it leads one to regard as a thing stark and dead what is in reality full of animation, of vigour, of the fire of life—that eternal process of nature, of which at a later time Goethe spoke as the “Living Garment,” whereby God is seen of us, ever in weaving at the “Loom of Time.”  And the appeal which the old Greek thinker made was, in the first instance, from confused to unconfused sensation; with a sort of prophetic seriousness, a great claim and assumption, such as we may understand, if we anticipate in this preliminary scepticism the ulterior scope of his speculation, according to which the universal movement of all natural things is but one particular stage, or measure, of that ceaseless activity wherein the divine reason consists. The one true being—that constant subject of all early thought—it was his merit to have conceived, not as sterile and stagnant inaction, but as a perpetual energy, from the restless stream of which, at certain points, some elements detach themselves, and harden into non-entity and death, corresponding, as outward objects, to man’s inward condition of ignorance: that is, to the slowness of his faculties. It is with this paradox of a subtle, perpetual change in all visible things, that the high speculation of Heraclitus begins. Hence the scorn he expresses for anything like a careless, half-conscious, “use-and-wont” reception of our experience, which took so strong a hold on men’s memories! Hence those many precepts towards a strenuous self-consciousness in all we think and do, that loyalty to cool and candid reason, which makes strict attentiveness of mind a kind of religious duty and service.  The negative doctrine, then, that the objects of our ordinary experience, fixed as they seem, are really in perpetual change, had been, as originally conceived, but the preliminary step towards a large positive system of almost religious philosophy. Then as now, the illuminated philosophic mind might apprehend, in what seemed a mass of lifeless matter, the movement of that universal life, in which things, and men’s impressions of them, were ever “coming to be,” alternately consumed and renewed. That continual change, to be discovered by the attentive understanding where common opinion found fixed objects, was but the indicator of a subtler but all-pervading motion—the sleepless, ever-sustained, inexhaustible energy of the divine reason itself, proceeding always by its own rhythmical logic, and lendingto all mind and matter, in turn, what life they had. In this “perpetual flux” of things and of souls, there was, as Heraclitus conceived, a continuance, if not of their material or spiritual elements, yet of orderly intelligible relationships, like the harmony of musical notes, wrought out in and through the series of their mutations—ordinances of the divine reason, maintained throughout the changes of the phenomenal world; and this harmony in their mutation and opposition, was, after all, a principle of sanity, of reality, there. But it happened, that, of all this, the first, merely sceptical or negative step, that easiest step on the threshold, had alone remained in general memory; and the “doctrine of motion” seemed to those who had felt its seduction to make all fixed knowledge impossible. The swift passage of things, the still swifter passage of those modes of our conscious being which seemed to reflect them, might indeed be the burning of the divine fire: but what was ascertained was that they did pass away like a devouring flame, or like the race of water in the mid-stream—too swiftly for any real knowledge of them to be attainable. Heracliteanism had grown to be almost identical with the famous doctrine of the sophist Protagoras, that the momentary, sensible apprehension of the individual was the only standard of what is or is not, and each one the measure of all things to himself. The impressive name of Heraclitus had become but an authority for a philosophy of the despair of knowledge.  And as it had been with his original followers in Greece, so it happened now with the later Roman disciple. He, too, paused at the apprehension of that constant motion of things—the drift of flowers, of little or great souls, of ambitious systems, in the stream around him, the first source, the ultimate issue, of which, in regions out of sight, must count with him as but a dim problem. The bold mental flight of the old Greek master from the fleeting, competing objects of experience to that one universal life, in which the whole sphere of physical change might be reckoned as but a single pulsation, remained by him as hypothesis only—the hypothesis he actually preferred, as in itself most credible, however scantily realisable even by the imagination—yet still as but one unverified hypothesis, among many others, concerning the first principle of things. He might reserve it as a fine, high, visionary consideration, very remote upon the intellectual ladder, just at the point, indeed, where that ladder seemed to pass into the clouds, but for which there was certainly no time left just now by his eager interest in the real objects so close to him, on the lowlier earthy steps nearest the ground. And those childish days of reverie, when he played at priests, played in many another day-dream, working his way from the actual present, as far as he might, with a delightful sense of escape in replacing the outer world of other people by an inward world as himself really cared to have it, had made him a kind of “idealist.” He was become aware of the possibility of a large dissidence between an inward and somewhat exclusive world of vivid personal apprehension, and the unimproved, unheightened reality of the life of those about him. As a consequence, he was ready now to concede, somewhat more easily than others, the first point of his new lesson, that the individual is to himself the measure of all things, and to rely on the exclusive certainty to himself of his own impressions. To move afterwards in that outer world of other people, as though taking it at their estimate, would be possible henceforth only as a kind of irony. And as with the Vicaire Savoyard, after reflecting on the variations of philosophy, “the first fruit he drew from that reflection was the lesson of a limitation of his researches to what immediately interested him; to rest peacefully in a profound ignorance as to all beside; to disquiet himself only concerning those things which it was of import for him to know.” At least he would entertain no theory of conduct which did not allow its due weight to this primary element of incertitude or negation, in the conditions of man’s life. Just here he joined company, retracing in his individual mental pilgrimage the historic order of human thought, with another wayfarer on the journey, another ancient Greek master, the founder of the Cyrenaic philosophy, whose weighty traditional utterances (for he had left no writing) served in turn to give effective outline to the contemplations of Marius. There was something in the doctrine itself congruous with the place wherein it had its birth; and for a time Marius lived much, mentally, in the brilliant Greek colony which had given a dubious name to the philosophy of pleasure. It hung, for his fancy, between the mountains and the sea, among richer than Italian gardens, on a certain breezy table-land projecting from the African coast, some hundreds of miles southward from Greece. There, in a delightful climate, with something of transalpine temperance amid its luxury, and withal in an inward atmosphere of temperance which did but further enhance the brilliancy of human life, the school of Cyrene had maintained itself as almost one with the family of its founder; certainly as nothing coarse or unclean, and under the influence of accomplished women.  Aristippus of Cyrene too had left off in suspense of judgment as to what might really lie behind—flammantia moenia mundi: the flaming ramparts of the world. Those strange, bold, sceptical surmises, which had haunted the minds of the first Greek enquirers as merely abstract doubt, which had been present to the mind of Heraclitus as one element only in a system of abstract philosophy, became with Aristippus a very subtly practical worldly-wisdom. The difference between him and those obscure earlier thinkers is almost like that between an ancient thinker generally, and a modern man of the world: it was the difference between the mystic in his cell, or the prophet in the desert, and the expert, cosmopolitan, administrator of his dark sayings, translating the abstract thoughts of the master into terms, first of all, of sentiment. It has been sometimes seen, in the history of the human mind, that when thus translated into terms of sentiment—of sentiment, as lying already half-way towards practice—the abstract ideas of metaphysics for the first time reveal their true significance. The metaphysical principle, in itself, as it were, without hands or feet, becomes impressive, fascinating, of effect, when translated into a precept as to how it were best to feel and act; in other words, under its sentimental or ethical equivalent. The leading idea of the great master of Cyrene, his theory that things are but shadows, and that we, even as they, never continue in one stay, might indeed have taken effect as a languid, enervating, consumptive nihilism, as a precept of “renunciation,” which would touch and handle and busy itself with nothing. But in the reception of metaphysical formulae, all depends, as regards their actual and ulterior result, on the pre-existent qualities of that soil of human nature into which they fall—the company they find already present there, on their admission into the house of thought; there being at least so much truth as this involves in the theological maxim, that the reception of this or that speculative conclusion is really a matter of will. The persuasion that all is vanity, with this happily constituted Greek, who had been a genuine disciple of Socrates and reflected, presumably, something of his blitheness in the face of the world, his happy way of taking all chances, generated neither frivolity nor sourness, but induced, rather, an impression, just serious enough, of the call upon men’s attention of the crisis in which they find themselves. It became the stimulus towards every kind of activity, and prompted a perpetual, inextinguishable thirst after experience.  With Marius, then, the influence of the philosopher of pleasure depended on this, that in him an abstract doctrine, originally somewhat acrid, had fallen upon a rich and genial nature, well fitted to transform it into a theory of practice, of considerable stimulative power towards a fair life. What Marius saw in him was the spectacle of one of the happiest temperaments coming, so to speak, to an understanding with the most depressing of theories; accepting the results of a metaphysical system which seemed to concentrate into itself all the weakening trains of thought in earlier Greek speculation, and making the best of it; turning its hard, bare truths, with wonderful tact, into precepts of grace, and delicate wisdom, and a delicate sense of honour. Given the hardest terms, supposing our days are indeed but a shadow, even so, we may well adorn and beautify, in scrupulous self-respect, our souls, and whatever our souls touch upon—these wonderful bodies, these material dwelling-places through which the shadows pass together for a while, the very raiment we wear, our very pastimes and the intercourse of society. The most discerning judges saw in him something like the graceful “humanities” of the later Roman, and our modern “culture,” as it is termed; while Horace recalled his sayings as expressing best his own consummate amenity in the reception of life.  In this way, for Marius, under the guidance of that old master of decorous living, those eternal doubts as to the criteria of truth reduced themselves to a scepticism almost drily practical, a scepticism which developed the opposition between things as they are and our impressions and thoughts concerning them—the possibility, if an outward world does really exist, of some faultiness in our apprehension of it—the doctrine, in short, of what is termed “the subjectivity of knowledge.” That is a consideration, indeed, which lies as an element of weakness, like some admitted fault or flaw, at the very foundation of every philosophical account of the universe; which confronts all philosophies at their starting, but with which none have really dealt conclusively, some perhaps not quite sincerely; which those who are not philosophers dissipate by “common,” but unphilosophical, sense, or by religious faith. The peculiar strength of Marius was, to have apprehended this weakness on the threshold of human knowledge, in the whole range of its consequences. Our knowledge is limited to what we feel, he reflected: we need no proof that we feel. But can we be sure that things are at all like our feelings? Mere peculiarities in the instruments of our cognition, like the little knots and waves on the surface of a mirror, may distort the matter they seem but to represent. Of other people we cannot truly know even the feelings, nor how far they would indicate the same modifications, each one of a personality really unique, in using the same terms as ourselves; that “common experience,” which is sometimes proposed as a satisfactory basis of certainty, being after all only a fixity of language. But our own impressions!—The light and heat of that blue veil over our heads, the heavens spread out, perhaps not like a curtain over anything!—How reassuring, after so long a debate about the rival criteria of truth, to fall back upon direct sensation, to limit one’s aspirations after knowledge to that! In an age still materially so brilliant, so expert in the artistic handling of material things, with sensible capacities still in undiminished vigour, with the whole world of classic art and poetry outspread before it, and where there was more than eye or ear could well take in—how natural the determination to rely exclusively upon the phenomena of the senses, which certainly never deceive us about themselves, about which alone we can never deceive ourselves!  And so the abstract apprehension that the little point of this present moment alone really is, between a past which has just ceased to be and a future which may never come, became practical with Marius, under the form of a resolve, as far as possible, to exclude regret and desire, and yield himself to the improvement of the present with an absolutely disengaged mind. America is here and now—here, or nowhere: as Wilhelm Meister finds out one day, just not too late, after so long looking vaguely across the ocean for the opportunity of the development of his capacities. It was as if, recognising in perpetual motion the law of nature, Marius identified his own way of life cordially with it, “throwing himself into the stream,” so to speak. He too must maintain a harmony with that soul of motion in things, by constantly renewed mobility of character.  Omnis Aristippum decuit color et status et res.—   Thus Horace had summed up that perfect manner in the reception of life attained by his old Cyrenaic master; and the first practical consequence of the metaphysic which lay behind that perfect manner, had been a strict limitation, almost the renunciation, of metaphysical enquiry itself. Metaphysic—that art, as it has so often proved, in the words of Michelet, _de s’égarer avec méthode_, of bewildering oneself methodically:—one must spend little time upon that! In the school of Cyrene, great as was its mental incisiveness, logical and physical speculation, theoretic interests generally, had been valued only so far as they served to give a groundwork, an intellectual justification, to that exclusive concern with practical ethics which was a note of the Cyrenaic philosophy. How earnest and enthusiastic, how true to itself, under how many varieties of character, had been the effort of the Greeks after Theory—Theôria—that vision of a wholly reasonable world, which, according to the greatest of them, literally makes man like God: how loyally they had still persisted in the quest after that, in spite of how many disappointments! In the Gospel of Saint John, perhaps, some of them might have found the kind of vision they were seeking for; but not in “doubtful disputations” concerning “being” and “not being,” knowledge and appearance. Men’s minds, even young men’s minds, at that late day, might well seem oppressed by the weariness of systems which had so far outrun positive knowledge; and in the mind of Marius, as in that old school of Cyrene, this sense of ennui, combined with appetites so youthfully vigorous, brought about reaction, a sort of suicide (instances of the like have been seen since) by which a great metaphysical acumen was devoted to the function of proving metaphysical speculation impossible, or useless. Abstract theory was to be valued only just so far as it might serve to clear the tablet of the mind from suppositions no more than half realisable, or wholly visionary, leaving it in flawless evenness of surface to the impressions of an experience, concrete and direct.  To be absolutely virgin towards such experience, by ridding ourselves of such abstractions as are but the ghosts of bygone impressions—to be rid of the notions we have made for ourselves, and that so often only misrepresent the experience of which they profess to be the representation—_idola_, idols, false appearances, as Bacon calls them later—to neutralise the distorting influence of metaphysical system by an all-accomplished metaphysic skill: it is this bold, hard, sober recognition, under a very “dry light,” of its own proper aim, in union with a habit of feeling which on the practical side may perhaps open a wide doorway to human weakness, that gives to the Cyrenaic doctrine, to reproductions of this doctrine in the time of Marius or in our own, their gravity and importance. It was a school to which the young man might come, eager for truth, expecting much from philosophy, in no ignoble curiosity, aspiring after nothing less than an “initiation.” He would be sent back, sooner or later, to experience, to the world of concrete impressions, to things as they may be seen, heard, felt by him; but with a wonderful machinery of observation, and free from the tyranny of mere theories.  So, in intervals of repose, after the agitation which followed the death of Flavian, the thoughts of Marius ran, while he felt himself as if returned to the fine, clear, peaceful light of that pleasant school of healthfully sensuous wisdom, in the brilliant old Greek colony, on its fresh upland by the sea. Not pleasure, but a general completeness of life, was the practical ideal to which this anti-metaphysical metaphysic really pointed. And towards such a full or complete life, a life of various yet select sensation, the most direct and effective auxiliary must be, in a word, Insight. Liberty of soul, freedom from all partial and misrepresentative doctrine which does but relieve one element in our experience at the cost of another, freedom from all embarrassment alike of regret for the past and of calculation on the future: this would be but preliminary to the real business of education—insight, insight through culture, into all that the present moment holds in trust for us, as we stand so briefly in its presence. From that maxim of Life as the end of life, followed, as a practical consequence, the desirableness of refining all the instruments of inward and outward intuition, of developing all their capacities, of testing and exercising one’s self in them, till one’s whole nature became one complex medium of reception, towards the vision—the “beatific vision,” if we really cared to make it such—of our actual experience in the world. Not the conveyance of an abstract body of truths or principles, would be the aim of the right education of one’s self, or of another, but the conveyance of an art—an art in some degree peculiar to each individual character; with the modifications, that is, due to its special constitution, and the peculiar circumstances of its growth, inasmuch as no one of us is “like another, all in all.” Such were the practical conclusions drawn for himself by Marius, when somewhat later he had outgrown the mastery of others, from the principle that “all is vanity.” If he could but count upon the present, if a life brief at best could not certainly be shown to conduct one anywhere beyond itself, if men’s highest curiosity was indeed so persistently baffled—then, with the Cyrenaics of all ages, he would at least fill up the measure of that present with vivid sensations, and such intellectual apprehensions, as, in strength and directness and their immediately realised values at the bar of an actual experience, are most like sensations. So some have spoken in every age; for, like all theories which really express a strong natural tendency of the human mind or even one of its characteristic modes of weakness, this vein of reflection is a constant tradition in philosophy. Every age of European thought has had its Cyrenaics or Epicureans, under many disguises: even under the hood of the monk.  But—Let us eat and drink, for to-morrow we die!—is a proposal, the real import of which differs immensely, according to the natural taste, and the acquired judgment, of the guests who sit at the table. It may express nothing better than the instinct of Dante’s Ciacco, the accomplished glutton, in the mud of the Inferno;+ or, since on no hypothesis does man “live by bread alone,” may come to be identical with—“My meat is to do what is just and kind;” while the soul, which can make no sincere claim to have apprehended anything beyond the veil of immediate experience, yet never loses a sense of happiness in conforming to the highest moral ideal it can clearly define for itself; and actually, though but with so faint hope, does the “Father’s business.”  In that age of Marcus Aurelius, so completely disabused of the metaphysical ambition to pass beyond “the flaming ramparts of the world,” but, on the other hand, possessed of so vast an accumulation of intellectual treasure, with so wide a view before it over all varieties of what is powerful or attractive in man and his works, the thoughts of Marius did but follow the line taken by the majority of educated persons, though to a different issue. Pitched to a really high and serious key, the precept—Be perfect in regard to what is here and now: the precept of “culture,” as it is called, or of a complete education—might at least save him from the vulgarity and heaviness of a generation, certainly of no general fineness of temper, though with a material well-being abundant enough. Conceded that what is secure in our existence is but the sharp apex of the present moment between two hypothetical eternities, and all that is real in our experience but a series of fleeting impressions:—so Marius continued the sceptical argument he had condensed, as the matter to hold by, from his various philosophical reading:—given, that we are never to get beyond the walls of the closely shut cell of one’s own personality; that the ideas we are somehow impelled to form of an outer world, and of other minds akin to our own, are, it may be, but a day-dream, and the thought of any world beyond, a day-dream perhaps idler still: then, he, at least, in whom those fleeting impressions—faces, voices, material sunshine—were very real and imperious, might well set himself to the consideration, how such actual moments as they passed might be made to yield their utmost, by the most dexterous training of capacity. Amid abstract metaphysical doubts, as to what might lie one step only beyond that experience, reinforcing the deep original materialism or earthliness of human nature itself, bound so intimately to the sensuous world, let him at least make the most of what was “here and now.” In the actual dimness of ways from means to ends—ends in themselves desirable, yet for the most part distant and for him, certainly, below the visible horizon—he would at all events be sure that the means, to use the well-worn terminology, should have something of finality or perfection about them, and themselves partake, in a measure, of the more excellent nature of ends—that the means should justify the end.  With this view he would demand culture, paideia,+ as the Cyrenaics said, or, in other words, a wide, a complete, education—an education partly negative, as ascertaining the true limits of man’s capacities, but for the most part positive, and directed especially to the expansion and refinement of the power of reception; of those powers, above all, which are immediately relative to fleeting phenomena, the powers of emotion and sense. In such an education, an “aesthetic” education, as it might now be termed, and certainly occupied very largely with those aspects of things which affect us pleasurably through sensation, art, of course, including all the finer sorts of literature, would have a great part to play. The study of music, in that wider Platonic sense, according to which, music comprehends all those matters over which the Muses of Greek mythology preside, would conduct one to an exquisite appreciation of all the finer traits of nature and of man. Nay! the products of the imagination must themselves be held to present the most perfect forms of life—spirit and matter alike under their purest and most perfect conditions—the most strictly appropriate objects of that impassioned contemplation, which, in the world of intellectual discipline, as in the highest forms of morality and religion, must be held to be the essential function of the “perfect.” Such manner of life might come even to seem a kind of religion—an inward, visionary, mystic piety, or religion, by virtue of its effort to live days “lovely and pleasant” in themselves, here and now, and with an all-sufficiency of well-being in the immediate sense of the object contemplated, independently of any faith, or hope that might be entertained as to their ulterior tendency. In this way, the true aesthetic culture would be realisable as a new form of the contemplative life, founding its claim on the intrinsic “blessedness” of “vision”—the vision of perfect men and things. One’s human nature, indeed, would fain reckon on an assured and endless future, pleasing itself with the dream of a final home, to be attained at some still remote date, yet with a conscious, delightful home-coming at last, as depicted in many an old poetic Elysium. On the other hand, the world of perfected sensation, intelligence, emotion, is so close to us, and so attractive, that the most visionary of spirits must needs represent the world unseen in colours, and under a form really borrowed from it. Let me be sure then—might he not plausibly say?—that I miss no detail of this life of realised consciousness in the present! Here at least is a vision, a theory, theôria,+ which reposes on no basis of unverified hypothesis, which makes no call upon a future after all somewhat problematic; as it would be unaffected by any discovery of an Empedocles(improving on the old story of Prometheus) as to what had really been the origin, and course of development, of man’s actually attained faculties and that seemingly divine particle of reason or spirit in him. Such a doctrine, at more leisurable moments, would of course have its precepts to deliver on the embellishment, generally, of what is near at hand, on the adornment of life, till, in a not impracticable rule of conduct, one’s existence, from day to day, came to be like a well-executed piece of music; that “perpetual motion” in things (so Marius figured the matter to himself, under the old Greek imageries) according itself to a kind of cadence or harmony.  It was intelligible that this “aesthetic” philosophy might find itself (theoretically, at least, and by way of a curious question in casuistry, legitimate from its own point of view) weighing the claims of that eager, concentrated, impassioned realisation of experience, against those of the received morality. Conceiving its own function in a somewhat desperate temper, and becoming, as every high-strung form of sentiment, as the religious sentiment itself, may become, somewhat antinomian, when, in its effort towards the order of experiences it prefers, it is confronted with the traditional and popular morality, at points where that morality may look very like a convention, or a mere stage-property of the world, it would be found, from time to time, breaking beyond the limits of the actual moral order; perhaps not without some pleasurable excitement in so bold a venture.  With the possibility of some such hazard as this, in thought or even in practice—that it might be, though refining, or tonic even, in the case of those strong and in health, yet, as Pascal says of the kindly and temperate wisdom of Montaigne, “pernicious for those who have any natural tendency to impiety or vice,” the line of reflection traced out above, was fairly chargeable.—Not, however, with “hedonism” and its supposed consequences. The blood, the heart, of Marius were still pure. He knew that his carefully considered theory of practice braced him, with the effect of a moral principle duly recurring to mind every morning, towards the work of a student, for which he might seem intended. Yet there were some among his acquaintance who jumped to the conclusion that, with the “Epicurean stye,” he was making pleasure—pleasure, as they so poorly conceived it—the sole motive of life; and they precluded any exacter estimate of the situation by covering it with a high-sounding general term, through the vagueness of which they were enabled to see the severe and laborious youth in the vulgar company of Lais. Words like “hedonism”— terms of large and vague comprehension—above all when used for a purpose avowedly controversial, have ever been the worst examples of what are called “question-begging terms;” and in that late age in which Marius lived, amid the dust of so many centuries of philosophical debate, the air was full of them. Yet those who used that reproachful Greek term for the philosophy of pleasure, were hardly more likely than the old Greeks themselves (on whom regarding this very subject of the theory of pleasure, their masters in the art of thinking had so emphatically to impress the necessity of “making distinctions”) to come to any very delicately correct ethical conclusions by a reasoning, which began with a general term, comprehensive enough to cover pleasures so different in quality, in their causes and effects, as the pleasures of wine and love, of art and science, of religious enthusiasm and political enterprise, and of that taste or curiosity which satisfied itself with long days of serious study. Yet, in truth, each of those pleasurable modes of activity, may, in its turn, fairly become the ideal of the “hedonistic” doctrine. Really, to the phase of reflection through which Marius was then passing, the charge of “hedonism,” whatever its true weight might be, was not properly applicable at all. Not pleasure, but fulness of life, and “insight” as conducting to that fulness—energy, variety, and choice of experience, including noble pain and sorrow even, loves such as those in the exquisite old story of Apuleius, sincere and strenuous forms of the moral life, such as Seneca and Epictetus—whatever form of human life, in short, might be heroic, impassioned, ideal: from these the “new Cyrenaicism” of Mariustook its criterion of values. It was a theory, indeed, which might properly be regarded as in great degree coincident with the main principle of the Stoics themselves, and an older version of the precept “Whatsoever thy hand findeth to do, do it with thy might”—a doctrine so widely acceptable among the nobler spirits of that time. And, as with that, its mistaken tendency would lie in the direction of a kind of idolatry of mere life, or natural gift, or strength—l’idôlatrie des talents.  To understand the various forms of ancient art and thought, the various forms of actual human feeling (the only new thing, in a world almost too opulent in what was old) to satisfy, with a kind of scrupulous equity, the claims of these concrete and actual objects on his sympathy, his intelligence, his senses—to “pluck out the heart of their mystery,” and in turn become the interpreter of them to others: this had now defined itself for Marius as a very narrowly practical design: it determined his choice of a vocation to live by. It was the era of the rhetoricians, or sophists, as they were sometimes called; of men who came in some instances to great fame and fortune, by way of a literary cultivation of “science.” That science, it has been often said, must have been wholly an affair of words. But in a world, confessedly so opulent in what was old, the work, even of genius, must necessarily consist very much in criticism; and, in the case of the more excellent specimens of his class, the rhetorician was, after all, the eloquent and effective interpreter, for the delighted ears of others, of what understanding himself had come by, in years of travel and study, of the beautiful house of art and thought which was the inheritance of the age. The emperor Marcus Aurelius, to whose service Marius had now been called, was himself, more or less openly, a “lecturer.” That late world, amid many curiously vivid modern traits, had this spectacle, so familiar to ourselves, of the public lecturer or essayist; in some cases adding to his other gifts that of the Christian preacher, who knows how to touch people’s sensibilities on behalf of the suffering. To follow in the way of these successes, was the natural instinct of youthful ambition; and it was with no vulgar egotism that Marius, at the age of nineteen, determined, like many another young man of parts, to enter as a student of rhetoric at Rome.  Though the manner of his work was changed formally from poetry to prose, he remained, and must always be, of the poetic temper: by which, I mean, among other things, that quite independently of the general habit of that pensive age he lived much, and as it were by system, in reminiscence. Amid his eager grasping at the sensation, the consciousness, of the present, he had come to see that, after all, the main point of economy in the conduct of the present, was the question:—How will it look to me, at what shall I value it, this day next year?—that in any given day or month one’s main concern was its impression for the memory. A strange trick memory sometimes played him; for, with no natural gradation, what was of last month, or of yesterday, of to-day even, would seem as far off, as entirely detached from him, as things of ten years ago. Detached from him, yet very real, there lay certain spaces of his life, in delicate perspective, under a favourable light; and, somehow, all the less fortunate detail and circumstance had parted from them. Such hours were oftenest those in which he had been helped by work of others to the pleasurable apprehension of art, of nature, or of life. “Not what I do, but what I am, under the power of this vision”—he would say to himself—“is what were indeed pleasing to the gods!”  And yet, with a kind of inconsistency in one who had taken for his philosophic ideal the monochronos hêdonê+ of Aristippus—the pleasure of the ideal present, of the mystic now—there would come, together with that precipitate sinking of things into the past, a desire, after all, to retain “what was so transitive.” Could he but arrest, for others also, certain clauses of experience, as the imaginative memory presented them to himself! In those grand, hot summers, he would have imprisoned the very perfume of the flowers. To create, to live, perhaps, a little while beyond the allotted hours, if it were but in a fragment of perfect expression:—it was thus his longing defined itself for something to hold by amid the “perpetual flux.” With men of his vocation, people were apt to say, words were things. Well! with him, words should be indeed things,—the word, the phrase, valuable in exact proportion to the transparency with which it conveyed to others the apprehension, the emotion, the mood, so vividly real within himself. Verbaque provisam rem non invita sequentur:+ Virile apprehension of the true nature of things, of the true nature of one’s own impression, first of all!—words would follow that naturally, a true understanding of one’s self being ever the first condition of genuine style. Language delicate and measured, the delicate Attic phrase, for instance, in which the eminent Aristeides could speak, was then a power to which people’s hearts, and sometimes even their purses, readily responded. And there were many points, as Marius thought, on which the heart of that age greatly needed to be touched. He hardly knew how strong that old religious sense of responsibility, the conscience, as we call it, still was within him—a body of inward impressions, as real as those so highly valued outward ones—to offend against which, brought with it a strange feeling of disloyalty, as to a person. And the determination, adhered to with no misgiving, to add nothing, not so much as a transient sigh, to the great total of men’s unhappiness, in his way through the world:—that too was something to rest on, in the drift of mere “appearances.”  All this would involve a life of industry, of industrious study, only possible through healthy rule, keeping clear the eye alike of body and soul. For the male element, the logical conscience asserted itself now, with opening manhood—asserted itself, even in his literary style, by a certain firmness of outline, that touch of the worker in metal, amid its richness. Already he blamed instinctively alike in his work and in himself, as youth so seldom does, all that had not passed a long and liberal process of erasure. The happy phrase or sentence was really modelled upon a cleanly finished structure of scrupulous thought. The suggestive force of the one master of his development, who had battled so hard with imaginative prose; the utterance, the golden utterance, of the other, so content with its living power of persuasion that he had never written at all,—in the commixture of these two qualities he set up his literary ideal, and this rare blending of grace with an intellectual rigour or astringency, was the secret of a singular expressiveness in it.  He acquired at this time a certain bookish air, the somewhat sombre habitude of the avowed scholar, which though it never interfered with the perfect tone, “fresh and serenely disposed,” of the Roman gentleman, yet qualified it as by an interesting oblique trait, and frightened away some of his equals in age and rank. The sober discretion of his thoughts, his sustained habit of meditation, the sense of those negative conclusions enabling him to concentrate himself, with an absorption so entire, upon what is immediately here and now, gave him a peculiar manner of intellectual confidence, as of one who had indeed been initiated into a great secret.—Though with an air so disengaged, he seemed to be living so intently in the visible world! And now, in revolt against that pre-occupation with other persons, which had so often perturbed his spirit, his wistful speculations as to what the real, the greater, experience might be, determined in him, not as the longing for love—to be with Cynthia, or Aspasia—but as a thirst for existence in exquisite places. The veil that was to be lifted for him lay over the works of the old masters of art, in places where nature also had used her mastery. And it was just at this moment that a summons to Rome reached him.  NOTES   145. +Canto VI.   147. +Transliteration: paideia. Definition “rearing, education.”   149. +Transliteration: theôria. Definition “a looking at ... observing ... contemplation.”   154. +Transliteration: monochronos hêdonê. Pater’s definition “the pleasure of the ideal present, of the mystic now.” The definition is fitting; the unusual adjective monokhronos means, literally, “single or unitary time.”   155. +Horace, Ars Poetica 311. +Etext editor’s translation: “The subject once foreknown, the words will follow easily.” Mirum est ut animus agitatione motuque corporis excitetur. Pliny’s Letters.   Many points in that train of thought, its harder and more energetic practical details especially, at first surmised but vaguely in the intervals of his visits to the tomb of Flavian, attained the coherence of formal principle amid the stirring incidents of the journey, which took him, still in all the buoyancy of his nineteen years and greatly expectant, to Rome. That summons had come from one of the former friends of his father in the capital, who had kept himself acquainted with the lad’s progress, and, assured of his parts, his courtly ways, above all of his beautiful penmanship, now offered him a place, virtually that of an amanuensis, near the person of the philosophic emperor. The old town-house of his family on the Caelian hill, so long neglected, might well require his personal care; and Marius, relieved a little by his preparations for travelling from a certain over-tension of spirit in which he had lived of late, was presently on his way, to await introduction to Aurelius, on his expected return home, after a first success, illusive enough as it was soon to appear, against the invaders from beyond the Danube.  The opening stage of his journey, through the firm, golden weather, for which he had lingered three days beyond the appointed time of starting—days brown with the first rains of autumn—brought him, by the byways among the lower slopes of the Apennines of Luna, to the town of Luca, a station on the Cassian Way; travelling so far mainly on foot, while the baggage followed under the care of his attendants. He wore a broad felt hat, in fashion not unlike a more modern pilgrim’s, the neat head projecting from the collar of his gray paenula, or travelling mantle, sewed closely together over the breast, but with its two sides folded up upon the shoulders, to leave the arms free in walking, and was altogether so trim and fresh, that, as he climbed the hill from Pisa, by the long steep lane through the olive-yards, and turned to gaze where he could just discern the cypresses of the old school garden, like two black lines down the yellow walls, a little child took possession of his hand, and, looking up at him with entire confidence, paced on bravely at his side, for the mere pleasure of his company, to the spot where the road declined again into the valley beyond. From this point, leaving the servants behind, he surrendered himself, a willing subject, as he walked, to the impressions of the road, and was almost surprised, both at the suddenness with which evening came on, and the distance from his old home at which it found him.  And at the little town of Luca, he felt that indescribable sense of a welcoming in the mere outward appearance of things, which seems to mark out certain places for the special purpose of evening rest, and gives them always a peculiar amiability in retrospect. Under the deepening twilight, the rough-tiled roofs seem to huddle together side by side, like one continuous shelter over the whole township, spread low and broad above the snug sleeping-rooms within; and the place one sees for the first time, and must tarry in but for a night, breathes the very spirit of home. The cottagers lingered at their doors for a few minutes as the shadows grew larger, and went to rest early; though there was still a glow along the road through the shorn corn-fields, and the birds were still awake about the crumbling gray heights of an old temple. So quiet and air-swept was the place, you could hardly tell where the country left off in it, and the field-paths became its streets. Next morning he must needs change the manner of his journey. The light baggage-wagon returned, and he proceeded now more quickly, travelling a stage or two by post, along the Cassian Way, where the figures and incidents of the great high-road seemed already to tell of the capital, the one centre to which all were hastening, or had lately bidden adieu. That Way lay through the heart of the old, mysterious and visionary country of Etruria; and what he knew of its strange religion of the dead, reinforced by the actual sight of the funeral houses scattered so plentifully among the dwelling-places of the living, revived in him for a while, in all its strength, his old instinctive yearning towards those inhabitants of the shadowy land he had known in life. It seemed to him that he could half divine how time passed in those painted houses on the hillsides, among the gold and silver ornaments, the wrought armour and vestments, the drowsy and dead attendants; and the close consciousness of that vast population gave him no fear, but rather a sense of companionship, as he climbed the hills on foot behind the horses, through the genial afternoon.  The road, next day, passed below a town not less primitive, it might seem, than its rocky perch—white rocks, that had long been glistening before him in the distance. Down the dewy paths the people were descending from it, to keep a holiday, high and low alike in rough, white-linen smocks. A homely old play was just begun in an open-air theatre, with seats hollowed out of the turf-grown slope. Marius caught the terrified expression of a child in its mother’s arms, as it turned from the yawning mouth of a great mask, for refuge in her bosom. The way mounted, and descended again, down the steep street of another place, all resounding with the noise of metal under the hammer; for every house had its brazier’s workshop, the bright objects of brass and copper gleaming, like lights in a cave, out of their dark roofs and corners. Around the anvils the children were watching the work, or ran to fetch water to the hissing, red-hot metal; and Marius too watched, as he took his hasty mid-day refreshment, a mess of chestnut-meal and cheese, while the swelling surface of a great copper water-vessel grew flowered all over with tiny petals under the skilful strokes. Towards dusk, a frantic woman at the roadside, stood and cried out the words of some philter, or malison, in verse, with weird motion of her hands, as the travellers passed, like a wild picture drawn from Virgil.  But all along, accompanying the superficial grace of these incidents of the way, Marius noted, more and more as he drew nearer to Rome, marks of the great plague. Under Hadrian and his successors, there had been many enactments to improve the condition of the slave. The ergastula+ were abolished. But no system of free labour had as yet succeeded. A whole mendicant population, artfully exaggerating every symptom and circumstance of misery, still hung around, or sheltered themselves within, the vast walls of their old, half-ruined task-houses. And for the most part they had been variously stricken by the pestilence. For once, the heroic level had been reached in rags, squints, scars—every caricature of the human type—ravaged beyond what could have been thought possible if it were to survive at all. Meantime, the farms were less carefully tended than of old: here and there they were lapsing into their natural wildness: some villas also were partly fallen into ruin. The picturesque, romantic Italy of a later time—the Italy of Claude and Salvator Rosa—was already forming, for the delight of the modern romantic traveller.  And again Marius was aware of a real change in things, on crossing the Tiber, as if some magic effect lay in that; though here, in truth, the Tiber was but a modest enough stream of turbid water. Nature, under the richer sky, seemed readier and more affluent, and man fitter to the conditions around him: even in people hard at work there appeared to be a less burdensome sense of the mere business of life. How dreamily the women were passing up through the broad light and shadow of the steep streets with the great water-pots resting on their heads, like women of Caryae, set free from slavery in old Greek temples. With what a fresh, primeval poetry was daily existence here impressed—all the details of the threshing-floor and the vineyard; the common farm-life even; the great bakers’ fires aglow upon the road in the evening. In the presence of all this Marius felt for a moment like those old, early, unconscious poets, who created the famousGreek myths of Dionysus, and the Great Mother, out of the imagery of the wine-press and the ploughshare. And still the motion of the journey was bringing his thoughts to systematic form. He seemed to have grown to the fulness of intellectual manhood, on his way hither. The formative and literary stimulus, so to call it, of peaceful exercise which he had always observed in himself, doing its utmost now, the form and the matter of thought alike detached themselves clearly and with readiness from the healthfully excited brain.—“It is wonderful,” says Pliny, “how the mind is stirred to activity by brisk bodily exercise.” The presentable aspects of inmost thought and feeling became evident to him: the structure of all he meant, its order and outline, defined itself: his general sense of a fitness and beauty in words became effective in daintily pliant sentences, with all sorts of felicitous linking of figure to abstraction. It seemed just then as if the desire of the artist in him—that old longing to produce—might be satisfied by the exact and literal transcript of what was then passing around him, in simple prose, arresting the desirable moment as it passed, and prolonging its life a little.—To live in the concrete! To be sure, at least, of one’s hold upon that!—Again, his philosophic scheme was but the reflection of the data of sense, and chiefly of sight, a reduction to the abstract, of the brilliant road he travelled on, through the sunshine.  But on the seventh evening there came a reaction in the cheerful flow of our traveller’s thoughts, a reaction with which mere bodily fatigue, asserting itself at last over his curiosity, had much to do; and he fell into a mood, known to all passably sentimental wayfarers, as night deepens again and again over their path, in which all journeying, from the known to the unknown, comes suddenly to figure as a mere foolish truancy—like a child’s running away from home—with the feeling that one had best return at once, even through the darkness. He had chosen to climb on foot, at his leisure, the long windings by which the road ascended to the place where that day’s stage was to end, and found himself alone in the twilight, far behind the rest of his travelling-companions. Would the last zigzag, round and round those dark masses, half natural rock, half artificial substructure, ever bring him within the circuit of the walls above? It was now that a startling incident turned those misgivings almost into actual fear. From the steep slope a heavy mass of stone was detached, after some whisperings among the trees above his head, and rushing down through the stillness fell to pieces in a cloud of dust across the road just behind him, so that he felt the touch upon his heel. That was sufficient, just then, to rouse out of its hiding-place his old vague fear of evil—of one’s “enemies”—a distress, so much a matter of constitution with him, that at times it would seem that the best pleasures of life could but be snatched, as it were hastily, in one moment’s forgetfulness of its dark, besetting influence. A sudden suspicion of hatred against him, of the nearness of “enemies,” seemed all at once to alter the visible form of things, as with the child’s hero, when he found the footprint on the sand of his peaceful, dreamy island. His elaborate philosophy had not put beneath his feet the terror of mere bodily evil; much less of “inexorable fate, and the noise of greedy Acheron.”  The resting-place to which he presently came, in the keen, wholesome air of the market-place of the little hill-town, was a pleasant contrast to that last effort of his journey. The room in which he sat down to supper, unlike the ordinary Roman inns at that day, was trim and sweet. The firelight danced cheerfully upon the polished, three-wicked lucernae burning cleanly with the best oil, upon the white-washed walls, and the bunches of scarlet carnations set in glass goblets. The white wine of the place put before him, of the true colour and flavour of the grape, and with a ring of delicate foam as it mounted in the cup, had a reviving edge or freshness he had found in no other wine. These things had relieved a little the melancholy of the hour before; and it was just then that he heard the voice of one, newly arrived at the inn, making his way to the upper floor—a youthful voice, with a reassuring clearness of note, which completed his cure.  He seemed to hear that voice again in dreams, uttering his name: then, awake in the full morning light and gazing from the window, saw the guest of the night before, a very honourable-looking youth, in the rich habit of a military knight, standing beside his horse, and already making preparations to depart. It happened that Marius, too, was to take that day’s journey on horseback. Riding presently from the inn, he overtook Cornelius—of the Twelfth Legion—advancing carefully down the steep street; and before they had issued from the gates of Urbs-vetus, the two young men had broken into talk together. They were passing along the street of the goldsmiths; and Cornelius must needs enter one of the workshops for the repair of some button or link of his knightly trappings. Standing in the doorway, Marius watched the work, as he had watched the brazier’s business a few days before, wondering most at the simplicity of its processes, a simplicity, however, on which only genius in that craft could have lighted.—By what unguessed-at stroke of hand, for instance, had the grains of precious metal associated themselves with so daintily regular a roughness, over the surface of the little casket yonder? And the conversation which followed, hence arising, left the two travellers with sufficient interest in each other to insure an easy companionship for the remainder of their journey. In time to come, Marius was to depend very much on the preferences, the personal judgments, of the comrade who now laid his hand so brotherly on his shoulder, as they left the workshop.  Itineris matutini gratiam capimus,+—observes one of our scholarly travellers; and their road that day lay through a country, well-fitted, by the peculiarity of its landscape, to ripen a first acquaintance into intimacy; its superficial ugliness throwing the wayfarers back upon each other’s entertainment in a real exchange of ideas, the tension of which, however, it would relieve, ever and anon, by the unexpected assertion of something singularly attractive. The immediate aspect of the land was, indeed, in spite of abundant olive and ilex, unpleasing enough. A river of clay seemed, “in some old night of time,” to have burst up over valley and hill, and hardened there into fantastic shelves and slides and angles of cadaverous rock, up and down among the contorted vegetation; the hoary roots and trunks seeming to confess some weird kinship with them. But that was long ago; and these pallid hillsides needed only the declining sun, touching the rock with purple, and throwing deeper shadow into the immemorial foliage, to put on a peculiar, because a very grave and austere, kind of beauty; while the graceful outlines common to volcanic hills asserted themselves in the broader prospect. And, for sentimental Marius, all this was associated, by some perhaps fantastic affinity, with a peculiar trait of severity, beyond his guesses as to the secret of it, which mingled with the blitheness of his new companion. Concurring, indeed, with the condition of a Roman soldier, it was certainly something far more than the expression of military hardness, or ascêsis; and what was earnest, or even austere, in the landscape they had traversed together, seemed to have been waiting for the passage of this figure to interpret or inform it. Again, as in his early days with Flavian, a vivid personal presence broke through the dreamy idealism, which had almost come to doubt of other men’s reality: reassuringly, indeed, yet not without some sense of a constraining tyranny over him from without.  For Cornelius, returning from the campaign, to take up his quarters on the Palatine, in the imperial guard, seemed to carry about with him, in that privileged world of comely usage to which he belonged, the atmosphere of some still more jealously exclusive circle. They halted on the morrow at noon, not at an inn, but at the house of one of the young soldier’s friends, whom they found absent, indeed, in consequence of the plague in those parts, so that after a mid-day rest only, they proceeded again on their journey. The great room of the villa, to which they were admitted, had lain long untouched; and the dust rose, as they entered, into the slanting bars of sunlight, that fell through the half-closed shutters. It was here, to while away the time, that Cornelius bethought himself of displaying to his new friend the various articles and ornaments of his knightly array—the breastplate, the sandals and cuirass, lacing them on, one by one, with the assistance of Marius, and finally the great golden bracelet on the right arm, conferred on him by his general for an act of valour. And as he gleamed there, amid that odd interchange of light and shade, with the staff of a silken standard firm in his hand, Marius felt as if he were face to face, for the first time, with some new knighthood or chivalry, just then coming into the world.  It was soon after they left this place, journeying now by carriage, that Rome was seen at last, with much excitement on the part of our travellers; Cornelius, and some others of whom the party then consisted, agreeing, chiefly for the sake of Marius, to hasten forward, that it might be reached by daylight, with a cheerful noise of rapid wheels as they passed over the flagstones. But the highest light upon the mausoleum of Hadrian was quite gone out, and it was dark, before they reached the Flaminian Gate. The abundant sound of water was the one thing that impressed Marius, as they passed down a long street, with many open spaces on either hand: Cornelius to his military quarters, and Marius to the old dwelling-place of his fathers.  . +E-text editor’s note: ergastula were the Roman agrarian equivalent of prison-workhouses.   168. +Apuleius, The Golden Ass, I.17.   Marius awoke early and passed curiously from room to room, noting for more careful inspection by and by the rolls of manuscripts. Even greater than his curiosity in gazing for the first time on this ancient possession, was his eagerness to look out upon Rome itself, as he pushed back curtain and shutter, and stepped forth in the fresh morning upon one of the many balconies, with an oft-repeated dream realised at last. He was certainly fortunate in the time of his coming to Rome. That old pagan world, of which Rome was the flower, had reached its perfection in the things of poetry and art—a perfection which indicated only too surely the eve of decline. As in some vast intellectual museum, all its manifold products were intact and in their places, and with custodians also still extant, duly qualified to appreciate and explain them. And at no period of history had the material Rome itself been better worth seeing—lying there not less consummate than that world of pagan intellect which it represented in every phase of its darkness and light. The various work of many ages fell here harmoniously together, as yet untouched save by time, adding the final grace of a rich softness to its complex expression. Much which spoke of ages earlier than Nero, the great re-builder, lingered on, antique, quaint, immeasurably venerable, like the relics of the medieval city in the Paris of Lewis the Fourteenth: the work of Nero’s own time had come to have that sort of old world and picturesque interest which the work of Lewis has for ourselves; while without stretching a parallel too far we might perhaps liken the architectural finesses of the archaic Hadrian to the more excellent products of our own Gothic revival. The temple of Antoninus and Faustina was still fresh in all the majesty of its closely arrayed columns of cipollino; but, on the whole, little had been added under the late and present emperors, and during fifty years of public quiet, a sober brown and gray had grown apace on things. The gilding on the roof of many a temple had lost its garishness: cornice and capital of polished marble shone out with all the crisp freshness of real flowers, amid the already mouldering travertine and brickwork, though the birds had built freely among them. What Marius then saw was in many respects, after all deduction of difference, more like the modern Rome than the enumeration of particular losses might lead us to suppose; the Renaissance, in its most ambitious mood and with amplest resources, having resumed the ancient classical tradition there, with no break or obstruction, as it had happened, in any very considerable work of the middle age. Immediately before him, on the square, steep height, where the earliest little old Rome had huddled itself together, arose the palace of the Caesars. Half-veiling the vast substruction of rough, brown stone—line upon line of successive ages of builders—the trim, old-fashioned garden walks, under their closely-woven walls of dark glossy foliage, test of long and careful cultivation, wound gradually, among choice trees, statues and fountains, distinct and sparkling in the full morning sunlight, to the richly tinted mass of pavilions and corridors above, centering in the lofty, white-marble dwelling-place of Apollo himself.  How often had Marius looked forward to that first, free wandering through Rome, to which he now went forth with a heat in the town sunshine (like a mist of fine gold-dust spread through the air) to the height of his desire, making the dun coolness of the narrow streets welcome enough at intervals. He almost feared, descending the stair hastily, lest some unforeseen accident should snatch the little cup of enjoyment from him ere he passed the door. In such morning rambles in places new to him, life had always seemed to come at its fullest: it was then he could feel his youth, that youth the days of which he had already begun to count jealously, in entire possession. So the grave, pensive figure, a figure, be it said nevertheless, fresher far than often came across it now, moved through the old city towards the lodgings of Cornelius, certainly not by the most direct course, however eager to rejoin the friend of yesterday.  Bent as keenly on seeing as if his first day in Rome were to be also his last, the two friends descended along the _Vicus Tuscus_, with its rows of incense-stalls, into the _Via Nova_, where the fashionable people were busy shopping; and Marius saw with much amusement the frizzled heads, then _à la mode_. A glimpse of the _Marmorata_, the haven at the river-side, where specimens of all the precious marbles of the world were lying amid great white blocks from the quarries of Luna, took his thoughts for a moment to his distant home. They visited the flower-market, lingering where the _coronarii_ pressed on them the newest species, and purchased zinias, now in blossom (like painted flowers, thought Marius), to decorate the folds of their togas. Loitering to the other side of the Forum, past the great Galen’s drug-shop, after a glance at the announcements of new poems on sale attached to the doorpost of a famous bookseller, they entered the curious library of the Temple of Peace, then a favourite resort of literary men, and read, fixed there for all to see, the _Diurnal_ or Gazette of the day, which announced, together with births and deaths, prodigies and accidents, and much mere matter of business, the date and manner of the philosophic emperor’s joyful return to his people; and, thereafter, with eminent names faintly disguised, what would carry that day’s news, in many copies, over the provinces—a certain matter concerning the great lady, known to be dear to him, whom he had left at home. It was a story, with the development of which “society” had indeed for some time past edified or amused itself, rallying sufficiently from the panic of a year ago, not only to welcome back its ruler, but also to relish a _chronique scandaleuse;_ and thus, when soon after Marius saw the world’s wonder, he was already acquainted with the suspicions which have ever since hung about her name. Twelve o’clock was come before they left the Forum, waiting in a little crowd to hear the _Accensus_, according to old custom, proclaim the hour of noonday, at the moment when, from the steps of the Senate-house, the sun could be seen standing between the _Rostra_ and the _Græcostasis_. He exerted for this function a strength of voice, which confirmed in Marius a judgment the modern visitor may share with him, that Roman throats and Roman chests, namely, must, in some peculiar way, be differently constructed from those of other people. Such judgment indeed he had formed in part the evening before, noting, as a religious procession passed him, how much noise a man and a boy could make, though not without a great deal of real music, of which in truth the Romans were then as ever passionately fond.  Hence the two friends took their way through the Via Flaminia, almost along the line of the modern Corso, already bordered with handsome villas, turning presently to the left, into the Field-of-Mars, still the playground of Rome. But the vast public edifices were grown to be almost continuous over the grassy expanse, represented now only by occasional open spaces of verdure and wild-flowers. In one of these a crowd was standing, to watch a party of athletes stripped for exercise. Marius had been surprised at the luxurious variety of the litters borne through Rome, where no carriage horses were allowed; and just then one far more sumptuous than the rest, with dainty appointments of ivory and gold, was carried by, all the town pressing with eagerness to get a glimpse of its most beautiful woman, as she passed rapidly. Yes! there, was the wonder of the world—the empress Faustina herself: Marius could distinguish, could distinguish clearly, the well-known profile, between the floating purple curtains.  For indeed all Rome was ready to burst into gaiety again, as it awaited with much real affection, hopeful and animated, the return of its emperor, for whose ovation various adornments were preparing along the streets through which the imperial procession would pass. He had left Rome just twelve months before, amid immense gloom. The alarm of a barbarian insurrection along the whole line of the Danube had happened at the moment when Rome was panic-stricken by the great pestilence.  In fifty years of peace, broken only by that conflict in the East from which Lucius Verus, among other curiosities, brought back the plague, war had come to seem a merely romantic, superannuated incident of bygone history. And now it was almost upon Italian soil. Terrible were the reports of the numbers and audacity of the assailants. Aurelius, as yet untried in war, and understood by a few only in the whole scope of a really great character, was known to the majority of his subjects as but a careful administrator, though a student of philosophy, perhaps, as we say, a dilettante. But he was also the visible centre of government, towards whom the hearts of a whole people turned, grateful for fifty years of public happiness—its good genius, its “Antonine”—whose fragile person might be foreseen speedily giving way under the trials of military life, with a disaster like that of the slaughter of the legions by Arminius. Prophecies of the world’s impending conflagration were easily credited: “the secular fire” would descend from heaven: superstitious fear had even demanded the sacrifice of a human victim.  Marcus Aurelius, always philosophically considerate of the humours of other people, exercising also that devout appreciation of every religious claim which was one of his characteristic habits, had invoked, in aid of the commonwealth, not only all native gods, but all foreign deities as well, however strange.—“Help! Help! in the ocean space!” A multitude of foreign priests had been welcomed to Rome, with their various peculiar religious rites. The sacrifices made on this occasion were remembered for centuries; and the starving poor, at least, found some satisfaction in the flesh of those herds of “white bulls,” which came into the city, day after day, to yield the savour of their blood to the gods.  In spite of all this, the legions had but followed their standards despondently. But prestige, personal prestige, the name of “Emperor,” still had its magic power over the nations. The mere approach of the Roman army made an impression on the barbarians. Aurelius and his colleague had scarcely reached Aquileia when a deputation arrived to ask for peace. And now the two imperial “brothers” were returning home at leisure; were waiting, indeed, at a villa outside the walls, till the capital had made ready to receive them. But although Rome was thus in genial reaction, with much relief, and hopefulness against the winter, facing itself industriously in damask of red and gold, those two enemies were still unmistakably extant: the barbarian army of the Danube was but over-awed for a season; and the plague, as we saw when Marius was on his way to Rome, was not to depart till it had done a large part in the formation of the melancholy picturesque of modern Italy—till it had made, or prepared for the making of the Roman Campagna. The old, unaffected, really pagan, peace or gaiety, of Antoninus Pius—that genuine though unconscious humanist—was gone for ever. And again and again, throughout this day of varied observation, Marius had been reminded, above all else, that he was not merely in “the most religious city of the world,” as one had said, but that Rome was become the romantic home of the wildest superstition. Such superstition presented itself almost as religious mania in many an incident of his long ramble,—incidents to which he gave his full attention, though contending in some measure with a reluctance on the part of his companion, the motive of which he did not understand till long afterwards. Marius certainly did not allow this reluctance to deter his own curiosity. Had he not come to Rome partly under poetic vocation, to receive all those things, the very impress of life itself, upon the visual, the imaginative, organ, as upon a mirror; to reflect them; to transmute them into golden words? He must observe that strange medley of superstition, that centuries’ growth, layer upon layer, of the curiosities of religion (one faith jostling another out of place) at least for its picturesque interest, and as an indifferent outsider might, not too deeply concerned in the question which, if any of them, was to be the survivor.  Superficially, at least, the Roman religion, allying itself with much diplomatic economy to possible rivals, was in possession, as a vast and complex system of usage, intertwining itself with every detail of public and private life, attractively enough for those who had but “the historic temper,” and a taste for the past, however much a Lucian might depreciate it. Roman religion, as Marius knew, had, indeed, been always something to be done, rather than something to be thought, or believed, or loved; something to be done in minutely detailed manner, at a particular time and place, correctness in which had long been a matter of laborious learning with a whole school of ritualists—as also, now and again, a matter of heroic sacrifice with certain exceptionally devout souls, as when Caius Fabius Dorso, with his life in his hand, succeeded in passing the sentinels of the invading Gauls to perform a sacrifice on the Quirinal, and, thanks to the divine protection, had returned in safety. So jealous was the distinction between sacred and profane, that, in the matter of the “regarding of days,” it had made more than half the year a holiday. Aurelius had, indeed, ordained that there should be no more than a hundred and thirty-five festival days in the year; but in other respects he had followed in the steps of his predecessor, Antoninus Pius—commended especially for his “religion,” his conspicuous devotion to its public ceremonies—and whose coins are remarkable for their reference to the oldest and most hieratic types of Roman mythology. Aurelius had succeeded in more than healing the old feud between philosophy and religion, displaying himself, in singular combination, as at once the most zealous of philosophers and the most devout of polytheists, and lending himself, with an air of conviction, to all the pageantries of public worship. To his pious recognition of that one orderly spirit, which, according to the doctrine of the Stoics, diffuses itself through the world, and animates it—a recognition taking the form, with him, of a constant effort towards inward likeness thereto, in the harmonious order of his own soul—he had added a warm personal devotion towards the whole multitude of the old national gods, and a great many new foreign ones besides, by him, at least, not ignobly conceived. If the comparison may be reverently made, there was something here of the method by which the catholic church has added the cultus of the saints to its worship of the one Divine Being.  And to the view of the majority, though the emperor, as the personal centre of religion, entertained the hope of converting his people to philosophic faith, and had even pronounced certain public discourses for their instruction in it, that polytheistic devotion was his most striking feature. Philosophers, indeed, had, for the most part, thought with Seneca, “that a man need not lift his hands to heaven, nor ask the sacristan’s leave to put his mouth to the ear of an image, that his prayers might be heard the better.”—Marcus Aurelius, “a master in Israel,” knew all that well enough. Yet his outward devotion was much more than a concession to popular sentiment, or a mere result of that sense of fellow-citizenship with others, which had made him again and again, under most difficult circumstances, an excellent comrade. Those others, too!—amid all their ignorances, what were they but instruments in the administration of the Divine Reason, “from end to end sweetly and strongly disposing all things”? Meantime “Philosophy” itself had assumed much of what we conceive to be the religious character. It had even cultivated the habit, the power, of “spiritual direction”; the troubled soul making recourse in its hour of destitution, or amid the distractions of the world, to this or that director—philosopho suo—who could really best understand it.  And it had been in vain that the old, grave and discreet religion of Rome had set itself, according to its proper genius, to prevent or subdue all trouble and disturbance in men’s souls. In religion, as in other matters, plebeians, as such, had a taste for movement, for revolution; and it had been ever in the most populous quarters that religious changes began. To the apparatus of foreign religion, above all, recourse had been made in times of public disquietude or sudden terror; and in those great religious celebrations, before his proceeding against the barbarians, Aurelius had even restored the solemnities of Isis, prohibited in the capital since the time of Augustus, making no secret of his worship of that goddess, though her temple had been actually destroyed by authority in the reign of Tiberius. Her singular and in many ways beautiful ritual was now popular in Rome. And then—what the enthusiasm of the swarming plebeian quarters had initiated, was sure to be adopted, sooner or later, by women of fashion. A blending of all the religions of the ancient world had been accomplished. The new gods had arrived, had been welcomed, and found their places; though, certainly, with no real security, in any adequate ideal of the divine nature itself in the background of men’s minds, that the presence of the new-comer should be edifying, or even refining. High and low addressed themselves to all deities alike without scruple; confusing them together when they prayed, and in the old, authorised, threefold veneration of their visible images, by flowers, incense, and ceremonial lights—those beautiful usages, which the church, in her way through the world, ever making spoil of the world’s goods for the better uses of the human spirit, took up and sanctified in her service.  And certainly “the most religious city in the world” took no care to veil its devotion, however fantastic. The humblest house had its little chapel or shrine, its image and lamp; while almost every one seemed to exercise some religious function and responsibility. Colleges, composed for the most part of slaves and of the poor, provided for the service of the Compitalian Lares—the gods who presided, respectively, over the several quarters of the city. In one street, Marius witnessed an incident of the festival of the patron deity of that neighbourhood, the way being strewn with box, the houses tricked out gaily in such poor finery as they possessed, while the ancient idol was borne through it in procession, arrayed in gaudy attire the worse for wear. Numerous religious clubs had their stated anniversaries, on which the members issued with much ceremony from their guild-hall, or schola, and traversed the thoroughfares of Rome, preceded, like the confraternities of the present day, by their sacred banners, to offer sacrifice before some famous image. Black with the perpetual smoke of lamps and incense, oftenest old and ugly, perhaps on that account the more likely to listen to the desires of the suffering—had not those sacred effigies sometimes given sensible tokens that they were aware? The image of the Fortune of Women—Fortuna Muliebris, in the Latin Way, had spoken (not once only) and declared; Bene me, Matronae! vidistis riteque dedicastis! The Apollo of Cumae had wept during three whole nights and days. The images in the temple of Juno Sospita had been seen to sweat. Nay! there was blood—divine blood—in the hearts of some of them: the images in the Grove of Feronia had sweated blood!  From one and all Cornelius had turned away: like the “atheist” of whom Apuleius tells he had never once raised hand to lip in passing image or sanctuary, and had parted from Marius finally when the latter determined to enter the crowded doorway of a temple, on their return into the Forum, below the Palatine hill, where the mothers were pressing in, with a multitude of every sort of children, to touch the lightning-struck image of the wolf-nurse of Romulus—so tender to little ones!—just discernible in its dark shrine, amid a blaze of lights. Marius gazed after his companion of the day, as he mounted the steps to his lodging, singing to himself, as it seemed. Marius failed precisely to catch the words.  And, as the rich, fresh evening came on, there was heard all over Rome, far above a whisper, the whole town seeming hushed to catch it distinctly, the lively, reckless call to “play,” from the sons and daughters of foolishness, to those in whom their life was still green—Donec virenti canities abest!—Donec virenti canities abest!+ Marius could hardly doubt how Cornelius would have taken the call. And as for himself, slight as was the burden of positive moral obligation with which he had entered Rome, it was to no wasteful and vagrant affections, such as these, that his Epicureanism had committed him.  NOTES   187. +Horace, Odes I.ix.17. Translation: “So long as youth is fresh and age is far away.”  But ah! Maecenas is yclad in claye, And great Augustus long ygoe is dead, And all the worthies liggen wrapt in lead, That matter made for poets on to playe.+   Marcus Aurelius who, though he had little relish for them himself, had ever been willing to humour the taste of his people for magnificent spectacles, was received back to Rome with the lesser honours of the Ovation, conceded by the Senate (so great was the public sense of deliverance) with even more than the laxity which had become its habit under imperial rule, for there had been no actual bloodshed in the late achievement. Clad in the civic dress of the chief Roman magistrate, and with a crown of myrtle upon his head, his colleague similarly attired walking beside him, he passed up to the Capitol on foot, though in solemn procession along the Sacred Way, to offer sacrifice to the national gods. The victim, a goodly sheep, whose image we may still see between the pig and the ox of the Suovetaurilia, filleted and stoled almost like some ancient canon of the church, on a sculptured fragment in the Forum, was conducted by the priests, clad in rich white vestments, and bearing their sacred utensils of massive gold, immediately behind a company of flute-players, led by the great choir-master, or conductor, of the day, visibly tetchy or delighted, according as the instruments he ruled with his tuning-rod, rose, more or less adequately amid the difficulties of the way, to the dream of perfect music in the soul within him. The vast crowd, including the soldiers of the triumphant army, now restored to wives and children, all alike in holiday whiteness, had left their houses early in the fine, dry morning, in a real affection for “the father of his country,” to await the procession, the two princes having spent the preceding night outside the walls, at the old Villa of the Republic. Marius, full of curiosity, had taken his position with much care; and stood to see the world’s masters pass by, at an angle from which he could command the view of a great part of the processional route, sprinkled with fine yellow sand, and punctiliously guarded from profane footsteps.  The coming of the pageant was announced by the clear sound of the flutes, heard at length above the acclamations of the people—Salve Imperator!—Dii te servent!—shouted in regular time, over the hills. It was on the central figure, of course, that the whole attention of Marius was fixed from the moment when the procession came in sight, preceded by the lictors with gilded fasces, the imperial image-bearers, and the pages carrying lighted torches; a band of knights, among whom was Cornelius in complete military, array, following. Amply swathed about in the folds of a richly worked toga, after a manner now long since become obsolete with meaner persons, Marius beheld a man of about five-and-forty years of age, with prominent eyes—eyes, which although demurely downcast during this essentially religious ceremony, were by nature broadly and benignantly observant. He was still, in the main, as we see him in the busts which represent his gracious and courtly youth, when Hadrian had playfully called him, not Verus, after the name of his father, but Verissimus, for his candour of gaze, and the bland capacity of the brow, which, below the brown hair, clustering thickly as of old, shone out low, broad, and clear, and still without a trace of the trouble of his lips. You saw the brow of one who, amid the blindness or perplexity of the people about him, understood all things clearly; the dilemma, to which his experience so far had brought him, between Chance with meek resignation, and a Providence with boundless possibilities and hope, being for him at least distinctly defined.  That outward serenity, which he valued so highly as a point of manner or expression not unworthy the care of a public minister—outward symbol, it might be thought, of the inward religious serenity it had been his constant purpose to maintain—was increased to-day by his sense of the gratitude of his people; that his life had been one of such gifts and blessings as made his person seem in very deed divine to them. Yet the cloud of some reserved internal sorrow, passing from time to time into an expression of fatigue and effort, of loneliness amid the shouting multitude, might have been detected there by the more observant—as if the sagacious hint of one of his officers, “The soldiers can’t understand you, they don’t know Greek,” were applicable always to his relationships with other people. The nostrils and mouth seemed capable almost of peevishness; and Marius noted in them, as in the hands, and in the spare body generally, what was new to his experience—something of asceticism, as we say, of a bodily gymnastic, by which, although it told pleasantly in the clear blue humours of the eye, the flesh had scarcely been an equal gainer with the spirit. It was hardly the expression of “the healthy mind in the healthy body,” but rather of a sacrifice of the body to the soul, its needs and aspirations, that Marius seemed to divine in this assiduous student of the Greek sages—a sacrifice, in truth, far beyond the demands of their very saddest philosophy of life.  Dignify thyself with modesty and simplicity for thine ornaments!—had been ever a maxim with this dainty and high-bred Stoic, who still thought manners a true part of morals, according to the old sense of the term, and who regrets now and again that he cannot control his thoughts equally well with his countenance. That outward composure was deepened during the solemnities of this day by an air of pontifical abstraction; which, though very far from being pride—nay, a sort of humility rather—yet gave, to himself, an air of unapproachableness, and to his whole proceeding, in which every minutest act was considered, the character of a ritual. Certainly, there was no haughtiness, social, moral, or even philosophic, in Aurelius, who had realised, under more trying conditions perhaps than any one before, that no element of humanity could be alien from him. Yet, as he walked to-day, the centre of ten thousand observers, with eyes discreetly fixed on the ground, veiling his head at times and muttering very rapidly the words of the “supplications,”  the rich, fresh evening came on, there was heard all over Rome, far above a whisper, the whole town seeming hushed to catch it distinctly, the lively, reckless call to “play,” from the sons and daughters of foolishness , to those in whom their life was still green—Donec virenti canities abest!—Donec virenti canities abest!+ Marius could hardly doubt how Cornelius would have taken the call. And as for himself, slight as was the burden of positive moral obligation with which he had entered Rome, it was to no wasteful and vagrant affections, such as these, that his Epicureanism had committed him. . +Horace, Odes I.ix.17. Translation: “So long as youth is fresh and age is far away.” But ah! Maecenas is yclad in claye, And great Augustus long ygoe is dead, And all the worthies liggen wrapt in lead, That matter made for poets on to playe.+   Marcus Aurelius who, though he had little relish for them himself, had ever been willing to humour the taste of his people for magnificent spectacles, was received back to Rome with the lesser honours of the Ovation, conceded by the Senate (so great was the public sense of deliverance) with even more than the laxity which had become its habit under imperial rule, for there had been no actual bloodshed in the late achievement. Clad in the civic dress of the chief Roman magistrate, and with a crown of myrtle upon his head, his colleague similarly attired walking beside him, he passed up to the Capitol on foot, though in solemn procession along the Sacred Way, to offer sacrifice to the national gods. The victim, a goodly sheep, whose image we may still see between the pig and the ox of the Suovetaurilia, filleted and stoled almost like some ancient canon of the church, on a sculptured fragment in the Forum, was conducted by the priests, clad in rich white vestments, and bearing their sacred utensils of massive gold, immediately behind a company of flute-players, led by the great choir-master, or conductor, of the day, visibly tetchy or delighted, according as the instruments he ruled with his tuning-rod, rose, more or less adequately amid the difficulties of the way, to the dream of perfect music in the soul within him. The vast crowd, including the soldiers of the triumphant army, now restored to wives and children, all alike in holiday whiteness, had left their houses early in the fine, dry morning, in a real affection for “the father of his country,” to await the procession, the two princes having spent the preceding night outside the walls, at the old Villa of the Republic. Marius, full of curiosity, had taken his position with much care; and stood to see the world’s masters pass by, at an angle from which he could command the view of a great part of the processional route, sprinkled with fine yellow sand, and punctiliously guarded from profane footsteps.  The coming of the pageant was announced by the clear sound of the flutes, heard at length above the acclamations of the people—Salve Imperator!—Dii te servent!—shouted in regular time, over the hills. It was on the central figure, of course, that the whole attention of Marius was fixed from the moment when the procession came in sight, preceded by the lictors with gilded fasces, the imperial image-bearers, and the pages carrying lighted torches; a band of knights, among whom was Cornelius in complete military, array, following. Amply swathed about in the folds of a richly worked toga, after a manner now long since become obsolete withmeaner persons, Marius beheld a man of about five-and-forty years of age, with prominent eyes—eyes, which although demurely downcast during this essentially religious ceremony, were by nature broadly and benignantly observant. He was still, in the main, as we see him in the busts which represent his gracious and courtly youth, when Hadrian had playfully called him, not Verus, after the name of his father, but Verissimus, for his candour of gaze, and the bland capacity of the brow, which, below the brown hair, clustering thickly as of old, shone out low, broad, and clear, and still without a trace of the trouble of his lips. You saw the brow of one who, amid the blindness or perplexity of the people about him, understood all things clearly; the dilemma, to which his  experience so far had brought him, between Chance with meek resignation, and a Providence with boundless possibilities and hope, being for him at least distinctly defined.  That outward serenity, which he valued so highly as a point of manner or expression not unworthy the care of a public minister—outward symbol, it might be thought, of the inward religious serenity it had been his constant purpose to maintain—was increased to-day by his sense of the gratitude of his people; that his life had been one of such gifts and blessings as made his person seem in very deed divine to them. Yet the cloud of some reserved internal sorrow, passing from time to time into an expression of fatigue and effort, of loneliness amid the shouting multitude, might have been detected there by the more observant—as if the sagacious hint of one of his officers, “The soldiers can’t understand you, they don’t know Greek,” were applicable always to his relationships with other people. The nostrils and mouth seemed capable almost of peevishness; and Marius noted in them, as in the hands, and in the spare body generally, what was new to his experience—something of asceticism, as we say, of a bodily gymnastic, by which, although it told pleasantly in the clear blue humours of the eye, the flesh had scarcely been an equal gainer with the spirit. It was hardly the expression of “the healthy mind in the healthy body,” but rather of a sacrifice of the body to the soul, its needs and aspirations, that Marius seemed to divine in this assiduous student of the Greek sages—a sacrifice, in truth, far beyond the demands of their very saddest philosophy of life.  Dignify thyself with modesty and simplicity for thine ornaments!—had been ever a maxim with this dainty and high -bred Stoic, who still thought manners a true part of morals, according to the old sense of the term, and who regrets now and again that he cannot control his thoughts equally well with his countenance. That outward composure was deepened during the solemnities of this day by an air of pontifical abstraction; which, though very far from being pride—nay, a sort of humility rather—yet gave, to himself, an air of unapproachableness, and to his whole proceeding, in which every minutest act was considered, the character of a ritual. Certainly, there was no haughtiness, social, moral, or even philosophic, in Aurelius, who had realised, under more trying conditions perhaps than any one before, that no element of humanity could be alien from him. Yet, as he walked to-day, the centre of ten thousand observers, with eyes discreetly fixed on the ground, veiling his head at times and muttering very rapidly the words of the “supplications,” there was something many spectators may have noted as a thing new in their experience, for Aurelius, unlike his predecessors, took all this with absolute seriousness. The doctrine of the sanctity of kings, that, in the words of Tacitus, Princes are as Gods—Principes instar deorum esse—seemed to have taken a novel, because a literal, sense. For Aurelius, indeed, the old legend of his descent from Numa, from Numa who had talked with the gods, meant much. Attached in very early years to the service of the altars, like many another noble youth, he was “observed to perform all his sacerdotal functions with a constancy and exactness unusual at that age; was soon a master of the sacred music; and had all the forms and ceremonies by heart.” And now, as the emperor, who had not only a vague divinity about his person, but was actually the chief religious functionary of the state, recited from time to time the forms of invocation, he needed not the help of the prompter, or ceremoniarius, who then approached, to assist him by whispering the appointed words in his ear. It was that pontifical abstraction which then impressed itself on Marius as the leading outward characteristic of Aurelius; though to him alone, perhaps, in that vast crowd of observers, it was no strange thing, but a matter he had understood from of old.  Some fanciful writers have assigned the origin of these triumphal processions to the mythic pomps of Dionysus, after his conquests in the East; the very word Triumph being, according to this supposition, only Thriambos-the Dionysiac Hymn. And certainly the younger of the two imperial “brothers,” who, with the effect of a strong contrast, walked beside Aurelius, and shared the honours of the day, might well have reminded people of the delicate Greek god of flowers and wine. This new conqueror of the East was now about thirty-six years old, but with his scrupulous care for all the advantages of his person, and a soft curling beard powdered with gold, looked many years younger. One result of the more genial element in the wisdom of Aurelius had been that, amid most difficult circumstances, he had known throughout life how to act in union with persons of character very alien from his own; to be more than loyal to the colleague, the younger brother in empire, he had too lightly taken to himself, five years before, then an uncorrupt youth, “skilled in manly exercises and fitted for war.” When Aurelius thanks the gods that a brother had fallen to his lot, whose character was a stimulus to the proper care of his own, one sees that this could only have happened in the way of an example, putting him on his guard against insidious faults. But it is with sincere amiability that the imperial writer, who was indeed little used to be ironical, adds that the lively respect and affection of the junior had often “gladdened” him. To be able to make his use of the flower, when the fruit perhaps was useless or poisonous:—that was one of the practical successes of his philosophy; and his people noted, with a blessing, “the concord of the two Augusti.”  The younger, certainly, possessed in full measure that charm of a constitutional freshness of aspect which may defy for a long time extravagant or erring habits of life; a physiognomy, healthy-looking, cleanly, and firm, which seemed unassociable with any form of self-torment, and made one think of the muzzle of some young hound or roe, such as human beings invariably like to stroke—a physiognomy, in effect, with all the goodliness of animalism of the finer sort, though still wholly animal. The charm was that of the blond head, the unshrinking gaze, the warm tints: neither more nor less than one may see every English summer, in youth, manly enough, and with the stuff which makes brave soldiers, in spite of the natural kinship it seems to have with playthings and gay flowers. But innate in Lucius Verus there was that more than womanly fondness for fond things, which had made the atmosphere of the old city of Antioch, heavy with centuries of voluptuousness, a poison to him: he had come to love his delicacies best out of season, and would have gilded the very flowers. But with a wonderful power of self-obliteration, the elder brother at the capital had directed his procedure successfully, and allowed him, become now also the husband of his daughter Lucilla, the credit of a “Conquest,” though Verus had certainly not returned a conqueror over himself. He had returned, as we know, with the plague in his company, along with many another strange creature of his folly; and when the people saw him publicly feeding his favourite horse Fleet with almonds and sweet grapes, wearing the animal’s image in gold, and finally building it a tomb, they felt, with some un-sentimental misgiving, that he might revive the manners of Nero.—What if, in the chances of war, he should survive the protecting genius of that elder brother?  He was all himself to-day: and it was with much wistful curiosity that Marius regarded him. For Lucius Verus was, indeed, but the highly expressive type of a class,—the true son of his father, adopted by Hadrian. Lucius Verus the elder, also, had had the like strange capacity for misusing the adornments of life, with a masterly grace; as if such misusing were, in truth, the quite adequate occupation of an intelligence, powerful, but distorted by cynical philosophy or some disappointment of the heart. It was almost a sort of genius, of which there had been instances in the imperial purple: it was to ascend the throne, a few years later, in the person of one, now a hopeful little lad at home in the palace; and it had its following, of course, among the wealthy youth at Rome, who concentrated no inconsiderable force of shrewdness and tact upon minute details of attire and manner, as upon the one thing needful. Certainly, flowers were pleasant to the eye. Such things had even their sober use, as making the outside of human life superficially attractive, and thereby promoting the first steps towards friendship and social amity. But what precise place could there be for Verus and his peculiar charm, in that Wisdom, that Order of divine Reason “reaching from end to end, strongly and sweetly disposing all things,” from the vision of which Aurelius came down, so tolerant of persons like him? Into such vision Marius too was certainly well-fitted to enter, yet, noting the actual perfection of Lucius Verus after his kind, his undeniable achievement of the select, in all minor things, felt, though with some suspicion of himself, that he entered into, and could understand, this other so dubious sort of character also. There was a voice in the theory he had brought to Rome with him which whispered “nothing is either great nor small;” as there were times when he could have thought that, as the “grammarian’s” or the artist’s ardour of soul may be satisfied by the perfecting of the theory of a sentence, or the adjustment of two colours, so his own life also might have been fulfilled by an enthusiastic quest after perfection—say, in the flowering and folding of a toga.  The emperors had burned incense before the image of Jupiter, arrayed in its most gorgeous apparel, amid sudden shouts from the people of Salve Imperator! turned now from the living princes to the deity, as they discerned his countenance through the great open doors. The imperial brothers had deposited their crowns of myrtle on the richly embroidered lapcloth of the god; and, with their chosen guests, sat down to a public feast in the temple itself. There followed what was, after all, the great event of the day:—an appropriate discourse, a discourse almost wholly de contemptu mundi, delivered in the presence of the assembled Senate, by the emperor Aurelius, who had thus, on certain rare occasions, condescended to instruct his people, with the double authority of a chief pontiff and a laborious student of philosophy. In those lesser honours of the ovation, there had been no attendant slave behind the emperors, to make mock of their effulgence as they went; and it was as if with the discretion proper to a philosopher, and in fear of a jealous Nemesis, he had determined himself to protest in time against the vanity of all outward success.  The Senate was assembled to hear the emperor’s discourse in the vast hall of the Curia Julia. A crowd of high-bred youths idled around, or on the steps before the doors, with the marvellous toilets Marius had noticed in the Via Nova; in attendance, as usual, to learn by observation the minute points of senatorial procedure. Marius had already some acquaintance with them, and passing on found himself suddenly in the presence of what was still the most august assembly the world had seen. Under Aurelius, ever full of veneration for this ancient traditional guardian of public religion, the Senate had recovered all its old dignity and independence. Among its members many hundreds in number, visibly the most distinguished of them all, Marius noted the great sophists or rhetoricians of the day, in all their magnificence. The antique character of their attire, and the ancient mode of wearing it, still surviving with them, added to the imposing character of their persons, while they sat, with their staves of ivory in their hands, on their curule chairs—almost the exact pattern of the chair still in use in the Roman church when a Bishop pontificates at the divine offices—“tranquil and unmoved, with a majesty that seemed divine,” as Marius thought, like the old Gaul of the Invasion. The rays of the early November sunset slanted full upon the audience, and made it necessary for the officers of the Court to draw the purple curtains over the windows, adding to the solemnity of the scene. In the depth of those warm shadows, surrounded by her ladies, the empress Faustina was seated to listen. The beautiful Greek statue of Victory, which since the days of Augustus had presided over the assemblies of the Senate, had been brought into the hall, and placed near the chair of the emperor; who, after rising to perform a brief sacrificial service in its honour, bowing reverently to the assembled fathers left and right, took his seat and began to speak.  There was a certain melancholy grandeur in the very simplicity or triteness of the theme: as it were the very quintessence of all the old Roman epitaphs, of all that was monumental in that city of tombs, layer upon layer of dead things and people. As if in the very fervour of disillusion, he seemed to be composing—Hôsper epigraphas chronôn kai holôn ethnôn+—the sepulchral titles of ages and whole peoples; nay! the very epitaph of the living Rome itself. The grandeur of the ruins of Rome,—heroism in ruin: it was under the influence of an imaginative anticipation of this, that he appeared to be speaking. And though the impression of the actual greatness of Rome on that day was but enhanced by the strain of contempt, falling with an accent of pathetic conviction from the emperor himself, and gaining from his pontifical pretensions the authority of a religious intimation, yet the curious interest of the discourse lay in this, that Marius, for one, as he listened, seemed to forsee a grass-grown Forum, the broken ways of the Capitol, and the Palatine hill itself in humble occupation. That impression connected itself with what he had already noted of an actual change even then coming over Italian scenery. Throughout, he could trace something of a humour into which Stoicism at all times tends to fall, the tendency to cry, Abase yourselves! There was here the almost inhuman impassibility of one who had thought too closely on the paradoxical aspect of the love of posthumous fame. With the ascetic pride which lurks under all Platonism, resultant from its opposition of the seen to the unseen, as falsehood to truth—the imperial Stoic, like his true descendant, the hermit of the middle age, was ready, in no friendly humour, to mock, there in its narrow bed, the corpse which had made so much of itself in life. Marius could but contrast all that with his own Cyrenaic eagerness, just then, to taste and see and touch; reflecting on the opposite issues deducible from the same text. “The world, within me and without, flows away like a river,” he had said; “therefore let me make the most of what is here and now.”—“The world and the thinker upon it, are consumed like a flame,” said Aurelius, “therefore will I turn away my eyes from vanity: renounce: withdraw myself alike from all affections.” He seemed tacitly to claim as a sort of personal dignity, that he was very familiarly versed in this view of things, and could discern a death’s-head everywhere. Now and again Marius was reminded of the saying that “with the Stoics all people are the vulgar save themselves;” and at times the orator seemed to have forgotten his audience, and to be speaking only to himself.  “Art thou in love with men’s praises, get thee into the very soul of them, and see!—see what judges they be, even in those matters which concern themselves. Wouldst thou have their praise after death, bethink thee, that they who shall come hereafter, and with whom thou wouldst survive by thy great name, will be but as these, whom here thou hast found so hard to live with. For of a truth, the soul of him who is aflutter upon renown after death, presents not this aright to itself, that of all whose memory he would have each one will likewise very quickly depart, until memory herself be put out, as she journeys on by means of such as are themselves on the wing but for a while, and are extinguished in their turn.—Making so much of those thou wilt never see! It is as if thou wouldst have had those who were before thee discourse fair things concerning thee.  “To him, indeed, whose wit hath been whetted by true doctrine, that well-worn sentence of Homer sufficeth, to guard him against regret and fear.—  Like the race of leaves The race of man is:— The wind in autumn strows The earth with old leaves: then the spring     the woods with new endows.+   Leaves! little leaves!—thy children, thy flatterers, thine enemies! Leaves in the wind, those who would devote thee to darkness, who scorn or miscall thee here, even as they also whose great fame shall outlast them. For all these, and the like of them, are born indeed in the spring season—Earos epigignetai hôrê+: and soon a wind hath scattered them, and thereafter the wood peopleth itself again with another generation of leaves. And what is common to all of them is but the littleness of their lives: and yet wouldst thou love and hate, as if these things should continue for ever. In a little while thine eyes also will be closed, and he on whom thou perchance hast leaned thyself be himself a burden upon another.  “Bethink thee often of the swiftness with which the things that are, or are even now coming to be, are swept past thee: that the very substance of them is but the perpetual motion of water: that there is almost nothing which continueth: of that bottomless depth of time, so close at thy side. Folly! to be lifted up, or sorrowful, or anxious, by reason of things like these! Think of infinite matter, and thy portion—how tiny a particle, of it! of infinite time, and thine own brief point there; of destiny, and the jot thou art in it; and yield thyself readily to the wheel of Clotho, to spin of thee what web she will.  “As one casting a ball from his hand, the nature of things hath had its aim with every man, not as to the ending only, but the first beginning of his course, and passage thither. And hath the ball any profit of its rising, or loss as it descendeth again, or in its fall? or the bubble, as it groweth or breaketh on the air? or the flame of the lamp, from the beginning to the end of its brief story?  “All but at this present that future is, in which nature, who disposeth all things in order, will transform whatsoever thou now seest, fashioning from its substance somewhat else, and therefrom somewhat else in its turn, lest the world grow old. We are such stuff as dreams are made of—disturbing dreams. Awake, then! and see thy dream as it is, in comparison with that erewhile it seemed to thee.  “And for me, especially, it were well to mind those many mutations of empire in time past; therein peeping also upon the future, which must needs be of like species with what hath been, continuing ever within the rhythm and number of things which really are; so that in forty years one may note of man and of his ways little less than in a thousand. Ah! from this higher place, look we down upon the ship-wrecks and the calm! Consider, for example, how the world went, under the emperor Vespasian. They are married and given in marriage, they breed children; love hath its way with them; they heap up riches for others or for themselves; they are murmuring at things as then they are; they are seeking for great place; crafty, flattering, suspicious, waiting upon the death of others:—festivals, business, war, sickness, dissolution: and now their whole life isno longer anywhere at all. Pass on to the reign of Trajan: all things continue the same: and that life also is no longer anywhere at all. Ah! but look again, and consider, one after another, as it were the sepulchral inscriptions of all peoples and times, according to one pattern.—What multitudes, after their utmost striving—a little afterwards! were dissolved again into their dust.  “Think again of life as it was far off in the ancient world; as it must be when we shall be gone; as it is now among the wild heathen. How many have never heard your names and mine, or will soon forget them! How soon may those who shout my name to-day begin to revile it, because glory, and the memory of men, and all things beside, are but vanity—a sand-heap under the senseless wind, the barking of dogs, the quarrelling of children, weeping incontinently upon their laughter.  “This hasteth to be; that other to have been: of that which now cometh to be, even now somewhat hath been extinguished. And wilt thou make thy treasure of any one of these things? It were as if one set his love upon the swallow, as it passeth out of sight through the air!  “Bethink thee often, in all contentions public and private, of those whom men have remembered by reason of their anger and vehement spirit—those famous rages, and the occasions of them—the great fortunes, and misfortunes, of men’s strife of old. What are they all now, and the dust of their battles? Dust and ashes indeed; a fable, a mythus, or not so much as that. Yes! keep those before thine eyes who took this or that, the like of which happeneth to thee, so hardly; were so querulous, so agitated. And where again are they? Wouldst thou have it not otherwise with thee?  Consider how quickly all things vanish away—their bodily structure into the general substance; the very memory of them into that great gulf and abysm of past thoughts. Ah! ’tis on a tiny space of earth thou art creeping through life—a pigmy soul carrying a dead body to its grave.  “Let death put thee upon the consideration both of thy body and thy soul: what an atom of all matter hath been distributed to thee; what a little particle of the universal mind. Turn thy body about, and consider what thing it is, and that which old age, and lust, and the languor of disease can make of it. Or come to its substantial and causal qualities, its very type: contemplate that in itself, apart from the accidents of matter, and then measure also the span of time for which the nature of things, at the longest, will maintain that special type. Nay! in the very principles and first constituents of things corruption hath its part—so much dust, humour, stench , and scraps of bone! Consider that thy marbles are but the earth’s callosities, thy gold and silver its faeces; this silken robe but a worm’s bedding, and thy purple an unclean fish. Ah! and thy life’s breath is not otherwise, as it passeth out of matters like these, into the like of them again.  “For the one soul in things, taking matter like wax in the hands, moulds and remoulds—how hastily!—beast, and plant, and the babe, in turn: and that which dieth hath not slipped out of the order of nature, but, remaining therein, hath also its changes there, disparting into those elements of which nature herself, and thou too, art compacted. She changes without murmuring. The oaken chest falls to pieces with no more complaining than when the carpenter fitted it together. If one told thee certainly that on the morrow thou shouldst die, or at the furthest on the day after, it would be no great matter to thee to die on the day after to-morrow, rather than to-morrow. Strive to think it a thing no greater that thou wilt die—not to-morrow, but a year, or two years, or ten years f rom to-day.  “I find that all things are now as they were in the days of our buried ancestors—all things sordid in their elements, trite by long usage, and yet ephemeral. How ridiculous, then, how like a countryman in town, is he, who wonders at aught. Doth the sameness, the repetition of the public shows, weary thee? Even so doth that likeness of events in the spectacle of the world. And so must it be with thee to the end. For the wheel of the world hath ever the same motion, upward and downward, from generation to generation. When, when, shall time give place to eternity?  “If there be things which trouble thee thou canst put them away, inasmuch as they have their being but in thine own notion concerning them. Consider what death is, and how, if one does but detach from it the appearances, the notions, that hang about it, resting the eye upon it as in itself it really is, it must be thought of but as an effect of nature, and that man but a child whom an effect of nature shall affright. Nay! not function and effect of nature, only; but a thing profitable also to herself.  “To cease from action—the ending of thine effort to think and do: there is no evil in that. Turn thy thought to the ages of man’s life, boyhood, youth, maturity, old age: the change in every one of these also is a dying, but evil nowhere. Thou climbedst into the ship, thou hast made thy voyage and touched the shore. Go forth now! Be it into some other life: the divine breath is everywhere, even there. Be it into forgetfulness for ever; at least thou wilt rest from the beating of sensible images upon thee, from the passions which pluck thee this way and that like an unfeeling toy, from those long marches of the intellect, from thy toilsome ministry to the flesh.  “Art thou yet more than dust and ashes and bare bone—a name only, or not so much as that, which, also, is but whispering and a resonance, kept alive from mouth to mouth of dying abjects who have hardly known themselves; how much less thee, dead so long ago!  “When thou lookest upon a wise man, a lawyer, a captain of war, think upon another gone. When thou seest thine own face in the glass, call up there before thee one of thine ancestors—one of those old Caesars. Lo! everywhere, thy double before thee! Thereon, let the thought occur to thee: And where are they? anywhere at all, for ever? And thou, thyself—how long? Art thou blind to that thou art—thy matter, how temporal; and thy function, the nature of thy business? Yet tarry, at least, till thou hast assimilated even these things to thine own proper essence, as a quick fire turneth into heat and light whatsoever be cast upon it.  “As words once in use are antiquated to us, so is it with the names that were once on all men’s lips: Camillus, Volesus, Leonnatus: then, in a little while, Scipio and Cato, and then Augustus, and then Hadrian, and then Antoninus Pius. How many great physicians who lifted wise brows at other men’s sick-beds, have sickened and died! Those wise Chaldeans, who foretold, as a great matter, another man’s last hour, have themselves been taken by surprise. Ay! and all those others, in their pleasant places: those who doated on a Capreae like Tiberius, on their gardens, on the baths: Pythagoras and Socrates, who reasoned so closely upon immortality: Alexander, who used the lives of others as though his own should last for ever—he and his mule-driver alike now!—one upon another. Well-nigh the whole court of Antoninus is extinct. Panthea and Pergamus sit no longer beside the sepulchre of their lord. The watchers over Hadrian’s dust have slipped from his sepulchre.—It were jesting to stay longer. Did they sit there still, would the dead feel it? or feeling it, be glad? or glad, hold those watchers for ever? The time must come when they too shall be aged men and aged women, and decease, and fail from their places; and what shift were there then for imperial service? This too is but the breath of the tomb, and a skinful of dead men’s blood.  “Think again of those inscriptions, which belong not to one soul only, but to whole families: Eschatos tou idiou genous:+ He was the last of his race. Nay! of the burial of whole cities: Helice, Pompeii: of others, whose very burial place is unknown.  “Thou hast been a citizen in this wide city. Count not for how long, nor repine; since that which sends thee hence is no unrighteous judge, no tyrant, but Nature, who brought thee hither; as when a player leaves the stage at the bidding of the conductor who hired him. Sayest thou, ‘I have not played five acts’? True! but in human life, three acts only make sometimes an entire play. That is the composer’s business, not thine. Withdraw thyself with a good will; for that too hath, perchance, a good will which dismisseth thee from thy part.”  The discourse ended almost in darkness, the evening having set in somewhat suddenly, with a heavy fall of snow. The torches, made ready to do him a useless honour, were of real service now, as the emperor was solemnly conducted home; one man rapidly catching light from another—a long stream of moving lights across the white Forum, up the great stairs, to the palace. And, in effect, that night winter began, the hardest that had been known for a lifetime. The wolves came from the mountains; and, led by the carrion scent, devoured the dead bodies which had been hastily buried during the plague, and, emboldened by their meal, crept, before the short day was well past, over the walls of the farmyards of the Campagna. The eagles were seen driving the flocks of smaller birds across the dusky sky. Only, in the city itself the winter was all the brighter for the contrast, among those who could pay for light and warmth. The habit-makers made a great sale of the spoil of all such furry creatures as had escaped wolves and eagles, for presents at the Saturnalia; and at no time had the winter roses from Carthage seemed more lustrously yellow and red.  NOTES   188. +Spenser, Shepheardes Calendar, October, 61-66.   200. +Transliteration: Hôsper epigraphas chronôn kai holôn ethnôn. Pater’s Translation: “the sepulchral titles of ages and whole peoples.”   202. +Homer, Iliad VI.146-48.   202. +Transliteration: Earos epigignetai hôrê. Translation: “born in springtime.” Homer, Iliad VI.147.   210. +Transliteration: Eschatos tou idiou genous. Translation: “He was the last of his race.”  After that sharp, brief winter, the sun was already at work, softening leaf and bud, as you might feel by a faint sweetness in the air; but he did his work behind an evenly white sky, against which the abode of the Caesars, its cypresses and bronze roofs, seemed like a picture in beautiful but melancholy colour, as Marius climbed the long flights of steps to be introduced to the emperor Aurelius. Attired in the newest mode, his legs wound in dainty fasciae of white leather, with the heavy gold ring of the ingenuus, and in his toga of ceremony, he still retained all his country freshness of complexion. The eyes of the “golden youth” of Rome were upon him as the chosen friend of Cornelius, and the destined servant of the emperor; but not jealously. In spite of, perhaps partly because of, his habitual reserve of manner, he had become “the fashion,” even among those who felt instinctively the irony which lay beneath that remarkable self-possession, as of one taking all things with a difference from other people, perceptible in voice, in expression, and even in his dress. It was, in truth, the air of one who, entering vividly into life, and relishing to the full the delicacies of its intercourse, yet feels all the while, from the point of view of an ideal philosophy, that he is but conceding reality to suppositions, choosing of his own will to walk in a day-dream, of the illusiveness of which he at least is aware.  In the house of the chief chamberlain Marius waited for the due moment of admission to the emperor’s presence. He was admiring the peculiar decoration of the walls, coloured like rich old red leather. In the midst of one of them was depicted, under a trellis of fruit you might have gathered, the figure of a woman knocking at a door with wonderful reality of perspective. Then the summons came; and in a few minutes, the etiquette of the imperial household being still a simple matter, he had passed the curtains which divided the central hall of the palace into three parts—three degrees of approach to the sacred person—and was speaking to Aurelius himself; not in Greek, in which the emperor oftenest conversed with the learned, but, more familiarly, in Latin, adorned however, or disfigured, by many a Greek phrase, as now and again French phrases have made the adornment of fashionable English. It was with real kindliness that Marcus Aurelius looked upon Marius, as a youth of great attainments in Greek letters and philosophy; and he liked also his serious expression, being, as we know, a believer in the doctrine of physiognomy—that, as he puts it, not love only, but every other affection of man’s soul, looks out very plainly from the window of the eyes.  The apartment in which Marius found himself was of ancient aspect, and richly decorated with the favourite toys of two or three generations of imperial collectors, now finally revised by the high connoisseurship of the Stoic emperor himself, though destined not much longer to remain together there. It is the repeated boast of Aurelius that he had learned from old Antoninus Pius to maintain authority without the constant use of guards, in a robe woven by the handmaids of his own consort, with no processional lights or images, and “that a prince may shrink himself almost into the figure of a private gentleman.” And yet, again as at his first sight of him, Marius was struck by the profound religiousness of the surroundings of the imperial presence. The effect might have been due in part to the very simplicity, the discreet and scrupulous simplicity, of the central figure in this splendid abode; but Marius could not forget that he saw before him not only the head of the Romanreligion, but one who might actually have claimed something like divine worship, had he cared to do so. Though the fantastic pretensions of Caligula had brought some contempt on that claim, which had become almost a jest under the ungainly Claudius, yet, from Augustus downwards, a vague divinity had seemed to surround the Caesars even in this life; and the peculiar character of Aurelius, at once a ceremonious polytheist never forgetful of his pontifical calling, and a philosopher whose mystic speculation encircled him with a sort of saintly halo, had restored to his person, without his intending it, something of that divine prerogative, or prestige. Though he would never allow the immediate dedication of altars to himself, yet the image of his Genius—his spirituality or celestial counterpart—was placed among those of the deified princes of the past; and his family, including Faustina and the young Commodus, was spoken of as the “holy” or “divine” house. Many a Roman courtier agreed with the barbarian chief, who, after contemplating a predecessor of Aurelius, withdrew from his presence with t he exclamation:—“I have seen a god to-day!” The very roof of his house, rising into a pediment or gable, like that of the sanctuary of a god, the laurels on either side its doorway, the chaplet of oak-leaves above, seemed to designate the place for religious veneration. And notwithstanding all this, the household of Aurelius was singularly modest, with none of the wasteful expense of palaces after the fashion of Lewis the Fourteenth; the palatial dignity being felt only in a peculiar sense of order, the absence of all that was casual, of vulgarity and discomfort. A merely official residence of his predecessors, the Palatine had become the favourite dwelling-place of Aurelius; its many-coloured memories suiting, perhaps, his pensive character, and the crude splendours of Nero and Hadrian being now subdued by time. The window-less Roman abode must have had much of what toa modern would be gloom. How did the children, one wonders, endure houses with so little escape for the eye into the world outside? Aurelius, who had altered little else, choosing to live there, in a genuine homeliness, had shifted and made the most of the level lights, and broken out a quite medieval window here and there, and the clear daylight, fully appreciated by his youthful visitor, made pleasant shadows among the objects of the imperial collection. Some of these, indeed, by reason of their Greek simplicity and grace, themselves shone out like spaces of a purer, early light, amid the splendours of the Roman manufacture.  Though he looked, thought Marius, like a man who did not sleep enough, he was abounding and bright to-day, after one of those pitiless headaches, which since boyhood had been the “thorn in his side,” challenging the pretensions of his philosophy to fortify one in humble endurances. At the first moment, to Marius, remembering the spectacle of the emperor in ceremony, it was almost bewildering to be in private conversation with him. There was much in the philosophy of Aurelius—much consideration of mankind at large, of great bodies, aggregates and generalities, after the Stoic manner—which, on a nature less rich than his, might have acted as an inducement to care for people in inverse proportion to their nearness to him. That has sometimes been the result of the Stoic cosmopolitanism. Aurelius, however, determined to beautify by all means, great or little, a doctrine which had in it some potential sourness, had brought all the quickness of his intelligence, and long years of observation, to bear on the conditions of social intercourse. He had early determined “not to make business an excuse to decline the offices of humanity—not to pretend to be too much occupied with important affairs to concede what life with others may hourly demand;” and with such success, that, in an age which made much of the finer points of that intercourse, it was felt that the mere honesty of his conversation was more pleasing than other men’s flattery. His agreeableness to his young visitor to-day was, in truth, a blossom of the same wisdom which had made of Lucius Verus really a brother—the wisdom of not being exigent with men, any more than with fruit-trees (it is his own favourite figure) beyond their nature. And there was another person, still nearer to him, regarding whom this wisdom became a marvel, of equity—of charity.  The centre of a group of princely children, in the same apartment with Aurelius, amid all the refined intimacies of a modern home, sat the empress Faustina, warming her hands over a fire. With her long fingers lighted up red by the glowing coals of the brazier Marius looked close upon the most beautiful woman in the world, who was also the great paradox of the age, among her boys and girls. As has been truly said of the numerous representations of her in art, so in life, she had the air of one curious, restless, to enter into conversation with the first comer. She had certainly the power of stimulating a very ambiguous sort of curiosity about herself. And Marius found this enigmatic point in her expression, that even after seeing her many times he could never precisely recall her features in absence. The lad of six years, looking older, who stood beside her, impatiently plucking a rose to pieces over the hearth, was, in outward appearance, his father—the young Verissimus—over again; but with a certain feminine length of feature, and with all his mother’s alertness, or license, of gaze.  Yet rumour knocked at every door and window of the imperial house regarding the adulterers who knocked at them, or quietly left their lovers’ garlands there. Was not that likeness of the husband, in the boy beside her, really the effect of a shameful magic, in which the blood of the murdered gladiator, his true father, had been an ingredient? Were the tricks for deceiving husbands which the Roman poet describes, really hers, and her household an efficient school of all the arts of furtive love? Or, was the husband too aware, like every one beside? Were certain sudden deaths which happened there, really the work of apoplexy, or the plague?  The man whose ears, whose soul, those rumours were meant to penetrate, was, however, faithful to his sanguine and optimist philosophy, to his determination that the world should be to him simply what the higher reason preferred to conceive it; and the life’s journey Aurelius had made so far, though involving much moral and intellectual loneliness, had been ever in affectionate and helpful contact with other wayfarers, very unlike himself. Since his days of earliest childhood in the Lateran gardens, he seemed to himself, blessing the gods for it after deliberate survey, to have been always surrounded by kinsmen, friends, servants, of exceptional virtue. From the great Stoic idea, that we are all fellow-citizens of one city, he had derived a tenderer, a more equitable estimate than was common among Stoics, of the eternal shortcomings of men and women. Considerations that might tend to the sweetening of his temper it was his daily care to store away, with a kind of philosophic pride in the thought that no one took more good-naturedly than he the “oversights” of his neighbours. For had not Plato taught (it was not paradox, but simple truth of experience) that if people sin, it is because they know no better, and are “under the necessity of their own ignorance”? Hard to himself, he seemed at times, doubtless, to decline too softly upon unworthy persons. Actually, he came thereby upon many a useful instrument. The empress Faustina he would seem at least to have kept, by a constraining affection, from becoming altogether what most people have believed her, and won in her (we must take him at his word in the “Thoughts,” abundantly confirmed by letters, on both sides, in his correspondence with Cornelius Fronto) a consolation, the more secure, perhaps, because misknown of others. Was the secret of her actual blamelessness, after all, with him who has at least screened her name? At all events, the one thing quite certain about her, besides her extraordinary beauty, is her sweetness to himself.  No! The wise, who had made due observation on the trees of the garden, would not expect to gather grapes of thorns or fig-trees: and he was the vine, putting forth his genial fruit, by natural law, again and again, after his kind, whatever use people might make of it. Certainly, his actual presence never lost its power, and Faustina was glad in it to-day, the birthday of one of her children, a boy who stood at her knee holding in his fingers tenderly a tiny silver trumpet, one of his birthday gifts.—“For my part, unless I conceive my hurt to be such, I have no hurt at all,”—boasts the would-be apathetic emperor:—“and how I care to conceive of the thing rests with me.” Yet when his children fall sick or die, this pretence breaks down, and he is broken-hearted: and one of the charms of certain of his letters still extant, is his reference to those childish sicknesses.—“On my return to Lorium,” he writes, “I found my little lady—domnulam meam—in a fever;” and again, in a letter to one of the most serious of men, “You will be glad to hear that our little one is better, and running about the room—parvolam nostram melius valere et intra cubiculum discurrere.”  The young Commodus had departed from the chamber, anxious to witness the exercises of certain gladiators, having a native taste for such company, inherited, according to popular rumour, from his true father—anxious also to escape from the too impressive company of the gravest and sweetest specimen of old age Marius had ever seen, the tutor of the imperial children, who had arrived to offer his birthday congratulations, and now, very familiarly and affectionately, made a part of the group, falling on the shoulders of the emperor, kissing the empress Faustina on the face, the little ones on the face and hands. Marcus Cornelius Fronto, the “Orator,” favourite teacher of the emperor’s youth, afterwards his most trusted counsellor, and now the undisputed occupant of the sophistic throne, whose equipage, elegantly mounted with silver, Marius had seen in the streets of Rome, had certainly turned his many personal gifts to account with a good fortune, remarkable even in that age, so indulgent to professors or rhetoricians. The gratitude of the emperor Aurelius, always generous to his teachers, arranging their very quarrels sometimes, for they were not always fair to one another, had helped him to a really great place in the world. But his sumptuous appendages, including the villa and gardens of Maecenas, had been borne with an air perfectly becoming, by the professor of a philosophy which, even in its most accomplished and elegant phase, presupposed a gentle contempt for such things. With an intimate practical knowledge of manners, physiognomies, smiles, disguises, flatteries, and courtly tricks of every kind—a whole accomplished rhetoric of daily life—he applied them all to the promotion of humanity, and especially of men’s family affection. Through a long life of now eighty years, he had been, as it were, surrounded by the gracious and soothing air of his own eloquence—the fame, the echoes, of it—like warbling birds, or murmuring bees. Setting forth in that fine medium the best ideas of matured pagan philosophy, he had become the favourite “director” of noble youth.  Yes! it was the one instance Marius, always eagerly on the look-out for such, had yet seen of a perfectly tolerable, perfectly beautiful, old age—an old age in which there seemed, to one who perhaps habitually over-valued the expression of youth, nothing to be regretted, nothing really lost, in what years had taken away. The wise old man, whose blue eyes and fair skin were so delicate, uncontaminate and clear, would seem to have replaced carefully and consciously each natural trait of youth, as it departed from him, by an equivalent grace of culture; and had the blitheness, the placid cheerfulness, as he had also the infirmity, the claim on stronger people, of a delightful child. And yet he seemed to be but awaiting his exit from life—that moment with which the Stoics were almost as much preoccupied as the Christians, however differently—and set Marius pondering on the contrast between a placidity like this, at eighty years, and the sort of desperateness he was aware of in his own manner of entertaining that thought. His infirmities nevertheless had been painful and long-continued, with losses of children, of pet grandchildren. What with the crowd, and the wretched streets, it was a sign of affection which had cost him something, for the old man to leave his own house at all that day; and he was glad of the emperor’s support, as he moved from place to place among the children he protests so often to have loved as his own.  For a strange piece of literary good fortune, at the beginning of the present century, has set freethe long-buried fragrance of this famous friendship of the old world, from below a valueless later manuscript, in a series of letters, wherein the two writers exchange, for the most part their evening thoughts, especially at family anniversaries, and with entire intimacy, on their children, on the art of speech, on all the various subtleties of the “science of images”—rhetorical images—above all, of course, on sleep and matters of health. They are full of mutual admiration of each other’s eloquence, restless in absence till they see one another again, noting, characteristically, their very dreams of each other, expecting the day which will terminate the office, the business or duty, which separates them—“as superstitious people watch for the star, at the rising of which they may break their fast.” To one of the writers, to Aurelius, the correspondence was sincerely of value. We see him once reading his letters with genuine delight on going to rest. Fronto seeks to deter his pupil from writing in Greek.—Why buy, at great cost, a foreign wine, inferior to that from one’s own vineyard? Aurelius, on the other hand, with an extraordinary innate susceptibility to words—la parole pour la parole, as the French say—despairs, in presence of Fronto’s rhetorical perfection.  Like the modern visitor to the Capitoline and some other museums, Fronto had been struck, pleasantly struck, by the family likeness among the Antonines; and it was part of his friendship to make much of it, in the case of the children of Faustina. “Well! I have seen the little ones,” he writes to Aurelius, then, apparently, absent from them: “I have seen the little ones—the pleasantest sight of my life; for they are as like yourself as could possibly be. It has well repaid me for my journey over that slippery road, and up those steep rocks; for I beheld you, not simply face to face before me, but, more generously, whichever way I turned, to my right and my left. For the rest, I found them, Heaven be thanked! with healthy cheeks and lusty voices. One was holding a slice of white bread, like a king’s son; the other a crust of brown bread, as becomes the offspring of a philosopher. I pray the gods to have both the sower and the seed in their keeping; to watch over this field wherein the ears of corn are so kindly alike. Ah! I heard too their pretty voices, so sweet that in the childish prattle of one and the other I seemed somehow to be listening—yes! in that chirping of your pretty chickens—to the limpid+ and harmonious notes of your own oratory. Take care! you will find me growing independent, having those I could love in your place:—love, on the surety of my eyes and ears.”  +“Limpid” is misprinted “Limped.”   “Magistro meo salutem!” replies the Emperor, “I too have seen my little ones in your sight of them; as, also, I saw yourself in reading your letter. It is that charming letter forces me to write thus:” with reiterations of affection, that is, which are continual in these letters, on both sides, and which may strike a modern reader perhaps as fulsome; or, again, as having something in common with the old Judaic unction of friendship. They were certainly sincere.  To one of those children Fronto had now brought the birthday gift of the silver trumpet, upon which he ventured to blow softly now and again, turning away with eyes delighted at the sound, when he thought the old man was not listening. It was the well-worn, valetudinarian subject of sleep, on which Fronto and Aurelius were talking together; Aurelius always feeling it a burden, Fronto a thing of magic capacities, so that he had written an encomium in its praise, and often by ingenious arguments recommends his imperial pupil not to be sparing of it. To-day, with his younger listeners in mind, he had a story to tell about it:—  “They say that our father Jupiter, when he ordered the world at the beginning, divided time into two parts exactly equal: the one part he clothed with light, the other with darkness: he called them Day and Night; and he assigned rest to the night and to day the work of life. At that time Sleep was not yet born and men passed the whole of their lives awake: only, the quiet of the night was ordained for them, instead of sleep. But it came to pass, little by little, being that the minds of men are restless, that they carried on their business alike by night as by day, and gave no part at all to repose. And Jupiter, when he perceived that even in the night-time they ceased not from trouble and disputation, and that even the courts of law remained open (it was the pride of Aurelius, as Fronto knew, to be assiduous in those courts till far into the night) resolved to appoint one of his brothers to be the overseer of the night and have authority over man’s rest. But Neptune pleaded in excuse the gravity of his constant charge of the seas, and Father Dis the difficulty of keeping in subjection the spirits below; and Jupiter, having taken counsel with the other gods, perceived that the practice of nightly vigils was somewhat in favour. It was then, for the most part, that Juno gave birth to her children: Minerva, the mistress of all art and craft, loved the midnight lamp: Mars delighted in the darkness for his plots and sallies; and the favour of Venus and Bacchus was with those who roused by night. Then it was that Jupiter formed the design of creating Sleep; and he added him to the number of the gods, and gave him the charge over night and rest, putting into his hands the keys of human eyes. With his own hands he mingled the juices wherewith Sleep should soothe the hearts of mortals—herb of Enjoyment and herb of Safety, gathered from a grove in Heaven; and, from the meadows of Acheron, the herb of Death; expressing from it one single drop only, no bigger than a tear one might hide. ‘With this juice,’ he said, ‘pour slumber upon the eyelids of mortals. So soon as it hath touched them they will lay themselves down motionless, under thy power. But be not afraid: they shall revive, and in a while stand up again upon their feet.’ Thereafter, Jupiter gave wings to Sleep, attached, not, like Mercury’s, to his heels, but to his shoulders, like the wings of Love. For he said, ‘It becomes thee not to approach men’s eyes as with the noise of chariots, and the rushing of a swift courser, but in placid and merciful flight, as upon the wings of a swallow—nay! with not so much as the flutter of the dove.’ Besides all this, that he might be yet pleasanter to men, he committed to him also a multitude of blissful dreams, according to every man’s desire. One watched his favourite actor; another listened to the flute, or guided a charioteer in the race: in his dream, the soldier was victorious, the general was borne in triumph, the wanderer returned home. Yes!—and sometimes those dreams come true!  Just then Aurelius was summoned to make the birthday offerings to his household gods. A heavy curtain of tapestry was drawn back; and beyond it Marius gazed for a few moments into the Lararium, or imperial chapel. A patrician youth, in white habit, was in waiting, with a little chest in his hand containing incense for the use of the altar. On richly carved consoles, or side boards, around this narrow chamber, were arranged the rich apparatus of worship and the golden or gilded images, adorned to-day with fresh flowers, among them that image of Fortune from the apartment of Antoninus Pius, and such of the emperor’s own teachers as were gone to their rest. A dim fresco on the wall commemorated the ancient piety of Lucius Albinius, who in flight from Rome on the morrow of a great disaster, overtaking certain priests on foot with their sacred utensils, descended from the wagon in which he rode and yielded it to the ministers of the gods. As he ascended into the chapel the emperor paused, and with a grave but friendly look at his young visitor, delivered a parting sentence, audible to him alone: _Imitation is the most acceptable part of worship:—the gods had much rather mankind should resemble than flatter them. Make sure that those to whom you come nearest be the happier by your presence!_  It was the very spirit of the scene and the hour—the hour Marius had spent in the imperial house. How temperate, how tranquillising! what humanity! Yet, as he left the eminent company concerning whose ways of life at home he had been so youthfully curious, and sought, after his manner, to determine the main trait in all this, he had to confess that it was a sentiment of mediocrity, though of a mediocrity for once really golden.  During the Eastern war there came a moment when schism in the empire had seemed possible through the defection of Lucius Verus; when to Aurelius it had also seemed possible to confirm his allegiance by no less a gift than his beautiful daughter Lucilla, the eldest of his children—the domnula, probably, of those letters. The little lady, grown now to strong and stately maidenhood, had been ever something of the good genius, the better soul, to Lucius Verus, by the law of contraries, her somewhat cold and apathetic modesty acting as counterfoil to the young man’s tigrish fervour. Conducted to Ephesus, she had become his wife by form of civil marriage, the more solemn wedding rites being deferred till their return to Rome.  The ceremony of the Confarreation, or religious marriage, in which bride and bridegroom partook together of a certain mystic bread, was celebrated accordingly, with due pomp, early in the spring; Aurelius himself assisting, with much domestic feeling. A crowd of fashionable people filled the space before the entrance to the apartments of Lucius on the Palatine hill, richly decorated for the occasion, commenting, not always quite delicately, on the various details of the rite, which only a favoured few succeeded in actually witnessing. “She comes!” Marius could hear them say, “escorted by her young brothers: it is the young Commodus who carries the torch of white-thornwood, the little basket of work-things, the toys for the children:”—and then, after a watchful pause, “she is winding the woollen thread round the doorposts. Ah! I see the marriage-cake: the bridegroom presents the fire and water.” Then, in a longer pause, was heard the chorus, Thalassie! Thalassie! and for just a few moments, in the strange light of many wax tapers at noonday, Marius could see them both, side by side, while the bride was lifted over the doorstep: Lucius Verus heated and handsome—the pale, impassive Lucilla looking very long and slender, in her closely folded yellow veil, and high nuptial crown.  As Marius turned away, glad to escape from the pressure of the crowd, he found himself face to face with Cornelius, an infrequent spectator on occasions such as this. It was a relief to depart with him—so fresh and quiet he looked, though in all his splendid equestrian array in honour of the ceremony—from the garish heat of the marriage scene. The reserve which had puzzled Marius so much on his first day in Rome, was but an instance of many, to him wholly unaccountable, avoidances alike of things and persons, which must certainly mean that an intimate companionship would cost him something in the way of seemingly indifferent amusements. Some inward standard Marius seemed to detect there (though wholly unable to estimate its nature) of distinction, selection, refusal, amid the various elements of the fervid and corrupt life across which they were moving together:—some secret, constraining motive, ever on the alert at eye and ear, which carried him through Rome as under a charm, so that Marius could not but think of that figure of the white bird in the market-place as undoubtedly made true of him. And Marius was still full of admiration for this companion, who had known how to make himself very pleasant to him. Here was the clear, cold corrective, which the fever of his present life demanded. Without it, he would have felt alternately suffocated and exhausted by an existence, at once so gaudy and overdone, and yet so intolerably empty; in which people, even at their best, seemed only to be brooding, like the wise emperor himself, over a world’s disillusion. For with all the severity of Cornelius, there was such a breeze of hopefulness—freshness and hopefulness, as of new morning, about him. For the most part, as I said, those refusals, that reserve of his, seemed unaccountable. But there were cases where the unknown monitor acted in a direction with which the judgment, or instinct, of Marius himself wholly concurred; the effective decision of Cornelius strengthening him further therein, as by a kind of outwardly embodied conscience. And the entire drift of his education determined him, on one point at least, to be wholly of the same mind with this peculiar friend (they two, it might be, together, against the world!) when, alone of a whole company of brilliant youth, he had withdrawn from his appointed place in the amphitheatre, at a grand public show, which after an interval of many months, was presented there, in honour of the nuptials of Lucius Verus and Lucilla.  And it was still to the eye, through visible movement and aspect, that the character, or genius of Cornelius made itself felt by Marius; even as on that afternoon when he had girt on his armour, among the expressive lights and shades of the dim old villa at the roadside, and every object of his knightly array had seemed to be but sign or symbol of some other thing far beyond it. For, consistently with his really poetic temper, all influence reached Marius, even more exclusively than he was aware, through th e medium of sense. From Flavian in that brief early summer of his existence, he had derived a powerful impression of the “perpetual flux”: he had caught there, as in cipher or symbol, or low whispers more effective than any definite language, his own Cyrenaic philosophy, presented thus, for the first time, in an image or person, with much attractiveness, touched also, consequently, with a pathetic sense of personal sorrow:—a concrete image, the abstract equivalent of which he could recognise afterwards, when the agitating personal influence had settled down for him, clearly enough, into a theory of practice. But of what possible intellectual formula could this mystic Cornelius be the sensible exponent; seeming, as he did, to live ever in close relationship with, and recognition of, a mental view, a source of discernment, a light upon his way, which had certainly not yet sprung up for Marius? Meantime, the discretion of Cornelius, his energetic clearness and purity, were a charm, rather physical than moral: his exquisite correctness of spirit, at all events, accorded so perfectly with the regular beauty of his person, as to seem to depend upon it. And wholly different as was this later friendship, with its exigency, its warnings, its restraints, from the feverish attachment to Flavian, which had made him at times like an uneasy slave, still, like that, it was a reconciliation to the world of sense, the visible world. From the hopefulness o f this gracious presence, all visible things around him, even the commonest objects of everyday life—if they but stood together to warm their hands at the same fire—took for him a new poetry, a delicate fresh bloom, and interest. It was as if his bodily eyes had been indeed mystically washed, renewed, strengthened.  And how eagerly, with what a light heart, would Flavian have taken his placein the amphitheatre, among the youth of his own age! with what an appetite for every detail of the entertainment, and its various accessories:—the sunshine, filtered into soft gold by the vela, with their serpentine patterning, spread over the more select part of the company; the Vestal virgins, taking their privilege of seats near the empress Faustina, who sat there in a maze of double-coloured gems, changing, as she moved, like the waves of the sea; the cool circle of shadow, in which the wonderful toilets of the fashionable told so effectively around the blazing arena, covered again and again during the many hours’ show, with clean sand for the absorption of certain great red patches there, by troops of white-shirted boys, for whom the good-natured audience provided a scramble of nuts and small coin, flung to them over a trellis-work of silver-gilt and amber, precious gift of Nero, while a rain of flowers and perfume fell over themselves, as they paused between the parts of their long feast upon the spectacle of animal suffering.  During his sojourn at Ephesus, Lucius Verus had readily become a patron, patron or protégé, of the great goddess of Ephesus, the goddess of hunters; and the show, celebrated by way of a compliment to him to-day, was to present some incidents of her story, where she figures almost as the genius of madness, in animals, or in the humanity which comes in contact with them. The entertainment would have an element of old Greek revival in it, welcome to the taste of a learned and Hellenising society; and, as Lucius Verus was in some sense a lover of animals, was to be a display of animals mainly. There would be real wild and domestic creatures, all of rare species; and a real slaughter. On so happy an occasion, it was hoped, the elder emperor might even concede a point, and a living criminal fall into the jaws of the wild beasts. And the spectacle was, certainly, to end in the destruction, by one mighty shower of arrows, of a hundred lions, “nobly” provided by Aurelius himself for the amusement of his people.—Tam magnanimus fuit!  The arena, decked and in order for the first scene, looked delightfully fresh, re-inforcing on the spirits of the audience the actual freshness of the morning, which at this season still brought the dew. Along the subterranean ways that led up to it, the sound of an advancing chorus was heard at last, chanting the words of a sacred song, or hymn to Diana; for the spectacle of the amphitheatre was, after all, a religious occasion. To its grim acts of blood-shedding a kind of sacrificial character still belonged in the view of certain religious casuists, tending conveniently to soothe the humane sensibilities of so pious an emperor as Aurelius, who, in his fraternal complacency, had consented to preside over the shows.  Artemis or Diana, as she may be understood in the actual development of her worship, was, indeed, the symbolical expression of two allied yet contrasted elements of human temper and experience—man’s amity, and also his enmity, towards the wild creatures, when they were still, in a certain sense, his brothers. She is the complete, and therefore highly complex, representative of a state, in which man was still much occupied with animals, not as his flock, or as his servants after the pastoral relationship of our later, orderly world, but rather as his equals, on friendly terms or the reverse,—a state full of primeval sympathies and antipathies, of rivalries and common wants—while he watched, and could enter into, the humours of those “younger brothers,” with an intimacy, the “survivals” of which in a later age seem often to have had a kind of madness about them. Diana represents alike the bright and the dark side of such relationship. But the humanities of that relationship were all forgotten to-day in the excitement of a show, in which mere cruelty to animals, their useless suffering and death, formed the main point of interest. People watched their destruction, batch after batch, in a not particularly inventive fashion; though it was expected that the animals themselves, as living creatures are apt to do when hard put to it, would become inventive, and make up, by the fantastic accidents of their agony, for the deficiencies of an age fallen behind in this matter of manly amusement. It was as a Deity of Slaughter—the Taurian goddess who demands the sacrifice of the shipwrecked sailors thrown on her coasts—the cruel, moonstruck huntress, who brings not only sudden death, but rabies, among the wild creatures that Diana was to be presented, in the person of a famous courtesan. The aim at an actual theatrical illusion, after the first introductory scene, was frankly surrendered to the display of the animals, artificially stimulated and maddened to attack each other. And as Diana was also a special protectress of new-born creatures, there would be a certain curious interest in the dexterously contrived escape of the young from their mother’s torn bosoms; as many pregnant animals as possible being carefully selected for the purpose.  The time had been, and was to come again, when the pleasures of the amphitheatre centered in a similar practical joking upon human beings. What more ingenious diversion had stage manager ever contrived than that incident, itself a practical epigram never to be forgottten, when a criminal, who, like slaves and animals, had no rights, was compelled to present the part of Icarus; and, the wings failing him in due course, had fallen into a pack of hungry bears? For the long shows of the amphitheatre were, so to speak, the novel-reading of that age—a current help provided for sluggish imaginations, in regard, for instance, to grisly accidents, such as might happen to one’s self; but with every facility for comfortable inspection. Scaevola might watch his own hand, consuming, crackling, in the fire, in the person of a culprit, willing to redeem his life by an act so delightful to the eyes, the very ears, of a curious public. If the part of Marsyas was called for, there was a criminal condemned to lose his skin. It might be almost edifying to study minutely the expression of his face, while the assistants corded and pegged him to the bench, cunningly; the servant of the law waiting by, who, after one short cut with his knife, would slip the man’s leg from his skin, as neatly as if it were a stocking—a finesse in providing the due amount of suffering for wrong-doers only brought to its height in Nero’s living bonfires. But then, by making his suffering ridiculous, you enlist against the sufferer, some real, and all would-be manliness, and do much to stifle any false sentiment of compassion. The philosophic emperor, having no great taste for sport, and asserting here a personal scruple, had greatly changed all that; had provided that nets should be spread under the dancers on the tight-rope, and buttons for the swords of the gladiators. But the gladiators were still there. Their bloody contests had, under the form of a popular amusement, the efficacy of a human sacrifice; as, indeed, the whole system of the public shows was understood to possess a religious import. Just at this point, certainly, the judgment of Lucretius on pagan religion is without reproach—  Tantum religio potuit suadere malorum.   And Marius, weary and indignant, feeling isolated in the great slaughter-house, could not but observe that, in his habitual complaisance to Lucius Verus, who, with loud shouts of applause from time to time, lounged beside him, Aurelius had sat impassibly through all the hours Marius himself had remained there. For the most part indeed, the emperor had actually averted his eyes from the show, reading, or writing on matters of public business, but had seemed, after all, indifferent. He was revolving, perhaps, that old Stoic paradox of the Imperceptibility of pain; which might serve as an excuse, should those savage popular humours ever again turn against men and women. Marius remembered well his very attitude and expression on this day, when, a few years later, certain things came to pass in Gaul, under his full authority; and that attitude and expression defined already, even thus early in their so friendly intercourse, and though he was still full of gratitude for his interest, a permanent point of difference between the emperor and himself—between himself, with all the convictions of his life taking centre to-day in his merciful, angry heart, and Aurelius, as representing all the light, all the apprehensive power there might be in pagan intellect. There was something in a tolerance such as this, in the bare fact that he could sit patiently through a scene like this, which seemed to Marius to mark Aurelius as his inferior now and for ever on the question of righteousness; to set them on opposite sides, in some great conflict, of which that difference was but a single presentment. Due, in whatever proportions, to the abstract principles he had formulated for himself, or in spite of them, there was the loyal conscience within him, deciding, judging himself and every one else, with a wonderful sort of authority:—You ought, methinks, to be something quite different from what you are; here! and here! Surely Aurelius must be lacking in that decisive conscience at first sight, of the intimations of which Marius could entertain no doubt—which he looked for in others. He at least, the humble follower of the bodily eye, was aware of a crisis in life, in this brief, obscure existence, a fierce opposition of real good and real evil around him, the issues of which he must by no means compromise or confuse; of the antagonisms of which the “wise” Marcus Aurelius was unaware.  That long chapter of the cruelty of the Roman public shows may, perhaps, leave with the children of the modern world a feeling of self-complacency. Yet it might seem well to ask ourselves—it is always well to do so, when we read of the slave-trade, for instance, or of great religious persecutions on this side or on that, or of anything else which raises in us the question, “Is thy servant a dog, that he should do this thing?”—not merely, what germs of feeling we may entertain which, under fitting circumstances, would induce us to the like; but, even more practically, what thoughts, what sort of considerations, may be actually present to our minds such as might have furnished us, living in another age, and in the midst of those legal crimes, with plausible excuses for them: each age in turn, perhaps, having its own peculiar point of blindness, with its consequent peculiar sin—the touch-stone of an unfailing conscience in the select few.  Those cruel amusements were, certainly, the sin of blindness, of deadness and stupidity, in the age of Marius; and his light had not failed him regarding it. Yes! what was needed was the heart that would make it impossible to witness all this; and the future would be with the forces that could beget a heart like that. His chosen philosophy had said,—Trust the eye: Strive to be right always in regard to the concrete experience: Beware of falsifying your impressions. And its sanction had at least been effective here, in protesting—“This, and this, is what you may not look upon!” Surely evil was a real thing, and the wise man wanting in the sense of it, where, not to have been, by instinctive election, on the right side, was to have failed in life. The very finest flower of the same company  Aurelius with the gilded fasces borne before him,  a crowd of exquisites, the empress Faustina her-  self, and all the elegant blue -stockings of the  day, who maintained, people said, their private  " sophists " to whisper philosophy into their ears  winsomely as they performed the duties of the  toilet was assembled again a few months later,  in a different place and for a very different  purpose. The temple of Peace, a " modernis-  ing" foundation of Hadrian, enlarged by a  library and lecture-rooms, had grown into an  institution like something between a college and  a literary club ; and here Cornelius Pronto was to  pronounce a discourse on the Nature of Morals.  There were some, indeed, who had desired the  emperor Aurelius himself to declare his whole  mind on this matter. Rhetoric was become  almost a function of the state : philosophy was  upon the throne ; and had from time to time, by request, delivered an official utterance with well-  nigh divine authority. And it was as the delegate  of this authority, under the full sanction of the  philosophic emperor emperor and pontiff, that  the aged Pronto purposed to-day to expound  some parts of the Stoic doctrine, with the view  of recommending morals to that refined but  perhaps prejudiced company, as being, in effect,  one mode of comeliness in things as it were  music, or a kind of artistic order, in life. And  he did this earnestly, with an outlay of all his  science of mind, and that eloquence of which he  was known to be a master. For Stoicism was no  longer a rude a nd unkempt thing. Received at  court, it had largely decorated itself: it was  grown persuasive and insinuating, and sought not  only to convince men's intelligence but to allure  their souls. Associated with the beautiful old  age of the great rhetorician, and his winning  voice, it was almost Epicurean. And the old  man was at his best on the occasion ; the last on  which he ever appeared in this way. To-day  was his own birthday. Early in the morning the  imperial letter of congratulation had reached  him ; and all the pleasant animation it had caused  was in his face, when assisted by his daughter  Gratia he took his place on the ivory chair, as  president of the Athenaeum of Rome, wearing  with a wonderful grace the philosophic pall, in  reality neither more nor less than the loose  woollen cloak of the common soldier, but fastened on his right shoulder with a magnificent clasp,  the emperor's birthday gift.   It was an age, as abundant evidence shows,  whose delight in rhetoric was but one result of a  general susceptibility an age not merely taking  pleasure in words, but experiencing a great moral  power in them. Fronto's quaintly fashionable  audience would have wept, and also assisted with  their purses, had his present purpose been, as  sometimes happened, the recommendation of an  object of charity. As it was, arranging them-  selves at their ease among the images and flowers,  these amateurs of exquisite language, with their  tablets open for careful record of felicitous word  or phrase, were ready to give themselves wholly  to the intellectual treat prepared for them,  applauding, blowing loud kisses through the air  sometimes, at the speaker's triumphant exit from  one of his long, skilfully modulated sentences ;  while the younger of them meant to imitate  everything about him, down to the inflections of  his voice and the very folds of his mantle.  Certainly there was rhetoric enough : a wealth  of imagery ; illustrations from painting, music,  mythology, the experiences of love ; a manage-  ment, by which subtle, unexpected meaning was  brought out of familiar terms, like flies from  morsels of amber, to use Fronto's own figure.  But with all its richness, the higher claim of his  style was rightly understood to lie in gravity  and self-command, and an especial care for the purities of a vocabulary which rejected every  expression unsanctioned by the authority of  approved ancient models.   And it happened with Marius, as it will  sometimes happen, that this general discourse to  a general audience had the effect of an utterance  adroitly designed for him. His conscience still  vibrating painfully under the shock of that scene  in the amphitheatre, and full of the ethical  charm of Cornelius, he was questioning himself  with much impatience as to the possibility of an  adjustment between his own elaborately thought-  / out intellectual scheme and the " old morality."  In that intellectual scheme indeed the old  morality had so far been allowed no place, as  seeming to demand from him the admission of  certain first principles such as might misdirect or  retard him in his efforts towards a complete,  many-sided existence ; or distort the revelations  of the experience of life ; or curtail his natural  liberty of heart and mind. But now (his  imagination being occupied for the moment  with the noble and resolute air, the gallantry, so  to call it, which composed the outward mien and  presentment of his strange friend's inflexible  ethics) he felt already some nascent suspicion of  his philosophic programme, in regard, precisely,  to the question of good taste. There was the  taint of a graceless " antinomianism " perceptible  in it, a dissidence, a revolt against accustomed  modes, the actual impression of which on other men might rebound upon himself in some loss of  that personal pride to which it was part of his  theory of life to allow so much. And it was  exactly a moral situation such as this that Pronto  appeared to be contemplating. He seemed to  have before his mind the case of one Cyrenaic  or Epicurean, as the courtier tends to be, by  habit and instinct, if not on principle who yet  experiences, actually, a strong tendency to moral  assents, and a desire, with as little logical incon-  sistency as may be, to find a place for duty and  righteousness in his house of thought.   And the Stoic professor found the key to this  problem in the purely aesthetic beauty of the old  morality, as an element in things, fascinating to  the imagination, to good taste in its most highly  developed form, through association a system or  order, as a matter of fact, in possession, not only  of the larger world, but of the rare minority of  elite intelligences ; from which, therefore, least  of all would the sort of Epicurean he had in view  endure to become, so to speak, an outlaw. He  supposed his hearer to be, with all sincerity, in  search after some principle of conduct (and it was  here that he seemed to Marius to be speaking  straight to him) which might give unity of  motive to an actual rectitude, a cleanness and  probity of life, determined partly by natural  affection, partly by enlightened self-interest or  the feeling of honour, due in part even to the  mere fear of penalties ; no element of which,  however, was distinctively moral in the agent  himself as such, and providing him, therefore,  no common ground with a really moral being like  Cornelius, or even like the philosophic emperor.  Performing the same offices ; actually satisfying,  even as they, the external claims of others ;  rendering to all their dues one thus circum-  stanced would be wanting, nevertheless, in the  secret of inward adjustment to the moral agents  around him. How tenderly more tenderly  than many stricter souls he might yield himself  to kindly instinct ! what fineness of charity in  passing judgment on others ! what an exquisite  conscience of other men's susceptibilities ! He  knows for how much the manner, because the  heart itself, counts, in doing a kindness. He  goes beyond most people in his care for all  weakly creatures ; judging, instinctively, that to  be but sentient is to possess rights. He con-  ceives a hundred duties, though he may not call  them by that name, of the existence of which  purely duteous souls may have no suspicion. He  has a kind of pride in doing more than they, in a  way of his own. Sometimes, he may think that  those men of line and rule do not really under-  stand their own business. How narrow, inflex-  ible, unintelligent ! what poor guardians (he may  reason) of the inward spirit of righteousness, are  some supposed careful walkers according to its  letter and form. And yet all the while he  admits, as such, no moral world at all : no  theoretic equivalent to so large a proportion of  the facts of life.   But, over and above such practical rectitude,  thus determined by natural affection or self-love  or fear, he may notice that there is a rem-  nant of right conduct, what he does, still  more what he abstains from doing, not so much  through his own free election, as from a defer-  ence, an " assent," entire, habitual, unconscious,  to custom to the actual habit or fashion of  others, from whom he could not endure to  break away, any more than he would care to  be out of agreement with them on questions  of mere manner, or, say, even, of dress. Yes !  there were the evils, the vices, which he avoided  as, essentially, a failure in good taste. An assent,  such as this, to the preferences of others, might  seem to be the weakest of motives, and the  rectitude it could determine the least consider-  able element in a moral life. Yet here, accord-  ing to Cornelius Pronto, was in truth the  revealing example, albeit operating upon com-  parative trifles, of the general principle required.  There was one great idea associated with which  that determination to conform to precedent was  elevated into the clearest, the fullest, the  weightiest principle of moral action ; a principle  under which one might subsume men's most  strenuous efforts after righteousness. And he  proceeded to expound the idea of Humanity of  a universal commonwealth of mind, which becomes explicit, and as if incarnate, in a select  communion of just men made perfect.   'O Koo-fjios axravel 7ro\t9 <rrw the world is as   it were a commonwealth, a city : and there are  observances, customs, usages, actually current  in it, things our friends and companions will  expect of us, as the condition of our living there  with them at all, as really their peers or fellow-  citizens. Those observances were, indeed, the  creation of a visible or invisible aristocracy in  it, whose actual manners, whose preferences  from of old, become now a weighty tradition  as to the way in which things should or should  not be done, are like a music, to which the  intercourse of life proceeds such a music as  no one who had once caught its harmonies  would willingly jar. In this way, the becoming,  as in Greek TO irpiirov : or T^ rj#?7, mores, manners,  as both Greeks and Romans said, would indeed  be a comprehensive term for duty. Righteous-  ness would be, in the words of " Caesar " himself,  of the philosophic Aurelius, but a " following  of the reasonable will of the oldest, the most  venerable, of cities, of polities of the royal, the  law-giving element, therein forasmuch as we  are citizens also in that supreme city on high,  of which all other cities beside are but as single  habitations." But as the old man spoke with  animation of this supreme city, this invisible  society, whose conscience was become explicit  in its inner circle of inspired souls, of whose common spirit, the trusted leaders of human  conscience had been but the mouthpiece, of  whose successive personal preferences in the  conduct of life, the " old morality " was the sum,  Marius felt that his own thoughts were pass-  ing beyond the actual intention of the speaker ;  not in the direction of any clearer theoretic or  abstract definition of that ideal commonwealth,  but rather as if in search of its visible locality and  abiding-place, the walls and towers of which,  so to speak, he might really trace and tell,  according to his own old, natural habit of mind. ^  It would be the fabric, the outward fabric, of  a system reaching, certainly, far beyond the  great city around him, even if conceived in all  the machinery of its visible and invisible  influences at their grandest as Augustus or  Trajan might have conceived of them however  well the visible Rome might pass for a figure  of that new, unseen, Rome on high. At  moments, Marius even asked himself with  surprise, whether it might be some vast secret  society the speaker had in view : that august  community, to be an outlaw from which, to  be foreign to the manners of which, was a loss so  much greater than to be excluded, into the ends  of the earth, from the sovereign Roman common-  wealth. Humanity, a universal order, the great  polity, its aristocracy of elect spirits, the mastery  of their example over their successors these  were the ideas, stimulating enough in their way, by association with which the Stoic professor had  attempted to elevate, to unite under a single  principle, men's moral efforts, himself lifted up  with so genuine an enthusiasm. But where  might Marius search for all this, as more than an  intellectual abstraction ? Where were those  elect souls in whom the claim of Humanity  became so amiable, winning, persuasive whose  footsteps through the world were so beautiful  in the actual order he saw whose faces averted  from him, would be more than he could bear ?  Where was that comely order, to which as a  great fact of experience he must give its due ; to  which, as to all other beautiful " phenomena "  in life, he must, for his own peace, adjust  himself ?   Rome did well to be serious. The discourse  ended somewhat abruptly, as the noise of a great  crowd in motion was heard below the walls ;  whereupon, the audience, following the humour  of the younger element in it, poured into the  colonnade, from the steps of which the famous  procession, or transvectio y of the military knights  was to be seen passing over the Forum, from  their trysting-place at the temple of Mars, to  the temple of the Dioscuri. The ceremony took  place this year, not on the day accustomed-  anniversary of the victory of Lake Regillus,  with its pair of celestial assistants and amid  the heat and roses of a Roman July, but, by anticipation, some months earlier, the almond-  trees along the way being still in leafless flower.  Through that light trellis-work, Marius watched  the riders, arrayed in all their gleaming orna-  ments, and wearing wreaths of olive around  their helmets, the faces below which, what  with battle and the plague, were almost all  youthful. It was a flowery scene enough, but  had to-day its fulness of war-like meaning ; the  return of the army to the North, where the  enemy was again upon the move, being now  imminent. Cornelius had ridden along in his  place, and, on the dismissal of the company,  passed below the steps where Marius stood, with |  that new song he had heard once before floating  from his lips.  And Marius, for his part, was grave enough.  The discourse of Cornelius Pronto, with its  wide prospect over the human, the spiritual,  horizon, had set him on a review on a review  of the isolating narrowness, in particular, of his  own theoretic scheme. Long after the very  latest roses were faded, when " the town " had  departed to country villas, or the baths, or the  war, he remained behind in Rome ; anxious to  try the lastingness of his own Epicurean rose-  garden ; setting to work over again, and  deliberately passing from point to point of his  old argument with himself, down to its practical  conclusions. That age and our own have much  in common many difficulties and hopes. Let  the reader pardon me if here and there I seem to  be passing from Marius to his modern representa-  tives from Rome, to Paris or London.   What really were its claims as a theory of  practice, of the sympathies that determine practice ? It had been a theory, avowedly, of  loss and gain (so to call it) of an economy. If,  therefore, it missed something in the commerce  of life, which some other theory of practice was  able to include, if it made a needless sacrifice,  then it must be, in a manner, inconsistent with  itself, and lack theoretic completeness. Did it  make such a sacrifice ? What did it lose, or  cause one to lose ?   And we may note, as Marius could hardly  have done, that Cyrenaicism is ever the char-  acteristic philosophy of youth, ardent, but narrow  in its survey sincere, but apt to become one-  sided, or even fanatical. It is one of those sub-  jective and partial ideals, based on vivid, because  limited, apprehension of the truth of one aspect  of experience (in this case, of the beauty of the  world and the brevity of man's life there) which  it may be said to be the special vocation of the  young to express. In the school of Cyrene, in  that comparatively fresh Greek world, we see  this philosophy where it is least blase^ as we say ,  in its most pleasant, its blithest and yet perhaps  its wisest form, youthfully bright in the youth of  European thought. But it grows young again  for a while in almost every youthful soul. It is  spoken of sometimes as the appropriate utterance  of jaded men ; but in them it can hardly be  sincere, or, by the nature of the case, an enthusi-  asm. " Walk in the ways of thine heart, and in  the sight of thine eyes," is, indeed, most often, according to the supposition of the book from  which I quote it, the counsel of the young, who  feel that the sunshine is pleasant along their veins,  and wintry weather, though in a general sense  foreseen, a long way off. The youthful enthusi-  asm or fanaticism, the self-abandonment to one  favourite mode of thought or taste, which occurs,  quite naturally, at the outset of every really  vigorous intellectual career, finds its special  opportunity in a theory such as that so carefully  put together by Marius, just because it seems to  call on one to make the sacrifice, accompanied  by a vivid sensation of power and will, of what  others value sacrifice of some conviction, or  doctrine, or supposed first principle for the sake  of that clear-eyed intellectual consistency, which  is like spotless bodily cleanliness, or scrupulous  personal honour, and has itself for the mind of  the youthful student, when he first comes to  appreciate it, the fascination of an ideal.   The Cyrenaic doctrine, then, realised as a  motive of strenuousness or enthusiasm, is not so  properly the utterance of the u jaded Epicurean,"  as of the strong young man in all the freshness  of thought and feeling, fascinated by the notion  of raising his life to the level of a daring theory,  while, in the first genial heat of existence, the  beauty of the physical world strikes potently  upon his wide-open, unwearied senses. He  discovers a great new poem every spring, with a  hundred delightful things he too has felt, but which have never been expressed, or at least  never so truly, before. The workshops of the  artists, who can select and set before us what is  really most distinguished in visible life, are open  to him. He thinks that the old Platonic, or  the new Baconian philosophy, has been better  explained than by the authors themselves, or  with some striking original development, this  very month. In the quiet heat of early summer,  on the dusty gold morning, the music comes,  louder at intervals, above the hum of voices  from some neighbouring church, among the  flowering trees, valued now, perhaps, only for  the poetically rapt faces among priests or wor-  shippers, or the mere skill and eloquence, it may  be, of its preachers of faith and righteousness.  In his scrupulous idealism, indeed, he too feels  himself to be something of a priest, and that  devotion of his days to the contemplation of  what is beautiful, a sort of perpetual religious  service. Afar off, how many fair cities and  delicate sea-coasts await him ! At that age,  with minds of a certain constitution, no very  choice or exceptional circumstances are needed  to provoke an enthusiasm something like this.  Life in modern London even, in the heavy glow  of summer, is stuff sufficient for the fresh  imagination of a youth to build its " palace of  art" of; and the very sense and enjoyment of  an experience in which all is new, are but en-  hanced, like that glow of summer itself, by the thought of its brevity, giving him something of  a gambler's zest, in the apprehension, by dex-  terous act or diligently appreciative thought, of  the highly coloured moments which are to pass  away so quickly. At bottom, perhaps, in his  elaborately developed self-consciousness, his  sensibilities, his almost fierce grasp upon the  things he values at all, he has, beyond all others,  an inward need of something permanent in its  character, to hold by : of which circumstance,  also, he may be partly aware, and that, as with  the brilliant Claudio in Measure for Measure -, it  is, in truth, but darkness he is, " encountering,  like a bride." But the inevitable falling of the  curtain is probably distant ; and in the daylight,  at least, it is not often that he really shudders at  the thought of the grave the weight above,  the narrow world and its company, within.  When the thought of it does occur to him, he  may say to himself: Well ! and the rude  monk, for instance, who has renounced all this,  on the security of some dim world beyond it,  really acquiesces in that " fifth act," amid all the  consoling ministries around him, as little as I  should at this moment ; though I may hope,  that, as at the real ending of a play, however  well acted, I may already have had quite enough  of it, and find a true well-being in eternal sleep.  And precisely in this circumstance, that,  consistently with the function of youth in  general, Cyrenaicism will always be more or less the special philosophy, or "prophecy," of  the young, when the ideal of a rich experience  comes to them in the ripeness of the receptive,  if not of the reflective, powers precisely in this  circumstance, if we rightly consider it, lies the  duly prescribed corrective of that philosophy.  For it is by its exclusiveness, and by negation  rather than positively, that such theories fail to  satisfy us permanently ; and what they really  need for their correction, is the complementary  influence of some greater system, in which they  may find their due place. That Sturm und  Drang of the spirit, as it has been called, that  ardent and special apprehension of half-truths,  in the enthusiastic, and as it were " prophetic "  advocacy of which, devotion to truth, in the case  of the young apprehending but one point at  a time in the great circumference most usually  embodies itself, is levelled down, safely enough,  afterwards, as in history so in the individual, by  the weakness and mere weariness, as well as by  the maturer wisdom, of our nature. And  though truth indeed, resides, as has been said,  " in the whole " in harmonisings and adjust-  ments like this yet those special apprehen-  sions may still owe their full value, in this sense  of " the whole," to that earlier, one-sided but  ardent pre-occupation with them.   Cynicism and Cyrenaicism : they are the  earlier Greek forms of Roman Stoicism and  Epicureanism, and in that world of old Greek thought, we may notice with some surprise that,  in a little while, the nobler form of Cyrenaicism  -Cyrenaicism cured of its faults met the  nobler form of Cynicism half-way. Starting  from opposed points, they merged, each in its  most refined form, in a single ideal of temperance  or moderation. Something of the same kind  may be noticed regarding some later phases of  Cyrenaic theory. If it starts with considerations  opposed to the religious temper, which the  religious temper holds it a duty to repress, it is  like it, nevertheless, and very unlike any lower  development of temper, in its stress and earnest-  ness, its serious application to the pursuit of a  very unworldly type of perfection. The saint,  and the Cyrenaic lover of beauty, it may be  thought, would at least understand each other  | better than either would understand the mere  1 man of the world. Carry their respective  positions a point further, shift the terms a little,  and they might actually touch.   Perhaps all theories of practice tend, as they  rise to their best, as understood by their worthiest  representatives, to identification with each other.  For the variety of men's possible reflections on  their experience, as of that experience itself, is  not really so great as it seems ; and as the highest  and most disinterested ethical formula, filtering  down into men's everyday existence, reach the  same poor level of vulgar egotism, so, we may  fairly suppose that all the highest spirits, from whatever contrasted points they have started,  would yet be found to entertain, in the moral  consciousness realised by themselves, much the  same kind of mental company ; to hold, far more  than might be thought probable, at first sight,  the same personal types of character, and even  the same artistic and literary types, in esteem  or aversion ; to convey, all of them alike, the  same savour of unworldliness. And Cyrenaicism  or Epicureanism too, new or old, may be noticed,  in proportion to the completeness of its develop-  ment, to approach, as to the nobler form of  Cynicism, so also to the more nobly developed  phases of the old, or traditional morality. In the  gravity of its conception of life, in its pursuit  after nothing less than a perfection, in its appre-  hension of the value of time the passion and  the seriousness which are like a consecration  la passion et le serieux qui consacrent it may be  conceived, as regards its main drift, to be not so  much opposed to the old morality, as an  exaggeration of one special motive in it.   Some cramping, narrowing, costly preference  of one part of his own nature, and of the nature  of things, to another, Marius seemed to have  detected in himself, meantime, in himself, as  also in those old masters of the Cyrenaic philo-  sophy. If they did realise the povoxpovo? fiSovij, as  it was called the pleasure of the " Ideal Now "  if certain moments of their lives were high-  pitched, passionately coloured, intent with sensation, and a kind of knowledge which, in its vivid  clearness, was like sensation if, now and then,  they apprehended the world in its fulness, and  had a vision, almost " beatific," of ideal person-  alities in life and art, yet these moments were  a very costly matter: they paid a great price  for them, in the sacrifice of a thousand possible  sympathies, of things only to be enjoyed through  sympathy, from which they detached themselves,  in intellectual pride, in loyalty to a mere theory  that would take nothing for granted, and assent  to no approximate or hypothetical truths. In  their unfriendly, repellent attitude towards the  Greek religion, and the old Greek morality,  surely, they had been but faulty economists.  The Greek religion was then alive : then, still  more than in its later day of dissolution, the  higher view of it was possible, even for the  philosopher. Its story made little or no demand  for a reasoned or formal acceptance. A religion,  which had grown through and through man's  life, with so much natural strength ; had meant  so much for so many generations ; which ex-  pressed so much of their hopes, in forms so  familiar and so winning ; linked by associations  so manifold to man as he had been and was a  religion like this, one would think, might have  had its uses, even for a philosophic sceptic. Yet  those beautiful gods, with the whole round of  their poetic worship, the school of Cyrene  definitely renounced. The old Greek morality, again, with all its  imperfections, was certainly a comely thing.  Yes ! a harmony, a music, in men's ways, one  might well hesitate to jar. The merely aesthetic  sense might have had a legitimate satisfaction in  the spectacle of that fair order of choice manners,  in those attractive conventions, enveloping, so  gracefully, the whole of life, insuring some  sweetness, some security at least against offence,  in the intercourse of the world. Beyond an  obvious utility, it could claim, indeed but custom  use -and -wont, as we say for its sanction.  But then, one of the advantages of that liberty of  spirit among the Cyrenaics (in which, through  theory, they had become dead to theory, so that  all theory, as such, was really indifferent to them,  and indeed nothing valuable but in its tangible  ministration to life) was precisely this, that it  gave them free play in using as their ministers or  servants, things which, to the uninitiated, must  be masters or nothing. Yet, how little the  followers of Aristippus made of that whole  comely system of manners or morals, then actually  in possession of life, is shown by the bold  practical consequence, which one of them main-  tained (with a hard, self-opinionated adherence  to his peculiar theory of values) in the not very  amiable paradox that friendship and patriotism  were things one could do without ; while  another Deaths-advocate^ as he was called  helped so many to self-destruction, by his pessimistic eloquence on the evils of life, that his  lecture-room was closed. That this was in the  range of their consequences that this was a  possible, if remote, deduction from the premisses  of the discreet Aristippus was surely an incon-  sistency in a thinker who professed above all  things an economy of the moments of life. And  yet those old Cyrenaics felt their way, as if in  the dark, we may be sure, like other men in the  ordinary transactions of life, beyond the narrow  limits they drew of clear and absolutely legitimate  knowledge, admitting what was not of immediate  sensation, and drawing upon that " fantastic "  future which might never come. A little more  of such "walking by faith/' a little more of such  not unreasonable " assent," and they might have  profited by a hundred services to their culture,  from Greek religion and Greek morality, as they  actually were. The spectacle of their fierce,  exclusive, tenacious hold on their own narrow  apprehension, makes one think of a picture with  no relief, no soft shadows nor breadth of space,  or of a drama without proportionate repose.   Yet it was of perfection that Marius (to return  to him again from his masters, his intellectual  heirs) had been really thinking all the time : a  narrow perfection it might be objected, the  perfection of but one part of his nature his  capacities of feeling, of exquisite physical im-  pressions, of an imaginative sympathy but still,  a true perfection of those capacities, wrought out to their utmost degree, admirable enough in its  way. He too is an economist : he hopes, by  that " insight " of which the old Cyrenaics made  so much, by skilful apprehension of the condi-  tions of spiritual success as they really are, the  special circumstances of the occasion with which  he has to deal, the special felicities of his own  nature, to make the most, in no mean or vulgar  sense, of the few years of life ; few, indeed, for  the attainment of anything like general perfec-  tion ! With the brevity of that sum of years  his mind is exceptionally impressed ; and this  purpose makes him no frivolous dilettante^ but  graver than other men : his scheme is not that  of a trifler, but rather of one who gives a  meaning of his own, yet a very real one, to those  old words Let us work while it is day ! He  has a strong apprehension, also, of the beauty of  the visible things around him ; their fading,  momentary, graces and attractions. His natural  susceptibility in this direction, enlarged by  experience, seems to demand of him an almost  exclusive pre- occupation with the aspects of  things ; with their aesthetic character, as it is  called their revelations to the eye and the  imagination : not so much because those aspects  of them yield him the largest amount of enjoy-  ment, as because to be occupied, in this way,  with the aesthetic or imaginative side of things,  is to be in real contact with those elements of his  own nature, and of theirs, which, for him at least, are matter of the most real kind of appre-  hension. As other men are concentrated upon  truths of number, for instance, or on business, or  it may be on the pleasures of appetite, so he is  wholly bent on living in that full stream of  refined sensation. And in the prosecution of this  love of beauty, he claims an entire personal  liberty, liberty of heart and mind, liberty, above  all, from what may seem conventional answers to  first questions.   But, without him there is a venerable system  of sentiment and idea, widely extended in time  and place, in a kind of impregnable possession of  human life a system, which, like some other  great products of the conjoint efforts of human  mind through many generations, is rich in the  world's experience ; so that, in attaching oneself  to it, one lets in a great tide of that experience,  and makes, as it were with a single step, a great  experience of one's own, and with great con-  sequent increase to one's sense of colour, variety,  and relief, in the spectacle of men and things.  The mere sense that one belongs to a system  an imperial system or organisation has, in itself,  the expanding power of a great experience ; as  some have felt who have been admitted from  narrower sects into the communion of the  catholic church ; or as the old Roman citizen  felt. It is, we might fancy, what the coming  into possession of a very widely spoken language  might be, with a great literature, which is also the speech of the people we have to live  among.   A wonderful order, actually in possession of /  human life ! grown inextricably through and { 7 f  through it ; penetrating into its laws, its very  language, its mere habits of decorum, in a  thousand half-conscious ways ; yet still felt to be,  in part, an unfulfilled ideal ; and, as such, awaken-  ing hope, and an aim, identical with the one  only consistent aspiration of mankind ! In the  apprehension of that, just then, Marius seemed to  have joined company once more with his own old  self; to have overtaken on the road the pilgrim  who had come to Rome, with absolute sincerity,  on the search fo r perfection. It defined not so  much a change of practice, as of sympathy a  new departure, an expansion, of sympathy. It in-  volved, certainly, some curtailment of his liberty,  in concession to the actual manner, the distinc-  tions, the enactments of that great crowd of  admirable spirits, who have elected so, and not  otherwise, in their conduct of life, and are not  here to give one, so to term it, an " indulgence."  But then, under the supposition of their dis-  approval, no roses would ever seem worth  plucking again. The authority they exercised  was like that of classic taste an influence so  subtle, yet so real, as defining the loyalty of the  scholar ; or of some beautiful and venerable  ritual, in which every observance is become  spontaneous and almost mechanical, yet is found, the more carefully one considers it, to have a  reasonable significance and a natural history.   And Marius saw that he would be but an  inconsistent Cyrenaic, mistaken in his estimate of  values, of loss and gain, and untrue to the well-  considered economy of life which he had brought  with him to Rome that some drops of the  great cup would fall to the ground if he did  not make that concession, if he did but remain  just there.  " Many prophets and kings have desired to see the things  which ye see."  The enemy on the Danube was, indeed, but the  vanguard of the mighty invading hosts of the  fifth century. Illusively repressed just now,  those confused movements along the northern  boundary of the Empire were destined to unite  triumphantly at last, in the barbarism, which,  powerless to destroy the Christian church, was  yet to suppress for a time the achieved culture of  the pagan world. The kingdom of Christ was  to grow up in a somewhat false alienation from  the light and beauty of the kingdom of nature,  of the natural man, with a partly mistaken  tradition concerning it, and an incapacity, as it  might almost seem at times, for eventual re-  conciliation thereto. Meantime Italy had armed  itself once more, in haste, and the imperial  brothers set forth for the Alps.   Whatever misgiving the Roman people may  have felt as to the leadership of the younger was  unexpectedly set at rest ; though with some  temporary regret for the loss of what had been,  after all, a popular figure on the world's stage.  Travelling fraternally in the same litter with  Aurelius, Lucius Verus was struck with sudden  and mysterious disease, and died as he hastened  back to Rome. His death awoke a swarm of  sinister rumours, to settle on Lucilla, jealous, it  was said, of Fabia her sister, perhaps of Faustina  on Faustina herself, who had accompanied the  imperial progress, and was anxious now to hide  a crime of her own even on the elder brother,  who, beforehand with the treasonable designs of  his colleague, should have helped him at supper  to a favourite morsel, cut with a knife poisoned  ingeniously on one side only. Aurelius, certainly,  with sincere distress, his long irritations, so duti-  fully concealed or repressed, turning now into a  single feeling of regret for the human creature,  carried the remains back to Rome, and demanded  of the Senate a public funeral, with a decree for  the apotheosis^ or canonisation, of the dead.   For three days the body lay in state in the  Forum, enclosed in an open coffin of cedar-wood,  on a bed of ivory and gold, in the centre of a  sort of temporary chapel, representing the temple  of his patroness Venus Genetrix. Armed soldiers  kept watch around it, while choirs of select  voices relieved one another in the chanting of  hymns or monologues from the great tragedians.  At the head of the couch were displayed the  various personal decorations which had belonged  to Verus in life. Like all the rest of Rome,  Marius went to gaze on the face he had seen  last scarcely disguised under the hood of a  travelling-dress, as the wearer hurried, at night-  fall, along one of the streets below the palace,  to some amorous appointment. Unfamiliar as  he still was with dead faces, he was taken by  surprise, and touched far beyond what he had  reckoned on, by the piteous change there ; even  the skill of Galen having been not wholly  successful in the process of embalming. It was  as if a brother of his own were lying low before  him, with that meek and helpless expression  it would have been a sacrilege to treat rudely.   Meantime, in the centre of the Campus  Martins^ within the grove of poplars which  enclosed the space where the body of Augustus  had been burnt, the great funeral pyre, stuffed  with shavings of various aromatic woods, was  built up in many stages, separated from each  other by a light entablature of woodwork, and  adorned abundantly with carved and tapestried  images. Upon this pyramidal or flame-shaped  structure lay the corpse, hidden now under a  mountain of flowers and incense brought by the  women, who from the first had had their fond-  ness for the wanton graces of the deceased. The  dead body was surmounted by a waxen effigy  of great size, arrayed in the triumphal ornaments. At last the Centurions to whom that  office belonged, drew near, torch in hand, to  ignite the pile at its four corners, while the  soldiers, in wild excitement, flung themselves  around it, casting into the flames the decorations  they had received for acts of valour under the  dead emperor's command.   It had been a really heroic order, spoiled a  little, at the last moment, through the some-  what tawdry artifice, by which an eagle not  a very noble or youthful specimen of its kind  was caused to take flight amid the real or  affected awe of the spectators, above the perishing  remains; a court chamberlain, according to ancient  etiquette, subsequently making official declaration  before the Senate, that the imperial " genius "  had been seen in this way, escaping from the fire.  And Marius was present when the Fathers,  duly certified of the fact, by "acclamation,"  muttering their judgment all together, in a  kind of low, rhythmical chant, decreed Gcelum  the privilege of divine rank to the departed.   The actual gathering of the ashes in a white  cere-cloth by the widowed Lucilla, when the  last flicker had been extinguished by drops of  wine ; and the conveyance of them to the little  cell, already populous, in the central mass of  the sepulchre of Hadrian, still in all the splen-  dour of its statued colonnades, were a matter  of private or domestic duty ; after the due  accomplishment of which Aurelius was at liberty to retire for a time into the privacy of  his beloved apartments of the Palatine. And  hither, not long afterwards, Marius was sum-  moned a second time, to receive from the  imperial hands the great pile of manuscripts it  would be his business to revise and arrange.   One year had passed since his first visit to the  palace ; and as he climbed the stairs to-day, the  great cypresses rocked against the sunless sky,  like living creatures in pain. He had to traverse  a long subterranean gallery, once a secret  entrance to the imperial apartments, and in  our own day, amid the ruin of all around it, as  smooth and fresh as if the carpets were but just  removed from its floor after the return of the  emperor from the shows. It was here, on such  an occasion, that the emperor Caligula, at the  age of twenty-nine, had come by his end, the  assassins gliding along it as he lingered a few  moments longer to watch the movements of a  party of noble youths at their exercise in the  courtyard below. As Marius waited, a second  time, in that little red room in the house of  the chief chamberlain, curious to look once  more upon its painted walls the very place  whither the assassins were said to have turned  for refuge after the murder he could all but  see the figure, which in its surrounding light  and darkness seemed to him the most melancholy  in the entire history of Rome. He called to  mind the greatness of that popularity and early promise the stupefying height of irresponsible  power, from which, after all, only men's viler  side had been clearly visible the overthrow of  reason the seemingly irredeemable memory ;  and still, above all, the beautiful head in which  the noble lines of the race of Augustus were  united to, he knew not what expression of  sensibility and fineness, not theirs, and for the  like of which one must pass onward to the  Antonines. Popular hatred had been careful  to destroy its semblance wherever it was to be  found ; but one bust, in dark bronze-like basalt  of a wonderful perfection of finish, preserved  in the museum of the Capitol, may have seemed  to some visitors there perhaps the finest extant  relic of Roman art. Had the very seal of  empire upon those sombre brows, reflected  from his mirror, suggested his insane attempt  upon the liberties, the dignity of men ?  " O humanity ! " he seems to ask, " what hast  thou done to me that I should so despise  thee ? " And might not this be indeed the true  meaning of kingship, if the world would have  one man to reign over it ? The like of this :  or, some incredible, surely never to be realised,  height of disinterestedness, in a king who should  be the servant of all, quite at the other extreme  of the practical dilemma involved in such a  position. Not till some while after his death  had the body been decently interred by the piety  of the sisters he had driven into exile. Fraternity of feeling had been no invariable feature in the  incidents of Roman story. One long Vicus  Sceleratus^ from its first dim foundation in  fraternal quarrel on the morrow of a common  deliverance so touching had not almost every  step in it some gloomy memory of unnatural  violence ? Romans did well to fancy the  traitress Tarpeia still " green in earth," crowned,  enthroned, at the roots of the Capitoline rock.  If in truth the religion of Rome was every-  where in it, like that perfume of the funeral  incense still upon the air, so also was the  memory of crime prompted by a hypocritical  cruelty, down to the erring, or not erring, Vesta  calmly buried alive there, only eighty years ago,  under Domitian.   It was with a sense of relief that Marius  found himself in the presence of Aurelius,  whose gesture of friendly intelligence, as he  entered, raised a smile at the gloomy train of  his own thoughts just then, although since his  first visit to the palace a great change had  passed over it. The clear daylight found its  way now into empty rooms. To raise funds  for the war, Aurelius, his luxurious brother  being no more, had determined to sell by  auction the accumulated treasures of the im-  perial household. The works of art, the dainty  furniture, had been removed, and were now  " on view " in the Forum, to be the delight  or dismay, for many weeks to come, of the large public of those who were curious in  these things. In such wise had Aurelius come  to the condition of philosophic detachment  he had affected as a boy, hardly persuaded to  wear warm clothing, or to sleep in more  luxurious manner than on the bare floor. But,  in his empty house, the man of mind, who  had always made so much of the pleasures of  philosophic contemplation, felt freer in thought  than ever. He had been reading, with less  self-reproach than usual, in the Republic of  Plato, those passages which describe the life  of the philosopher-kings like that of hired  servants in their own house who, possessed  of the " gold undefiled " of intellectual vision,  forgo so cheerfully all other riches. It was  one of his happy days : one of those rare days,  when, almost with none of the effort, otherwise  so constant with him, his thoughts came rich  and full, and converged in a mental view, as  exhilarating to him as the prospect of some  wide expanse of landscape to another man's  bodily eye. He seemed to lie readier than  was his wont to the imaginative influence of  the philosophic reason to its suggestions of a  possible open country, commencing just where  all actual experience leaves off, but which  experience, one's own and not another's, may  one day occupy. In fact, he was seeking  strength for himself, in his own way, before  he started for that ambiguous earthly warfare which was to occupy the remainder of his life.  " Ever remember this," he writes, " that a  happy life depends, not on many things  & o\iyi(TTot,<i tceiTai." And to-day, committing  himself with a steady effort of volition to the  mere silence of the great empty apartments,  he might be said to have escaped, according  to Plato's promise to those who live closely  with philosophy, from the evils of the world.   In his "conversations with himself" Marcus  Aurelius speaks often of that City on high^ of  which all other cities are but single habitations.  From him in fact Cornelius Pronto, in his late  discourse, had borrowed the expression ; and he  certainly meant by it more than the whole  commonwealth of Rome, in any idealisation of  it, however sublime. Incorporate somehow  with the actual city whose goodly stones were  lying beneath his gaze, it was also implicate in  that reasonable constitution of nature, by devout  contemplation of which it is possible for man to  associate himself to the consciousness of God.  In that New Rome he had taken up his rest for  awhile on this day, deliberately feeding his  thoughts on the better air of it, as another might  have gone for mental renewal to a favourite villa.   " Men seek retirement in country-houses," he  writes, " on the sea-coast, on the mountains ;  and you have yourself as much fondness for such  places as another. But there is little proof of  culture therein ; since the privilege is yours of  retiring into yourself whensoever you please,  into that little farm of one's own mind, where a  silence so profound may be enjoyed." That it  could make these retreats, was a plain con-  sequence of the kingly prerogative of the mind,  its dominion over circumstance, its inherent  liberty. " It is in thy power to think as thou  wilt : The essence of things is in thy thoughts  about them : All is opinion, conception : No  man can be hindered by another : What is out-  side thy circle of thought is nothing at all to it ;  hold to this, and you are safe : One thing is  needful to live close to the divine genius with-  in thee, and minister thereto worthily." And  the first point in this true ministry, this culture,  was to maintain one's soul in a condition of  indifference and calm. How continually had  public claims, the claims of other persons, with  their rough angularities of character, broken in  upon  him, the shepherd of the flock. But after  all he had at least this privilege he could not part  with, of thinking as he would ; and it was well,  now and then, by a conscious effort of will, to  indulge it for a while, under systematic direc-  tion. The duty of thus making discreet,  systematic use of the power of imaginative vision  for purposes of spiritual culture, " since the soul  takes colour from its fantasies," is a point he has  frequently insisted on.   The influence of these seasonable meditations  a symbol, or sacrament, because an intensified condition, of the soul's own ordinary and natural  life would remain upon it, perhaps for many  days. There were experiences he could not for-  get, intuitions beyond price, he had come by in  this way, which were almost like the breaking  of a physical light upon his mind ; as the great  Augustus was said to have seen a mysterious  physical splendour, yonder, upon the summit of  the Capitol, where the altar of the Sibyl now  stood. With a prayer, therefore, for inward  quiet, for conformity to the divine reason, he  read some select passages of Plato, which bear  upon the harmony of the reason, in all its forms,  with itself. "Could there be Cosmos, that  wonderful, reasonable order, in him, and nothing  but disorder in the world without ? " It was  from this question he had passed on to the vision  of a reasonable, a divine, order, not in nature, but  in the condition of human affairs that unseen  Celestial City, Uranopolis, Callipolis, Urbs Eeata  in which, a consciousness of the divine will  being everywhere realised, there would be,  among other felicitous differences from this lower  visible world, no more quite hopeless death,  of men, or children, or of their affections. He  had tried to-day, as never before, to make the  most of this vision of a New Rome, to realise it  as distinctly as he could, and, as it were, find his  way along its streets, ere he went down into a  world so irksomely different, to make his  practical effort towards it, with a soul full of  compassion for men as they were. However  distinct the mental image might have been to  him, with the descent of but one flight of steps  into the market-place below, it must have  retreated again, as if at touch of some malign  magic wand, beyond the utmost verge of the  horizon. But it had been actually, in his  clearest vision of it, a confused place, with but a  recognisable entry, a tower or fountain, here or  there, and haunted by strange faces, whose novel  expression he, the great physiognomist, could by  no means read. Plato, indeed, had been able to  articulate, to see, at least in thought, his ideal  city. But just because Aurelius had passed  beyond Plato, in the scope of the gracious  charities he pre-supposed there, he had been  unable really to track his way about it. Ah !  after all, according to Plato himself, all vision  was but reminiscence, and this, his heart's desire,  no place his soul could ever have visited in any  region of the old world's achievements. He  had but divined, by a kind of generosity of  spirit, the void place, which another experience  than his must fill.   Yet Marius noted the wonderful expression  of peace, of quiet pleasure, on the countenance  of Aurelius, as he received from him the rolls of  fine clear manuscript, fancying the thoughts of  the emperor occupied at the moment with the  famous prospect towards the Alban hills, from  those lofty windows.  The ideas of Stoicism, so precious to Marcus  Aurelius, ideas of large generalisation, have  sometimes induced, in those over whose in-  tellects they have had real power, a coldness  of heart. It was the distinction of Aurelius  that he was able to harmonise them with the  kindness, one might almost say the amenities,  of a humourist, as also with the popular religion  and its many gods. Those vasty conceptions  of the later Greek philosophy had in them, in  truth, the germ of a sort of austerely opinion-  ative "natural theology," and how often has  that led to religious dryness a hard contempt  of everything in religion, which touches the  senses, or charms the fancy, or really concerns  the affections. Aurelius had made his own the  secret of passing, naturally, and with no violence  to his thought, to and fro, between the richly  coloured and romantic religion of those old  gods who had still been human beings, and a  very abstract speculation upon the impassive, I universal soul that circle whose centre  everywhere, the circumference nowhere of  which a series of purely logical necessities had  evolved the formula. As in many another  instance, those traditional pieties of the place  and the hour had been derived by him from  his mother : frapci rrfc Mrpbs TO Oeoo-eftes. Puri-  fied, as all such religion of concrete time and  place needs to be, by frequent confronting with  the ideal of godhead as revealed to that innate  religious sense in the possession of which  Aurelius differed from the people around him,  it was the ground of many a sociability with  their simpler souls, and for himself, certainly,  a consolation, whenever the wings of his own  soul flagged in the trying atmosphere of purely  intellectual vision. A host of companions,  guides, helpers, about him from of old time,  " the very court and company of heaven,"  objects for him of personal reverence and  affection the supposed presence of the ancient  popular gods determined the character of much  of his daily life, and might prove the last stay  of human nature at its weakest. " In every  time and place," he had said, " it rests with  thyself to use the event of the hour religiously :  , at all seasons worship the gods." And when  he said " Worship the gods ! " he did it, as  strenuously as everything else.   Yet here again, how often must he have  experienced disillusion, or even some revolt of  feeling, at that contact with coarser natures to  which his religious conclusions exposed him.  At the beginning of the year one hundred and  seventy -three public anxiety was as great as  ever ; and as before it brought people's supersti-  tion into unreserved play. For seven days the  images of the old gods, and some of the graver  new ones, lay solemnly exposed in the open  air, arrayed in all their ornaments, each in his  separate resting-place, amid lights and burning  incense, while the crowd, following the imperial  example, daily visited them, with offerings of  flowers to this or that particular divinity,  according to the devotion of each.   But supplementing these older official observ-  ances, the very wildest gods had their share of  worship, strange creatures with strange secrets  startled abroad into open daylight. The deliri-  ous sort of religion of which Marius was a  spectator in the streets of Rome, during the  seven days of the Lectisternium, reminded him  now and again of an observation of Apuleius :  it was " as if the presence of the gods did not  do men good, but disordered or weakened  them." Some jaded women of fashion, especi-  ally, found in certain oriental devotions, at once  relief for their religiously tearful souls and an  opportunity for personal display ; preferring this  or that "mystery," chiefly because the attire  required in it was suitable to their peculiar  manner of beauty. And one morning Marius encountered an extraordinary crimson object,  borne in a litter through an excited crowd  -the famous courtesan Benedicta, still fresh  from the bath of blood, to which she had  submitted herself, sitting below the scaffold  where the victims provided for that purpose  were slaughtered by the priests. Even on the  last day of the solemnity, when the emperor  himself performed one of the oldest ceremonies  of the Roman religion, this fantastic piety had  asserted itself. There were victims enough  certainly, brought from the choice pastures of  the Sabine mountains, and conducted around  the city they were to die for, in almost con-  tinuous procession, covered with flowers and  well-nigh worried to death before the time by  the crowds of people superstitiously pressing  to touch them. But certain old-fashioned  Romans, in these exceptional circumstances,  demanded something more than this, in the  way of a human sacrifice after the ancient  pattern ; as when, not so long since, some  Greeks or Gauls had been buried alive in the  Forum. At least, human blood should be  shed ; and it was through a wild multitude  of fanatics, cutting their flesh with knives and  whips and licking up ardently the crimson  stream, that the emperor repaired to the temple  of Bellona, and in solemn symbolic act cast  the bloodstained spear, or " dart," carefully pre-  served there, towards the enemy's country towards that unknown world of German homes,  still warm, as some believed under the faint  northern twilight, with those innocent affections  of which Romans had lost the sense. And this  at least was clear, amid all doubts of abstract  right or wrong on either side, that the ruin of  those homes was involved in what Aurelius  was then preparing for, with, Yes ! the gods  be thanked for that achievement of an invigorat-  ing philosophy ! almost with a light heart.   For, in truth, that departure, really so  difficult to him, for which Marcus Aurelius  had needed to brace himself so strenuously,  came to test the power of a long-studied theory  of practice ; and it was the development of this  theory a theoria^ literally a view, an intuition,  of the most important facts, and still more im-  portant possibilities, concerning man in the  world, that Marius now discovered, almost as  if by accident, below the dry surface of the  manuscripts entrusted to him. The great purple  rolls contained, first of all, statistics, a general  historical account of the writer's own time, and  an exact diary ; all alike, though in three  different degrees of nearness to the writer's own  personal experience, laborious, formal, self-  suppressing. This was for the instruction of  the public ; and part of it has, perhaps, found  its way into the Augustan Histories. But it was  for the especial guidance of his son Commodus  that he had permitted himself to break out, here and there, into reflections upon what was pass-  ing, into conversations with the reader. And  then, as though he were put off his guard in  this way, there had escaped into the heavy  matter-of-fact, of which the main portion was  composed, morsels of his conversation with him-  self. It was the romance of a soul (to be traced  only in hints, wayside notes, quotations from  older masters), as it were in lifelong, and often  baffled search after some vanished or elusive  golden fleece, or Hesperidean fruit-trees, or  some mysterious light of doctrine, ever retreat-  ing before him. A man, he had seemed to  Marius from the first, of two lives, as we say.  Of what nature, he had sometimes wondered,  on the day, for instance, when he had inter-  rupted the emperor's musings in the empty  palace, might be that placid inward guest or  inhabitant, who from amid the pre-occupations  of the man of practical affairs looked out, as  if surprised, at the things and faces around.  Here, then, under the tame surface of what  was meant for a life of business, Marius dis-  covered, welcoming a brother, the spontaneous  self-revelation of a soul as delicate as his own,  a soul for which conversation with itself was  a necessity of existence. Marius, indeed, had  always suspected that the sense of such necessity  was a peculiarity of his. But here, certainly,  was another, in this respect like himself; and  again he seemed to detect the advent of some new or changed spirit into the world, mystic,  inward, hardly to be satisfied with that wholly  external and objective habit of life, which had  been sufficient for the old classic soul. His  purely literary curiosity was greatly stimulated  by this example of a book of self-portraiture.  It was in fact the position of the modern  essayist, creature of efforts rather than of  achievements, in the matter of apprehending  truth, but at least conscious of lights by the  way, which he must needs record, acknowledge.  What seemed to underlie that position was the  desire to make the most of every experience  that might come, outwardly or from within :  to perpetuate, to display, what was so fleeting, f  in a kind of instinctive, pathetic protest against  the imperial writer's own theory that theory  of the " perpetual flux " of all things to Marius  himself, so plausible from of old.   There was, besides, a special moral or  doctrinal significance in the making of such  conversation with one's self at all. The Logos,  the reasonable spark, in man, is common to him  with the gods KOWO? at 77/309 roi>$ 0eov9 cum  diis communis. That might seem but the truism  of a certain school of philosophy ; but in  Aurelius was clearly an original and lively ap-  prehension. There could be no inward conver-  sation with one's self such as this, unless there  were indeed some one else, aware of our actual  thoughts and feelings, pleased or displeased at one's disposition of one's self. Cornelius Front*  too could enounce that theory of the reasonable  community between men and God, in many  different ways. But then, he was a cheerful  man, and Aurelius a singularly sad one ; and  what to Pronto was but a doctrine, or a motive  of mere rhetoric, was to the other a consolation.  He walks and talks, for a spiritual refreshment  lacking which he would faint by the way, with  what to the learned professor is but matter of  philosophic eloquence.   In performing his public religious functions  Marcus Aurelius had ever seemed like one who  took part in some great process, a great thing  really done, with more than the actually visible  assistants about him. Here, in these manu-  scripts, in a hundred marginal flowers of thought  or language, in happy new phrases of his own  like the impromptus of an actual conversation,  in quotations from other older masters of the  inward life, taking new significance from the  chances of such intercourse, was the record of  his communion with that eternal reason, which  was also his own proper self, with the divine  companion, whose tabernacle was in the intelli-  gence of men the journal of his daily commerce  with that.   Chance : or Providence ! Chance : or Wis-  dom, one with nature and man, reaching from  end to end, through all time and all exist-  ence, orderly disposing all things, according to fixed periods, as he describes it, in terms very  like certain well-known words of the book of  Wisdom: those are the "fenced opposites " of  the speculative dilemma, the tragic embarras^ of  which Aurelius cannot too often remind himself  as the summary of man's situation in the world.  If there be, however, a provident soul like this  " behind the veil," truly, even to him, even in  the most intimate of those conversations, it has  never yet spoken with any quite irresistible  assertion of its presence. Yet one's choice in  that speculative dilemma, as he has found it, is  on the whole a matter of will. "'Tis in thy  power," here too, again, "to think as thou wilt."  For his part he has asserted his will, and has  the courage of his opinion. " To the better of  two things, if thou findest that, turn with thy  whole heart : eat and drink ever of the best  before thee." "Wisdom," says that other  disciple of the Sapiential philosophy, " hath  mingled Her wine, she hath also prepared  Herself a table." ToO apurTov aTroXaue : "Partake  ever of Her best ! " And what Marius, peeping  now very closely upon the intimacies of  that singular mind, found a thing actually *  pathetic and affecting, was the manner of the  writer's bearing as in the presence of this  supposed guest ; so elusive, so jealous of any  palpable manifestation of himself, so taxing to  one's faith, never allowing one to lean frankly  upon him and feel wholly at rest. Only, he would do his part, at least, in maintaining the  constant fitness, the sweetness and quiet, of the  guest-chamber. Seeming to vary with the in-  tellectual fortune of the hour, from the plainest  account of experience, to a sheer fantasy, only  "believed because it was impossible/' that one  hope was, at all events, sufficient to make men's  common pleasures and their common ambition,  above all their commonest vices, seem very petty  indeed, too petty to know of. It bred in him  a kind of magnificence of character, in the old  Greek sense of the term ; a temper incompatible  with any merely plausible advocacy of his convic-  tions, or merely superficial thoughts about any-  thing whatever, or talk about other people, or  speculation as to what was passing in their so  visibly little souls, or much talking of any kind,  however clever or graceful. A soul thus  disposed had " already entered into the better  life": was indeed in some sort "a priest, a  minister of the gods." Hence his constant " re-  collection " ; a close watching of his soul, of a  kind almost unique in the ancient world. Before  all things examine into thyself: strive to be at home  'with thyself ! Marius, a sympathetic witness of  all this, might almost seem to have had a  foresight of monasticism itself in the prophetic  future. With this mystic companion he had  gone a step onward out of the merely objective  pagan existence. Here was already a master in  that craft of self-direction, which was about to   So play so large a part in the forming of human  mind, under the sanction of the Christian church.  Yet it was in truth a somewhat melancholy  service, a service on which one must needs  move about, solemn, serious, depressed, with the  hushed footsteps of those who move about the  house where a dead body is lying. Such was  the impression which occurred to Marius again  and again as he read, with a growing sense of  some profound dissidence from his author. By  certain quite traceable links of association he  was reminded, in spite of the moral beauty of  the philosophic emperor's ideas, how he had sat,  essentially unconcerned, at the public shows.  For, actually, his contemplations had made him  of a sad heart, inducing in him that melancholy  Tristitia which even the monastic moralists  have held to be of the nature of deadly sin, akin  to the sin of Desidia or Inactivity. Resignation,  a sombre resignation, a sad heart, patient bearing  of the burden of a sad heart : Yes ! this be-  longed doubtless to the situation of an honest  thinker upon the world. Only, in this case  there seemed to be too much of a complacent  acquiescence in the world as it is. And there  could be no true Theodicee in that ; no real  accommodation of the world as it is, to the divine  pattern of the Logos y the eternal reason, over  against it. It amounted to a tolerance of evil.   The soul of good, though it moveth upon a way thou canst but  little understand, yet prospereth on the journey: If thou sufferest nothing contrary to nature, there can be nought of   evil with thee therein :  If thou hast done aught in harmony with that reason in which men   are communicant with the gods, there also can be nothing of   evil with thee nothing to be afraid of :  Whatever is, is right ; as from the hand of one dispensing to every   man according to his desert :   If reason fulfil its part in things, what more dost thou require ?  Dost thou take it ill that thy stature is but of four cubits ?  That which happeneth to each of us is for the profit of the   whole :  The profit of the whole, that was sufficient !   Links, in a train of thought really generous !  of which, nevertheless, the forced and yet facile  optimism, refusing to see evil anywhere, might  lack, after all, the secret of genuine cheerfulness.  It left in truth a weight upon the spirits ; and  with that weight unlifted, there could be no  real justification of the ways of Heaven to man.  " Let thine air be cheerful," he had said ; and,  with an effort, did himself at times attain to that  serenity of aspect, which surely ought to  accompany, as their outward flower and favour,  hopeful assumptions like those. Still, what in  Aurelius was but a passing expression, was with  Cornelius (Marius could but note the contrast)  nature, and a veritable physiognomy. With  Cornelius, in fact, it was nothing less than the  joy which Dante apprehended in the blessed  spirits of the perfect, the outward semblance of  which, like a reflex of physical light upon human  faces from " the land which is very far off," we  may trace from Giotto onward to its consumma-  tion in the work of Raphael the serenity, the durable cheerfulness, of those who have been  indeed delivered from death, and of which the  utmost degree of that famed " blitheness " of the  Greeks had been but a transitory gleam, as in  careless and wholly superficial youth. And yet,  in Cornelius, it was certainly united with the  bold recognition of evil as a fact in the world ;  real as an aching in the head or heart, which one  instinctively desires to have cured ; an enemy  with whom no terms could be made, visible,  hatefully visible, in a thousand forms the ap-  parent waste of men's gifts in an early, or even  in a late grave ; the death, as such, of men, and  even of animals ; the disease and pain of the body.  And there was another point of dissidence  between Aurelius and his reader. The philo-  sophic emperor was a despiser of the body.  Since it is " the peculiar privilege of reason to  move within herself, and to be proof against  corporeal impressions, suffering neither sensation  nor passion to break in upon her," it follows that  the true interest of the spirit must ever be to  treat the body Well ! as a corpse attached  thereto, rather than as a living companion nay,  actually to promote its dissolution. In counter-  poise to the inhumanity of this, presenting itself  to the young reader as nothing less than a sin  against nature, the very person of Cornelius was  nothing less than a sanction of that reverent  delight Marius had always had in the visible  body of man. Such delight indeed had been but a natural consequence of the sensuous or material-  istic character of the philosophy of his choice.   } Now to Cornelius the body of man was unmis-  takeably, as a later seer terms it, the one true   I temple in the world ; or rather itself the proper  object of worship, of a sacred service, in which  the very finest gold might have its seemliness  and due symbolic use : Ah ! and of what awe-  stricken pity also, in its dejection, in the perish-  ing gray bones of a poor man's grave !   Some flaw of vision, thought Marius, must be  involved in the philosopher's contempt for it-  some diseased point of thought, or moral dulness,  leading logically to what seemed to him the  strangest of all the emperor's inhumanities, the  temper of the suicide ; for which there was just  then, indeed, a sort of mania in the world.  " 'Tis part of the business of life," he read, " to  lose it handsomely." On due occasion, " one  might give life the slip." The moral or mental  powers might fail one ; and then it were a fair  question, precisely, whether the time for taking  leave was not come : " Thou canst leave this  prison when thou wilt. Go forth boldly ! "  Just there, in the bare capacity to entertain such  question at all, there was what Marius, with a  soul which must always leap up in loyal gratitude  for mere physical sunshine, touching him as it  touched the flies in the air, could not away with.  There, surely, was a sign of some crookedness in  the natural power of apprehension. It was the  attitude, the melancholy intellectual attitude, of  one who might be greatly mistaken in things  who might make the greatest of mistakes.   A heart that could forget itself in the mis-  fortune, or even in the weakness of others : of  this Marius had certainly found the trace, as a  confidant of the emperor's conversations with  himself, in spite of those jarring inhumanities, of  that pretension to a stoical indifference, and the  many difficulties of his manner of writing. He  found it again not long afterwards, in still stronger  evidence, in this way. As he read one morning  early, there slipped from the rolls of manuscript  a sealed letter with the emperor's superscription,  which might well be of importance, and he felt  bound to deliver it at once in person ; Aurelius  being then absent from Rome in one of his  favourite retreats, at Praeneste, taking a few days  of quiet with his young children, before his  departure for the war. A whole day passed as  Marius crossed the Gampagna on horseback,  pleased by the random autumn lights bringing  out in the distance the sheep at pasture, the  shepherds in their picturesque dress, the golden  elms, tower and villa ; and it was after dark that  he mounted the steep street of the little hill-town  to the imperial residence. He was struck by an  odd mixture of stillness and excitement about the  place. Lights burned at the windows. It  seemed that numerous visitors were within, for  the courtyard was crowded with litters and horses in waiting. For the moment, indeed, all larger  cares, even the cares of war, of late so heavy a  pressure, had been forgotten in what was passing  with the little Annius Verus ; who for his part  had forgotten his toys, lying all day across the  knees of his mother, as a mere child's ear-ache  grew rapidly to alarming sickness with great and  manifest agony, only suspended a little, from  time to time, when from very weariness he  passed into a few moments of unconsciousness.  The country surgeon called in, had removed the  imposthume with the knife. There had been  a great effort to bear this operation, for the  terrified child, hardly persuaded to submit him-  self, when his pain was at its worst, and even  more for the parents. At length, amid a  company of pupils pressing in with him, as the  custom was, to watch the proceedings in the  sick-room, the eminent Galen had arrived, only  to pronounce the thing done visibly useless, the  patient falling now into longer intervals of  delirium. And thus, thrust on one side by the  crowd of departing visitors, Marius was forced  into the privacy of a grief, the desolate face of  which went deep into his memory, as he saw the  emperor carry the child away quite conscious  at last, but with a touching expression upon it of  weakness and defeat pressed close to his bosom,  as if he yearned just then for one thing only, to  be united, to be absolutely one with it, in its  obscure distress.  Paratum cor meum deus ! paratum cor meum !   THE emperor demanded a senatorial decree for  the erection of images in memory of the dead  prince ; that a golden one should be carried,  together with the other images, in the great  procession of the Circus, and the addition of the  child's name to the Hymn of the Salian Priests :  and so, stifling private grief, without further  delay set forth for the war.   True kingship, as Plato, the old master of  Aurelius, had understood it, was essentially of the  nature of a service. If so be, you can discover a  mode of life more desirable than the being a  king, for those who shall be kings ; then, the  true Ideal of the State will become a possibility;  but not otherwise. And if the life of Beatific  Vision be indeed possible, if philosophy really  " concludes in an ecstasy/' affording full fruition  to the entire nature of man ; then, for certain  elect souls at least, a mode of life will have been discovered more desirable than to be a king. By  love or fear you might induce such persons to  forgo their privilege ; to take upon them the  distasteful task of governing other men, or even  of leading them to victory in battle. But, by  the very conditions of its tenure, their dominion  would be wholly a ministry to others : they  would have taken upon them " the form of a  servant ": they would be reigning for the well-  being of others rather than their own. The true  king, the righteous king, would be Saint Lewis,  exiling himself from the better land and its  perfected company so real a thing to him,  definite and real as the pictured scenes of his  psalter to take part in or to arbitrate men's  quarrels, about the transitory appearances of  things. In a lower degree (lower, in proportion  as the highest Platonic dream is lower than any  Christian vision) the true king would be Marcus  Aurelius, drawn from the meditation of books,  to be the ruler of the Roman people in peace,  and still more, in war.   To Aurelius, certainly, the philosophic mood,  the visions, however dim, which this mood  brought with it, were sufficiently pleasant to him,  together with the endearments of his home, to  make public rule nothing less than a sacrifice of  himself according to Plato's requirement, now  consummated in his setting forth for the cam-  paign on the Danube. That it was such a  sacrifice was to Marius visible fact, as he saw hirn ceremoniously lifted into the saddle amid all the  pageantry of an imperial departure, yet with the  air less of a sanguine and self-reliant leader than  of one in some way or other already defeated.  Through the fortune of the subsequent years,  passing and repassing so inexplicably from side to  side, the rumour of which reached him amid his  own quiet studies, Marius seemed always to see  that central figure, with its habitually dejected  hue grown now to an expression of positive  suffering, all the stranger from its contrast with  the magnificent armour worn by the emperor on  this occasion, as it had been worn by his pre-  decessor Hadrian.   Totus et argento contextus et auro :   clothed in its gold and silver, dainty as that old  divinely constructed armour of which Homer  tells, but without its miraculous lightsomeness  he looked out baffled, labouring, moribund ; a  mere comfortless shadow taking part in some  shadowy reproduction of the labours of Hercules,  through those northern, mist-laden confines of  the civilised world. It was as if the familiar  soul which had been so friendly disposed towards  him were actually departed to Hades ; and when  he read the Conversations afterwards, though his  judgment of them underwent no material change,  it was nevertheless with the allowance we make  for the dead. The memory of that suffering  image, while it certainly strengthened his adhesion to what he could accept at all in the philo-  sophy of Aurelius, added a strange pathos to  what must seem the writer's mistakes. What,  after all, had been the meaning of that incident,  observed as so fortunate an omen long since,  when the prince, then a little child much  younger than was usual, had stood in ceremony  among the priests of Mars and flung his crown of  flowers with the rest at the sacred image reclin-  ing on the Pulvinar ? The other crowns lodged  themselves here or there ; when, Lo ! the  crown thrown by Aurelius, the youngest of them  all, alighted upon the very brows of the god, as  if placed there by a careful hand ! He was still  young, also, when on the day of his adoption by  Antoninus Pius he saw himself in a dream, with  as it were shoulders of ivory, like the images of  the gods, and found them more capable than  shoulders of flesh. Yet he was now well-nigh  fifty years of age, setting out with two-thirds of  life behind him, upon a labour which would fill  the remainder of it with anxious cares a labour  for which he had perhaps no capacity, and  certainly no taste.   That ancient suit of armour was almost the  only object Aurelius now possessed from all those  much cherished articles of vertu collected by the  Caesars, making the imperial residence like a  magnificent museum. Not men alone were  needed for the war, so that it became necessary,  to the great disgust alike of timid persons and of  thelovers of sport, to arm the gladiators, but  money also was lacking. Accordingly, at the  sole motion of Aurelius himself, unwilling that  the public burden should be further increased,  especially on the part of the poor, the whole of  the imperial ornaments and furniture, a sump-  tuous collection of gems formed by Hadrian,  with many works of the most famous painters  and sculptors, even the precious ornaments of  the emperor's chapel or Lararium, and the ward-  robe of the empress Faustina, who seems to have  borne the loss without a murmur, were exposed  for public auction. u These treasures," said  Aurelius, " like all else that I possess, belong by  right to the Senate and People." Was it not a  characteristic of the true kings in Plato that  they had in their houses nothing they could call  their own ? Connoisseurs had a keen delight in  the mere reading of the Prtetor's list of the  property for sale. For two months the learned  in these matters were daily occupied in the  appraising of the embroidered hangings, the  choice articles of personal use selected for pre-  servation by each succeeding age, the great out-  landish pearls from Hadrian's favourite cabinet,  the marvellous plate lying safe behind the pretty  iron wicker-work of the shops in the goldsmiths'  quarter. Meantime ordinary persons might have  an interest in the inspection of objects which  had been as daily companions to people so far  above and remote from them things so fine also in workmanship and material as to seem, with  their antique and delicate air, a worthy survival  of the grand bygone eras, like select thoughts or  utterances embodying the very spirit of the  vanished past. The town became more pensive  than ever over old fashions.   The welcome amusement of this last act of  preparation for the great war being now over,  all Rome seemed to settle down into a singular  quiet, likely to last long, as though bent only on  watching from afar the languid, somewhat un-  eventful course of the contest itself. Marius  took advantage of it as an opportunity for still  closer study than of old, only now and then going  out to one of his favourite spots on the Sabine or  Alban hills for a quiet even greater than that of  Rome in the country air. On one of these  occasions, as if by favour of an invisible power  withdrawing some unknown cause of dejection  from around him, he enjoyed a quite unusual  sense of self-possession the possession of his  own best and happiest self. After some gloomy  thoughts over-night, he awoke under the full  tide of the rising sun, himself full, in his entire  refreshment, of that almost religious appreciation  of sleep, the graciousness of its influence on men's  spirits, which had made the old Greeks conceive  of it as a god. It was like one of those old joyful  wakings of childhood, now becoming rarer and  rarer with him, and looked back upon with much  regret as a measure of advancing age. In fact, the last bequest of this serene sleep had been a  dream, in which, as once before, he overheard  those he loved best pronouncing his name very  pleasantly, as they passed through the rich light  and shadow of a summer morning, along the  pavement of a city Ah ! fairer far than Rome !  In a moment, as he arose, a certain oppression of  late setting very heavily upon him was lifted  away, as though by some physical motion in  the air.   That flawless serenity, better than the most  pleasurable excitement, yet so easily ruffled by  chance collision even with the things and persons  he had come to value as the greatest treasure in  life, was to be wholly his to-day, he thought, as  he rode towards Tibur, under the early sunshine ;  the marble of its villas glistening all the way  before him on the hillside. And why could he  not hold such serenity of spirit ever at command ?  he asked, expert as he was at last become in the  art of setting the house of his thoughts in order.  " 'Tis in thy power to think as thou wilt : " he  repeated to himself : it was the most serviceable  of all the lessons enforced on him by those  imperial conversations. " 'Tis in thy power to  think as thou wilt." And were the cheerful,  sociable, restorative beliefs, of which he had  there read so much, that bold adhesion, for  instance, to the hypothesis of an eternal friend to  man, just hidden behind the veil of a mechanical  and material order, but only just behind it, ready perhaps even now to break through :  were they, after all, really a matter of choice,  dependent on some deliberate act of volition on  his part ? Were they doctrines one might take  for granted, generously take for granted, and led  on by them, at first as but well-defined objects of  hope, come at last into the region of a corre-  sponding certitude of the intellect ? " It is the  truth I seek," he had read, " the truth, by which  no one," gray and depressing though it might  seem, "was ever really injured." And yet, on  the other hand, the imperial wayfarer, he had  been able to go along with so far on his intel-  lectual pilgrimage, let fall many things con-  cerning the practicability of a methodical and  self-forced assent to certain principles or pre-  suppositions " one could not do without." Were  there, as the expression " one could not do 'without "  seemed to hint, beliefs, without which life itself  must be almost impossible, principles which had  their sufficient ground of evidence in that very  fact? Experience certainly taught that, as  regarding the sensible world he could attend or  not, almost at will, to this or that colour, this  or that train of sounds, in the whole tumultuous  concourse of colour and sound, so it was also,  for the well-trained intelligence, in regard to  that hum of voices which besiege the inward  no less than the outward ear. Might it be not  otherwise with those various and competing  hypotheses, the permissible hypotheses, which, in that open field for hypothesis one's own  actual ignorance of the origin and tendency of  our being present themselves so importunately,  some of them with so emphatic a reiteration,  through all the mental changes of successive  ages ? Might the will itself be an org  an of  knowledge, of vision ?   On this day truly no mysterious light, no  irresistibly leading hand from afar reached him ;  only the peculiarly tranquil influence of its first  hour increased steadily upon him, in a manner  with which, as he conceived, the aspects of the  place he was then visiting hadsomething to do.  The air there, air supposed to possess the singular  property of restoring the whiteness of ivory, was  pure and thin. An even veil of lawn-like white  cloud had now drawn over the sky; and under  its broad, shadowless light every hue and tone of  time came out upon the yellow old temples, the  elegant pillared circle of the shrine of the  patronal Sibyl, the houses seemingly of a piece  with the ancient fundamental rock. Some  half- conscious motive of poetic grace would  appear to have determined their grouping ; in  part resisting, partly going along with the  natural wildness and harshness of the place, its  floods and precipices. An air of immense age  possessed, above all, the vegetation around a  world of evergreen trees the olives especially,  older than how many generations of men's lives !  fretted and twisted by the combining forces of  life and death, intoevery conceivable caprice of  form. In the windless weather all seemed to be  listening to the roar of the immemorial waterfall,  plunging down so unassociably among these  human habitations, and with a motion so un-  changing from age to age as to count, even in  this time-worn place, as an image of unalterable  rest. Yet the clear sky all but broke to let  through the ray which was silently quickening  everything in the late February afternoon, and  the unseen violet refined itself through the air.  / It was as if the spirit of life in nature were but  withholding any too precipitate revelation of  itself, in its slow, wise, maturing work.   Through some accident to the trappings of  his horse at the inn where he rested, Marius had  an unexpected delay. He sat down in an olive-  garden, and, all around him and within still  turning to reverie, the course of his own life  hitherto seemed to withdraw itself into some  other world, disparted from this spectacular point  where he was now placed to survey it, like that  distant road below, along which he had travelled  this morning across the Campagna. Through a  dreamy land he could see himself moving, as if  in another life, and like another person, through  all his fortunes and misfortunes, passing from  point to point, weeping, delighted, escaping  from various dangers. That prospect brought  him, first of all, an impulse of lively gratitude :  it was as if he must look round for some one else to share his joy with : for some one to  whom he might tell the thing, for his own  relief. Companionship, indeed, familiarity with  others, gifted in this way or that, or at least  pleasant to him, had been, through one or  another long span of it, the chief delight of the  journey. And was it only the resultant general  sense of such familiarity, diffused through his  memory, that in a while suggested the question  whether there had not been besides Flavian,  besides Cornelius even, and amid the solitude  which in spite of ardent friendship he had  perhaps loved best of all things some other  companion, an unfailing companion, ever at his  side throughout ; doubling his pleasure in the  roses by the way, patient of his peevishness or  depression, sympathetic above all with his grate-  ful recognition, onward from his earliest days,  of the fact that he was there at all ? Must not  the whole world around have faded away for  him altogether, had he been left for one moment  really alone in it f In his deepest apparent  solitude there had been rich entertainment. It  was as if there were not one only, but two way-  farers, side by side, visible there across the plain,  as he indulged his fancy. A bird came and sang  among the wattled hedge-roses : an animal feed-  ing crept nearer : the child who kept it was  gazing quietly : and the scene and the hours still  conspiring, he passed from that mere fantasy of a  self not himself, beside him in his coming and going, to those divinations of a living and com-  panionable spirit at work in all things, of which  he had become aware from time to time in his  old philosophic readings in Plato and others,   , last but not least, in Aurelius. Through one  reflection upon another, he passed from such  instinctive divinations, to the thoughts which  give them logical consistency, formulating at  last, as the necessary exponent of our own and  the world's life, that reasonable Ideal to which  the Old Testament gives the name of Creator,  which for the philosophers of Greece is the  Eternal Reason, and in the New Testament the  Father of Men even as one builds up from act  and word and expression of the friend actually  visible at one's side, an ideal of the spirit within  him.   In this peculiar and privileged hour, his  bodily frame, as he could recognise, although  just then, in the whole sum of its capacities,  so entirely possessed by him Nay ! actually his  very self was yet determined by a far-reaching  system of material forces external to it, a  thousand combining currents from earth and  sky. Its seemingly active powers of appre-  hension were, in fact, but susceptibilities to   , influence. The perfection of its capacity might  be said to depend on its passive surrender, as  of a leaf on the wind, to the motions of the  great stream of physical energy without it.  And might not the intellectual frame also, still more intimately himself as in truth it was, after  the analogy of the bodily life, be a moment only,  an impulse or series of impulses, a single process,  in an intellectual or spiritual system external  to it, diffused through all time and place that  great stream of spiritual energy, of which his  own imperfect thoughts, yesterday or to-day,  would be but the remote, and therefore im-  perfect pulsations ? It was the hypothesis  (boldest, though in reality the most conceivable  of all hypotheses) which had dawned on the  contemplations of the two opposed great masters  of the old Greek thought, alike: the "World  of Ideas," existent only because, and in so far  as, they are known, as Plato conceived ; the  " creative, incorruptible, informing mind, " sup-  posed by Aristotle, so sober-minded, yet as  regards this matter left something of a mystic  after all. Might not this entire material world,"  the very scene around him, the immemorial  rocks, the firm marble, the olive-gardens, the  falling water, be themselves but reflections in,  or a creation of, that one indefectible mind,  wherein he too became conscious, for an hour,  a day, for so many years ? Upon what other  hypothesis could he so well understand the  persistency of all these things for his own  intermittent consciousness of them, for the  intermittent consciousness of so many generations,  fleeting away one after another ? It was easier  to conceive of the material fabric of things as but an element in a world of thought as a  thought in a mind, than of mind as an element,  or accident, or passing condition in a world of  matter, because mind was really nearer to him-  self : it was an explanation of what was less  known by what was known better. The purely  material world, that close, impassable prison-  wall, seemed just then the unreal thing, to be  actually dissolving away all around him : and  he felt a quiet hope, a quiet joy dawning faintly,  in the dawning of this doctrine upon him as a  really credible opinion. It was like the break  of day over some vast prospect with the " new  city," as it were some celestial New Rome,  in the midst of it. That divine companion  figured no longer as but an occasional wayfarer  beside him ; but rather as the unfailing " assist-  ant," without whose inspiration and concurrence  he could not breathe or see, instrumenting his  bodily senses, rounding, supporting his imperfect  thoughts. How often had the thought of their  brevity spoiled for him the most natural  pleasures of life, confusing even his present sense  of them by the suggestion of disease, of death,  of a coming end, in everything ! How had  he longed, sometimes, that there were indeed  one to whose boundless power of memory he  could commit his own most fortunate moments,  his admiration, his love, Ay ! the very sorrows  of which he could not bear quite to lose the  sense : one strong to retain them even though he forgot, in whose more vigorous consciousness  they might subsist for ever, beyond that mere  quickening of capacity which was all that  remained of them in himself ! " Oh ! that  they might live before Thee " To-day at least,  in the peculiar clearness of one privileged hour,  he seemed to have apprehended that in which  the experiences he valued most might find, one  by one, an abiding-place. And again, the result-  ant sense of companionship, of a person beside  him, evoked the faculty of conscience of  conscience, as of old and when he had been  at his best, in the form, not of fear, nor of ]  self-reproach even, but of a certain lively  gratitude.   Himself his sensations and ideas never  fell again precisely into focus as on that day, |  yet he was the richer by its experience. But  for once only to have come under the power  of that peculiar mood, to have felt the train  of reflections which belong to it really forcible  and conclusive, to have been led by them to  a conclusion, to have apprehended the Great \  Ideal) so palpably that it defined personal *  gratitude and the sense of a friendly hand laid  upon him amid the shadows of the world, left  this one particular hour a marked point in life  never to be forgotten. It gave him a definitely  ascertained measure of his moral or intellectual  need, of the demand his soul must make upon  the powers, whatsoever they might be, which had brought him, as he was, into the world  at all. And again, would he be faithful to  himself, to his own habits of mind, his leading  suppositions, if he did but remain just there ?  Must not all that remained of life be but a  search for the equivalent of that Ideal, among  so-called actual things a gathering together  of every trace or token of it, which his actual  experience might present ? " Your old men shall dream dreams."   A nature like that of Marius, composed, in  about equal parts, of instincts almost physical,  and of slowly accumulated intellectual judg-  ments, was perhaps even less susceptible than  other men's characters of essential change.  And yet the experience of that fortunate hour,  seeming to gather into one central act of vision ;  all the deeper impressions his mind had ever,  received, did not leave him quite as he had been.  For his mental view, at least, it changed  measurably the world about him, of which he  was still indeed a curious spectator, but which  looked further off, was weaker in its hold,  and, in a sense, less real to him than ever.  It was as if he viewed it through a diminishing  glass. And the permanency of this change  he could note, some years later, when it happened that he was a guest at a feast, in  which the various exciting elements of Roman  life, its physical and intellectual accomplish-  ments, its frivolity and far-fetched elegances,  its strange, mystic essays after the unseen,  were elaborately combined. The great Apuleius>  the literary ideal of his boyhood, had arrived  in Rome, was now visiting Tusculum, at the  house of their common friend, a certain aristo-  cratic poet who loved every sort of superiorities ;  and Marius was favoured with an invitation to  a supper given in his honour.   It was with a feeling of half-humorous  concession to his own early boyish hero-worship,  yet with some sense of superiority in himself,  seeing his old curiosity grown now almost to  indifference when on the point of satisfaction at  last, and upon a juster estimate of its object, that  he mounted to the little town on the hillside,  the foot -ways of which were so many flights  of easy-going steps gathered round a single  great house under shadow of the "haunted"  ruins of Cicero's villa on the wooded heights.  He found a touch of weirdness in the cir-  cumstance that in so romantic a place he had  been bidden to meet the writer who was  come to seem almost like one of the personages  in his own fiction. As he turned now and  then to gaze at the evening scene through the  tall narrow openings of the street, up which  the cattle were going home slowly from the pastures below, the Alban mountains, stretched  between the great walls of the ancient houses,  seemed close at hand a screen of vaporous dun  purple against the setting sun with those waves  of surpassing softness in the boundary lines  which indicate volcanic formation. The cool-  ness of the little brown market-place, for profit  of which even the working-people, in long file  through the olive- gardens, were leaving the  plain for the night, was grateful, after the  heats of Rome. Those wild country figures,  clad in every kind of fantastic patchwork,  stained by wind and weather fortunately enough  for the eye, under that significant light inclined  him to poetry. And it was a very delicate  poetry of its kind that seemed to enfold him, \  as passing into the poet's house he paused for;  a moment to glance back towards the heights  above ; whereupon, the numerous cascades of  the precipitous garden of the villa, framed in  the doorway of the hall, fell into a harmless  picture, in its place among the pictures within,  and scarcely more real than they a landscape-  piece, in which the power of water (plunging  into what unseen depths !) done to the life,  was pleasant, and without its natural terrors.   At the further end of this bland apartment,  fragrant with the rare woods of the old inlaid  panelling, the falling of aromatic oil from the  ready-lighted lamps, the iris-root clinging to the  dresses of the guests, as with odours from the altars of the gods, the supper-table was spread,  in all the daintiness characteristic of the agree-  able petit-maitrC) who entertained. He was  already most carefully dressed, but, like Martial's  Stella, perhaps consciously, meant to change his  attire once and again during the banquet ; in  the last instance, for an ancient vesture (object of  much rivalry among the young men of fashion,  at that great sale of the imperial wardrobes) a  toga, of altogether lost hue and texture. He  wore it with a grace which became the leader of  a thrilling movement then on foot for the restora-  tion of that disused garment, in which, laying  aside the customary evening dress, all the visitors  were requested to appear, setting off the delicate  sinuosities and well-disposed " golden ways" of  its folds, with harmoniously tinted flowers. The  opulent sunset, blending pleasan tly with artificial  light, fell across the quiet ancestral effigies of  old consular dignitaries, along the wide floor  strewn with sawdust of sandal -wood, and lost  itself in the heap of cool coronals, lying ready  for the foreheads of the guests on a sideboard of  old citron. The crystal vessels darkened with  old wine, the hues of the early autumn fruit  mulberries, pomegranates, and grapes that had  long been hanging under careful protection upon  the vines, were almost as much a feast for the  eye, as the dusky fires of the rare twelve-petalled  roses. A favourite animal, white as snow,  brought by one of the visitors, purred its way gracefully among the wine-cups, coaxed onward  from place to place by those at table, as they  reclined easily on their cushions of German  eider-down, spread over the long-legged, carved  couches.   A highly refined modification of the acroama  a musical performance during supper for the  diversion of the guests was presently heard  hovering round the place, soothingly, and so  unobtrusively that the company could not guess,  and did not like to ask, whether or not it had been  designed by their entertainer. They inclined on  the whole to think it some wonderful peasant-  music peculiar to that wild neighbourhood, turn-  ing, as it did now and then, to a solitary reed-  note, like a bird's, while it wandered into the  distance. It wandered quite away at last, as  darkness with a bolder lamplight came on, and  made way for another sort of entertainment.  An odd, rapid, phantasmal glitter, advancing  from the garden by torchlight, defined itself, as  it came nearer, into a dance of young men in  armour. Arrived at length in a portico, open to  the supper-chamber, they contrived that their  mechanical march-movement should fall out into  a kind of highly expressive dramatic action ; and  with the utmost possible emphasis of dumb  motion, their long swords weaving a silvery  network in the air, they danced the Death of  Paris. The young Commodus, already an  adept in these matters, who had condescended to welcome the eminent Apuleius at the banquet,  had mysteriously dropped from his place to take  his share in the performance ; and at its con-  clusion reappeared, still wearing the dainty  accoutrements of Paris, including a breastplate,  composed entirely of overlapping tigers' claws,  skilfully gilt. The youthful prince had lately  assumed the dress of manhood, on the return of  the emperor for a brief visit from the North ;  putting up his hair, in imitation of Nero, in a  golden box dedicated to Capitoline Jupiter. His  likeness to Aurelius, his father, was become, in  consequence, more striking than ever ; and he  had one source of genuine interest in the great  literary guest of the occasion, in that the latter  was the fortunate possessor of a monopoly for the  exhibition of wild beasts and gladiatorial shows  in the province of Carthage, where he resided.   Still, after all complaisance to the perhaps  somewhat crude tastes of the emperor's son, it  was felt that with a guest like Apuleius whom  they had come prepared to entertain as veritable  connoisseurs, the conversation should be learned  and superior, and the host at last deftly led his  company round to literature, by the way of bind-  ings. Elegant rolls of manuscript from his fine  library of ancient Greek books passed from hand  to hand about the table. It was a sign for the  visitors themselves to draw their own choicest  literary curiosities from their bags, as their con-  tribution to the banquet ; and one of them, a famous reader, choosing his lucky moment,  delivered in tenor voice the piece which follows,  with a preliminary query as to whether it could  indeed be the composition of Lucian of Samosata,  understood to be the great mocker of that  day :   " What sound was that, Socrates ? " asked  Chaerephon. " It came from the beach under  the cliff yonder, and seemed a long way off.  And how melodious it was ! Was it a bird, I  wonder. I thought all sea-birds were songless."   "Aye! a sea-bird," answered Socrates, "a  bird called the Halcyon, and has a note full of  plaining and tears. There is an old story people  tell of it. It was a mortal woman once, daughter  of ^Eolus, god of the winds. Ceyx, the son of  the morning-star, wedded her in her early  maidenhood. The son was not less fair than the  father; and when it came to pass that he died,  the crying of the girl as she lamented his sweet  usage, was, Just that ! And some while after,  as Heaven willed, she was changed into a bird.  Floating now on bird's wings over the sea she  seeks her lost Ceyx there ; since she was not  able to find him after long wandering over the  land."   " That then is the Halcyon the kingfisher,"  said Chaerephon. " I never heard a bird like  it before. It has truly a plaintive note. What  kind of a bird is it, Socrates f "   " Not a large bird, though she has received large honour from the gods on account of her  singular conjugal affection. For whensoever she  makes her nest, a law of nature brings round what  is called Halcyon's weather, days distinguish-  able among all others for their serenity, though  they come sometimes amid the storms of winter  days like to-day ! See how transparent is the  sky above us, and how motionless the sea !  like a smooth mirror."   " True ! A Halcyon day, indeed ! and yester-  day was the same. But tell me, Socrates, what  is one to think of those stories which have been  told from the beginning, of birds changed into  mortals and mortals into birds ? To me nothing  seems more incredible."   "Dear Chaerephon," said Socrates, "methinks  we are but half-blind judges of the impossible  and the possible. We try the question by the  standard of our human faculty, which avails  neither for true knowledge, nor for faith, nor  vision. Therefore many things seem to us  impossible which are really easy, many things  unattainable which are within our reach ; partly  through inexperience, partly through the child-  ishness of our minds. For in truth, every man,  even the oldest of us, is like a little child, so  brief and babyish are the years of our life in  comparison of eternity. Then, how can we,  who comprehend not the faculties of gods and of  the heavenly host, tell whether aught of that kind  be possible or no f What a tempest you saw three days ago ! One trembles but to think of  the lightning, the thunderclaps, the violence of  the wind ! You might have thought the whole  world was going to ruin. And then, after a  little, came this wonderful serenity of weather,  which has continued till to-day. Which do you  think the greater and more difficult thing to do :  to exchange the disorder of that irresistible  whirlwind to a clarity like this, and becalm the  whole world again, or to refashion the form of a  woman into that of a bird ? We can teach even  little children to do something of that sort, to  take wax or clay, and mould out of the same  material many kinds of form, one after another,  without difficulty. And it may be that to the  Deity, whose power is too vast for comparison  with ours, all processes of that kind are manage-  able and easy. How much wider is the whole  circle of heaven than thyself? Wider than thou  canst express.   "Among ourselves also, how vast the differ-  ence we may observe in men's degrees of  power ! To you and me, and many another  like us, many things are impossible which are  quite easy to others. For those who are un-  musical, to play on the flute ; to read or write,  for those who have not yet learned ; is no easier  than to make birds of women, or women of  birds. From the dumb and lifeless egg Nature  moulds her swarms of winged creatures, aided,  as some will have it, by a divine and secret art in the wide air around us. She takes from  the honeycomb a little memberless live thing ;  she brings it wings and feet, brightens and  beautifies it with quaint variety of colour :  and Lo ! the bee in her wisdom, making honey  worthy of the gods.   "It follows, that we mortals, being alto-  gether of little account, able wholly to discern  no great matter, sometimes not even a little  one, for the most part at a loss regarding what  happens even with ourselves, may hardly speak  with security as to what may be the powers  of the immortal gods concerning Kingfisher,  or Nightingale. Yet the glory of thy mythus,  as my fathers bequeathed it to me, O tearful  songstress ! that will I too hand on to my  children, and tell it often to my wives,  Xanthippe and Myrto : the story of thy pious  love to Ceyx, and of thy melodious hymns ;  and, above all, of the honour thou hast with  the gods ! "   The reader's well-turned periods seemed to  stimulate, almost uncontrollably, the eloquent  stirrings of the eminent man of letters then  present. The impulse to speak masterfully was  visible, before the recital was well over, in the  moving lines about his mouth, by no means  designed, as detractors were wont to say, simply  to display the beauty of his teeth. One of the  company, expert in his humours, made ready  to transcribe what he would say, the sort of things of which a collection was then forming,  the " Florida " or Flowers, so to call them, he  was apt to let fall by the way no impromptu  ventures at random ; but rather elaborate,  carved ivories of speech, drawn, at length, out  of the rich treasure-house of a memory stored  with such, and as with a fine savour of old  musk about them. Certainly in this case, as  Marius thought, it was worth while to hear a  charming writer speak. Discussing, quite in  our modern way, the peculiarities of those sub-  urban views, especially the sea-views, of which  he was a professed lover, he was also every  inch a priest of Aesculapius, patronal god of  Carthage. There was a piquancy in his rococo^  very African, and as it were perfumed person-  ality, though he was now well-nigh sixty years  old, a mixture there of that sort of Platonic  spiritualism which can speak of the soul of  man as but a sojourner in the prison of the  body a blending of that with such a relish  for merely bodily graces as availed to set the  fashion in matters of dress, deportment, accent,  and the like, nay ! with something also which  reminded Marius of the vein of coarseness he  had found in the "Golden Book/' All this  made the total impression he conveyed a very  uncommon one. Marius did not wonder, as  he watched him speaking, that people freely  attributed to him many of the marvellous adven-  tures he had recounted in that famous romance, over and above the wildest version of his own  actual story his extraordinary marriage, his  religious initiations, his acts of mad generosity,  his trial as a sorcerer.   But a sign came from the imperial prince  that it was time for the company to separate.  He was entertaining his immediate neighbours  at the table with a trick from the streets ;  tossing his olives in rapid succession into the air,  and catching them, as they fell, between his lips.  His dexterity in this performance made the  mirth around him noisy, disturbing the sleep of  the furry visitor : the learned party broke up ;  and Marius withdrew, glad to escape into the  open air. The courtesans in their large wigs  of false blond hair, were lurking for the guests,  with groups of curious idlers. A great con-  flagration was visible in the distance. Was it in  Rome ; or in one of the villages of the country ?  Pausing for a few minutes on the terrace to  watch it, Marius was for the first time able to  converse intimately with Apuleius ; and in this  moment of confidence the " illuminist," himself  with locks so carefully arranged, and seemingly  so full of affectations, almost like one of those  light women there, dropped a veil as it were,  and appeared, though still permitting the play of  a certain element of theatrical interest in hi s  bizarre tenets, to be ready to explain and defend  his position reasonably. For a moment his  fantastic foppishness and his pretensions to ideal vision seemed to fall into some intelligible con-  gruity with each other. In truth, it was the  Platonic Idealism, as he conceived it, which for  him literally animated, and gave him so livelyan interest in, this world of the purely outward  aspects of men and things. Did material things,  such things as they had had around them all that  evening, really need apology for being there, to  interest one, at all ? Were not all visible objects  the whole material world indeed, according to  the consistent testimony of philosophy in many  forms "full of souls"? embarrassed perhaps,  partly imprisoned, but still eloquent souls ?  Certainly, the contemplative philosophy of Plato,  with its figurative imagery and apologue, its mani-  fold aesthetic colouring, its measured eloquence,  its music for the outward ear, had been, like  Plato's old master himself, a two-sided or two-  coloured thing. Apuleius was a Platonist : only,  for him, the Ideas of Plato were no creatures of  logical abstraction, but in very truth informing  souls, in every type and variety of sensible  things. Those noises in the house all supper-  time, sounding through the tables and along the  walls : were they only startings in the old  rafters, at the impact of the music and laughter ;  or rather importunities of the secondary selves,  the true unseen selves, of the persons, nay ! of  the very things around, essaying to break through  their frivolous, merely transitory surfaces, to  remind one of abiding essentials beyond them, which might have their say, their judgment to  give, by and by, when the shifting of the meats  and drinks at life's table would be over ? And  was not this the true significance of the Platonic  doctrine ? a hierarchy of divine beings, associ-  ating themselves with particular things and  places, for the purpose of mediating between  God and man man, who does but need due  attention on his part to become aware of his  celestial company, filling the air about him,  thick as motes in the sunbeam, for the glance of  sympathetic intelligence he casts through it.   " Two kinds there are, of animated beings,"  he exclaimed : " Gods, entirely differing from  men in the infinite distance of their abode, since  one part of them only is seen by our blunted  vision those mysterious stars! in the eternity  of their existence, in the perfection of their  nature, infected by no contact with ourselves :  and men, dwelling on the earth, with frivolous  and anxious minds, with infirm and mortal  members, with variable fortunes ; labouring in  vain ; taken altogether and in their whole  species perhaps, eternal ; but, severally, quitting  the scene in irresistible succession.   " What then ? Has nature connected itself  together by no bond, allowed itself to be thus  crippled, and split into the divine and human  elements ? And you will say to me : If so it  be, that man is thus entirely exiled from the  immortal gods, that all communication is denied him, that not one of them occasionally visits us,  as a shepherd his sheep to whom shall I address  my prayers ? Whom, shall I invoke as the  helper of the unfortunate, the protector of the  good ?   " Well ! there are certain divine powers of a  middle nature, through whom our aspirations  are conveyed to the gods, and theirs to us.  Passing between the inhabitants of earth and  heaven, they carry from one to the other prayers  and bounties, supplication and assistance, being a  kind of interpreters. This interval of the air is  full of them ! Through them, all revelations,  miracles, magic processes, are effected. For,  specially appointed members of this order have  their special provinces, with a ministry according  to the disposition of each. They go to and fro  without fixed habitation : or dwell in men's  houses "   Just then a companion's hand laid in the dark-  ness on the shoulder of the speaker carried him  away, and the discourse broke off suddenly. Its  singular intimations, however, were sufficient  to throw back on this strange evening, in all  its detail the dance, the readings, the distant  fire a kind of allegoric expression : gave it the  character of one of those famous Platonic figures  or apologues which had then been in fact under  discussion. When Marius recalled its circum-  stances he seemed to hear once more that voice  of genuine conviction, pleading, from amidst a scene at best of elegant frivolity, for so boldly  mystical a view of man and his position in the  world. For a moment, but only for a moment,  as he listened, the trees had seemed, as of old, to  be growing " close against the sky." Yes ! the  reception of theory, of hypothesis, of beliefs, did  depend a great deal on temperament. They  were, so to speak, mere equivalents of tempera-  ment. A celestial ladder, a ladder from heaven  to earth: that was the assumption which the  experience of Apuleius had suggested to him :  it was what, in different forms, certain persons  in every age had instinctively supposed : they  would be glad to find their supposition accredited  by the authority of a grave philosophy. Marius,  however, yearning not less than they, in that  hard world of Rome, and below its unpeopled  sky, for the trace of some celestial wing across it,  must still object that they assumed the thing  with too much facility, too much of self-com-  placency. And his second thought was, that to  indulge but for an hour fantasies, fantastic visions  of that sort, only left the actual world more  lonely than ever. For him certainly, and for  his solace, the little godship for whom the rude  countryman, an unconscious Platonist, trimmed  his twinkling lamp, would never slip from the  bark of these immemorial olive-trees. No ! not  even in the wildest moonlight. For himself,  it was clear, he must still hold by what his eyes  really saw. Only, he had to concede also, that the very boldness of such theory bore witness, at  least, to a variety of human disposition and a  consequent variety of mental view, which might  who can tell ? be correspondent to, be defined  by and define, varieties of facts, of truths, just  " behind the veil," regarding the world all alike  had actually before them as their original premiss  or starting-point ; a world, wider, perhaps, in  its possibilities than all possible fancies concernng it. " Your old men shall dream dreams, and your young men shall  see visions."   Cornelius had certain friends in or near Rome,  whose household, to Marius, as he pondered now  and again what might be the determining influ-  ences of that peculiar character, presented itself  as possibly its main secret the hidden source  from which the beauty and strength of a nature,  so persistently fresh in the midst of a somewhat  jaded world, might be derived. But Marius had  never yet seen these friends; and it was almost  by accident that the veil of reserve was at last  lifted, and, with strange contrast to his visit to  the poet's villa at Tusculum, he entered another  curious house.   "The house in which she lives," says that  mystical German writer quoted once before, " is  for the orderly soul, which does not live on blindly before her, but is ever, out of her passing  experiences, building and adorning the parts of a  many-roomed abode for herself, only an expansion  of the body ; as the body, according to the  philosophy of Swedenborg, is but a process, an  expansion, of the soul. For such an orderly soul,  as life proceeds, all sorts of delicate affinities  establish themselves, between herself and the  doors and passage-ways, the lights and shadows,  of her outward dwelling-place, until she may  seem incorporate with it until at last, in the  entire expressiveness of what is outward, there  is for her, to speak properly, between outward  and inward, no longer any distinction at all ; and  the light which creeps at a particular hour on a  particular picture or space upon the wall, the  scent of flowers in the air at a particular window,  become to her, not so much apprehended objects,  as themselves powers of apprehension and door-  ways to things beyond the germ or rudiment  of certain new faculties, by which she, dimly yet  surely, apprehends a matter lying beyond her  actually attained capacities of spirit and sense."   So it must needs be in a world which is itself,  we may think, together with that bodily " tent "  or " tabernacle," only one of many vestures for  the clothing of the pilgrim soul, to be left by  her, surely, as if on the wayside, worn-out one  by one, as it was from her, indeed, they  borrowed what momentary value or significance  they had. The two friends were returning to Rome  from a visit to a country-house, where again a  mixed company of guests had been assembled ;  Marius, for his part, a little weary of gossip, and  those sparks of ill-tempered rivalry, which would  seem sometimes to be the only sort of fire the  intercourse of people in general society can strike  out of them. A mere reaction upon this, as they  started in the clear morning, made their com-  panionship, at least for one of them, hardly less  tranquillising than the solitude he so much  valued. Something in the south-west wind,  combining with their own intention, favoured  increasingly, as the hours wore on, a serenity like  that Marius had felt once before in journeying  over the great plain towards Tibur a serenity  that was to-day brotherly amity also, and seemed  to draw into its own charmed circle whatever  was then present to eye or ear, while they talked  or were silent together, and all petty irritations,  and the like, shrank out of existence, or kept  certainly beyond its limits. The natural fatigue  of the long journey overcame them quite  suddenly at last, when they were still about two  miles distant from Rome. The seemingly end-  less line of tombs and cypresses had been visible  for hours against the sky towards the west ; and  it was just where a cross-road from the Latin  Way fell into the Appian, that Cornelius halted  at a doorway in a long, low wall the outer wall  of some villa courtyard, it might be supposed as if at liberty to enter, and rest there awhile.  He held the door open for his companion to  enter also, if he would ; with an expression, as  he lifted the latch, which seemed to ask Marius,  apparently shrinking from a possible intrusion :  " Would you like to see it ? " Was he willing  to look upon that, the seeing of which might  define yes ! define the critical turning-point in  his days ?   The little doorway in this long, low wall  admitted them, in fact, into the court or garden  of a villa, disposed in one of those abrupt natural  hollows, which give its character to the country  in this place ; the house itself, with all its  dependent buildings, the spaciousness of which  surprised Marius as he entered, being thus  wholly concealed from passengers along the road.  All around, in those well-ordered precincts, were  the quiet signs of wealth, and of a noble taste a  taste, indeed, chiefly evidenced in the selection  and juxtaposition of the material it had to deal  with, consisting almost exclusively of the remains  of older art, here arranged and harmonised, with  effects, both as regards colour and form, so  delicate as to seem really derivative from some  finer intelligence in these matters than lay within  the resources of the ancient world. It was the \  old way of true Renaissance being indeed the  way of nature with her roses, the divine way  with the body of man, perhaps with his soul  conceiving the new organism by no sudden and abrupt creation, but rather by the action of a new  I principle upon elements, all of which had in  truth already lived and died many times. The  fragments of older architecture, the mosaics, the  spiral columns, the precious corner-stones of im-  memorial building, had put on, by such juxta-  position, a new and singular expressiveness, an  air of grave thought, of an intellectual purpose,  in itself, aesthetically, very seductive. Lastly,  herb and tree had taken possession, spreading  their seed-bells and light branches, just astir in  the trembling air, above the ancient garden-wall,  against the wide realms of sunset. And from  the first they could hear singing, the singing of  children mainly, it would seem, and of a new  kind ; so novel indeed in its effect, as to bring  suddenly to the recollection of Marius, Flavian's  early essays towards a new world of poetic sound.  It was the expression not altogether of mirth, yet  of some wonderful sort of happiness the blithe  self-expansion of a joyful soul in people upon  whom some all-subduing experience had wrought  heroically, and who still remembered, on this  bland afternoon, the hour of a great deliverance.  His old native susceptibility to the spirit, the  special sympathies, of places, above all, to any  hieratic or religious significance they might have,  was at its liveliest, as Marius, still encompassed  by that peculiar singing, and still amid the  evidences of a grave discretion all around him,  passed into the house. That intelligent seriousness about life, the absence of which had ever  seemed to remove those who lacked it into some  strange species wholly alien from himself, ac-  cumulating all the lessons of his experience since  those first days at White-nights, was as it were  translated here, as if in designed congruity with  his favourite precepts of the power of physical  vision, into an actual picture. If the true value  of souls is in proportion to what they can admire,  Marius was just then an acceptable soul. As he  passed through the various chambers, great and  small, one dominant thought increased upon him,  the thought of chaste women and their children  of all the various affections of family life under  its most natural conditions, yet developed, as if  in devout imitation of some sublime new type of  it, into large controlling passions. There reigned  throughout, an order and purity, an orderly dis-  position, as if by way of making ready for some  gracious spousals. The place itself was like a  bride adorned for her husband ; and its singular  cheerfulness, the abundant light everywhere, the  sense of peaceful industry, of which he received  a deep impression though without precisely  reckoning wherein it resided, as he moved on  rapidly, were in forcible contrast just at first to  the place to which he was next conducted by  Cornelius still with a sort of eager, hurried, half-  troubled reluctance, and as if he forbore the  explanation which might well be looked for by  his companion.  An old flower-garden in the rear of the house,  set here and there with a venerable olive-tree  a picture in pensive shade and fiery blossom,  as transparent, under that afternoon light, as the  old miniature-painters' work on the walls of  the chambers within was bounded towards  the west by a low, grass-grown hill. A narrow  opening cut in its steep side, like a solid black-  ness there, admitted Marius and his gleaming  leader into a hollow cavern or crypt, neither  more nor less in fact than the family burial-  place of the Cecilii, to whom this residence  belonged, brought thus, after an arrangement  then becoming not unusual, into immediate  connexion with the abode of the living, in bold  assertion of that instinct of family life, which  the sanction of the Holy Family was, hereafter,  more and more to reinforce. Here, in truth,  was the centre of the peculiar religious expres-  siveness, of the sanctity, of the entire scene.  That "any person may, at his own election,  constitute the place which belongs to him a  religious place, by the carrying of his dead into  it": had been a maxim of old Roman law,  which it was reserved for the early Christian  societies, like that established here by the piety  of a wealthy Roman matron, to realise in all  its consequences. Yet this was certainly unlike  any cemetery Marius had ever before seen ;  most obviously in this, that these people had  returned to the older fashion of disposing of  their dead by burial instead of burning. Origin-  ally a family sepulchre, it was growing to a vast  necropolis^ a whole township of the deceased,  by means of some free expansion of the family  interest beyond its amplest natural limits. That  air of venerable beauty which characterised the  house and its precincts above, was maintained  also here. It was certainly with a great outlay  of labour that these long, apparently endless, yet  elaborately designed galleries, were increasing  so rapidly, with their layers of beds or berths,  one above another, cut, on either side the path-  way, in the porous tufa^ through which all the  moisture filters downwards, leaving the parts above dry and wholesome. All alike were care-  fully closed, and with all the delicate costliness  at command ; some with simple tiles of baked  clay, many with slabs of marble, enriched by  fair inscriptions : marble taken, in some cases,  from older pagan tombs the inscription some-  times a palimpsest^ the new epitaph being woven  into the faded letters of an earlier one.   As in an ordinary Roman cemetery, an  abundance of utensils for the worship or com memoration of the departed was disposed around  incense, lights, flowers, their flame or their  freshness being relieved to the utmost by  contrast with the coal-like blackness of the  soil itself, a volcanic sandstone, cinder of burnt-  out fires. Would they ever kindle again ?  possess, transform, the place ? Turning to an ashen pallor where, at regular intervals, an  air-hole or luminare let in a hard beam of clear  but sunless light, with the heavy sleepers, row  upon row within, leaving a passage so narrow  that only one visitor at a time could move  along, cheek to cheek with them, the high  walls seemed to shut one in into the great  company of the dead. Only the long straight  pathway lay before him ; opening, however,  here and there, into a small chamber, around a  broad, table-like coffin or " altar-tomb," adorned  even more profusely than the rest as if for some  anniversary observance. Clearly, these people,  concurring in this with the special sympathies  of Marius himself, had adopted the practice of  burial from some peculiar feeling of hope they  entertained concerning the body ; a feeling  which, in no irreverent curiosity, he would fain  have penetrated. The complete and irreparable  disappearance of the dead in the funeral fire, so  crushing to the spirits, as he for one had found  it, had long since induced in him a preference  for that other mode of settlement to the last  sleep, as having something about it more home-  like and hopeful, at least in outward seeming.  But whence the strange confidence that these  "handfuls of white dust" would hereafter re-  compose themselves once more into exulting  human creatures ? By what heavenly alchemy,  what reviving dew from above, such as was  certainly never again to reach the dead violets ? Januarius, Agapetus^ Felicitas ; Martyrs ! refresh,  I pray you, the soul of Cecil, of Cornelius ! said  an inscription, one of many, scratched, like a  passing sigh, when it was still fresh in the  mortar that had closed up the prison-door. All  critical estimate of this bold hope, as sincere  apparently as it was audacious in its claim,  being set aside, here at least, carried further  than ever before, was that pious, systematic  commemoration of the dead, which, in its  chivalrous refusal to forget or finally desert the  helpless, had ever counted with Marius as the  central exponent or symbol of all natural duty.   The stern soul of the excellent Jonathan  Edwards, applying the faulty theology of John  Calvin, afforded him, we know, the vision of  infants not a span long, on the floor of hell.  Every visitor to the Catacombs must have  observed, in a very different theological con-  nexion, the numerous children's graves there  beds of infants, but a span long indeed, lowly  "prisoners of hope," on these sacred floors.  It was with great curiosity, certainly, that  Marius considered them, decked in some in-  stances with the favourite toys of their tiny  occupants toy-soldiers, little chariot-wheels, the  entire paraphernalia of a baby-house ; and when  he saw afterwards the living children, who sang  and were busy above sang their psalm Laudate  Pueri Dominumf their very faces caught for  him a sort of quaint unreality from the memory of those others, the children of the Catacombs,  but a little way below them.   Here and there, mingling with the record  of merely natural decease, and sometimes even  at these children's graves, were the signs of  violent death or " martyrdom," proofs that  some " had loved not their lives unto the  death " in the little red phial of blood, the  palm-branch, the red flowers for their heavenly  " birthday." About one sepulchre in particular,  distinguished in this way, and devoutly arrayed  for what, by a bold paradox, was thus treated as,  natalitia a birthday, the peculiar arrangements  of the whole place visibly centered. And it was  with a singular novelty of feeling, like the dawn-  ing of a fresh order of experiences upon him,  that, standing beside those mournful relics,  snatched in haste from the common place of  execution not many years before, Marius be-  came, as by some gleam of foresight, aware  of the whole force of evidence for a certain  strange, new hope, defining in its turn some new  and weighty motive of action, which lay in  deaths so tragic for the " Christian superstition."  Something of them he had heard indeed already.  They had seemed to him but one savagery the  more, savagery self- provoked, in a cruel and  stupid world.   And yet these poignant memorials seemed  also to draw him onwards to-day, as if towards  an image of some still more pathetic suffering,  in the remote background. Yes ! the interest,  the expression, of the entire neighbourhood  was instinct with it, as with the savour of  some priceless incense. Penetrating the whole  atmosphere, touching everything around with  its peculiar sentiment, it seemed to make all  this visible mortality, death's very self Ah !  lovelier than any fable of old mythology had  ever thought to render it, in the utmost limits i  of fantasy ; and this, in simple candour of  feeling about a supposed fact. Peace! Pax!  Pax tecuml the word, the thought was put  forth everywhere, with images of hope, snatched  sometimes from that jaded pagan world which  had really afforded men so little of it from first  to last ; the various consoling images it had  thrown off, of succour, of regeneration, of escape  from the grave Hercules wrestling with Death  for possession of Alcestis, Orpheus taming the  wild beasts, the Shepherd with his sheep, the  Shepherd carrying the sick lamb upon his  shoulders. Yet these imageries after all, it must  be confessed, formed but a slight contribution  to the dominant effect of tranquil hope there  a kind of heroic cheerfulness and grateful ex- i  pansion of heart, as with the sense, again, of  some real deliverance, which seemed to deepen  the longer one lingered through these strange  and awful passages. A figure, partly pagan in  character, yet most frequently repeated of all  these visible parables the figure of one just escaped from the sea, still clinging as for life  to the shore in surprised joy, together with the  inscription beneath it, seemed best to express  the prevailing sentiment of the place. And it  was just as he had puzzled out this inscription   / went down to the bottom of the mountains.  The earth with her bars was about me for ever :  Yet hast Thou brought up my life from corruption !   that with no feeling of suddenness or change  Marius found himself emerging again, like a  later mystic traveller through similar dark  places " quieted by hope," into the daylight.   They were still within the precincts of the  house, still in possession of that wonderful sing-  ing, although almost in the open country, with  a great view of the Campagna before them, and  the hills beyond. The orchard or meadow,  through which their path lay, was already gray  with twilight, though the western sky, where  the greater stars were visible, was still afloat in  crimson splendour. The colour of all earthly  things seemed repressed by the contrast, yet  with a sense of great richness lingering in their  shadows. At that moment the voice of the  singers, a " voice of joy and health," concen-  trated itself with solemn antistrophic movement,  into an evening, or " candle " hymn.   " Hail ! Heavenly Light, from his pure glory poured,  Who is the Almighty Father, heavenly, blest :  Worthiest art Thou, at all times to be sung  With undefiled tongue." It was like the evening itself made audible, its  hopes and fears, with the stars shining in the  midst of it. Half above, half below the level  white mist, dividing the light from the dark-  ness, came now the mistress of this place, the  wealthy Roman matron, left early a widow a,i  few years before, by Cecilius " Confessor and [  Saint." With a certain antique severity in the I  gathering of the long mantle, and with coif or  veil folded decorously below the chin, " gray  within gray," to the mind of Marius her  temperate beauty brought reminiscences of the  serious and virile character of the best female  statuary of Greece. Quite foreign, however,  to any Greek statuary was the expression of  pathetic care, with which she carried a little  child at rest in her arms. Another, a year or  two older, walked beside, the fingers of one  hand within her girdle. She paused for a  moment with a greeting for Cornelius.   That visionary scene was the close, the fit-  ting close, of the afternoon's strange experiences.  A few minutes later, passing forward on his way  along the public road, he could have fancied it  a dream. The house of Cecilia grouped itself  beside that other curious house he had lately  visited at Tusculum. And what a contrast was  presented by the former, in its suggestions of  hopeful industry, of immaculate cleanness, of  responsive affection ! all alike determined by  that transporting discovery of some fact, or series of facts, in which the old puzzle of life had  found its solution. In truth, one of his most  characteristic and constant traits had ever been  a certain longing for escape for some sudden,  relieving interchange, across the very spaces of  life, it might be, along which he had lingered  most pleasantly for a lifting, from time to  time, of the actual horizon. It was like the  necessity under which the painter finds himself,  to set a window or open doorway in the back-  ground of his picture ; or like a sick man's  longing for northern coolness, and the whisper-  ing willow-trees, amid the breathless evergreen  forests of the south. To some such effect had  this visit occurred to him, and through so slight  an accident. Rome and Roman life, just then,  were come to seem like some stifling forest of  bronze -work, transformed, as if by malign en-  chantment, out of the generations of living trees,  yet with roots in a deep, down-trodden soil of  poignant human susceptibilities. In the midst  of its suffocation, that old longing for escape  had been satisfied by this vision of the church  in Cecilia's house, as never before. It was still,  indeed, according to the unchangeable law of  his temperament, to the eye, to the visual  faculty of mind, that those experiences appealed  the peaceful light and shade, the boys whose  very faces seemed to sing, the virginal beauty  of the mother and her children. But, in his  case, what was thus visible constituted a moral or spiritual influence, of a somewhat exigent  and controlling character, added anew to life,  a new element therein, with which, consistently  with his own chosen maxim, he must make  terms.   The thirst for every kind of experience,  encouraged by a philosophy which taught that  nothing was intrinsically great or small, good  or evil, had ever been at strife in him with a  hieratic refinement, in which the boy -priest  survived, prompting always the selection of  what was perfect of its kind, with subsequent  loyal adherence of his soul thereto. This had  carried him along in a continuous communion  with ideals, certainly realised in part, either in  the conditions of his own being, or in the actual  company about him, above all, in Cornelius.  Surely, in this strange new society he had  touched upon for the first time to-day in this  strange family, like "a garden enclosed " was  the fulfilment of all trie preferences, the judg-  ments, of that half-understood friend, which of  late years had been his protection so often amid  the perplexities of life. Here, it might be,  was, if not the cure, yet the solace or anodyne  of his great sorrows of that constitutional  sorrowfulness, not peculiar to himself perhaps,  but which had made his life certainly like one  long " disease of the spirit." Merciful intention  made itself known remedially here, in the mere  contact of the air, like a soft touch upon aching flesh. On the other hand, he was aware that  new responsibilities also might be awakened  new and untried responsibilities a demand for  something from him in return. Might this  new vision, like the malignant beauty of pagan  Medusa, be exclusive of any admiring gaze upon  anything but itself? At least he suspected that,  after the beholding of it, he could never again  be altogether as he had been before. Faithful to the spirit of his early Epicurean  philosophy and the impulse to surrender himself,  in perfectly liberal inquiry about it, to anything  that, as a matter of fact, attracted or impressed  him strongly, Marius informed himself with  much pains concerning the church in Cecilia's  house ; inclining at first to explain the peculi-  arities of that place by the establishment there of  the schola or common hall of one of those burial-  guilds, which then covered so much of the  unofficial, and, as it might be called, subterranean  enterprise of Roman society.   And what he found, thus looking, literally,  for the dead among the living, was the vision of  a natural, a scrupulously natural, love, transform-  ing, by some new gift of insight into the truth of  human relationships, and under the urgency of  some new motive by him so far unfathomable, all  the conditions of life. He saw, in all its primi-  tive freshness and amid the lively facts of its!  actual coming into the world, as a reality of experience, that regenerate type of humanity,  which, centuries later, Giotto and his successors,  down to the best and purest days of the young  Raphael, working under conditions very friendly  to the imagination, were to conceive as an artistic  ideal. He felt there, felt amid the stirring of  some wonderful new hope within himself, the  genius, the unique power of Christianity; in  exercise then, as it has been exercised ever since,  in spite of many hindrances, and under the most  inopportune circumstances. Chastity, as he  seemed to understand the chastity of men and  women, amid all the conditions, and with the  results, proper to such chastity, is the most  beautiful thing in the world and the truest con-  servation of that creative energy by which men  and women were first brought into it. The  nature of the family, for which the better genius  of old Rome itself had sincerely cared, of the  family and its appropriate affections all that love  of one's kindred by which obviously one does  triumph in some degree over death had never  been so felt before. Here, surely! in its genial  warmth, its jealous exclusion of all that was  opposed to it, to its own immaculate naturalness,  in the hedge set around the sacred thing on  every side, this development of the family did but  carry forward, and give effect to, the purposes,  the kindness, of nature itself, friendly to man.  As if by way of a due recognition of some im-  measurable divine condescension manifest in a certain historic fact, its influence was felt more  especially at those points which demanded some  sacrifice of one's self, for the weak, for the aged,  for little children, and even for the dead. And %  then, for its constant outward token, its significant  manner or index, it issued in a certain debonair  grace, and a certain mystic attractiveness, a  courtesy, which made Marius doubt whether  that famed Greek " blitheness," or gaiety, or  grace, in the handling of life, had been, after all,  an unrivalled success. Contrasting with the in-  curable insipidity even of what was most exquisite  in the higher Roman life, of what was still truest  to the primitive soul of goodness amid its evil,  the new creation he now looked on as it were  a picture beyond the craft of any master of old  pagan beauty had indeed all the appropriate  freshness of a " bride adorned for her husband."  Things new and old seemed to be coming as if  out of some goodly treasure-house, the brain full  of science, the heart rich with various sentiment,  possessing withal this surprising healthfulness,  this reality of heart.   " You would hardly believe," writes Pliny  to his own wife ! "what a longing for you  possesses me. Habit that we have not been  used to be apart adds herein to the primary  force of affection. It is this keeps me awake at  night fancying I see you beside me. That is  why my feet take me unconsciously to your  sitting-room at those hours when I was wont to visit you there. That is why I turn from the  door of the empty chamber, sad and ill-at-ease,  like an excluded lover."   There, is a real idyll from that family life,  the protection of which had been the motive of  so large a part of the religion of the Romans, still  surviving among them ; as it survived also in  Aurelius, his disposition and aims, and, spite of  slanderous tongues, in the attained sweetness of  his interior life. What Marius had been per-  mitted to see was a realisation of such life higher  still : and with Yes ! with a more effective  sanction and motive than it had ever possessed  before, in that fact, or series of facts, to be ascer-  tained by those who would.   The central glory of the reign of the Anto-  nines was that society had attained in it, though  very imperfectly, and for the most part by  cumbrous effort of law, many of those ends to  which Christianity went straight, with the  sufficiency, the success, of a direct and appro-  priate instinct. Pagan Rome, too, had its touch-  ing charity-sermons on occasions of great public  distress ; its charity-children in long file, in  memory of the elder empress Faustina ; its  prototype, under patronage of Aesculapius, of  the modern hospital for the sick on the island  of Saint Bartholomew. But what pagan charity  was doing tardily, and as if with the painful cal-  culation of old age, the church was doing, almost  without thinking about it, with all the liberal enterprise of youth, because it was her very being  thus to do. " You fail to realise your own good  intentions," she seems to say, to pagan virtue,  pagan kindness. She identified herself with  those intentions and advanced them with an un-  paralleled freedom and largeness. The gentle  Seneca would have reverent burial provided even  for the dead body of a criminal. Yet when a  certain woman collected for interment the insulted  remains of Nero, the pagan world surmised that  she must be a Christian: only a Christian would  have been likely to conceive so chivalrous a  devotion towards mere wretchedness. "We  refuse to be witnesses even of a homicide com-  manded by the law," boasts the dainty consciena  of a Christian apologist, " we take no part ii  your cruel sports nor in the spectacles of the  amphitheatre, and we hold that to witness a  murder is the same thing as to commit one."  And there was another duty almost forgotten,  the sense of which Rousseau brought back to the  degenerate society of a later age. In an im-  passioned discourse the sophist Favorinus counsels  mothers to suckle their own infants ; and there  are Roman epitaphs erected to mothers, which  gratefully record this proof of natural affection as  a thing then unusual. In this matter too, what  a sanction, what a provocative to natural duty,  lay in that image discovered to Augustus by  the Tiburtine Sibyl, amid the aurora of a new  age, the image of the Divine Mother and the Child, just then rising upon the world like the  dawn !   Christian belief, again, had presented itself as  a great inspirer of chastity. Chastity, in turn,  realised in the whole scope of its conditions,  fortified that rehabilitation of peaceful labour,  after the mind, the pattern, of the workman of  Galilee, which was another of the natural in-  stincts of the catholic church, as being indeed the  long-desired initiator of a religion of cheerfulness,  as a true lover of the industry so to term it  the labour, the creation, of God.   And this severe yet genial assertion of the  ideal of woman, of the family, of industry, of  man's work in life, so close to the truth of nature,  was also, in that charmed hour of the minor  " Peace of the church," realised as an influence  tending to beauty, to the adornment of life and  the world. The sword in the world, the right  eye plucked out, the right hand cut off*, the spirit  of reproach which those images express, and of  which monasticism is the fulfilment, reflect one  side only of the nature of the divine missionary  of the New Testament. Opposed to, yet blent  with, this ascetic or militant character, is the  function of the Good Shepherd, serene, blithe  and debonair, beyond the gentlest shepherd of  Greek mythology; of a king under whom the  beatific vision is realised of a reign of peace--  peace of heart among men. Such aspect of  the divine character of Christ, rightly understood, is indeed the final consummation of that bold and  brilliant hopefulness in man's nature, which had  sustained him so far through his immense labours,  his immense sorrows, and of which pagan gaiety  in the handling of life, is but a minor achieve-  ment. Sometimes one, sometimes the other, of  those two contrasted aspects of its Founder, have,  in different ages and under the urgency of different  human needs, been at work also in the Christian  Church. Certainly, in that brief " Peace of the  church " under the Antonines, the spirit of a  pastoral security and happiness seems to have  been largely expanded. There, in the early  church of Rome, was to be seen, and on  sufficiently reasonable grounds, that satisfaction  and serenity on a dispassionate survey of the facts  of life, which all hearts had desired, though for  the most part in vain, contrasting itself for  Marius, in particular, very forcibly, with the  imperial philosopher's so heavy burden of un-  relieved melancholy. It was Christianity in its  humanity, or even its humanism, in its generous  hopes for man, its common sense and alacrity of  cheerful service, its sympathy with all creatures,  its appreciation of beauty and daylight.   " The angel of righteousness," says the Shep-  herd of Hermas, the most characteristic religious  book of that age, its Pilgrim's Progress "the  angel of righteousness is modest and delicate and  meek and quiet. Take from thyself grief, for  (as Hamlet will one day discover) 'tis the sister of doubt and ill-temper. Grief is more evil  than any other spirit of evil, and is most dread-  ful to the servants of God, and beyond all spirits  destroyeth man. For, as when good news is  come to one in grief, straightway he forgetteth  his former grief, and no longer attendeth to any-  thing except the good news which he hath heard,  so do ye, also ! having received a renewal of  your soul through the beholding of these good  things. Put on therefore gladness that hath  always favour before God, and is acceptable unto  Him, and delight thyself in it ; for every man  that is glad doeth the things that are good, and  thinketh good thoughts, despising grief." Such  were the commonplaces of this new people,  among whom so much of what Marius had  valued most in the old world seemed to be under  renewal and further promotion. Some trans-  forming spirit was at work to harmonise con-  trasts, to deepen expression a spirit which, in its  dealing with the elements of ancient life, was  guided by a wonderful tact of selection, exclu-  sion, juxtaposition, begetting thereby a unique  effect of freshness, a grave yet wholesome beauty,  because the world of sense, the whole outward  world was understood to set forth the veritable  unction and royalty of a certain priesthood and  kingship of the soul within, among the preroga-  tives of which was a delightful sense of freedom.  The reader may think perhaps, that Marius,  who, Epicurean as he was, had his visionary aptitudes, by an inversion of one of Plato's  peculiarities with which he was of course  familiar, must have descended, \>j foresight, upon  a later age than his own, and anticipated Chris-  tian poetry and art as they came to be under the  influence of Saint Francis of Assisi. But if he  dreamed on one of those nights of the beautiful  house of Cecilia, its lights and flowers, of Cecilia  herself moving among the lilies, with an en-  hanced grace as happens sometimes in healthy  dreams, it was indeed hardly an anticipation.  He had lighted, by one of the peculiar in- )  tellectual good-fortunes of his life, upon a period  when, even more than in the days of austere  ascesis which had preceded and were to follow  it, the church was true for a moment, truer  perhaps than she would ever be again, to that  element of profound serenity in the soul of her  Founder, which reflected the eternal goodwill of  God to man, " in whom," according to the oldest  version of the angelic message, " He is well-  pleased."   For what Christianity did many centuries  afterwards in the way of informing an art, a  poetry, of graver and higher beauty, we may  think, than that of Greek art and poetry at their  best, was in truth conformable to the original  tendency of its genius. The genuine capacity of  the catholic church in this direction, discover-  able from the first in the New Testament, was  also really at work, in that earlier " Peace," under the Antonines the minor "Peace of the  church," as we might call it, in distinction from  the final " Peace of the church," commonly so  called, under Constantine. Saint Francis, with  his following in the sphere of poetry and of the  arts the voice of Dante, the hand of Giotto  giving visible feature and colour, and a palpable  place among men, to the regenerate race, did but  re-establish a continuity, only suspended in part by  those troublous intervening centuries the "dark  ages," properly thus named with the gracious  spirit of the primitive church, as manifested in  that first early springtide of her success. The  greater " Peace " of Constantine, on the other  hand, in many ways, does but establish the ex-  clusiveness, the puritanism, the ascetic gloom  which, in the period between Aurelius and the  first Christian emperor, characterised a church  under misunderstanding or oppression, driven  back, in a world of tasteless controversy, inwards  upon herself.   Already, in the reign of Antoninus Pius, the  time was gone by when men became Christians  under some sudden and overpowering impression,  and with all the disturbing results of such a  crisis. At this period the larger number, perhaps,  had been born Christians, had been ever with  peaceful hearts in their " Father's house." That  earlier belief in the speedy coming of judgment  and of the end of the world, with the con-  sequences it so naturally involved in the temper of men's minds, was dying out. Every day the  contrast between the church and the world was  becoming less pronounced. And now also, as  the church rested awhile from opposition, that  rapid self-development outward from within,  proper to times of peace, was in progress.  Antoninus Pius, it might seem, more truly even  than Marcus Aurelius himself, was of that group  of pagan saints for whom Dante, like Augustine,  has provided in his scheme of the house with  many mansions. A sincere old Roman piety  had urged his fortunately constituted nature to  no mistakes, no offences against humanity. And  of his entire freedom from guile one reward had  been this singular happiness, that under his rule  there was no shedding of Christian blood. To  him belonged that half-humorous placidity of  soul, of a kind illustrated later very effectively by  Montaigne, which, starting with an instinct of  mere fairness towards human nature and the  world, seems at last actually to qualify its  possessor to be almost the friend of the people of  Christ. Amiable, in its own nature, and full of  a reasonable gaiety, Christianity has often had its  advantage of characters such as that. The geni-  ality of Antoninus Pius, like the geniality of the  earth itself, had permitted the church, as being  in truth no alien from that old mother earth,  to expand and thrive for a season as by natural  process. And that charmed period under the  Antonines, extending to the later years of the reign of Aurelius (beautiful, brief, chapter of  ecclesiastical history !), contains, as one of its  motives of interest, the earliest development of  Christian ritual under the presidence of the  church of Rome.   Again as in one of those mystical, quaint  visions of the Shepherd of Hernias, "the aged  woman was become by degrees more and more  youthful. And in the third vision she was quite  young, and radiant with beauty : only her hair  was that of an aged woman. And at the last she  was joyous, and seated upon a throne seated  upon a throne, because her position is a strong  one." The subterranean worship of the church  belonged properly to those years of her early  history in which it was illegal for her to worship  at all. But, hiding herself for awhile as con-  flict grew violent, she resumed, when there was  felt to be no more than ordinary risk, her natural  freedom. And the kind of outward prosperity  she was enjoying in those moments of her first  " Peace," her modes of worship now blossoming  freely above-ground, was re-inforced by the deci-  sion at this point of a crisis in her internal history.   In the history of the church, as throughout  the moral history of mankind, there are two  distinct ideals, either of which it is possible to  maintain two conceptions, under one or the  other of which we may represent to ourselves  men's efforts towards a better life corresponding  to those two contrasted aspects, noted above, as discernible in the picture afforded by the New  Testament itself of the character of Christ. The  ideal of asceticism represents moral effort as  essentially a sacrifice, the sacrifice of one part of  human nature to another, that it may live the  more completely in what survives of it ; while  the ideal of culture represents it as a harmonious  development of all the parts of human nature, in  just proportion to each other. It was to the  latter order of ideas that the church, and'  especially the church of Rome in the age of the  Antonines, freely lent herself. In that earlier  " Peace " she had set up for herself the ideal of  spiritual development, under the guidance of an  instinct by which, in those serene moments, she  was absolutely true to the peaceful soul of her  Founder. " Goodwill to men," she said, " in  whom God Himself is well -pleased ! " For a  little while, at least, there was no forced opposi-  tion between the soul and the body, the world  and the spirit, and the grace of graciousness itself  was pre-eminently with the people of Christ.  Tact, good sense, ever the note of a true ortho-  doxy, the merciful compromises of the church,  indicative of her imperial vocation in regard to  all the varieties of human kind, with a universal-  ity of which the old Roman pastorship she was  superseding is but a prototype, was already  become conspicuous, in spite of a discredited,  irritating, vindictive society, all around her.  Against that divine urbanity and moderation the old error of Montanus we read of dimly,  was a fanatical revolt sour, falsely anti-mun-  dane, ever with an air of ascetic affectation, and  a bigoted distaste in particular for all the  peculiar graces of womanhood. By it the desire  to please was understood to come of the author  of evil. In this interval of quietness, it was  perhaps inevitable, by the law of reaction, that  some such extravagances of the religious temper  should arise. But again the church of Rome,  now becoming every day more and more com-  pletely the capital of the Christian world,  checked the nascent Montanism, or puritanism  of the moment, vindicating for all Christian  people a cheerful liberty of heart, against many  a narrow group of sectaries, all alike, in their  different ways, accusers of the genial creation of  God. With her full, fresh faith in the Evange/e  in a veritable regeneration of the earth and  the body, in the dignity of man's entire personal  being for a season, at least, at that critical  period in the development of Christianity, she  was for reason, for common sense, for fairness to  human nature, and generally for what may be  called the naturalness of Christianity. As also  for its comely order: she would be "brought to  her king in raiment of needlework." It was by  the bishops of Rome, diligently transforming  themselves, in the true catholic sense, into  universal pastors, that the path of what we must  call humanism was thus defined. And then, in this hour of expansion, as if  now at last the catholic church might venture to  show her outward lineaments as they really  were, worship "the beauty of holiness," nay!  the elegance of sanctity was developed, with a  bold and confident gladness, the like of which  has hardly been the ideal of worship in any  later age. The tables in fact were turned : the  prize of a cheerful temper on a candid survey of  life was no longer with the pagan world. The  aesthetic charm of the catholic church, her evoca-  tive power over all that is eloquent and expres-  sive in the better mind of man, her outward  comeliness, her dignifying convictions about  human nature : all this, as abundantly realised  centuries later by Dante and Giotto, by the great  medieval church-builders, by the great ritualists  like Saint Gregory, and the masters of sacred  music in the middle age we may see already,  in dim anticipation, in those charmed moments  towards the end of the second century. Dissi-  pated or turned aside, partly through the fatal  mistake of Marcus Aurelius himself, for a brief  space of time we may discern that influence  clearly predominant there. What might seem  harsh as dogma was already justifying itself as  worship ; according to the sound rule : Lex  orandi^ lex credendi Our Creeds are but the  brief abstract of our prayer and song.   The wonderful liturgical spirit of the church,  her wholly unparalleled genius for worship, being thus awake, she was rapidly re-organising  both pagan and Jewish elements of ritual, for  the expanding therein of her own new heart of  devotion. Like the institutions of monasticism,  like the Gothic style of architecture, the ritual  system of the church, as we see it in historic  retrospect, ranks as one of the great, conjoint,  and (so to term them) necessary, products of  human mind. Destined for ages to come, to  direct with so deep a fascination men's religious  instincts, it was then already recognisable as a  new and precious fact in the sum of things.  What has been on the whole the method of the  church, as " a power of sweetness and patience,"  in dealing with matters like pagan art, pagan  literature was even then manifest ; and has the  character of the moderation, the divine modera-  tion of Christ himself. It was only among the  ignorant, indeed, only in the " villages," that  Christianity, even in conscious triumph over  paganism, was really betrayed into iconoclasm.  In the final " Peace " of the Church under  Constantine, while there was plenty of destruc-  tive fanaticism in the country, the revolution  was accomplished in the larger towns, in a  manner more orderly and discreet in the  Roman manner. The faithful were bent less  on the destruction of the old pagan temples than  on their conversion to a new and higher use ;  and, with much beautiful furniture ready to  hand, they became Christian sanctuaries. Already, in accordance with such maturer  wisdom, the church of the " Minor Peace " had  adopted many of the graces of pagan feeling and  pagan custom ; as being indeed a living creature,  taking up, transforming, accommodating still  more closely to the human heart what of right  belonged to it. In this way an obscure syna-  gogue was expanded into the catholic church.  Gathering, from a richer and more varied field  of sound than had remained for him, those old  Roman harmonies, some notes of which Gregory  the Great, centuries later, and after generations  of interrupted development, formed into the  Gregorian music, she was already, as we have  heard, the house of song of a wonderful new  music and poesy. As if in anticipation of the  sixteenth century, the church was becoming!  "humanistic," in an earlier, and unimpeachable/  Renaissance. Singing there had been in abund-j  ance from the first ; though often it dared only  be " of the heart." And it burst forth, when it  might, into the beginnings of a true ecclesiastical  music; the Jewish psalter, inherited from the  synagogue, turning now, gradually, from Greek  into Latin broken Latin, into Italian, as the  ritual use of the rich, fresh, expressive vernacular  superseded the earlier authorised language of the  Church. Through certain surviving remnants  of Greek in the later Latin liturgies, we may  still discern a highly interesting intermediate  phase of ritual development, when the Greek and the Latin were in combination; the poor,  surely ! the poor and the children of that  liberal Roman church responding already in  their own " vulgar tongue," to an office said in  the original, liturgical Greek. That hymn sung  in the early morning, of which Pliny had heard,  was kindling into the service of the Mass.   The Mass, indeed, would appear to have been  said continuously from the Apostolic age. Its  details, as one by one they become visible in  later history, have already the character of what  is ancient and venerable. "We are very old,  and ye are young ! " they seem to protest, to  those who fail to understand them. Ritual, in  fact, like all other elements of religion, must  grow and cannot be made grow by the same  law of development which prevails everywhere  else, in the moral as in the physical world. As  regards this special phase of the religious life,  however, such development seems to have been  unusually rapid in the subterranean age which  preceded Constantine ; and in the very first days  j of the final triumph of the church the Mass  emerges to general view already substantially  complete. " Wisdom " was dealing, as with the  dust of creeds and philosophies, so also with the  dust of outworn religious usage, like the very  spirit of life itself, organising soul and body out  of the lime and clay of the earth. In a generous  eclecticism, within the bounds of her liberty,  and as by some providential power within her, she gathers and serviceably adopts, as in other  matters so in ritual, one thing here, another  there, from various sources Gnostic, Jewish,  Pagan to adorn and beautify the greatest act of  worship the world has seen. It was thus the  liturgy of the church came to be full of con-  solations for the human soul, and destined, surely !  one day, under the sanction of so many ages of  human experience, to take exclusive possession  of the religious consciousness.     TANTUM ERGO SACRAMENTUM  VENEREMUR CERNUI :  ET ANTIQUUM DOCUMENTUM  NOVO CEDAT RITUI.   " Wisdom hath builded herselt a house : she hath mingled hex  wine : she hath also prepared for herself a table."   The more highly favoured ages of imaginative  art present instances of the summing up of an  entire world of complex associations under some  single form, like the Zeus of Olympia, or the  series of frescoes which commemorate The Acts  of Saint Francis, at Assisi, or like the play of  Hamlet or Faust. It was not in an image, or  series of images, yet still in a sort of dramatic  action, and with the unity of a single appeal to  eye and ear, that Marius about this time found  all his new impressions set forth, regarding what  he had already recognised, intellectually, as for  him at least the most beautiful thing in the  world.   To understand the influence upon him of  what follows the reader must remember that it  was an experience which came amid a deep  sense of vacuity in life. The fairest products of   the earth seemed to be dropping to pieces, as if  in men's very hands, around him. How real  was their sorrow, and his ! " His observation of  life " had come to be like the constant telling of  a sorrowful rosary, day after day ; till, as if  taking infection from the cloudy sorrow of the  mind, the eye also, the very senses, were grown  faint and sick. And now it happened as with  the actual morning on which he found himself  a spectator of this new thing. The long winter  had been a season of unvarying sullenness. At  last, on this day he awoke with a sharp flash of  lightning in the earliest twilight : in a little  while the heavy rain had filtered the air: the  clear light was abroad ; and, as though the  spring had set in with a sudden leap in the  heart of things, the whole scene around him lay  like some untarnished picture beneath a sky of  delicate blue. Under the spell of his late de-  pression, Marius had suddenly determined to  leave Rome for a while. But desiring first to  advertise Cornelius of his movements, and failing  to find him in his lodgings, he had ventured,  still early in the day, to seek him in the  Cecilian villa. Passing through its silent and  empty court-yard he loitered for a moment, to  admire. Under the clear but immature light of  winter morning after a storm, all the details of  form and colour in the old marbles were dis-  tinctly visible, and with a kind of severity or  sadness so it struck him amid their beauty : in them, and in all other details of the scene  the cypresses, the bunches of pale daffodils in  the grass, the curves of the purple hills of  Tusculum, with the drifts of virgin snow still  lying in their hollows.   The little open door, through which he  passed from the court-yard, admitted him into  what was plainly the vast Lararium^ or domestic  sanctuary, of the Cecilian family, transformed in  many particulars, but still richly decorated, and  retaining much of its ancient furniture in metal-  work and costly stone. The peculiar half-light  of dawn seemed to be lingering beyond its  hour upon the solemn marble walls ; and here,  though at that moment in absolute silence, a  great company of people was assembled. In  that brief period of peace, during which the  church emerged for awhile from her jealously-  guarded subterranean life, the rigour of an earlier  rule of exclusion had been relaxed. And so it  came to pass that, on this morning Marius saw  for the first time the wonderful spectacle -  wonderful, especially, in its evidential power  over himself, over his own thoughts of those  who believe.   There were noticeable, among those present,  great varieties of rank, of age, of personal type.  The Roman ingenuus^ with the white toga and  gold ring, stood side by side with his slave ;  and the air of the whole company was, above  all, a grave one, an air of recollection. Coming thus unexpectedly upon this large assembly, so  entirely united, in a silence so profound, for  purposes unknown to him, Marius felt for a  moment as if he had stumbled by chance upon  some great conspiracy. Yet that could scarcely  be, for the peoplehere collected might have  figured as the earliest handsel, or pattern, of a  new world, from the very face of which dis-  content had passed away. Corresponding to the  variety of human type there present, was the  various expression of every form of human sorrow  assuaged. What desire, what fulfilment of desire,  had wrought so pathetically on the features of  these ranks of aged men and women of humble  condition ? Those young men, bent down so j  discreetly on the details of their sacred service,  had faced life and were glad, by some science, or  light of knowledge they had, to which there  had certainly been no parallel in the older world.  Was some credible message from beyond " the  flaming rampart of the world " a message of  hope, regarding the place of men's souls and  theirinterest in the sum of things already  moulding anew their very bodies, and looks,  and voices, now and here ? At least, there was a  cleansing and kindling flame at work in them,  which seemed to make everything else Marius  had ever known look comparatively vulgar and  mean. There were the children, above all  troops of children reminding him of those  pathetic children's graves, like cradles or garden-beds, he had noticed in his first visit to these  places; and they more than satisfied the odd  curiosity he had then conceived about them,  wondering in what quaintly expressive forms  they might come forth into the daylight, if  awakened from sleep. Children of the Cata-  combs, some but "a span long," with features  not so much beautiful as heroic (that world of  new, refining sentiment having set its seal even  on phildhood), they retained certainly no stain or  trace of anything subterranean this morning, in  the alacrity of their worship as ready as if they  had been at play stretching forth their hands,  crying, chanting in a resonant voice, and with  boldly upturned faces, Christe Eleison !   For the silence silence, amid those lights of  early morning to which Marius had always been  constitutionally impressible, as having in them  a certain reproachful austerity was broken  suddenly by resounding cries of Kyrie Eleison !  Christe Eleison! repeated alternately, again and  again, until the bishop, rising from his chair,  made sign that this prayer should cease. But  the voices burst out once more presently, in  richer and more varied melody, though still of  an antiphonal character ; the men, the women  and children, the deacons, the people, answering  one another, somewhat after the manner of a  Greek chorus. But again with what a novelty  of poetic accent ; what a genuine expansion  of heart ; what profound intimations for the intellect, as the meaning of the words grew upon  him ! Cum grandi affectu et compunctione dicatur  says an ancient eucharistic order ; and certainly,  the mystic tone of this praying and singing was  one with the expression of deliverance, of grate-  ful assurance and sincerity, upon the faces of  those assembled. As if some searching correc-  tion, a regeneration of the body by the spirit, \  had begun, and was already gone a great way,  the countenances of men, women, and children  alike had a brightness on them which he could  fancy reflected upon himself an amenity, a  mystic amiability and unction, which found its  way most readily of all to the hearts of children  themselves. The religious poetry of those  Hebrew psalms Benedixisti Domine terram tuam:  Dixit Dominus Domino meo^ sede a dextris meis  was certainly in marvellous accord with the  lyrical instinct of his own character. Those  august hymns, he thought, must thereafter ever  remain by him as among the well-tested powers  in things to soothe and fortify the soul. One  could never grow tired of them !   In the old pagan worship there had been  little to call the understanding into play. Here,  on the other hand, the utterance, the eloquence,  the music of worship conveyed, as Marius  readily understood, a fact or series of facts, for  intellectual reception. That became evident,  more especially, in those lessons, or sacred  readings, which, like the singing, in broken vernacular Latin, occurred at certain intervals,  amid the silence of the assembly. There were  readings, again with bursts of chanted invocation  between for fuller light on a difficult path, in  which many a vagrant voice of human philo-  sophy, haunting men's minds from of old,  recurred with clearer accent than had ever  belonged to it before, as if lifted, above its first  intention, into the harmonies of some supreme  system of knowledge or doctrine, at length  complete. And last of all came a narrative  which, with a thousand tender memories, every  one appeared to know by heart, displaying, in  all the vividness of a picture for the eye, the  mournful figure of him towards whom this  whole act of worship still consistently turned  a figure which seemed to have absorbed, like  some rich tincture in his garment, all that was  deep-felt and impassioned in the experiences of  the past.   It was the anniversary of his birth as a little  child they celebrated to-day. Astiterunt reges  terra : so the Gradual, the " Song of Degrees,"  proceeded, the young men on the steps of the  altar responding in deep, clear, antiphon or  chorus   Astiterunt reges terrae   Adversus sanctum puerum tuum, Jesum :   Nunc, Domine, da servis tuis loqui verbum tuum   Et signa fieri, per nomen sancti pueri Jesu.   And the proper action of the rite itself, like a half-opened book to be read by the duly initi-  ated mind took up those suggestions, and carried  them forward into the present, as having refer-  ence to a power still efficacious, still after some  mystic sense even now in action among the  people there assembled. The entire office, in-  deed, with its interchange of lessons, hymns,  prayer, silence, was itself like a single piece j  of highly composite, dramatic music ; a " song j  of degrees," rising steadily to a climax. Not- |  withstanding the absence of any central image  visible to the eye, the entire ceremonial process, /  like the place in which it was enacted, was  weighty with symbolic significance, seemed to  express a single leading motive. The mystery,  if such in fact it was, centered indeed in the  actions of one visible person, distinguished  among the assistants, who stood ranged in  semicircle around him, by the extreme fineness  of his white vestments, and the pointed cap  with the golden ornaments upon his head.   Nor had Marius ever seen the pontifical  character, as he conceived it sicut unguentum in  capite^ descendens in oram vestimenti so fully real-  ised, as in the expression, the manner and voice,  of this novel pontiff, as he took his seat on the  white chair placed for him by the young men,  and received his long staff into his hand, or  moved his hands hands which seemed endowed  in very deed with some mysterious power at  the Lavabo, or at the various benedictions, or to bless certain objects on the table before him,  chanting in cadence of a grave sweetness the  leading parts of the rite. What profound  unction and mysticity ! The solemn character  of the singing was at its height when he opened  his lips. Like some new sort of rhapsodos, it  was for the moment as if he alone possessed the  words of the office, and they flowed anew from  some permanent source of inspiration within  him. The table or altar at which he presided,  below a canopy on delicate spiral columns, was  in fact the tomb of a youthful " witness," of the  family of the Cecilii, who had shed his blood not  many years before, and whose relics were still  in this place. It was for his sake the bishop put  his lips so often to the surface before him ; the  regretful memory of that death entwining itself,  though not without certain notes of triumph,  as a matter of special inward significance,  throughout a service, which was, before all  else, from first to last, a commemoration of  the dead.   A sacrifice also, a sacrifice, it might seem,  like the most primitive, the most natural and  enduringly significant of old pagan sacrifices, of  the simplest fruits of the earth. And in con-  nexion with this circumstance again, as in the  actual stones of the building so in the rite itself,  what Marius observed was not so much new  matter as a new spirit, moulding, informing,  with a new intention, many observances not witnessed for the first time to-day. Men and  women came to the altar successively, in perfect  order, and deposited below the lattice-work 01  pierced white marble, their baskets of wheat and  grapes, incense, oil for the sanctuary lamps ; bread  and wine especially pure wheaten bread, the  pure white wine of the Tusculan vineyards.  There was here a veritable consecration, hopeful  and animating, of the earth's gifts, of old dead  and dark matter itself, now in some way re-  deemed at last, of all that we can touch or see,  in the midst of a jaded world that had lost the  true sense of such things, and in strong contrast  to the wise emperor's renunciant and impassive  attitude towards them. Certain portions of that  bread and wine were taken into the bishop's  hands ; and thereafter, with an increasing mysti-  city and effusion the rite proceeded. Still in a  strain of inspired supplication, the antiphonal  singing developed, from this point, into a kind  of dialogue between the chief minister and the  whole assisting company   SURSUM CORDA !   HABEMUS AD DOMINUM.   GRATIAS AGAMUS DOMINO DEO NOSTRO !   It might have been thought the business, the  duty or service of young men more particularly,  as they stood there in long ranks, and in severe  and simple vesture of the purest white a  service in which they would seem to be flying for refuge, as with their precious, their treacher-  ous and critical youth in their hands, to one-  Yes ! one like themselves, who yet claimed  their worship, a worship, above all, in the way  of Aurelius, in the way of imitation. Adoramus  te Christe^ quia per crucem tuam redemisti mundum !  they cry together. So deep is the emotion  that at moments it seems to Marius as if some  there present apprehend that prayer prevails,  that the very object of this pathetic crying him-  self draws near. From the first there had been  the sense, an increasing assurance, of one coming :  actually with them now, according to the oft-  repeated affirmation or petition, e Dominus vobis-  cum ! Some at least were quite sure of it ; and  the confidence of this remnant fired the hearts,  and gave meaning to the bold, ecstatic worship,  of all the rest about them.   Prompted especially by the suggestions of  that mysterious old Jewish psalmody, so new  to him lesson and hymn and catching there-  with a portion of the enthusiasm of those beside  him, Marius could discern dimly, behind the  solemn recitation which now followed, at once  a narrative and a prayer, the most touching  image truly that had ever come within the  scope of his mental or physical gaze. It was  the image of a young man giving up voluntarily,  one by one, for the greatest of ends, the greatest  gifts ; actually parting with himself, above all,  with the serenity, the divine serenity, of his own soul ; yet from the midst of his desolation  crying out upon the greatness of his success, as  if foreseeing this very worship. 1 As centre of  the supposed facts which for these people were  become so constraining a motive of hopefulness,  of activity, that image seemed to display itself  with an overwhelming claim on human grati-  tude. What Saint Lewis of France discerned,  and found so irresistibly touching, across the  dimness of many centuries, as a painful thing  done for love of him by one he had never seen,  was to them almost as a thing of yesterday ; and  their hearts were whole with it. It had the  force, among their interests, of an almost recent  event in the career of one whom their fathers'  fathers might have known. From memories  so sublime, yet so close at hand, had the narra-  tive descended in which these acts of worship  centered ; though again the names of some  more recently dead were mingled in it. And it  seemed as if the very dead were aware; to be  stirring beneath the slabs of the sepulchres  which lay so near, that they might associate  themselves to this enthusiasm to this exalted  worship of Jesus.   One by one, at last, the faithful approach to  receive from the chief minister morsels of the  great, white, wheaten cake, he had taken into  his hands Perducat vos ad vitarn ceternam ! he  prays, half-silently, as they depart again, after   1 Psalm xxii. 22-31. discreet embraces. The Eucharist of those early  days was, even more entirely than at any later or  happier time, an act of thanksgiving ; and while  the remnants of the feast are borne away for the  reception of the sick, the sustained gladness of  the rite reaches its highest point in the sing-  ing of a hymn : a hymn like the spontaneous  product of two opposed militant companies,  contending accordantly together, heightening,  accumulating, their witness, provoking one an-  other's worship, in a kind of sacred rivalry.   Ite ! Missa esf ! cried the young deacons :  and Marius departed from that strange scene  along with the rest. What was it ? Was it  this made the way of Cornelius so pleasant  through the world ? As for Marius himself,  the natural soul of worship in him had at last  been satisfied as never before. He felt, as he  left that place, that he must hereafter experience  often a longing memory, a kind of thirst, for all  this, over again. And it seemed moreover to  define what he must require of the powers,  whatsoever they might be, that had brought  him into the world at all, to make him not  unhappy in it.  In cheerfulness is the success of our studies, says  Pliny studia hilaritate proveniunt. It was still  the habit of Marius, encouraged by his experi-  ence that sleep is not only a sedative but the best  of stimulants, to seize the morning hours for  creation, making profit when he might of the  wholesome serenity which followed a dreamless  night. " The morning for creation," he would  say; "the afternoon for the perfecting labour of  the file ; the evening for reception the reception  of matter from without one, of other men's  words and thoughts matter for our own dreams,  or the merely mechanic exercise of the brain,  brooding thereon silently, in its dark chambers."  To leave home early in the day was therefore a  rare thing for him. He was induced so to do on  the occasion of a visit to Rome of the famous  writer Lucian, whom he had been bidden to  meet. The breakfast over, he walked away with  the learned guest, having offered to be his guide to the lecture-room of a well-known Greek  rhetorician and expositor of the Stoic philosophy,  a teacher then much in fashion among the  studious youth of Rome. On reaching the  place, however, they found the doors closed, with  a slip of writing attached, which proclaimed " a  holiday " ; and the morning being a fine one,  they walked further, along the Appian Way.  Mortality, with which the Queen of Ways in  reality the favourite cemetery of Rome was so  closely crowded, in every imaginable form of  sepulchre, from the tiniest baby-house, to the  massive monument out of which the Middle Age  would adapt a fortress-tower, might seem, on a  morning like this, to be " smiling through tears."  The flower-stalls just beyond the city gates pre-  sented to view an array of posies and garlands,  fresh enough for a wedding. At one and another  of them groups of persons, gravely clad, were  making their bargains before starting for some  perhaps distant spot on the highway, to keep a  dies rosationis, this being the time of roses, at the  grave of a deceased relation. Here and there,  a funeral procession was slowly on its way, in  weird contrast to the gaiety of the hour.   The two companions, of course, read the  epitaphs as they strolled along. In one, remind-  ing them of the poet's Si lacrima prosunt, visis  te ostende videri ! a woman prayed that her lost  husband might visit her dreams. Their charac-  teristic note, indeed, was an imploring cry, still to be sought after by the living. "While I  live," such was the promise of a lover to his dead  mistress, " you will receive this homage : after  my death, who can tell ? " post mortem nescio.  " If ghosts, my sons, do feel anything after death,  my sorrow will be lessened by your frequent  coming to me here ! " " This is a privileged  tomb ; to my family and descendants has been  conceded the right of visiting this place as often  as they please." -"This is an eternal habita-  tion ; here lie I ; here I shall lie for ever."  " Reader ! if you doubt that the soul survives,  make your oblation and a prayer for me; and  you shall understand ! "   The elder of the two readers, certainly, was  little affected by those pathetic suggestions. It  was long ago that after visiting the banks of  the Padus, where he had sought in vain for the  poplars (sisters of Phaethon erewhile) whose  tears became amber, he had once for all arranged  for himself a view of the world exclusive of all  reference to what might lie beyond its " flaming  barriers." And at the age of sixty he had no  misgivings. His elegant and self-complacent  but far fromunamiable scepticism, long since  brought to perfection, never failed him. It sur-  rounded him, as some are surrounded by a magic  ring of fine aristocratic manners, with " a ram-  part," through which he himself never broke,  nor permitted any thing or person to break upon  him. Gay, animated, content with his old age as it was, the aged student still took a lively  interest in studious youth. Could Marius inform  him of any such, now known to him in Rome ?  What did the young men learn, just then? and  how?   In answer, Marius became fluent concerning  the promise of one young student, the son, as it  presently appeared, of parents of whom Lucian  himself knew something: and soon afterwards  the lad was seen coming along briskly a lad  with gait and figure well enough expressive of  the sane mind in the healthy body, though a  little slim and worn of feature, and with a pair of  eyes expressly designed, it might seem, for fine  glancings at the stars. At the sight of Marius  he paused suddenly, and with a modest blush  on recognising his companion, who straightway  took with the youth, so prettily enthusiastic, the  freedom of an old friend.   In a few moments the three were seated  together, immediately above the fragrant borders  of a rose-farm, on the marble bench of one of  the exhedra for the use of foot-passengers at the  roadside, from which they could overlook the  grand, earnest prospect of the Campagna^ and  enjoy the air. Fancying that the lad's plainly  written enthusiasm had induced in the elder  speaker somewhat more fervour than was usual  with him, Marius listened to the conversation  which follows.   " Ah ! Hermotimus ! Hurrying to lecture ! if I may judge by your pace, and that volume  in your hand. You were thinking hard as you  came along, moving your lips and waving your  arms. Some fine speech you were pondering,  some knotty question, some viewy doctrine not  to be idle for a moment, to be making progress  in philosophy, even on your way to the schools.  To-day, however, you need go no further. We  read a notice at the schools that there would be  no lecture. Stay therefore, and talk awhile  with us.   -With pleasure, Lucian. Yes ! I was rumin-  ating yesterday's conference. One must not lose  a moment. Life is short and art is long ! And  it was of the art of medicine, that was first  said a thing so much easier than divine philo-  sophy, to which one can hardly attain in a life-  time, unless one be ever wakeful, ever on the  watch. And here the hazard is no little one :  By the attainment of a true philosophy to attain  happiness ; or, having missed both, to perish, as  one of the vulgar herd.   The prize is a great one, Hermotimus ! and  you must needs be near it, after these months of  toil, and with that scholarly pallor of yours.  Unless, indeed, you have already laid hold upon  it, and kept us in the dark.   How could that be, Lucian? Happiness,  as Hesiod says, abides very far hence; and the  way to it is long and steep and rough. I see  myself still at the beginning of my journey ; still but at the mountain's foot. I am trying with  all my might to get forward. What I need is a  hand, stretched out to help me.   And is not the master sufficient for that ?  Could he not, like Zeus in Homer, let down to  you, from that high place, a golden cord, to  draw you up thither, to himself and to that  Happiness, to which he ascended so long ago ?   The very point, Lucian ! Had it depended  on him I should long ago have been caught up.  'Tis I, am wanting.   Well ! keep your eye fixed on the journey's  end, and that happiness there above, with con-  fidence in his goodwill.   Ah ! there are many who start cheerfully  on the journey and proceed a certain distance,  but lose heart when they light on the obstacles  of the way. Only, those who endure to the end  do come to the mountain's top, and thereafter  live in Happiness : live a wonderful manner of  life, seeing all other people from that great  height no bigger than tiny ants.   What little fellows you make of us less  than the pygmies down in the dust here.  Well ! we, * the vulgar herd,' as we creep along,  will not forget you in our prayers, when you are  seated up there above the clouds, whither you  have been so long hastening. But tell me,  Hermotimus ! when do you expect to arrive  there ?   Ah ! that I know not. In twenty years, perhaps, I shall be really on the summit. A  great while ! you think. But then, again, the  prize I contend for is a great one.   Perhaps ! But as to those twenty years  that you will live so long. Has the master  assured you of that ? Is he a prophet as well as  a philosopher? For I suppose you would not  endure all this, upon a mere chance toiling day  and night, though it might happen that just  ere the last step, Destiny seized you by the  foot and plucked you thence, with your hope  still unfulfilled.   Hence, with these ill-omened words,  Lucian ! Were I to survive but for a day, I  should be happy, having once attained wisdom.   Howf Satisfied with a single day, after  all those labours ?   Yes ! one blessed moment were enough !   But again, as you have never been, how  know you that happiness is to be had up there,  at all the happiness that is to make all this  worth while ?   I believe what the master tells me. Of a  certainty he knows, being now far above all  others.   And what was it he told you about it ?  Is it riches, or glory, or some indescribable  pleasure ?   Hush ! my friend ! All those are nothing  in comparison of the life there.   What, then, shall those who come to the end of this discipline what excellent thing  shall they receive, if not these ?   Wisdom, the absolute goodness and the  absolute beauty, with the sure and certain  knowledge of all things how they are. Riches  and glory and pleasure whatsoever belongs to  the body they have cast from them : stripped  bare of all that, they mount up, even as  Hercules, consumed in the fire, became a god.  He too cast aside all that he had of his earthly  mother, and bearing with him the divine  element, pure and undefiled, winged his way to  heaven from the discerning flame. Even so do  they, detached from all that others prize, by the  burning fire of a true philosophy, ascend to the  highest degree of happiness.   Strange ! And do they never come down  again from the heights to help those whom they  left below ? Must they, when they be once  come thither, there remain for ever, laughing,  as you say, at what other men prize ?   More than that ! They whose initiation  is entire are subject no longer to anger, fear,  desire, regret. Nay ! They scarcely feel at all.   -Well ! as you have leisure to-day, why not  tell an old friend in what way you first started  on your philosophic journey ? For, if I might,  I should like to join company with you from  this very day.   If you be really willing, Lucian ! you will  learn in no long time your advantage over all  other people. They will seem but as children,  so far above them will be your thoughts.   Well ! Be you my guide ! It is but fair.  But tell me Do you allow learners to contra-  dict, if anything is said which they don't think  right ?   No, indeed ! Still, if you wish, oppose  your questions. In that way you will learn  more easily.   Let me know, then Is there one only  way which leads to a true philosophy your  own way the way of the Stoics : or is it true,  as I have heard, that there are many ways of  approaching it ?   -Yes ! Many ways ! There are the Stoics,  and the Peripatetics, and those who call them-  selves after Plato : there are the enthusiasts for  Diogenes, and Antisthenes, and the followers of  Pythagoras, besides others.   It was true, then. But again, is what they  say the same or different ?  Very different.   -Yet the truth, I conceive, would be one  and the same, from all of them. Answer me  then In what, or in whom, did you confide  when you first betook yourself to philosophy,  and seeing so many doors open to you, passed  them all by and went in to the Stoics, as if  there alone lay the way of truth ? What token  had you ? Forget, please, all you are to-day-  half-way, or more, on the philosophic journey :  answer me as you would have done then, a mere  outsider as I am now.   Willingly ! It was there the great ma-  jority went ! 'Twas by that I judged it to be  the better way.   A majority how much greater than the  Epicureans, the Platonists, the Peripatetics f  You, doubtless, counted them respectively, as  with the votes in a scrutiny.   No ! But this was not my only motive.  I heard it said by every one that the Epicureans  were soft and voluptuous, the Peripatetics ava-  ricious and quarrelsome, and Plato's followers  puffed up with pride. But of the Stoics, not a  few pronounced that they were true men, that  they knew everything, that theirs was the royal  road, the one road, to wealth, to wisdom, to all  that can be desired.   Of course those who said this were not  themselves Stoics : you would not have believed  them still less their opponents. They were  the vulgar, therefore.   True ! But you must know that I did not  trust to others exclusively. I trusted also to  myself to what I saw. I saw the Stoics going  through the world after a seemly manner, neatly  clad, never in excess, always collected, ever  faithful to the mean which all pronounce  ' golden.'   You are trying an experiment on me.  You would fain see how far you can mislead  me as to your real ground. The kind of pro-  bation you describe is applicable, indeed, to  works of art, which are rightly judged by their  appearance to the eye. There is something in  the comely form, the graceful drapery, which  tells surely of the hand of Pheidias or Alcamenes.  But if philosophy is to be judged by outward  appearances, what would become of the blind  man, for instance, unable to observe the attire  and gait of your friends the Stoics ?   It was not of the blind I was thinking.   -Yet there must needs be some common  criterion in a matter so important to all. Put  the blind, if you will, beyond the privileges  of philosophy ; though they perhaps need that  inward vision more than all others. But can  those who are not blind, be they as keen-sighted  as you will, collect a single fact of mind from a  man's attire, from anything outward ? Under-  stand me ! You attached yourself to these men  did you not ? because of a certain love you  had for the mind in them, the thoughts they  possessed desiring the mind in you to be im-  proved thereby ?  Assuredly !   How, then, did you find it possible, by the  sort of signs you just now spoke of, to distinguish  the true philosopher from the false ? Matters of  that kind are not wont so to reveal themselves.  They are but hidden mysteries, hardly to be  guessed at through the words and acts which may in some sort be conformable to them.  You, however, it would seem, can look straight  into the heart in men's bosoms, and acquaint  yourself with what really passes there.   You are making sport of me, Lucian ! In  truth, it was with God's help I made my choice,  and I don't repent it.   And still you refuse to tell me, to save me  from perishing in that ' vulgar herd.'   Because nothing I can tell you would  satisfy you.   You are mistaken, my friend ! But since  you deliberately conceal the thing, grudging me,  as I suppose, that true philosophy which would  make me equal to you, I will try, if it may be,  to find out for myself the exact criterion in these  matters how to make a perfectly safe choice.  And, do you listen.   I will ; there may be something worth  knowing in what you will say.   Well ! only don't laugh if I seem a little  fumbling in my efforts. The fault is yours,  in refusing to share your lights with me.  Let Philosophy, then, be like a city --a city  whose citizens within it are a happy people, as  your master would tell you, having lately come  thence, as we suppose. All the virtues are theirs,  and they are little less than gods. Those acts  of violence which happen among us are not to be  seen in their streets. They live together in one  mind, very seemly ; the things which beyond everything else cause men to contend against  each other, having no place upon them. Gold  and silver, pleasure, vainglory, they have long  since banished, as being unprofitable to the  commonwealth ; and their life is an unbroken  calm, in liberty, equality, an equal happiness.   And is it not reasonable that all men should  desire to be of a city such as that, and take no  account of the length and difficulty of the way  thither, so only they may one day become its  freemen ?   It might well be the business of life :  leaving all else, forgetting one's native country  here, unmoved by the tears, the restraining  hands, of parents or children, if one had them  only bidding them follow the same road ; and  if they would not or could not, shaking them  off, leaving one's very garment in their hands  if they took hold on us, to start off straightway  for that happy place ! For there is no fear, I  suppose, of being shut out if one came thither  naked. I remember, indeed, long ago an aged  man related to me how things passed there,  offering himself to be my leader, and enrol me  on my arrival in the number of the citizens.  I was but fifteen certainly very foolish: and  it may be that I was then actually within the  suburbs, or at the very gates, of the city. Well,  this aged man told me, among other things,  that all the citizens were wayfarers from afar.  Among them were barbarians and slaves, poor men aye ! and cripples all indeed who truly  desired that citizenship. For the only legal  conditions of enrolment were not wealth, nor  bodily beauty, nor noble ancestry things not  named among them but intelligence, and the  desire for moral beauty, and earnest labour.  The last comer, thus qualified, was made equal  to the rest : master and slave, patrician, plebe-  ian, were words they had not in that blissful  place. And believe me, if that blissful, that  beautiful place, were set on a hill visible to all  the world, I should long ago have journeyed  thither. But, as you say, it is far off: and one  must needs find out for oneself the road to it,  and the best possible guide. And I find a multi-  tude of guides, who press on me their services,  and protest, all alike, that they have themselves  come thence. Only, the roads they propose are  many, and towards adverse quarters. And one  of them is steep and stony, and through the  beating sun ; and the other is through green  meadows, and under grateful shade, and by  many a fountain of water. But howsoever the  road may be, at each one of them stands a  credible guide ; he puts out his hand and would  have you come his way. All other ways are  wrong, all other guides false. Hence my diffi-  culty ! The number and variety of the ways !  For you know, There is but one road that leads  to Corinth.   Well ! If you go the whole round, you will find no better guides than those. If you  wish to get to Corinth, you will follow the  traces of Zeno and Chrysippus. It is impossible  otherwise.   Yes ! The old, familiar language ! Were  one of Plato's fellow-pilgrims here, or a follower  of Epicurus or fifty others each would tell  me that I should never get to Corinth except  in his company. One must therefore credit all  alike, which would be absurd ; or, what is far  safer, distrust all alike, until one has discovered  the truth. Suppose now, that, being as I am,  ignorant which of all philosophers is really in  possession of truth, I choose your sect, relying  on yourself my friend, indeed, yet still ac-  quainted only with the way of the Stoics ; and  that then some divine power brought Plato,  and Aristotle, and Pythagoras, and the others,  back to life again. Well ! They would come  round about me, and put me on my trial for  my presumption, and say : c In whom was it  you confided when you preferred Zeno and  Chrysippus to me? and me? masters of far  more venerable age than those, who are but of  yesterday ; and though you have never held  any discussion with us, nor made trial of our  doctrine ? It is not thus that the law would  have judges do listen to one party and refuse  to let the other speak for himself. If judges  act thus, there may be an appeal to another  tribunal.' What should I answer? Would it be enough to say : ' I trusted my friend Her-  motimus ? ' c We know not Hermotimus, nor  he us/ they would tell me ; adding, with a  smile, 'your friend thinks he may believe all  our adversaries say of us whether in ignorance  or in malice. Yet if he were umpire in the  games, and if he happened to see one of our  wrestlers, by way of a preliminary exercise,  knock to pieces an antagonist of mere empty air,  he would not thereupon pronounce him a victor.  Well ! don't let your friend Hermotimus sup-  pose, in like manner, that his teachers have  really prevailed over us in those battles of theirs,  fought with our mere shadows. That, again,  were to be like children, lightly overthrowing  their own card-castles ; or like boy-archers, who  cry out when they hit the target of straw. The  Persian and Scythian bowmen, as they speed  along, can pierce a bird on the wing.'   Let us leave Plato and the others at rest.  It is not for me to contend against them.  Let us rather search out together if the truth  of Philosophy be as I say. Why summon the  athletes, and archers from Persia ?   Yes ! let them go, if you think them in  the way. And now do you speak ! You really  look as if you had something wonderful to  deliver.   -Well then, Lucian ! to me it seems quite  possible for one who has learned the doctrines  of the Stoics only, to attain from those a knowledge of the truth, without proceeding to inquire  into all the various tenets of the others. Look  at the question in this way. If one told you  that twice two make four, would it be necessary  for you to go the whole round of the arithme-  ticians, to see whether any one of them will say  that twice two make five, or seven ? Would  you not see at once that the man tells the truth ?   At once.   Why then do you find it impossible that  one who has fallen in with the Stoics only, in  their enunciation of what is true, should adhere  to them, and seek after no others ; assured that  four could never be five, even if fifty Platos,  fifty Aristotles said so ?   f-You are beside the point, Hermotimus !  You are likening open questions to principles  universally received. Have you ever met any  one who said that twice two make five, or  seven ?   No ! only a madman would say that.  And have you ever met, on the other  hand, a Stoic and an Epicurean who were agreed  upon the beginning and the end, the principle  and the final cause, of things ? Never ! Then  your parallel is false. We are inquiring to  which of the sects philosophic truth belongs,  and you seize on it by anticipation, and assign  it to the Stoics, alleging, what is by no means  clear, that itis they for whom twice two make  four. But the Epicureans, or the Platonists, might say that it is they, in truth, who make  two and two equal four, while you make them  five or seven. Is it not so, when you think  virtue the only good, and the Epicureans plea-  sure; when you hold all things to be material^  while the Platonists admit something immaterial?  As I said, you resolve offhand, in favour of the  Stoics, the very point which needs a critical  decision. If it is clear beforehand that the  Stoics alone make two and two equal four, then  the others must hold their peace. But so long  as that is the very point of debate, we must  listen to all sects alike, or be well- assured that  we shall seem but partial in our judgment.   I think, Lucian ! that you do not alto-  gether understand my meaning. To make it  clear, then, let us suppose that two men had  entered a temple, of Aesculapius, say ! or  Bacchus : and that afterwards one of the sacred  vessels is found to be missing. And the two  men must be searched to see which of them has  hidden it under his garment. For it is certainly  in the possession of one or the other of them.  Well ! if it be found on the first there will be  no need to search the second ; if it is not found  on the first, then the other must have it ; and  again, there will be no need to search him.   Yes ! So let it be.   And we too, Lucian ! if we have found  the holy vessel in possession of the Stoics, shall  no longer have need to search other philosophers,  having attained that we were seeking. Why  trouble ourselves further ?   No need, if something had indeed been  found, and you knew it to be that lost thing :  if, at the least, you could recognise the sacred  object when you saw it. But truly, as the  matter now stands, not two persons only have  entered the temple, one or the other of whom  must needs have taken the golden cup, but a  whole crowd of persons. And then, it is not  clear what the lost object really is cup, or  flagon, or diadem ; for one of the priests avers  this, another that ; they are not even in agree-  ment as to its material : some will have it to  be of brass, others of silver, or gold. It thus  becomes necessary to search the garments of all  persons who have entered the temple, if the lost  vessel is to be recovered. And if you find a  golden cup on the first of them, it will still be  necessary to proceed in searching the garments  of the others ; for it is not certain that this cup  really belonged to the temple. Might there not  be many such golden vessels ? No ! we must  go on to every one of them, placing all that we  find in the midst together, and then make our  guess which of all those things may fairly be  supposed to be the property of the god. For,  again, this circumstance adds greatly to our  difficulty, that without exception every one  searched is found to have something upon him  cup, or flagon, or diadem, of brass, of silver, of gold : and still, all the while, it is not ascer-  tained which of all these is the sacred thing.  And you must still hesitate to pronounce any  one of them guilty of the sacrilege those  objects may be their own lawful property: one  cause of all this obscurity being, as I think, that  there was no inscription on the lost cup, if cup  it was. Had the name of the god, or even that  of the donor, been upon it, at least we should  have had less trouble, and having detected the  inscription, should have ceased to trouble any one  else by our search.   I have nothing to reply to that.   Hardly anything plausible. So that if we  wish to find who it is has the sacred vessel, or  who will be our best guide to Corinth, we must  needs proceed to every one and examinehim  with the utmost care, stripping off his garment  and considering him closely. Scarcely, even so,  shall we come at the truth. And if we are to  have a credible adviser regarding this question of  philosophy which of all philosophies one ought  to follow he alone who is acquainted with the  dicta of every one of them can be such a guide :  all others must be inadequate. I would give no  credence to them if they lacked information as  to one only. If somebody introduced a fair  person and told us he was the fairest of all men,  we should not believe that, unless we knew that  he had seen all the people in the world. Fair  he might be; but, fairest of all none could know, unless he had seen all. And we too  desire, not a fair one, but the fairest of all.  Unless we find him, we shall think we have  failed. It is no casual beauty that will content  us; what we are seeking after is that supreme  beauty which must of necessity be unique.   -What then is one to do, if the matter be  really thus ? Perhaps you know better than I.  All I see is that very few of us would have time  to examine all the various sects of philosophy in  turn, even if we began in early life. I know  not how it is ; but though you seem to me to  speak reasonably, yet (I must confess it) you  have distressed me not a little by this exact ex-  position of yours. I was unlucky in coming out  to-day, and in my falling in with you, who have  thrown me into utter perplexity by your proof  that the discovery of truth is impossible, just as  I seemed to be on the point of attaining my  hope.   Blame your parents, my child, not me !  Or rather, blame mother Nature herself, for  giving us but seventy or eighty years instead of  making us as long-lived as Tithonus. For my  part, I have but led you from premise to  conclusion.   Nay ! you are a mocker ! I know not  wherefore, but you have a grudge against  philosophy ; and it is your entertainment to  make a jest of her lovers.   Ah ! Hermotimus ! what the Truth may be, you philosophers may be able to tell better  than I. But so much at least I know of her,  that she is one by no means pleasant to those  who hear her speak : in the matter of pleasant-  ness , she is far surpassed by Falsehood : and  Falsehood has the pleasanter countenance. She,  nevertheless, being conscious of no alloy within,  discourses with boldness to all men, who there-  fore have little love for her. See how angry  you are now because I have stated the truth  about certain things of which we are both alike  enamoured that they are hard to come by. It  is as if you had fallen in love with a statue and  hoped to win its favour, thinking it a human  creature; and I, understanding it to be but an  image of brass or stone, had shown you, as a  friend, that your love was impossible, and there-  upon you had conceived that I bore you some  ill-will.   But still, does it not follow from what you  said, that we must renounce philosophy and pass  our days in idleness?   When did you hear me say that? I did  but assert that if we are to seek after philo-  sophy, whereas there are many ways professing  to lead thereto, we must with much exactness  distinguish them.   Well, Lucian ! that we must go to all the  schools in turn, and test what they say, if we are  to choose the right one, is perhaps reasonable;  but surely ridiculous, unless we are to live as many years as the Phoenix, to be so lengthy in  the trial of each ; as if it were not possible to  learn the whole by the part! They say that  Pheidias, when he was shown one of the talons  of a lion, computed the stature and age of the  animal it belonged to, modelling a complete lion  upon the standard of a single part of it. You  too would recognise a human hand were the  rest of the body concealed. Even so with the  schools of philosophy : the leading doctrines of  each might be learned in an afternoon. That  over-exactness of yours, which required so long  a time, is by no means necessary for making the  better choice.   -You are forcible, Hermotimus ! with this  theory of The Whole by the Part. Yet, methinks,  I heard you but now propound the contrary.  But tell me; would Pheidias when he saw  the lion's talon have known that it was a lion's,  if he had never seen the animal ? Surely,  the cause of his recognising the part was his  knowledge of the whole. There is a way of  choosing one's philosophy even less troublesome  than yours. Put the names of all the philo-  sophers into an urn. Then call a little child,  and let him draw the name of the philosopher  you shall follow all the rest of your days.   Nay ! be serious with me. Tell me ; did  you ever buy wine ?   Surely.   And did you first go the whole round of the wine-merchants, tasting and comparing their  wines ?   By no means.   No ! You were contented to order the  first good wine you found at your price. By  tasting a little you were ascertained of the  quality of the whole cask. How if you had  gone to each of the merchants in turn, and said,  ' I wish to buy a cotyle of wine. Let me drink  out the whole cask. Then I shall be able to  tell which is best, and where I ought to buy.'  Yet this is what you would do with the philo-  sophies. Why drain the cask when you might  taste, and see ?   How slippery you are; how you escape  from one's fingers ! Still, you have given me an  advantage, and are in your own trap.   How so ?   Thus ! You take a common object known  to every one, and make wine the figure of a  thing which presents the greatest variety in  itself, and about which all men are at variance,  because it is an unseen and difficult thing. I  hardly know wherein philosophy and wine are  alike unless it be in this, that the philosophers  exchange their ware for money, like the wine-  merchants; some of them with a mixture of  water or worse, or giving short measure. How-  ever, let us consider your parallel. The wine  in the cask, you say, is of one kind through-  out. But have the philosophers has your own master even but one and the same thing only  to tell you, every day and all days, on a subject  so manifold? Otherwise, how can you know  the whole by the tasting of one part? The  whole is not the same Ah ! and it may be that  God has hidden the good wine of philosophy  at the bottom of the cask. You must drain it  to the end if you are to find those drops of  divine sweetness you seem so much to thirst  for ! Yourself, after drinking so deeply, are still  but at the beginning, as you said. But is not  philosophy rather like this? Keep the figure  of the merchant and the cask : but let it be  filled, not with wine, but with every sort of  grain. You come to buy. The merchant hands  you a little of the wheat which lies at the top.  Could you tell by looking at that, whether the  chick-peas were clean, the lentils tender, the  beans full ? And then, whereas in selecting our  wine we risk only our money ; in selecting our  philosophy we risk ourselves, as you told me  might ourselves sink into the dregs of * the  vulgar herd.' Moreover, while you may not  drain the whole cask of wine by way of tasting,  Wisdom grows no less by the depth of your  drinking. Nay ! if you take of her, she is in-  creased thereby.   And then I have another similitude to pro-  pose, as regards this tasting of philosophy.  Don't think I blaspheme her if I say that it  may be with her as with some deadly poison, hemlock or aconite. These too, though they  cause death, yet kill not if one tastes but a  minute portion. You would suppose that the  tiniest particle must be sufficient.   Be it as you will, Lucian! One must  live a hundred years : one must sustain all this  labour ; otherwise philosophy is unattainable.   Not so ! Though there were nothing  strange in that, if it be true, as you said at first,  that Life is short and art is long. But now you  take it hard that we are not to see you this very  day, before the sun goes down, a Chrysippus, a  Pythagoras, a Plato.   You overtake me, Lucian ! and drive me  into a corner; in jealousy of heart, I believe,  because I have made some progress in doctrine  whereas you have neglected yourself.   Well ! Don't attend to me ! Treat me as  a Corybant, a fanatic : and do you go forward  on this road of yours. Finish the journey in  accordance with the view you had of these  matters at the beginning of it. Only, be assured  that my judgment on it will remain unchanged.  Reason still says, that without criticism, with-  out a clear, exact, unbiassed intelligence to try  them, all those theories all things will have  been seen but in vain. c To that end,' she tells  us, 'much time is necessary, many delays of  judgment, a cautious gait; repeated inspection.'  And we are not to regard the outward appear-  ance, or the reputation of wisdom, in any of the speakers; but like the judges of Areopagus, who  try their causes in the darkness of the night,  look only to what they say.   Philosophy, then, is impossible, or possible  only in another life !   Hermotimus ! I grieve to tell you that all  this even, may be in truth insufficient. After  all, we may deceive ourselves in the belief that  we have found something : like the fishermen !  Again and again they let down the net. At last  they feel something heavy, and with vast labour  draw up, not a load of fish, but only a pot full of  sand, or a great stone.   I don't understand what you mean by the  net. It is plain that you have caught me in it.   Try to get out ! You can swim as well as  another. We may go to all philosophers in turn  and make trial of them. Still, I, for my part,  hold it by no mean certain that any one of them  really possesses what we seek. The truth may  be a thing that not one of them has yet found.  You have twenty beans in your hand, and you  bid ten persons guess how many : one says five,  another fifteen ; it is possible that one of them  may tell the true number ; but it is not im-  possible that all may be wrong. So it is with  the philosophers. All alike are in search of  Happiness what kind of thing it is. One  says one thing, one another : it is pleasure ; it  is virtue ; what not ? And Happiness may  indeed be one of those things. But it is possible also that it may be still something else, different  and distinct from them all.   What is this? There is something, I  know not how, very sad and disheartening in  what you say. We seem to have come round in  a circle to the spot whence we started, and to  our first incertitude. Ah ! Lucian, what have  you done to me ? You have proved my priceless  pearl to be but ashes, and all my past labour to  have been in vain.   Reflect, my friend, that you are not the  first person who has thus failed of the good  thing he hoped for. All philosophers, so to  speak, are but fighting about the c ass's shadow.'  To me you seem like one who should weep, and  reproach fortune because he is not able to climb  up into heaven, or go down into the sea by  Sicily and come up at Cyprus, or sail on wings  in one day from Greece to India. And the true  cause of his trouble is that he has based his  hope on what he has seen in a dream, or his  own fancy has put together ; without previous  thought whether what he desires is in itself  attainable and within the compass of human  nature. Even so, methinks, has it happened  with you. As you dreamed, so largely, of those  wonderful things, came Reason, and woke you  up from sleep, a little roughly : and then you  are angry with Reason, your eyes being still but  half open, and find it hard to shake off sleep for  the pleasure of what you saw therein. Only,  don't be angry with me, because, as a friend, I  would not suffer you to pass your life in a dream,  pleasant perhaps, but still only a dream because  I wake you up and demand that you should busy  yourself with the proper business of life, and  send you to it possessed of common sense.  What your soul was full of just now is not very  different from those Gorgons and Chimaeras and  the like, which the poets and the painters con-  struct for us, fancy-free: things which never  were, and never will be, though many believe in  them, and all like to see and hear of them, just  because they are so strange and odd.   And you too, methinks, having heard from  some such maker of marvels of a certain woman  of a fairness beyond nature beyond the Graces,  beyond Venus Urania herself asked not if he  spoke truth, and whether this woman be really  alive in the world, but straightway fell in love  with her ; as they say that Medea was en-  amoured of Jason in a dream. And what more  than anything else seduced you, and others like  you, into that passion, for a vain idol of the  fancy, is, that he who told you about that fair  woman, from the very moment when you first  believed that what he said was true, brought for-  ward all the rest in consequent order. Upon her  alone your eyes were fixed ; by her he led you  along, when once you had given him a hold upon  you led you along the straight road, as he said,  to the beloved one. All was easy after that. None of you asked again whether it was the true  way ; following one after another, like sheep led  by the green bough in the hand of the shepherd.  He moved you hither and thither with his  finger, as easily as water spilt on a table !   My friend ! Be not so lengthy in preparing  the banquet, lest you die of hunger ! I saw one  who poured water into a mortar, and ground it  with all his might with a pestle of iron, fancy-  ing he did a thing useful and necessary; but it  remained water only, none the less."   Just there the conversation broke off suddenly,  and the disputants parted. The horses were  come for Lucian. The boy went on his way,  and Marius onward, to visit a friend whose  abode lay further. As he returned to Rome  towards evening the melancholy aspect, natural  to a city of the dead, had triumphed over the  superficial gaudiness of the early day. He could  almost have fancied Canidia there, picking her  way among the rickety lamps, to rifle some  neglected or ruined tomb ; for these tombs were  not all equally well cared for (Post mortem nescio /)  and it had been one of the pieties of Aurelius to  frame a severe law to prevent the defacing of  such monuments. To Marius there seemed to  be some new meaning in that terror of isolation,  of being left alone in these places, of which the  sepulchral inscriptions were so full. A blood-  red sunset was dying angrily, and its wild glare  upon the shadowy objects around helped to combine the associations of this famous way, its deeply  graven marks of immemorial travel, together with  the earnest questions of the morning as to the  true way of that other sort of travelling, around  an image, almost ghastly in the traces of its great  sorrows bearing along for ever, on bleeding  feet, the instrument of its punishment which  was all Marius could recall distinctly of a certain  Christian legend he had heard. The legend  told of an encounter at this very spot, of two  wayfarers on the Appian Way, as also upon  some very dimly discerned mental journey,  altogether different from himself and his late  companions an encounter between Love, liter-  ally fainting by the road, and Love "travelling  in the greatness of his strength," Love itself,  suddenly appearing to sustain that other. A  strange contrast to anything actually presented in  that morning's conversation, it seemed neverthe-  less to echo its very words " Do they never  come down again," he heard once more the well-  modulated voice : " Do they never come down  again from the heights, to help those whom  they left here below?" "And we too desire,  not a fair one, but the fairest of all. Unless we  find him, we shall think we have failed." It was become a habit with Marius one of his  modernisms developed by his assistance at the  Emperor's "conversations with himself," to  keep a register of the movements of his own  private thoughts and humours ; not continuously  indeed, yet sometimes for lengthy intervals, dur-  ing which it was no idle self-indulgence, but  a necessity of his intellectual life, to " confess  himself," with an intimacy, seemingly rare  among the ancients ; ancient writers, at all  evtiits, having been jealous, for the most part,  of affording us so much as a glimpse of that  interior self, which in many cases would have  actually doubled the interest of their objective  informations.   " If a particular tutelary or genius" writes  Marius, " according to old belief, walks through  life beside each one of us, mine is very certainly a  capricious creature. He fills one with wayward,  unaccountable, yet quite irresistible humours, and seems always to be in collusion with some  outward circumstance, often trivial enough in  itself the condition of the weather, forsooth !  the people one meets by chance the things  one happens to overhear them say, veritable  evofaoi, o-vfjL@o\oi 9 or omens by the wayside, as the  old Greeks fancied to push on the unreason-  able prepossessions of the moment into weighty  motives. It was doubtless a quite explicable,  physical fatigue that presented me to myself, on  awaking this morning, so lack-lustre and trite.  But I must needs take my petulance, contrasting  it with my accustomed morning hopefulness, as  a sign of the ageing of appetite, of a decay in the  very capacity of enjoyment. We need some  imaginative stimulus, some not impossible ideal  such as may shape vague hope, and transform it  into effective desire, to carry us year after year,  without disgust, through the routine-work which  is so large a part of life.   "Then, how if appetite, be it for real or  ideal, should itself fail one after awhile ? /^h,  yes ! is it of cold always that men die ; and on  some of us it creeps very gradually. In truth, I  can remember just such a lack-lustre condition of  feeling once or twice before. But I note, that it  was accompanied then by an odd indifference, as  the thought of them occurred to me, in regard  to the sufferings of others a kind of callousness,  so unusual with me, as at once to mark the  humour it accompanied as a palpably morbid one that could not last. Were those sufferings, great  or little, I asked myself then, of more real conse-  quence to them than mine to me, as I remind  myself that 'nothing that will end is really  long '--long enough to be thought of import-  ance f But to-day, my own sense of fatigue, the  pity I conceive for myself, disposed me strongly  to a tenderness for others. For a moment the  whole world seemed to present itself as a  hospital of sick persons ; many of them sick in  mind; all of whom it would be a brutality not  to humour, not to indulge.   "Why, when I went out to walk off my  wayward fancies, did I confront the very sort of  incident (my unfortunate genius had surely  beckoned it from afar to vex me) likely to  irritate them further ? A party of men were  coming down the street. They were leading a  fine race-horse; a handsome beast, but badly  hurt somewhere, in the circus, and useless.  They were taking him to slaughter ; and I think  the animal knew it : he cast such looks, as if of  mad appeal, to those who passed him, as he  went among the strangers to whom his former  owner had committed him, to die, in his beauty  and pride, for just that one mischance or fault ;  although the morning air was still so animating,  and pleasant to snuff. I could have fancied a  human soul in the creature, swelling against its  luck. And I had come across the incident just  when it would figure to me as the very symbol of our poor humanity, in its capacities for pain,  its wretched accidents, and those imperfect sym-  pathies, which can never quite identify us with  one another ; the very power of utterance and  appeal to others seeming to fail us, in propor-  tion as our sorrows come home to ourselves, are  really our own. We are constructed for suffer-  ing ! What proofs of it does but one day afford,  if we care to note them, as we go a whole long  chaplet of sorrowful mysteries ! Sunt lacrimtf  rerum et mentem mortalia tangunt.   " Men's fortunes touch us ! The little chil-  dren of one of those institutions for the support  of orphans, now become fashionable among us  by way of memorial of eminent persons deceased,  are going, in long file, along the street, on their  way to a holiday in the country. They halt,  and count themselves with an air of triumph, to  show that they are all there. Their gay chatter  has disturbed a little group of peasants ; a young  woman and her husband, who have brought the  old mother, now past work and witless, to place  her in a house provided for such afflicted people.  They are fairly affectionate, but anxious how  the thing they have to do may go hope only  she may permit them to leave her there behind  quietly. And the poor old soul is excited by  the noise made by the children, and partly aware  of what is going to happen with her. She too  begins to count one, two, three, five on her  trembling fingers, misshapen by a life of toil.  ' Yes ! yes ! and twice five make ten ' they say,  to pacify her. It is her last appeal to be taken  home again ; her proof that all is not yet up  with her ; that she is, at all events, still as  capable as those joyous children.   "At the baths, a party of labourers are at  work upon one of the great brick furnaces, in  a cloud of black dust. A frail young child has  brought food for one of them, and sits apart,  waiting till his father comes watching the  labour, but with a sorrowful distaste for the din  and dirt. He is regarding wistfully his own  place in the world, there before him. His mind,  as he watches, is grown up for a moment ; and  he foresees, as it were, in that moment, all the  long tale of days, of early awakings, of his own  coming life of drudgery at work like this.   " A man comes along carrying a boy whose  rough work has already begun the only child  whose presence beside him sweetened the  father's toil a little. The boy has been badly  injured by a fall of brick-work, yet, with an  effort, he rides boldly on his father's shoulders.  It will be the way of natural affection to keep  him alive as long as possible, though with that  miserably shattered body ' Ah ! with us still,  and feeling our care beside him ! ' and yet  surely not without a heartbreaking sigh of relief,  alike from him and them, when the end comes.   " On the alert for incidents like these, yet of  necessity passing them by on the other side, I find it hard to get rid of a sense that I, for one, have  failed in love. I could yield to the humour till  I seemed to have had my share in those great  public cruelties, the shocking legal crimes which  are on record, like that cold-blooded slaughter,  according to law, of the four hundred slaves in  the reign of Nero, because one of their number  was thought to have murdered his master. The  reproach of that, together with the kind of facile  apologies those who had no share in the deed  may have made for it, as they went about quietly  on their own affairs that day, seems to come very  close to me, as I think upon it. And to how  many of those now actually around me, whose  life is a sore one, must I be indifferent, if I ever  become aware of their soreness at all ? To some,  perhaps, the necessary conditions of my own life  may cause me to be opposed, in a kind of  natural conflict, regarding those interests which  actually determine the happiness of theirs. I \  would that a stronger love might arise in my \  heart !   " Yet there is plenty of charity in the world.  My patron, the Stoic emperor, has made it  even fashionable. To celebrate one of his brief  returns to Rome lately from the war, over and  above a largess of gold pieces to all who would,  the public debts were forgiven. He made a  nice show of it : for once, the Romans enter-  tained themselves with a good-natured spectacle,  and the whole town came to see the great bonfire in the Forum, into which all bonds and  evidence of debt were thrown on delivery, by  the emperor himself; many private creditors  following his example. That was done well  enough ! But still the feeling returns to me,  that no charity of ours can get at a certain  natural unkindness which I find in things them-  selves.   "When I first came to Rome, eager to  observe its religion, especially its antiquities of  religious usage, I assisted at the most curious,  perhaps, of them all, the most distinctly marked  with that immobility which is a sort of ideal in  the Roman religion. The ceremony took place  at a singular spot some miles distant from the  city, among the low hills on the bank of the  Tiber, beyond the Aurelian Gate. There, in a  little wood of venerable trees, piously allowed  their own way, age after age ilex and cypress  remaining where they fell at last, one over the  other, and all caught, in that early May-time,  under a riotous tangle of wild clematis was to  be found a magnificent sanctuary, in which the  members of the Arval College assembled them-  selves on certain days. The axe never touched  those trees Nay ! it was forbidden to introduce  any iron thing whatsoever within the precincts ;  not only because the deities of these quiet places  hate to be disturbed by the harsh noise of metal,  but also in memory of that better age the lost  Golden Age the homely age of the potters, of which the central act of the festival was a com-  memoration.   " The preliminary ceremonies were long and fe  complicated, but of a character familiar enough.  Peculiar to the time and place was the solemn  exposition, after lavation of hands, processions  backwards and forwards, and certain changes of  vestments, of the identical earthen vessels  veritable relics of the old religion of Numa !  the vessels from which the holy Numa himself  had eaten and drunk, set forth above a kind of  altar, amid a cloud of flowers and incense, and  many lights, for the veneration of the credulous  or the faithful.   " They were, in fact, cups or vases of burnt  clay, rude in form : and the religious veneration  thus offered to them expressed men's desire to  give honour to a simpler age, before iron had  found place in human life : the persuasion that  that age was worth remembering : a hope that  it might come again.   " That a Numa, and his age of gold, would  return, has been the hope or the dream of some,  in every period. Yet if he did come back, or  any equivalent of his presence, he could but  weaken, and by no means smite through, that  root of evil, certainly of sorrow, of outraged  human sense, in things, which one must care-  fully distinguish from all preventible accidents.  Death, and the little perpetual daily dyings,  which have something of its sting, he must necessarily leave untouched. And, methinks,  that were all the rest of man's life framed  entirely to his liking, he would straightway  begin to sadden himself, over the fate say, of  the flowers ! For there is, there has come to be  since Numa lived perhaps, a capacity for sorrow  in his heart, which grows with all the growth,  alike of the individual and of the race, in intel-  lectual delicacy and power, and which 'will find  its aliment.   " Of that sort of golden age, indeed, one  discerns even now a trace, here and there.  Often have I maintained that, in this generous  southern country at least, Epicureanism is the  special philosophy of the poor. How little I  myself really need, when people leave me alone,  with the intellectual powers at work serenely.  The drops of falling water, a few wild flowers  with their priceless fragrance, a few tufts even  of half-dead leaves, changing colour in the quiet  of a room that has but light and shadow in it;  these, for a susceptible mind, might well do duty  for all the glory of Augustus. I notice some-  times what I conceive to be the precise character  of the fondness of the roughest working-people  for their young children, a fine appreciation, not  only of their serviceable affection, but of their  visible graces : and indeed, in this country, the  children are almost always worth looking at. I  see daily, in fine weather, a child like a delicate  nosegay, running to meet the rudest of brick-makers as he comes from work. She is not at  all afraid to hang upon his rough hand : and  through her, he reaches out to, he makes his  own, something from that strange region, so dis-  tant from him yet so real, of the world's refine-  ment. What is of finer soul, or of finer stuff in  things, and demands delicate touching to him  the delicacy of the little child represents that :  it initiates him into that. There, surely, is a  touch of the secular gold, of a perpetual age  of gold. But then again, think for a moment,  with what a hard humour at the nature of  things, his struggle for bare life will go on,  if the child should happen to die. I observed  to-day, under one of the archways of the baths,  two children at play, a little seriously a fair  girl and her crippled younger brother. Two  toy chairs and a little table, and sprigs of fir set  upright in the sand for a garden ! They played  at housekeeping. Well ! the girl thinks her  life a perfectly good thing in the service of this  crippled brother. But she will have a jealous  lover in time: and the boy, though his face is  not altogether unpleasant, is after all a hopeless  cripple.   " For there is a certain grief in things as they  are, in man as he has come to be, as he certainly  is, over and above those griefs of circumstance  which are in a measure removable some inex-  plicable shortcoming, or misadventure, on the  part of nature itself death, and old age as it must needs be, and that watching for their ap-  proach, which makes every stage of life like a  dying over and over again. Almost all death is  painful, and in every thing that comes to an  end a touch of death, and therefore of wretched  coldness struck home to one, of remorse, of loss  and parting, of outraged attachments. Given  faultless men and women, given a perfect state  of society which should have no need to practise  on men's susceptibilities for its own selfish ends,  adding one turn more to the wheel of the great  rack for its own interest or amusement, there  would still be this evil in the world, of a certain  necessary sorrow and desolation, felt, just in pro-  portion to the moral, or nervous perfection men  have attained to. And what we need in the  world, over against that, is a certain permanent  and general power of compassion humanity's  standing force of self-pity as an elementary  ingredient of our social atmosphere, if we are to  live in it at all. I wonder, sometimes, in what  way man has cajoled himself into the bearing of  his burden thus far, seeing how every step in  the capacity of apprehension his labour has won  for him, from age to age, must needs increase  his dejection. It is as if the increase of know-  ledge were but an increasing revelation of the  radical hopelessness of his position : and I would  that there were one even as I, behind this vain  show of things !   " At all events, the actual conditions of our life being as they are, and the capacity for  suffering so large a principle in things since  the only principle, perhaps, to which we may  always safely trust is a ready sympathy with  the pain one actually sees it follows that the '  practical and effective difference between men  will lie in their power of insight into those con-  ditions, their power of sympathy. The future 1  will be with those who have most of it ; while  for the present, as I persuade myself, those who  have much of it, have something to hold by,  even in the dissolution of a world, or in that  dissolution of self, which is, for every one, no  less than the dissolution of the world it repre-  sents for him. Nearly all of us, I suppose, have  had our moments, in which any effective sym-  pathy for us on the part of others has seemed  impossible ; in which our pain has seemed a  stupid outrage upon us, like some overwhelming  physical violence, from which we could take  refuge, at best, only in some mere general sense  of goodwill somewhere in the world perhaps.  And then, to one's surprise, the discovery of that  goodwill, if it were only in a not unfriendly  animal, may seem to have explained, to have  actually justified to us, the fact of our pain.  There have been occasions, certainly, when I  have felt that if others cared for me as I cared  for them, it would be, not so much a consola-  tion, as an equivalent, for what one has lost or  suffered : a realised profit on the summing up  of one's accounts : a touching of that absolute  ground amid all the changes of phenomena, such  as our philosophers have of late confessed them-  selves quite unable to discover. In the mere  clinging of human creatures to each other, nay !  in one's own solitary self-pity, amid the effects  even of what might appear irredeemable loss, I  seem to touch the eternal. Something in that  pitiful contact, something new and true, fact or  apprehension of fact, is educed, which, on a  review of all the perplexities of life, satisfies our  moral sense, and removes that appearance of  unkindness in the soul of things themselves,  and assures us that not everything has been in  vain.   " And I know not how, but in the thought  thus suggested, I seem to take up, and re-knit  'myself to, a well-remembered hour, when by  some gracious accident it was on a journey-  all things about me fell into a more perfect har-  mony than is their wont. Everything seemed  to be, for a moment, after all, almost for the  best. Through the train of my thoughts, one  against another, it was as if I became aware of  the dominant power of another person in contro-  versy, wrestling with me. I seem to be come  round to the point at which I left off then.  The antagonist has closed with me again. A  protest comes, out of the very depths of man's  radically hopeless condition in the world, with  the energy of one of those suffering yet prevailing deities, of which old poetry tells. Dared  one hope that there is a heart, even as ours,  in that divine e Assistant ' of one's thoughts a  heart even as mine, behind this vain show of  things!"  " Ah ! voila les ames qu'il falloit a la miennc ! "   Rousseau.   The charm of its poetry, a poetry of the affec-  tions, wonderfully fresh in the midst of a thread-  bare world, would have led Marius, if nothing  else had done so, again and again, to Cecilia's  house. He found a range of intellectual plea-  sures, altogether new to him, in the sympathy  of that pure and elevated soul. Elevation of  soul, generosity, humanity little by little it  came to seem to him as if these existed nowhere  else. The sentiment of maternity, above all, as  it might be understood there, its claims, with  the claims of all natural feeling everywhere,  down to the sheep bleating on the hills, nay !  even to the mother-wolf, in her hungry cave  seemed to have been vindicated, to have been  enforced anew, by the sanction of some divine  pattern thereof. He saw its legitimate place in  the world given at last to the bare capacity for suffering in any creature, however feeble or  apparently useless. In this chivalry, seeming to  leave the world's heroism a mere property of  the stage, in this so scrupulous fidelity to  what could not help itself, could scarcely claim  not to be forgotten, what a contrast to the  hard contempt of one's own or other's pain,  of death, of glory even, in those discourses of  Aurelius !   But if Marius thought at times that some  long - cherished desires were now about to  blossom for him, in the sort of home he had  sometimes pictured to himself, the very charm  of which would lie in its contrast to any  random affections : that in this woman, to whom  children instinctively clung, he might find such  a sister, at least, as he had always longed for ;  there were also circumstances which reminded  him that a certain rule forbidding second  marriages, was among these people still in force ;  ominous incidents, moreover, warning a suscep-  tible conscience not to mix together the spirit  and the flesh, nor make the matter of a heavenly  banquet serve for earthly meat and drink.   One day he found Cecilia occupied with the  burial of one of the children of her household.  It was from the tiny brow of such a child, as he  now heard, that the new light had first shone  forth upon them through the light of mere  physical life, glowing there again, when the  child was dead, or supposed to be dead. The aged servant of Christ had arrived in the midst  of their noisy grief; and mounting to the little  chamber where it lay, had returned, not long  afterwards, with the child stirring in his arms as  he descended the stair rapidly ; bursting open  the closely-wound folds of the shroud and  scattering the funeral flowers from them, as the  soul kindled once more through its limbs.   Old Roman common-sense had taught people  to occupy their thoughts as little as might be  with children who died young. Here, to-day,  however, in this curious house, all thoughts  were tenderly bent on the little waxen figure,  yet with a kind of exultation and joy, notwith-  standing the loud weeping of the mother. The  other children, its late companions, broke with  it, suddenly, into the place where the deep black  bed lay open to receive it. Pushing away the  grim fossores, the grave-diggers, they ranged  themselves around it in order, and chanted that  old psalm of theirs Laudate pueri dominum !  Dead children, children's graves Marius had  been always half aware of an old superstitious  fancy in his mind concerning them; as if in  coming near them he came near the failure of  some lately-born hope or purpose of his own.  And now, perusing intently the expression with  which Cecilia assisted, directed, returned after-  wards to her house, he felt that he too had had  to-day his funeral of a little child. But it had  always been his policy, through all his pursuit of " experience/' to take flight in time from any  too disturbing passion, from any sort of affection  likely to quicken his pulses beyond the point at  which the quiet work of life was practicable.  Had he, after all, been taken unawares, so that  it was no longer possible for him to fly ? At  least, during the journey he took, by way of test-  ing the existence of any chain about him, he  found a certain disappointment at his heart,  greater than he could have anticipated; and as  he passed over the crisp leaves, nipped off in  multitudes by the first sudden cold of winter, he  felt that the mental atmosphere within himself  was perceptibly colder.   Yet it was, finally, a quite successful resigna-  tion which he achieved, on a review, after his  manner, during that absence, of loss or gain.  The image of Cecilia, it would seem, was already  become for him like some matter of poetry, or  of another man's story, or a picture on the  wall. And on his return to Rome there had  been a rumour in that singular company, of  things which spoke certainly not of any merely  tranquil loving : hinted rather that he had come  across a world, the lightest contact with which  might make appropriate to himself also the  precept that " They which have wives be as  they that have none."   This was brought home to him, when, in  early spring, he ventured once more to listen to  the sweet singing of the Eucharist. It breathed more than ever the spirit of a wonderful hop*  of hopes more daring than poor, labouring  humanity had ever seriously entertained before,  though it was plain that a great calamity was  befallen. Amid stifled sobbing, even as the  pathetic words of the psalter relieved the tension  of their hearts, the people around him still wore  upon their faces their habitual gleam of joy, of  placid satisfaction. They were still under the  influence of an immense gratitude in thinking.  even amid their present distress, of the hour or  a great deliverance. As he followed again that  mystical dialogue, he felt also again, like a  mighty spirit about him, the potency, the half-  realised presence, of a great multitude, as if  thronging along those awful passages, to hear the  sentence of its release from prison; a company  which represented nothing less than orbis ter-  rarum the whole company of mankind. And  the special note of the day expressed that relief  a sound new to him, drawn deep from some  old Hebrew source, as he conjectured, Alleluia!  repeated over and over again, Alleluia! Alleluia!  at every pause and movement of the long Easter  ceremonies.   And then, in its place, by way of sacred  lection, although in shocking contrast with the  peaceful dignity of all around, came the Epistle  of the churches of Lyons and Vienne^ to " their  sister,'' the church of Rome. For the "Peace"  of the church had been broken broken, as Marius could not but acknowledge, on the  responsibility of the emperor Aurelius himself,  following tamely, and as a matter of course, the traces of his predecessors, gratuitously enlisting,  against the good as well as the evil of that great  pagan world, the strange new heroism of which  this singular message was full. The greatness  of it certainly lifted away all merely private  regret, inclining one, at last, actually to draw  sword for the oppressed, as if in some new  order of knighthood   " The pains which our brethren have endured  we have no power fully to tell, for the enemy  came upon us with his whole strength. But the  grace of God fought for us, set free the weak,  and made ready those who, like pillars, were  able to bear the weight. These, coming now  into close strife with the foe, bore every kind of  pang and shame. At the time of the fair which  is held here with a great crowd, the governor  led forth the Martyrs as a show. Holding what  was thought great but little, and that the pains  of to-day are not deserving to be measured  against the glory that shall be made known,  these worthy wrestlers went joyfully on their  way; their delight and the sweet favour of  God mingling in their faces, so that their bonds  seemed but a goodly array, or like the golden  bracelets of a bride. Filled with the fragrance  of Christ, to some they seemed to have been  touched with earthly perfumes.  " Vettius Epagathus, though he was vei  young, because he would not endure to see  unjust judgment given against us, vented his  anger, and sought to be heard for the brethren,  for he was a youth of high place. Whereupon  the governor asked him whether he also were a  Christian. He confessed in a clear voice, and  was added to the number of the Martyrs. But  he had the Paraclete within him ; as, in truth,  he showed by the fulness of his love; glorying  in the defence of his brethren, and to give his  life for theirs.   " Then was fulfilled the saying of the Lord  that the day should come, When he that slayeth  you 'will think that he doeth God service. Most  madly did the mob, the governor and the  soldiers, rage against the handmaiden Blandina,  in whom Christ showed that what seems mean  among men is of price with Him. For whilst  we all, and her earthly mistress, who was herself  one of the contending Martyrs, were fearful lest  through the weakness of the flesh she should be  unable to profess the faith, Blandina was filled  with such power that her tormentors, following  upon each other from morning until night,  owned that they were overcome, and had no  more that they could do to her ; admiring that  she still breathed after her whole body was torn  asunder.   " But this blessed one, in the very midst of  her c witness,' renewed her strength ; and to repeat, / am Christ's ! was to her rest, refresh-  ment, and relief from pain. As for Alexander,  he neither uttered a groan nor any sound at all,  but in his heart talked with God. Sanctus, the  deacon, also, having borne beyond all measure  pains devised by them, hoping that they would  get something from him, did not so much as tell  his name ; but to all questions answered only, /  am Chrises ! For this he confessed instead of  his name, his race, and everything beside.  Whence also a strife in torturing him arose  between the governor and those tormentors, so  that when they had nothing else they could do  they set red-hot plates of brass to the most  tender parts of his body. But he stood firm in  his profession, cooled and fortified by that  stream of living water which flows from Christ.  His corpse, a single wound, having wholly lost  the form of man, was the measure of his pain.  But Christ, paining in him, set forth an en-  sample to the rest that there is nothing fearful,  nothing painful, where the love of the Father  overcomes. And as all those cruelties were  made null through the patience of the Martyrs,  they bethought them of other things ; among  which was their imprisonment in a dark and  most sorrowful place, where many were privily  strangled. But destitute of man's aid, they were  filled with power from the Lord, both in body  and mind, and strengthened their brethren.  Also, much joy was in our virgin mother, the Church ; for, by means of these, such as were  fallen away retraced their steps were again con-  ceived, were filled again with lively heat, and  hastened to make the profession of their faith.   "The holy bishop Pothinus, who was now  past ninety years old and weak in body, yet in  his heat of soul and longing for martyrdom,  roused what strength he had, and was also  cruelly dragged to judgment, and gave witness.  Thereupon he suffered many stripes, all thinking  it would be a wickedness if they fell short in  cruelty towards him, for that thus their own  gods would be avenged. Hardly drawing breath,  he was thrown into prison, and after two days  there died.   "After these things their martyrdom was  parted into divers manners. Plaiting as it were  one crown of many colours and every sort of  flowers, they offered it to God. Maturus, there-  fore, Sanctus and Blandina, were led to the wild  beasts. And Maturus and Sanctus passed through  all the pains of the amphitheatre, as if they had  suffered nothing before : or rather, as having in  many trials overcome, and now contending for  the prize itself, were at last dismissed.   " But Blandina was bound and hung upon a  stake, and set forth as food for the assault of the  wild beasts. And as she thus seemed to be hung  upon the Cross, by her fiery prayers she imparted  much alacrity to those contending Witnesses.  For as they looked upon her with the eye of flesh, through her, they saw Him that was cruci-  fied. But as none of the beasts would then touch  her, she was taken down from the Cross, and  sent back to prison for another day : that, though  weak and mean, yet clothed with the mighty  wrestler, Christ Jesus, she might by many con-  quests give heart to her brethren.   " On the last day, therefore, of the shows, she  was brought forth again, together with Ponticus,  a lad of about fifteen years old. They were  brought in day by day to behold the pains of  the rest. And when they wavered not, the mob  was full of rage ; pitying neither the youth of  the lad, nor the sex of the maiden. Hence, they  drave them through the whole round of pain.  And Ponticus, taking heart from Blandina, hav-  ing borne well the whole of those torments, gave  up his life. Last of all, the blessed Blandina  herself, as a mother that had given life to her  children, and sent them like conquerors to the  great King, hastened to them, with joy at the  end, as to a marriage-feast; the enemy himself  confessing that no woman had ever borne pain  so manifold and great as hers.   " Nor even so was their anger appeased ; some  among them seeking for us pains, if it might be,  yet greater; that the saying might be fulfilled,  He that is unjust, let him be unjust still. And  their rage against the Martyrs took a new form,  insomuch that we were in great sorrow for lack  of freedom to entrust their bodies to the earth, Neither did the night-time, nor the offer of  money, avail us for this matter; but they set  watch with much carefulness, as though it were  a great gain to hinder their burial. Therefore,  after the bodies had been displayed to view for  many days, they were at last burned to ashes,  and cast into the river Rhone, which flows by  this place, that not a vestige of them might be  left upon the earth. For they said, Now shall  we see whether they will rise again, and whether  their God can save them out of our hands" Not many months after the date of that epistle,  Marius, then expecting to leave Rome for a  long time, and in fact about to leave it for ever,  stood to witness the triumphal entry of Marcus  Aurelius, almost at the exact spot from which  he had watched the emperor's solemn return to  the capital on his own first coming thither.  His triumph was now a " full " one Justus  Triumphus justified, by far more than the due  amount of bloodshed in those Northern wars,  at length, it might seem, happily at an end.  Among the captives, amid the laughter of the  crowds at his blowsy upper garment, his trousered  legs and conical wolf-skin cap, walked our own  ancestor, representative of subject Germany,  under a figure very familiar in later Roman  sculpture; and, though certainly with none of  the grace of the Dying Gau/, yet with plenty of  uncouth pathos in his misshapen features, and  the pale, servile, yet angry eyes. His children, white-skinned and golden-haired " as angels,"  trudged beside him. His brothers, of the animal  world, the ibex, the wild-cat, and the reindeer,  stalking and trumpeting grandly, found their  due place in the procession; and among the  spoil, set forth on a portable frame that it might  be distinctly seen (no mere model, but the very  house he had lived in), a wattled cottage, in all  the simplicity of its snug contrivances against  the cold, and well-calculated to give a moment's  delight to his new, sophisticated masters.   Andrea Mantegna, working at the end of the  fifteenth century, for a society full of antiquarian  fervour at the sight of the earthy relics of the  old Roman people, day by day returning to light  out of the clay childish still, moreover, and  with no more suspicion of pasteboard than the  old Romans themselves, in its unabashed love of  open-air pageantries, has invested this, the great-  est, and alas ! the most characteristic, of the  splendours of imperial Rome, with a reality  livelier than any description. The homely senti-  ments for which he has found place in his  learned paintings are hardly more lifelike than  the great public incidents of the show, there  depicted. And then, with all that vivid realism,  how refined, how dignified, how select in type,  is this reflection of the old Roman world !  now especially, in its time-mellowed red and  gold, for the modern visitor to the old English  palace. It was under no such selected types that  the great procession presented itself to Marius ;  though, in effect, he found something there pro-  phetic, so to speak, and evocative of ghosts, as  susceptible minds will do, upon a repetition after  long interval of some notable incident, which  may yet perhaps have no direct concern for  themselves. In truth, he had been so closely  bent of late on certain very personal interests  that the broad current of the world's doings  seemed to have withdrawn into the distance, but  now, as he witnessed this procession, to return  once more into evidence for him. The world,  certainly, had been holding on its old way, and  was all its old self, as it thus passed by dramatic-  ally, accentuating, in this favourite spectacle, its  mode of viewing things. And even apart from  the contrast of a very different scene, he would  have found it, just now, a somewhat vulgar  spectacle. The temples, wide open, with their  ropes of roses flapping in the wind against the  rich, reflecting marble, their startling draperies  and heavy cloud of incense, were but the centres  of a great banquet spread through all the gaudily  coloured streets of Rome, for which the carnivo-  rous appetite of those who thronged them in the  glare of the mid -day sun was frankly enough  asserted. At best, they were but calling their  gods to share with them the cooked, sacrificial,  and other meats, reeking to the sky. The child,  who was concerned for the sorrows of one of those Northern captives as he passed by, and  explained to his comrade "There's feeling in  that hand, you know ! " benumbed and lifeless as  it looked in the chain, seemed, in a moment, to  transform the entire show into its own proper  tinsel. Yes ! these Romans were a coarse, a  vulgar people; and their vulgarities of soul  in full evidence here. And Aurelius himself  seemed to have undergone the world's coinage,  and fallen to the level of his reward, in a medi-  ocrity no longer golden.   Yet if, as he passed by, almost filling the  quaint old circular chariot with his magnificent  golden-flowered attire, he presented himself to  Marius, chiefly as one who had made the great  mistake ; to the multitude he came as a more  than magnanimous conqueror. That he had  " forgiven " the innocent wife and children of  the dashing and almost successful rebel Avidius  Cassius, now no more, was a recent circumstance  still in memory. As the children went past  not among those who, ere the emperor ascended  the steps of the Capitol, would be detached from  the great progress for execution, happy rather,  and radiant, as adopted members of the imperial  family the crowd actually enjoyed an exhibi-  tion of the moral order, such as might become  perhaps the fashion. And it was in considera-  tion of some possible touch of a heroism herein  that might really have cost him something, that  Marius resolved to seek the emperor once more, with an appeal for common-sense, for reason and  justice.   He had set out at last to revisit his old home ;  and knowing that Aurelius was then in retreat  at a favourite villa, which lay almost on his way  thither, determined there to present himself.  Although the great plain was dying steadily, a  new race of wild birds establishing itself there,  as he knew enough of their habits to understand,  and the idle contadino^ with his never-ending  ditty of decay and death, replacing the lusty  Roman labourer, never had that poetic region  between Rome and the sea more deeply im-  pressed him than on this sunless day of early  autumn, under which all that fell within the  immense horizon was presented in one uniform  tone of a clear, penitential blue. Stimulating to  the fancy as was that range of low hills to the  northwards, already troubled with the upbreak-  ing of the Apennines, yet a want of quiet in  their outline, the record of wild fracture there,  of sudden upheaval and depression, marked them  as but the ruins of nature ; while at every little  descent and ascent of the road might be noted  traces of the abandoned work of man. From  time to time, the way was still redolent of  the floral relics of summer, daphne and myrtle-  blossom, sheltered in the little hollows and  ravines. At last, amid rocks here and there  piercing the soil, as those descents became  steeper, and the main line of the Apennines, now visible, gave a higher accent to the scene,  he espied over the plateau^ almost like one of  those broken hills, cutting the horizon towards  the sea, the old brown villa itself, rich in  memories of one after another of the family of  the Antonines. As he approached it, such remi-  niscences crowded upon him, above all of the  life there of the aged Antoninus Pius, in its  wonderful mansuetude and calm. Death had  overtaken him here at the precise moment when  the tribune of the watch had received from his  lips the word Aequanimitas! as the watchword  of the night. To see their emperor living there  like one of his simplest subjects, his hands red at  vintage-time with the juice of the grapes, hunt-  ing, teaching his children, starting betimes, with  all who cared to join him, for long days of anti-  quarian research in the country around : this,  and the like of this, had seemed to mean the  peace of mankind.   Upon that had come like a stain ! it seemed  to Marius just then the more intimate life of  Faustina, the life of Faustina at home. Surely,  that marvellous but malign beauty must still  haunt those rooms, like an unquiet, dead goddess,  who might have perhaps, after all, something  reassuring to tell surviving mortals about her  ambiguous self. When, two years since, the  news had reached Rome that those eyes, always  so persistently turned to vanity, had suddenly  closed for ever, a strong desire to pray had come over Marius, as he followed in fancy on its wild  way the soul of one he had spoken with now and  again, and whose presence in it for a time the  world of art could so ill have spared. Certainly,  the honours freely accorded to embalm her  memory were poetic enough the rich temple  left among those wild villagers at the spot, now  it was hoped sacred for ever, where she had  breathed her last ; the golden image, in her old  place at the amphitheatre ; the altar at which  the newly married might make their sacrifice ;  above all, the great foundation for orphan girls,  to be called after her name.   The latter, precisely, was the cause why  Marius failed in fact to see Aurelius again, and  make the chivalrous effort at enlightenment  he had proposed to himself. Entering the villa,  he learned from an usher, at the door of the  long gallery, famous still for its grand prospect  in the memory of many a visitor, and then lead-  ing to the imperial apartments, that the emperor  was already in audience : Marius must wait his  turn he knew not how long it might be. An  odd audience it seemed ; for at that moment,  through the closed door, came shouts of laughter,  the laughter of a great crowd of children the  " Faustinian Children " themselves, as he after-  wards learned happy and at their ease, in the  imperial presence. Uncertain, then, of the time  for which so pleasant a reception might last, so  pleasant that he would hardly have wished to shorten it, Marius finally determined to proceed,  as it was necessary that he should accomplish  the first stage of his journey on this day. The  thing was not to be Vale ! anima infelicissima !  He might at least carry away that sound of  the laughing orphan children, as a not unamiable  last impression of kings and their houses.   The place he was now about to visit, especi-  ally as the resting-place of his dead, had never  been forgotten. Only, the first eager period of  his life in Rome had slipped on rapidly ; and,  almost on a sudden, that old time had come to  seem very long ago. An almost burdensome  solemnity had grown about his memory of the  place, so that to revisit it seemed a thing that  needed preparation : it was what he could not  have done hastily. He half feared to lessen, or  disturb, its value for himself. And then, as he  travelled leisurely towards it, and so far with  quite tranquil mind, interested also in many  another place by the way, he discovered a  shorter road to the end of his journey, and found  himself indeed approaching the spot that was to  him like no other. Dreaming now only of the  dead before him, he journeyed on rapidly through  the night ; the thought of them increasing on  him, in the darkness. It was as if they had  been waiting for him there through all those  years, and felt his footsteps approaching now,  and understood his devotion, quite gratefully,  in that lowliness of theirs, in spite of its tardy fulfilment. As morning came, his late tran-  quillity of mind had given way to a grief which  surprised him by its freshness. He was moved  more than he could have thought possible by so  distant a sorrow. " To-day ! " they seemed to  be saying as the hard dawn broke, " To-day, he  will come ! " At last, amid all his distractions,  they were become the main purpose of what he  was then doing. The world around it, when he  actually reached the place later in the day, was  in a mood very different from his : so work-  a-day, it seemed, on that fine afternoon, and  the villages he passed through so silent ; the  inhabitants being, for the most part, at their  labour in the country. Then, at length, above  the tiled outbuildings, were the walls of the old  villa itself, with the tower for the pigeons ; and,  not among cypresses, but half-hidden by aged  poplar-trees, their leaves like golden fruit, the  birds floating around it, the conical roof of the  tomb itself. In the presence of an old servant  who remembered him, the great seals were  broken, the rusty key turned at last in the lock,  the door was forced out among the weeds grown  thickly about it, and Marius was actually in the  place which had been so often in his thoughts.   He was struck, not however without a touch  of remorse thereupon, chiefly by an odd air of  neglect, the neglect of a place allowed to remain  as when it was last used, and left in a hurry, till  long years had covered all alike with thick dust the faded flowers, the burnt-out lamps, the  tools and hardened mortar of the workmen who  had had something to do there. A heavy  fragment of woodwork had fallen and chipped  open one of the oldest of the mortuary urns,  many hundreds in number ranged around the  walls. It was not properly an urn, but a minute  coffin of stone, and the fracture had revealed a  piteous spectacle of the mouldering, unburned  remains within ; the bones of a child, as he  understood, which might have died, in ripe age,  three times over, since it slipped away from  among his great-grandfathers, so far up in the  line. Yet the protruding baby hand seemed to  stir up in him feelings vivid enough, bringing  him intimately within the scope of dead people's  grievances. He noticed, side by side with the  urn of his mother, that of a boy of about his own  age one of the serving-boys of the household  who had descended hither, from the lightsome  world of childhood, almost at the same time  with her. It seemed as if this boy of his own  age had taken filial place beside her there, in his  stead. That hard feeling, again, which had  always lingered in his mind with the thought  of the father he had scarcely known, melted  wholly away, as he read the precise number of  his years, and reflected suddenly He was of  my own present age ; no hard old man, but  with interests, as he looked round him on the  world for the last time, even as mine to-day!  And with that came a blinding rush of kindness,  as if two alienated friends had come to under-  stand each other at last. There was weakness in  all this ; as there is in all care for dead persons,  to which nevertheless people will always yield  in proportion as they really care for one another.  With a vain yearning, as he stood there, still to  be able to do something for them, he reflected  that such doing must be, after all, in the nature  of things, mainly for himself. His own epitaph  might be that old one "Eo-^aTo? TOV ISlov yevov?  He was the last of his race ! Of those who  might come hither after himself probably no  one would ever again come quite as he had done  to-day ; and it was under the influence of this  thought that he determined to bury all that,  deep below the surface, to be remembered only  by him, and in a way which would claim no  sentiment from the indifferent. That took many  days was like a renewal of lengthy old burial  rites as he himself watched the work, early  and late ; coming on the last day very early, and  anticipating, by stealth, the last touches, while  the workmen were absent ; one young lad only,  finally smoothing down the earthy bed, greatly  surprised at the seriousness with which Marius  flung in his flowers, one by one, to mingle with  the dark mould. Those eight days at his old home, so mournfully  occupied, had been for Marius in some sort a  forcible disruption from the world and the roots  of his life in it. He had been carried out of  himself as never before ; and when the time was  over, it was as if the claim over him of the  earth below had been vindicated, over against  the interests of that living world around. Dead,  yet sentient and caressing hands seemed to reach  out of the ground and to be clinging about him.  Looking back sometimes now, from about the  midway of life the age, as he conceived, at  which one begins to re-descend one's life  though antedating it a little, in his sad humour,  he would note, almost with surprise, the un-  broken placidity of the contemplation in which  it had been passed. His own temper, his early  theoretic scheme of things, would have pushed  him on to movement and adventure. Actually,  as circumstances had determined, all its movement had been inward ; movement of observa-  tion only, or even of pure meditation ; in part,  perhaps, because throughout it had been some-  thing of a meditatio mortis^ ever facing towards  the act of final detachment. Death, however,  as he reflected, must be for every one nothing (  less than the fifth or last act of a drama, and, as 1  such, was likely to have something of the stirring !  character of a denouement. And, in fact, it was in  form tragic enough that his end not long after- '  wards came to him.   In the midst of the extreme weariness and  depression which had followed those last days,  Cornelius, then, as it happened, on a journey and  travelling near the place, finding traces of him,  had become his guest at Whitenights. It was  just then that Marius felt, as he had never done  before, the value to himself, the overpowering  charm, of his friendship. " More than brother ! "  he felt " like a son also ! " contrasting the  fatigue of soul which made himself in effect an  older man, with the irrepressible youth of his  companion. For it was still the marvellous  hopefulness of Cornelius, his seeming prerogative  over the future, that determined, and kept alive,  all other sentiment concerning him. A new  hope had sprung up in the world of which he,  Cornelius, was a depositary, which he was to  bear onward in it. Identifying himself with  Cornelius in so dear a friendship, through him,  Marius seemed to touch, to ally himself to, actually to become a possessor of the coming  world ; even as happy parents reach out, and  take possession of it, in and through the survival  of their children. For in these days their  intimacy had grown very close, as they moved  hither and thither, leisurely, among the country-places thereabout, Cornelius being on his way  back to Rome, till they came one evening to a  little town (Marius remembered that he had  been there on his first journey to Rome) which  had even then its church and legend the legend  and holy relics of the martyr Hyacinthus, a  young Roman soldier, whose blood had stained  the soil of this place in the reign of the emperor  Trajan.   The thought of that so recent death, haunted  Marius through the night, as if with audible  crying and sighs above the restless wind, which  came and went around their lodging. But  towards dawn he slept heavily ; and awaking in  broad daylight, and finding Cornelius absent, set  forth to seek him. The plague was still in the  place had indeed just broken out afresh ; with  an outbreak also of cruel superstition among its  wild and miserable inhabitants. Surely, the old  gods were wroth at the presence of this new  enemy among them ! And it was no ordinary  morning into which Marius stepped forth.  There was a menace in the dark masses of hill,  and motionless wood, against the gray, although  apparently unclouded sky. Under this sunless heaven the earth itself seemed to fret and fume  with a heat of its own, in spite of the strong  night-wind. And now the wind had fallen.  Marius felt that he breathed some strange heavy  fluid, denser than any common air. He could  have fancied that the world had sunken in the  night, far below its proper level, into some  close, thick abysm of its own atmosphere.  The Christian people of the town, hardly less  terrified and overwrought by the haunting sick-  ness about them than their pagan neighbours,  were at prayer before the tomb of the martyr ;  and even as Marius pressed among them to  a place beside Cornelius, on a sudden the hills  seemed to roll like a sea in motion, around  the whole compass of the horizon. For a  moment Marius supposed himself attacked with  some sudden sickness of brain, till the fall of  a great mass of building convinced him that  not himself but the earth under his feet was  giddy. A few moments later the little market-  place was alive with the rush of the distracted  inhabitants from their tottering houses ; and as  they waited anxiously for the second shock of  earthquake, a long -smouldering suspicion leapt  precipitately into well-defined purpose, and the  whole body of people was carried forward  towards the band of worshippers below. An  hour later, in the wild tumult which followed,  the earth had been stained afresh with the blood  of the martyrs Felix and Faustinus F lores apparuerunt in terra nostra ! and their brethren,  together with Cornelius and Marius, thus, as it  had happened, taken among them, were prisoners,  reserved for the action of the law. Marius and  his friend, with certain others, exercising the  privilege of their rank, made claim to be tried  in Rome, or at least in the chief town of the  district; where, indeed, in the troublous days  that had now begun, a legal process had been  already instituted. Under the care of a military  guard the captives were removed on the same  day, one stage of their journey ; sleeping, for  security, during the night, side by side with  their keepers, in the rooms of a shepherd's  deserted house by the wayside.   It was surmised that one of the prisoners was  not a Christian : the guards were forward to  make the utmost pecuniary profit of this circum-  stance, and in the night, Marius, taking advan-  tage of the loose charge kept over them, and by  means partly of a large bribe, had contrived that  Cornelius, as the really innocent person, should  be dismissed in safety on his way, to procure, as  Marius explained, the proper means of defence  for himself, when the time of trial came.   And in the morning Cornelius in fact set  forth alone, from their miserable place of deten-  tion. Marius believed that Cornelius was to  be the husband of Cecilia; and that, perhaps  strangely, had but added to the desire to get him  away safely. We wait for the great crisis which is to try what is in us : we can hardly bear the  pressure of our hearts, as we think of it : the  lonely wrestler, or victim, which imagination  foreshadows to us, can hardly be one's self; it  seems an outrage of our destiny that we should  be led along so gently and imperceptibly, to so  terrible a leaping-place in the dark, for more  perhaps than life or death. At last, the great  act, the critical moment itself comes, easily,  almost unconsciously. Another motion of the  clock, and our fatal line the " great climacteric  point " has been passed, which changes our-  selves or our lives. In one quarter of an hour,  under a sudden, uncontrollable impulse, hardly  weighing what he did, almost as a matter of  course and as lightly as one hires a bed for one's ;  night's rest on a journey, Marius had taken upon  himself all the heavy risk of the position in  which Cornelius had then been the long and  wearisome delays of judgment, which were  possible ; the danger and wretchedness of a long  journey in this manner ; possibly the danger of  death. He had delivered his brother, after the \  manner he had sometimes vaguely anticipated as  a kind of distinction in his destiny; though  indeed always with wistful calculation as to what  it might cost him : and in the first moment after  the thing was actually done, he felt only satisfac-  tion at his courage, at the discovery of his  possession of " nerve."   Yet he was, as we know, no hero, no heroic martyr had indeed no right to be ; and when  he had seen Cornelius depart, on his blithe and  hopeful way, as he believed, to become the  husband of Cecilia ; actually, as it had hap-  pened, without a word of farewell, supposing  Marius was almost immediately afterwards to  follow (Marius indeed having avoided the  moment of leave-taking with its possible call  for an explanation of the circumstances), the re-  action came. He could only guess, of course, at  what might really happen. So far, he had but  taken upon himself, in the stead of Cornelius, a  certain amount of personal risk ; though he  hardly supposed himself to be facing the danger  of death. Still, especially for one such as he,  with all the sensibilities of which his whole  manner of life had been but a promotion, the  situation of a person under trial on a criminal  charge was actually full of distress. To him, in  truth, a death such as the recent death of those  saintly brothers, seemed no glorious end. In his  case, at least, the Martyrdom, as it was called  the overpowering act of testimony that Heaven  had come down among men would be but a  common execution : from the drops of his blood  there would spring no miraculous, poetic flowers ;  no eternal aroma would indicate the place of his  burial ; no plenary grace, overflowing for ever  upon those who might stand around it. Had  there been one to listen just then, there would  have come, from the very depth of his desolation, an eloquent utterance at last, on the irony of men's  fates, on the singular accidents of life and death.  The guards, now safely in possession of what-  ever money and other valuables the prisoners had  had on them, pressed them forward, over the  rough mountain paths, altogether careless of their  sufferings. The great autumn rains were falling.  At night the soldiers lighted a fire ; but it was  impossible to keep warm. From time to time  they stopped to roast portions of the meat they  carried with them, making their captives sit  round the fire, and pressing it upon them. But  weariness and depression of spirits had deprived  Marius of appetite, even if the food had been  more attractive, and for some days he partook of  nothing but bad bread and water. All through  the dark mornings they dragged over boggy  plains, up and down hills, wet through some-  times with the heavy rain. Even in those de-  plorable circumstances, he could but notice the  wild, dark beauty of those regions the stormy  sunrise, and placid spaces of evening. One of  the keepers, a very young soldier, won him at  times, by his simple kindness, to talk a little,  with wonder at the lad's half-conscious, poetic  delight in the adventures of the journey. At  times, the whole company would lie down for  rest at the roadside, hardly sheltered from the  storm ; and in the deep fatigue of his spirit, his  old longing for inopportune sleep overpowered  him. Sleep anywhere, and under any conditions, seemed just then a thing one might well ex-  change the remnants of one's life for.   It must have been about the fifth night, as he  afterwards conjectured, that the soldiers, believing  him likely to die, had finally left him unable to  proceed further, under the care of some country  people, who to the extent of their power certainly  treated him kindly in his sickness. He awoke  to consciousness after a severe attack of fever,  lying alone on a rough bed, in a kind of hut. It  seemed a remote, mysterious place, as he looked  around in the silence ; but so fresh lying, in  fact, in a high pasture-land among the mountains  that he felt he should recover, if he might but  just lie there in quiet long enough. Even during  those nights of delirium he had felt the scent of  the new-mown hay pleasantly, with a dim sense  for a moment that he was lying safe in his old  home. The sunlight lay clear beyond the open  door ; and the sounds of the cattle reached him  softly from the green places around. Recalling  confusedly the torturing hurry of his late  journeys, he dreaded, as his consciousness of the  whole situation returned, the coming of the  guards. But the place remained in absolute  stillness. He was, in fact, at liberty, but for his  own disabled condition. And it was certainly a  genuine clinging to life that he felt just then,  at the very bottom of his mind. So it had been,  obscurely, even through all the wild fancies of  his delirium, from the moment which followed his decision against himself, in favour of  Cornelius.   The occupants of the place were to be heard  presently, coming and going about him on their  business : and it was as if the approach of death  brought out in all their force the merely human  sentiments. There is that in death which  certainly makes indifferent persons anxious to  forget the dead : to put them those aliens  away out of their thoughts altogether, as soon as  may be. Conversely, in the deep isolation of  spirit which was now creeping upon Marius, the  faces of these people, casually visible, took a  strange hold on his affections ; the link of  general brotherhood, the feeling of human kin-  ship, asserting itself most strongly when it was  about to be severed for ever. At nights he  would find this face or that impressed deeply on  his fancy ; and, in a troubled sort of manner, his  mind would follow them onwards, on the ways  of their simple, humdrum, everyday life, with a  peculiar yearning to share it with them, envying  the calm, earthy cheerfulness of all their days to  be, still under the sun, though so indifferent, of  course, to him ! as if these rude people had  been suddenly lifted into some height of earthly  good-fortune, which must needs isolate them  from himself.   Tristem neminem fecit he repeated to himself;  his old prayer shaping itself now almost as his  epitaph. Yes ! so much the very hardest judge must concede to him. And the sense of satis-  faction which that thought left with him dis-  posed him to a conscious effort of recollection,  while he lay there, unable now even to raise his  head, as he discovered on attempting to reach a  .pitcher of water which stood near. Revelation,  vision, the discovery of a vision, the seeing of a  perfect humanity, in a perfect world through  all his alternations of mind, by some dominant  instinct, determined by the original necessities of  his own nature and character, he had always set  that above the having, or even the doing, of any-  thing. For, such vision, if received with due  attitude on his part, was, in reality, the being  something, and as such was surely a pleasant  offering or sacrifice to whatever gods there  might be, observant of him. And how goodly  had the vision been ! one long unfolding of  beauty and energy in things, upon the closing of  which he might gratefully utter his " Vixi ! '  Even then, just ere his eyes were to be shut for  ever, the things they had seen seemed a veritable  possession in hand ; the persons, the places, above  all, the touching image of Jesus, apprehended  dimly through the expressive faces, the crying  of the children, in that mysterious drama, with  a sudden sense of peace and satisfaction now,  which he could not explain to himself. Surely,  he had prospered in life ! And again, as of old,  the sense of gratitude seemed to bring with it  the sense also of a living person at his side. For still, in a shadowy world, his deeper  wisdom had ever been, with a sense of economy,  with a jealous estimate of gain and loss, to use  life, not as the means to some problematic end,  but, as far as might be, from dying hour to dying  hour, an end in itself a kind of music, all-  sufficing to the duly trained ear, even as it died  out on the air. Yet now, aware still in that  suffering body of such vivid powers of mind and  sense, as he anticipated from time to time how  his sickness, practically without aid as he must  be in this rude place, was likely to end, and that  the moment of taking final account was drawing  very near, a consciousness of waste would come,  with half-angry tears of self-pity, in his great  weakness a blind, outraged, angry feeling of  wasted power, such as he might have experienced  himself standing by the deathbed of another, in  condition like his own.   And yet it was the fact, again, that the vision  of men and things, actually revealed to him on  his way through the world, had developed, with  a wonderful largeness, the faculties to which it  addressed itself, his general capacity of vision ;  and in that too was a success, in the view of  certain, very definite, well-considered, undeni-  able possibilities. Throughout that elaborate  and lifelong education of his receptive powers,  he had ever kept in view the purpose of pre-  paring himself towards possible further revelation  some day towards some ampler vision, which should take up into itself and explain this  world's delightful shows, as the scattered frag-  / ments of a poetry, till then but half-understood,  might be taken up into the text of a lost epic,  recovered at last. At this moment, his un-  clouded receptivity of soul, grown so steadily  through all those years, from experience to ex-  perience, was at its height ; the house ready for  the possible guest ; the tablet of the mind white  and smooth, for whatsoever divine fingers might  choose to write there. And was not this pre-  cisely the condition, the attitude of mind, to  which something higher than he, yet akin to  him, would be likely to reveal itself ; to which  that influence he had felt now and again like a  friendly hand upon his shoulder, amid the actual  obscurities of the world, would be likely to make  a further explanation ? Surely, the aim of a  true philosophy must lie, not in futile efforts  towards the complete accommodation of man to  the circumstances in which he chances to find  himself, but in the maintenance of a kind of  candid discontent, in the face of the very highest  achievement; the unclouded and receptive soul  quitting the world finally, with the same fresh  wonder with which it had entered the world  still unimpaired, and going on its blind way at  last with the consciousness of some profound  enigma in things, as but a pledge of something  further to come. Marius seemed to understand  how one might look back upon life here, and its excellent visions, as but the portion of a race-  course left behind him by a runner still swift of  foot : for a moment he experienced a singular  curiosity, almost an ardent desire to enter upon  a future, the possibilities of which seemed so  large.   And just then, again amid the memory of  certain touching actual words and images, came  the thought of the great hope, that hope against  hope, which, as he conceived, had arisen Lux  sedentibus in tenebris upon the aged world ; the  hope Cornelius had seemed to bear away upon  him in his strength, with a buoyancy which had  caused Marius to feel, not so much that by a  caprice of destiny, he had been left to die in his  place, as that Cornelius was gone on a mission to  deliver him also from death. There had been a  permanent protest established in the world, a  plea, a perpetual after-thought, which humanity  henceforth would ever possess in reserve, against  any wholly mechanical and disheartening theory  of itself and its conditions. That was a thought  which relieved for him the iron outline of the  horizon about him, touching it as if with soft  light from beyond ; filling the shadowy, hollow  places to which he was on his way with the  warmth of definite affections ; confirming also  certain considerations by which he seemed to  link himself to the generations to come in the  world he was leaving. Yes ! through the sur-  vival of their children, happy parents are able to think calmly, and with a very practical affection,  of a world in which they are to have no direct  share; planting with a cheerful good-humour,  the acorns they carry about with them, that their  grand-children may be shaded from the sun by  the broad oak-trees of the future. That is  nature's way of easing death to us. It was thus  too, surprised, delighted, that Marius, under the  power of that new hope among men, could think  of the generations to come after him. Without  it, dim in truth as it was, he could hardly have  dared to ponder the world which limited all he  really knew, as it would be when he should have  departed from it. A strange lonesomeness, like  physical darkness, seemed to settle upon the  thought of it ; as if its business hereafter must  be, as far as he was concerned, carried on in some  inhabited, but distant and alien, star. Contrari-  wise, with the sense of that hope warm about  him, he seemed to anticipate some kindly care  for himself, never to fail even on earth, a care for  his very body that dear sister and companion of  his soul, outworn, suffering, and in the very  article of death, as it was now.   For the weariness came back tenfold ; and he  had finally to abstain from thoughts like these, as  from what caused physical pain. And then, as  before in the wretched, sleepless nights of those  forced marches, he would try to fix his mind, as  it were impassively, and like a child thinking  over the toys it loves, one after another, that it  may fall asleep thus, and forget all about them  the sooner, on all the persons he had loved in  life on his love for them, dead or living, grate-  ful for his love or not, rather than on theirs for  him letting their images pass away again, or  rest with him, as they would. In the bare  sense of having loved he seemed to find, even  amid this foundering of the ship, that on which  his soul might "assuredly rest and depend."  One after another, he suffered those faces and  voices to come and go, as in some mechanical  exercise, as he might have repeated all the verses  he knew by heart, or like the telling of beads  one by one, with many a sleepy nod between-  whiles.   For there remained also, for the old earthy  creature still within him, that great blessedness  of physical slumber. To sleep, to lose one's self  in sleep that, as he had always recognised, was  a good thing. And it was after a space of deep  sleep that he awoke amid the murmuring voices  of the people who had kept and tended him so  carefully through his sickness, now kneeling  around his bed : and what he heard confirmed,  in the then perfect clearness of his soul, the in-  evitable suggestion of his own bodily feelings.  He had often dreamt he was condemned to die,  that the hour, with wild thoughts of escape, was  arrived; and waking, with the sun all around  him, in complete liberty of life, had been full of  gratitude for his place there, alive still, in the land of the living. He read surely, now, in the  manner, the doings, of these people, some of  whom were passing out through the doorway,  where the heavy sunlight in very deed lay, that  his last morning was come, and turned to think  once more of the beloved. Often had he fancied  of old that not to die on a dark or rainy day  might itself have a little alleviating grace or  favour about it. The people around his bed  were praying fervently Abi! Abi! Anima  Christiana! In the moments of his extreme  helplessness their mystic bread had been placed,  had descended like a snow-flake from the sky,  between his lips. Gentle fingers had applied to  hands and feet, to all those old passage-ways of  the senses, through which the world had come  and gone for him, now so dim and obstructed, a  medicinable oil. It was the same people who,  in the gray, austere evening of that day, took up  his remains, and buried them secretly, with their  accustomed prayers ; but with joy also, holding  his death, according to their generous view in  this matter, to have been of the nature of a  martyrdom ; and martyrdom, as the church had  always said, a kind of sacrament with plenary grace.P Corrado Curcio. Curcio. Keywords: esistenti -- Lucrezio, Foscolo, Leopardi, Alighieri, Gentile, Diano, Sicilian philosophy. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Curcio” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Curi: l’implicatura conversazionale dei figli di Marte -- passione e compassione, senso e consenso – filosofia italiana – Luigi Speranza (Verona). Filosofo italiano. Grice: “I like Curi; unlike me, we would call him a prolific philosopher; my favourite are his reflections on ‘eros’, ‘amore’ and bello, but he has also written on various topics related to maleness --  Si laurea a Padova. Insegna a Padova. Membro dell’Istituto Gramsci Veneto. Formatosi alla scuola di Diano, Gentile e Bozzi, incontra Cacciari. A partire da quel topos, si avvia un sodalizio estremamente solido e fecondo, all'insegna di una comune ricerca del nuovo, e di un impegno teoretico rigoroso, che va oltre il piano strettamente della speculazione, in direzione di una pratica civile. Filosofa sul nesso politica-civilita e guerra e sul concetto di ‘polemos’ – cf. Grice epagoge/diagoge “”War is war” – Eirene --, lungo la linea che congiunge Eraclito a Heidegger. Valorizza la narrazione, sia intesa come mythos, sia concepita come opera cinematografica. Medita su alcuni temi fondamentali dell'interrogazione filosofica, quali l'amore e la morte, il dolore e il destino.  Altre opere: “Endiadi: figure della dualità” (Feltrinelli, Milano); “La filosofia come ‘bellum’” (Bollati Boringhieri, Torino); “La forza dello sguardo” – Lat. vereor – warten: to see --; “Meglio non essere nati: la condizione umana” – cf. la condition humaine”, Malraux); “Lo schermo” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “Un filosofo al cinema, Bompiani, Milano).Quello che non e filosofo, ma ha soltanto una verniciatura di casi umani, come il maschio abbronzato dal sole, vedendo quante cose si devono imparare, quante fatiche bisogna sopportare, come si convenga, a seguire tale studio, la vita regolata di ogni giorno, giudica che sia una cosa difficile e impossibile per lui. A questo maschio bisogna mostrare che cos'è davvero la filosofia, e quante difficoltà presenta, e quanta fatica comporta.” (Platone, Lettera settima). La libertà non è soltanto l'essere-liberati DA lle catene né soltanto l'esser-divenuti-liberi PER la luce, ma l'autentico essere-liberi è essere-liberatori DA il buio. La ridiscesa nella caverna non è un divertimento aggiuntivo che il presunto "libero" possa concedersi così per svago, magari per curiosita. E esser-ci dentro tutto, essa soltanto, il compimento autentico del divenire liberi. Heidegger, L'essenza della verità, Franco Volpi, Milano).Ne “La brama dell'avere” si ha un attento e puntuale riesame sia storico-filosofico che critico-filologico della fondamentale categoria esistenziale dell'”avere” – “the have and have-nots” --  alla luce dell'odierno assetto socio-comunitario. Cf. Grice on “H” for “Hazzes” “x H y”  Curi focuses on ‘ekhein’ which would then correspond to Grice’s “H” --. Altre opere: “Il coraggio di pensare, manualistica di filosofia, Loescher editore, Torino); “Il problema dell'unità del sapere nel comportamentismo” (MILANI, Padova); “Analisi operazionale e operazionismo” (MILANI, Padova); “L'analisi operazionale della psicologia” (Franco Angeli, Milano); “Dagli Jonici alla crisi della fisica” (MILANI, Padova); “Anti-conformismo e libertà intellettuale: per una dialettica tra pensiero e politica” (Padova) – cfr. Grice on non-conformismo – “Psicologia e critica dell'ideologia” (Bertani, Roma); “La ricerca” (Marsilio, Venezia); “Katastrophé. Sulle forme del mutamento scientifico” (Arsenale Cooperativa, Venezia); “La linea divisa. Modelli di razionalita' e pratiche scientifiche nel pensiero occidentale” (De Donato, Bari); “Pensare la guerra. Per una cultura della pace” (Dedalo, Bari) – cf. Grice on ‘eirenic effect’ – pax et bellum – si vis pacem para bellum. ex bello pace. “Dimensioni del tempo” (Franco Angeli, Milano); “Einstein” (Gabriele Corbo, Ferrara); “La cosmologia filosofica” (Gabriele Corbo, Ferrara); “La politica sommersa. Per un'analisi del sistema politico italiano, Franco Angeli, Milan); “Lo scudo di Achille. Il PCI nella grande crisi” (Franco Angeli, Milano); “L'albero e la foresta. Il Partito Democratico della Sinistra nel sistema politico italiano, con Paolo Flores d'Arcais, Franco Angeli, Milano); “Metamorfosi del tragico tra classico e moderno, Bari); “La repubblica che non c'è” (Milano); “Poròs. Dialogo in una società che rifiuta la bellezza, Milano); L'orto di Zenone. Coltivare per osmosi” (Milano); “Amore duale” (Feltrinelli, Milano); “Platone: Il mantello e la scarpa” (Il Poligrafo, Padova); “Pensare la guerra. L'Europa e il destino della politica, Dedalo, Bari); “Pólemos. Filosofia come guerra, Bollati Boringhieri, Torino); Ombra della’ idea. Filosofia del cinema fra «American beauty» e «Parla con lei», Pendragon, Bologna); “Filosofia del Don Giovanni. Alle origini di un mito moderno, Bruno Mondadori, Milano); “Il farmaco della democrazia. Alle radici della politica, Marinotti, Milano); “La forza dello sguardo, Bollati Boringhieri, Torino); “Skenos. Il Don Giovanni nella società dello spettacolo” (Milano); “Libidine” (Milano). Un filosofo al cinema, Bompiani, Milano); Meglio non essere nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Bollati Boringhieri, Torino); Miti d'amore. Filosofia dell'eros, Bompiani, Milano); Pensare con la propria testa” (Mimesis, Milano); “Straniero, Raffaello Cortina Editore, Milano); “Passione” (Raffaello Cortina Editore, Milano. La porta stretta. Come diventare maggiorenni” (Bollati Boringhieri, Torino); “I figli di Ares. Guerra infinita e terrorismo, Castelvecchi, Roma. La brama dell'avere; Il Margine, Trento); “Il mito di Narciso sul   Wikipedia Ricerca Marte (divinità) dio romano della guerra e dei duelli Lingua Segui Modifica Marte (in latino: Mars[1]) è, nella religione romana e italica[2], il dio della guerra e dei duelli e, secondo la mitologia più arcaica, anche del tuono, della pioggia e della fertilità[3]. Simile alla divinità greca Ares, col tempo ne ha assorbito tutti gli attributi, fino a venire completamente identificato con esso.   Statua colossale di Marte: "Pirro" nei Musei capitolini a Roma. Fine del I secolo d.C. Culto. Venere e Marte, affresco romano da Pompei, 1 secolo d. C. È una divinità sia etrusca[4] che italica (Mamers nei dialetti sabellici[5]); nella religione romana (dove era considerato padre del primo re Romolo) era il dio guerriero per eccellenza, in parte associato a fenomeni atmosferici come la tempesta e il fulmine. Assieme a Quirino e Giove, faceva parte della cosiddetta "Triade arcaica", che in seguito, su influsso della cultura etrusca, sarà invece costituita da Giove, Giunone e Minerva. Più tardi, identificandolo con il greco Ares, venne detto figlio di Giunone e Giove e inserito in un contesto mitologico ellenizzato.  Alcuni studiosi del passato (Wilhelm Roscher, Hermann Usner, e soprattutto Alfred von Domaszewski) hanno parlato di Marte anche nei termini di divinità "agraria", legata all'agricoltura, soprattutto sulla scorta del testo di una preghiera rimastaci nel De agri cultura di Catone, che lo invoca per proteggere i campi da ogni tipo di sciagura e malattia. Secondo Georges Dumézil tuttavia il collegamento fra Marte e l'ambito campestre non farebbe di lui una divinità legata alla terra, in quanto il suo ruolo sarebbe esclusivamente di difensore armato dei campi da mali umani e soprannaturali, senza diversificazione dalla sua natura intrinsecamente guerresca.  Il dio, inoltre, rappresentava la virtù e la forza della natura e della gioventù, che nei tempi antichi era dedita alla pratica militare. In questo senso era posto in relazione con l'antica pratica italica del uer sacrum, la Primavera Sacra: in una situazione difficile, i cittadini prendevano la decisione sacra di allontanare dal territorio la nuova generazione, non appena fosse divenuta adulta. Giunto il momento, Marte prendeva sotto la sua tutela i giovani espulsi, che formavano solo una banda, e li proteggeva finché non avessero fondato una nuova comunità sedentaria espellendo o sottomettendo altri occupanti; accadeva talvolta che gli animali consacrati a Marte guidassero i sacrani e divenissero loro eponimi: un lupo (hirpus) aveva guidato gli Irpini, un picchio (picus) i Piceni, mentre i Mamertini derivavano il loro nome direttamente da quello del dio. Sempre a Marte era dedicata la legio sacrata, cioè la legione Sannita, detta anche linteata, poiché era bianca.[senza fonte]  Marte, nella società romana, assunse un ruolo molto più importante della sua controparte greca (Ares), probabilmente perché considerato il padre del popolo romano e di tutti gli Italici in generale: Marte, accoppiatosi con la vestale Rea Silvia generò Romolo e Remo, che fondarono Roma.[6] Di conseguenza Marte era considerato il padre del popolo romano e i romani si chiamavano tra loro Figli di Marte. I suoi più importanti discendenti, oltre a Romolo e Remo, furono Pico e Fauno.  Marte comparve spesso sulla monetazione romana, sia repubblicana che imperiale, con vari titoli: Marti conservatori (protettore), Marti patri (padre), Mars ultor (vendicatore), Marti pacifero (portatore di pace), Marti propugnatori (difensore), Mars victor (vincitore).  Il mese di marzo, il giorno di martedì, i nomi Marco, Marcello, Martino, il pianeta Marte, il popolo dei Marsie il loro territorio Martia Antica (la contemporanea Marsica) devono a lui il loro nome.  Leggenda sulla nascita di MarteModifica Secondo il mito, Giunone era invidiosa del fatto che Giove avesse concepito da solo Minerva senza la sua partecipazione. Chiese quindi aiuto a Flora che le indicò un fiore che cresceva nelle campagne in Etoliache permetteva di concepire al solo contatto. Così diventò madre di Marte, che fece allevare da Priapo, il quale gli insegnò l'arte della guerra. La leggenda è di tradizione tarda come dimostra la discendenza di Minerva da Giove, che ricalca il mito greco. Flora, al contrario, testimonia una tradizione più antica: l'equivalente norreno Thor nasce dalla terra, Jǫrð e così le molte divinità elleniche.  NomiModifica  Statua di Marte nudo in un affrescodi Pompei. Marte era venerato con numerosi nomi dagli stessi latini, dagli Etruschi e da altri popoli italici:  Maris, nome Etrusco da cui deriva il nome del Dio Romano;[4] Mars, nome Romano; Marmar; Marmor; Mamers, nome con cui era venerato dai popoli italicidi stirpe osca[7]; Marpiter; Marspiter; Mavors. EpitetiModifica Diuum deus: 'dio degli dei', nome con cui viene designato nel Carmen Saliare. Gradivus: 'colui che va', con valore spesso di 'colui che va in battaglia', ma può essere collegato anche al ver sacrum, quindi 'colui che guida, che va'. Leucesios: epiteto del Carmen Saliare che significa 'lucente', 'dio della luce', questo epiteto può essere anche legato alla sua caratteristica di dio del tuono e del lampo. Silvanus: in Catone, nel libro De agri cultura, 83 Marte viene soprannominato Silvanus in riferimento ai suoi aspetti legati alla natura e collegandolo con Fauno. Ultor: epiteto tardo, dato da Augusto in onore della vendetta per i cesaricidi (da ultor, -oris: vendicatore). RappresentazioniModifica Gli antichi monumenti rappresentano il dio Marte in maniera piuttosto uniforme; quasi sempre Marte è raffigurato con indosso l'elmo, la lancia o la spada e lo scudo, raramente con uno scettro talvolta è ritratto nudo, altre volte con l'armatura e spesso ha un mantello sulle spalle. A volte è rappresentato con la barba ma, nella maggior parte dei casi, è sbarbato. È raffigurato a piedi o su un carro trainato da due cavalli imbizzarriti, ma ha sempre un aspetto combattivo.  Gli antichi Sabini lo adoravano sotto l'effigie di una lancia chiamata "Quiris" da cui si racconta derivi il nome del dio Quirino, spesso identificato con Romolo. Bisogna dire che il nome Quirinus, come il nome Quirites, deriva da *co-uiria, cioè assemblea del popolo e indicava il popolo in quanto corpus di cittadini, da distinguere con Populus (dal verbo populari = devastare), che indica il popolo in armi.  Il ruolo di Marte a RomaModifica  Venere e Marte, affresco romano da Pompei, 1 secolo d. C. A Roma Marte era onorato in modo particolare. A partire dal regno di Numa Pompilio, venne istituito un consiglio di sacerdoti, scelti tra i patrizi, chiamati Salii, chiamati a vigilare su dodici scudi sacri, gli Ancilia, di cui si dice che uno sia caduto dal cielo. Questi sacerdoti erano riconoscibili dal resto del popolo per la loro tunica purpurea. I sacerdoti Salii, in realtà erano un'istituzione ben più antica di Numa Pompilio, risalivano addirittura al re-dio Fauno, che li creò in onore di Marte, costituendo così i primi culti iniziatici latini.  Nella capitale dell'impero, vi era anche una fontana consacrata al dio Marte e venerata dai cittadini. L'imperatore Nerone, una volta, si bagnò in quella fontana, gesto che fu interpretato dal popolo come un sacrilegio e che gli alienò la simpatia popolare. A partire da quel giorno, l'imperatore iniziò ad avere problemi di salute, secondo la gente dovuta alla vendetta del dio.  FestivitàModifica Era venerato fastosamente in marzo, il primo mese dell'anno nel calendario romano, che segnava la ripresa delle attività militari dopo l'inverno e che portava il suo nome, con le feriae Martis, Equirria, agonium martiale, Quinquatrus e tubilustrum. Altre cerimonie importanti avvenivano in febbraio e in ottobre.  Gli Equirria si tenevano il 27 febbraio e il 14 marzo. Erano giorni sacri con significato religioso e militare; i romani vi mettevano molta enfasi per sostenere l'esercito e rafforzare la morale pubblica. I sacerdoti tenevano riti di purificazione dell'esercito. Si tenevano corse di cavalli nel Campo Marzio.  Le feriae Martis si tenevano dal 1º marzo al 24 marzo. Durante le feriae Martis i dodici Salii Palatinipercorrevano la città in processione, portando ciascuno un Ancile, uno dei dodici scudi sacri, e fermandosi ogni notte ad una stazione diversa (mansio). Nel percorso i Salii eseguivano una danza con un ritmo di tre tempi (tripudium) e cantavano l'antico e misterioso Carmen Saliare. Il 19 marzo si teneva il Quinquatrus, durante il quale gli scudi venivano ripuliti. Il 23 marzo si teneva il Tubilustrium, dedicato alla purificazione delle trombe usate dai Saliie alla preparazione delle armi dopo la pausa invernale. Il 24 marzo gli ancilia venivano riposti nel sacrario della Regia.  L'October Equus si teneva alle idi di ottobre (15 ottobre). Si svolgeva una corsa di bighe e veniva sacrificato a Marte il cavallo di destra del trio vincente tramite un colpo di lancia del Flamine marziale. La coda veniva tagliata e il suo sangue sparso nel cortile della Regia. C'era una battaglia tradizionale tra gli abitanti della Suburra che volevano la coda per portarla alla Turris Mamilia e quelli della Via Sacra che la volevano per la Regia.  Il 19 ottobre si teneva l'Armilustrium, dedicato alla purificazione delle armi e alla loro conservazione per l'inverno.  Ogni cinque anni si tenevano in Campo Marzio le Suovetaurilia, dove davanti all'altare di Marte (Ara Martis) il censo veniva accompagnato da un rito di purificazione tramite il sacrificio di un bue, un maiale e una pecora.  Luoghi di cultoModifica  Marte e Venere, copia settecentesca da I Modi di Marcantonio Raimondi Tra le popolazioni italiche, si sa di un antico tempio dedicato al dio Marte a Suna,[8] antica città degli Aborigeni, e di un oracolo del dio, nella città aborigena di Tiora.[9]  Animali e oggetti sacriModifica Lupo: si ricorda il nipote Fauno, il lupo per eccellenza è la lupa che ha allattato Romolo e Remo[6] Picchio: il picchio è l'uccello del tuono e della pioggia oracolare, ha nutrito Romolo e Remo insieme alla lupa Cavallo: simbolo della guerra (si ricorda Nettuno e gli Equirria) Toro: altro animale molto importante per il ver sacrum e per tutti i popoli italici Hastae Martiae: sono le lance di Marte che si scuotevano in caso di gravi pericoli, tenute nel sacrario della Regia Lapis manalis: la pietra della pioggia, in quanto dio della pioggia OfferteModifica A Marte si offrivano come vittime sacrificali vari tipi di animali: dei tori, dei maiali, delle pecore e, più raramente, cavalli, galli, lupi e picchi verdi, molti dei quali gli erano consacrati. Le matrone romane gli sacrificavano un gallo il primo giorno del mese a lui dedicato che, fino al tempo di Gaio Giulio Cesare, era anche il primo dell'anno.  Identificazioni con dei celticiModifica Mars Alator: Fusione con il dio celtico Alator Mars Albiorix, Mars Caturix o Mars Teutates: Fusione con il dio celtico Toutatis Mars Barrex: Fusione con il dio celtico Barrex, di cui si ha notizia solo da un'iscrizione a Carlisle Mars Belatucadrus: Fusione con il dio celtico Belatu-Cadros. Questo epiteto è stato trovato in cinque iscrizioni nell'area del Vallo di Adriano Mars Braciaca: Fusione con il dio celtico Braciaca, trovato in un'iscrizione a Bakewell Mars Camulos: Fusione con il dio della guerra celtico Camulo Mars Capriociegus: Fusione con il dio celtico gallaico Capriociegus, trovato in due iscrizioni a Pontevedra Mars Cocidius: Fusione con il dio celtico Cocidio Mars Condatis: Fusione con il dio celtico Condatis Mars Lenus: Fusione con il dio celtico Leno Mars Loucetius: Fusione con il dio celtico Leucezio Mars Mullo: Fusione con il dio celtico Mullo Mars Nodens: Fusione con il dio celtico Nodens Mars Ocelus: Fusione con il dio celtico Ocelus Mars Olloudius: Fusione con il dio celtico Olloudio Mars Segomo: Fusione con il dio celtico Segomo Mars Visucius: Fusione con il dio celtico Visucio Marte nell'arteModifica PitturaModifica Marte, di Diego Velázquez (1640) Marte che spoglia Venere con amorino e cane, di Paolo Veronese Marte e Venere sorpresi da Vulcano, di François Boucher (1754) Minerva protegge la Pace da Marte, di Pieter Paul Rubens (1629-1630) Venere e Marte, di Sandro Botticelli NoteModifica ^ MARTE su Treccani, enciclopedia ^ MARTE su Treccani, enciclopedia ^ MARTE su Treccani, enciclopedia ^ a b Pallotino, pp. 29, 30; Hendrik Wagenvoort, "The Origin of the Ludi Saeculares," in Studies in Roman Literature, Culture and Religion (Brill, 1956), p. 219 et passim; John F. Hall III, "The Saeculum Novum of Augustus and its Etruscan Antecedents," Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II.16.3 (1986), p. 2574. ^ MARTE su Treccani, enciclopedia ^ a b Strabone, Geografia, V 3.2. ^ Nota sul dio Mamerte (o Mamers), in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, I 14.3. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, I 14.5. BibliografiaModifica Andrea Carandini, La nascita di Roma, Torino, Einaudi. (L'archeologo Andrea Carandini dà la definitiva rivalutazione del dio Marte). Renato Del Ponte, Dei e miti italici, Genova, ECIG, Dumézil, La religione romana arcaica, Milano, Rizzoli, Libro del grande storico delle religioni, che per primo rivalutò Marte da feroce dio emulo di Ares a divinità più originale e importante). James Hillman, Un terribile amore per la guerra, Milano, Adelphi, Un libro che dimostra come questo dio sia presente nelle guerre contemporanee). Jacqueline Champeux, La religione dei romani, Bologna, Il Mulino, Ares Divinità della guerra Flamine marziale Fauno Marte (astronomia) Mamerte Pico (mitologia) Hachiman Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Marte Collegamenti esterniModifica Fano di Marmar [collegamento interrotto], su latinae.altervista.org. Portale Antica Roma   Portale Mitologia Salii collegio sacerdotale romano per il culto di Marte  Mamuralia festività  Triade arcaica Wikipedia Il contenuto Umberto Curi. Keywords: passione, have, habere, habitus, comportamentismo, behaviourism. La brama dell’avere, anticonformismo, guerra e pace – Eirene – cosmologia anthropologia – l’orto di Zenone – lo scudo d’Achille – I figli di Marte --  il mantello e la scarpa libido -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Curi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Cusani: l’implicatura conversazionale del primo hegelista – lo stato italiano -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Solopaca). Filosofo italiano. Grice: “I love Cusani; for one, I was born at Harborne, but nobody cares; Cuasani was born in Solopaca, and there’s a ‘corso Cusani’, and a ‘Biblioteca Cusani’.” Grice: “Cusani would have been friend with Bosanquet; both are Hegelians – Italians, after SOME Germans, were the first to endorse the philosophy of the absolute spirit inmanent to dialectic – Cusani does attempt to respond to a criticism on the ‘assoluto’ brought up by Hamilton (of all people), and consdtantly refers to the ‘metafisica dell’assoluto’ – a ‘progetto,’ he humply titles it!” Figlio di Filippo e Caterina Cardillo, nacque al capoluogo distrettuale e di comprensorio del Regno delle Due Sicilie. Membro dei Pontaniani. Frequenta il circolo del marchese Basilio Puoti, insieme a Sanctis e Gatti.  Punto di partenza della sua filosofia, comune a buona parte del circolo del’hegelismo di stanza a Napoli, dei quali e un esponente, fu Cousin, il fondatore della “storiografia filosofica”. Insegna a Montecassino, e al collegio Tulliano di Arpino, dove fu affiancato da Spaventa, chiamato poi a sostituirlo. Si stabilisce a Napoli nel proprio studio privato. I saggi di Cusani furono pubblicati su “Il progresso delle scienze, delle lettere e delle arti” e “Museo di filosofia”. La seconda fu da lui stesso fondata. Molti dei saggi di filosofia più impegnati furono pubblicati in L’Antologia, di Firenze. Scrisse inoltre note e recensioni nel periodico l'Omnibus e nella Rivista napolitana.  Molte delle sue opere sono archiviate presso la Biblioteca "Stefano Cusani" di Solopaca.  Idealista hegeliano ed esponente dell’ecletticismo filosofico di Cousin. Opere: “Della fenomenologia, il fatto di coscienza intersoggetiva”; “Del metodo filosofico”; “Storia dei sistemi filosofici”; “Della materia della filosofia e del solo procedimento a poterlo raggiungere”; “Il romanzo filosofico”; “La poesia drammatica”; “L’assoluto – l’obbjezione d’Hamilton”; “Logica immanente e logica trascendentale”; “Compendio di storia di filosofia”; “Della lirica considerata nel suo svolgimento storico e del suo predominio sugli' altri generi di poesia”; “Economia politica e sua relazione colla morale”; “L’essere e gli esseri: disegno di una metafisica”; “Percezione dell’esistenza”. Nel comune di Solapaca è stato indetto nel  un anno di celebrazione in occasione del centenario della nascita nel comune di Solopaca. Il corso Stefano Cusani gli è stato intitolato a Solopaca. Sanctis lo cita nella autobiografia. Cusani dato alla stessa filosofia, ha maggiore ingegno del superbissimo Gatti, ed e mitissima natura d'uomo. Sale al tavolo degli oratori con tale fervore dialettico che a tutta la persona grondava onorato sudore» (G. Giucci, Degli scienziati italiani formanti parte del VII congresso in Napoli nell'autunno del 1845: notizie biografiche, Napoli.  L'amico coetaneo Cesare Correnti, patriota milanese legato ai circoli Napoli, insegnante nella Scuola di lingua italiana da lui fondata, gli dedicò un necrologio. Ecco un altro amico, un'altra fiorita speranza di questa nostra Napoli sparire a un tratto a noi d'intorno. Ben dissi a un tratto, poiché la sua non lunga malattia parve un momento agli amici. La filosofia specialmente nol sedussero, in modo che a più severi studi non volgesse l'acuto e fervidissimo spirito, e a bella armonìa si composero nell'anima sua. Rivista europea», ripr. in Scritti scelti, T. Massarani, Forzani, Roma). «Rivista europea», ripubblicato in Scritti scelti, T. Massarani, Forzani, Roma, Dizionario biobibliografico del Sannio, Napoli, "Il Progresso", "Il Lucifero","Omnibus"; "Rivista napolitana", Sanctis, La letteratura ital. nel sec. XIX, II, La scuola liberale e la scuola democratica N. Cortese, Napoli; G. Oldrini, Gli hegeliani di Napoli. A. Vera e la corrente "ortodossa" (Milano); F. Zerella, Filosofia italiana meridionale”; “Dall'eclettismo all'hegelismo in Italia”. Cusani e la filosofia italiana: Vico, Galluppi, Mamiami, Colecchi, Rosmini. Nasceva in Solopaca, una volta Distretto di Caserta, oggi Circondario di Cerreto Sannite (Benevento) il 23 dicembre 1816, Stefano Cusani da Filippo e Caterina Cardillo. Suo padre, insigne avvocato, fu sollecito della educazione di questo come di altri quattro suoi figliuoli, che, affidati alle cure di un suo fratello germano a nome Matteo, sacerdote, mandolli in tenera età a imcominciare e compiere i loro studî in Napoli. Ivi Stefano, ch'era il secondogenito di cinque fratelli, frequentava i più rinomati Istituti privati di quel tempo (che allora l'insegnamento pubblico esisteva sol di nome),  si distingueva fra gli altri condiscepoli in ognuno di questi, così che in breve, compiuti gli studi letterarî fu giocoforza mettersi a studiare le scienze della facoltà che doveva seguire. Fu questo il solo brutto periodo di sua vita. Suo padre voleva fare di lui un Avvocato civile, come suol dirsi, e quindi fu obbligato a studiare leggi e pandette, per le quali discipline non si sentiva la benchè minima inclinazione, anzi, a dir vero, sentiva per esse la più marcata avversiono; ma buon figlio e docile essendo, per non dispiacere al padre, che tanti sacrifizî avea fatti e faceva per lui, come per gli altri fratelli, a malincuore sempre, ma sempre tacendo, giunse fino ad esser Avvocato, ed a fare la pratica presso uno de'luminari del Foro Napoletano. Da questo momento incomincia il suo grande sviluppo intellettuale. Non potendone più, la rompe col padre, dicendosi avverso ai processi, ed allo studio di essi, e ad ogni altro artifizio da causidico. La rompe con quella pratica noiosa, che tralascia ed abbandona; ed ottiene dal padre stesso, che ragionevole e savio uomo era, di poter attendere a quegli studi che più alla sua indole si affacevano. Fioriva in quel tempo, a Napoli, la scuola del Marchese Basilio Puoti, ed egli, incontratosi con Stanislao Gatti che fu poi indivisibile amico e compagno, vi si getto a capofitto, e fu in poco tempo il più caro e pregiato discepolo del Marchese, come l'amico e compagno del De Sanctis, del Mirabelli, e di tutta quella pleiade che in quel tempo arricchirono Napoli di filosofi insigni.  Ma a quell'ingegno che s'andava ogni giorno più sviluppando e fortificando di sani e severi studî, parve angusto oramai quest'orizzonte, o volse l'ala, e la di instese con intensità ed ardore allo studio della filosofia. Ben cinque anni decorsero di volontaria prigionia nel suo studiolo, ovo ridottosi, o giorno e notte indefessa mente attendeva a' prediletti studî, e si beava di leggere Platone nel testo, chè familiare la lingua gli era; come pure si fece a studiare la lingua alemanna per  mettersi al corrente dei progressi della filosofia, e per meditare e studiare le dottrine e teorie dell'Hegel, ultimo filosofo tedesco di quella epoca.  Uscito dopo questa epoca a nuova vita incominciò a scrivere sul Progresso, una Rivista di scienze e letteratura, diretta dal Baldacchini, articoli su questioni filosofiche; e, dopo un anno, era già conosciuto in tutta la Napoli pensante. In questo torno di tempo si apri un concorso per la Cattedra di filosofia e matematica, nel Collegio Tulliano di Arpino, e lui fu prescelto per titoli ad occuparla. Vi andò e vi trovò il suo amico Emmanuele Rocco, che v'insegnava letteratura. Vi stette un anno e vedendosi in una cerchia troppo angusta alla sua attività, si dimise, e fece ritorno in Napoli, conducendo con sè anche l'amico Rocco. Quivi apri studio privato unitamente al Gatti di filosofia, e dal bel principio quello studio fioriva per numerosa gioventù, che accorreva a udire le sue lezioni. In breve fu lo studio più affollato di Napoli. Le ore che aveva libere dallo insegnamento le occupava a scrivere articoli di filosofia che si pubblicavano sulle Riviste Napoletane di quel tempo, il Progresso che usciva in fascicoli voluminosi, la Rivista Napoletana di Scienze, Lettere ed Arti, il Museo di Scienza e Letteratura, ove collaboravano per la lor parte Antonio Tari, Francesco Trinchera, ed altri; e sul Progresso il Colecchi  ed altri.  Non andò guari e s'incontrò col Mamiani in quistioni di alta Metafisica, o ne usci onorato dell'amicizia e della riverenza dell'insigno filosofo. Il suo intelletto altamente speculativo destava ammirazione perchè si elevava ad altezze tali filosofiche che non gli si potevano contrastare. In quel tempo si agitò una polemica tra V. Cousin, filosofo francese, ed un insigne filosofo inglese, il cui nome ora non mi sovviene; dopo varî articoli scambiatisi parea che l'inglese avesse preso il di sopra, ed il Cousin, che lui credeva più dell'altro stare nel vero, avesse dovuto soccomberé. Allora senza frapporre tempo in mezzo egli entrò terzo nella quistione e scrisse epubblico una serie di articoli che costrinse l'inglese a desistere dalla polemica, ed il Cousin a scrivergli una lettera di ringraziamenti e di felicitazioni, e con la quale lo chiamava, e si firmava suo cugino.  Si radunava il Congresso dei Filosofi in Napoli nell'ottobre del 1845, o lui ne dovea far parte; ma non sapendosi se il Borbone lo avesse permesso, o meno, erasi ridotto in patria a villeggiare con la moglie e due piccini, l'uno lattante e l'altro di due anni. Il Congresso fu permesso, i filosofi si riunirono in Napoli, e lui fu invitato espressamente a farvi ritorno; che anzi il Presidente della Sezione “Filosofia speculativa” a cui egli apparteneva, non volle aprire la sessione s'egli non fosse arrivato. Cosi corse in Napoli solo, lasciando in patria la famiglia, che poi sarebbe andato a rilevare, dopo finito e sciolto il Congresso. Fu questa la causa della sua morte! Arrivato in Napoli vede gli amici - con essi si intrattiene passeggiando -- suda; è l'ora già che s'apre la Sessione -- essi ve lo accompagnano a piedi per goderselo di più -- vi si arriva. Egli era sudatissimo -- entra e n'esce dopo quattro lunghe ore di discussione; quel sudore lo avea già colpito a morte. Si riduce a casa, si ricambia le mutande - la camicia  era troppo tardi! Incomincia dopo poco tempo una tosse secca, stizzosa, ch'egli non cura, perchè forte e robusto era; e questo fu il peggiore dei divisamenti. Ritorna in patria per ripigliare la famiglia e ridursi in Napoli, poiché si era alla vigilia del novembre. Si riapre lo studio, si riprendono le lezioni; il maggior numero degli alunni affluito gli rinfocola l'ardore, ch'ei metteva in esse, e parla dalla cattedra per lunghe ore, e poi agli alunni più provetti che gli propongono dubbi o problemi a risolvere, parla pure ad alta voce, e quella tosse insidiosa non lo lascia, anzi invida della sua noncuranza lo avverte spesso del suo malefico potere, interrompendogli il discorso, e forzandolo per poco a tacere. Le cose durarono ancora così per altri 10, o 12 giorni, e finalmente la emottisi tenne dietro a quella tosse funesta, e fu giuocoforza sottomettersi a quanto l'arte salutare poteva e sapeva consigliare, ma invano tutto! Chè una tisi florida si svolse, ed in meno di due mesi si spense la robusta complessione di S. Cusani! Tale fu quest'uomo, che a 30 anni la morte rapiva a'suoi, alla scienza, alla patria. Nato a 23 dicembre 1816, moriva a 2 gennaio 1816. Dissi rapito alla patria, e giustamente, poichè egli da giovanissimo appartenne alla Giovine Italia, e in Napoli fu sempre il più ardente fra i patrioti. Egli con altri preparò e cooperò con ardore al movimento del '18 che poi non potė vedere! La sua casa era il convegno di Carlo Poerio, L. Settembrini, S. Spaventa, P. Mancini, e di tutti gli altri illustri compromessi politici di quel tempo, con i quali  si congiurava, si faceva propaganda, e si organizzava la rivoluzione. Fu cosi caro a questi tutti che se un giorno solo nol vedeano, si tenea por certo la visita loro in sua casa; ed il Poerio, addoloratissimo della sua malattia, volle ed ottenne che fosse stato medicato, curato ed assistito infino all'ultimo istante di sua vita dal fido o dotto medico Alessandro Lo Piccolo. L'esequie furono imponenti pel concorso di amici, che  formavano tutte le notabilità scientifiche, patriottiche e letterarie. Il lutto per la sua perdita fu sentito generalmente per Napoli, che in lui salutava la giovine scienza, e che per lui si metteva a paro di altre città d'Italia, che fiorivano per altissimi ingegni ed insigni filosofi, come il Mamiani, il Rosmini, il Gioberti, ed altri, se quella vita non si fosse spenta nel mezzo del cammino! La cura della filosofia di Cusani d’Ottonello ha il merito di riproporre all’attenzione una figura di rilievo della cultura filosofica napoletana dell'Ottocento. Benché scomparso in giovanissima età, nel gennaio 1846 (eranato nel dicembre del 1815, o forse del 1816, come i piú sostengono), Cusani lascia di sé traccia profonda, testimoniata dalla considerazione in cui e tenuto, per tacer d’altri, da Sanctis, o dalla valutazione che di lui dette Gentile. Con Gatti ed altri può essere inserito - come nota il curatore nella nitida e puntuale introduzione nell'ambito dell'hegelismo napoletano, oltrecché in quello piú generale dell'eclettismo alla Cicerone. Opportunamente si avverte però che Hegel costituisce per Cusani un potente polo d'attrazione, ma non il filosofo fondamentale. In realtà si può forse con fondamento aggiungere, pur senza ricorrere ad una indagine falsamente sottile, che resta in ombra, nellepur autorevoli e acute analisi dedicate alle ascendenze cousiniane ed hegeliane di Cusani, un filosofo fondamentale che sicuramente ispira la filosofia piú significativa di Cusani: Vico. La costruzione del sistema eclettico cui Cusani dichiara di dedicarsi segna una fase già tarda dell'eclettismo napoletano e giungeva al termine di un decennio assai ricco di suggestioni in questa direzione negli ambienti culturali napoletani. È sicuramente da condividere l'affermazione del curatore secondo il quale il sincretismo avvertibile in Cusani non impedisce però l'emergere di un nucleo speculativo che deborda dalla semplice trama delle affermazioni altrui. In questo senso il problema del metodo filosofico e il connesso problema della storia italiana segnano sin dall’inizio lo sforzo speculativo di Cusani, la cui originalità trova subito sulla sua strada Vico. Collaboratore della Temi napoletana, dell'Omnibus letterario, scrive prevalentemente sul “Progresso.” Sin dalprimo scritto, Filosofia in Italia, il tema della storia italiana appare questione teorica centrale. Non a caso una ricerca storica da l'occasione a Cusani di porre il problema che gli sta acuore, sin dalla citazione tratta da Guizot che apre la nota. I fatti sonomeme affermazioni al problema della storia trova subito sumanibus letterario ma are i grandiuti al fatto che risguardato, en per il pensiero, ciò che le regole della morale sono per la volontà. Egli è tenuto di conoscerli, e di portarne il peso, ed è solo allorché ha sodisfatto a questo dovere, e ne ha misurato e percorso tutta l’estensione, che gliè permesso di montare verso i risultamenti razional. Il rinnovato interesseper la storia italiana che si registra-- che né l'Antichità, né i tempi di poco anteriori a questi che viviamo avevano mai risguardato -- non sembrano a Cusani casuali, ma dovuti al fatto che l'intendimento si rivolge a indagare i grandi ordini di fenomeni per scoprire e prendere inconsiderazione i fatti e le ragioni, una storia ed una filosofia. Il bisogno di comprendere e giudicare il fatto, piuttosto che esserne solo spettatore (e dunque di verificare una diversa attitudine della storia italiana), esalta questa parte immortale della Storia, cioè il conoscere il legamento fatalista della causa e dell’effetto, le ragioni, i fatti generali, le idee da ultimo ch'essi celano sotto il manto della loro esteriorità. Onde ch’egli è d'uopo sceverar con chiarezza e con precisione la differenza di queste due parti della storia italiana che sono per cosí dire il corpo e l'anima, la parte materiale, e la parte spirituale di tutti gli avvenimenti esterni e visibili, che compongono la nazione italiana, secondo che dice Vico. Il rifiuto, che Cusani trae dalla lezione vichiana, di affidarsi a pre-mature generalità, e con formole metafisiche per soddisfare il mero bisogno intellettivo, è una traccia decisiva per comprendere il suo pensiero. L'annotazione di Gentile, secondo il quale l'osservazione storica non è piú l'integrazione della psicologia, bensí la costruzione stessa della filosofia, può commentare l'intero itinerario filosofico di Cusani, che si consuma nell'arco di pochissimi anni. Il discorso sul metodo che Cusani compie si basas in dall'inizio su una acquisizione precisa: un sistema o una filosofia consistono nel loro stesso metodo. Nel primo saggio veramente organico (Del metodo filosofico e d'una sua storia infino agli ultimi sistemi di filosofia che sono si veduri uscir fuori in Germania – Hegel -- e in Francia -- Cousin) Cusani parla addirittura di un metodo generale, il quale presiede all'investigazione dell'unica e universal verità. La filosofia è dunque la regina scientiarum che consente di ricondurre ad “unità” il sapere, e a tal pro-posito l'assimilazione dei termini è dichiarata apertamente, a proposito dell’analisi psicologica, la quale segna il punto di partenza della riflessione, ed è la base unica dell'immenso edificio filosofico, il solo solido fondamento, il suo atrio e il suo vestibolo. E nel saggio, “Del reale obbietto di ogni filosofia” (Il Progresso) ribadisce e chiarisce che lo studio de’ fatti della natura umana, o de’ fenomeni psicologici, vuoto del tutto riuscirebbe, se invece di tenerlo come base d'ogni ulteriore investigazione, si volesse considerare come il termine stesso della filosofia. Il secolo decimottavo si è trovato dunque di fronte al centrale problema del metodo filosofico. Se è vero che nella storia italiana è tutta quanta la filosofia italiana, occorre riconoscere il merito insuperabile di quella mente divinatrice e profonda che avea posta nel mondo la nazione italiana. Vico, definito – nella nota sul Nuovo Dizionario de sinonimi della lingua italiana di Niccolò Tommaseo, quell'altissimo lume d'Italia, con una locuzione che introduce un discorso, ingiustamente trascurato, sulla tradizione filosofica meridionale, piú volte ripreso dal Cusani. Lo studio di Vico qui esaminato è appunto il “De antiquissima Italorum sapientia”; nel quale potentemente convinto della relazione che stà tra il pensiero (l’animus, il segnato) e la parola (il segno), fecesi ad investigar quello degli antichi romani e italici nostri maggiori, cavandolo per avventura da quella lingua italiana ch'era nelle bocche volgari degli uomini. Il rapporto tra spontaneità e riflessione, che tanta parte ha in Cusani, è dunque introdotto sotto il segno di Vico. Si ponga mente alle affermazioni che seguono il passo già citato, allorché Cusani insiste sul fattoche veramente il Vico porta opinione che tutto l'antico (antichissimo) pensiero o sapienza italiana era in quella lingua italiana ch'egli disamina, e dalla quale intende rimetterlo in luce, e che se la lingua italiana non e opera di un filosofo, ma sibbene il prodotto spontaneo delle facoltà nell'uomo italiano, se innanzi che venissero adoperate nella costruzione e nel concepimento del sistema di un filosofo, di cui pur e il necessario strumento espressivo e communicativo, esisteva nella massa de’ popolo italiano. Insomma, quella che è stata chiamata la svolta hegeliana del Cusani, va valutata alla luce di una ispirazione legittimamente riferibile a Vico. Si veda il Saggio su la realtà della humanitas di Vincenzo De Grazia (Il Progresso), già sul crinale della svolta hegeliana. L'epigrafe di Cousin posta all'inizio ritorna sul problema che sta a cuore a Cusani, e che ne determina l'originale ricerca. Ci ha due spezie di filosofie. La prima spezie di filosofia studia il fatto, lo disamina, e lo descrive, riordinandoli secondo le loro differenze o somiglianze, e potrebbesi però denominare filosofia “elementare” o immanente. L’altra spezie di filosofia comincia ove si ferma la prima, investigando la *natura* de’ fatti, e intendendo di penetrare la loro ragione, la loro origine, il lor fine, e potrebbesi denominare filosofia trascendente, o filosofia prima. La citazione dai Frammenti filosofici serve in realtà a Cusani pergiungere alla fondamentale affermazione secondo cui, esaurita nel secolo precedente la filosofia elementare, e necessario che si cominciasse asentire il bisogno di nuovi problemi, e che l'ontologia ricomparisse nel dominio della speculazione filosofica. Insomma la disamina del fatto immanente elementare (il segno) deve servire a rintracciarne la natura, le origini, le relazioni, che è il vero fine supremo della filosofia prima. Ma questo è possibile (e l'eclettismo di Cusani si dimostra non mero sincretismo, ma sapiente innesto di elementi concorrenti a rafforzare le personali ipotesi speculative) soprattutto all’italiano, chi può vantare una tradizione filosofica ininterrotta che ha in Vico il suo vate supremo. Il bisogno dell’ontologia ha ulteriori ragioni in Italia, dove la filosofia trova terreno fecondo emotivo di continuità. Ed è la tradizione ontologica de’ filosofi italiani, e il predominio costante della filosofia prima o trascendente in Italia sulla elementare o immanente, non solo in tempi che era cagione universale nel mondo della scienza, ma eziandio allorché fortemente altrove ponevasi la base d'ogni filosofia ed all'apo genere a nostri e quell'indole elementare, e molto studiavasi in essa. Di qui nacque quell'indole speculativa che si è sempre accordata in genere al filosofo italiano, anche quando discendevano alla pratica ed all'applicazione de’ principi. É di vero se si pon mente alla Storia, e si consideri che dalla scuola italica di Crotone o da Pittagora suo fondatore, passando per i filosofi di Velia (Senone), arrivando fino all’apparizione di quella meraviglia del Vico, si troverà che la verità da noi accennata apparisce luminosa e in tutta la sua pienezza. Dunque continuità della tradizione, rivendicazione della propria originalità speculativa, e soprattutto applicazione esemplare del metodo storico come proprio della storia della filosofia. Già affrontando il problema della fenomenologia semiotica, Cusani non manca di annotare, con una affermazione che resta sostanzialmente immutata nella sua produzione, a riprova del vichismo naturale della sua ispirazione, che l’italiano è cosí fortemente incluso intutta la morale che ne forma il subbietto perenne, e non si può farne astrazione senza far crollare tutto l'edificato da quelle. Del resto nel saggio Del reale obbietto d'ogni filosofia, posto sotto il segno di Vico – la cui “De constantia Philosophiae” fornisce l’epigrafe, Cusani ha chiarito che la umana intelligenza, di cui si ricerca e scopre una storia naturale, una volta esaurita l’investigazione della natura, ripiega progressivamente verso il subbietto stesso di quelle investigazioni, e rientrando dall'esterno nell'interno, fa se stessa obbietto della sua conoscenza. La morale nasconode questo percorso, allorché il filosofo ritorna sopra se stesso dopo indagare il mondo esterno. La svolta hegeliana può a questo punto arrivare, ma a sua volta innestandosi su questa ricerca di una legge onde si regge il mondo. Il dilemma su un oggetto immutabile della conoscenza, e della mutabilità al tempo stesso del fatto che il pensiero trascendente va indagando, diventatra la questione centrale. Spesso Cusani torna nella sua opera, che riesce difficile in questa sede indagare in dettaglio, sulle permanenze della storia italiana e sulle variazioni. Nel Saggio analitico sul diritto e sulla scienza ed istruzione politico-legale d’Albini, significativamente impostato il tema, e sempre ricorrendo a Vico. In Italia fu primo tra tutti Vico che intende ala ricerca d'un principio universale ed immutabile del diritto e che questo ponesse nella ragione, unica fonte dell'assoluta giustizia, distinguendo esattamente il diritto universale, o filosofico, dal diritto storico. Anzi, la debolezza della cultura filosofica italiana può essere addebitata al mancato studio di Vico il cui esempio non frutto gran bene, ch'io mi sappia all'Italia,non essendo le sue teorie accettate da'suoi contemporanei, perché forse troppo superiori all'intelligenza comune, fino al punto che l’italiano perde, com'a dire, la sua particolare fisionomia, rivestendo un'indole forestiera – come i fanatici di Hegel con la sua lingua foresteriera! -- Se non che questo che al presente diciamo fu molto piú pronunciato in Beccaria e Verri non furono che perfettissimi seguitatori dell'Helvelvinitius e del Rousseau, quanto all'ipotesi del Contratto sociale, che in il vichismo dunque, se accolto, avrebbe garantito la continuità e originalità della filosofia italiana. Infatti la cultura napoletana da in questo senso testimonianza della continuità speculativa della filosofia proprio attraverso la tradizione vichiana. Filangieri, ma soprattutto Pagano, ritennero l'elemento tradizionale italiano, che li riannodava a tutta l'erudizione. Anche quando nel Museo di letteratura e filosofia soprattutto, e la Rivista napoletana, piú evidente si coglie la lettura di Hegel, Cusani testimonia la persistenza sicura della lezione vichiana. Senza rotture, ma sviluppando le tematiche e gli interessi, nel saggio Della lirica considerata nel suo svolgimento storico, ove – come ha notato Oldrinisi incontra un esplicito richiamo alle lezioni hegeliane di filosofia della storia, Cusani riprende con vigore la questione fondamentale. Ora poiché l'uomo è il subbietto storico per eccellenza a volere istabilire lal egge che governa tutte le accidentalità variabili delle vicende umane, la filosofia non puo che cercarla nelle modificazioni della stessa umanita. Questo punto di partenza, che il Vico, per il primo, prescrisse alla filosofia della storia, facendo che le sue ricerche rientrassero nella coscienza psicologica dell’italiano, e si cercasse di spiegar questo per mezzo della sua propria natura, ma eziandio tutti i fatti di cui egli è causa, ingenera tanto vantaggio, che da un lato tolse la specie umana dall'esser considerata come mezzo da servire ad altri fini, e dall'altro la rialza sopra la natura, di cui vuole sene fare prodotto o artificio. In che misura l'hegelismo, rintracciabile nella preoccupazione di garantire l'unità del sistema attraverso l'unità della filosofia, deve tener con toda un lato della matrice vichiana del pensiero di Cusani e dall'altro dello sforzo di costruire l'edificio eclettico della filosofia in modo originale? Andrebbe qui indagato, con cura e minuziosità che questa sede non consente, il tema del senso comune in piú luoghi richiamato da Cusani. Sipensi al saggio apparso sul « Museo », Idea d'una storia compendiata della filosofia, proprio dove il tema della filosofia assume intonazioni sicuramente hegeliane. Purtuttavia, sebbene l'uomo sia conscio nell'intimo della sua coscienza della sua libertà, e riconosca in sé stesso il potere di cominciare una serie di atti, di cui egli è causa; ciò nondimeno non può non iscorgere eziandio, che la sua volontà è posta sotto il dominio e la soggezione d'una legge, che diversamente vien denominata secondo che diverse sono le occasioni, alle quali essa si applica, contrassegnandosi ora come legge morale, ora come ragione, ed ora comesenso comune. L'indipendenza speculativa che Cusani manifesta nel rimeditare tutti i contributi all'interno della sua riflessione è evidente, e su questo tema operante nei confronti dello stesso Vico. Esaminando la questione del fatalism e della libertà (giustamente si ricorda come sia questa la questione piú importante che si possa scontrare nella filosofia della storia, dai primi agli ultimi scritti presente inche di sua volone causar in Cusani), nell'Idea d'una storia compendiata della filosofia, Cusani ha qualcosa da rimproverare a Vico stesso, da altri peraltro erroneamente collocate tra gli storici fatalisti -- cosí Livio si distingue da Machiavello e da Vico; e sebbene Livio da maggiore influenza alla parte passiva e fatale dell’italiano nella storia; ciò nondimeno non si è data che ai secondi, a cominciar da Machiavello, la nota del storico fatalista. Se è vero infatti che Vico cerca nell'italiano il principio e la legge dello svolgimento dell'umanità, egli ebbe però il torto di essere esclusivo, in quanto non ha riconosciuto l'influenza della natura italiana sull'italiano. Si annota come a Cusani fin dai primi studi si affacci il dilemma tra pensiero come condizione e pensiero come condizionato: se una legge governa lo svolgimento dell'intelligenza, la storia è da intendersi fatalisticamente costretta entro i termini di una legge fissa del pensiero? Del resto in un saggio nel Progresso (e non compresa nei due volumi degli Scritti, forse perché firmata — come del resto altre note raccolte da Ottonello — con la sola sigla S. C.), Elementi di Fisica sperimentale e di meteorologia di M. Pouillet, Cusani ritorna sul metodo delle scienze e sulla accostabilità tra scienze morali e scienze fisiche. Dappoiché la scienza della natura e sottoposta nella sua ricerca a metodi certi e sicuri, e l'umana intelligenza punto da quelli non dipartendosi, seguitò attesamente le sue investigazioni, i progressi rapidi e continuati succedettero ai lenti e quasi invisibili dell'antichità. Il successo di queste scienze — come di ogni scienza — è nel metodo, cosi che da meglio che tre secoli lo spirito umano procede, in questa special branca delle sue conoscenze con tanta fidanza, e direi quasi, contanta certezza de' suoi risultamenti, che nissun'altra scienza per avventurapuò con questa venire al paragone. Si badi, le scienze fisiche non costituiscono altro che una special branca delle conoscenze dello spirito umano. Dunque occorre applicare anche alle altre branche metodi certie sicuri, come è possibile dal momento che la storia universale dell'Umanità, che pone la Storia al centro dell'investigazione, racchiude,com'a dire, in un corpo tutto lo svolgimento intellettivo della spezie. Ecco perché nel saggio Della lirica, a proposito della legge della evoluzione ideale dell'umanità nel progresso storico, Cusani nota che questo è di proprio particolar dominio di quella scienza, che sorta gigante in Italia per opera di quella maraviglia del Vico, costituisce ora il centro intorno a cui si svolgono tutti gli sforzi del secolo. Simili le espressioni usate nella recensione agli Elementi di Fisica sperimentale, allorché della storia universale dell'Umanità nota che forma a questi nostri tempi il punto di mezzo, intorno di cui si volge e gravita tutto il processo del lavori del secolo. Il ricco saggio “Idea d'una storia compendiata della filosofia” è a questo punto da considerare fondamentale. La connessione che la storia ci rivelatra libertà e necessità, ci consente di rintracciare la legge necessaria del progresso storico. Noi sappiamo che la filosofia del popolo italiano non è altra cosa se non lo spirito del popolo italianom non già come  si manifesta nella sua religione spontanea, nelle sue arti, nella sua costi-in se stesso aveva, artea, un concertelli avvenimee metafisica. cipale delle sourcetuzione politica, nelle sue leggi e costumi, ma come si rivela nell'esilio inviolabile del pensiero puro, che riferma il piú alto grado al quale possada sé stesso elevarsi. Cusani ha, a tal proposito, filosofato nel saggio “Della poesia drammatica” un concetto che poi si ritrova in seguito. Egliè il vero che sotto la varietà degli avvenimenti del fatto e della vita stessa della società italiana è nascosa la legge suprema e metafisica che li governa,e che il filosofo tenta di scoprire, e ne fa l'obbietto principale delle sue ricerche, ma all’italiano, ch'é, come dice quell'altissimo ingegno di Vico, il senso della nazione italiana e dato tutto al piú di sentirla, ma non deve essere suo scopo di manifestarla, dove all'ispirazione vichiana pare già si aggiunga, insinuandosi, una suggestione hegeliana. Nello saggio Della lirica, Cusani ribadisce l'argomento. Se la filosofia non deve fat suo scopo, come altrove dicemmo, parlando della poesia drammatica, la rivelazione di essa legge secondo la quale l'umanità si svolge nello spazio e nel tempo, puf tuttavia non potrà certo cansarla nella sua manifestazione storica, cioè nel suo progresso attraverso delle nazio ultima recension Felice Roman son sottoposti alla legge storica in generale, la quale le impronta quasi una seconda indole, ed è questa poi, che fa che i filosofi sieno, come diceVico, il senso della nazione italiana. Sorprendentemente, nell'ultima recensione pubblicata sulla « Rivista napolitana », Liriche del Cav. Felice Romani, quasi ad emblematica chiusura, Cusani ripete. Vico innanzi tuttia veva formolata questa solenne verità, proclamando che il filosofo e  ilblematica sblata questa sojeni filosofi ne sinnestare Hegedea d'uneinnanzi Qui l'eclettismo cusaniano ha voluto innestare Hegel sulla tradizione italiana custodita e proclamata, specie allorché, nella idea d'una storia, riprende il tema di una ragione fondamentale, di una idea filosofica fondante le manifestazioni della vita umana, per cui la religione e soprattutto la filosofia già ricordata sono riconducibili ad una legge razionale. Un'altra citazione, non giustificata in questa sede, si rende necessaria per la sintesi che riesce a conseguire, in specie sul tema del senso comune. Allorché il movimento filosofico o riflessivo passa dalla fede alla scienza,e dalle credenze popolari alle idee della ragione, e si trova d'essere giunto a scoprire il pensiero celato dapprima sotto FORMA SIMBOLICA, e che si traduce nell’istituzione, nella costume, nella filosofia e e nelle industria, egli fatto quasi banditore della verità scoperta, l'annunzia per farla conoscere alle masse, le quali non avrebbero potuto pervenire sino a quel segno che tardi e lentamente. È in questo senso che il filosofo accelera il movimento delle masse, e da qui nasce ancora che egli stesso e indugiato nel movimento che è loro proprio. Dappoiché se le masse accettano la nuova luce che loro arreca il filosofo, sono d'altra parte lente e ritenute nell'abbandonare le vecchie opinioni, che il tempo ha rese abituali, e bisogna innanzitutto che esse comprendano ciò che loro viene rivelato, e lo comprendanoa loro modo, cioè facendo che discenda in certa guisa dalle forme astratte della scienza alle forme pratiche del senso comune. Dunque il filosofo comprende e spiega nient'altro che ciò che l’intelligenza spontanea dei popoli crede istintivamente, e pertanto, lafilosofia non è che la spiegazione del senso comune. Possiamo a questo punto scoprire l'errore di chi ha collocato Vico e Machiavelli tra un storico fatalista como Livio, dappoiché, se a tuttaprima poteva parere, che l’italiano appo costoro fosse schiavo dell’istituzione, in quanto che queste venivano considerate come cose non procedenti dall’italiano stesso, pure, allorché si vide che l’istituzione none che la manifestazione esterna, il segno, e la realizzazione delle idee del popolo italiano, libertà umana nella creazione degli avvenimenti del mondo. Come si risolve pertanto il problema della libertà? Si pone inquesti termini l'interrogativo. La ragione è dunque il fondamento della libertà; ma ragione e libertà sono da intendersi esclusivamente riferitisare appunto che il problema della libertà investa soltanto l'azione soggettiva (non intersoggetiva o collettiva) che ha per teatro la storia. In realtà però, proprio per l'ampia visuale che egli propone della storia globalmente intesa, la libertà non è solo quella dell'individuo o soggetto italiano che si affranca dai condizionamenti dell'istinti -- vità, ma anche quella che costituisce la linea intelligibile di tutto lohere nelle pella sciente quella con il. La soluzione che si può intravedere in Cusani, concorde ed omogenea allo sviluppo della questione della scienza e del metodo  nell'intera, intensa elaborazione culturale di Cusani è forse quella contenuta nella Idea d'una storia. Resta certo il rammarico del mancato approfondimento delle tante tematiche che a questa risposta devono riferirsi, in particolare sulla politica e sulla estetica. Ma la sintesi che Cusani propone rimane oltremodo significativa. L'ordine adunque degli avvenimenti, la provvidenza, o legge dell'intelligenza umana, è quella legge che Iddio  stesso ha imposta al mondo morale, e che non differisce dalle leggi della natura, se non per questo, cioè che la legge imposta al mondo morale non distrugge punto la libertà individuale, essendo ché è permezzo della libertà che si compiono i destini della intelligenza, laddovele legge della natura e compita senza il concorso della libera volontà.  SCIENZA MORALE E FILOSOFIA CIVILE. “Quando gia la stagione eclettica andava verso il tramonto”. 1. Cusani si volgeva al metodo storico per tracciare la via sicura che consentisse, come scrisse nel 1842, all’idea filosofica di “elevarsi al grado di scienza che si dimostri per se stessa” 2. Giacche se evero che “la decomposizione (...), o l’analisi psicologica del fatto primitivo della coscienza e la condizione necessaria d’ogni riflessione, che ritorna sul proprio pensiero; il che e dire ch’e la condizione necessaria d’ogni filosofia”, ancor piu essenziale e comprendere che “se l’osservazione minuta, e l’analisi profonda di tutte le singole parti di quella sintesi primitiva della coscienza e il punto donde bisogna muovere, perche si possa riuscire a bene nelle speculazioni filosofiche, essa non e certo al termine; perocche dopo aver esattamente analizzato tutte quelle parti, ed osservatele da tutti i lati, egli e mestiere procedere alla cognizione de’ riferimenti che l’une hanno colle altre, perche si possa risalire a quella ricomposizione del tutto primitivo, che e lo scopo ultimo della filosofia” 3. E questo il contributo essenziale che la storia fornisce e senza il quale ogni itinerario verso la conoscenza e condannato a restare monco,  e la scienza filosofica e destinata ar estare preclusa. Infatti 1. F. Tessitore, Da Cuoco a De Sanctis. Studi sulla filosofia napoletana nel primo Ottocento, Napoli, 1988, p. 58.  2 Della scienza assoluta (Discorso I), in “Museo di letteratura e filosofia”, a. II, n. 8, vol. IV, 1842, p. 116. Al Discorso I non seguirono altre parti. 3. Del metodo filosofico ed'una sua storia infino agli ultimi sistemi di filosofia che sonosi veduti uscir fuori in Germania ed in Francia, in  “Progresso”,  XXII,  1839,  p. 178. Sul pensiero filosofico  del  Cusani  cfr.  G.  G,  Storia  della  filosofia  italiana , Firenze,  1969,  vol. II,  pp.  557-563;  S. Mastellone, Victor Cousin e il Risorgimento italiano, Firenze, 1955,  pp. 194-210;  S. Landucci, Cultura e ideologia  in  Francesco  De  Sanctis ,  Milano,  Oldrini,  Gli hegeliani  di Napoli, Milano, 1964, pp.32ss; ID., Il primo hegelismo italiano, Firenze, (della Introduzione) e pp.125-127; F. Ottonello, Introduzione a S. Cusani, Scritti, Genova; F. Tessitore, Op. cit., pp. 64-65.2 “ne e a dire che la psicologia potrebbe far da se, e proseguire il suo lavoro senza punto brigarsi della storia; perciocche oltre i danni che potrebbero scaturirne eche noi piu sopra dicemmo, si eviterebbero i vantaggi che a lei verrebbero dalla storia, sarebbero infiniti” Proprio in relazione a questa fase del pensiero del giovane napoletano, Giovanni Gentile annota che “pel C.,l’osservazione psicologica diventa la riflessione che rifa la storia dello spirito, una fenomenologia; el’osservazione storica non e piu l’integrazione della psicologia, bensi la  costruzione  stessa  della  filosofia”L’eclettismo  non  poteva  piu,  a questo punto, rispondere all’orizzonte intravisto, cosicche “il C., staccatosi dall’eclettismo si diede allo studio della filosofia hegeiiana”. Del metodo filosofico e d'una sua storia, cit., p.183.  Poche righe piu sopra Cusani aveva annotato che “dare una ripruova e un confronto all’osservazione  psicologica, che sia capace di ritrarla dall’errore, allorche per manco d’esperimento essa cada nell’incompleto, sarebbe per avventura il regalo piu sicuro, e una norma certissima del metodo per ben filosofare. E questa ripruova adunque che ci viene insegnata dal metodo storico, la cui importanza non e certo minore dell’altro, e l’esito altrettanto giusto e sicuro. Certo che dall’aver dimenticala  Storia  ne  son  proceduti  due  ordini  di  mali: il  primo,  perche si e rotta quella legge di continuita nel progresso de’ lavori dell’intelligenza, e si e terminato donde si sarebbe dovuto cominciare; l’altro perche lo Spirito Umano non si e potuto correggere delle sue deviazioni nello svolgimento intellettivo, mancandogli la cognizione de’ suoi passati travisamenti. Nella storia adunque e tutta quanta la filosofia, e riconoscerla nella storia econdizione non evitabile d’ogni filosofia” (pp. 182-183). 5 G. Gentile, Op. cit., vol.I, p.639. Lo sforzo di costruire “l’edificio eclettico della scienza” e condotto da Cusani negli scritti pubblicati tra il 1839 ed il 1840. In particolare, oltre che nel citato Del metodo filosofico (pp. 176-215), nei saggi Del reale obbietto di ogni filosofia e del solo procedimento a poterlo raggiungere, in “Progresso”, XXIII, 1839, pp.27-60; Della scienza  fenomenologica  e dello  studio  dei  fatti  di  coscienza, in “Progresso”, XXIV, 1839, pp. 28-83  (I), e XXV, 1840, pp.16-37(II) e 187-247 (III); D'un'obbiezione dell'Hamilton intorno alla filosofia dell’Assoluto, in “Progresso”, XXVI, 1840, pp. 5-31; Della logica trascendentale, in “Progresso”, XXVI, 1840, pp. 161-187. 6 S. Mastellone, Op. cit., p. 210. Sulla cosiddetta “svolta hegeiiana”, oltre alle valutazioni degli autori le cui opere sono state in precedenza indicate (nella nota 2), cfr. ancora S. Mastellone, Op. cit., p. 202: “Cusani, che pure era stato un divulgatore di Cousin, in un articolo apparso nella Rivista napolitana (1841) dal titolo Del modo da trattare la scienza degli esseri (ontologia), disegno di una metafisica, alludendo ai rapporti tra l’eclettismo francese e l’ontologismo tedesco, ossia allapolemica tra Cousin e Schelling, poneva alcune limitazioni al suo eclettismo (...) Si prepara quel fermento spirituale che prendera forma coll’hegelismo, il quale, se trasse la prima radice dal pensieroco usiniano, si rivolgera poi contro di questo”. Infine mi permetto di rinviare a G. Acocella, Vico e la storia in Cusani, in “Bollettino  del  Centro di studi vichiani”,  XI,  1981,  pp. 214-221, in specie pp. 217-218. Gia nel 1839, in pieno periodo “eclettico”,  Cusani aveva sottolineato il ruoio unificante della filosofia, e aveva concluso che “la storia della filosofia, la quale disegna come in una tela tutto lo svolgimento progressivo dello Spirito Umano, non e che la manifestazione di quel potentissimo bisogno che ha Cuomo di conoscere e di sapere” 7. In questa direzione, dopo che lo Spirito Umano ha rivolto il primo scopo della sua investigazione nel “mondo degli obbietti”, ed una volta esaurita la “investigazione della natura lo Spirito “si viene gradatamente ripiegando inverso il subbietto stesso di quelle investigazioni, erientrando dall’esterno nell’interno, fa se stesso obbietto della sua conoscenza”. E cost “di qui nascono, come da una comune radice, tutte le scienze morali” 8. La conclusione “eclettica” di Cusani si arricchisce di motivi che preparano l’accoglimento della lezione hegeliana, la quale di sicuro influenzera gli scritti successivi al 1840, senza liquidare gli altri elementi che costituiscono l’originalita del filosofo. L’immenso bisogno di conoscere che tormenta e percorre la “storia naturale dell’intelligenza” anela alla ricomposizione unitaria che costituisce la scienza: “Questi tre grandi obbietti adunque, Dio, l’Universo e l’Umanita; l’assoluto, il non me, e il me, che racchiudono tutto il campo delle speculazioni, costituiscono l’obietto di tutta la scienza umana. (...) E si potrebbe da’ tentativi diversi, e da’ diversi risultamenti ottenuti intorno a questo problema, cercar di fare un ordinamento compiuto di tutte le scuole filosofiche che dall’antichita insino a’ giorni nostri sonosi succedute nella Storia dello svolgimento naturale dell’intelligenza” 9. Rispetto a questo proponimento la lettura di Hegel - del quale pur si doveva denunciare che fosse partito “da cid che ci ha di piu astratto nella ragione, e di piu indeterminato,  cioe  dal  pensiero dispogliato di tutte le cose, e ridotto a pensiero puro, a idea” - offriva contributi rispetto ai quali Cusani gia dichiarava il suo esplicito interesse: “Ponendo come base del suo edificio filosofico l’identita  dell’idea e dell’essere, del pensiero e della realta, del subbiettivo e dell’obbiettivo (...) ne procede che cid che  evero del pensiero, evero eziandio della realta, e che le leggi della logica sono le leggi ontologiche,  ed essa stessa si converte in una vera ontologia” 10. 7. Del reale obbietto di ogni filosofia e del solo procedimento a poterlo raggiungere, cit., p. 27. 8. Ibidem, pp. 28-29. “Giunto a quest’altezza, lo Spirito Umano tenta d’impadronirsi quasi dell’infinito, cacciarsi nel seno stesso  di  Dio,  e discoprire nella loro sorgente le leggi onde si regge il mondo” (p. 29). 9. Ibidem, p. 30. 10. Del metodo filosofico, cit., pp. 210-211. In queste pagine Cusani fornisce una 4 II principio di una idea filosofica capace di fondare le manifestazioni della vita umana, dunque una ragione “non dispogliata delle cose”, diviene per Cusani l’efficace punto di equilibrio del suo itinerario tra eclettismo ed hegelismo, in grado di assicurare gli orientamenti etici di ciascuna eta della storia. Nel 1841 Cusani, nel saggio sulle relazioni tra economia e morale, scrive significativamente che “Ora non ci ha e non puo esserci scienza morale senza un principio assoluto e necessario, perche l’assoluto e il necessario e lo scopo ultimo e il termine degli sforzi del pensiero, e1’ideale della scienza” 51. Nella stessa prospettiva spiegava, in un corposo saggio pubblicato l’anno successive 12, il valore filosofico che assumeva la ricerca dei fondamenti etici della societa, asserendo che “di fatto non si puo concepire una societa che non abbia un pensro generale, cioe a dire un insieme d’idee acquistate senza ricercare senza scopo, e che informino tutta la sua vita; perciocche bisognerebbe allora supporre che possa esserci una societa senza religione, senza istituzioni politiche, senza costumi e senza industria, non essendo altra cosa le istituzioni, la religione naturale, l’industria e i costumi, che effetti naturali delle idee e delle credenze comuni” 53. La filosofia di un popolo, pertanto, e il pensiero di quello stesso popolo, non nelle semplici forme nelle quali si manifesta nella religione o nelle istituzioni o nelle stesse arti, o nel diritto e nei costumi, ma con quei caratteri interpretazione della filosofia tedesca, in sintonia con il tentativo di rintracciare l’unita del pensiero perseguita dall’eclettismo. E un’ interpretazione  che,  nata in terra di Francia, trovo piu generosa fortuna nell’hegelismo napoletano da B. Spaventa in avanti. Ecco la pagina del Cusani: “Dappoicche la filosofia del Fichte, che non era che la filosofia stessa del Kant, risguardata dal punto di vista subbiettivo, e quella dello Schelling, che nelle sue conseguenze non fu che il criticismo risguardato dal punto di vista obbiettivo, doveano essere entrambe porzioni di quel medesimo tutto, che Hegel abbraccio nella sua filosofia dell’idealismo assoluto. Egli parti dalla ragione, e dal pensiero, ma da cio che ci  ha di piu astratto nella  ragione, e di piu indeterminato, cioe dal pensiero dispogliato di tutte le cose, e ridotto a pensiero  puro, a idea” (p. 210). 11. Dell'economia politica considerata nel suo principio, e nelle sue relazioni colle scienze morale in “Museo di letteratura e filosofia”,  a.I,  n.1, vol. I,  settembre  1841,  p. 54.  Cfr.  G. Oldrini,  ll  primo  hegelismo  italiano, cit.,  pp. 48-49. In nota scrive l’Oldrini che “il saggio parafrasa e riadatta, per molta parte, concetti delle lezioni sull’economia smithiana di Victor Cousin” (p.48n.). 12. Idea d’una storia compendiata della filosofia, in “Museo di letteratura e filosofia”, a, I, n. 2, vol.I, novembre 1841, pp.113-135 (parti I-II); a I, n. 3, vol. II, gennaio- febbraio 1842, pp.3-8 (III); a. I. n. 4, vol. II, marzo-aprile 1842, pp. 97-120 (IV, V.VI). 13 Ibidem, p. 119. “lo svolgimento adunque spontaneo e istintivo; e l’altro filosofico riflesso, che entrambi non si effettuano che sotto le leggi del pensiero umano, costituiscono il meccanismo, se possiamo cost dire, della vita sociale dei popoli” (p.121). general del pensiero che di quelle forme costituiscono la fonte; eppure il “progresso” e reso possibile solo dall’incontro tra due diverse componenti “Allorche il movimento filosofico o riflessivo passa dalla fede alla scienza, ed alle credenze popolari alle idee della ragione, e si trova d’essere giunto a scoprire il pensiero celato dapprima sotto FORMA SIMBOLICA, e che si traduceva nelle Istituzioni, nei costumi, nelle Arti e nelle Industrie, egli fatto quasi banditore della verita scoperta, l’annunzia per farla conoscere alle masse, le quali non avrebbero potuto pervenire a quel segno che tardi e lentamente” 14. Il debito nei confronti di Vico appare evidente, tanto piu che - indirizzandosi l’interesse di Cusani verso le esperienze umane del diritto e dell’economia - le influenze hegeliane si rivelano in realta filtrate dalla tradizione della filosofia meridionale, da Vico a Filangieri a Pagano 15. La filosofia e la scienza compongono insieme la trama che segna l'itinerario travagliato e non lineare della storia verso il “vero”: “i filosofi accelerano il movimento delle masse, ed a qui nasce ancora che essi stessi sono indugiati nel movimento che e loro proprio. Dappoicche se le masse accettano la nuova luce che loro arrecano i filosofi, sono d’altra parte lente e ritenute nell’abbandonare le vecchie opinioni, che il tempo ha reso abituali, e bisogna innanzi tutto che esse comprendano cio che loro vien rivelato, e lo comprendano a loro modo, cioe facendo che discenda in certa guisa dalle forme astratte della scienza, alle forme pratiche del senso comune” 16. Il tema del senso comune - cosi tipicamente vichiano e tanto frequentemente richiamato in piu punti dell’opera cusaniana - costituisce un elemento fondamentale dell’itinerario che il filosofo napoletano svolge, rivelandosi capace di svelare la trama della ragione nella storia. Cosi come nella vita sociale le “branche dell’attivita umana” precedono la filosofia e la storia [14 Ibidem, p. 121. 15 Cfr. G. Acocella, Op. cit., pp.216 e 217-218. 16 Idea d’una storia compendiata, cit., pp. 121-122. “Insomma non eche dalla combinazione di questi due movimenti che progrediscono le idee umane, edal progresso delle idee umane nasce la trasformazione e il miglioramento  successivo delle leggi,  dei  costumi  e delle istituzioni, che sono altrettanti elementi costitutivi della condizione umana”. Sul senso comune cfr. p. 128: “Purtuttavia, sebbene 1’uomo sia conscio nell’intimo della sua coscienza della sua liberta, e riconosca in se stesso il potere di cominciare una serie di atti, di cui egli e causa; cio nondimeno non puo non iscorgere eziandio, che la sua volonta e posta sotto il dominio ela soggezione d’una legge, che diversamente vien denominata secondo che diverse sono le occasioni, alle quali essa si applica, contrasse-gnandosi ora come legge morale, ora come ragione, ed ora come senso comune”] ria di quelle precede la storia di questa 17, cosi “l’istoria non si realizza che dopo un lungo proceder della scienza; perocche se prima non si sono osser-vate molte variabilita successive, non si sente il bisogno di una storia qualunque; ma quando non si vuol considerar altro che l’essenza stessa, ola materia di che componesi la storia della filosofia, si puo dire che essa comincia colla scienza” 18. Cosl per esempio, rivolgendosi l’attenzione alle esperienze umane piu rilevanti, per quel che riguarda l’economia politica occorre indagare le leggi oggettive dell’agire economico, giacche le azioni umane  - pur tenendo conto della liberta che le generavanno ricondotte sempre alia ragione (o si voglia dire legge morale o senso comune). Massimamente con l’economiala questione centrale di come si compongano liberta dell’agire individuate e conseguimento di leggi oggettive dell’economia si pone come un nodo centrale della scienza morale, nel quale e coinvolto lo stesso tema della relazione tra natura e ragione. Infatti, “primieramente, e noto che il combattimento, che l’uomo, forza libera e intelligente, sostiene contro la natura per dominarla e trasformarla ai suoi bisogni, costituisce un ordine distinto di fenomeni e d’idee, che rientrano nel dominio dell’Economia politica”, la quale deve pur pervenire a individuare “leggi necessarie, che stanno a capo della  produzione,  consumazione e distribuzione delle  ricchezze” 19. L’interesse mostrato da Cusani verso Adamo  Smith  e motivate proprio dal legame tra la liberta umana -che si esplica nel lavoro -e le leggi necessarie dell’economia, giacche il fondamento del valore Smith ha posto nel lavoro 20. Ma sbaglierebbe chi si fermasse al lavoro, perche “quantunque il 17 Cfr. Ibidem, pp. 124-125: “Perciocche aquella stessa guisa che nella vita sociale dei popoli lo stato, le industrie, le arti e la religione precedono la filosofia, eziandio la storia di tutte queste branche dell’attivita umana precede quella della filosofia, ultima per avventura a prender corpo nello svolgimento intellettuale dell’uomo”.  18 Ibidem,p. 124.  19 Dell’economia politica,cit., p. 41. 20. Mentre Quesnay, con la sua scuola, “tenne che i prodotti del suolo fossero la sola fonte, e il vero principio del  valore”, invece “Adamo Smith elevo il principio del valore, partendo da questo, che cio& il lavoro d’una nazione costituisce la sorgente di tutte lc sue ricchezze”, e quindi che “i bisogni dell’uomo non sono considerati dallo Smith che subordinatamente al lavoro; il che e molto piu ragionevole che subordinare il lavoro ai bisogni, come eintervenuto al Say e al Tracy, i quali cio non di meno hanno comune con esso lo stesso principio del lavoro” (Ibidem, pp. 42 e 43). Nell’esaminare la formazione dela scienza economica Cusani riafferma il principio della tradizione italiana (come per la scienza della legislazione ricorda in particolare Filangieri,  Pagano e Romagnosi) asserendo: “L’Economia politica  nata adunque in Italia, lavoro nel suo lento o accelerato esercizio sia quello che ingeneri la ricchezza delle nazioni, e misuri in un certo modo, esi no a un certo segno, il valore delle cose in ragione delle difficolta e degli ostacoli che incontra nella sua effettuazione; purtuttavia esso non deve essere considerato, che come l’effetto della liberta umana, ultimo principio a cui devesi ricondurre la scienza” 21. Attraverso questo principio Cusani ricostruisce il percorso che dalla liberta, attraverso la proprieta, giunge alla formulazione di una scienza morale la quale, proprio perche scienza, e la “cognizione dell’assoluto invariabile, ultima ragione delle cose” 22. Se infatti l’osservazione si conferma indispensabile alla “investigazione scientifica, pure resta essenziale ribadire la ricerca di un principio morale assoluto perche si possa dare scienza in questo ambito. Le considerazioni che Cusani - partendo dall’apprezzamento del principio secondo il quale “senza un’obbligazione assoluta non era ammessa la possibilita d’una scienza morale” e quindi dell’imperativo categorico 23 - riferisce all’opera di Kant, mettono a fuoco appunto il significato della liberta per la ragione, ed i criteri per la individuazione  del  principio morale assoluto: “Egli e percio, che rifermossi che il fatto della liberta, che 1’osservazione ci rivela nel fondo della coscienza come distinto dalla fatalita delle nostre passioni e delle nostre SENSAZION, e che eguaglia in certez- massime per opera del Serra, non si svolse dappoi che in Francia nella celebrata setta degli Economisti, dai quali attinse gran parte delle sue idee lo Smith”(ivi,  p.  41). Sull’interesse della cultura napoletana per il ruolo svolto da Serra, considerato precursor dello Smith, mi permetto di rinviare a G. Acocella, La storia degli scrittori politici italiani dopo la “svolta” del 1830 a Napoli, in “Archivio di storia della cultura”, a. VIII, 1990, pp. 69ss. 21 Ibidem, p.45.  “Togliete la liberta nell’uomo, e voi avrete esaurito nella sua sorgente  ogni  lavoro possibile, essendone essa sola la causa, e la causa vera, reale, e non immaginaria. Fare adunque l’analisi della liberta, come produttiva del valore delle cose, sarebbe veramente farla psicologia dell’Economia  politica”(ivi,  pp. 45-46).  22 Ibidem, p.54: Questa verita conosciuta dagli antichi, i quali tenevano non potersi dare scienza del fenomenico variabile, perciocche il fatto non e il principio ela ragione di se stesso, estata chiaramente riprodotta dai moderni, quando hanno sostenuto che la scienza non eche la cognizione dell’assoluto invariabile, ultima ragione delle cose. Pure, se il fatto non e la scienza, ecertamente prima condizione e quasi materia della scienza, potendo solo cadere sotto l’occhio dell’osservazione, e l’osservazione ela vita d’ogni investigazione scientifica. Tutto cio essendo or amai stato messo fuor di dubbio nel campo dell’intelligenza, ha fatto, si che nella scienza morale si e cercato il principio morale assoluto, ed il fatto proprio che n’e la condizione”. 23 Ibidem: “Primamente non potevasi non vedere che senza un’obbligazione assoluta non era ammessa la possibilitad’una scienza morale, e che senza la ragione, che sola puo comandare con un imperativo catagorico, non poteva darsi obbligazione di sorta”.  za tutti gli altri fatti, non rimanendo punto una semplice credenza, come volevail Kant, dovesse esser solo la condizione del principio morale, trasformato in legge dalla ragione” 24. Poteva Cusani, in virtu di questa acquisizione, rintracciare finalmente nella liberta gli orientamenti dell’agire morale e scoprire il principio morale della stessa economia: “Di qui il principio: essere libero, conservati libero, cioe resta fedele alla natura, ch’e la liberta; fu la sorgente d’ogni obbligazione e d’ogni moralita; identificandosi colla massima degli stoici: sequere naturam. Questo principio della morale generale stabilito, si vede apertamente che una delle prime relazioni dell’economia colla morale, sta nell’identita del principio stesso, o meglio, nel fatto della liberta; solo diversificando, perche l’una lo stabilisce come trasformato dalla ragione in legge, e 1’altra lo accetta come dato nelle applicazioni della vita”25.  L’unita della scienza, che il “fatto” della liberta - svelatosi principio unificante dell’azione umana - realizza, e stata resa possibile dal superamento della “direzione scettica” nella quale Cartesio getto la filosofia moderna, rendendola incapace di fondare l’oggettivita, partendo dal soggetto 26, e dunque la comprensione del mondo esterno. Ora, finalmente, la filosofia, rivelatasi scienza, verifica che “lo Spirito umano e uno, identico a se stesso in tutti i tempi, in tutti I luoghi, appo tutti gli  uomini;  puo esservi varieta nelle sue determinazioni, ma l’essenza resta immutabile attraverso di tutte queste apparenti mutazioni. La scienza non rappresenta che l’essenza, ed e percio che l’idea filosofica, o lo spirito filosofico non e che uno e sempre identico a se stesso” 27. Come per l’economia anche per il diritto la liberta dell’individuo si afferma per Cusani quale principiocapace di fondarel’agire morale, confermando l’unitarieta della scienza. Dedicando nel 1842 una lunga nota in  tre  parti,  benche  incompiuta,  all’opera  di Manna,  e dopo aver 24 Ibidem, “Dappoiche non potendosi dalla sensazione trar niente che avesse forza d’obbligazione, e vice versa la ragione scorgendo nel fatto della liberta una superiorita di principio che procedeva dalla  stessa  personality  umana,  potette  scorgervi  il  dovere  asso-luto  di  mantenere  la  dignita  della  persona  sulla  materia, e della  liberta  sulla fatalita” (ivi). 25  Ibidem, p. 55.  “Sicche, da questo lato  risguardata, l’Economia potrebbe esser considerata come una derivazione della morale nelle sue piu minute conseguenze” (ivi).  26  Cfr. Della  scienza  assoluta  (Discorso  I),  cit., p.  112.  27  Ibidem , p.  116.  Sul punto cfr. G. Oldrini,  Gli  hegeliani  di  Napoli, cit., pp.58-59. 28  Del diritto amministrativo del Regno delle Due Sicilie. Saggio teoretico storico e positivo, in  “Museo di letteratura  e filosofia”, a.I,  n. 3, vol.II, gennaio-febbraio 1842,  pp.38-45;  a.I,  n.4, vol.II,  marzo-aprile 1842, pp. 167-172; a. I, n. 5, vol. Ill, maggio- Scienzci 9 affrontato la questione della individualita nella prima parte, dichiarando il proprio interesse per le “partizioni teoriche del diritto amministrativo”, Cusani decisamente ritorna sul problema della scienza avvertendo pero che “nissun problema che tocchi la scienza sociale pud risolversi, senza aver prima risoluto l’altro della destinazione dell’individuo, che li contiene e gl’implica, abbracciandoli tutti nel suo seno” 29. Cosicche si puo considerare che “se la scienza divide eperche questa e la sua condizione di esistenza, e perche l’umano intelletto ha bisogno di successiva osservazione, e di notomia, direi quasi, della cosa che vuol conoscere e sapere. Ma in sostanza ci ha unita fondamentale qui, come in tutto, e la scienza umana non tende che continuamente verso questa unita, che la sola ontologia pud promettersi” 30. II richiamo, costante in tutta la sua opera, all’ontologia consente a Cusani di riaffermare il principio assoluto e generale da cui discende coerentemente l’ordine morale che la scienza pud infine conoscere. La visione unitaria perseguita - che, tanto nella fase eclettica quanto in quella segnata dalla lettura di Hegel, pone in primo piano la questione dei fini razionali della storia e dell’azione umana - rivela pero con evidenza il debito comunque contratto nei confronti, oltre che di Herder, soprattutto di Vico, rimeditato autonomamente ea contatto con le suggestioni presenti nell’eclettismo napoletano 31. Recensendo nel 1843 la Storia della filosofia di Pasquale Galluppi, Cusani chiarisce in apertura che “s’egli e vero che la storia della filosofia, come noi abbiamo affermato in uno de’ fascicoli precedenti non ese non l’idea stessa, e lo spirito dell’umanita, non quale si rivela nelle sue isti-  giugno 1842, pp. 33-37. L’ultima parte pubblicata concludevac on le parole “sara continuato” (n.5, p.37). Non vi fu alcun seguito. Gia concludendo la prima parte, pero, Cusani, avvertiva che “per fame un’analisi compiuta” si era ripromesso “di venir discorrendo di ciascuna parte in particolare, ma si perche l’opera non evenuta fuori ancor tutta per le stampe, e si perche la parte positiva del diritto amministrativo non e in relazione coi nostri studi, cosi ci terremo contend solo ad esaminar per ora la sola quistione che risguarda la scienza della pubblica amministrazione, riserbandoci di parlare della parte storica quando l’autore ne avra fatto dono al pubblico” (n. 3, p. 45). Sul Manna e sulla sua opera cfr. F. Tessitore, Della tradizione vichiana edello storicismo giuridico nell’Ottocento napoletano,in Aspetti del pensiero neoguelfo napoletano dopo il Sessanta, Napoli, s. a. (1962), pp. 118 ss.; G. Rebuffa, L'opera di Giovanni Manna nella formazione del diritto amministrativo italiano, in La formazione del dirittoamministrativo in Italia, Bologna, 1981, pp. 33-71. 29 Del diritto amministrativo, cit., n. 4, p. 168. 30 Ibidem, p. 169. 31 Cfr. F. Tessitore, Momenti del vichismo giuridico-politico nella cultura meridionale, in “Bollettino del Centro di studi vichiani”, a. VI, 1976, pp.101ss. Sul vichismo del Manna cfr. pp. 99-100. tuzioni, nelle arti, nelle legislazioni, ma sibbene nell’asiio inviolabile del pensiero puro, del pensiero in se; deve esser vero eziandio che essa non e una raccolta vana di opinioni, nata per soddisfare la curiosita di alcuni uomini, ma viceversa, secondo che diceva l'Herder, la catena sacra della tradizione, che opera in massa, con leggi necessarie, e non a caso ne isolatamente” 32. Si pud pertanto comprendere anche la radicale nettezza con la quale nella nota sul Manna Cusani afferma che ‘l’ontologia adunque e la scienza prima, che facendoci conoscere la determinata essenza degli esseri, ci conduce a discernere il fine a cui essi sono destinati (che e pure un problema ontologico) e che diventa problema morale se trattasi della destinazione dell’uomo sopra la terra, problema religioso se trattasi di questa stessa destinazione innanzi e dopo la vita terrena; problema di filosofia di diritto, che abbraccia il diritto individual, il diritto pubblico, e il diritto internazionale, se trattasi della giustizia reciproca che gl’individui, lo Stato e le nazioni, debbono somministrarsi per raggiungere la loro destinazione. Questa e l’unita della scienza, la quale non e che un pallido riflesso dell’unita stessa della causa prima”33. Dove Vico e Herder servono al disegno hegelia- [32. Recensione a P. Galluppi, Storia della filosofia, Prefazione, in “Museo di letteratura e filosofia”, a. II. n. 9, vol.  IV,  gennaio  1843,  p.222.  Su Herder e Vico cfr. Idea d’una storia compendiata della filosofia, cit., pp. 134-135: “Ora questa legge che governa lo svolgimento dell’umanita, e che costituisce la filosofia della storia, non poteva che cercarsi successivamente in Dio, nell’uomo, enel mondo,  essendo questi i tre obbietti che si appalesano all’ntelligenza (...) Di qui nasce che il Bossuet sia stato il primo filosofo della storia, trovando nella Bibbia la soluzione del problema. A questi successe il Vico, che cerco nell’uomo il principio e la legge dello svolgimento dell’umanita. E da ultimo l’Herder che voile trovarlo nel mondo fisico, e nella combinazione speciale d’influenze esterne. (...) Noi diciamo, che ognuno di essi e stato esclusivo, in quanto che l’Herder non ha riconosciuta la parte che rappresenta l’uomo nella evoluzione storica dell’umanita, ed il Vico, in quanto che non ha riconosciuto l’nfluenza della natura esteriore; ed entrambi poi non disconoscendo la parte che rappresentala Provvidenza, l’hanno subordinata all’uomo e alla natura, mentre il Bossuet impadronendosi di questa, ha tutto subordinate ad essa”. 33 Del dritto amministrativo, cit.,  p. 169. Sul problema dello Stato cfr. p.170: “io non so concepire, come l’arte, la scienza, la morale, e la religione debbano esser fine a loro stesse, e lo Stato debba esser considerate come mezzo per la societa umana, quando il suo scopo non e che uno scopo razionale, come quello che tocca in dominio alle altre sfere dell’attivita sociale. Ne solo io dico che lo scopo e razionale ed ha gli stessi caratteri di quelli che spettano alle altre sfere dell’attivita sociale, ma che e identico con tutti nel fondo, e che se uno e il bene assoluto, o l’ordine assoluto, che riferma lo scopo e la destinazione dell’uomo, non si pud far dello stato un semplice mezzo ed una via per la conservazione dell’umanita perfettibile”.  no della scienza del’essere. Vale, pero, sottolineare come, nel confronto con Galluppi, istituito nella nota sopra ricordata, il tema del “vero” costituisca un interessante nodo che chiarisce il modo con il quale Cusani interpreta Vico ed il problema della storicita dell’esperienza. Al Galluppi che affermava che “la storia della filosofia non puo trattarsi apriori, ma deve dedursi dall’osservazione dei fatti, perche altrimenti avremmo dovuto trovar prima i problemi relativi alla scienza del pensiero, e poi quelii relativi all’universo”, Cusani obietta “che la storia della filosofia  e identica colla scienza”,  e pertanto “troveremo che il primo mezzo di trattar la storia della filosofia e il metodo a priori, il quale non deve ch’esser verificato dall’esperienza” 34. A Cusani, naturalmente, sono chiare le novita apportate dalla modernita  e le conseguenze che ne sono scaturite, dal momento che la filosofia aveva nell’antichita la definizione di scienza dell’universale, contrapposta a quella “ricevuta presso i moderni” della filosofia come scienza del pensiero - per cui la “definizione degli antichi si faceva per mezzo dell’ontologia, quella de’ moderni  viceversa si fa per mezzo della Psicologia” - ma resta pur sempre certo che in realta “l’ontologia e la Psicologia non sonoche due determinazioni, o aspetti diversi dell’idea filosofica, in quanto che l’una considera l’obbietto in se, e per se, l’altra questo obbietto che divien subbietto” 35. La scienza morale che Cusani intende definire, dunque, verifica nell’esperienza - nelle diverse “branche di attivita” nelle quali si manifesta l’azione umana - il principio assoluto e invariabile che da unita e senso alla scienza moderna. Cosi “l’Economia politica non dovrebbe rappresentare che quella stessa parte, che rappresenta la Politica, quanto alla filosofia del diritto. Perciocche  laddove questa ci rivela l’ideale a cui possono pervenire le societa umane, e la politica determina le relazioni che passano tra l’attuale esistenza di esse, e l’ideale, poggiando sopra queste relazioni i cangiamenti che possono patire le istituzioni sociali; l’Economia, rispetto ai monopoli ed agli ostacoli che si frappongono al libero esercizio del commercio, deve far ragione, prima di effettuare il suo principio, di tutti gl’interessi attuali della societa dove questi sistemi proibitivi sono introdotti” 36. D’altro canto la natura di scienza morale dell’economia (come del diritto o della politica) risulta evidente nella concezione cusaniana di una filosofia civile moderna:  “come il principio morale riferma la destinazione dell’uomo che precede sempre dalla sua natura, e questa natura non essendo che [34. Recensione a R Galluppi, cit., p. 230. 35. Ibidem, p.227. 36. Dell’economia politica, cit., p. 53. doppia, coesistendo in lui lo spirito e la materia, l’anima e il corpo, la liberta e la fatalita (sebbene la materia e il corpo non siano che l’inviluppo esterno della natura umana, stando la sua essenza tutta nella personalita nella liberta e nell’anima); ne seguita che l’Economia, anche ristretta nel senso di coloro che non vogliono fame che una scienza del benessere corporate e dell’agiatezza sociale, dovrebbe serbare alcuna relazione verso la morale” 37. La difficile relazione tra il “fatto” ed il principio, cioe tra l’obiettivo immediato dell’azione e lo scopo razionale che ne costituisce il fondamento, e verificata da Cusani nello sviluppo del pensiero moderno. L’itinerario che dalla fase delle “utilita” deve condurre a quella dei “fini” viene percorso analizzando il contratto sociale in Kant e Rousseau 38, in riferimento al quale Cusani puo criticamente concludere: “Ma l’obbligazione morale e giuridica non puo mai procedere da un atto volontario, quale e quello che riferma il contratto e il CONSENSO (con-senso) universale, perche nessuna cosa arbitraria e volontaria puo costituire un diritto, ed una convenzione non e che la semplice manifestazione della volonta mutabile degli uomini” 39. Colui che ha colto piu precisamente - ad avviso di Cusani - il significato profondo del rapporto tra il fatto ed il fondamento razionale dell’ordinamento estato, a proposito della questione della proprietya fondamentale per l’ordine sociale, Fichte: “Piu ragionevolmente adunque  il  Fichte, che fu il.  37. Ibidem,p. 55. “Ma e perche essa abbraccia tutto il problema della destinazione dell’uomo nelle conseguenze, che serba per avventura assai piu intime relazioni colla morale generale” (ivi). Scrive anzi Cusani (p. 56): “La sola relazione che passa tra il lavoro destinato per il mantenimento della vita fisica, e il riposo destinato per il compimento della vita morale, puo esser la misura de’ differenti gradi della ricchezza nazionale, la quale aumenta in proporzione che cresce il riposo per le occupazioni intellettuali. Insomma, produrre nel minor tempo possibile cio ch’e necessario per la satisfazione de’ bisogni materiali della vita, e crescere in ricchezza e moralita” .38 Questo fatto, che l’obbligazione sia inclusa nella proprieta fu ben vista da  Kant, il quale stabili, che sebbene la specificazione e il lavoro fossero gli atti preparativi della proprieta cio non di meno perche questa fosse riconosciuta e rispettata  da tutti, bisognava una spezie di contratto sociale, con che si desse la proprieta definitiva. Vero e che questa idea del contratto sociale, considerato come base giuridica necessaria del diritto di proprieta, non fu da lui risguardata quale base della societa stessa, come era addivenuto appo parecchi pubblicisti, e specialmente appo il Rousseau, che l’ebbero come un precedente storico; solo voile dire ch’era necessario, accennando ad un fine razionale avvenire, per cio che egli significava col titolo di proprieta o possesso intellettuale”. 39 Ibidem, p.50. seguitore del Kant e il suo discepolo filosofico, voile rifermare, nel suo Manuale e nelle sue Lezioni di Diritto naturale, la proprieta esser costituita sulla nozione stessa di diritto. Conciossiache la sua teorica del diritto, procedente dal suo sistema filosofico, nel quale stabilisce che l’attivita infinita dell’Io che si svolge come per una retta, pone, nell’urto che incontra, il mondo degli oggetti esterni, doveva contenere tutta la ragione filosofica della proprieta” 40. Nel 1839, in un’opera segnatamente influenzata dall’eclettismo del Cousin 41, aveva gia sottolineato la rilevanza dell’osservazione del mondo storico per la definizione del principio morale. Rispetto al sistema di Locke 42, infine, la scuola scozzese del Reid aveva fatto compiere un decisivo passo avanti al “metodo della psicologica osservazione”, consentendo infine di “osservar le Societa” e di “distinguerne e sceverare la parte sostanziale dall’accidentale, cio che ne costituisce l’esistenza, la vita, il principio, da cio che non e che una semplice forma contingente e variabile, secondo la diversita de’ tempi e de’ luoghi” 43. Ma la questione della legittimita, “trascurata Di fatto, siccome la personalita umana e dotata, secondo lui, d’una liberta infinita, cosi e che il diritto non ista che nella limitazione della liberta di ciascuno, perche possa coesistere la liberta di tutti. Posto cio il diritto deve garantire a ciascuno il dominio particolare nelquale deve svolgere la sua liberta”. Nello stesso scritto  Cusani torna sul Fichte riguardo alla relazione tra lavoro e riposo e sul tema della moralita resa possibile dal produrre nel minor tempo possibile cio che e necessario alla soddisfazione dei bisogni umani: “Primo tra gli scrittori moderni che rifermasse questa verita semplice per se stessa, ma troppo spesso disconosciuta, fu il Fichte, uno de’ piu nobili ingegni di Germania: e cio perche vide che la destinazione dell'uomo non edi essere assorbito dal lavoro destinato alia vita fisica, ma sibbene di avere a restargli assai tempo per lo svolgimento della sua moralita” (Ibidem, p.56).  41. Del reale obbietto di ogni filosofia e del solo procedimento a poterlo raggiungere, in “Progresso”, XXIII, 1839, pp. 27-60. Ha scritto S. Mastellone, “dichiarazione di fede eclettica puo considerarsi l’articolo di Cusani: Del reale obbietto d'ogni filosofia e del solo procedimento a poterlo raggiungere (Progresso, 1839). La lunga dissertazione sulla necessita di porre a fondamento della filosofia la  psicologia per poi passare all’ontologia, e la definizione dei tre obbietti della filosofia (il mondo, l’anima e Dio) e dei tre ordini di fenomeni nell’interiore della coscienza (i sensitivi i volontari e gli intellettivi) sono tratte dall’opera di Cousin”. 42  Cfr. Del reale obbietto , cit., p. 57: “seguitando lo stesso principio in morale, i suoi seguitatori non fannosi punto a ricercar  quale e la moralita nello stato attuale dell’uomo, ma invece quali sono state le prime idee di bene e di male nell’uomo ridotto allo stato selvaggio innanzi ogni civil comunanza”. 43. Ibidem, p.59. “Cosi questa scuola modesta e timida poneva  la quistione fondamentale di tutta la scienza psicologica; e quantunque non facesse che circoscrivere l’osservazione, e fermarsi laddove essa cessava, purtuttavia frutto gran bene alle scienze politiche, e morali, sollevando, per cosi dire, l’umana natura in una piu pura ragione dalle scuole menzionate”, “richiedeva una terza scuola, che se ne fosse occupata specialmente, e questa venne su a Konigsberg promossa da un ingegno meraviglioso” 44. Se certamente il formalismo kantiano presentava nella interpretazione cusaniana aspetti che attiravano le riserve del lettore di Cousin e di Hegel, pure esso rappresentava un termine di confronto essenziale alla definizione dell’obbligazione morale, e di conseguenza della scienza morale e delle parti in cui questa si articola. Piuttosto il limite di Kant, come si e poco prima ricordato, consisteva nell’aver posto il contratto a base dell’obbligazione sociale: “se si fosse cercata nella ragione, che ci comanda con un imperativo categorico, si avrebbe per necessita dovuto ammettere una societa a priori del genere umano, e si  sarebbe  conchiuso  che  ci  ha  un  diritto, che a noi vien da natura, indipendententemente da ogni  contratto e da ogni diritto positivo” 45. La relazione che si istituisce tra l’ideale ed il reale, tra principio ed esperienza (ed anche tra l’apriori e l’aposteriori) comporta finalmente la possibilita di definire una scienza sociale coerente con i principi della scienza morale, giacche nell’unita della Filosofia tutte le parti vengono ricomposte: “Se lasciamo la morale generale, e ci facciamo a risguardare l’Economia nelle sue relazioni colla Filosofia del diritto, colla Legislazione, e colla Politica, siccome queste non sono che parti della Filosofia morale in generale, cosi non potremo che scorgervi le stesse relazioni” 46. somigliantemente in Politica, le indagini intorno allo stato primitivo delle Societa, de’ governi, delle leggi, e la varieta de’ sistemi che se ne ingeneravano (perocche dove ha luogo la congettura nissuno ha il potere di limitarla) cessarono del tutto, e cominciossi a osservar le Societa, cosi com’esse ci si presentano dinanzi”. Dell’economia politica, cit., p. 51: “Ne sappiamo vedere come il Kant, che aveva cosi bene stabilito l’obbligazione morale, avesse poi dovuto ripeterla, quanto alla proprieta, da un contratto e da una convenzione. Certo e vero, che il non aver esaminato punto donde veniva l’obbligazione attaccata aquest’ atto, ha fatto si che siasi incorso in due errori, il primo di negare che la proprieta sia di diritto di natura, el’altro di ammettereuno stato primitivo e selvaggio dell’uomo innanzi della societa; perciocche se si fosse cercata nella ragione, che ci comanda con un imperativo categorico,  si avrebbe per necessita dovuto ammettere una societa  a priori nel genere umano, esi sarebbe conchiusoche ci ha un diritto, che a noi vien da natura, indipendentemente da ogni contratto e da ogni diritto positivo. Ne vale ammetter questo contratto come fatto nel passato, o come da farsi nell’avvenire, non procedendo da cio nessun’illazione, quando si tiene esser esso la base e il fondamento della proprieta”. 46. Sull’hegelismo italiano (ed i specie napoletano) cfr. P. Piovani, Il pensiero idealistico, in Storia d’ltalia, Torino, I documenti. Cusani puo cosi concludere il suo tentativo -non dimentico di Fichte, ma sicuramente sensibile alla filosofia vichiana - di delineare una scienza morale rivelatrice della missione civile della filosofia: “Ma la scienza sociale non e costituita che dalla filosofia del diritto, la quale accenna all’ideale che devesi raggiungere nelle societa umane, e dalla politica che appoggiandosi sui precedenti storici delle societa medesime, ne osserva lo stato attuale e giudica di quale avanzamento progressivo possono esser capaci”. Ne sono lontani gli anni nei quali, su altri testi d’una diversa tradizione, e in cospetto d’una diversa realta socio-economica d’una diversa regione d’ltalia, Marco Minghetti proporra la sua Economia pubblica. coloritura hegeliana o hegelianeggiante, l’ammirazione professata verso lo studiato (piu o meno studiato) filosofo tedesco individua come connotato essenziale questo idealismo, pur se, in senso tecnico, iconfini effettivi delle conoscenze hegelistiche dei nostril hegeliani risultano imprecisi, elastici, quasi sempre vicini a uno Hegel letto prevalentemente in chiave fichtiana o kant-fichtiana”. 47. Ibidem, pp. 56 e 57. “E di vero, nella filosofia del diritto non si puo far astrazione dallo scopo che ha l’uomo a raggiungere, se si deve poter determinare le condizioni esterne di cui abbisogna, procedenti dalla volonta de’ suoi simili, nel cui insieme sta la scienza del diritto. Ma lo scopo o la destinazione dell’uomo ingenera delle relazioni tra la morale e l’economia; deve quindi di necessita ingenerarne eziandio tra il Diritto e l’economia”. Stefano Cusani. Cusani. Keywords: l’assoluto, il relativo, spirito soggetivo, spiriti soggetivi, spirito oggetivo, storiografia filosofica di Cousin, unita latitudinale della filosofia, l’assoluto di Bradley, Hamilton, l’obbjezione all’assoluto, l’essere e la metafisica, gl’esseri e la metafisica, economia e morale, la fenomenologia, il fatto di coscienza intersoggetiva, hegelismo, Vico, Galluppi, Mamiami, Colecchi, Rosmini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cusani” – The Swimming-Pool Library.

 

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